dossier ATTI AMMINISTRATIVI: ABUSO D'UFFICIO ED ALTRI REATI CORRELATI
CON LA P.A. |
art.
323 Codice Penale
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anno 2021 |
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EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Permesso di costruire – Rilascio del titolo abilitativo in
difformità del piano regolatore generale o degli altri
strumenti urbanistici – PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Abuso
d’ufficio – Violazione di norme regolamentari o di norme di
legge generali e astratte – Parziale “abolitio criminis”
– Ambito applicativo dell’art. 323 cod. pen. – PROCEDIMENTO
AMMINISTRATIVO – Responsabile del procedimento
amministrativo – Individuazione della responsabilità.
In tema di abuso d’ufficio, la modifica
introdotta con l’art. 23 del d.l. 16.07.2020, n. 76 ha
ristretto l’ambito applicativo dell’art. 323 cod. pen.,
determinando una parziale “abolitio criminis” in relazione
alle condotte commesse prima dell’entrata in vigore della
riforma, realizzate mediante violazione di norme
regolamentari o di norme di legge generali e astratte, dalle
quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed
espresse o che lascino residuare margini di discrezionalità.
Tuttavia, proprio con riguardo all’adozione di un permesso
di costruire, va ribadito il principio che, in tema di abuso
di ufficio, il rilascio del titolo abilitativo edilizio
avvenuto senza il rispetto del piano regolatore generale o
degli altri strumenti urbanistici integra la violazione di
specifiche regole di condotta previste dalla legge, così
come richiesto dalla nuova formulazione dell’art. 323 cod.
pen. ad opera dell’art. 16 del d.l. 16.07.2020, n. 76,
convertito nella legge 11.09.2020, n. 120, atteso che l’art.
12, comma 1, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 prescrive
espressamente che il permesso di costruire, per essere
legittimo, deve conformarsi agli strumenti urbanistici ed il
successivo art. 13 detta la specifica disciplina urbanistica
che il direttore del settore è tenuto ad osservare.
...
Reati edilizi – Confisca obbligatoria del profitto del reato
– Effetti dell’estinzione del reato per intervenuta
prescrizione – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Applicazione
dell’art. 578-bis cod. proc. pen..
In tema di confisca obbligatoria del
profitto del reato, vale il principio secondo cui, il
giudice nel dichiarare la estinzione del reato per
intervenuta prescrizione, può disporla a condizione che vi
sia stata una precedente pronuncia di condanna e che
l’accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla
penale responsabilità dell’imputato e alla qualificazione
del bene da confiscare come prezzo o profitto rimanga
inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio.
Quando, come nella specie, la declaratoria di prescrizione
del reato intervenga all’esito del giudizio di impugnazione,
anche la Corte di cassazione è tenuta, in applicazione
dell’art. 578-bis cod. proc. pen., a decidere
sull’impugnazione agli effetti della confisca e laddove la
sentenza impugnata sia affetta da vizio di motivazione in
relazione a taluno degli elementi costitutivi del reato, la
stessa va annullata con rinvio affinché sia colmato tale
deficit argomentativo nel decidere.
...
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Reato di falso ideologico in atto
pubblico – Elementi per la configurabilità del reato –
Rapporti tra abuso d’ufficio e falso in atto pubblico –
Concorso materiale.
Ai fini della configurazione del reato
di falso ideologico in atto pubblico, costituiscono atti
pubblici non solo quelli destinati ad assolvere una funzione
attestativa o probatoria esterna, con riflessi diretti ed
immediati nei rapporti tra privati e pubblica
amministrazione, ma anche gli atti cosiddetti interni, cioè,
sia quelli destinati ad inserirsi nel procedimento
amministrativo, offrendo un contributo di conoscenza o di
valutazione, sia quelli che si collocano nel contesto di un
complesso iter –conforme o meno allo schema tipico–
ponendosi come necessario presupposto di momenti procedurali
successivi.
Né rileva il fatto che il provvedimento finale sia
qualificabile –come nella specie– quale autorizzazione
amministrativa la cui falsità ideologica sarebbe
riconducibile al meno grave reato di cui all’art. 480 cod.
pen., non potendo essere ricondotto a tale ultima
fattispecie l’atto pubblico ideologicamente falso adottato
nel corso del procedimento.
Sicché, in tema di rapporti tra abuso d’ufficio e falso in
atto pubblico, sussiste concorso materiale, e non
assorbimento dell’abuso d’ufficio nel più grave reato di
falso, qualora la condotta di abuso non si esaurisca nel
compimento dell’atto falso, essendo quest’ultimo strumentale
alla realizzazione del reato di cui all’art. 323 cod. pen.,
costituendo una parte della più ampia condotta di abuso
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.09.2021 n. 33419 - link a
www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Concorso morale in abuso d'ufficio per la telefonata che "convince"
il pubblico ufficiale a non compiere il suo dovere.
In breve
Non si è trattato, secondo la Suprema corte, di una mera
segnalazione che lasciava libera la volontà del soggetto di
agire o meno nella direzione suggerita, ma di un'istigazione
determinante nella decisione presa dall'agente di polizia.
Scatta il concorso morale nel reato di
abuso di ufficio per la telefonata di raccomandazione che
"convince" il pubblico ufficiale a non compiere il suo
dovere.
Lo afferma la Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la
sentenza 27.05.2021 n. 21006.
La vicenda all'esame dei giudici di Piazza Cavour riguarda
una contestazione stradale durante la quale un capo di
sottosezione dopo avere fermato un automobilista ed essersi
accorto che nella carta di circolazione non risultava
annotata la installazione di un gancio di traino presente
sull'autovettura, invece di applicare la multa con il
relativo ritiro della patente (come prevede in questi casi
il codice), disponeva per una trasgressione meno grave, come
il mancato utilizzo di luci abbaglianti fuori dal centro
abitato. Il repentino cambio di atteggiamento da parte del
poliziotto si deve, come hanno correttamente ricostruito i
giudici del merito, a una telefona ricevuta da persone
influenti e conosciute in quella zona nella quale gli veniva
chiesto di non applicare la contravvenzione più severa.
Non si è trattato, secondo la Suprema corte, di una mera
segnalazione che lasciava libera la volontà del soggetto di
agire o meno nella direzione suggerita, ma di un'istigazione
determinante nella decisione presa dall'agente.
Senza quella telefonata infatti al guidatore sarebbe stata
inflitta la contravvenzione prevista dall'articolo 78 del
Cds e pertanto sull'indebito vantaggio patrimoniale arrecato
al soggetto sottoposto al controllo (esborso di una somma di
denaro minore e nessun ritiro della carta di circolazione)
sussiste un concorso di abuso che comprende l'atteggiamento
dell'agente di polizia e chi ha gli ha fatto pressione (articolo
NT+Diritto del 27.05.2021).
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SENTENZA
La vicenda è stata ricostruita in modo coerente alle
risultanze istruttorie, avendo i giudici di merito con
accertamenti di fatto logicamente ed adeguatamente motivati,
insuscettibili pertanto di sindacato in sede di giudizio di
legittimità, verificato la sicura incidenza causale che
hanno avuto le condotte poste in essere dai due concorrenti
"estranei", nella determinazione del concorrente "intraneo"
che, nell'esercizio delle proprie funzioni, ed in violazione
di norme di legge a contenuto vincolante, ha deliberatamente
ed intenzionalmente arrecato ad altri un ingiusto vantaggio
patrimoniale.
Nel pervenire a tali conclusioni, la Corte territoriale si è
attenuta al principio di diritto secondo il quale
anche gli estranei al pubblico ufficio o al pubblico
servizio possono concorrere nel reato di abuso d'ufficio,
quando vi sia compartecipazione di questi all'attività
criminosa del pubblico ufficiale o dell'incaricato di
pubblico servizio
(Sez. 6, n. 2140 del 25/05/1995, Tontoli, Rv. 201841),
in quanto per la configurabilità della responsabilità dell'extraneus
per concorso nel reato proprio, è sufficiente, da un lato,
la cooperazione materiale ovvero, come nel caso in esame, la
determinazione o l'istigazione a commettere il reato, ed è
indispensabile, dall'altro, che l'intraneo, esecutore
materiale del delitto di abuso d'ufficio, sia riconosciuto
responsabile del reato proprio
(Sez. 6, n. 40303 del 08/07/2014, Zappia, Rv. 260465),
condizioni entrambe nel caso di specie ampiamente
sussistenti. |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Concorsi,
abuso d’ufficio k.o. Reato escluso se per l’atto c’è margine
di discrezionalità. Panoramica di sentenze della Cassazione
sulla perseguibilità dei favoritismi nelle selezioni.
Non sono più abuso d'ufficio i
favoritismi privati nelle selezioni pubbliche dopo la
riforma dell'articolo 323 del codice penale. E ciò perché è
escluso che il divieto possa considerarsi oggetto di
un'espressa previsione da parte dell'articolo 97 della
Costituzione sull'imparzialità della pubblica
amministrazione, mentre il decreto semplificazioni ha
ristretto l'area della rilevanza penale: ora sono perseguite
soltanto le violazioni «di specifiche regole di condotta
espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di
legge» che non offrono «margini di discrezionalità» al
funzionario. Resta fuori dalla perseguibilità, dunque, il
classico caso dell'atto amministrativo connotato da
discrezionalità come la valutazione della produzione
scientifica del candidato da parte della commissione.
È quanto emerge dalla
sentenza 15.04.2021 n. 14214, pubblicata dalla VI
Sez. penale della Corte di Cassazione.
Valutazione insindacabile.
Bocciato il ricorso proposto dalla parte civile, il secondo
classificato nella graduatoria della selezione per un
contratto co.co.pro. da addetto stampa dell'azienda
universitaria. E ciò benché la vincitrice abbia presentato
un curriculum «tarocco»: riporta una collaborazione
giornalistica mai svolta, ma il reato di falso è estinto per
prescrizione.
Diventa invece definitiva l'assoluzione dall'abuso d'ufficio
decisa dalla Corte d'appello in riforma della decisione del
tribunale a favore della prima classificata e delle sue
esaminatrici. Manca in realtà un'evidente sopravvalutazione
dei titoli portati dalla candidata, che ha comunque svolto
attività professionale non soltanto a livello di stage e
parla bene inglese, come dimostra l'attestato
dall'ambasciata Usa; la commissione, dal canto suo, non
poteva accorgersi dell'unico falso nel curriculum. E
quando la candidata firma per sbaglio il suo elaborato,
avvisa subito la commissione ottenendo un altro foglio per
poterlo copiare. Sussiste, insomma, la motivazione
rafforzata per la sentenza liberatoria.
Attenzione, però: il fatto oggi non costituirebbe comunque
più reato dopo la modifica apportata alla norma
incriminatrice dall'articolo 23 del decreto legge 76/2020.
Nella selezione «l'incoerenza del giudizio valutativo
rispetto alla regola tecnica che lo sorregge» non
integra più la fattispecie tipica dell'abuso d'ufficio. A
meno che la regola tecnica non sia trasfusa in una regola di
comportamento specifica e rigida, di fonte primaria. Ma
anche in tal caso resta l'insindacabilità del «nucleo
valutativo» del giudizio tecnico. Il tutto mentre il
divieto di favoritismi privati si può dedurre soltanto in
via indiretta dal principio costituzionale d'imparzialità
della pubblica amministrazione.
Nessuna trasparenza.
Non si salva dalla condanna, invece, il «barone»
universitario che pilota il concorso per far vincere la
cattedra al figlio. E ciò perché, spiega la
sentenza 09.02.2021 n. 5057, pubblicata dalla VI
Sez. penale della Cassazione, dalle intercettazioni risulta
conclamata la violazione della norma che impone la
trasparenza e l'imparzialità nelle procedure di assunzione
del personale nelle amministrazioni pubbliche.
Diventano definitive le sanzioni inflitte nel processo per
la «concorsopoli» accademica, fra cui quella per
abuso d'ufficio al direttore del dipartimento. Che riesce a
far vincere il concorso universitario al figlio nonostante
l'inadeguatezza di titoli e pubblicazioni: induce infatti il
collega a far ritirare un altro candidato più meritevole,
facendogli prospettare conseguenze negative sulla carriera
se avesse sostenuto la prova finale: il giovane con il
punteggio più alto, peraltro, lavora gratis presso il
dipartimento.
Non giova alla difesa invocare l'abolitio criminis
introdotta con il decreto legge 76/2020. Eppure oggi non
risulta più penalmente rilevante l'inosservanza di principi
generali e di norme regolamentari. Né il giudice penale può
sindacare il mero cattivo uso della discrezionalità, mentre
resta reato la mancata astensione in caso di conflitto
d'interessi.
Il punto è che nella specie non risultano violate soltanto
le norme contenute nel regolamento adottato dall'Università.
Le intercettazioni provano «ai limiti dell'evidenza»
le responsabilità del «barone»: è lui a decidere i
nomi dei sei professori dai quali devono essere estratti i
tre che comporranno la commissione per il concorso del
figlio. E non c'è dubbio che sia violato l'articolo 35 del
decreto legislativo 165/2001 laddove impone trasparenza
anche nella formazione nelle commissioni, mentre il «papà»
piazza soggetti «fidati» per determinare l'esito del
concorso.
Senza margini.
Resta l'abuso d'ufficio anche quando la competenza a
provvedere è attribuita soltanto a uno specifico organo
amministrativo sulla base di una legge o da un atto che ha
forza di legge: l'infrazione delle regole di attribuzione
della materia, che risultano vincolanti e prive di
discrezionalità, integra la violazione di specifiche regole
di condotta che configura il reato; a patto che, avverte la
sentenza 04.03.2021 n. 8792, pubblicata dalla III
Sez. penale della Cassazione, si realizzino gli altri
elementi costitutivi della fattispecie, dunque il dolo
intenzionale e la doppia ingiustizia, cioè il vantaggio
patrimoniale procurato oltre che la condotta connotata da
violazione di legge.
Soltanto la prescrizione salva il responsabile dell'area
tecnica del Comune che firma la concessione edilizia «incriminata»
nel procedimento per lottizzazione abusiva.
In base alla legge urbanistica l'approvazione del piano di
lottizzazione può avvenire soltanto da parte del consiglio
comunale: è l'organo cui è attribuito l'indirizzo
politico-amministrativo nella pianificazione del territorio
nell'ambito dell'ente locale. E la concessione edilizia
rilasciata dal dirigente comunale non può autorizzare le
opere richieste dall'amministratore della società: si tratta
di interventi urbanistici che equivalgono a un piano di
lottizzazione ex novo. Nella specie si ricade dunque
nella fattispecie prevista dalla nuova formulazione della
norma incriminatrice.
Termini puntuali.
Anche dopo la riforma è abuso d'ufficio quando il vigile
toglie la multa all'amico. La responsabilità penale,
sottolinea la
sentenza 08.04.2021 n. 13250, pubblicata dalla V
Sez. penale della Cassazione, si configura se il funzionario
pubblico contravviene a regole che da una parte sono fissate
dalla legge, e non da regolamenti, e dall'altra sono
disegnate in modo specifico, in termini completi e puntuali.
È così per l'agente di polizia municipale, che ha violato
almeno due norme di legge senza margini di discrezionalità:
l'articolo 21-nonies della legge 241/1990, che consente
l'annullamento d'ufficio dell'atto amministrativo solo di
fronte a vizi tipici; le disposizioni del codice della
strada secondo cui, quando a essere multato dall'autovelox è
un soggetto istituzionale, la polizia trasmette gli atti al
prefetto per l'archiviazione se sussistono cause che
escludono la responsabilità.
Diritto intertemporale.
Non può invece essere condannato il direttore generale
dell'azienda ospedaliera che, dequalificando il singolo
servizio, demansiona il relativo direttore.
Il restyling dell'articolo 323 codice penale,
evidenzia la
sentenza 08.01.2021 n. 442, pubblicata dalla VI Sez. penale della
Cassazione, pone una questione di diritto intertemporale:
otterranno il proscioglimento perché «il fatto non è più
previsto dalla legge come reato» gli imputati che prima
del decreto semplificazioni hanno compiuto condotte non più
riconducibili alla nuova versione dell'articolo 323 c.p.: ad
esempio perché hanno violato solo regolamenti oppure norme
di legge sì, ma generali e astratte, dalle quali non si
possono ricavare regole di condotta specifiche e espresse o
che comunque lasciano al funzionario margini di
discrezionalità.
Esattamente come avviene in questo caso: il direttore
generale fa cessare una situazione di fatto consolidatasi
nel tempo, perché sia l'istituzione del servizio come
struttura complessa sia la successiva dequalificazione sono
prive del prescritto atto aziendale. E quindi la
riorganizzazione costituisce una scelta di merito che
rientra nella discrezionalità amministrativa: è penalmente
irrilevante perché non nuoce al buon andamento dell'ospedale
né risulta adottata in conflitto d'interessi (articolo
ItaliaOggi del 26.04.2021). |
EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Permesso di costruire
apparentemente formato ma illegittimo – Dirigenti comunali –
Attività criminosa del soggetto pubblico – Reati di abuso
d’ufficio e falso ideologico – BENI CULTURALI ED AMBIENTALI
– Reati paesaggistici – Verifica della legittimità
dell’autorizzazione – AREE PROTETTE – Esecuzione di lavori
sine titulo in area sottoposta a vincolo
paesaggistico – Sito di interesse comunitario (SIC).
Con riguardo alla concessione edilizia
non riferibile oggettivamente alla sfera del lecito
giuridico, in quanto frutto dell’attività criminosa del
soggetto pubblico che la rilascia o del soggetto privato che
la ottiene, se ne era affermata l’equiparabilità alla
situazione di un titolo mancante, anche senza necessità di
prova della collusione tra amministratore e soggetti
interessati o dell’accertamento dell’avvenuto inizio
dell’azione penale a carico degli amministratori, sempre che
risulti evidente un contrasto con norme imperative talmente
grave da determinare non la mera illegittimità dell’atto, ma
la illiceità del medesimo e la sua nullità.
Al di là del caso del provvedimento illecito, la
contravvenzione di esecuzione di lavori sine titulo sussiste
anche quando il permesso di costruire, pur apparentemente
formato, sia illegittimo per contrasto con la disciplina
urbanistico-edilizia di fonte normativa o risultante dalla
pianificazione.
E lo stesso vale in tema di reati paesaggistici, poiché pure
in questo caso il giudice penale ha il potere-dovere di
verificare in via incidentale la legittimità della
autorizzazione paesaggistica, senza che ciò comporti
l’eventuale “disapplicazione” dell’atto amministrativo ai
sensi dell’art. 5 della legge 20.03.1865 n. 2248, allegato
E, riguardando il suo esame solo l’integrazione o meno della
fattispecie penale con riferimento all’interesse sostanziale
tutelato
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.04.2021 n. 12459 - link a
www.ambientediritto.it).
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3.3. Del pari manifestamente infondate e anche generiche
–perché non pertinenti rispetto alla principale fattispecie
incriminatrice il cui fumus è stato riconosciuto e
che, da sola, sorregge la misura cautelare adottata– sono le
doglianze circa la violazione del principio di legalità sul
rilievo che l’aver ritenuto la giuridica inesistenza dei
provvedimenti amministrativi rilasciati dal Comune e
reputati illegittimi violerebbe l’art. 44, comma 1, lett.
c), T.U.E., il cui disvalore, si sostiene in ricorso,
sarebbe «polarizzato sull’assenza del titolo
autorizzativo», sicché risulterebbe vanificata anche la
possibilità per il cittadino di prevedere con ragionevole
certezza il rischio penale derivante dalla sua azione.
3.3.1. Va innanzitutto osservato che il ricorrente non si
confronta in alcun modo con l’orientamento, consolidato da
oltre trent’anni, giusta il quale le contravvenzioni
urbanistiche di esecuzione di lavori sine titulo sono
punibili ai sensi dell’ipotesi di cui lett. b) della norma
incriminatrice –ovvero ai sensi della lettera c), qualora
l’abuso ricada in zona vincolata– quando si tratti di
provvedimenti giuridicamente inesistenti o illeciti, ciò che
nella specie il giudice del merito cautelare ha accertato a
livello di fumus con riferimento ai reati di abuso di
ufficio e falso ideologico contestati ai funzionari comunale
che ebbero a rilasciare i titoli edilizi al ricorrente.
Ed invero, già con riguardo alla concessione edilizia non
riferibile oggettivamente alla sfera del lecito giuridico,
in quanto frutto dell’attività criminosa del soggetto
pubblico che la rilascia o del soggetto privato che la
ottiene, se ne era affermata l’equiparabilità alla
situazione di un titolo mancante, anche senza necessità di
prova della collusione tra amministratore e soggetti
interessati o dell’accertamento dell’avvenuto inizio
dell’azione penale a carico degli amministratori, sempre che
risulti evidente un contrasto con norme imperative talmente
grave da determinare non la mera illegittimità dell’atto, ma
la illiceità del medesimo e la sua nullità (Sez. 3, n. 38735
del 11/07/2003, Schrotter e aa., Rv. 226576; nello stesso
senso, ex multis: Sez. 3, n. 7423 del 18/12/2014,
dep. 2015, Cervino e aa, Rv. 263916; Sez. 3, n. 1708 del
13/11/2002, dep. 2003, Pezzella, Rv. 223475; Sez. 3, n.
23230 del 22/04/2004, Verdelocco, Rv. 229438; Sez. 6, n.
3606 del 20/10/2016, dep. 2017, Borianno, Rv. 269345; Sez.
4, n. 38610 del 20/07/2017, Comune di Sperlonga e a., Rv.
270931).
Per non dire dei più recenti approdi della giurisprudenza di
questa Corte, che hanno consolidato l’orientamento –pure
questo risalente– giusta il quale, al di là del caso del
provvedimento illecito, la contravvenzione di esecuzione di
lavori sine titulo sussiste anche quando il permesso
di costruire, pur apparentemente formato, sia illegittimo
per contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia di
fonte normativa o risultante dalla pianificazione (Sez. 3,
n. 56678 del 21/09/2018, Iodice, Rv. 275565; Sez. 3,
Sentenza n. 49687 del 07/06/2018, Bruno e a, n.m.; Sez. 3,
n. 37847 del 14/05/2013, Sonni, Rv. 256971) 19/01/2013).
E lo stesso vale in tema di reati paesaggistici, poiché pure
in questo caso il giudice penale ha il potere-dovere di
verificare in via incidentale la legittimità della
autorizzazione paesaggistica, senza che ciò comporti
l’eventuale “disapplicazione” dell’atto
amministrativo ai sensi dell’art. 5 della legge 20.03.1865
n. 2248, allegato E, riguardando il suo esame solo
l’integrazione o meno della fattispecie penale con
riferimento all’interesse sostanziale tutelato (Sez. 3, n.
38856 del 04/12/2017, dep. 2018, Schneider e a., Rv.
273703). |
PUBBLICO IMPIEGO: La
Cassazione mette un freno al nuovo abuso d'ufficio.
Magari non si potrà definirla una vera e propria
demolizione, tuttavia la Cassazione si sta mettendo
d’impegno per circoscrivere la riforma dell’abuso d’ufficio,
in vigore da pochi mesi, e per conservare spazi anche ampi
al penalmente rilevante.
Lo testimonia da ultimo la
sentenza 01.03.2021 n. 8057 della VI Sez. con la
quale è stata confermata la condanna inflitta, quando ancora
era in vigore la vecchia disciplina dell’articolo 323 del
Codice penale, a carico del responsabile del servizio di
polizia municipale di un comune sardo.
La Cassazione, nel decidere il ricorso, ha dovuto
inevitabilmente affrontare il nodo dell’intervento voluto
dal Governo Conte 2, con il decreto legge n. 76 del 2020,
operativo dal luglio scorso. Obiettivo dichiarato
dell’intervento quello di evitare l’impatto di sostanziale
deresponsabilizzazione, ovvero il “timore della firma”,
dei funzionari pubblici anche per effetto di un’ampia
applicazione dell’abuso d’ufficio. Di qui la riforma che ha
voluto delimitare l’area del penalmente rilevante alle sole
trasgressioni di regole di condotte previste dalla legge
oppure di atti di forza equivalente che non lasciano spazi
di discrezionalità.
Proprio su quest’ultimo aspetto si è concentrata la Corte
(dopo che già poche settimane fa con la sentenza n. 442 del
2021 aveva considerato comunque penalmente sanzionabile un
uso del potere discrezionale per fini distanti
dall’interesse pubblico), facendo leva ancora sul concetto
di potere discrezionale.
Per la sentenza, infatti, la riforma non ha voluto solo fare
riferimento ai casi in cui la violazione ha per oggetto una
specifica regola di condotta collegata all’esercizio di un
potere già in origine previsto da una norma come del tutto
vincolato, con un’azione amministrativa predeterminata in
ogni suo aspetto, ma anche «ai casi riguardanti
l’inosservanza di una regola di condotta collegata allo
svolgimento di un potere che, astrattamente previsto dalla
legge come discrezionale, sia divenuto in concreto
vincolante per le scelte fatte dal pubblico agente prima
dell’adozione dell’atto (o del comportamento) in cui si
sostanzia l’abuso di ufficio».
Una sorta di discrezionalità in realtà solo “mascherata”,
di non facile incasellamento giuridico e che la Cassazione
considera comunque in linea con quanto già stabilito dalla
giustizia amministrativa.
In questo senso la Corte chiama a corroborare il proprio
ragionamento il Consiglio di Stato, pronuncia n. 4089 del
2019, con la quale è stato riconosciuto come annullabile il
provvedimento amministrativo espressione di un potere
discrezionale solo in astratto, ma diventato vincolato in
concreto, un potere cioè che per le scelte che il pubblico
ufficiale ha compiuto in concreto non poteva che
considerarsi espressione di uno spazio ormai azzerato di
discrezionalità (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del
04.03.2021). |
PUBBLICO IMPIEGO: Il
delitto, così come modificato dal d.l. 16.07.2020, n. 76,
convertito nella legge 11.09.2020, n. 120, è configurabile
non solo nel caso in cui la violazione di una specifica
regola di condotta sia connessa all’esercizio di un potere
già in origine previsto dalla legge come del tutto
vincolato, ma anche nei casi in cui l’inosservanza della
regola di condotta sia collegata allo svolgimento di un
potere che, astrattamente previsto come discrezionale, sia
divenuto in concreto vincolato per le scelte fatte dal
pubblico agente prima dell’adozione dell’atto (o del
comportamento) in cui si sostanzia l’abuso di ufficio.
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3. Sempre in via prioritaria occorre chiedersi se il fatto
contestato al ricorrente non sia più previsto dalla legge
come reato a seguito della parziale abolitio criminis
conseguente alle modifiche apportate all'art. 323 cod. pen.
dall'art. 23 del d.l. 16.07.2020, n. 76, convertito dalla
legge 11.09.2020, n. 120, disposizione con la quale le
parole "di norme di legge o di regolamento" contenute
nell'art. 323 sono state sostituite con quelle "di
specifiche regole di condotta espressamente previste dalla
legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non
residuino margini di discrezionalità".
Le novità sono tre.
Fermi restando l'immutato riferimento all'elemento
psicologico del dolo intenzionale e l'immodificato richiamo
alla fattispecie dell'abuso di ufficio per violazione, da
parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico
servizio, dell'obbligo di astensione in presenza di un
interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri
casi prescritti (ipotesi di reato che non è variata nei suoi
elementi costitutivi), il delitto è ora configurabile
solamente nei casi in cui la violazione da parte dell'agente
pubblico abbia avuto ad oggetto "specifiche regole di
condotta" e non anche regole di carattere generale; solo
se tali specifiche regole sono dettate "da norme di legge
o da atti aventi forza di legge", dunque non anche
quelle fissate da meri regolamenti ovvero da altri atti
normativi di fonte subprinnaria; e, in ogni caso, a
condizione che quelle regole siano formulate in termini da
non lasciare alcun margine di discrezionalità all'agente,
restando perciò oggi escluse dalla applicabilità della norma
incriminatrice quelle regole di condotta che rispondano,
anche in misura marginale, all'esercizio di un potere
discrezionale (in questo senso v. Sez. 6, n. 442 del
09/12/2020, dep. 2021, Garau, non massimata; Sez. 5, n.
37517 del 02/10/2020, Danzè e altri, non massimata).
Tali indicazioni legislative -che, destinate all'evidenza a
restringere sotto l'aspetto oggettivo la rilevanza penale di
talune condotte, sono operanti in via retroattiva giusta il
principio di cui all'art. 2, quarto comma, cod. pen.- non
sono applicabili al caso di specie.
E ciò perché all'odierno ricorrente è stata addebitata la
violazione di una specifica regola di condotta prevista da
una norma di legge, quella contenuta nell'art. 125 del
d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (c.d. Codice degli appalti) che
all'epoca dei fatti disciplinava il metodo che l'ente
pubblico appaltante avrebbe dovuto seguire per
l'individuazione del soggetto cui affidare l'esecuzione di
opere e lavori pubblici, servizi e forniture; disposizione
che dettava criteri tecnici che vincolavano la stazione
appaltante ad adottare un criterio di scelta invece che un
altro sulla base del risultato di quell'accertamento, senza
lasciare al funzionario responsabile alcuna possibilità di
scelta discrezionale.
Né a differenti conclusioni è possibile giungere laddove si
volesse sostenere che la scelta del metodo di individuazione
dell'affidatario dell'appalto dipendeva dal superamento di
determinate soglie di valore calcolate sulla base di dati
tecnici suscettibili, almeno in parte, di essere valutati
con un qualche margine di opinabilità: dunque, di elementi
che potevano costituire oggetto di una discrezionalità
tecnica.
Tale circostanza risulta, invero, irrilevante in tutti i
casi di abuso di ufficio -come quello oggi in esame, per
quanto si chiarirà nel prosieguo della presente decisione-
in cui la violazione di una regola di condotta prevista da
una norma di legge dovesse sostanziarsi nella preventiva
totale rinuncia da parte del pubblico agente dell'esercizio
di ogni potere discrezionale; ovvero laddove la violazione
della regola di condotta dovesse intervenire in un momento
del procedimento nel quale è possibile affermare che ogni
determinazione dell'amministrazione è oramai espressione di
un potere caratterizzato dall'essere in concreto privo di
qualsivoglia margine di discrezionalità.
In tal senso è possibile fondatamente ritenere che il
legislatore della novella, stabilendo che l'abuso di ufficio
sia configurabile solo nel caso di "violazione di
specifiche regole di condotta [...] dalle quali non
residuino margini di discrezionalità", abbia inteso far
riferimento non solamente ai casi in cui la violazione ha ad
oggetto una specifica regola di condotta connessa
all'esercizio di un potere già in origine previsto da una
norma come del tutto vincolato (cioè di un potere del quale
la legge abbia preordinato l'an, il quomodo,
il quid e il quando dell'azione amministrativa); ma
anche ai casi riguardanti l'inosservanza di una regola di
condotta collegata allo svolgimento di un potere che,
astrattamente previsto dalla legge come discrezionale, sia
divenuto in concreto vincolato per le scelte fatte dal
pubblico agente prima dell'adozione dell'atto (o del
comportamento) in cui si sostanzia l'abuso di ufficio.
Tale linea interpretativa del 'nuovo' art. 323 cod.
pen. appare, peraltro, coerente con le conclusioni cui è
pervenuta la più attenta giurisprudenza amministrativa che,
valorizzando il dettato dell'art. 21-octies della legge
07.08.1990, n. 241, ha riconosciuto che il provvedimento
amministrativo è annullabile, per violazione delle norme sul
procedimento o sulla forma degli atti, non solo quando sia
espressione di un potere vincolato in astratto, cioè
disciplinato da disposizioni che non contemplano alcuno
spazio di discrezionalità demandato all'amministrazione, ma
anche quando esso sia esplicazione di un potere, in astratto
discrezionale, che sia divenuto vincolato in concreto: vale
a dire di un potere che, per le scelte che il pubblico
agente ha compiuto nell'ambito di quello stesso procedimento
amministrativo, non poteva che essere quello indicato dalla
legge perché oramai caratterizzato da un avvenuto
esaurimento di ogni spazio di discrezionalità (in questo
senso, tra le altre Cons. Stato, n. 4089 del 17/06/2019).
...
5. Anche il secondo motivo del ricorso è privo di
pregio.
Costituiscono ius receptum nella giurisprudenza di
legittimità i principi secondo i quali, per la
configurabilità del reato di abuso di ufficio, è necessaria
la prova della cd. 'doppia ingiustizia', che postula
un duplice distinto apprezzamento, concernente sia la
condotta che deve essere connotata da violazione di norme di
legge o di regolamento, sia l'evento di vantaggio
patrimoniale in quanto non spettante in base al diritto
oggettivo, non potendosi far discendere l'ingiustizia del
vantaggio o del danno dall'accertata illegittimità della
condotta (così, tra le molte, Sez. 6, n. 17676 del
18/03/2016, Nodo, Rv. 267171; e, più di recente, Sez. 6, n.
19929 del 22/02/2019, Bernardi, non massimata); e nel reato
di abuso di ufficio la prova del dolo intenzionale non
presuppone l'accertamento dell'accordo collusivo con la
persona che si intende favorire, potendo tale prova essere
desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto,
essendo però necessario che tale valutazione non discenda
dal mero comportamento non iure dell'agente, ma
risulti anche da elementi ulteriori concordemente
dimostrativi dell'intento di conseguire un vantaggio
patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto (in questo
senso, tra le altre, Sez. 6, n. 12974 del 08/01/2020, Zanola,
Rv. 279264; Sez. 6, n. 52882 del 28/09/2018, Pastore, Rv.
274580).
Di tali criteri interpretativi la Corte distrettuale ha
fatto buon governo, sottolineando come la palese violazione,
da parte dell'imputato, delle considerate regole di condotta
avesse finito non solo per determinare un ingiusto vantaggio
patrimoniale per l'ente affidatario, ma anche un danno per
l'ente comunale, che si era visto costretto ad avviare
dispendiosi procedimenti per l'annullamento di quel
contratto di appalto e per l'invalidazione in autotutela dei
numerosi verbali di accertamento per contravvenzioni
elevate.
Per altro verso, si è puntualizzato come il fatto che il
prevenuto avesse agito con il chiaro consapevole intento di
favorire il titolare della azienda alla quale quell'appalto
era stato illegittimamente affidato, fosse stato dimostrato
da plurime circostanze.
Quella che l'As. aveva stipulato il contratto e adottato la
collegata determina dirigenziale ancor prima che la pratica
venisse esaminata, in relazione al significativo impegno di
spesa che quel servizio avrebbe comportato per il comune,
dalla giunta municipale; nonché quella che l'imputato aveva
permesso al responsabile della società appaltatrice (che,
peraltro, aveva la sua sede nello stesso immobile
dell'ufficio comunale) di installare e di iniziare ad
utilizzare le apparecchiature per la rilevazione della
velocità diversi giorni prima di stipulare il contratto, che
non era stato neppure registrato; nonché di emanare la
citata determina dirigenziale senza alcun preventivo
rilascio della necessaria autorizzazione da parte dell'ente
pubblico, l'Anas, cui era affidata la gestione della strada
interessata dal collocamento dei rilevatori di velocità dei
veicoli (Corte di cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 01.03.2021 n. 8057). |
PUBBLICO IMPIEGO: In
tema di abuso di ufficio, la nuova formulazione dell'art.
323 c.p., introdotta dal d.l. n. 76/2020, conv. dalla l. n.
120/2020 richiede che la condotta produttiva di
responsabilità penale del pubblico funzionario sia
connotata, nel concreto svolgimento delle funzioni o del
servizio, dalla violazione di regole cogenti per l'azione
amministrativa, che per un verso siano fissate dalla
legge e per altro verso siano specificamente
disegnate in termini completi e puntuali.
Ne deriva che è sottratto al giudice sia l'apprezzamento
dell'inosservanza di principi generali o di fonti normative
di tipo regolamentare, sia il sindacato del mero cattivo uso
della discrezionalità amministrativa.
CASUS DECISUS
La Corte d’appello di Cagliari confermava quella del locale
Tribunale, che aveva condannato il Commissario straordinario
e Direttore generale dell’Azienda Ospedaliera per avere, con
vari atti organizzativi illegittimamente dequalificato il
Servizio Prevenzione e Protezione da struttura complessa a
struttura semplice, così demansionando la posizione
giuridica ed economica del suo Direttore.
Pertanto, l’imputato ricorreva in Cassazione, denunciando,
violazione di legge, a seguito della l. 120/2020, quanto al
requisito previsto dall’art. 323 c.p. della "violazione di
legge o di regolamento”, riguardante la normativa primaria
relativa all’atto aziendale e la situazione di illegalità in
cui versava la struttura.
ANNOTAZIONE
Nella sentenza in epigrafe la Suprema Corte analizza il
reato di abuso di ufficio a seguito della novella della L.
120/2020, che ha sostituito le parole "di norme di legge o
di regolamento" con quelle "di specifiche regole di condotta
espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di
legge e dalle quali non residuino margini di
discrezionalità".
Premesso che la ragion d’essere della figura di reato
delineata da una norma di chiusura, come l’art. 323 c.p., è
ravvisata nell’obiettivo di tutelare i valori fondanti
dell’azione della Pubblica Amministrazione, che l’art. 97
Cost. indica nel buon andamento e nella imparzialità, i
nuovi elementi di fattispecie oggetto della violazione
penalmente rilevante -introdotti dalla più recente riforma-
sono costituiti dalle "specifiche regole di condotta
espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di
legge e dalle quali non residuino margini di
discrezionalità".
In luogo del generico richiamo della previgente disciplina
alla indeterminata violazione "di norme di legge o di
regolamento", si pretende oggi che la condotta produttiva di
responsabilità penale del pubblico funzionario sia
connotata, nel concreto svolgimento delle funzioni o del
servizio, dalla violazione di regole cogenti per l’azione
amministrativa, che per un verso siano fissate dalla legge
(non rilevano dunque i regolamenti, né eventuali fonti
subprimarie o secondarie) e per altro verso siano
specificamente disegnate in termini completi e puntuali.
Di qui il lineare corollario della limitazione di
responsabilità penale del pubblico funzionario, qualora le
regole comportamentali gli consentano di agire in un
contesto di discrezionalità amministrativa, anche tecnica:
intesa, questa, nel suo nucleo essenziale come autonoma
scelta di merito - effettuata all’esito di una ponderazione
comparativa tra gli interessi pubblici e quelli privati
dell’interesse primario pubblico da perseguire in concreto.
In definitiva, la nuova disposizione normativa ha un ambito
applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con
la previgente definizione della modalità della condotta
punibile, sottraendo al giudice penale tanto l’apprezzamento
dell’inosservanza di principi generali o di fonti normative
di tipo regolamentare o subprimario, quanto il sindacato del
mero "cattivo uso" -la violazione dei limiti interni nelle
modalità di esercizio- della discrezionalità amministrativa
(tratto da www.neldiritto.it).
---------------
SENTENZA
2. Tuttavia, la constatata estinzione del reato per
prescrizione non esime questa Corte dall'esaminare la
questione della rilevanza, nel caso in esame, della recente
formulazione dell'art. 323 cod. pen., a seguito della
novella introdotta dal d.l. 16.07.2020, n. 76, convertito
dalla legge 11.09.2020, n. 120, che ha modificato il reato
di abuso di ufficio, sostituendo le parole «di norme di
legge o di regolamento» con quelle «di specifiche
regole di condotta espressamente previste dalla legge o da
atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino
margini di discrezionalità».
Premesso che la ragion d'essere della figura di reato
delineata da una norma di chiusura, come l'art. 323 cod.
pen., è ravvisata nell'obiettivo di tutelare i valori
fondanti dell'azione della Pubblica Amministrazione, che
l'art. 97 della Costituzione indica nel buon andamento e
nella imparzialità, i nuovi elementi di fattispecie oggetto
della violazione penalmente rilevante -introdotti dalla più
recente riforma- sono costituiti dalle «specifiche regole
di condotta espressamente previste dalla legge o da atti
aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di
discrezionalità».
In luogo del generico richiamo della previgente disciplina
alla indeterminata violazione «di norme di legge o di
regolamento», si pretende oggi che la condotta
produttiva di responsabilità penale del pubblico funzionario
sia connotata, nel concreto svolgimento delle funzioni o del
servizio, dalla violazione di regole cogenti per l'azione
amministrativa, che per un verso siano fissate dalla legge
(non rilevano dunque i regolamenti, né eventuali fonti
subprimarie o secondarie) e per altro verso siano
specificamente disegnate in termini completi e puntuali.
Di qui il lineare corollario della limitazione di
responsabilità penale del pubblico funzionario, qualora le
regole comportamentali gli consentano di agire in un
contesto di discrezionalità amministrativa, anche tecnica:
intesa, questa, nel suo nucleo essenziale come autonoma
scelta di merito -effettuata all'esito di una ponderazione
comparativa tra gli interessi pubblici e quelli privati-
dell'interesse primario pubblico da perseguire in concreto.
Beninteso: sempre che l'esercizio del potere discrezionale
non trasmodi tuttavia in una vera e propria distorsione
funzionale dai fini pubblici -c.d. sviamento di potere o
violazione dei limiti esterni della discrezionalità- laddove
risultino perseguiti, nel concreto svolgimento delle
funzioni o del servizio, interessi oggettivamente difformi e
collidenti con quelli per i quali soltanto il potere
discrezionale è attribuito; oppure si sostanzi
nell'alternativa modalità della condotta, rimasta penalmente
rilevante, dell'inosservanza dell'obbligo di astensione in
situazione di conflitto di interessi.
La nuova disposizione normativa ha dunque un ambito
applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con
la previgente definizione della modalità della condotta
punibile, sottraendo al giudice penale tanto l'apprezzamento
dell'inosservanza di principi generali o di fonti normative
di tipo regolamentare o subprimario (neppure secondo il
classico schema della eterointegrazione, cioè della
violazione "mediata" di norme di legge interposte),
quanto il sindacato del mero "cattivo uso" -la
violazione dei limiti interni nelle modalità di esercizio-
della discrezionalità amministrativa.
3. La nuova formulazione della fattispecie dell'abuso di
ufficio, restringendone l'ambito di operatività con riguardo
al diverso atteggiarsi delle modalità della condotta,
determina all'evidenza serie questioni di diritto
intertemporale. In linea di principio, non può seriamente
dubitarsi che si realizzi una parziale abolitio criminis
in relazione ai fatti commessi prima dell'entrata in vigore
della riforma, che non siano più riconducibili alla nuova
versione dell'art. 323 cod. pen., siccome realizzati
mediante violazione di norme regolamentari o di norme di
legge generali e astratte, dalle quali non siano ricavabili
regole di condotta specifiche ed espresse o che comunque
lascino residuare margini di discrezionalità.
Con il lineare corollario per cui all'abolizione del reato,
ai sensi dell'art. 2, comma 2 cod. pen., consegue nei
processi in corso il proscioglimento dell'imputato, con la
formula "perché il fatto non è più previsto dalla legge
come reato" (Corte di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 08.01.2021 n. 442). |
anno 2020 |
|
CONSIGLIERI COMUNALI: La
Cassazione chiarisce la portata della riforma dell’abuso di
ufficio, rilevandone l’ininfluenza sulla fattispecie di
abuso per omessa astensione.
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di
Cassazione, Sezione feriale, si è pronunciata in merito alla
nuova formulazione della fattispecie di abuso di ufficio ad
opera del Decreto Legge 16.07.2020, n. 76, poi convertito
dalla Legge 11.09.2020, n. 120, il quale all’art. 323 c.p.,
primo comma, ha sostituito le parole “di norme di legge o di
regolamento,” con quelle “di specifiche regole di condotta
espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di
legge e dalle quali non residuino margini di
discrezionalità”.
In particolare, la Corte ha rilevato che la riforma non ha
inciso sulla seconda condotta punita dalla norma, la quale è
rimasta invariata, vale a dire quella del pubblico ufficiale
o dell’incaricato di pubblico servizio che, omettendo di
astenersi in presenza di un interesse proprio o di un
prossimo congiunto o negli altri casi prescritti,
intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto
vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno
ingiusto.
Si riporta di seguito il ragionamento della Corte sul punto:
“(…) deve farsi un breve cenno alla modifica normativa
dell’art. 323 cod. pen. introdotta di recente dal d.l.
16.07.2020, n. 76, (…) unicamente e solo per quanto serve ad
evidenziarne la totale ininfluenza rispetto al caso qui in
decisione (…).
Si tratta di una modifica che investe solo uno dei due
segmenti di condotta che sono considerati rilevanti ai fini
dell’integrazione del delitto di abuso d’ufficio che punisce
con lo stesso trattamento sanzionatorio, accomunandone il
relativo disvalore, sia la condotta del pubblico ufficiale o
dell’incaricato di pubblico servizio che nello svolgimento
delle funzioni o del servizio viola le norme di legge che ne
disciplinano l’esercizio e sia quella, del medesimo soggetto
qualificato, che ometta di astenersi in presenza di un
interesse proprio o di un proprio congiunto o negli altri
casi prescritti.
Per effetto di tale modifica l’abuso di ufficio nella prima
opzione, ovvero quello della violazione delle norme di legge
che disciplinano lo svolgimento delle funzioni o del
servizio, può essere ora integrato solo dalla violazione di
‘regole di condotta previste dalla legge o da atti aventi
forza di legge’, cioè da fonti primarie, con esclusione dei
regolamenti attuativi, e che abbiano, inoltre, un contenuto
vincolante precettivo da cui non residui alcuna
discrezionalità amministrativa.
Ma siffatta modifica, seppure di grande impatto ove non
dovessero intervenire ulteriori modifiche in sede di
conversione, e sebbene medio tempore abbia notevolmente
ristretto l’ambito di rilevanza penale del delitto di abuso
d’ufficio con inevitabili effetti di favore applicabili
retroattivamente ai sensi dell’art. 2, comma 2 cod. pen.,
non esplica alcun effetto con riguardo al segmento di
condotta che, in via alternativa rispetto al genus della
violazione di legge, riguarda esclusivamente e più
specificamente l’inosservanza dell’obbligo di astensione,
rispetto al quale la fonte normativa della violazione è da
individuarsi nella stessa norma penale salvo che per il
rinvio agli altri casi prescritti, rispetto ai quali non
pare ugualmente pertinente la limitazione alle fonti
primarie di legge, trattandosi della violazione di un
precetto vincolante già descritto dalla norma penale, sia
pure attraverso il rinvio, ma solo per i casi diversi dalla
presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto,
ad altre fonti normative extra-penali che prescrivano lo
stesso obbligo di astensione”
(commento tratto da www.giurisprudenzapenale.com).
---------------
In via preliminare, deve farsi un breve cenno alla modifica
normativa dell'art. 323 cod. pen. introdotta di recente dal
d.l. 16.07.2020, n. 76, in attesa di conversione, ma
unicamente e solo per quanto serve ad evidenziarne la totale
ininfluenza rispetto al caso qui in decisione.
Per effetto di tale modifica, nel testo dell'art. 323 cod.
pen. le parole "in violazione di norme di legge e di
regolamento" sono state sostituite dalle seguenti: "in
violazione di specifiche regole di condotta espressamente
previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle
quali non residuino margini di discrezionalità".
Si tratta di una modifica che investe solo uno dei due
segmenti di condotta che sono considerati rilevanti ai fini
dell'integrazione del delitto di abuso d'ufficio che punisce
con lo stesso trattamento sanzionatorio, accomunandone il
relativo disvalore, sia la condotta del pubblico ufficiale o
dell'incaricato di pubblico servizio che nello svolgimento
delle funzioni o del servizio viola le norme di legge che ne
disciplinano l'esercizio e sia quella, del medesimo soggetto
qualificato, che ometta di astenersi in presenza di un
interesse proprio o di un proprio congiunto o negli altri
casi prescritti.
Per effetto di tale modifica l'abuso di ufficio nella prima
opzione, ovvero quello della violazione delle norme di legge
che disciplinano lo svolgimento delle funzioni o del
servizio, può essere ora integrato solo dalla violazione di
"regole di condotta previste dalla legge o da atti aventi
forza di legge", cioè da fonti primarie, con esclusione
dei regolamenti attuativi, e che abbiano, inoltre, un
contenuto vincolante precettivo da cui non residui alcuna
discrezionalità amministrativa.
Ma siffatta modifica, seppure di grande impatto ove non
dovessero intervenire ulteriori modifiche in sede di
conversione, e sebbene medio tempore abbia
notevolmente ristretto l'ambito di rilevanza penale del
delitto di abuso d'ufficio con inevitabili effetti di favore
applicabili retroattivamente ai sensi dell'art. 2, comma 2
cod. pen., non esplica alcun effetto con riguardo al
segmento di condotta che, in via alternativa rispetto al
genus della violazione di legge, riguarda esclusivamente
e più specificamente l'inosservanza dell'obbligo di
astensione, rispetto al quale la fonte normativa della
violazione è da individuarsi nella stessa norma penale salvo
che per il rinvio agli altri casi prescritti, rispetto ai
quali non pare ugualmente pertinente la limitazione alle
fonti primarie di legge, trattandosi della violazione di un
precetto vincolante già descritto dalla norma penale, sia
pure attraverso il rinvio, ma solo per i casi diversi dalla
presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto,
ad altre fonti normative extra-penali che prescrivano lo
stesso obbligo di astensione.
Nel caso di specie, pertanto, vertendosi nell'ipotesi di un
abuso di ufficio riferito alla specifica violazione
dell'obbligo di astensione, la modifica normativa non
produce alcun effetto, permanendo la rilevanza penale della
condotta in esame anche rispetto alla violazione dell'art.
78 del T.U.E.L. oltre che del precetto contenuto nella
stessa norma penale.
2. Passando ora, più nello specifico, all'esame dei motivi
di ricorso si deve rilevare in quanto al primo motivo
la manifesta infondatezza della dedotta violazione degli
artt. 323 cod. pen. e 78 T.U.E.L., poiché entrambe le norme
prevedono l'obbligo di astensione in presenza di un
interesse proprio nella decisione da assumere, sia pure con
un diverso ambito applicativo di riferimento.
Più precisamente l'art. 323 cod. pen. nel descrivere la
condotta del delitto di abuso d'ufficio stabilisce, con
norma immediatamente precettiva, che vi è l'obbligo di
astenersi per il soggetto attivo del reato, sia esso
pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, "in
presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto",
oltre poi a prevedere, "negli altri casi prescritti",
il rinvio ad altre disposizioni normative extra-penali che
impongano il medesimo obbligo.
L'art. 78, co. 2, T.U.E.L. prevede per gli amministratori
-nella cui nozione rientrano anche il presidente del
Consiglio comunale ed il sindaco per come specificato
dall'art. 77, comma 2, del medesimo testo normativo- che gli
stessi "devono astenersi dal prendere parte alla
discussione ed alla votazione di delibere riguardanti
interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto
grado".
La stessa disposizione chiarisce e specifica, inoltre, che "L'obbligo
di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di
carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei
casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta
fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi
dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto
grado".
La questione circa l'erronea qualificazione come "mozione"
anziché come "interrogazione" della istanza dei
consiglieri di minoranza, sul rilievo che l'oggetto della
decisione non rientrava nelle materie di competenza del
Consiglio Comunale ma in quelle proprie della Giunta cui
spettava ex art. 30 dello Statuto Comunale deliberare in
materia di liti attive e passive, è manifestamente infondata
oltre che irrilevante per le ragioni indicate tanto dal
giudice di primo grado che dalla Corte di appello.
Il rilievo del ricorrente che l'art. 19 del regolamento
consiliare espressamente stabilisce che la mozione implica "una
proposta concreta di deliberazione inerente le materie
proprie del Consiglio Comunale" è del tutto inconferente,
atteso che, dalla ricostruzione dei verbali della seduta, è
emerso pacificamente che la decisione su cui vedeva la
mozione non era quella di deliberare la costituzione di
parte civile del Comune interessato (pacificamente rimessa
alla Giunta), ma la decisione della opportunità di dare un
indirizzo politico alla decisione di competenza della
Giunta, ovvero di sollecitarla a disporre la costituzione di
parte civile, quindi una deliberazione di impulso delle
decisioni di competenza della Giunta, che rientrava senza
dubbio alcuno tra le attribuzioni del Consiglio Comunale che
è per legge organo di indirizzo politico.
In ogni caso, come già evidenziato nella sentenza impugnata,
la decisione sulla mozione, una volta ammessa all'ordine del
giorno delle decisioni del Consiglio Comunale andava
affrontata senza la partecipazione del sindaco, parte in
causa, che avrebbe dovuto astenersi.
3. Manifestamente infondata è anche l'interpretazione
invocata dal ricorrente che restringe l'ambito del dovere di
astensione alle delibere relative ad atti "esterni",
produttivi di effetti giuridici sulla sfera dei destinatari.
La normativa sopra richiamata (art. 78 TUEL), come
correttamente rilevato dalla Corte di appello, riguarda ogni
delibera con le sole eccezioni ivi indicate (delibere
relative ad atti generali ed astratti).
Quindi, il sindaco, come parte direttamente e personalmente
interessata dalla decisione relativa alla valutazione circa
l'opportunità del Comune di costituirsi parte civile nel
processo penale pendente a suo carico, doveva senz'altro
astenersi dal partecipare alla seduta nel momento in cui
veniva trattata la specifica mozione di minoranza messa
all'ordine del giorno.
Come affermato ed accertato nel giudizio di merito, il De.,
anziché astenersi dal presiedere la seduta del consiglio,
affidandone la direzione ad altri, ha utilizzato la sua
posizione di presidente della seduta per interrompere ed
impedire la discussione e la votazione della mozione, con
ciò abusando dei relativi poteri connessi a detta veste
pubblica.
Le altre questioni dedotte con riferimento alla natura
politica della decisione da prendere e della sua inidoneità
ad incidere sulla costituzione di parte civile, perché di
spettanza di altro organo del Comune, sono palesemente
irrilevanti, trattandosi di argomentazioni calibrate
rispetto ad una fattispecie del tutto diversa da quella
considerata nel giudizio di condanna e prima ancora nella
imputazione contestata al ricorrente.
L'effetto di rilievo giuridico nella sfera dei destinatari
oggetto dell'imputazione non è quello riguardante il
sindaco, imputato nel processo in cui il Comune avrebbe
dovuto costituirsi parte civile, e che poteva scaturire
dalla decisione di competenza della Giunta (organo della
maggioranza), ma quello prodotto dalla indebita attività
svolta come presidente del Consiglio Comunale, che il
sindaco ha proseguito a svolgere invece di astenersi,
arrecando il danno ravvisato nell'impedire ai consiglieri di
minoranza l'esercizio del diritto di mettere ai voti la loro
mozione.
Quindi, il danno ingiusto prodotto dalla condotta
illegittima del presidente del Consiglio Comunale,
considerato rilevante ai fini dell'integrazione del delitto
di abuso d'ufficio, prescinde totalmente nel caso in esame
dalla decisione (ipotetica ed eventuale) circa la
costituzione di parte civile del Comune.
In altre parole, per come coerentemente già evidenziato nel
giudizio di merito, il danno ingiusto considerato nella
imputazione non si correla alla mancata costituzione di
parte civile nel processo penale a carico del sindaco, ma
più semplicemente alla lesione delle prerogative della
minoranza.
Giova, inoltre, rammentare per completezza che secondo la
giurisprudenza consolidata di legittimità il reato di abuso
di ufficio, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente,
è configurabile anche con riferimento ad atti del
procedimento amministrativo privi di rilevanza esterna (come
per i pareri anche non vincolanti), cui possono assimilarsi
gli atti di mero impulso politico come quello rilevato nel
caso di specie, essendo tali atti idonei ad arrecare un
danno o un ingiusto profitto, attraverso il concorso
nell'atto esterno.
Questa Corte di cassazione (Sez. 3, n. 16449 del 13/12/2016,
Menna, Rv. 269820) ha già affermato che la fattispecie di
abuso d'ufficio può essere integrata anche in riferimento ad
un atto interno al procedimento amministrativo, non
rilevando la circostanza che il provvedimento definitivo sia
emesso da altro pubblico ufficiale (fattispecie relativa
all'illegittimo rilascio di una autorizzazione per la
realizzazione di un alloggio abitativo antisismico
temporaneo, la cui istruttoria era stata illecitamente
svolta da un professionista esterno che sostituiva il
tecnico comunale, mentre il relativo titolo edilizio era
stato emesso dal sindaco).
Ma si tratta, come già osservato, di una questione non
pertinente al caso in esame. In questo caso il danno non si
correla all'atto di indirizzo politico che è stato omesso,
atteso che la mozione non è stata neppure messa ai voti.
Pertanto, non è pertinente al caso concreto neppure la
questione della partecipazione al voto da parte del
consigliere interessato personalmente dalla delibera che
abbia prodotto l'effetto ingiusto a lui favorevole
-ravvisato nel mancato impulso alla costituzione di parte
civile del Comune nel processo a suo carico- perché
l'evento-danno conseguente alla condotta illegittima del
Sindaco che è oggetto del giudizio di responsabilità nel
presente procedimento, è un altro, ed attiene alla decisione
del presidente del consiglio comunale di sospendere la
seduta e bloccare la decisione sulla mozione, quindi
riguarda il danno arrecato attraverso la lesione dei diritti
della minoranza, correlati alla presentazione della mozione
ed alla conseguente legittima pretesa di iniziare e chiudere
la discussione con la votazione finale.
Va anche osservato, avendone fatto cenno la difesa nel corso
della discussione, che non è assolutamente pertinente al
caso in esame neppure il condivisibile orientamento di
legittimità (Sez. 6, n. 17628 del 12/02/2003, Pinto, Rv.
224683), che qui si ribadisce, secondo cui / perché si
configuri il delitto di abuso di ufficio di cui all'art. 323
cod. pen., non è sufficiente che il pubblico ufficiale abbia
emesso un atto violando il proprio dovere di astensione, ma
è necessario che tale atto abbia arrecato o un indebito
vantaggio patrimoniale o un ingiusto danno anche non di
carattere patrimoniale; poiché, se l'atto è invece conforme
al trattamento riservato a tutte le altre istanze di
identico contenuto presentate dagli altri cittadini, esso
non è idoneo a configurare l'illecito nonostante la
violazione dell'obbligo di astensione (fattispecie relativa
al Sindaco che in violazione al dovere di astensione
riconosceva all'istanza di sospensione di pagamento
presentata dalla moglie l'esenzione dall'imposta di bollo
conformemente a tutte le altre istanze presentate da altri
cittadini).
Orientamento che è stato di recente ribadito (Sez. 6, n.
12075 del 06/02/2020, Stefanelli, Rv. 278723) con
riferimento al caso di un sindaco che aveva preso parte alla
delibera di giunta di riconoscimento di un debito fuori
bilancio in favore di un'impresa, dalla quale era stato
convenuto in giudizio, ai sensi dell'art. 191 T.U.E.L., per
il soddisfacimento di un credito derivante dall'effettiva
esecuzione di lavori pubblici, risultati utili per il
comune.
Nel caso in esame è, invece, evidente come alla violazione
dell'obbligo di astensione abbia fatto seguito anche
l'ingiustizia del danno arrecato, attraverso l'indebito
esercizio del potere di sospendere la seduta del consiglio,
impedendo in tal modo che i consiglieri di minoranza
potessero discutere prima e poi votare la mozione
ritualmente messa all'ordine del giorno nel corso di quella
medesima seduta.
4. Manifestamente infondato, per quanto già detto, è anche
il secondo ordine di motivi in merito al requisito della
c.d. doppia ingiustizia, che il ricorrente ha posto al
centro delle proprie censure sempre riproponendo il medesimo
argomento correlato alla negazione della violazione
dell'obbligo di astensione sulla base dell'erroneo rilievo
che la decisione sollecitata dalle minoranze (la
costituzione di parte civile del Comune) non rientrasse
nelle materie di competenza del consiglio comunale.
La compressione dei diritti della minoranza costituisce,
invece, per come già sopra illustrato, la ulteriore
violazione che connota come "ingiusto" il danno
arrecato ai consiglieri che avevano richiesto ed ottenuto
che la questione venisse discussa e votata dal consiglio
comunale nel rispetto delle forme che disciplinano
l'istituto della mozione.
In particolare il presidente, sospendendo la discussione in
violazione della norma regolamentare consiliare (nella
sentenza impugnata si indica l'art. 19 del regolamento del
consiglio comunale che disciplina la mozione e che prevede
che la mozione debba essere messa ai voti e discussa entro
trenta giorni), ha cagionato l'ingiusto evento costituito
dal mancato svolgimento della discussione e della votazione
della predetta mozione.
In merito al profilo della censura che investe la
ricostruzione del fatto, si osserva che il dedotto vizio
della motivazione per travisamento del fatto è articolato in
modo palesemente inammissibile.
La circostanza che l'interruzione della seduta sia stata
determinata dal comportamento antigiuridico tenuto dal
sindaco che, a fronte delle legittime rimostranze dei
consiglieri di minoranza rispetto al suo obbligo di
astenersi, ha reagito togliendo loro la parola e provocando
le loro legittime proteste poi confluite nello scioglimento
della seduta, è stata affermata concordemente nei due gradi
di giudizio sulla base della complessiva valutazione delle
testimonianze assunte, rispetto alle quali il ricorrente ha
contrapposto la ricostruzione di parte seguita dai testi a
discarico (in particolare i testi Mo., Ve. e Se.), alla
quale non è stato dato motivatamente credito, essendo stata
ritenuta più coerente allo svolgimento dei fatti la
ricostruzione della seduta fornita dagli altri testi
escussi, tenuto conto della evidente e manifesta violazione
in cui era incorso il sindaco non astenendosi dal presiedere
la seduta di quel consiglio comunale (i testi Mu., St., Sa.,
Fa.) .
La tesi dell'interruzione imposta dalle intemperanze dei
consiglieri di minoranza è stata quindi ritenuta non
plausibile a fronte della situazione di conflitto di
interesse che avrebbe imposto al sindaco di astenersi e che
ha trovato riscontro nell'annullamento da parte del TAR
Sardegna della sanzione dell'interdizione a partecipare ai
lavori del consiglio comunale che il De., in qualità di
presidente del Consiglio Comunale, aveva applicato al
consigliere di minoranza St. in relazione a quanto accaduto
nel corso della seduta del 15/10/2012 (Corte di Cassazione,
Sez. feriale penale,
sentenza 17.11.2020 n. 32174). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Natura di atti amministrativi generali dei piani urbanistici
– Esonero dal pagamento degli oneri di costruzione – Abuso
di ufficio in atti di ufficio nella disciplina urbanistica –
Ultrattività del piano attuativo scaduto – Vantaggio
patrimoniale per il privato – Accordo collusivo tra il
pubblico ufficiale e i privati – Art. 323 cod. pen. – Artt.
19, 28-bis d.P.R. n. 380/2001.
I piani urbanistici non rientrano nella
categoria dei regolamenti, come ritenuto da risalente e
superato orientamento giurisprudenziale, che nel mutato
quadro normativo escluderebbe la fattispecie di abuso in
atti di ufficio, ma in quella degli atti amministrativi
generali la cui violazione, in conformità dell’indirizzo
ermeneutico consolidato, rappresenta solo il presupposto di
fatto della violazione della normativa legale in materia
urbanistica (art. 12 e 13 del d.P.R. n. 380 del 2001),
normativa a cui deve farsi riferimento, per ritenere
concretata la “violazione di legge”, quale dato strutturale
della fattispecie delittuosa ex art. 323 cod. pen. anche
seguito della modifica normativa.
Da cui la conferma della sussunzione del caso concreto nella
fattispecie normativa di cui all’art. 323 cod. pen. ora
vigente.
Trattasi senza dubbio di norme specifiche e per le quali non
residuano margini di discrezionalità laddove l’art. 12
d.P.R. n. 380/2001 detta i requisiti di legittimità del
permesso a costruire, e il successivo art 13 d.P.R. n.
380/2001, detta la disciplina urbanistica che il dirigente
del settore è tenuto a rispettare nel rilascio del permesso
a costruire.
---
Rilascio di permessi edilizi illegittimi – PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE – Abuso in atti di ufficio – Configurabilità
del reato ex art. 323 cod. pen..
La configurazione del reato di abuso in
atti di ufficio si integra nel caso di rilascio di permessi
edilizi illegittimi, la violazione di legge è integrata
dall’inosservanza dell’art. 12 del d.P.R. n. 380 del 2001,
secondo cui il permesso a costruire, quale atto non
discrezionale, è rilasciato in conformità alle previsioni
urbanistiche, ai regolamenti edilizi e alla disciplina
urbanistica che il dirigente del settore è tenuto a
rispettare ai sensi del successivo art. 13 d.P.R. n.
380/2001.
Inoltre, il permesso di costruire, per essere legittimo,
deve conformarsi –ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art.
12, comma 1, –“alle previsioni degli strumenti urbanistici,
dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico–
edilizia vigente”.
Dall’espresso rinvio della norma agli strumenti urbanistici
discende che il titolo abilitativo edilizio rilasciato senza
rispetto del piano regolatore e degli altri strumenti
urbanistici integra, una “violazione di legge”, rilevante ai
fini della configurabilità del reato di cui all’art. 323
cod. pen.
La clausola di riserva contenuta nell’art. 323 cod. pen.,
non opera, quando ricorrono i presupposti del concorso
materiale del reato di abuso in atti di ufficio e del reato
di falso.
---
Piano di lottizzazione o altro piano particolareggiato –
Termine stabilito per l’esecuzione – Conseguenze della
scadenza dell’efficacia.
In materia urbanistica, decorso il
termine stabilito per l’esecuzione del piano di
lottizzazione o altro piano particolareggiato, questo
diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto
attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato
l’obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e
nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e
le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso, con la
precisazione che da ciò discende che:
a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la
concreta e dettagliata conformazione della proprietà
privata, le medesime previsioni rimangono efficaci a tempo
indeterminato e, col decorso del termine (di dieci anni, per
il piano particolareggiato di cui si discute), diventano
inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che
non abbiano avuto concreta attuazione, nel senso che non è
più consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la
possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti
previsioni del p.r.g. e con le prescrizioni del piano
attuativo (anche sugli allineamenti), che solo per questa
parte ha efficacia ultrattiva;
b) il termine di efficacia di 10 anni deve intendersi
riferito all’esecuzione delle previste opere di
urbanizzazione che devono essere realizzate entro tale
termine; viceversa per la realizzazione delle costruzioni
dei fabbricati trovano applicazione i termini previsti nei
relativi titoli edilizi, fermo restando che poiché, in
generale, il termine di efficacia dei piani attuativi,
compresi i piani di lottizzazione, è di 10 anni, i titoli
edilizi andranno richiesti e ottenuti entro tale termine,
dato che, una volta che esso sia decorso, il piano decade
per la parte rimasta inattuata rimanendo soltanto fermo a
tempo indeterminato l’obbligo di osservare nella costruzione
di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti
gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal
piano stesso;
c) le conseguenze della scadenza dell’efficacia del piano
di lottizzazione si esauriscono pertanto nell’ambito della
sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere
sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai
soggetti attuatori degli interventi;
d) una volta scaduto il termine, l’autorità competente
riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto
urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi,
con una nuova pianificazione urbanistica di dettaglio
---------------
SENTENZA
5. Venendo al merito, l’ordinanza impugnata poggia su un
apparato argomentativo pienamente esaustivo, fondato sulle
emergenze processuali e corretto in diritto.
Quanto alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in
relazione al reato di abuso in atti di ufficio (capo 1, 4 e
7), in concorso con il pubblico ufficiale Sp., in relazione
al rilascio dei tre permessi a costruire, avvenuto in
violazione di legge (vedi supra par. 1.1.),
l’ordinanza impugnata ha ritenuto dimostrato:
1) un accordo collusivo tra il pubblico ufficiale e i
privati o, quantomeno, una situazione di asservimento del
pubblico ufficiale Sp. piegato a garantire gli interessi
economici del gruppo Ba., sul rilievo che il pubblico
ufficiale si era prodigato per rilasciare, con anomala
celerità in quanto l’iter amministrativo non era stato
ancora completato, un permesso a costruire, consegnato nelle
mani del Ca., per impedire il sequestro dell’area, sulla
quale erano in corso lavori in assenza di permesso a
costruire, mentre era in corso un sopralluogo della polizia
municipale la mattina del 03.04.2017;
2) la violazione di legge, segnatamente l’art. 12 del
d.P.R. n. 380 del 2001, per avere rilasciato, lo Sp., i tre
permessi a costruire in assenza di pianificazione
urbanistica di attuazione richiesta per gli interventi di
completamento dell’interporto, perché il piano
particolareggiato, adottato il 02.04.1996, a seguito
dell’Accordo di programma n. 14555 del 2006, determinante
variante al piano regolatore generale, risultava inefficace
dal 2016, per decorso del termine decennale di vigenza e non
essendo intervenuta altra pianificazione urbanistica, non
potendosi ritenere che la dichiarazione del Commissario
Straordinario n. 230 del 2016 avesse natura di
provvedimento, avendo la stessa natura di dichiarazione di
scienza, sicché la convenzione ex art. 28-bis cit., fondata
su tale presupposto, non era valido titolo edilizio. Inoltre
era accertata la violazione dell’art. 19 comma 2 cit. atteso
l’esonero dal pagamento degli oneri di costruzione di cui
all’art. 19 cit., nonché dell’art. 9 comma 2, medesimo
decreto, che pone limiti all’edificazione delle c.d. zone
bianche interessate dall’assenza di strumenti attuativi;
3) il vantaggio patrimoniale per il privato Barletta
consistito nell’accrescimento della situazione giuridica di
questi che si concretizzava nel rilascio dei permessi a
costruire, da cui il conseguente profitto economico
derivante dalla successiva realizzazione delle opere
edilizie e la correlata ingiustizia della condotta in quanto
connotata da violazione di legge integranti la c.d. doppia
ingiustizia necessaria ai fini dell’integrazione del reato
di abuso d’ufficio.
5.2. Ciò premesso, la censura (secondo motivo) svolta dalla
difesa dei ricorrenti che si appunta sull’interpretazione
della dichiarazione del Commissario Straordinario n. 230 del
2016 sulla scorta della quale, la difesa ha argomentato che
i premessi a costruire erano stati rilasciati in presenza di
pianificazione particolareggiata, sicché era destituita di
fondamento l’impostazione accusatoria di rilascio di
permessi a costruire in assenza di programmazione
urbanistica, non ha pregio e si rivela infondata.
L’ordinanza impugnata dà atto che dalle stesse dichiarazioni
del dott. Re., Commissario straordinario del Comune di Ma.,
era dimostrata la natura di dichiarazione di scienza della
suddetta delibera n. 230 del 2016, evidenziando che si
trattava di un mero atto di indirizzo politico che rimetteva
la decisione al futuro Consiglio Comunale di Ma. (che poi
non l’approvò), non avendo alcuna natura decisoria valevole
quale atto di programmazione urbanistica, presupposto per il
successivo rilascio dei permessi a costruire (cfr. pag. 13 e
ss.). Ogni diversa lettura dell’atto in questione, in
presenza di congrua e non illogica motivazione non è
sindacabile in questa sede.
5.3. La difesa ha poi percorso la via interpretativa,
espressa da una giurisprudenza amministrativa, secondo la
quale l’art. 17 della legge n. 1150 del 1942 consentirebbe
l’ultrattività del piano particolareggiato scaduto fino
all’approvazione di un nuovo strumento urbanistico che
disciplini le aree in esso incluse ed ha dedotto la
violazione di legge.
Tale interpretazione non è condivisa dal Collegio e dalle
più recenti pronunce del giudice amministrativo.
Secondo la più recente giurisprudenza amministrativa (cfr.
da ultimo sentenza TAR Lombardia, Milano, Sezione Quarta, n.
2001 del 17.08.2018; TAR Lazio Roma, sez. II, 01/04/2015, n.
4920; Cons. Stato, Sez. V, 30.04.2009, n. 2768; Sez. IV,
27.10.2009, n. 6572), decorso il termine stabilito per
l’esecuzione del piano di lottizzazione o altro piano
particolareggiato, questo diventa inefficace per la parte in
cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a
tempo indeterminato l’obbligo di osservare, nella
costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli
esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona
stabiliti dal piano stesso, con la precisazione che da ciò
discende che:
a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la
concreta e dettagliata conformazione della proprietà
privata, le medesime previsioni rimangono efficaci a tempo
indeterminato e, col decorso del termine (di dieci anni, per
il piano particolareggiato di cui si discute), diventano
inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che
non abbiano avuto concreta attuazione, nel senso che non è
più consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la
possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti
previsioni del p.r.g. e con le prescrizioni del piano
attuativo (anche sugli allineamenti), che solo per questa
parte ha efficacia ultrattiva (Tar Abruzzo L’Aquila, sez. I,
20/11/2014, n. 810; Cons. Stato, n. 2768 del 2009 e n. 6170
del 2007; Campania, Salerno, n. 522 del 2014);
b) il termine di efficacia di 10 anni deve intendersi
riferito all’esecuzione delle previste opere di
urbanizzazione che devono essere realizzate entro tale
termine; viceversa per la realizzazione delle costruzioni
dei fabbricati trovano applicazione i termini previsti nei
relativi titoli edilizi, fermo restando che poiché, in
generale, il termine di efficacia dei piani attuativi,
compresi i piani di lottizzazione, è di 10 anni, i titoli
edilizi andranno richiesti e ottenuti entro tale termine,
dato che, una volta che esso sia decorso, il piano decade
per la parte rimasta inattuata rimanendo soltanto fermo a
tempo indeterminato l’obbligo di osservare nella costruzione
di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti
gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal
piano stesso (cfr. TAR Lazio Latina, sez. I, 26/04/2018, n.
226;
c) le conseguenze della scadenza dell’efficacia del piano
di lottizzazione si esauriscono pertanto nell’ambito della
sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere
sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai
soggetti attuatori degli interventi (cfr. in particolare,
TAR Lazio Roma, sez. II, 01/04/2015, n. 4920), d) una volta
scaduto il termine, l’autorità competente riacquista il
potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle
parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova
pianificazione urbanistica di dettaglio.
5.4. Con riferimento al caso in esame, l’ordinanza impugnata
sul rilievo che era decorso il termine decennale, che
l’autorità competente (Comune di Marcianise) non aveva
esercitato il potere di dare nuovo assetto urbanistico alle
parti non realizzate del P.U.P., che la Delibera del
Commissario del 2016 non aveva natura di provvedimento quale
“riassunzione di conformità al P.U.P.”, si da
costituire presupposto per la conclusione della convenzione
ex art. 28-bis cit. e per il rilascio dei permessi a
costruire, ha ritenuto, del tutto correttamente, che i tre
permessi a costruire erano stati rilasciati in assenza di
pianificazione particolareggiata perché quella esistente
aveva perso efficacia nel 2016.
Inoltre, nel caso in esame, era violata la disposizione di
cui all’art. 9, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001,
che pone specifici limiti di edificabilità delle c.d. zone
bianche interessate dall’assenza di strumenti attuativi a
seguito di perdita di efficacia per decorso del termine
decennale, violazione neppure contestata dai ricorrenti.
5.5. Né può essere richiamata la sentenza di questa III Sez.
n. 38555 del 2015, citata nel ricorso poiché, in quel caso,
l’ultrattività della previsione di una lottizzazione
divenuta priva di efficacia per decorso del tempo, era
conseguente alla circostanza che le previsioni di questa
erano state recepite nello strumento urbanistico del Comune
di Arzachena, situazione all’evidenza del tutto diversa dal
caso in scrutinio nel quale i provvedimenti autorizzatori
erano stati rilasciati in assenza di piano attuativo
decaduto e l’autorità amministrativa non aveva esercitato il
potere di dare un nuovo assetto il territorio.
5.6. Va poi, per completezza, rilevato che secondo la
costante giurisprudenza di legittimità in relazione alla
configurazione del reato di abuso in atti di ufficio nel
caso di rilascio di permessi edilizi illegittimi, la
violazione di legge è integrata dall’inosservanza dell’art.
12 del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo cui il permesso a
costruire, quale atto non discrezionale, è rilasciato in
conformità alle previsioni urbanistiche, ai regolamenti
edilizi e alla disciplina urbanistica che il dirigente del
settore è tenuto a rispettare ai sensi del successivo art.
13 cit.
Quanto al delitto di abuso d’ufficio, condivide il Collegio,
i principi espressi da Sez. 3, n. 39462 del 2012, secondo
cui il permesso di costruire, per essere legittimo, deve
conformarsi –ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 12,
comma 1,– “alle previsioni degli strumenti urbanistici,
dei regolamenti edilizi e della disciplina
urbanistico–edilizia vigente”.
Dall’espresso rinvio della norma agli strumenti urbanistici
discende che il titolo abilitativo edilizio rilasciato senza
rispetto del piano regolatore e degli altri strumenti
urbanistici integra, una “violazione di legge”,
rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui
all’art. 323 cod. pen. (Sez. 3, n. 39462 del 19/06/2012,
Rullo, Rv. 254015 – 01, nello stesso senso Sez. 6, n. 11620
del 25/01/2007, Pellegrino, Rv. 236147 – 01).
Mentre, con riguardo altri elementi della fattispecie, deve
rilevarsi che i ricorrenti non hanno svolto critiche
censorie con riguardo al ritenuto accordo collusivo tra
privati e pubblico ufficiale, né sull’esistenza
dell’ingiusto profitto.
6. Osserva, infine, il Collegio che non assume rilievo,
quanto al caso in esame, la modifica normativa all’art. 323
cod. pen. per effetto dell’art. 23 del d.l. 16.07.2020, n.
76, “Misure Urgenti per la semplificazione e
l’innovazione digitale”, conv. con mod. nella legge
11.09.2020, n. 120, secondo cui all’art. 323 comma 1 cod.
pen., le parole “di norme di legge o di regolamento,”
sono sostituite dalle seguenti: “di specifiche regole di
condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi
forza di legge e dalle quali non residuino margini di
discrezionalità”.
Ora, la violazione di norme contenute nei regolamenti è
esclusa dal perimetro della condotta di abuso, l’abuso
potrà, infatti, essere integrato solo dalla violazione di “regole
di condotta espressamente previste dalla legge o da atti
aventi forza di legge”, cioè da fonti di rango primario.
Rileva, poi, la sola inosservanza di regole di condotta “specifiche”
ed “espressamente previste” dalle citate fonti
primarie.
Infine, si è previsto che rilevano solo regole di condotta “dalle
quali non residuino margini di discrezionalità”.
Senza ripercorre l’evoluzione giurisprudenziale che aveva
generato un contrasto di giurisprudenza all’indomani della
riforma del delitto di abuso in atti di ufficio a seguito
della L. 16.07.1997, n. 234, contrasto successivamente
appianato, l’orientamento consolidato di legittimità (vedi
supra) ha, da tempo, affermato che il requisito della
violazione di legge, rilevante ai fini della configurabilità
del reato di abuso di ufficio, è integrato dalla conformità
alle previsioni urbanistiche, dei regolamenti edilizi e
della disciplina urbanistica che il dirigente del settore è
tenuto a rispettare ai sensi dell’art. 13 del d.P.R. n. 380
del 2001, in quanto il permesso di costruire, per essere
legittimo, deve conformarsi –ai sensi del D.P.R. n. 380 del
2001, art. 12, comma 1,– “alle previsioni degli strumenti
urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina
urbanistico–edilizia vigente”.
Dall’espresso rinvio della norma agli strumenti urbanistici
discende che il titolo abilitativo edilizio rilasciato senza
rispetto del piano regolatore e degli altri strumenti
urbanistici integra, una “violazione di legge”,
rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui
all’art. 323 cod. pen.
Ritiene il Collegio che l’interpretazione della nozione di “violazione
di legge” come delineata dalla citata giurisprudenza sia
pienamente condivisibile anche nel mutato quadro normativo.
Segnatamente, seguendo quell’elaborazione giurisprudenziale
che il Collegio condivide, deve ribadirsi che i piani
urbanistici non rientrano nella categoria dei regolamenti,
come ritenuto da risalente e superato orientamento
giurisprudenziale, che nel mutato quadro normativo
escluderebbe la fattispecie di abuso in atti di ufficio, ma
in quella degli atti amministrativi generali la cui
violazione, in conformità dell’indirizzo ermeneutico
consolidato, rappresenta solo il presupposto di fatto della
violazione della normativa legale in materia urbanistica
(art. 12 e 13 del d.P.R. n. 380 del 2001) (Sez. 6, n. 11620
del 25/01/2007, Pellegrino, Rv. 236147 – 01), normativa a
cui deve farsi riferimento, per ritenere concretata la “violazione
di legge”, quale dato strutturale della fattispecie
delittuosa ex art. 323 cod. pen. anche seguito della
modifica normativa.
Da cui la conferma della sussunzione del caso concreto nella
fattispecie normativa di cui all’art. 323 cod. pen. ora
vigente. Trattasi senza dubbio di norme specifiche e per le
quali non residuano margini di discrezionalità laddove
l’art. 12 cit. detta i requisiti di legittimità del permesso
a costruire, e il successivo art 13 cit., detta la
disciplina urbanistica che il dirigente del settore è tenuto
a rispettare nel rilascio del permesso a costruire.
7. Deve rilevarsi la genericità della censura svolta con
riguardo al reato di falso, non contenendo i ricorsi, al di
là del generico riferimento dell’intitolazione del motivo,
alcuna critica specifica all’ordinanza impugnata, mentre,
con riguardo al profilo della ricorrenza della clausola di
riserva contenuta nell’art. 323 cod. pen., essa non opera,
ricorrendo il concorso materiale del reato di abuso in atti
di ufficio e del reato di falso, poiché nel caso in esame
sono contestate condotte ulteriori e che non si esauriscono
nel reato di falso e segnatamente l’esonero dal pagamento
degli oneri di costruzione di cui all’art. 19 del d.p.r. 380
del 2001, dovendosi escludere il concorso formale tra il
delitto di abuso in atti di ufficio solo quando la condotta
addebitata, quale condotta di abuso in atti di ufficio, si
esaurisce nella commissione di un reato di falso (Sez. 6, n.
13849 del 28/02/2017, Rv. 269482 – 01).
In altri termini, la condotta addebitata ai ricorrenti, in
concorso con Sp., pubblico ufficiale, a titolo di abuso di
ufficio non si esaurisce, nelle sue componenti
storico-naturalistiche, nella commissione di un fatto
qualificabile come falso in atto pubblico.
Consegue, che non è ravvisabile alcuna violazione del
principio del ne bis in idem per evidente diversità
del fatto naturalistico (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 28.09.2020 n. 26834 - link a
www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Funzionari
pubblici più liberi. Addio (in parte) all’abuso d’ufficio.
Discrezionalità estesa. Le modifiche
previste dal dl 76/2020 convertito in legge. Obiettivo:
sbloccare lavori e spese.
Il pubblico funzionario che agisce in violazione di
regolamenti della pubblica amministrazione non commette
abuso d'ufficio. E, nel caso risulti già indagato, imputato
o addirittura condannato in sede penale per tale condotta,
l'Autorità giudiziaria dovrà procedere all'archiviazione del
procedimento, al proscioglimento dell'imputato, o alla
revoca della sentenza di condanna.
Dl semplificazioni e abuso d'ufficio.
Il dl 16/07/2020, n. 76 («Misure urgenti per la
semplificazione e l'innovazione digitale»), c.d. decreto
Semplificazioni, convertito in legge il 10 settembre con
modificazioni, è intervenuto anche sulla responsabilità
penale degli amministratori pubblici, attraverso la modifica
della disciplina dell'abuso d'ufficio, reato previsto e
punito dall'art. 323 del codice penale.
La fattispecie richiamata, inserita all'interno del codice
penale tra i delitti contro la p.a., è finalizzata a
tutelare, in coerenza ai principi enunciati dalla
Costituzione (art. 97, comma 2), il corretto funzionamento
della pubblica amministrazione, in termini di buon
andamento, imparzialità e trasparenza della stessa.
L'abuso d'ufficio prima del dl
semplificazioni.
Prima della riforma intervenuta con il dl Semplificazioni,
l'articolo 323 c.p. puniva, con la reclusione da uno a
quattro anni, «il pubblico ufficiale o l'incaricato di
pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o
del servizio, in violazione di norme di legge o di
regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un
interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri
casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un
ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un
danno ingiusto». In caso di rilevante gravità del
vantaggio o del danno, inoltre, era previsto un aumento
della pena detentiva.
Il «nuovo» abuso d'ufficio.
La nuova formulazione della norma ha cambiato la struttura
stessa della fattispecie di reato: da un lato, infatti, il
legislatore ha soppresso la locuzione «in violazione di
norme di legge o di regolamento», dall'altro, ha
previsto la sanzione penale nei confronti del pubblico
funzionario che agisce in «violazione di specifiche
regole di condotta espressamente previste dalla legge o da
atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino
margini di discrezionalità».
La restante parte dell'articolo non ha subito, invece,
ulteriori integrazioni e il testo è rimasto invariato.
Parziale abolizione del reato.
L'intervento normativo apportato dal dl Semplificazioni ha
abolito, innanzitutto, la rilevanza penale delle condotte
con cui il soggetto pubblico, agendo in violazione di norme
contenute nei regolamenti che spesso vengono adottati
all'interno della P.a., ha ottenuto un ingiusto vantaggio
patrimoniale.
In ordine alla parziale abolitio criminis dell'abuso
d'ufficio, non vanno dimenticate anche le inevitabili
ripercussioni sui fatti commessi prima dell'entrata in
vigore del dl Semplificazioni. Sul punto, il nostro
ordinamento prevede che «nessuno può essere punito per un
fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce
reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e
gli effetti penali» (art. 2, codice penale).
Ciò significa, in concreto, che ogni procedimento penale,
pendente o già definito con provvedimento irrevocabile di
condanna, avente per oggetto fatti di abuso d'ufficio privi
di attuale rilevanza penale, deve concludersi con pronuncia
favorevole nei confronti del pubblico funzionario coinvolto.
Condotta penalmente rilevante.
Il nuovo ambito di applicazione dell'abuso d'ufficio,
dunque, comprende, ora, le violazioni di «specifiche
regole di condotta» che devono essere necessariamente
previste dalla legge, o da atti aventi forza di legge (più
precisamente, da fonti primarie e non secondarie, ove si
collocano invece le misure regolamentari).
La discrezionalità.
Ai fini della contestazione dell'art. 323 c.p., le regole di
condotta eventualmente violate non devono consentire,
durante la fase applicativa, l'esercizio di un potere
discrezionale da parte del pubblico amministratore, aspetto
che rischia di accentuare i profili critici dell'attuale
figura di reato.
In altre e più chiare parole, la previsione dei c.d. «margini
di discrezionalità» evocata dalla norma, rischia di
estendere eccessivamente il campo d'azione del pubblico
funzionario e di neutralizzare, così, la potenziale
rilevanza penale anche di quelle condotte che presentano
indubbie connotazioni illecite.
L'impostazione di fondo.
Le ragioni di una modifica normativa così radicale,
intervenuta sul delicato versante della responsabilità
penale degli appartenenti alla pubblica amministrazione
(seppur limitata, ovviamente, alla sola fattispecie di abuso
d'ufficio), possono facilmente individuarsi nelle finalità
che hanno condotto ad una decretazione d'urgenza che fosse
dotata, nella prospettiva del legislatore, di tutti gli
strumenti necessari per affrontare la situazione di grave
crisi economica determinata dalle diverse misure
emergenziali degli ultimi mesi.
Il legislatore, ritenuta la «straordinaria necessità e
urgenza di realizzare un'accelerazione degli investimenti e
delle infrastrutture attraverso la semplificazione delle
procedure in materia di contratti pubblici e di edilizia»
(premesse al dl), ha voluto procedere, in via parallela,
alla «semplificazione in materia di responsabilità del
personale delle amministrazioni» non solo sul piano
penale, ma anche su quello erariale, con il dichiarato
obiettivo di incentivare l'operatività della pubblica
amministrazione, garantendo l'assenza (o, comunque, il forte
contenimento) di diversi profili di responsabilità in capo
alla stessa.
L'impostazione legislativa è insomma quella riassunta in
alcune slide diffuse dalla presidenza del consiglio: «funzionari
pubblici: basta paure conviene sbloccare» e «stop
alla paura della firma: i funzionari pubblici devono poter
sbloccare lavori e spese».
La responsabilità erariale.
Il dl 16/07/2020, nella prospettiva di contenere, il più
possibile, i rischi correlati alle diverse forme di
responsabilità in capo alla pubblica amministrazione, è
intervenuto non solo in ambito penale, con la nuova
strutturazione dell'art. 323, c.p. (abuso d'ufficio), ma ha
previsto una serie di rilevanti modifiche anche in tema di
responsabilità per danno erariale.
In particolare, i principali interventi hanno riguardato
proprio l'art. 1 della legge n. 20/1994 («Disposizioni in
materia di giurisdizione e controllo della Corte dei
conti»), secondo cui «la responsabilità dei soggetti
sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in
materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai
fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave,
ferma restando l'insindacabilità nel merito delle scelte
discrezionali».
Prova del dolo.
Il decreto legge, innanzitutto, ha inserito, all'art. 1
della legge n. 20/1994, la precisazione che «la prova del
dolo richiede la dimostrazione della volontà dell'evento
dannoso». Sul punto, non si può negare come
l'accertamento del dolo, nei termini indicati dalla nuova
disposizione, potrebbe risultare molto complesso,
considerati anche alcuni orientamenti della giurisprudenza
contabile.
Colpa grave.
La seconda modifica, rilevante anche se di carattere
transitorio, riguarda invece la soppressione della
responsabilità per colpa grave con riferimento ai fatti
commessi dall'entrata in vigore del dl Semplificazioni
(16/07/2020) fino al 31/12/2021. Tale limitazione di
responsabilità, definita da alcuni commentatori un vero e
proprio «scudo erariale», non si applica, invece, ai
danni cagionati dall'omissione o dall'inerzia del soggetto
agente.
Finalità della nuova responsabilità
erariale. La nuova
disciplina della responsabilità per danno erariale, figlia
della medesima impostazione che ha orientato la modifica del
delitto di abuso d'ufficio, conferma, quindi, la volontà del
legislatore di creare, con tutti i rischi e le criticità del
caso, un ampio spazio operativo per la pubblica
amministrazione (articolo
ItaliaOggi Sette del 14.09.2020). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Sussiste
il fumus commissi delicti del reato di abuso d'ufficio e
della contravvenzione urbanistica di costruzione sine titulo
sul rilievo che il permesso di costruire debba ritenersi
illecito e, dunque, tamquam non esset, per essere stato
rilasciato in violazione di legge, quale frutto di
collusione tra il richiedente ed il funzionario comunale che
lo ha firmato, falsamente attestando la sussistenza dei
presupposti, così procurando un ingiusto vantaggio
patrimoniale al richiedente stesso, nell'ambito di una
condotta illecita riconducibile ai delitti di cui all'art.
323 cod. pen. e di falso ideologico in autorizzazione
amministrativa.
---------------
1.2. Ciò premesso, osserva il Collegio che, a tacer d'altro
(e il rilievo vale per il vizio di motivazione, non
deducibile ex art. 325 cod. proc. pen., giusta quanto più
oltre si dirà), le doglianze proposte dal ricorrente non
inficiano la ratio decidendi che sorregge l'ordinanza
impugnata.
Ed invero, il Tribunale ha confermato il fumus commissi
delicti del reato di abuso d'ufficio e della
contravvenzione urbanistica di costruzione sine titulo
sul rilievo -non specificamente contestato dal ricorrente-
che il permesso di costruire dovesse ritenersi illecito e,
dunque, tamquam non esset, per essere stato
rilasciato in violazione di legge, quale frutto di
collusione tra i richiedenti ed il funzionario comunale che
lo firmò, falsamente attestando la sussistenza dei
presupposti, così procurando un ingiusto vantaggio
patrimoniale alla società in allora proprietaria dell'area,
nell'ambito di una condotta illecita riconducibile ai
delitti di cui all'art. 323 cod. pen. e di falso ideologico
in autorizzazione amministrativa.
Pacifica essendo, in tali casi, la configurabilità della
contravvenzione urbanistica ipotizzata (cfr., ex multis,
Sez. 6, n. 3606 del 20/10/2016, dep. 2017, Bonanno, Rv.
269345; Sez. 3, n. 7423 del 18/12/2014, dep. 2015, Cervino e
aa Rv. 263916; Sez. 4, n. 38824 del 17/09/2008, Raso e a.,
Rv. 241064; Sez. 3, n. 38735 del 11/07/2003, Schrotter e aa.,
Rv. 226576; Sez. U, n. 3 del 31/01/1987, Giordano, Rv.
175115), quantomeno con riguardo a quest'ultima -ciò che è
sufficiente a giustificare la misura cautelare disposta-
correttamente il Tribunale ha ritenuto irrilevante indagare
se la destinazione urbanistica dell'area stabilita dalle
previsioni vigenti avrebbe egualmente potuto consentire il
rilascio del titolo senza ricorrere a false attestazioni,
come nella specie invece avvenuto, secondo la ricostruzione
del giudice del merito cautelare.
Né rileva, ai fini della configurabilità del fumus
commissi delicti, l'indagine sul profilo psicologico
degli acquirenti del bene, trattandosi di tema evidentemente
estraneo al giudizio sulla sussistenza del reato ad altri
ascritto (Corte di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.08.2020 n. 23654). |
PUBBLICO IMPIEGO: Abuso
d'ufficio: la semplificazione che complica (27.07.2020
- link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La cosiddetta amministrazione difensiva non si combatte
eliminando la colpa grave o il reato di abuso d'ufficio
(31.05.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
INCARICHI PROGETTUALI: Al
progettista nonché direttore dei lavori, è stato contestato
di avere falsamente attestato, nella dichiarazione allegata
alla richiesta di agibilità, la conformità di opere edili di
manutenzione straordinaria al progetto e alle successive
varianti, l'avvenuta asciugatura dei muri e la salubrità
degli ambienti.
Si tratta di condotta certamente qualificabile ai sensi
dell'art. 481 cod. pen., in quanto tale attestazione,
provenendo da soggetto qualificato, ha la funzione di
fornire un'esatta informazione alla pubblica amministrazione
(circa la conformità al progetto di quanto realizzato e la
salubrità dei luoghi), pur non trattandosi di
un'attestazione obbligatoriamente prevista dal procedimento
amministrativo di riferimento, essendo comunque destinata a
provare la verità di quanto in essa rappresentato, cosicché
essa risulta destinata a svolgere la funzione certificativa
(dello stato dei luoghi e della loro salubrità) richiesta
dalla norma incriminatrice, con la conseguente correttezza
della affermazione della configurabilità del delitto di
falsità ideologica in certificato di cui all'art. 481 cod.
pen..
---------------
1. Con sentenza del 06.03.2019 la Corte d'appello di
Trieste, provvedendo sulla impugnazione proposta
dall'imputato nei confronti della sentenza del 27.05.2016
del Tribunale di Udine, con cui Gi.Po. era stato condannato
alla pena di 300,00 euro di multa in relazione al reato di
cui agli artt. 481 cod. pen., 76 d.P.R. 445/2000, 23 e 29
d.P.R. 380/2001 (ascrittogli per avere, quale progettista e
direttore dei lavori, attestato, contrariamente al vero, la
conformità di opere edilizie al progetto approvato e alle
successive varianti), ha ridotto la pena a 200,00 euro di
multa, ha revocato il beneficio della sospensione
condizionale della pena e riconosciuto quello della non
menzione della condanna, confermando nel resto la sentenza
impugnata.
2. Avverso tale sentenza l'imputato ha proposto ricorso per
cassazione, affidato a cinque motivi.
2.1. Con un primo motivo ha lamentato, ai sensi
dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l'errata
applicazione dell'art. 481 cod. pen., sulla base del rilievo
che la attestazione sottoscritta dal ricorrente, di cui era
stata contestata la falsità, non poteva essere qualificata
come certificato, con la conseguente erronea affermazione
della configurabilità del delitto di cui all'art. 481 cod.
pen.
...
2. Il primo motivo, mediante il quale è stata
denunciata l'errata applicazione dell'art.
481 cod. pen., a causa della affermazione della qualificabilità come
certificato della attestazione sottoscritta dal ricorrente,
non è fondato.
Va premesso che al ricorrente è stato contestato di avere,
quale progettista e direttore dei lavori, falsamente
attestato, nella dichiarazione allegata alla richiesta di
agibilità, la conformità di opere edili di manutenzione
straordinaria al progetto e alle successive varianti,
l'avvenuta asciugatura dei muri e la salubrità degli
ambienti: si tratta di condotta certamente qualificabile ai
sensi dell'art. 481 cod. pen., in quanto tale attestazione,
provenendo da soggetto qualificato, ha la funzione di
fornire un'esatta informazione alla pubblica amministrazione
(circa la conformità al progetto di quanto realizzato e la
salubrità dei luoghi), pur non trattandosi di
un'attestazione obbligatoriamente prevista dal procedimento
amministrativo di riferimento, essendo comunque destinata a
provare la verità di quanto in essa rappresentato (v. Sez.
F, n. 39699 del 02/08/2018, Orlando, Rv. 273811; Sez. 3, n.
15228 del 31/01/2017, Cucino, Rv. 269579; Sez. 5, n. 39513
del 11/05/2012, Brentel, Rv. 253733), cosicché essa risulta
destinata a svolgere la funzione certificativa (dello stato
dei luoghi e della loro salubrità) richiesta dalla norma
incriminatrice, con la conseguente correttezza della
affermazione della configurabilità del delitto di falsità
ideologica in certificato di cui all'art. 481 cod. pen. e
l'insussistenza della violazione di tale disposizione
lamentata dal ricorrente (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 28.01.2020 n. 3461). |
anno 2019 |
|
PUBBLICO IMPIEGO: L'assoluzione
perché il fatto non costituisce reato non basta per rimborso
delle spese legali.
Non è sufficiente per il dipendente pubblico che ambisca al
rimborso delle spese legali, sostenute per la propria difesa
in un processo penale, la formula contenuta nella sentenza
assolutoria «perché il fatto non costituisce reato», nel
caso in cui si è in presenza di una condotta asseritamente
in contrasto con gli interessi dell'ente, ossia tutte le
volte che il reato ipotizzato abbia visto l'ente come parte
offesa. D'altra parte, il datore di lavoro pubblico per
poter legittimamente procedere al rimborso, senza peraltro
incorrere in una fattispecie di danno erariale, deve agire
anche a tutela dei propri diritti e interessi.
Sono queste le conclusioni contenute nella
sentenza 12.11.2019 n. 2709 del TAR
Sicilia-Catania, Sez. I, che ha confermato il diniego del
rimborso delle spese legali reclamate dal dipendente.
Il fatto
Un dipendente pubblico è stato assolto dal reato di abuso di
ufficio con la formula «perché il fatto non costituisce
reato». Ha quindi richiesto il rimborso delle spese
legali sostenute nel procedimento penale in quanto si era in
presenza di fatti inerenti a ragioni di servizio legate al
rapporto di impiego con l'ente.
L'ente pubblico ha, tuttavia, denegato il rimborso poiché,
malgrado l'avvenuta assoluzione del dipendente per carenza
dell'elemento soggettivo del reato, è stata pur sempre
riscontrata una condotta asseritamente in contrasto con gli
interessi dell'ente.
Secondo l'ente, infatti, il dipendente avrebbe posto, in una
selezione pubblica, condotte non coerenti con i canoni di
legalità, imparzialità e buon andamento dell'azione della
pubblica amministrazione, il cui rispetto è presupposto
indispensabile del diritto al rimborso delle spese legali
sostenute.
La conferma dei giudici amministrativi
Per il Tar, dalla sentenza di assoluzione del dipendente si
rileva che, piuttosto che smentire, la stessa ha confermato,
in capo al dipendente l'assenza di una partecipazione
associativa al delitto, ma, nello stesso tempo, ha fatto
emergere un evidente conflitto d'interessi nel quale il
dipendente ha operato stante la consapevolezza di una
oggettiva illegittimità della propria condotta.
D'altra parte, i giudici amministrativi hanno evidenziato
come il datore di lavoro pubblico, per poter legittimamente
procedere al rimborso, senza esporsi a possibili rilevi di
danno erariale, deve agire anche a tutela dei propri diritti
e interessi tanto che la normativa richiede di scegliere un
legale di comune gradimento con il dipendente interessato.
In conclusione, nel caso di specie l'accusa era quella di
aver commesso un reato che ha visto l'ente come parte offesa
e, quindi, in oggettiva situazione di conflitto di
interessi, con conseguente impossibilità a disporre il
pagamento richiesto (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa
del 06.12.2019).
---------------
SENTENZA
8.- Ora, al fine di assumere maggiori elementi
conoscitivi, il Collegio ha acquisito, con apposita
ordinanza istruttoria, copia integrale della sentenza penale
di cui trattasi dalla cui lettura ha tratto elementi di
giudizio che inducono a ritenere sorrette da logicità e
sufficiente supporto motivazionale le argomentazioni
espresse nei pareri dell’Avvocatura dello Stato, ciò che
induce a ritenere immune dalle censure prospettate l’operato
-OMISSIS-.
9.- Ed invero, dalla medesima sentenza emerge come la
condotta (tra gli altri) della ricorrente sia stata
caratterizzata dall’aver concorso all’adozione di atti
contra legem poiché manifestamente disallineati rispetto
al decisum del Giudice amministrativo, il cui
pronunciamento ha, di fatto, subito una torsione che ha
realizzato, in danno -OMISSIS- interessi diversi da quelli
alla cui tutela era preordinata la decisione giudiziaria.
L’affermazione dell’Amministrazione circa la sussistenza di
un conflitto d’interessi della ricorrente con quelli
-OMISSIS- si disvela, dunque, del tutto logica e coerente
con l’incedere dell’ampia narrazione dei fatti espressi
nella sentenza penale (alla quale per esigenze di
sinteticità si rinvia), ciò che, su un piano astratto,
pacificamente impedisce il riconoscimento, a carico della
pubblica amministrazione–datore di lavoro, del beneficio del
rimborso delle spese legali al dipendente pubblico.
L’assoluzione, a ben vedere, è maturata in un contesto
processuale che, piuttosto che smentire, ha confermato, in
capo alla parte ricorrente, l’assenza di una partecipazione
associativa al delitto, ma, nello stesso tempo, un evidente
conflitto d’interessi nel quale la stessa ha operato stante
la consapevolezza di una oggettiva illegittimità della
propria condotta, opposta a quella segnata dal decisum
giurisdizionale amministrativo, rispetto all’interesse
dell’Ente di appartenenza a una procedura selettiva corretta
(in tal senso, ex aliis, cfr. Cons. giust. amm. sic.
n. 606 del 2014).
Sul punto deve essere ulteriormente evidenziato che il
datore di lavoro pubblico, per poter legittimamente
procedere al rimborso (senza peraltro incorrere in una
fattispecie di danno erariale) deve agire anche a tutela dei
propri diritti ed interessi (tant’è che in talune ipotesi
inerenti al pubblico impiego privatizzato la p.a. è chiamata
a scegliere un legale di comune gradimento con il dipendente
interessato), sicché in considerazione che nel caso di
specie l'accusa era quella di aver commesso un reato che ha
visto l’Università come parte offesa (e, quindi, in
oggettiva situazione di conflitto di interessi), il diritto
al rimborso non può che subire qui, sotto tale profilo, una
radicale dequotazione.
10.- Ciò precisato, non può qui utilmente invocarsi
l’evidenziato presunto difetto di competenza dell’Avvocatura
dello Stato nell’aver esaminato «il merito» della
vicenda procedimentale ai fini dell’espressione del parere
di competenza: essa, nella valutazione della congruità delle
somme richieste, non può prescindere dall’esame della
sussistenza, in radice, dei presupposti per la relativa
liquidabilità, qui correttamente ritenuti carenti, al di là
di ogni precedente pronunciamento della stessa Avvocatura
dello Stato, irrilevante in quanto non in linea con
l’assetto fattuale della vicenda.
11.- Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso va
rigettato. |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: REATI
CONTRO LA PA/ Abuso d’ufficio per il sindaco che punisce lo
zelo. Punito il comportamento ritorsivo contro un dipendente
diligente.
Abuso d’ufficio per il sindaco che non rinnova l’incarico e
nega l’indennità al responsabile di area come ritorsione per
il suo zelo. E il reato -oltre alla valutabilità del danno
il danno economico e professionale- scatta a prescindere dal
diritto o meno del dipendente alla riconferma.
La colpa del funzionario era di aver agevolato
l’accertamento della responsabilità contabile, poi esclusa,
del primo cittadino e della giunta in merito ad alcune
nomine, e nell’aver dato seguito, malgrado sconsigliato in
maniera “pressante”, ad iniziative per presunti illeciti
della polizia locale. Un comportamento virtuoso che gli era
costato il rinnovo della nomina a responsabile dell’area
vigilanza e le indennità: in pratica un demansionamento.
Per la Corte di Cassazione (Sez. VI penale,
sentenza 23.05.2019 n. 22871), che avalla la
linea della Corte d’Appello, il sindaco con le sue azioni
ritorsive e discriminatorie, aveva prima di tutto violato la
Costituzione. E, in particolare l’articolo a tutela del buon
andamento e dell’imparzialità della Pa, e l’articolo ,
secondo il quale i cittadini a cui sono affidate funzioni
pubbliche devono adempierle con disciplina e onore.
Una lettura che non era piaciuta al ricorrente, secondo il
quale, la Corte di merito aveva valorizzato la Carta per il
reato di abuso d’ufficio (articolo del Codice penale)
anziché norme specifiche. Ad avviso della difesa, infatti,
la Costituzione non ha un contenuto precettivo, mentre per
contestare il reato sarebbe stato necessario individuare la
violazione di una specifica disciplina.
La Cassazione condivide l’impostazione dei giudici di merito
che, pur avendo analizzato le norme sul conferimento degli
incarichi e sull’impiego pubblico, non le hanno messe al
centro della loro decisione.
Chiarito che il demansionamento c’era stato perché non erano
stati assecondati i desiderata del sindaco, il reato, e la
conseguente valutabilità dei danni, ci sono, infatti, al di
là del diritto al rinnovo dell’incarico e all’indennità. La
Cassazione spiega che l’abuso d’ufficio «fa riferimento a
una condotta che non è genericamente connotata da abuso, ma
deve essere caratterizzata da violazione di norme di legge o
di regolamento ovvero dall’omessa astensione».
Il legislatore ha voluto dunque delimitare con più
precisione la sfera dell’illecito «in modo che non
consentisse indebite interferenze nell’azione amministrativa
e implicasse la chiara definizione dei canoni di riferimento».
E non si può affermare che il riferimento alla legge non
includa le fonti sovraordinate: prima fra tutte la
Costituzione. In questo quadro pesa l’articolo , da valutare
in sinergia con l’articolo , che impone di esercitare con
disciplina e onore le funzioni pubbliche e ai pubblici
ufficiali di assicurare il buon andamento e l’imparzialità
dell’ amministrazione.
Solo in apparenza la Carta introduce canoni di carattere
generale, in realtà le direttive hanno un immediato risvolto
applicativo. È chiaro il rilievo dato all’inosservanza del
principio di imparzialità che mette “fuori legge”
ingiustificate preferenze, favoritismi e vessazioni
intenzionali e discriminatorie (articolo Il Sole 24 Ore
del 24.05.2019).
---------------
La condotta evidenzia discriminazioni e
ritorsioni.
Risponde del reato di abuso di ufficio il sindaco che
discrimina e fa ritorsioni nei confronti del responsabile di
un settore amministrativo dell'ente locale, non
rinnovandogli l'incarico perché non ha seguito le sue
indicazioni e procurandogli un danno connesso alla mancata
corresponsione di indennità associate alla posizione e a un
sostanziale demansionamento.
Così la Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la
sentenza 23.05.2019 n. 22871.
Il delitto di abuso d'ufficio nella formulazione che risulta
dalle modifiche introdotte dalla legge 234/1997, fa
riferimento a una condotta che non è genericamente connotata
da abuso, ma deve essere caratterizzata da violazione di
norme di legge o di regolamento ovvero dall'omessa
astensione. Il legislatore ha voluto in questo modo
delimitare con più precisione la sfera dell'illecito,
circoscrivendolo entro un ambito che non consentisse
indebite interferenze nell'azione amministrativa e
implicasse la chiara definizione dei canoni esterni di
riferimento.
Nel caso in esame è stato ravvisato il delitto di abuso di
ufficio quando «la condotta del pubblico ufficiale sia
svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio
del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla
sola realizzazione di un interesse collidente con quello per
il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale
ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la
violazione di legge, poiché lo stesso non viene esercitato
secondo lo schema normativo che ne legittima l'attribuzione».
E nel contempo si comprende che sia stato dato rilievo
all'inosservanza del principio costituzionale
dell'imparzialità, che preclude ingiustificate preferenze o
favoritismi ovvero intenzionali vessazioni o
discriminazioni.
Ciò significa che l'articolo 323 del codice penale (reato di
abuso di ufficio), pur non essendo di per sé riferibile alla
violazione di norme poste da fonti diverse da quelle
menzionate, tuttavia ricomprende la violazione di quei
canoni costituzionali, che assumono precisa valenza e
costituiscono la base stessa dell'esercizio dei pubblici
uffici. Ne deriva, affermano i giudici di legittimità, che
il riscontro del carattere discriminatorio e ritorsivo
dell'azione amministrativa non vale solo a qualificare ab
extrinseco il movente, ma rileva sul piano oggettivo,
connotando il contenuto di tale azione e rendendo la
condotta penalmente tipica.
Per la Cassazione è corretto il ragionamento dei giudici di
merito, che hanno ravvisato l'illiceità della condotta del
sindaco ricorrente proprio in ragione del suo contenuto
discriminatorio e ritorsivo, contrastante non con
evanescenti principi generali bensì con una precisa
direttiva, sottostante all'azione di qualsiasi pubblico
ufficiale, che implica l'osservanza della causa del potere
assegnato e il rifiuto di qualsivoglia pregiudiziale
discriminazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
24.05.2019).
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MASSIMA
2. Il secondo motivo è infondato.
2.1. Va in effetti rimarcato che la contestazione di cui al
capo B), per la quale è stata pronunciata condanna, nel far
riferimento al disposto dell'art. 97 Cost. e dell'art. 1,
comma 1, legge 241 del 1990, intendeva far leva
essenzialmente sul carattere discriminatorio e ritorsivo
della condotta del ricorrente in danno del Sa., indicando in
tale quadro alcuni elementi descrittivi, aventi lo scopo di
corroborare tale assunto, costituiti dall'utilizzo di una
motivazione apparente, dalla nomina di altro soggetto privo
di diploma di laurea, in assenza di una procedura
comparativa, dal contributo che era stato fornito dal Sa.
per l'accertamento della responsabilità contabile del
Sindaco e della Giunta per i fatti di cui all'originario
capo A), dal fatto che il Sa. aveva contravvenuto alle
espresse richieste del Sindaco di non dar corso ad
iniziative per presunti illeciti commessi da agenti della
Polizia locale.
La Corte ha sul punto condiviso l'impostazione del primo
Giudice, che proprio sul carattere discriminatorio e
ritorsivo della condotta in danno del Sa. ha fondato il
proprio giudizio, nel quale non ha assunto un rilievo
centrale il riferimento agli artt. 110 d.lgs. 267 del 2000 e
19 d.lgs. 165 del 2001, pur menzionati nel capo di
imputazione.
2.2. Ciò posto, le doglianze del ricorrente non possono
trovare accoglimento.
L'art.
323 cod. pen. nella formulazione risultante dalle
modifiche introdotte dalla legge 234 del 1997, fa
riferimento ad una condotta che non è genericamente
connotata da abuso, ma deve essere caratterizzata da
violazione di norme di legge o di regolamento ovvero
dall'omessa astensione.
Il legislatore ha voluto in tal modo delimitare con più
precisione la sfera dell'illecito, circoscrivendolo entro un
ambito che non consentisse indebite interferenze nell'azione
amministrativa e implicasse la chiara definizione dei canoni
esterni di riferimento.
In tale prospettiva la violazione di legge o di regolamento
non può che essere intesa come rappresentativa del
superamento di quei canoni esterni, posti da fonti ben
individuate.
D'altro canto non può in alcun modo affermarsi che il
riferimento alla legge non includa altresì quello a fonti
sovraordinate, prima di tutto la Carta fondamentale, cioè la
Costituzione, ove parimenti in grado di definire in modo
preciso i limiti dell'azione amministrativa.
Ed anzi deve al riguardo rimarcarsi come l'intera disciplina
di tale azione debba essere collocata nell'ambito
costituzionale, in relazione a precise direttive che dalla
Costituzione possano desumersi sia sul versante della
stretta correlazione tra il potere affidato e la fonte di
esso sia su quello dell'effettivo svolgimento dell'azione
amministrativa.
In tale quadro viene in evidenza l'art.
97 Cost., da valutare in sinergia con l'art.
54 Cost.: ed invero si desume da tali norme che
le funzioni pubbliche devono essere
esercitate con disciplina ed onore e che i pubblici uffici
devono essere organizzati secondo disposizioni di legge, in
modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità
dell'amministrazione.
Solo in apparenza per tale via sono introdotti canoni di
carattere generale, in quanto in realtà siffatte direttive
contengono un immediato risvolto applicativo, imponendo
da un lato il rispetto della causa di attribuzione del
potere, in modo che lo stesso non sia esercitato al di fuori
dei suoi presupposti, e dall'altro l'imparzialità
dell'azione, la quale non deve essere contrassegnata da
profili di discriminazione e ingiustizia manifesta, aspetti
di per sé contrastanti con l'intero assetto costituzionale
dei poteri amministrativi, come in concreto poi disciplinati
dalla legge.
Ben si comprende su tali basi che sia stato
ravvisato il delitto di abuso di ufficio quando «la
condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con
le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche
quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione
di un interesse collidente con quello per il quale il potere
è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello
sviamento di potere, che integra la violazione di legge,
poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema
normativo che ne legittima l'attribuzione»
(Cass. Sez. U. n. 155 del 29/09/2011, dep. nel 2012, Rossi,
rv. 251498; Cass. Sez. 6, n. 27816 del 02/04/2015, Di Febo,
rv. 263932).
E nel contempo si comprende che sia stato
dato rilievo all'inosservanza del principio costituzionale
dell'imparzialità, che preclude ingiustificate preferenze o
favoritismi ovvero intenzionali vessazioni o discriminazioni
(Cass. Sez. 6, n. 49549 del 12/06/2018, Laimer, rv. 274225;
Cass. Sez. 2, n. 46096 del 27/10/2015, Giorgino, rv.
265464).
Ciò significa che l'art.
323 cod. pen., pur non essendo di per sé riferibile alla
violazione di norme poste da fonti diverse da quelle
menzionate, tuttavia ricomprende la violazione di quei
canoni costituzionali, che assumono precisa valenza e
costituiscono la base stessa dell'esercizio dei pubblici
uffici.
Ne deriva che il riscontro del carattere
discriminatorio e ritorsivo dell'azione amministrativa non
vale solo a qualificare ab extrinseco il movente, ma
rileva sul piano oggettivo, connotando il contenuto di tale
azione e rendendo la condotta penalmente tipica.
2.3. Ed allora deve rilevarsi la
correttezza del ragionamento dei Giudici di merito, che
hanno ravvisato l'illiceità della condotta del ricorrente
proprio in ragione del suo contenuto discriminatorio e
ritorsivo, contrastante non con evanescenti principi
generali bensì con una precisa direttiva, sottostante
all'azione di qualsiasi pubblico ufficiale, implicante
l'osservanza della causa del potere assegnato e il rifiuto
di qualsivoglia pregiudiziale discriminazione.
In particolare, anche sulla scorta di quanto rilevato dal
Giudice del lavoro nel provvedimento del 15/10/2014, è stato
osservato:
- che l'apertura del procedimento per il
mancato rinnovo al Sa. dell'incarico di Responsabile
dell'Area Vigilanza era stato caratterizzato da motivazioni
(riferite alla necessità di rotazione per ragioni di
prevenzione della corruzione) del tutto pretestuose, prive
di qualsivoglia riscontro e intrinsecamente contraddittorie
rispetto a quanto in diversa occasione rilevato;
- che il Sa. si era per contro distinto
nel propiziare l'accertamento della responsabilità erariale
del Sindaco e della Giunta nella vicenda della nomina di
Ci.Ro. (oggetto dell'originario capo A) e nel contravvenire
ai pressanti suggerimenti del Sindaco di non dar corso ad
iniziative riguardanti presunti illeciti addebitabili
all'agente Ch.;
- che al momento di procedere alla
nomina del nuovo Responsabile dell'Area Sicurezza, il
Sindaco aveva del tutto omesso di procedere ad una
valutazione comparativa, assegnando l'incarico a Qu.Lu.
appena transitato in mobilità nel ruolo del Comune, ma
sprovvisto del diploma di laurea, e ponendo il Sa. in
posizione addirittura subordinata a colui che era stato il
suo vice;
- che la richiesta di assegnazione di
un'indennità di coordinamento o di maggiorazione
dell'indennità di posizione, era stata negata senza una
sostanziale motivazione, dopo che nel luglio 2013 il
Sindaco, con una mail, aveva mostrato di correlare
l'accoglimento della richiesta al modo in cui il Sa. avrebbe
gestito la questione riguardante gli illeciti addebitati al
Ch..
Tali elementi sono stati tutt'altro che
arbitrariamente posti a fondamento del carattere ritorsivo e
discriminatorio del trattamento riservato al Sa., non
rilevando la circostanza che il predetto avesse o meno uno
specifico diritto al rinnovo ovvero al riconoscimento
dell'indennità, a fronte del contenuto assunto dall'azione
amministrativa e del concreto sviamento del potere,
esercitato con modalità contrastanti con le ragioni poste a
fondamento di esso.
Prive di rilievo risultano in tale prospettiva anche le
deduzioni, peraltro largamente assertive, riguardanti
l'interpretazione degli artt. 50, 107, 109 e 110 d.lgs. 267
del 2000, a fronte del carattere assorbente del rilevato
profilo di illiceità, qualificato anche dalla mancata
adozione di un'adeguata valutazione comparativa, tale da
costituire specifica giustificazione della determinazione
assunta: va invero rilevato come tale
mancanza costituisca dato sintomaticamente idoneo a
rafforzare il giudizio in ordine al contenuto
discriminatorio di tale determinazione, così come la
sostanziale assenza di una specifica motivazione del mancato
riconoscimento dell'indennità, a fronte di quanto
precedentemente prospettato in termini di correlazione con i
desiderata del Sindaco, suffraga la valenza ritorsiva del
diniego, quand'anche legato a valutazione discrezionale
(per il rilievo della motivazione deve del resto richiamarsi
Cass. Sez. 6, n. 13341 del 27/10/1999, Stagno D'Alcontres,
rv. 215278, nonché la più recente Cass. Sez. 6, n. 21976 del
05/04/2013, Paiardini, rv. 256549).
E' del tutto inconferente infine la circostanza che la fonte
dell'indennità fosse costituita da una convenzione, non
riconducibile né alla legge né al regolamento: in realtà
deve ribadirsi come la valutazione di illiceità riposi anche
in questo caso sulla valenza discriminatoria e ritorsiva del
diniego, nei termini già descritti.
3. E' parimenti infondato il terzo motivo.
3.1. Con riguardo al tema della c.d. doppia
ingiustizia, si rileva in generale che accanto al profilo
della violazione di legge o di regolamento (o della
violazione dell'obbligo di astensione) che deve connotare la
condotta, deve individuarsi il profilo dell'ingiustizia del
vantaggio patrimoniale o del danno, che costituiscono, in
alternativa, l'evento consumativo del delitto di abuso di
ufficio.
Tale ingiustizia può essere individuata sia
in base a profili autonomi rispetto a quelli che connotano
la condotta sia quale proiezione di quegli stessi profili,
ove idonei a qualificare il risultato prodotto
(sul punto Cass. Sez. 6, n. 48913 del 04/11/2015, Ricci, rv.
265473; Cass. Sez. 6, n. 11394 del 29/01/2015, Strassoldo,
rv. 262793).
D'altro canto la nozione di danno
ingiusto deve essere intesa non solo con riguardo a
situazioni patrimoniali e a diritti soggettivi perfetti
(Cass. Sez. 6, n. 39452 del 07/07/2016, Brigandì, rv.
268222), dovendosi aver riguardo ad ogni
tipo di aggressione arrecata a situazioni soggettive di
pertinenza di un soggetto, nel presupposto che la stessa sia
giuridicamente ingiustificata e tale da produrre conseguenze
lesive.
Assume infatti rilievo la fattispecie di
danno ingiusto evocata dall'art.
2043 cod. civ., riferibile anche alla lesione di
interessi legittimi
(sul punto dopo l'analisi di Cass. Civ. Sez. U., n. 500 del
22/07/1999, rv., si rinvia per più recenti puntualizzazioni
del tema a Cass. Civ., Sez. 1, n. 16196 del 20/06/2018, rv.
649479; Cass. Sez. L., n. 7043 del 13/04/2004, rv. 572035),
ferma restando la concreta valutabilità
della «chance», particolarmente rilevante nel caso di
comparazione di poche posizioni.
3.2. In tale prospettiva è all'evidenza infondata la
doglianza incentrata sulla non configurabilità di un diritto
soggettivo del Sa. a vedersi confermato l'incarico ed a
fruire dell'indennità richiesta.
Al contrario deve condividersi l'assunto dei Giudici di
merito secondo i quali la condotta
discriminatoria e ritorsiva del ricorrente, sostenuta
altresì da quello specifico animus, si è proiettata
sul Sa., determinando l'intenzionale pregiudizio della sua
posizione, valutabile in termini professionali e
patrimoniali, pur a prescindere dalla sussistenza di un vero
e proprio diritto soggettivo, in quanto ha compromesso in
quello specifico momento la possibilità del Sa. di
continuare a svolgere le medesime mansioni, ne ha per contro
determinato il sostanziale demansionamento, con
sottoposizione a soggetto precedentemente a lui sottoposto,
ha significato il mancato riconoscimento dell'indennità, che
lo stesso Sindaco aveva mostrato di voler condizionare a
comportamenti in linea con i suoi desiderata.
Tali effetti lesivi della condotta sono
stati dunque correttamente qualificati come di per sé
ingiusti, in quanto tali da pregiudicare la posizione del
Sa. e da non trovare alcuna giuridica giustificazione, avuto
riguardo alle illecite determinazioni assunte.
Non rileva in
senso contrario che in prosieguo di tempo, dopo
l'annullamento disposto dal Giudice del lavoro, fosse stato
riattivato il procedimento con valutazione comparativa, cui
il Sa. aveva omesso di partecipare, e fosse stata assunta
una nuova determinazione in merito alla spettanza
dell'indennità con esito negativo per lo stesso Sa.,
avallato questa volta dal Giudice del lavoro, a fronte di
addotti persistenti profili di discriminatorietà.
Va infatti rimarcata in questa sede la
lesione già prodottasi, in conseguenza dell'illecito
esercizio delle funzioni amministrative e del contenuto
discriminatorio delle relative determinazioni, tali da
arrecare di per sé, «hic et nunc», un pregiudizio
contra ius, peraltro assistito dall'intenzionalità,
insita nello stesso connotato di ritorsione sotteso
all'agire amministrativo. |
PUBBLICO IMPIEGO: Abuso
d'ufficio e falso al comandante della polizia locale che
tollera il commercio illegale.
Il comandante della Polizia locale che chiude un occhio su
una serie di attività illecite dei venditori ambulanti è
responsabile penalmente e non trova giustificazione neanche
quando lamenta di aver avuto un atteggiamento non doloso, ma
di semplice e diffusa tolleranza.
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I reati per i quali è intervenuta condanna nei due gradi di
merito chiamano in causa Be. nella qualità di pubblico
ufficiale in quanto Comandante della Polizia Locale di
Bagnara Calabria:
- con il capo C) è contestato il
reato continuato di abuso d'ufficio, per aver procurato ad
un ambulante sprovvisto di autorizzazione un ingiusto
vantaggio patrimoniale consistito nel libero svolgimento
dell'attività e nell'ingiusto risparmio delle sanzioni
amministrative (accertato il 26/06/2012);
- con il capo D) sono contestati
i reati continuati di omissione d'atti d'ufficio e di omessa
denuncia in relazione alla mancata identificazione degli
ambulanti autori del reato di cui all'art. 474 cod. pen. e
alla conseguente mancata adozione di atti di polizia
giudiziaria (accertato il 30/09/2012);
- con il capo F) sono contestati i reati
continuati di omissione d'atti d'ufficio e di omessa
denuncia in relazione alla mancata identificazione degli
autori di un abuso edilizio e alla conseguente mancata
adozione di atti di polizia giudiziaria (accertato il
26/06/2012);
- con il capo L) è contestato il reato di falsità
ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atto pubblico,
perché, a seguito di presentazione di istanza da parte di
Fr.An.Ca. diretta ad ottenere l'autorizzazione ad occupare
una porzione di suolo pubblico per un'attività commerciale,
formava un parere attestando falsamente che l'occupazione
rispettava le prescrizioni del codice della strada, laddove
l'occupazione stessa insisteva tra due strade -con ciò
creando pericolo per la circolazione veicolare- e
interamente sul marciapiede (il 05/07/2011);
- con il capo M) è contestato il reato di falsità
ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atto pubblico,
perché attestava falsamente in una nota esplicativa di aver
provveduto ad una ricognizione generale delle occupazioni
già in essere da parte degli esercizi commerciali,
accertando che le occupazioni relative ad una serie di
locali non rispettavano i requisiti del codice della strada,
laddove già all'atto del rilascio del parere le occupazioni
non erano conformi a detti requisiti (il 27/06/2012);
- con il capo O) è contestato in concorso a Be., a
Ca.Fu. e ad An.Fu. il reato continuato di invasione di suolo
demaniale (accertato il 09/08/2012).
...
2. Muovendo dal ricorso nell'interesse di Be., il primo
motivo, nella parte relativa all'imputazione sub C),
è inammissibile.
Ripercorso il compendio probatorio nella parte d'interesse,
la Corte di appello ha osservato che i dati probatori
rendono ragione non già di un singolo episodio nel quale
l'imputato ha mostrato un atteggiamento di tolleranza nei
confronti di un commerciante abusivo, ma di un
indiscriminato e diffuso clima di illegalità che investiva
tutto il territorio di Bagnara Calabra: i fatti di cui
all'imputazione, osserva dunque la Corte distrettuale, sono
ben lontani dall'atteggiamento di tolleranza prospettato
dalla difesa, in quanto rappresentano «una sorta di
scelta dettata dalle priorità che portavano a privilegiare
taluni aspetti piuttosto che altri», colorandosi di «vera
e propria tolleranza all'illegalità diffusa che mal si
concilia ed anzi si contrappone a quelli che sono i doveri
del pubblico ufficiale», tanto più che Be. «non si
limitava ad una condotta tendente a favorire il commerciante
abusivo ma andava oltre rallentando l'iter relativo alla
contravvenzione elevata mostrando con tale condotta
successiva la volontà di favorire il predetto commerciante».
Nei termini indicati, la sentenza impugnata ha dato conto
della prova del dolo intenzionale sulla base di una serie di
indici fattuali, tra i quali assumono rilievo l'evidenza, la
reiterazione e la gravità delle violazioni (Sez. 3, n. 35577
del 06/04/2016, Cella, Rv. 267633), ossia di elementi
concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un
vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto (Sez.
6, n. 52882 del 27/09/2018, Pastore, Rv. 274580).
Il ricorso reitera le censure in ordine al dolo intenzionale
e alla riconducibilità dei fatti ad una sorta di tolleranza
occasionale, omettendo di confrontarsi con i dati richiamati
dal giudice di appello e con le inferenze tratte, in termini
immuni da vizi logici, sulla base di essi: dati che, come si
è visto, rendono ragione del carattere tutt'altro che
occasionale delle condotte oggetto dell'imputazione e della
loro proiezione finalistica a "favorire" l'ambulante,
secondo il testuale riferimento tratto da una conversazione
intercettata.
Le censure, pertanto, sono del tutto carenti della
necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate
dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento
dell'impugnazione (Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012, Pezzo,
Rv. 253849).
3. Il primo motivo, nella parte relativa all'imputazione
sub D), è del pari inammissibile.
In premessa, mette conto rimarcare come i giudici di merito
abbiano ricondotto alla fattispecie incriminatrice di cui
all'art. 361 cod. pen. l'omissione del doveroso rapporto
all'autorità giudiziaria della messa in vendita di prodotti
contraffatti da parte dei venditori ambulanti e a quella di
cui all'art. 328 cod. pen. l'omesso sequestro della merce e
l'omessa identificazione dei detentori.
Ciò posto, le censure reiterano quelle esaminate e disattese
dalla Corte distrettuale, che ha escluso l'invocata
irrilevanza penale delle omissioni in questione in ragione
di asserite ragioni di interesse superiore (collegate alla
festa patronale e al notevole afflusso di persone),
richiamando i dati probatori dimostrativi, da un lato,
dell'ostacolo alla viabilità determinato proprio
dall'esposizione della merce contraffatta e, dall'altro,
della circostanza che l'imputato omise di intervenire per
assecondare le sollecitazioni di un terzo («un santo in
paradiso che li ha salvati»).
Anche per questo capo, il ricorso si sottrae alla specifica
disamina critica della motivazione resa dalla Corte
distrettuale sulla base di dati probatori non contestati e
con argomentazione esente da cadute di conseguenzialità
logica (Corte di Cassazione, Sez. V penale,
sentenza 21.05.2019 n. 22145). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Sull'abuso
d'ufficio del pubblico dipendente.
Il dolo intenzionale tipico dell'art.
323 cod. pen. prescinde dall'accertamento dell'accordo
collusivo con la persona che si intende favorire, potendo
essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità
dell'atto, purché tale valutazione non discenda in modo
apodittico e parziale dal comportamento "non iure"
dell'agente, ma risulti anche da elementi ulteriori,
concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un
vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto.
Il dolo intenzionale deve essere,
quindi, ricavato da elementi ulteriori rispetto al
comportamento "non iure" dell'agente, che evidenzino la
effettiva "ratio" ispiratrice del suo comportamento,
cosicché la certezza che la volontà
dell'agente sia stata orientata proprio a procurare il
vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto non può provenire
esclusivamente dal comportamento "non iure", ma deve trovare
conferma anche in altri elementi sintomatici, quali la
specifica competenza professionale del soggetto attivo,
l'apparato motivazionale del provvedimento, la presenza o
meno di anomalie istruttorie ed i rapporti personali tra
l'agente e il soggetto o i soggetti, che dal provvedimento
ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno.
---------------
Ulteriore carenza di motivazione si riscontra anche in
ordine al concorso del ricorrente nel reato di abuso
d'ufficio, in quanto il Tribunale ha ritenuto integrato il
reato in ragione della macroscopica illegittimità della
proroga rilasciata dall'ufficio tecnico, nonostante la
Soprintendenza archeologica avesse segnalato, già
nell'agosto 2015, l'assenza di documentazione relativa ad
una concessione demaniale marittima rilasciata al Ge.,
sollecitandone la trasmissione urgente per l'adozione dei
provvedimenti vincolanti di competenza, in assenza dei quali
la concessione doveva ritenersi illegittima; ha inoltre,
affermato che il rilascio della proroga in violazione di
legge e l'evidente vantaggio patrimoniale conseguito dal Ge.
rende superfluo l'accertamento di un accordo collusivo tra
il Ge. e il dirigente dell'ufficio tecnico.
La motivazione sul punto è apparente, in quanto secondo
l'orientamento di questa Corte il dolo intenzionale tipico
dell'art.
323 cod. pen. prescinde dall'accertamento dell'accordo
collusivo con la persona che si intende favorire, potendo
essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità
dell'atto, purché tale valutazione non discenda in modo
apodittico e parziale dal comportamento "non iure"
dell'agente, ma risulti anche da elementi ulteriori,
concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un
vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto (Sez.
6, n. 52882 del 27/09/2018, Pastore, Rv. 274580 - 01; Sez.
3, n. 57914 del 28/09/2017, Di Palma, Rv.272331).
Il dolo intenzionale deve essere, quindi, ricavato da
elementi ulteriori rispetto al comportamento "non iure"
dell'agente, che evidenzino la effettiva "ratio"
ispiratrice del suo comportamento (Sez. 2, n. 23019 del
05/05/2015, Adamo, Rv. 264280), cosicché la certezza che la
volontà dell'agente sia stata orientata proprio a procurare
il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto non può
provenire esclusivamente dal comportamento "non iure",
ma deve trovare conferma anche in altri elementi
sintomatici, quali la specifica competenza professionale del
soggetto attivo, l'apparato motivazionale del provvedimento,
la presenza o meno di anomalie istruttorie ed i rapporti
personali tra l'agente e il soggetto o i soggetti, che dal
provvedimento ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono
danno (Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013, Barla, Rv. 255368;
Sez. 6, n. 35814 del 27/06/2007, Pacia, Rv. 237916), nella
specie mancanti, specie a fronte di proroghe rilasciate in
base a disposizioni normative, che prorogavano i termini di
scadenza delle concessioni di beni demaniali marittimi con
finalità turistico-ricreative.
Il concorso del ricorrente non risulta sorretto da una
adeguata e logica motivazione, non risultando evidenziato il
previo concerto e/o l'istigazione o la determinazione
criminosa del privato né valutato l'affidamento riposto dal
privato nel comportamento della P.A., che sino all'adozione
dell'ultimo provvedimento censurato aveva esitato
favorevolmente le richieste di proroga (Corte di Cassazione,
Sez. VI penale,
sentenza 30.04.2019 n. 17989). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Omessa denuncia degli abusi edilizi, il dirigente comunale
non ha responsabilità oggettiva.
Non risponde automaticamente del reato
di omessa denuncia, disciplinato dall'articolo 361 del
codice penale -nel caso di un abuso edilizio- il
responsabile dell'ufficio tecnico del comune che a seguito
della presentazione di un permesso di costruire in
sanatoria, non abbia trasmesso la notizia all'autorità
giudiziaria.
È infatti necessario dimostrare anche la «sussistenza
dell'elemento soggettivo» del reato –vale a dire l'effettiva
conoscenza della notitia criminis- «non potendosi ipotizzare
una responsabilità in capo al pubblico ufficiale
responsabile in base alla sola funzione
amministrativa esercitata all'interno della struttura
burocratica comunale».
---------------
RITENUTO IN FATTO
1. Salvatore Caudullo, per mezzo del difensore, propone
ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello di
Catania che, in parziale riforma della decisione del
Tribunale di Catania, per quel che in questa sede rileva, ha
rideterminato la pena in euro 340 di multa in ordine al
reato di cui all'ad 361 cod. pen. (capo G), in quanto, quale
Capo dell'Ufficio Tecnico del Comune di Bronte, essendo
venuto a conoscenza della commissione di abusi edilizi da
parte di Th.Co., Vi.Sa. e Da.Gi. (stesse persone con cui era
stato chiamato, a titolo di omissione ex art. 40, comma
secondo, cod. pen., a rispondere del concorso nella
realizzazione dei reati di cui ai capi da A) a F) relativi a
contravvenzioni in materia edilizia, urbanistica, sismica ed
ambientale), i quali avevano presentato una istanza di
permesso di costruire in sanatoria per poter realizzare un
immobile, ometteva di darne comunicazione all'autorità
giudiziaria, fatto commesso in Bronte in data antecedente al
08.06.2011.
2. Il ricorrente deduce difetto di motivazione, travisamento
della prova e violazione degli artt. 36, 42, 43 e 361 cod.
pen.
La Corte territoriale non avrebbe adeguatamente apprezzato
il dato normativo, le risultanze processuali, per come
ricostruite dall'esame dei testi e dell'imputato, oltre che
la documentazione acquisita e fornita dalla difesa.
Sa.Ca. -si osserva- era coordinatore di ben otto servizi,
tra i quali quello di Urbanistica e Repressione Abusivismo
Edilizio, settori a loro volta retti da altri (Sa. e Gr.)
cui competeva l'istruttoria delle pratiche assegnate.
La prassi prevedeva che tutte le pratiche di richiesta di
sanatoria ex artt. 12 e 13 L. 47/1985 (art. 36 d.P.R.
06.06.2001, n. 380) non fossero inoltrate all'Autorità
Giudiziaria, obbligo di comunicazione che incombeva sul solo
personale di Polizia Giudiziaria,
Il ricorrente evidenzia l'assoluta buona fede del Ca. che,
quale capo dell'Ufficio Tecnico, si era limitato a
coordinare i vari servizi demandando ai singoli responsabili
le relative decisioni, circostanza che impone di ritenere
insussistente l'elemento soggettivo quantomeno ex art. 533
cod. proc. pen.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato, così imponendosi l'annullamento
senza rinvio della sentenza impugnata.
2. L'accusa mossa a Sa.Ca., quale dirigente dell'Ufficio
tecnico comunale (originariamente in concorso con il
responsabile del servizio di polizia giudiziaria ed
amministrativa, tenente Gi.Sa.), è quella di aver omesso di
trasmettere all'autorità giudiziaria la denuncia in ordine
alla commissione di reati edilizi ed ambientali da parte di
Th.Co., Vi.Sa. e Da.Gi., a cagione della presentazione, da
parte di costoro, dell'istanza di permesso di costruire in
sanatoria per la realizzazione di un immobile.
In particolare, è stato ritenuto che la pratica relativa
all'immobile in questione, affidata al geometra An.Sa., era
stata istruita dall'ufficio tecnico di cui il ricorrente era
responsabile ed inserita esclusivamente nella comunicazione
quindicinale inviata all'Assessorato Territorio ed Ambiente
della Regione.
Da tanto è stato desunta la sussistenza del dolo generico in
capo al ricorrente che aveva giustificato la condotta
dell'Ufficio, di cui evidenziava la articolata consistenza,
sulla base della prassi all'epoca vigente a mente della
quale la comunicazione in ordine a tutte le istanze in
sanatoria non venivano inviate immediatamente all'autorità
giudiziaria, ma ciò avveniva solo al momento della richiesta
di agibilità o abitabilità degli immobili ovvero all'esito
della conclusa istruttoria.
3. Deve premettersi che l'elemento
soggettivo del reato di omissione di denuncia consiste nella
consapevolezza e volontarietà dell'omissione allorché
risulti sussistente il presupposto da cui deriva il dovere
di trasmettere la notizia di reato all'autorità giudiziaria,
ovvero la conoscenza, da parte del pubblico ufficiale, del
fatto costituente reato a causa e nell'esercizio delle sue
funzioni.
È, invece, estraneo alla nozione del dolo
di omissione il motivo che porta il soggetto, su cui grava
l'obbligo di informazione, ad astenersi dal trasmettere la
notizia di reato; sicché è irrilevante che il pubblico
ufficiale ritenga che l'informativa della "notitia
criminis" di cui sia venuto a conoscenza, competa ad
altro pubblico ufficiale ovvero supponga che l'informativa
medesima sia stata da questi già fornita. Infatti, l'errore
in cui l'obbligato può incorrere, al riguardo, non esclude
la volontarietà dell'omissione, ma concerne semmai la sua
legittimità ed è, pertanto, penalmente inscusabile
(Sez. 6, n. 1407 del 05/11/1998, Pirari, Rv. 212551; sez. 6,
n. 9701 del 23/09/1996, Gobbi, Rv. 206014).
Risulta, inoltre, pacifico il principio a
mente del quale si realizza l'omessa denuncia penalmente
rilevante ex art. 361 cod. pen., quando il pubblico
ufficiale è in grado di individuare gli elementi ed
acquisire ogni altro dato utile per la formazione della
denuncia stessa (Sez.
6, n. 49833 del 03/07/2018, Pesci, Rv. 274310).
4. Tanto premesso deve rilevarsi che, nonostante specifica
censura anche proposta in sede di gravame, nessuna emergenza
consente di ritenere che, a prescindere dalla (certamente
irrilevante) invocata prassi da parte del ricorrente, lo
stesso fosse consapevole dell'esistenza di una "notitia
criminis". tenuto conto delle innumerevoli istanze di
sanatoria pervenute presso l'ufficio dal medesimo diretto e
trasmesse per l'istruttoria al funzionario responsabile di
altro settore.
Il ricorrente, infatti, aveva fatto presente la complessa
articolazione degli uffici che gli erano stati affidati, con
particolare riferimento alle tre posizioni organizzative di
cui era responsabile, rimarcando come il servizio
urbanistico, interno all'area tecnica, era da Ca.
coordinato, così da limitarsi a sottoscrivere i
provvedimenti finali all'esito dell'esame della pratica
svolta dal pubblico ufficiale incaricato (penultima pagina
sentenza del Tribunale). Circostanza anche ribadita nei
motivi di appello, ove, oltre ad ipotizzare in capo ad altri
soggetti l'obbligo di denuncia, emergenza non pertinente in
quanto non idonea a far venir meno la responsabilità in capo
al pubblico funzionario (in tal senso v. Sez. 6, n. 1407 del
05/11/1998, dep. 1999, Pirari F, Rv. 212551), si era
rappresentato che il fascicolo in questione era stato
assegnato agli uffici competenti per la relativa
istruttoria.
Nonostante, quindi, plurimi siano stati i rilievi tesi ad
evidenziare una assenza di conoscenza della pratica relativa
all'immobile oggetto di sanatoria ed in ordine al quale il
ricorrente aveva fornito risposte esclusivamente circa i
compiti assegnati al proprio ufficio, i Giudici di merito
hanno ritenuto Sa.Ca. responsabile sulla base della sola
posizione apicale ricoperta all'interno della struttura
burocratica comunale e senza individuare alcun effettivo
elemento idoneo a far ritenere che fosse consapevole della
consistenza, anche solo generica, della specifica istanza.
Questa Corte ha da tempo avuto modo di evidenziare che
non risponde di omessa denuncia di reato,
ai sensi dell'art. 361, comma primo cod. pen., il sindaco
che ometta di portare a conoscenza dell'autorità giudiziaria
il contenuto delle domande di sanatoria per abusi edilizi
pervenute all'amministrazione comunale, o ne ritardi la
trasmissione informale, richiesta dall'A.G., prescindendo
dal loro vaglio, anche ai fini specifici dell'accertamento
di fatti costituenti reato
(Sez. 6, n. 5499 del 09/05/1985, Di Giovanna, Rv. 169537),
principio tranquillamente esportabile in
capo al Dirigente dell'Ufficio tecnico cui oggi compete
l'accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. 06.06.2001,
n. 380.
Tanto non implica che il dirigente di tale
servizio non possa rendersi astrattamente responsabile del
delitto di omessa denuncia di un fatto di reato di cui sia
venuto a conoscenza in ragione dell'espletamento della
funzione, e ciò a maggior ragione quando vengono coinvolti
interessi connessi alla salvaguardia del territorio alla cui
tutela il pubblico ufficiale è preposto.
Ma non è possibile che tale obbligo/dovere di denuncia si
estenda sino a ricomprendere le molteplici evenienze che
involgono il campo d'azione dell'esercizio della funzione
amministrativa e senza in concreto accertare se la notizia
di reato sia stata realmente apprezzata dal soggetto agente
al fine di valutarne il necessario elemento soggettivo del
dolo omissivo richiesto dalla fattispecie di cui all'art.
361 cod. pen.
Né può ritenersi che nel caso sottoposto a scrutinio si
tratti di valutare la sussistenza di un eventuale errore in
ordine alla sola consistenza della notizia di reato di cui
l'agente sia venuto a conoscenza, errore chiaramente
inescusabile in quanto non idoneo ad escludere la
volontarietà dell'omissione (v. Sez. 6, n. 1407 del
05/11/1998, Pirari, Rv. 212551; sez. 6, n. 9701 del
23/09/1996, Gobbi, Rv. 206014, cui sopra è cenno), quanto,
piuttosto, la mancata conoscenza della concreta notizia di
reato e, conseguentemente, l'ambito su cui va a ricadere
l'elemento soggettivo dell'agente che necessita di specifico
accertamento, nel concreto omesso.
Questa Corte, seppure con rifermento all'esame del solo
elemento oggettivo, ha avuto modo di precisare che
non integra il reato di cui all'art. 361 cod. pen.
la condotta del pubblico ufficiale che, dinanzi alla
segnalazione di un fatto avente connotazioni di possibile
rilievo penale, disponga i necessari approfondimenti
all'interno del proprio ufficio, al fine di verificare
l'effettiva sussistenza di una "notitia criminis", e
non di elementi di mero sospetto
(Sez. 6, n. 12021 del 06/02/2014, Kutufà, Rv. 258339).
Principio di diritto che impone, a maggior
ragione, di ritenere logicamente necessario il previo
accertamento della sussistenza dell'elemento soggettivo
sull'esistenza della notitia criminís, non potendosi
ipotizzare una responsabilità in capo al pubblico ufficiale
responsabile in base alla sola funzione amministrativa
esercitata all'interno della struttura burocratica comunale.
5. Da quanto sopra consegue l'annullamento senza rinvio
della sentenza impugnata perché il fatto non costituisce
reato (Corte di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 16.04.2019 n. 16577). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati urbanistici - Dirigente o responsabile dello sportello
unico - Configurabilità del reato di abuso di ufficio -
Elemento soggettivo - Consapevolezza dell'ingiustizia del
vantaggio patrimoniale - Macroscopica illiceità dell'atto -
Fattispecie.
L'inosservanza dell'art. 13 d.P.R.
06.06.2001, n. 380, secondo il quale "il permesso di
costruire è rilasciato dal dirigente o responsabile dello
sportello unico nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e
degli strumenti urbanistici" integra il requisito della
violazione di legge rilevante ai fini della configurabilità
del reato di abuso di ufficio.
Per quanto riguarda, poi, l'elemento soggettivo, si è
affermato che esso consiste nella consapevolezza
dell'ingiustizia del vantaggio patrimoniale e nella volontà
di agire per procurarlo e può essere desunta dalla
macroscopica illiceità dell'atto.
Nella specie, l'evidenza della natura abusiva della
costruzione non emerge esclusivamente dalle sue
caratteristiche dimensionali, ma anche per il contrasto
dell'opera con la destinazione di zona (agricola)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.03.2019 n. 11505 - link a
www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Sul
reato di abuso d'ufficio.
L'inosservanza dell'art. 13 d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
secondo il quale "il permesso di costruire è rilasciato dal
dirigente o responsabile dello sportello unico nel rispetto
delle leggi, dei regolamenti e degli strumenti urbanistici"
integra il requisito della violazione di legge rilevante ai
fini della configurabilità del reato di abuso di ufficio.
Per quanto riguarda, poi, l'elemento soggettivo, si è
affermato che esso consiste nella consapevolezza
dell'ingiustizia del vantaggio patrimoniale e nella volontà
di agire per procurarlo e può essere desunta dalla
macroscopica illiceità dell'atto.
---------------
Entrambi i motivi di
ricorso riguardano il reato di abuso d'ufficio contestato
all'imputato e la sua sussistenza sotto i profili oggettivo
e soggettivo.
Ancora una volta deve richiamarsi preliminarmente quanto in
precedenza osservato circa la smaccata evidenza della
abusività dell'immobile costruito, nonché delle plurime
irregolarità, per contrasto a specifiche disposizioni
normative, che hanno caratterizzato il rilascio della
concessione edilizia.
Va a tale proposito ricordato che l'inosservanza dell'art.
13 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, secondo il quale "il
permesso di costruire è rilasciato dal dirigente o
responsabile dello sportello unico nel rispetto delle leggi,
dei regolamenti e degli strumenti urbanistici" integra
il requisito della violazione di legge rilevante ai fini
della configurabilità del reato di abuso di ufficio (Sez. 3,
n. 39462 del 19/06/2012, Rullo, Rv. 254015).
Per quanto riguarda, poi, l'elemento soggettivo, si è
affermato che esso consiste nella consapevolezza
dell'ingiustizia del vantaggio patrimoniale e nella volontà
di agire per procurarlo e può essere desunta dalla
macroscopica illiceità dell'atto (così, da ultimo, Sez. 6,
n. 31 594 del 19/04/2017, Pazzaglia, Rv. 270460)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.03.2019 n. 11505). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Corrotti
e corruttori al bando. La riabilitazione può attendere.
Stretta a 360 gradi sui delitti contro la p.a. con le norme
approvate il 18 dicembre
Via per sempre (o quasi) dalla vita
economica del Paese corrotti e corruttori: i primi saranno
interdetti dai pubblici uffici a vita, oltre che per i reati
attualmente previsti, anche in caso di corruzione impropria
e aggravata, induzione indebita a dare o promettere utilità,
per corruzione di persona incaricata di pubblico servizio,
corruzione attiva, istigazione alla corruzione; traffico di
influenze illecite.
I secondi saranno esclusi dalla vita economica pubblica
anche per i reati di peculato, escluso quello d'uso;
corruzione in atti giudiziari; traffico di influenze
illecite.
E non solo. Anche se dovesse intervenire la riabilitazione
(che estingue la condanna) a seguito dell'esito positivo
dell'affidamento in prova ai servizi sociali, le pene
accessorie interdittive sarebbero comunque perpetue.
Insomma: niente più casi «Berlusconi», il quale è tornato ad
essere candidabile dopo che il Tribunale di sorveglianza di
Milano nella primavera scorsa lo ha riabilitato a seguito
del servizio sociale svolto presso l'istituto della Sacra
Famiglia di Cesano Boscone.
I «faccendieri» non potranno più far sentire la loro
influenza, reale o millantata che sia.
La stretta del governo giallo-verde sulla corruzione si
annuncia destinata a propagare i suoi effetti in un futuro
espanso, e non solo nei termini della maggiore incisività
investigativa e di accertamento dei reati contro la pubblica
amministrazione nel processo, ma anche con l'intento, in
effetti anche dichiarato, di «spazzare via» dalla vita
pubblica tutti coloro che si sono macchiati di comportamenti
illeciti nei confronti dell'amministrazione pubblica.
Sono forse questi gli aspetti di maggiore incisività, che si
aggiungono ai temi più prettamente processuali, della legge
«spazzacorrotti» approvata in via definitiva dal Senato lo
scorso 18 dicembre. Ed ai quali si sommano le altre novità,
oltre il cosiddetto «Daspo» appunto: aumento dell'entità
delle pene accessorie, arresto in flagranza di reato,
aumento a due anni dei termini delle indagini preliminari e
preclusioni ad accedere ai benefici penitenziari e misure
alternative. Introduzione del «pentito» e delle operazioni
sotto copertura (ma non agente provocatore) e della
possibilità di utilizzare le intercettazioni con trojan
(finora limitate alle ipotesi di criminalità organizzata e
terrorismo) anche per i reati contro la p.a. Congelamento
della prescrizione dopo le sentenze di primo grado e nuove
regole per la trasparenza del finanziamento dei partiti.
L'andamento parlamentare.
Approvata con la fiducia al Senato il 23 novembre scorso, il
testo esaminato in seconda lettura da Montecitorio è
pressoché identico a quello licenziato in prima lettura se
non fosse per la modifica che ha eliminato la disposizione
volta ad assorbire nell'abuso d'ufficio una fattispecie
configurata attualmente come peculato e perciò punita più
severamente.
«Questa legge è per tutti i cittadini onesti», ha detto il
ministro guardasigilli Alfonso Bonafede commentando il voto
finale, «per tutti gli imprenditori che vogliono fare bene
il loro lavoro e per tutte le persone che faranno rinascere
questo Paese. Per noi questa è una legge molto importante,
il mio primo pensiero va ai giovani italiani e al loro
futuro».
Per magistrati e avvocati però la musica è diversa: Anm e
Ucpisi si sono ritrovate nelle critiche alle modifiche alla
norma sulla prescrizione, destinate, è la denuncia, a
rendere il processo penale una spada di Damocle permanente
sulla testa degli indagati o imputati.
Anche il Csm, con un parere arrivato a legge approvata, lo
scorso 19 dicembre, ha espresso critiche sulla riforma della
prescrizione e sulla previsione del Daspo a vita per i
corrotti adombrando seri rischi di incostituzionalità anche
per gli effetti sui diritti alla difesa e alla ragionevole
durata dei processi. Con conseguente probabile ricaduta
sugli esborsi ex Legge Pinto.
L'inasprimento dei reati contro la Pa.
Per grandi linee, il provvedimento interviene su due
questioni: i reati contro la pubblica amministrazione e la
trasparenza nel finanziamento ai partiti.
Sul primo fronte, la legge interviene sul codice penale
(inasprendo le pene dei reati contro la pa), sul codice di
procedura penale (potenziando strumenti di indagine e di
accertamento), sul codice civile (rendendo perseguibile
d'ufficio la corruzione tra privati), sull'ordinamento
penitenziario e sulla legge 231/2001 sulla responsabilità
amministrativa da reato per le persone giuridiche (vedi
altro articolo nella pagina affianco).
Il testo introduce un'aggravante del delitto di indebita
percezione di erogazioni a danno della Stato, quando il
fatto sia commesso da un pubblico ufficiale o da un
incaricato di pubblico servizio; aumenta le pene per i
delitti di corruzione per l'esercizio della funzione e di
appropriazione indebita.
Ridefinisce la fattispecie del traffico di influenze
illecite, assorbendo il millantato credito e rendendo
passibile di pena anche colui che dà o promette la somma di
denaro, non più reputato alla stregua di una vittima del
raggiro.
Inasprimento delle pene accessorie (Daspo).
Il provvedimento introduce l'incapacità di contrarre con la
p.a. (cosiddetto Daspo) nell'ipotesi di un ventaglio molto
ampio di reati, così come la interdizione perpetua dai
pubblici uffici.
La riabilitazione sarà possibile, sulla carta, non prima di
sette anni e con la prova di buona condotta. Aumentano i
termini della interdizione temporanea.
L'accesso alla sospensione condizionale della pena sarà più
oneroso: non solo riguarderà anche il corruttore «privato» e
sarà condizionato al pagamento, all'amministrazione lesa,
della somma determinata a titolo di riparazione pecuniaria;
ma il giudice potrà decidere di non estenderne gli effetti
alla interdizione dai pubblici uffici o al cosiddetto Daspo.
Viene introdotta la figura del «pentito».
La legge introduce una causa di non punibilità (nuovo
articolo 323-ter), in presenza di autodenuncia (prima di
essere iscritto nel registro degli indagati e in ogni caso
entro sei mesi dal fatto, mettendo a disposizione l'utilità
ricevuta) e di collaborazione con l'autorità giudiziaria.
Il millantato credito viene abrogato come fattispecie a sé e
ricompreso nella nuova formulazione del traffico di
influenze illecite.
Agente sotto copertura.
Il provvedimento estende la disciplina delle operazioni di
polizia sotto copertura al contrasto di alcuni reati contro
la pubblica amministrazione.
La nuova prescrizione.
Per quanto riguarda la prescrizione, il testo prevede una
parziale riforma modificando gli articoli 158, 159 e 160 del
codice penale.
Il provvedimento individua nel giorno di cessazione della
continuazione il termine di decorrenza della prescrizione in
caso di reato continuato (si tratta di un ritorno alla
disciplina anteriore alla legge ex Cirielli del 2005);
sospende il corso della prescrizione dalla data di pronuncia
della sentenza di primo grado (sia di condanna che di
assoluzione) o dal decreto di condanna, fino alla data di
esecutività della sentenza che definisce il giudizio o alla
data di irrevocabilità del citato decreto.
L'entrata in vigore della riforma della prescrizione è
fissata (comma 2 dell'art. 1) al 1° gennaio 2020.
Trojan per investigazioni domiciliari ad
ampio raggio. Sono
consentite sempre le intercettazioni mediante l'uso dei
captatori informatici (cd. trojan) su dispositivi
elettronici portatili nei procedimenti per delitti contro la
pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione
non inferiore nel massimo a cinque anni. Inoltre cade il
paletto del loro utilizzo domiciliare, che sarà possibile
anche quando non vi è motivo di ritenere che ivi si stia
svolgendo l'attività criminosa (articolo
ItaliaOggi Sette del 07.01.2019). |
anno 2018 |
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ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi
a contratto, la Cassazione conferma l’obbligo di
pubblicazione in Gazzetta.
Obbligo di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale delle
assunzioni del personale in base all’articolo 110 del Tuel,
sia se la competenza è devoluta al giudice amministrativo,
qualora la selezione dovesse rispettare le regole del
concorso pubblico, ad esempio in presenza della nomina di
una commissione, nell'attribuzione di punteggi o nella
formazione di una graduatoria (si veda il Quotidiano degli
enti locali e della Pa del 21 settembre), sia qualora la
stessa dovesse essere devoluta al giudice ordinario, in
quanto non rispettosa delle regole del concorso pubblico.
Queste ultime conclusioni sono contenute nella
sentenza 27.11.2018 n. 53180 della Corte di
Cassazione, Sez. feriale penale.
La posizione dei giudici e quella della
difesa
Sia il tribunale di primo grado sia successivamente la Corte
d’appello hanno condannato, per abuso di ufficio (articolo
323 del codice penale), il dirigente finanziario e alcuni
membri della giunta comunale per l'assunzione di un
funzionario apicale in base all’articolo 110 del Tuel.
Secondo i giudici penali si sarebbe in presenza di una
violazione dell'articolo 4, comma 1-bis, del Dpr 487/1994,
per mancata pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale
dell'avviso contenente gli estremi del bando, oltre che
violazione dell'articolo 124, comma 1, del Dlgs 267/2000 per
mancata affissione dell'avviso nell'albo pretorio per un
periodo non inferiore ai prescritti 15 giorni.
Di diverso avviso i ricorrenti che hanno impugnato in
Cassazione la sentenza dei giudici di appello. A loro dire,
vi sarebbe un errore di fondo nella motivazioni della
sentenza, in quanto la giurisprudenza amministrativa ha
escluso la riferibilità agli enti locali territoriali della
disciplina del Dpr 487/1994, applicabile soltanto ai
concorsi pubblici, sicché nessun obbligo di pubblicazione
sulla Gazzetta Ufficiale sussisteva nel caso di specie, la
cui omissione, pertanto, non integra la fattispecie di reato
ascritta, mentre la sanzionata pubblicazione nell'albo
pretorio, perché inferiore nella durata a quanto prescritto
dall'articolo 124 del Dlgs 267/2000, è essenzialmente dovuta
alla scadenza della presentazione delle domande da parte dei
candidati. D'altra parte lo stesso Dl 90/2014 prescrive
esclusivamente una selezione che nulla ha a che vedere con
il concorso pubblico.
Le indicazioni della Cassazione
In merito alle assunzioni effettuate secondo l’articolo 110
del Tuel, il Dl 90/2014 ha inserito la selezione pubblica
quale medesimo adempimento previsto dall'articolo 35, comma
1, del Dlgs 165/2001. Ora precisa la Suprema corte,
l'attività selettiva non è assimilabile a un concorso
pubblico, funzionale all'assunzione di pubblici dipendenti,
in quanto diretta soltanto a reperire il candidato più
rispondente alle caratteristiche e alle esigenze dell'ente e
alle mansioni da assegnare, senza la formazione di una
graduatoria all'esito dell'attribuzione di un punteggio, in
base ai titoli o ad altri criteri valutativi.
Comunque non è stato seguito il procedimento mediante
adozione di adempimenti sequenziali, diretti a garantire la
pubblicità dell'avviso, la partecipazione di tutti i
possibili aspiranti e lo scrutinio dei candidati fino a un
giudizio finale di individuazione di quello ritenuto più
idoneo. Pertanto, è da ritenersi corretta la sentenza che ha
evidenziato il mancato rispetto sia delle prescrizioni sulla
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell'avviso di selezione
pubblica sia sul tempo minimo obbligatorio di pubblicazione
all'albo pretorio per quindici giorni.
Per i giudici di Piazza Cavour, tuttavia, la semplice
violazione di legge non conduce all'abuso di ufficio, non
avendo la Corte di appello adeguatamente motivato
l'intenzionalità della condotta del funzionario pubblico di
voler procurare il vantaggio patrimoniale o il danno
ingiusto richiesto dalla norma penale. La mancanza della
motivazioni induce, in conclusione, la Cassazione ad
annullare la sentenza e rinviare ad altra sezione della
Corte di appello per il nuovo esame (articolo Quotidiano
Enti Locali & Pa del 07.12.2018).
---------------
MASSIMA
2.3 L'assunto difensivo non ha pregio e considera in
modo incompleto il quadro normativo di riferimento.
Come già osservato dalla Corte di merito, l'art. 110 del
Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali,
D.Lgs. n. 267/2000, sotto la rubrica "incarichi a
contratto", nella parte rilevante ai fini del presente
processo, stabilisce al comma 1: "Lo statuto può
prevedere che la copertura dei posti di responsabili dei
servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta
specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo
determinato di diritto pubblico o, eccezionalmente e con
deliberazione motivata, di diritto privato, fermi restando i
requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire" (comma
1).
Al comma 2 prevede "Il regolamento sull'ordinamento degli
uffici e dei servizi, negli enti in cui è prevista la
dirigenza, stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con
cui possono essere stipulati, al di fuori della dotazione
organica, contratti a tempo determinato per i dirigenti e le
alte specializzazioni, fermi restando i requisiti richiesti
per la qualifica da ricoprire. Tali contratti sono stipulati
in misura complessivamente non superiore al 5 per cento del
totale della dotazione organica della dirigenza e dell'area
direttiva e comunque per almeno una unità. Negli altri enti,
il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi
stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono
essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, solo
in assenza di professionalità analoghe presenti all'interno
dell'ente, contratti a tempo determinato di dirigenti, alte
specializzazioni o funzionari dell'area direttiva, fermi
restando i requisiti richiesti per la qualifica da
ricoprire. Tali contratti sono stipulati in misura
complessivamente non superiore al 5 per cento della
dotazione organica dell'ente, o ad una unità negli enti con
una dotazione organica inferiore alle 20 unità".
Le due disposizioni citate differiscono tra loro, perché,
seppur riferite entrambe al conferimento di incarichi a
contratto a tempo determinato, soltanto la prima riguarda
mansioni corrispondenti a quelle di un posto presente in
pianta organica di responsabile dei servizi o degli uffici,
di dirigente o di alta specializzazione, mentre la seconda
prevede incarichi per tali figure professionali "al di
fuori della dotazione organica" a fronte di esigenze
straordinarie, non affrontabili con le risorse umane già
disponibili. In entrambe le situazioni disciplinate, secondo
esplicita previsione normativa, spetta allo statuto
dell'ente prevedere la copertura dei posti in pianta
organica con contratti a tempo determinato.
Ebbene, tali rilievi convincono della necessità, anche sulla
base della stessa linea difensiva degli imputati, di
valutare la fattispecie concreta in base alle previsioni
statutarie del Comune interessato; rispetto all'addebito
come descritto al capo A), ritenuto fondato dal Tribunale,
non si rinviene in sentenza nessuna argomentazione per
sostenere o per escludere questo aspetto di contestata
violazione di legge, ossia la contrarietà del procedimento
che aveva riguardato l'arch. St. all'art. 66 dello statuto
comunale per l'assenza di un previo atto di indirizzo della
Giunta comunale, al quale non vi è nessun riferimento nella
motivazione senza che al contempo sia intervenuta una
pronuncia di assoluzione, né che i ricorsi abbiano mosso una
specifica contestazione al riguardo.
Per contro, nella sentenza di primo grado è ben evidenziato
che, non soltanto la determina non era stata preceduta da un
atto d'indirizzo della Giunta comunale, ma era illegittimo e
pretestuoso a tale fine il richiamo alla delibera di Giunta
n. 40 del 2010, che era stata revocata in autotutela e
quindi non poteva esplicare nessun effetto giuridico.
Più in generale va condivisa l'opinione, espressa in
sentenza, per la quale le disposizioni del
D.Lgs. n. 165 del 2001, introduttivo delle "Norme
generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche", devono essere osservate
anche nell'ambito delle amministrazioni locali, per tali
intendendosi "le Regioni, le Province e i Comuni"
(art. 1, comma 2), a ragione della loro natura, riconosciuta
espressamente dal comma 3 dello stesso art. 1, di principi
fondamentali ai sensi dell'art. 117 Cost.. In coerenza con
tale premessa sono rinvenibili nel D.Lgs. n. 267 del 2000,
contenente il Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli
enti locali, plurimi richiami alla disciplina sul pubblico
impiego.
In tal senso rilevano:
- l'art. 7 del D.Lgs. n. 165/2001, il quale, nell'ambito
dei principi generali, dopo avere disposto al comma 6 che le
amministrazioni pubbliche, per esigenze cui non possono
provvedere con personale già in servizio, conferiscono ad
esperti incarichi individuali con contratti di lavoro
autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa,
stabilisce che "I regolamenti di cui all'art. 110, comma
6, del T.U. di cui al D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 si adeguano
ai principi di cui al comma 6";
- l'art. 88 del D.Lgs. n. 267/2000 per il quale "all'ordinamento
degli uffici e del personale degli enti locali, ivi compresi
i dirigenti ed i segretari comunali e provinciali, si
applicano le disposizioni del D.Lgs. 03.02.1993, n. 29, e
successive modificazioni ed integrazioni, e le altre
disposizioni di legge in materia di organizzazione e lavoro
nelle pubbliche amministrazioni";
- l'art. 111 dello stesso D.Lgs. n. 267/2000, il quale
stabilisce che gli "Enti locali, tenendo conto delle
proprie peculiarietà nell'esercizio della propria potestà
statutaria e regolamentare, adeguano lo statuto ed il
regolamento ai principi del presente capo e del capo 2 del
D.Lgs. 03.02.1929, n. 29, e successive modificazioni ed
integrazioni".
- l'art. 19 del D.Lgs. n. 165 del 2001 sulla durata degli
incarichi dirigenziali a termine, reso applicabile anche
agli enti locali, compresi Regioni, Province e Comuni, dal
D.Lgs. 27.10.2009, n. 150, art. 40, comma 1, lett. f),
introduttivo dei commi 6-bis e 6-ter.
Come già affermato dalla giurisprudenza di
legittimità civile, occupatasi del tema in riferimento alla
durata del rapporti scaturiti da contratti di affidamento di
incarichi dirigenziali a tempo determinato presso enti
locali territoriali, con conclusioni che mantengono validità
anche per la presente vicenda e qui condivise e ribadite, la
normativa contenuta nel testo unico del pubblico impiego
appronta la disciplina fondamentale anche per i dipendenti
degli enti locali e per i destinatari degli incarichi
temporanei corrispondenti a mansioni di pubblici dipendenti
(Cass. civ., sez. L., n. 478 del 23/10/2013, rv. 620670;
sez. L, n. 849 del 28/10/2014, rv. 634201).
La disciplina di cui all'art. 110 del
D.lgs. n. 267/2000 non detta indicazioni particolari per gli
incarichi a termine, se non per la costituzione e per la
cessazione del rapporto, che sono diversamente regolate
rispetto a quanto previsto per il rapporto di pubblico
impiego a tempo indeterminato con assegnazione di incarichi
dirigenziali.
Si conviene con le difese che l'ente conferente non si
trovava a dover perfezionare un'assunzione di un pubblico
dipendente per instaurare un rapporto di lavoro subordinato
a tempo indeterminato e che in concreto tanto non si è
verificato nella vicenda in esame; ciò nonostante, non può
nemmeno sostenersi che la materia, pur implicando
l'instaurazione di un rapporto fiduciario con il soggetto
prescelto, non fosse regolamentata e lasciasse piena libertà
di azione ai suoi funzionari ed amministratori, in quanto
per diretta previsione contenuta, dapprima nella delibera di
Giunta Comunale n. 40 del 2010, poi revocata, quindi nella
determina adottata dal Pe., era stata indetta una selezione
pubblica.
All'epoca dei fatti l'adozione di tale procedura non era
ancora imposta per disposizione di legge, poiché sarebbe
stata introdotta nel testo dell'art. 110 del D.Lgs., nel
solo comma 1, n. 267/2000 soltanto nel 2014 dall'art. 11,
comma 1, lett. a), del D.L. 24/06/2014, n. 90, conv. dalla
L. 11/08/2014, n. 114, con la previsione dello stesso
adempimento di cui all'art. 35, comma 1, D.Lgs. n. 165/2001
e nel suo testo antecedente tale modifica non era contenuta
una esplicita norma a regolamentare il procedimento
prodromico alla conclusione del contratto.
E sebbene in linea generale l'attività selettiva non sia
assimilabile ad un concorso pubblico, funzionale
all'assunzione di pubblici dipendenti, in quanto diretta
soltanto a reperire il candidato più rispondente alle
caratteristiche ed alle esigenze dell'ente ed alle mansioni
da assegnare senza la formazione di una graduatoria
all'esito dell'attribuzione di un punteggio in base ai
titoli o ad altri criteri valutativi, ciò nonostante nel
caso specifico ne era stata prevista la
procedimentalizzazione mediante l'adozione di adempimenti
sequenziali, diretti a garantire la pubblicità dell'avviso,
la partecipazione di tutti i possibili aspiranti e lo
scrutinio dei candidati fino ad un giudizio finale di
individuazione di quello ritenuto più idoneo, il che deve
ritenersi avesse volontariamente vincolato il Comune al
rispetto delle prescrizioni normative in materia di
procedure concorsuali.
Pertanto, non giova richiamare i poteri attribuiti al
Sindaco dall'art. 50, comma 10, del D.Lgs. n. 267/2000, per
il quale "Il sindaco e il presidente della provincia
nominano i responsabili degli uffici e dei servizi,
attribuiscono e definiscono gli incarichi dirigenziali e
quelli di collaborazione esterna secondo le modalità ed i
criteri stabiliti dagli articoli 109 e 110, nonché dai
rispettivi statuti e regolamenti comunali e provinciali",
perché con gli atti adottati si era autolimitata la libertà
dell'ente di agire privatisticamente nella scelta del
personale cui conferire l'incarico e comunque non si erano
rispettate le prescrizioni statutarie di cui al già citato
art. 66. Inoltre, al momento dell'indizione della selezione
pubblica il Pe. non aveva ancora rivestito la carica di
Sindaco, essendo il responsabile del servizio finanziario
del Comune, circostanza che, come contestato, ha dato luogo
alla violazione delle disposizioni di cui agli artt. 48 e
107 del D.Lgs. n. 267/2000.
Considerata la vicenda in base a tale presupposto, è dunque
corretto ritenere che nel caso specifico non fossero state
rispettate le attribuzioni spettanti al Sindaco quanto
all'avvio della procedura, le prescrizioni sulla
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell'avviso della
selezione pubblica, sul tempo minimo obbligatorio di
pubblicazione per quindici giorni e sul divieto per gli
organi politici, in questo caso per il Pe. in quanto Sindaco
del Comune, di prendere parte alle commissioni esaminatrici
a garanzia della trasparenza, della legalità ed imparzialità
del relativo operato secondo i principi generali previsti
dall'art. 35, comma 3, del D.Lgs. n. 165/2001 cui si devono
conformare le procedure per il reclutamento nelle pubbliche
amministrazioni. |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Abuso di ufficio - Macroscopica
illegittimità dell'atto - Istruttoria palesemente lacunosa -
Prova del dolo intenzionale - Comportamento non iure
dell'agente Art. 323 cod. pen..
In tema di abuso d'ufficio, la prova del
dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie di cui
all'art. 323 cod. pen., prescinde dall'accertamento
dell'accordo collusivo con la persona che si intende
favorire, potendo essere desunta anche dalla macroscopica
illegittimità dell'atto, sempre che tale valutazione non
discenda in modo apodittico e parziale dal comportamento non
iure dell'agente, ma risulti anche da elementi ulteriori
concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un
vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto.
Nel caso di specie, è stato adeguatamente approfondito dai
giudici di merito, attraverso il richiamo alla reiterazione
dei provvedimenti palesemente illegittimi, nonostante le
plurime "anomalie" della procedura amministrativa, da parte
di un funzionario che, anche in considerazione della
contenuta estensione del Comune dove sono avvenuti i fatti,
avrebbe avuto tutti gli strumenti per poter porre rimedio
alle carenze e alle contraddizioni di una istanza
insuscettibile di essere accolta, per come formulata, non
essendo di per sé dirimente in senso contrario il
conseguimento di pareri interlocutori favorevoli da parte di
altri Enti, alla luce del ruolo maggiormente incisivo
riconosciuto al titolare del potere di rilasciare il
provvedimento finale
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.10.2018 n. 46080 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
In tema di abuso d'ufficio, la prova del
dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie di cui
all'art. 323 cod. pen., prescinde dall'accertamento
dell'accordo collusivo con la persona che si intende
favorire, potendo essere desunta anche dalla macroscopica
illegittimità dell'atto, sempre che tale valutazione non
discenda in modo apodittico e parziale dal comportamento non
iure dell'agente, ma risulti anche da elementi ulteriori
concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un
vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto,
profilo questo che nel caso di specie è stato adeguatamente
approfondito dai giudici di merito, attraverso il richiamo
alla reiterazione dei provvedimenti palesemente illegittimi,
nonostante le plurime "anomalie" della procedura
amministrativa, da parte di un funzionario che, anche in
considerazione della contenuta estensione del Comune dove
sono avvenuti i fatti, avrebbe avuto tutti gli strumenti per
poter porre rimedio alle carenze e alle contraddizioni di
una istanza insuscettibile di essere accolta, per come
formulata, non essendo di per sé dirimente in senso
contrario il conseguimento di pareri interlocutori
favorevoli da parte di altri Enti, alla luce del ruolo
maggiormente incisivo riconosciuto al titolare del potere di
rilasciare il provvedimento finale.
---------------
4. Passando infine al ricorso proposto nell'interesse di
Mo., occorre iniziare dai primi due motivi, che
possono essere trattati congiuntamente, inerendo entrambi il
giudizio sulla sussistenza del delitto di abuso d'ufficio.
Al riguardo, le due conformi sentenze di merito hanno
ricostruito i singoli passaggi dell'iter amministrativo che
ha portato al rilascio, da parte di Mo., Responsabile
dell'Ufficio Tecnico del Comune di Patù, del permesso di
costruire n. 14 del 06.03.2008 in favore della Mi., con il
quale veniva assentito l'intervento richiesto, cioè il
recupero di un vecchio fabbricato rurale, da destinare ad
abitazione, mentre nell'area interessata non era mai
preesistito alcun fabbricato rurale e doveva parlarsi non di
manutenzione straordinaria, ma di una vera e propria "nuova
costruzione", non assentibile nel caso concreto.
Come correttamente osservato nella sentenza impugnata,
stante la pochezza di informazioni presenti negli atti
forniti dai richiedenti e anzi in presenza di una foto
eloquente dell'immobile preesistente, di cui era stata
omessa l'indicazione di qualsiasi dimensione, l'imputato
avrebbe potuto e dovuto sciogliere le evidenti perplessità
derivanti dal contenuto ambiguo degli atti a sua
disposizione attivando i suoi poteri di controllo, anche
mediante un eventuale sopralluogo.
Se è vero infatti che il sopralluogo del tecnico comunale
nella prassi non costituisce un'evenienza frequente, è
altrettanto innegabile che lo stesso si rende doveroso, in
alternativa al rigetto allo stato dell'istanza, qualora la
pratica amministrativa presenti incongruenze meritevoli di
necessari approfondimenti.
E nel caso di specie, ribadito lo scarso valore probatorio
delle già richiamate dichiarazioni dei testi della difesa,
non c'è dubbio che l'intera procedura è risultata scandita
da profonde anomalie: l'assenza nell'istanza di riferimenti
alla volumetria, la falsa rappresentazione di un immobile
preesistente, l'omessa comunicazione dei tecnici e della
ditta appaltatrice dei lavori, la mancata allegazione del
Durc, la reiterazione della condotte, stante il rilascio del
permesso in sanatoria, e la circostanza che, rispetto al
tratturo, per il quale vi era solo una comunicazione di
inizio lavori, erano state sequestrate delle bozze dei
provvedimenti di sospensione dei predetti lavori prive di
data certa e inviate sei mesi dopo la comunicazione e
l'invito del Sindaco di eseguire un sopralluogo.
Tutte queste circostanze hanno ragionevolmente indotto i
giudici di merito a ritenere ravvisabile una macroscopica
violazione della normativa urbanistica, che ha consentito
alla Mi. di conseguire un titolo abilitativo cui non aveva
diritto, a seguito di un'istruttoria palesemente lacunosa,
nonostante la presenza di plurimi indizi di illegittimità
della tipologia dell'intervento edilizio oggetto della
richiesta.
A fronte di tali elementi, correttamente è stata ritenuta
non necessaria ai fini della sussistenza del reato
contestato la prova di un vero e proprio patto collusivo tra
la Mi. e Mo., dovendosi richiamare al riguardo la costante
affermazione di questa Corte (cfr. ex multis Sez. 3,
n. 57914 del 28/09/2017, Rv. 272331), secondo cui, in tema
di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale, che
qualifica la fattispecie di cui all'art. 323 cod. pen.,
prescinde dall'accertamento dell'accordo collusivo con la
persona che si intende favorire, potendo essere desunta
anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto, sempre che
tale valutazione non discenda in modo apodittico e parziale
dal comportamento non iure dell'agente, ma risulti anche da
elementi ulteriori concordemente dimostrativi dell'intento
di conseguire un vantaggio patrimoniale o di cagionare un
danno ingiusto, profilo questo che nel caso di specie è
stato adeguatamente approfondito dai giudici di merito,
attraverso il richiamo alla reiterazione dei provvedimenti
palesemente illegittimi, nonostante le plurime "anomalie"
della procedura amministrativa, da parte di un funzionario
che, anche in considerazione della contenuta estensione del
Comune dove sono avvenuti i fatti, avrebbe avuto tutti gli
strumenti per poter porre rimedio alle carenze e alle
contraddizioni di una istanza insuscettibile di essere
accolta, per come formulata, non essendo di per sé dirimente
in senso contrario il conseguimento di pareri interlocutori
favorevoli da parte di altri Enti, alla luce del ruolo
maggiormente incisivo riconosciuto al titolare del potere di
rilasciare il provvedimento finale.
In definitiva, la motivazione della sentenza impugnata, in
quanto aderente alle risultanze probatorie acquisite e in
linea con le coordinate interpretative prima richiamate,
resiste ampiamente alle censure difensive, che si limitano a
riproporre temi già trattati ed efficacemente superati dai
giudici di appello con arg omenti privi di elementi di
illogicità e dunque non censurabili in questa sede (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.10.2018 n. 46080). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire - Momento consumativo del reato di
abuso d'ufficio - Condotta del pubblico ufficiale - Ingiusto
vantaggio patrimoniale per il soggetto beneficiato -
Incremento patrimoniale dell'immobile divenuto edificabile -
Giurisprudenza.
Il permesso di costruire, sebbene
effettivamente suscettibile, una volta rilasciato, di
generare un eventuale ulteriore incremento del patrimonio
del destinatario tramite l'esecuzione dei lavori autorizzati
o il trasferimento del bene immobile divenuto edificabile a
terzi, costituisce già di per sé una voce attiva nell'ambito
della situazione giuridica soggettiva dell'interessato,
perché il riconoscimento dell'edificabilità di un terreno
attribuisce a tale terreno una nuova possibilità di messa a
reddito, che ne determina un fisiologico incremento di
valore in relazione alle ampliate opportunità di suo
utilizzo (ex
plurimis, Sez. 3, n. 4140 del 13/12/2017, dep. 29/01/2018;
Sez. 6, n. 37531 del 14/06/2007; Sez. 6, n. 49554 del
22/10/2003).
Può dunque affermarsi che, rispetto
all'incremento patrimoniale che normalmente discende già
dalla semplice emanazione di un permesso ai costruire
illegittimo, l'eventuale successiva attività edificatoria
-così come l'eventuale successiva alienazione del terreno
divenuto edificabile- costituisce un post factum, che
dipende da una condotta ulteriore del titolare del bene,
rimanendo estraneo alla sfera di azione del pubblico
ufficiale che ha emanato l'atto illegittimo.
Ne consegue che il momento consumativo del reato di abuso
d'ufficio consistente nell'emanazione di un permesso ai
costruire illegittimo coincide con l'emanazione dell'atto
stesso, perché in tale momento si compie la condotta del
pubblico ufficiale e si verifica l'ingiusto vantaggio
patrimoniale per il soggetto beneficiato
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.10.2018 n. 44104 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza consolidata è giunta
ad affermare che l'individuazione dell'area da acquisire al
patrimonio pubblico non deve essere necessariamente indicata
nell'ordinanza di demolizione, ben potendo essere contenuta
nel successivo provvedimento con il quale l'Amministrazione
procede all'acquisizione del bene, fermo restando che,
almeno l'atto di acquisizione, deve contenere tale esatta
indicazione dei beni abusivi da acquisire alla mano pubblica
nonché l'indicazione anche catastale dell'area di sedime e
delle ulteriori aree acquisite dall'Amministrazione.
Ciò discende dal fatto che l'ordinanza di acquisizione
costituisce titolo per la immissione in possesso e per la
trascrizione nei registri immobiliari e non può pertanto
prescindere dalla esatta individuazione delle particelle
catastali coinvolte.
(Nella specie né l'ordinanza di demolizione né l'ordinanza
di acquisizione oggetto del presente giudizio riportano i
suddetti dati, né risulta allegata all'ordinanza gravata una
planimetria o altri atti che consentano l'identificazione
esatta della aree interessate).
Sicché, la concreta individuazione delle aree da acquisire
al patrimonio del comune e la loro esatta perimetrazione
costituiscono elementi necessari del provvedimento
acquisitivo, in mancanza dei quali non può in alcun modo
costituirsi il titolo per l'immissione nel possesso e per la
trascrizione nei registri immobiliari.
Atteso che l'area acquisita non può comunque essere
superiore a dieci volte la complessiva superficie utile
abusivamente costruita, l’area da acquisire deve essere
individuata con precisione: nell'applicazione della sanzione
l'autorità competente deve rispettare il principio di
proporzionalità mediante l’irrogazione di una sanzione che,
entro il limite massimo legale stabilito, sacrifichi la
posizione soggettiva del privato in modo adeguato,
necessario e strettamente proporzionale all'obiettivo di
interesse pubblico perseguito.
---------------
Con verbale dell’11.05.1997 del Corpo forestale veniva
contestato alla ricorrente un movimento di terra in contrada
Monte Caputo in San Martino delle scale, movimento di terra
(asseritamente) finalizzato alla costruzione di una casa di
mq. 40.
Con lo stesso verbale il terreno era sottoposto a sequestro,
con apposizione di sigilli al fine di conservare l’integrità
del corpo del reato ed impedire il mutamento dello stato dei
luoghi.
Era quindi emesso decreto di sequestro preventivo da parte
del GIP (n. 6254/97 – 7761/97, notificato il 17/05/1997.
Il Comune di Monreale intimava, oltre la sospensione dei
lavori, anche la demolizione del fabbricato abusivo
(ordinanze n. 367 e n. 368 del 26/06/1997)
Con ordinanza n. 188 del 13/07/2000 l’Amministrazione
comunale integrava le precedenti ordinanze nella parte in
cui non erano stati indicati i dati catastali, rinnovando
quindi l’ordine di demolizione precisando che, qualora le
opere fossero state sottoposte a sigilli giudiziari, i
lavori avrebbero dovuto essere eseguiti dopo la rimozione
dei sigilli.
Con verbale del 14/09/2001 alcuni funzionari della polizia
locale evidenziavano l’inottemperanza all’ordine demolitorio:
in tesi di parte la mancata demolizione era dovuta alla
persistenza del sequestro giudiziario.
Quindi con provvedimento del 17/05/2002 il Settore
Urbanistica del Comune di Monterale notificava il
provvedimento dirigenziale n. 524/M con cui è stata disposta
l’acquisizione gratuita dell’immobile al patrimonio del
Comune per l’omessa ottemperanza entro il termine prescritto
all’ordine di demolizione.
...
Preliminarmente il Collegio non può
esimersi dallo stigmatizzare il comportamento del Comune di
Monreale che, al di là della libera scelta di non voler
resistere al ricorso, non ha dato riscontro ai reiterati
ordini istruttori emessi da questo Giudice, di cui alla
Ordinanza presidenziale n. 74/2016 e le due ordinanze
collegiali n. 250/2017 e n. 2891/2017: sulle consequenziali
determinazioni il Collegio ritornerà a conclusione della
presente sentenza.
Ciò premesso, il ricorso è fondato e va accolto nei limiti
di cui di seguito meglio precisati.
Risultano fondate la seconda e la terza censura
qui previamente e contestualmente scrutinate.
Il provvedimento impugnato, nel disporre l'acquisizione
gratuita, indica, in modo del tutto approssimativo, un'area
pari fino a dieci volte la superficie complessiva utile
abusivamente costruita sulla particella n. 59 del foglio di
mappa n. 20 del N.C.T. di Monreale esteso per circa mq.
1510, a fronte di un contestato abuso di circa 45 mq.
La mancata precisa individuazione della acquisenda area,
essendo indicata solo la particella ma non anche la porzione
di questa, inficia il provvedimento impugnato.
Ed invero, diversamente da quanto può anche non essere
presente nel provvedimento di che intima le demolizione del
bene, per quanto attiene al momento con si dispone
l’acquisizione dello stesso e della relativa aera di sedime,
in una misura che comunque non può essere superiore a 10
volte quella dell’abuso, occorre che l’ordinanza specifichi
nel dettaglio la porzione del maggiore terreno che con il
provvedimento si intende acquisire.
Opportunamente parte ricorrente richiama l’orientamento
della giurisprudenza amministrativa secondo cui "La
giurisprudenza consolidata è giunta ad affermare che
l'individuazione dell'area da acquisire al patrimonio
pubblico non deve essere necessariamente indicata
nell'ordinanza di demolizione, ben potendo essere contenuta
nel successivo provvedimento con il quale l'Amministrazione
procede all'acquisizione del bene (in termini TAR Toscana,
sez. 3^, 07.05.2013, n. 724), fermo restando che, almeno
l'atto di acquisizione, deve contenere tale esatta
indicazione dei beni abusivi da acquisire alla mano pubblica
nonché l'indicazione anche catastale dell'area di sedime e
delle ulteriori aree acquisite dall'Amministrazione. Ciò
discende dal fatto che l'ordinanza di acquisizione
costituisce titolo per la immissione in possesso e per la
trascrizione nei registri immobiliari e non può pertanto
prescindere dalla esatta individuazione delle particelle
catastali coinvolte. Nella specie né l'ordinanza di
demolizione né l'ordinanza di acquisizione oggetto del
presente giudizio riportano i suddetti dati, né risulta
allegata all'ordinanza gravata una planimetria o altri atti
che consentano l'identificazione esatta della aree
interessate. Alla luce delle considerazioni che precedono la
censura risulta fondata, il che comporta l'accoglimento del
ricorso con il conseguente annullamento dell'ordinanza n.
150 del 1997 gravata, potendosi ritenere assorbite le
ulteriori censure proposte" (cfr. TAR Toscana—Firenze,
Sez. III, 16.01.2014, n. 64; principio affermato anche nelle
recentissime decisioni del TAR Piemonte—Torino, 28.04.2016,
n. 573 e del TAR Sardegna—Cagliari, 24.03.2016, n. 278).
La concreta individuazione delle aree da acquisire al
patrimonio del comune e la loro esatta perimetrazione
costituiscono elementi necessari del provvedimento
acquisitivo, in mancanza dei quali non può in alcun modo
costituirsi il titolo per l'immissione nel possesso e per la
trascrizione nei registri immobiliari.
Quanto alla terza censura, il Collegio ritiene di
poter condividere il precedente invocato dalla parte, di cui
alla sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 14.09.2014 n.
5607, secondo cui "–atteso che l'area acquisita non può
comunque essere superiore a dieci volte la complessiva
superficie utile abusivamente costruita- l’area da acquisire
deve essere individuata con precisione: nell'applicazione
della sanzione l'autorità competente deve rispettare il
principio di proporzionalità mediante l’irrogazione di una
sanzione che, entro il limite massimo legale stabilito,
sacrifichi la posizione soggettiva del privato in modo
adeguato, necessario e strettamente proporzionale
all'obiettivo di interesse pubblico perseguito": nel
caso in esame, attesa l’estensione della superficie abusiva,
parti a circa 45 mq, ed il rapporto con l’estensione della
particella di circa mq 1.510, l’Amministrazione non illustra
le ragioni per cui ha ritenuto di procedere alla
acquisizione secondo il parametro massimo (di dieci volte
l’estensione della superficie abusiva).
In conclusione, il ricorso va accolto con conseguente
annullamento, nei limiti sopra esposti, del provvedimento
impugnato, con improcedibilità di ogni altra censura siccome
ininfluente ai fini del decidere.
Ciò posto, come già osservato, va
stigmatizzato il mancato riscontro alle sopra citate
ordinanze istruttorie.
Oltre che contrastare con le previsioni del codice del
processo amministrativo che impongono alle parti di
cooperate con il Giudice ai fini della ragionevole durata
del processo (art. 2 comma 2), il
comportamento tenuto dal Comune di Monreale può altresì
integrare ipotesi di reato (tra cui la violazione dell’art.
328 c.p. e l’art.
650 c.p.) per cui appare opportuno sin d’ora
disporre la trasmissione della presente sentenza alla
Procura della Repubblica di Palermo e alla Procura Regionale
della Corte dei Conti per le valutazioni di competenza.
Le spese di lite possono tuttavia essere compensate tra le
parti tenuto conto del contestuale mancato riscontro
all’ordine istruttorio, ord. n. 2891/2017, che incombeva,
per quanto di pertinenza, sulla stessa parte ricorrente.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia
(Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso,
come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto
annulla il provvedimento impugnato nei sensi di cui in
motivazione.
Spese compensate.
Manda la Segreteria di trasmettere copia
della presente sentenza alla Procura della Repubblica di
Palermo e alla Procura Regionale della Corte dei Conti per
la Sicilia per le opportune valutazioni di competenza
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 13.09.2018 n. 1944 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Rilascio di un parere
paesaggistico sulla base una relazione tecnica falsa -
Mancata attività ricognitiva - Concorso nel reato di falso -
Responsabile dell'ufficio tecnico - Sussistenza dei
presupposti giuridicofattuali - Obblighi di verifica.
Si configura il concorso nell'illecito
rilascio di un parere paesaggistico sulla base una relazione
tecnica, integrativa della domanda presentata dal
progettista, nella quale si attesta falsamente che le opere
previste nella proposta progettuale non comportano
variazione di sagoma né aumenti delle volumetrie esistenti.
L'utilizzazione del termine «consistenza», da parte del
legislatore, nell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 380/2001
inevitabilmente include tutte le caratteristiche essenziali
dell'edifico preesistente (volumetria, altezza, struttura
complessiva, etc.), con la conseguenza che, in mancanza
anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta
attività ricognitiva, dovrà escludersi la sussistenza del
requisito richiesto dalla norma.
Parimenti, detta verifica non potrà essere rimessa ad
apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o
calcoli effettuati su dati parziali, ma dovrà, invece,
basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente
apprezzabili.
Nella specie, si fa riferimento al più grave reato di cui
all'art. 479 cod. pen., che si configura con il rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile
dell'ufficio tecnico competente, nella consapevolezza della
falsità di quanto attestato dal richiedente circa la
sussistenza dei presupposti giuridicofattuali per
l'accoglimento della relativa domanda, essendo l'organo
competente obbligato a svolgere in qualunque modo, e non
necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive
verifiche in merito alla sussistenza delle relative
condizioni.
...
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Falso ideologico nella
valutazione tecnica - Pubblico ufficiale libero nella scelta
dei criteri di valutazione - Parametri normativamente
predeterminati o tecnicamente indiscussi - Configurabilità
del reato - Giurisprudenza.
E' configurabile il delitto di falso
ideologico nella valutazione tecnica formulata in un
contesto implicante l'accettazione di parametri
normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi
(ribadito in Sez. 3, n. 41373 del 17/07/2014, P.M in proc.
Pasteris e altri; Cass. Sez. 1, n. 45373 del 10/06/2013,
Capogrosso e altro).
Mentre, nel caso in cui il pubblico
ufficiale sia libero nella scelta dei criteri di
valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale
e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è
destinato a provare la verità di alcun fatto, tuttavia, se
l'atto da compiere fa riferimento, anche implicito, a
previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si
è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica,
che vincola la valutazione ad una verifica di conformità
della situazione fattuale a parametri predeterminati, con
conseguente integrazione della falsità se detto giudizio di
conformità non sia rispondente ai parametri cui esso è
implicitamente vincolato
(Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, p.c. in proc. Platamone e
altro; si vedano anche Sez. 5, n. 39360 del 15/07/2011,
Gulino; Sez. 5, n. 14486 del 21/02/2011, Marini e altro) (Corte
di Cassazione, Sez. III,
sentenza 31.08.2018 n. 39340 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Si è ricordato, con riferimento al più grave
reato di cui all'art.
479 cod. pen. (Falsità ideologica commessa dal
pubblico ufficiale in atti pubblici), come lo stesso si
configuri con il rilascio di autorizzazione paesaggistica,
da parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente,
nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal
richiedente circa la sussistenza dei presupposti
giuridico-fattuali per l'accoglimento della relativa
domanda, essendo l'organo competente obbligato a svolgere in
qualunque modo, e non necessariamente con un sopralluogo, le
necessarie preventive verifiche in merito alla sussistenza
delle relative condizioni.
Ancora, è configurabile il delitto di falso ideologico nella
valutazione tecnica formulata in un contesto implicante
l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o
tecnicamente indiscussi.
Anche altre decisioni hanno specificato che, se pure è vero
che, nel caso in cui il pubblico ufficiale sia libero nella
scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è
assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che
contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di
alcun fatto, tuttavia, se l'atto da compiere fa riferimento,
anche implicito, a previsioni normative che dettano criteri
di valutazione, si è in presenza di un esercizio di
discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una
verifica di conformità della situazione fattuale a parametri
predeterminati, con conseguente integrazione della falsità
se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai
parametri cui esso è implicitamente vincolato.
Si è conseguentemente ritenuto che i provvedimenti
autorizzativi rilasciati fossero fondati su presupposti
urbanistici e paesaggistici falsi, contenuti anche nella
relazione tecnica e, come tale, anch'essa falsa.
Va conseguentemente considerato che, dovendo la
discrezionalità tecnica essere vincolata alla verifica della
conformità della situazione fattuale alle previsioni
normative, il reato di falso ideologico è pienamente
configurabile quando detto giudizio di conformità non sia
rispondente ai parametri normativi richiesti per
l'emanazione di atti amministrativi, che la veridicità di
determinate situazioni fattuali richiedono quali necessari
presupposti per l'integrazione delle fattispecie giuridiche
di riferimento, ossia nei casi in cui l'agente, in presenza
di criteri di valutazione normativamente fissati o anche
solo di criteri tecnici generalmente accettati, se ne
discosti consapevolmente in modo da creare, con la propria
idonea e concreta condotta, una situazione di pericolo per
il normale svolgimento del traffico giuridico, impedendo
all'atto pubblico di adempiere alla funzione di affidamento
che gli è propria.
Occorre poi rilevare come, in alcune occasioni, altre
decisioni di questa Corte siano giunte a conclusioni
diverse, le quali, tuttavia, non pongono in discussione i
principi dianzi ricordati, i quali, pienamente condivisi dal
Collegio, meritano conferma.
Invero, le difformi decisioni prendono in considerazione il
fatto specifico, riconoscendo come corrispondenti al vero i
fatti rappresentati negli elaborati progettuali, sul difetto
dell'elemento soggettivo ovvero sostenendo che la
valutazione oggetto di imputazione, essendo correlata alla
mera interpretazione della normativa di settore, ma
svincolata da qualsiasi riferimento ad elementi fattuali
integranti il presupposto dell'atto, è priva di quella
funzione informativa in forza della quale l'enunciato può
essere predicato di falsità.
Si tratta, in tale ultimo caso, di una non condivisibile
qualificazione dei contenuti dell'atto che si assume falso,
perché, come si è affermato in una recente pronuncia,
nell'autorizzazione paesaggistica vengono attestate la
conformità urbanistica e la compatibilità ambientale delle
opere da edificare, esprimendo quindi un giudizio in base
alla rispondenza dell'intervento edilizio ad oggettivi e
preesistenti criteri normativi, in quanto tale non
caratterizzato da mera discrezionalità tecnica, quanto,
piuttosto, da una verifica oggettiva.
---------------
Quanto alla sussistenza dell'elemento soggettivo, si è
sempre attribuito decisivo rilievo alla piena conoscenza
della normativa di settore, da parte dei soggetti coinvolti,
trattandosi di tecnici, alla insostenibilità della tesi
difensiva della difficoltà della normativa edilizia riferita
alle zone agricole ed al fatto che la procedura seguita
rientrasse in una "prassi" seguita dagli uffici comunali,
alla sistematicità del meccanismo ideato per aggirare la
disciplina urbanistica e paesaggistica, rilevando, in
definitiva, come i giudici del merito avessero del tutto
legittimamente riconosciuto la piena consapevolezza, da
parte degli imputati, della illiceità delle loro azioni e,
segnatamente, della non compatibilità dell'intervento
edilizio con la destinazione di zona.
Tali principi, come si è detto, sono applicabili anche nel
caso in esame ed ad essi si è opportunamente allineata la
Corte territoriale, ponendo in evidenza come l'atto del
quale è stata riconosciuta la falsità "contiene
qualificazioni decisive per la produzione degli effetti
giuridici ad esso assegnato dall'ordinamento platealmente
false laddove attesta la congruità dell'intervento con il
preesistente, con supino recepimento delle indicazioni,
parimenti false, contenute nella relazione in cui la
proprietaria committente ed il tecnico progettista
quantificano le dimensioni al fine esclusivo di aumentare le
stesse (...)" ed escludendo la possibilità di un mero errore
tecnico.
Tale ultimo aspetto offre valida risposta alla questione
concernente la sussistenza dell'elemento soggettivo del
reato, atteso che la falsità delle indicazioni circa
l'originaria consistenza del manufatto crollato era evidente
per le modalità con le quali si assumeva verificata ed
immediatamente percepibile dall'imputato in quanto soggetto
tecnicamente qualificato, a nulla rilevando il fatto che
altri soggetti coinvolti nel procedimento amministrativo,
quali la Soprintendenza, non avrebbero riscontrato tale
anomala situazione, trattandosi peraltro di dato fattuale
non riscontrabile in questa sede.
---------------
6. Quanto al secondo e terzo motivo di
ricorso, osserva il Collegio che gli stessi riguardano la
sussistenza del falso in relazione al titolo abilitativo
paesaggistico e sollevano questioni analoghe a quelle più
volte affrontate da questa Corte con riferimento alla
vicenda delle illecite cessioni di cubatura, che hanno visto
coinvolto anche l'odierno ricorrente, sicché pare opportuno
richiamare, anche in questa occasione, i precedenti arresti
giurisprudenziali.
Nei diversi casi sottoposti all'attenzione di questa Corte
la condotta attribuita agli imputati veniva originariamente
qualificata come violazione dell'art. 479 cod. pen. e poi
riqualificata ai sensi dell'art. 480 cod. pen.
In una recente decisione (Sez. 3, n. 28713 del 19/04/2017,
Colella ed altri, non massimata) riguardante una vicenda
relativa al comune di Morciano di Leuca, richiamate altre
decisioni attinenti a procedimenti aventi ad oggetto fatti
analoghi (Sez. 3, n. 42064 del 30/06/2016, Quaranta e altri,
Rv. 268083; Sez. 5, n. 35556 del 26/04/2016, Renna, Rv.
267953), si è ricordato, con riferimento al più grave reato
di cui all'art. 479 cod. pen., in quell'occasione
contestato, come lo stesso si configuri con il rilascio di
autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile
dell'ufficio tecnico competente, nella consapevolezza della
falsità di quanto attestato dal richiedente circa la
sussistenza dei presupposti giuridico-fattuali per
l'accoglimento della relativa domanda, essendo l'organo
competente obbligato a svolgere in qualunque modo, e non
necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive
verifiche in merito alla sussistenza delle relative
condizioni.
Ancora, va ricordato il principio secondo il quale è
configurabile il delitto di falso ideologico nella
valutazione tecnica formulata in un contesto implicante
l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o
tecnicamente indiscussi (ribadito in Sez. 3, n. 41373 del
17/07/2014, P.M in proc. Pasteris e altri, Rv. 260968, non
massimata sul punto, che a sua volta richiama Sez. 1, n.
45373 del 10/06/2013, Capogrosso e altro, Rv. 257895).
Anche altre decisioni hanno specificato che, se pure è vero
che, nel caso in cui il pubblico ufficiale sia libero nella
scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è
assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che
contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di
alcun fatto, tuttavia, se l'atto da compiere fa riferimento,
anche implicito, a previsioni normative che dettano criteri
di valutazione, si è in presenza di un esercizio di
discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una
verifica di conformità della situazione fattuale a parametri
predeterminati, con conseguente integrazione della falsità
se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai
parametri cui esso è implicitamente vincolato (Sez. 2, n.
1417 del 11/10/2012, p.c. in proc. Platamone e altro, Rv.
254305; si vedano anche Sez. 5, n. 39360 dell 05/07/2011,
Gulino, Rv. 251533; Sez. 5, n. 14486 del 21/02/2011, Marini
e altro, Rv. 249858).
Tali principi sono stati anche recentemente ribaditi (Sez.
3, n. 9881 del 08/02/2018, Costantini ed altri, cit.; Sez.
3, n. 2281 del 24/11/2017 (dep. 2018), Siciliano ed altri,
cit.. V. anche Sez. 3, n. 57120 del 29/09/2017, Borrello ed
altro, non massimata; Sez. 3, n. 57108 del 17/05/2017,
Renna, non massimata. V. anche Sez. 3 n. 18890 del
08/11/2017 (dep. 2018), Renna non ancora massimata).
Si è conseguentemente ritenuto che i provvedimenti
autorizzativi rilasciati fossero fondati su presupposti
urbanistici e paesaggistici falsi, contenuti anche nella
relazione tecnica e, come tale, anch'essa falsa.
Va conseguentemente considerato che, dovendo la
discrezionalità tecnica essere vincolata alla verifica della
conformità della situazione fattuale alle previsioni
normative, il reato di falso ideologico è pienamente
configurabile quando detto giudizio di conformità non sia
rispondente, come nei casi esaminati, ai parametri normativi
richiesti per l'emanazione di atti amministrativi, che la
veridicità di determinate situazioni fattuali richiedono
quali necessari presupposti per l'integrazione delle
fattispecie giuridiche di riferimento, ossia nei casi in cui
l'agente, in presenza di criteri di valutazione
normativamente fissati o anche solo di criteri tecnici
generalmente accettati, se ne discosti consapevolmente in
modo da creare, con la propria idonea e concreta condotta,
una situazione di pericolo per il normale svolgimento del
traffico giuridico, impedendo all'atto pubblico di adempiere
alla funzione di affidamento che gli è propria.
Occorre poi rilevare come, in alcune occasioni, altre
decisioni di questa Corte siano giunte a conclusioni
diverse, le quali, tuttavia, non pongono in discussione i
principi dianzi ricordati, i quali, pienamente condivisi dal
Collegio, meritano conferma.
Invero, le difformi decisioni prendono in considerazione il
fatto specifico, riconoscendo come corrispondenti al vero i
fatti rappresentati negli elaborati progettuali (Sez. 3, n.
4566 del 10/10/2017 (dep. 2018), Morciano ed altro, non
massimata), sul difetto dell'elemento soggettivo (v. Sez. 5
n. 37915 del 26/04/2017, Baglivo, non massimata) ovvero
sostenendo che la valutazione oggetto di imputazione,
essendo correlata alla mera interpretazione della normativa
di settore, ma svincolata da qualsiasi riferimento ad
elementi fattuali integranti il presupposto dell'atto, è
priva di quella funzione informativa in forza della quale
l'enunciato può essere predicato di falsità (Sez. 5, n.
19384 del 12/2/2018, De Micheli ed altri, non massimata;
Sez. 5, n. 7879 del 16/01/2018, Daversa e altri, Rv.
272457).
Si tratta, in tale ultimo caso, di una non condivisibile
qualificazione dei contenuti dell'atto che si assume falso,
perché, come si è affermato in una recente pronuncia (Sez.
3, n. 8844 del 18/01/2018, Renna ed altro, non massimata, la
quale a sua volta richiama Sez. 3, n. 57108 del 17/05/2017,
Renna, cit. Negli stessi termini, Sez. 3, n. 8852 del
18/01/2018, Dilonardo ed altri, non massimata),
nell'autorizzazione paesaggistica vengono attestate la
conformità urbanistica e la compatibilità ambientale delle
opere da edificare, esprimendo quindi un giudizio in base
alla rispondenza dell'intervento edilizio ad oggettivi e
preesistenti criteri normativi, in quanto tale non
caratterizzato da mera discrezionalità tecnica, quanto,
piuttosto, da una verifica oggettiva.
Quanto alla sussistenza dell'elemento soggettivo, nei casi
esaminati si è sempre attribuito decisivo rilievo alla piena
conoscenza della normativa di settore, da parte dei soggetti
coinvolti, trattandosi di tecnici, alla insostenibilità
della tesi difensiva della difficoltà della normativa
edilizia riferita alle zone agricole ed al fatto che la
procedura seguita rientrasse in una "prassi" seguita
dagli uffici comunali (Sez. 3, n. 35166 del 28/03/2017,
Nespoli ed altri, citata), alla sistematicità del meccanismo
ideato per aggirare la disciplina urbanistica e
paesaggistica, rilevando, in definitiva, come i giudici del
merito avessero del tutto legittimamente riconosciuto la
piena consapevolezza, da parte degli imputati, della
illiceità delle loro azioni e, segnatamente, della non
compatibilità dell'intervento edilizio con la destinazione
di zona.
Tali principi, come si è detto, sono applicabili anche nel
caso in esame ed ad essi si è opportunamente allineata la
Corte territoriale, ponendo in evidenza come l'atto del
quale è stata riconosciuta la falsità "contiene
qualificazioni decisive per la produzione degli effetti
giuridici ad esso assegnato dall'ordinamento platealmente
false laddove attesta la congruità dell'intervento con il
preesistente, con supino recepimento delle indicazioni,
parimenti false, contenute nella relazione in cui la
proprietaria committente ed il tecnico progettista
quantificano le dimensioni al fine esclusivo di aumentare le
stesse (...)" ed escludendo la possibilità di un mero
errore tecnico.
Tale ultimo aspetto offre valida risposta alla questione
concernente la sussistenza dell'elemento soggettivo del
reato, atteso che la falsità delle indicazioni circa
l'originaria consistenza del manufatto crollato era evidente
per le modalità con le quali si assumeva verificata ed
immediatamente percepibile dall'imputato in quanto soggetto
tecnicamente qualificato, a nulla rilevando il fatto che
altri soggetti coinvolti nel procedimento amministrativo,
quali la Soprintendenza, non avrebbero riscontrato tale
anomala situazione, trattandosi peraltro di dato fattuale
non riscontrabile in questa sede (Corte di cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 31.08.2018 n. 39340). |
APPALTI: Artificioso
frazionamento. C’è abuso di ufficio. Sentenza della
Cassazione.
In caso di artificioso frazionamento di un appalto il
responsabile del procedimento è imputabile per il reato di
abuso d'ufficio.
Lo afferma la Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la
sentenza 11.06.2018 n. 26610.
Era accaduto che, frazionando artificiosamente un
intervento, il responsabile unico del procedimento affidasse
i lavori attraverso la procedura del cottimo fiduciario,
omettendo l'applicazione della procedura di cui al comma 8
dell'art. 125 del testo allora vigente (2010) del codice dei
contratti pubblici.
In particolare l'appalto, avente ad oggetto i lavori di
rifacimento del lucernaio di un capannone, era stato
suddiviso in cinque distinti interventi, tre dei quali
dell'importo di euro 40 mila e due di importo inferiore, uno
corrispondente a euro 25 mila e l'altro di euro 34 mila. Si
era quindi proceduto ad affidamento dei lavori con la
procedura del cottimo fiduciario, senza procedere neppure
alla consultazione di almeno altre quattro ditte.
La Cassazione ha confermato che è stato puntualmente
ricostruito il rapporto di conoscenza dell'imputato con
l'amministratore della società che aveva eseguito, nel
medesimo capannone, lavori di ampliamento ed il procedimento
di affidamento dei nuovi ed ulteriori lavori.
La macroscopica illegittimità della procedura, si legge
nella sentenza, denota per la Suprema corte, a chiare
lettere, l'elemento soggettivo del dolo intenzionale, ossia
la rappresentazione e la volizione dell'evento come
conseguenza diretta e immediata della condotta dell'agente e
obiettivo primario da costui perseguito.
Questa condotta risulta inequivocabilmente orientata a
procurare il vantaggio patrimoniale alla società
assegnataria dei lavori, finalità rispetto alla quale non
rileva la circostanza che la ditta avesse poi direttamente
eseguito buona parte dei lavori e non, come da originaria
contestazione, solo una parte mentre la parte restante era
stata affidata in subappalto alla Im..
Il dolo, inoltre, prescinde dall'accertamento dell'accordo
collusivo con la persona che si intende favorire, potendo
essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità
dell'atto
(articolo ItaliaOggi del
17.08.2018).
---------------
MASSIMA
3. Anche il secondo motivo di ricorso non è
fondato.
Deve escludersi, sulla scorta della ricostruzione compiuta
nella sentenza impugnata ed in quella di primo grado che il
ricorrente sia stato condannato, in violazione dell'art. 521
cod. proc. pen., per un fatto diverso da quello che aveva
costituito oggetto di addebito nella originaria
contestazione, benché le sentenze di merito diano
diffusamente atto che, durante l'istruttoria dibattimentale,
era emerso, in relazione al vizio di violazione di legge che
inficiava la procedura di scelta del contraente seguita per
l'affidamento dei lavori, un aspetto, cioè che l'importo di
tre degli ordinativi non consentiva di procedere
all'affidamento diretto dei lavori.
Tale vizio, tuttavia, non aveva costituito oggetto di
contestazione e, men che mai, è stato oggetto di addebito
con le decisioni che avevano affermato la penale
responsabilità del Pi..
3.2 Per come è dato evincere dalla sentenza impugnata,
An.Pi. è stato ritenuto responsabile del reato di abuso di
ufficio perché, al fine di procurare un indebito vantaggio
patrimoniale alla Ed., aveva, artificiosamente frazionato,
in accordo con il defunto amministratore della società che
aveva inviato i corrispondenti preventivi, l'appalto avente
ad oggetto i lavori di rifacimento del lucernaio di un
capannone, suddividendoli in cinque distinti interventi, tre
dei quali dell'importo di euro 40.000,00 e due di importo
inferiore, uno corrispondente ad euro 25.000,00 e l'altro di
euro 34.000, così procedendo ad affidamento dei lavori con
la procedura del cottimo fiduciario, senza procedere neppure
alla consultazione di almeno altre quattro ditte.
Secondo il ricorrente, invece, dall'istruttoria
dibattimentale era emerso che il vizio che inficiava la
procedura di scelta del contraente era ravvisabile nella
circostanza che anche per l'appalto di lavori di importo
pari a 40.000,00 euro -e non solo superiori a detto importo-
era d'obbligo procedere a gara, vizio, questo, che non aveva
costituito oggetto di contestazione e rispetto al quale
erano risultate elusive le risposte alle deduzioni difensive
contenute nella sentenza impugnata ed in quella di primo
grado.
3.3. Ritiene il Collegio, sulla scorta dei profili di
illegittimità individuati nelle sentenze di merito in
relazione alla descritta procedura, che deve escludersi
siano stati addebitati al ricorrente vizi della procedura
diversi ed ulteriori rispetto a quelli che avevano
costituito oggetto dell'originaria contestazione e che, in
ogni caso, la valutazione compiuta dai giudici del merito,
quanto alla configurabilità del delitto di abuso
ascrittogli, è operata in conseguenza di una valutazione
logica del materiale processuale e senza alcun rilevante
errore di diritto circa gli elementi costitutivi essenziali
del fatto, ai fini della sua sussunzione nella fattispecie
incriminatrice, con la conseguenza che la Corte di
Cassazione non può compiere un diverso apprezzamento dei
dati fattuali venendo, altrimenti, vulnerato il principio
dell'autonomia esclusiva del convincimento in fatto del
giudice di merito.
4. Per mera completezza, ed in aggiunta ai rilievi testé
svolti, ritiene il Collegio che può perfino dubitarsi, a
livello epistemologico, che l'ulteriore aspetto di
illegittimità denunciato dal ricorrente -cioè, che l'importo
di tre dei cinque ordinativi rendeva obbligatorio procedere
a gara- sia tale da connotare il fatto originariamente
contestato in termini di fatto diverso -men che mai in
termini di fatto nuovo-, non trattandosi di aspetto tale da
ingenerare il dubbio che il fatto materiale ascritto
all'imputato si sia svolto in tempi, in luoghi o con
modalità difformi a quelle descritte nell'imputazione e
tenuto conto, altresì, che la violazione dell'obbligo di
correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza, non
si verifica quando l'accusa venga precisata o integrata con
le risultanze di atti acquisiti al processo, e quando la
modifica, rispetto all'accusa originaria, non abbia in alcun
modo menomato le possibilità di difesa (Sez. 2, n. 18868 del
10/02/2012 - dep. 17/05/2012, Osmenaj, Rv. 252822), e, in
particolare, quando il fatto ritenuto in sentenza,
quantunque diverso da quello contestato, sia stato
prospettato dallo stesso imputato, atteso che, avendo in tal
caso il medesimo imputato apprestato la necessaria difesa in
relazione alla diversa prospettazione del fatto
volontariamente offerta.
5. Corrisponde all'osservanza di precise regole nella
valutazione delle prove, di completezza e logicità della
motivazione, l'iter argomentativo posto a fondamento della
sentenza impugnata con riguardo alla individuazione e
sussistenza dell'ingiusto vantaggio patrimoniale che, quale
diretta conseguenza della condotta abusiva, i giudici di
appello hanno individuato nell'avere procurato alla Ed. una
commessa alla quale l'impresa non aveva alcun diritto.
Nella sentenza (cfr. pag. 11) è stato puntualmente
ricostruito il rapporto di conoscenza dell'imputato con
l'amministratore della società Ed. (nel frattempo deceduto)
che aveva eseguito, nel medesimo capannone, lavori di
ampliamento ed il procedimento di affidamento dei nuovi ed
ulteriori lavori -oggetto di contestazione- che veniva
seguito personalmente dall'imputato, nella qualità, a
partire dal sopralluogo eseguito nel mese di luglio 2009,
per verificare le infiltrazioni, sopralluogo al quale aveva
fatto seguito, in mancanza di una previsione di spesa dei
lavori da eseguire, la presentazione, da parte della
società, dei preventivi che, ritoccati nell'importo ridotto
a quarantamila euro, vennero poi posti a base degli ordini
di lavoro che, pur investendo un intervento sostanzialmente
e funzionalmente unitario (cioè il rifacimento del tetto del
capannone) risultavano, senza alcuna apparente ragione,
senza alcuna ragionevole giustificazione e in contrasto con
le previsioni recate dall'art. 125, comma 13, del Codice
degli appalti, artificiosamente frazionati (la costruzione
del ponteggio per la esecuzione dei lavori, oggetto del
primo ordine; lo smontaggio dei pannelli di copertura del
tetto, oggetto del secondo; la fornitura e posa in opera dei
strutture, oltre alla pitturazione trasporto a discarica del
materiale di risulta, il terzo, quarto e quinto ordine) allo
scopo di sottoporli alla disciplina delle acquisizioni in
economia, ovvero attraverso la procedura del cottimo
fiduciario, così in concreto seguita.
6. La macroscopica illegittimità della
procedura seguita,
secondo le corrette valutazioni dei giudici del merito,
denota a chiare lettere l'elemento
soggettivo del dolo intenzionale, ossia la rappresentazione
e la volizione dell'evento come conseguenza diretta e
immediata della condotta dell'agente e obiettivo primario da
costui perseguito
( Sez. 6, n. 35859 del 07/05/2008, Pro, Rv. 241210; Sez. 5,
n. 3039 del 03/12/2010, Marotta e altri, Rv. 249706)
e risulta inequivocabilmente orientata a
procurare il vantaggio patrimoniale alla società
assegnataria dei lavori, finalità rispetto alla quale non
rileva la circostanza che la ditta avesse poi direttamente
eseguito buona parte dei lavori e non, come da originaria
contestazione, solo una parte mentre la parte restante era
stata affidata in subappalto alla Im.. Il dolo, inoltre,
prescinde dall'accertamento dell'accordo collusivo con la
persona che si intende favorire, potendo essere desunta
anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto
(Sez. 3, n. 57914 del 28/09/2017, Di Palma e altri, Rv.
272331).
7. Come noto ai fini del perfezionamento
del reato di abuso d'ufficio assume rilievo il concreto
verificarsi (reale o potenziale) di un ingiusto vantaggio
patrimoniale che il soggetto attivo procura con i suoi atti
a se stesso o ad altri, ovvero di un ingiusto danno che quei
medesimi atti procurano a terzi
(Sez. 6, n. 36020 del 24/05/2011, Rossattini, Rv. 250776).
È, quindi, necessario che sussista la
cosiddetta doppia ingiustizia, nel senso che ingiusta deve
essere la condotta, perché connotata da violazione di legge,
ed ingiusto deve essere l'evento di vantaggio patrimoniale,
in quanto non spettante in base al diritto oggettivo
regolante la materia
e nel caso comprovato dal favoritismo accordato alla Ed.
assicurandole l'appalto, frazionato in cinque ordinativi, e
con l'intenzione di arrecarle un vantaggio, evitando la
gara. |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Abuso
d’ufficio al sindaco che revoca in anticipo l'incarico di
posizione organizzativa.
Al di fuori delle ipotesi tipizzate dalla legge, dal
contratto o dal regolamento degli uffici e dei servizi, il
sindaco che dispone la revoca anticipata dell'incarico di
posizione organizzativa, del responsabile dei servizi
finanziari, commette il reato di abuso d’ufficio.
Sono le conclusioni della
sentenza 04.05.2018 n. 19519 della Corte di
Cassazione, Sez. IV penale.
La vicenda
Il sindaco di un piccolo Comune, in prospettiva di una
ristrutturazione dell'apparato organizzativo che potesse
condurre a una razionalizzazione della spesa, ha proceduto
alla revoca anticipata dell'incarico del responsabile del
servizio finanziario assumendone ad interim le
funzioni.
Il responsabile estromesso ha denunciato il sindaco per
violazione delle norme legislative, contrattuali e
regolamentari con una risoluzione anticipata dell'incarico
in mancanza dei presupposti. Il responsabile, infatti, ha
lamentato che il provvedimento ha procurato un danno
ingiusto, per perdita del trattamento economico, oltre che
asseritamente punitivo.
Dopo la condanna per abuso d’ufficio da parte del tribunale
successivamente confermata in Corte d’appello, il sindaco ha
proposto ricorso in Cassazione evidenziando l'errore in cui
erano incorsi i giudici per non avere adeguatamente valutato
che il provvedimento di revoca avrebbe condotto a un
contenimento della spesa pubblica espressamente previsto da
altra norma di legge (articolo 53, comma 23, legge n. 388
del 2000) per i piccoli Comuni.
La conferma della Suprema Corte
Secondo la Cassazione, integra il reato di abuso d’ufficio
non solo la condotta del pubblico ufficiale in contrasto con
le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche le
condotte che siano dirette alla realizzazione di un
interesse che collide con quello per il quale il potere è
conferito, ponendo in essere un vero e proprio sviamento
della funzione. In tema di revoca dell'incarico dirigenziale
disposto nel caso di specie dal sindaco, l'atto diviene
strumento attraverso il quale si realizza il reato.
Infatti, come correttamente rilevato dalla Corte d’appello,
la revoca era stata disposta dal sindaco prima della
modifica del modello organizzativo che conferiva ai membri
dell'organo esecutivo, per un possibile risparmio della
spesa, la titolarità della conduzione degli uffici. In altri
termini, l'atto di revoca proprio perché privo di effettiva
motivazione in quanto disposto prima dell'adozione di un
atto organizzativo, mostra la sua obbligatoria distanza dal
paradigma legislativo e/o contrattuale.
Caduta, pertanto, la motivazione organizzativa, la revoca
dell'incarico sarebbe stata legittima solo qualora fosse
stata conforme all'articolo 109 del Dlgs 267/2000, dove è
stabilito che la revoca prima della scadenza degli incarichi
dirigenziali intervenga, tra l'altro, in caso di
inosservanza delle direttive del sindaco o di mancato
raggiungimento, alla fine di ogni anno finanziario, degli
obiettivi assegnati o per responsabilità particolarmente
grave e reiterata o nei casi disciplinati dai contratti
collettivi di lavoro.
Avendo, pertanto, agito il sindaco al di fuori delle ipotesi
tipizzate e, quindi, in violazione di legge, ha avuto un
comportamento che definisce l'elemento soggettivo quale dolo
di abuso secondo l’articolo 323 del codice penale (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.05.2018).
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MASSIMA
4. La deduzione è altresì irrilevante.
In tema di abuso d'ufficio, la violazione
di legge cui fa riferimento l'art. 323 cod. pen. riguarda
non solo la condotta del pubblico ufficiale in contrasto con
le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche le
condotte che siano dirette alla realizzazione di un
interesse collidente con quello per quale il potere è
conferito, ponendo in essere un vero e proprio sviamento
della funzione (Sez.
6, n. 43789 del 18/10/2012, Contiguglia, Rv. 254124).
Ove l'abuso di ufficio si realizzi per
adozione di un atto di revoca, l'atto diviene strumento
attraverso il quale si realizza il comportamento costituente
reato perseguendosi per il primo l'intento di recare un
danno obiettivamente ingiusto, qual è per l'appunto la
revoca di incarico, a cui si accompagnano negative
implicazioni economiche, funzionali e di immagine connesse,
al di fuori dei casi consentiti.
L'estraneità dell'atto dallo schema legale tipico si pone in
tal caso di intensità tale da sconfinare in 'comportamento'
per l'assenza dei presupposti di fatto che consentono di
ravvisare nel primo l'azione della Pubblica amministrazione
(Sez. 6, n. 19135 del 02/04/2009, Palascino, Rv. 243535; Id.,
n. 37172 del 11/06/2008, Gatto, Rv. 240932).
Fermi gli indicati principi, vero è che la questione della
tempestività della delibera di giunta in ordine alla diversa
organizzazione dell'apparato comunale, comunque non posta
tempestivamente nel giudizio di merito, non viene trattata
come capace di rivelare o escludere le ragioni vendicative
che del decreto di revoca dell'incarico dirigenziale
avrebbero sostenuto l'adozione.
La Corte di appello ragiona invero, conformando in tal modo
il proprio giudizio a quello del giudice di primo grado,
sulla illegittimità del decreto di revoca nella rilevata
insussistenza al momento della sua adozione di un
provvedimento organizzativo che, in quanto cronologicamente
precedente, della revoca legittimasse l'adozione.
Ai fini della configurabilità del reato di
abuso di ufficio, l'esigenza di dotare la compagine
amministrativa locale di una diversa organizzazione con
attribuzione, ai fini di contenimento della spesa, ai
componenti dell'organo esecutivo della responsabilità degli
uffici e dei servizi e del potere di adottare atti anche di
natura tecnico-gestionale, ai sensi dell'art. 53, comma 23,
d.lgs. n. 267 del 2000, vale a giustificare per l'art. 109
d.lgs. n. 267 del 2000, la revoca del dirigente ai servizi
in precedenza nominato se ed in quanto la delibera di
adozione del diverso modello preceda la revoca stessa.
Non può infatti diversamente valere la mera intenzione
enunciata dal pubblico amministratore nel provvedimento di
revoca del dirigente di dotarsi, in futuro, del nuovo
modello organizzativo.
Il contenimento della spesa deve invero poter essere
documentato ogni anno, con apposita delibera, in sede di
approvazione del bilancio, evidenza espressiva, ai fini
dello scrutinio dell'abuso di ufficio, della mancanza di una
intenzione di malevolenza nell'adozione dell'atto di revoca
che resta così giustificato dall'obiettivo fine del
contenimento della spesa pubblica, verificabile per aperto
confronto tra costi originari e risparmi conseguiti.
La necessità che la diversa scelta organizzativa preceda e
non segua la revoca ex art. 109 d.lgs. cit. vale a sottrarre
quest'ultima ad ogni apprezzamento di strumentalità rispetto
al diverso fine emulativo delle posizioni del dirigente
revocato ed ove rimasta inosservata integra quel rilevante
distacco dall'atto tipico che dello stesso rivela la natura
di comportamento illegittimo, estraneo all'azione della
pubblica amministrazione.
Le evidenziate circostanze, chiare nella motivazione
adottata dalla Corte di merito, restano quindi
inammissibilmente contestate in ricorso per una pretesa
adozione del diverso atto organizzativo in un'epoca che,
seppure successiva, sarebbe comunque rimasta prossima al
decreto di revoca in tal modo ancora sostenendo, si assume,
la legittimità dell'atto nella sua necessitata esigenza di
contenimento della spesa pubblica.
5. A fronte della richiamata ricostruzione della
illegittimità dell'atto degradato in comportamento, in ogni
caso l'elemento intenzionale del contestato reato resta pure
in modo inefficace contrastato là dove in ricorso si deduce
che la stessa persona offesa, escussa in sede dibattimentale
in primo grado, avrebbe riferito di una propria intenzione
di candidarsi nella lista avversaria rispetto a quella del
sindaco Fi. nell'anno 2010 e quindi solo successivamente
all'intervenuta revoca del novembre del 2009.
Si tratta invero di un parcellizzato richiamo, in ricorso,
alle dichiarazioni rese in sede di esame testimoniale
dall'offeso che non vale a sottrarre concludenza alla
diversa e piena affermazione, contenuta nell'impugnata
sentenza, dell'esistenza dell'estremo soggettivo del
contestato reato per un più ampio quadro di prova in cui
convergono univocamente anche le dichiarazioni del teste
Ma., non attinte da critica, e per le quali il sindaco
avrebbe rivelato l'intenzione di addivenire a revoca
dell'incarico nella registrata frattura del rapporto di
fiducia con l'Ab..
In ogni caso, rispetto a siffatta cornice, all'interno della
quale in modo pregnante è definito l'elemento soggettivo, la
pure dedotta vicinanza temporale tra revoca e diverso atto
organizzativo non vale ad escludere il dolo di abuso ex art.
323 cod. pen. e lascia anche per tale profilo
inefficacemente e quindi inammissibilimente proposto il
ricorso. |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Niente
abuso d’ufficio per il sindaco che nomina il segretario a
capo dei vigili urbani.
La Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la
sentenza 20.04.2018 n. 17991, ha accolto il
ricorso di un sindaco e del segretario di un Comune che non
dovranno neppure risarcire le parti civili perché i fatti a
loro addebitati non costituiscono reato.
La vicenda
Il caso è caratterizzato da un lungo contenzioso tra il
sindaco e il segretario comunale da una parte, e una
dipendente dall'altra.
In particolare tra una dipendente (parte civile) risultata
vincitrice di un concorso bandito dal Comune per la
copertura del posto di comandante della polizia municipale e
assunta con quella qualifica con contratto a tempo
indeterminato, e l’amministrazione si erano verificati dei
dissapori a causa di indebite pressioni esercitate sulla
stessa dipendente.
La cosa sfociò nel licenziamento della dipendente,
licenziamento dichiarato illegittimo dal giudice del lavoro
che ordinò la reintegra nel posto di lavoro della donna, mai
eseguita dal Comune. Il sindaco intanto aveva nominato
un'altra persona a capo della polizia municipale. Per questo
i giudici del merito hanno condannato sindaco e segretario
generale per il reato di abuso d'ufficio; avverso la
sentenza sfavorevole i due imputati sono ricorsi in
Cassazione.
La decisione
La valutazione dei giudici di merito cade nell'equivoco,
secondo i giudici di legittimità, in quanto considera
violata una norma dell'ordinamento di polizia locale,
dettata per l'istituzione e l’organizzazione dei corpi e dei
servizi di polizia locale, non applicabile al caso in esame.
La Cassazione osserva come la normativa nazionale e
regionale stabilivano, come riconosciuto dalla sentenza
della Corte d’appello, che nel caso in esame non risulta
istituito il Corpo di polizia municipale, con la conseguenza
che la dipendente era nominata capo del settore, ma non
responsabile del servizio di polizia municipale, rientrando
questa nomina nelle competenze del sindaco a norma
dell'articolo 50, comma 10, del Dlgs 267/2000 e
dell'articolo 8 del regolamento comunale: e infatti, il
sindaco aveva nominato responsabile della polizia municipale
il segretario comunale che dava esecuzione alle delibere di
Giunta con la quale venivano individuati i responsabili dei
servizi dell'ente.
Da questa ricostruzione discende la non necessaria
coincidenza delle funzioni di comandante della polizia
municipale e di responsabile del servizio, prevista solo per
il comandante del Corpo di polizia municipale dall'articolo
7 della legge 65/1986, e l'erronea impostazione del
ragionamento dei giudici di merito (articolo Quotidiano
Enti Locali & Pa del 30.04.2018).
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MASSIMA
3. Nel merito i ricorsi sono fondati.
L'impostazione dei giudici di merito poggia su un equivoco
di fondo ovvero sulla istituzione del Corpo di polizia
municipale nel comune di Sperlonga, al quale si aggiungono
la non corretta distinzione tra competenze del comandante di
polizia municipale e responsabilità del servizio e
l'interpretazione delle norme regolamentari, statutarie e
regionali, come riconosciuto nelle sentenze prodotte dai
difensori dei ricorrenti.
Va peraltro, evidenziato che la stessa persona offesa ha
ammesso di non aver mai ottenuto la nomina di responsabile
del servizio di polizia municipale, essendo le competenze
affidate al segretario comunale, al quale spettava la
gestione delle risorse finanziarie, limitandosi ella alla
gestione delle spese ordinarie; ha anche ammesso di aver
continuato ad esercitare sino al licenziamento le funzioni
di comandante della polizia municipale.
Sia l'art. 7 della legge n. 65/1986 che l'art. 2, comma 2,
della legge regionale n. 20/1990 stabilivano che "i
comuni, che destinano almeno sette addetti al servizio di
polizia locale, possono istituire il Corpo di polizia
municipale" ed anche l'art. 12, comma 1, della legge
regionale n. 1/2005 lo ribadisce, ma, come riconosciuto
dalla sentenza della Corte di appello di Roma, Sezione
lavoro, presso il comune di Sperlonga non risulta istituito
il Corpo di polizia municipale, con la conseguenza che la
d.ssa Ci. era nominata capo del settore, ma non responsabile
del servizio di polizia municipale, rientrando tale nomina
nelle competenze del sindaco a norma dell'art. 50, comma 10,
d.lgs. 267/2000 e dell'art. 8 del regolamento comunale: ed
infatti, il Cu. aveva nominato responsabile della polizia
municipale il segretario comunale con il provvedimento del
30.01.2001 in atti, che dava esecuzione alle delibere di
Giunta del 23.01.2001 con la quale venivano individuati i
responsabili dei servizi dell'ente secondo le previsioni
degli artt. 7 e 8 del regolamento degli uffici e dei
servizi, approvato con delibera n. 41 del 20.02.1998.
Da tale ricostruzione discende la non
necessaria coincidenza delle funzioni di comandante della
polizia municipale e di responsabile del servizio, prevista
solo per il comandante del Corpo di polizia municipale
dall'art. 7 l. 65/1986, e l'erronea impostazione del
ragionamento dei giudici di merito.
Pur non potendosi negare che sino al momento in cui si
verificarono le frizioni tra i vertici comunali e la persona
offesa, alla stessa era stato consentito di esercitare
attribuzioni, poi assunte dal responsabile del servizio, e
che tale comportamento dell'amministrazione aveva creato
nella Ci. un legittimo affidamento ed il convincimento di
essere stata esautorata dei propri poteri, innescando una
sequenza di provvedimenti ed un insanabile contrasto,
sfociato nel licenziamento, ritenuto legittimo anche dai
giudici di secondo grado, come già detto,
la linea di condotta tenuta dall'amministrazione non risulta
in contrasto con il quadro normativo ricostruito in
precedenza.
Analogamente deve escludersi l'illegittimità della delibera
n. 76 del 03.05.2005 di adozione del nuovo regolamento
comunale, che riorganizzava la struttura dell'ente con
l'istituzione di aree, accorpando nell'Area III, Servizi al
cittadino, il servizio di polizia municipale, e ne
attribuiva la presponsabilità ad un funzionario di vertice,
come riconosciuto dal Consiglio di stato nella sentenza n.
6065 del 2008, che ha sancito la legittimità dell'atto
riorganizzativo degli uffici e dei servizi comunali,
escludendone il contrasto con lo statuto comunale.
A fronte del giudicato amministrativo, già i giudici di
primo grado avevano escluso, in linea con la sentenza del
giudice amministrativo, la violazione dell'art. 30 dello
statuto comunale ed anche dell'art. 110 TUEL, ma avevano
ravvisato un profilo di illegittimità nell'attribuzione al
capo area, in aggiunta ai poteri di direzione e vigilanza
della stessa, della responsabilità del servizio di polizia
locale con mansioni e compiti propri del comandante, in
violazione dell'art. 12, lett. c), della legge regionale n.
1/2005, e tale valutazione ha trovato concordi i giudici di
appello.
A differenza di quanto sostenuto dai ricorrenti, tale
valutazione non integra la violazione del giudicato
amministrativo, essendo stato individuato un profilo di
illegittimità non valutato in tale sede e ciò è in linea con
l'orientamento giurisprudenziale di questa Corte, secondo il
quale al giudice penale è preclusa la valutazione della
legittimità dei provvedimenti amministrativi che
costituiscono il presupposto dell'illecito penale qualora
sul tema sia intervenuta una sentenza irrevocabile del
giudice amministrativo, ma tale preclusione non si estende
ai profili di illegittimità, fatti valere in sede penale,
che non siano stati dedotti ed effettivamente decisi in
quella amministrativa (Sez. 3, n. 44077 del 18/07/2014,
Scotto Di Clemente, Rv. 260612).
Tuttavia, la valutazione dei giudici di merito ricade
nell'equivoco indicato in precedenza, in quanto considera
violata una norma dell'ordinamento di polizia locale,
dettato per l'istituzione ed organizzazione dei corpi e dei
servizi di polizia locale, non applicabile al caso in esame.
Il tema è diffusamente trattato nelle sentenze di primo e di
secondo grado emesse dai giudici del lavoro, ai quali la
persona offesa aveva chiesto di dichiarare l'illegittimità
della dequalificazione e del demansionamento subiti con
riassegnazione delle funzioni di comandante della polizia
municipale. Muovendo dalla legittimità del regolamento,
riconosciuta dal giudice amministrativo, e dall'inequivoco
tenore dell'art. 42 del regolamento, che attribuisce al capo
dell'area III, Servizi al cittadino, la responsabilità del
servizio di polizia locale e ne individua in modo specifico
le attribuzioni, tra le quali rientrano l'emanazione degli
ordini di servizio e la gestione del personale mediante
assegnazione alle unità operative secondo le specifiche
necessità, i giudici hanno ritenuto infondata la domanda
della Ci. di riassegnazione alle mansioni di responsabile
del servizio di polizia municipale, ribadendo la distinzione
tra le funzioni di responsabile del servizio e di comandante
della polizia locale, funzioni queste che l'istante aveva
continuato ad esercitare.
Alla luce della ricostruzione che precede e delle sentenze
emesse dal giudice amministrativo e dai giudici dei lavoro,
che la confermano, devono ritenersi
insussistenti gli elementi costitutivi degli abusi di
ufficio contestati, fondati su un'erronea interpretazione
delle norme e della situazione di fatto esaminata.
Ne consegue l'annullamento senza rinvio della sentenza
impugnata perché i fatti reato ascritti ai ricorrenti non
sussistono e la revoca delle statuizioni civili adottate a
carico degli stessi. |
PUBBLICO IMPIEGO:
Abuso d'ufficio in riferimento ad un
atto interno al procedimento amministrativo - Formulazione
di un parere consultivo espresso contra legem - Fattispecie:
Concorso dei privati nell'iter criminis.
La fattispecie di abuso d'ufficio può essere integrata anche
in riferimento ad un atto interno al procedimento
amministrativo, non rilevando la circostanza che il
provvedimento definitivo sia emesso da altro pubblico
ufficiale (ex plurimis, Sez. 3, n. 16449 del
13/12/2016, dep. 31/03/2017).
Sicché, in tema, di abuso di ufficio, può integrare la
condotta del reato anche la formulazione di un parere
consultivo, se espresso contra legem, nel caso in cui
il giudice abbia accertato che il provvedimento finale sia
stato frutto di accordo tra gli operanti, con la conseguenza
che il predetto parere si inserisce nell'iter criminis
come elemento diretto ad agevolare la formazione di un atto
illegittimo ed in grado di far conseguire un ingiusto
vantaggio (Cass. Sez. 2, n. 5546 del 11/12/2013, dep.
04/02/2014).
Fattispecie: concorso dei privati, laddove si fa riferimento
all'accordo tra gli imputati che emerge dall'assoluta
macroscopicità dell'abuso edilizio, evidenziata dalla stessa
linea difensiva degli imputati, che si basa, da un lato,
sull'affermata incertezza della effettiva consistenza
dell'immobile preesistente e, dall'altro, sulla sostanziale
ammissione della non corrispondenza dell'immobile oggetto
dell'imputazione anche rispetto alla consistenza
dell'immobile preesistente quale prospettata dalla stessa
difesa.
Si è trattato, in sintesi, di un'operazione che ha visto la
piena partecipazione di tutti i soggetti interessati allo
scopo di realizzare un rilevante intervento di nuova
costruzione (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.04.2018 n. 15416 - link a
www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La fattispecie di abuso d'ufficio può
essere integrata anche in riferimento ad un atto interno al
procedimento amministrativo, non rilevando la circostanza
che il provvedimento definitivo sia emesso da altro pubblico
ufficiale.
E, in tema, di abuso di ufficio, può
integrare la condotta del reato anche la formulazione di un
parere consultivo, se espresso contra legem, nel caso in cui
il giudice abbia accertato che il provvedimento finale sia
stato frutto di accordo tra gli operanti, con la conseguenza
che il predetto parere si inserisce nell'iter criminis come
elemento diretto ad agevolare la formazione di un atto
illegittimo ed in grado di far conseguire un ingiusto
vantaggio.
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Inammissibile è il motivo con cui la difesa contesta la
motivazione della sentenza impugnata circa il mancato
riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Come ben evidenziato dalla Corte d'appello, la condotta
dell'imputato presenta una rilevante gravità, perché
l'assoluta evidenza degli abusi commessi denota una
particolare pervicacia oltre a un totale dispregio della
funzione pubblica esercitata.
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4.13. - I motivi sub 2.30., 2.33., 3.2. -che possono
essere trattati congiuntamente, perché attengono alla
sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi del reato
di abuso d'ufficio- sono inammissibili, perché meramente
ripetitivi di doglianze già motivatamente disattese dalla
Corte d'appello.
Sul piano giuridico, deve permettersi che -contrariamente a
quanto ritenuto dalle difese- il rilascio, da parte
dell'imputato Ce., del parere favorevole è pienamente idoneo
a integrare il reato di abuso d'ufficio.
Infatti, la fattispecie di abuso d'ufficio può essere
integrata anche in riferimento ad un atto interno al
procedimento amministrativo, non rilevando la circostanza
che il provvedimento definitivo sia emesso da altro pubblico
ufficiale (ex plurimis, Sez. 3, n. 16449 del
13/12/2016, dep. 31/03/2017, Rv. 269820).
E, in tema, di abuso di ufficio, può integrare la condotta
del reato anche la formulazione di un parere consultivo, se
espresso contra legem, nel caso in cui il giudice
abbia accertato che il provvedimento finale sia stato frutto
di accordo tra gli operanti, con la conseguenza che il
predetto parere si inserisce nell'iter criminis come
elemento diretto ad agevolare la formazione di un atto
illegittimo ed in grado di far conseguire un ingiusto
vantaggio (Sez. 2, n. 5546 del 11/12/2013, dep. 04/02/2014,
Rv. 258206).
Quanto, poi, al concorso dei privati nel caso concreto, lo
stesso è stato ben delineato nella sentenza impugnata (pagg.
51-52), laddove si fa riferimento all'accordo tra gli
imputati che emerge dall'assoluta macroscopicità dell'abuso
edilizio, evidenziata dalla stessa linea difensiva degli
imputati, che si basa, da un lato, sull'affermata
incertezza della effettiva consistenza dell'immobile
preesistente e, dall'altro, sulla sostanziale
ammissione della non corrispondenza dell'immobile oggetto
dell'imputazione anche rispetto alla consistenza
dell'immobile preesistente quale prospettata dalla stessa
difesa.
Si è trattato, in sintesi, di un'operazione che ha visto la
piena partecipazione di tutti i soggetti interessati allo
scopo di realizzare un rilevante intervento di nuova
costruzione. E tali considerazioni risultano pienamente
idonee anche i fini della ritenuta sussistenza del dolo in
capo agli imputati.
4.14. - La doglianza sub 3.1. -riferita alla ritenuta
sussistenza del dolo del reato di falso in capo a Ce.- è
anche essa inammissibile. La difesa nega l'evidenza laddove
afferma che il pubblico ufficiale imputato avrebbe
sottoscritto la documentazione di cui al capo di imputazione
sul presupposto della veridicità della produzione del
richiedente, senza considerare l'assoluta insufficienza di
tale produzione al fine di accertare l'esistenza dei
presupposti per qualificare l'intervento edilizio come di
ristrutturazione anziché di nuova costruzione.
E anzi -come già ampiamente evidenziato- la totale
difformità tra l'immobile preesistente e quello da
realizzare emergeva in modo sufficientemente chiaro dalla
documentazione di parte.
4.15. - Analoghe considerazioni valgono in relazione alla
sussistenza dell'elemento soggettivo della contravvenzione
edilizia, oggetto della doglianza sub 3.3., in presenza dei
macroscopici elementi già delineati, che inducono a ritenere
l'esistenza di un accordo fra gli imputati per la
realizzazione dell'operazione edilizia abusiva.
4.16. - Inammissibile è anche il motivo sub 3.4., con cui la
difesa di Ce. contesta la motivazione della sentenza
impugnata circa il mancato riconoscimento delle circostanze
attenuanti generiche.
Come ben evidenziato dalla Corte d'appello, la condotta
dell'imputato presenta una rilevante gravità, perché
l'assoluta evidenza degli abusi commessi denota una
particolare pervicacia oltre a un totale dispregio della
funzione pubblica esercitata; elementi a fronte dei quali l'incensuratezza
non può assumere alcun rilievo, visto anche il disposto
dell'art. 62-bis, terzo comma, cod. pen. (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.04.2018 n. 15416). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Abuso di ufficio - Adozione di permessi
di costruire in violazione del PRG - Responsabilità del
funzionario responsabile dell'Area Urbanistica del Comune -
Cambio di destinazione d'uso dell'edificio - Art. 323 cod.
pen. Giurisprudenza.
L'adozione di permessi di costruire in violazione delle
disposizioni contenute nel piano regolatore integra
violazione di legge rilevante ai fini della configurabilità
del reato di cui all'art. 323 cod. pen. (Cass. Sez. 6, n.
16241 del 02/04/2001 Ud., Ruggeri; Sez. 6, n. 6247 del
14/03/2000, Sisti e a.) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 05.04.2018 n. 15166 - link a
www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - URBANISTICA:
Opere di edilizia scolastica - Iter
amministrativo - Violazione delle Norme Tecniche di
Attuazione (N.T.A.) - Piano Regolatore Generale Comunale (P.R.G.C.)
- Fattispecie: Cambio di destinazione d'uso dell'edificio -
Contrasto con le prescrizioni dello strumento urbanistico -
Abuso di ufficio.
In conformità al d.m. 02.04.1968, n. 1444 -che stabilisce i
parametri urbanistici inderogabili da osservarsi per
l'edificazione nelle zone territoriali omogenee di cui
all'art. 41-quinquies, legge 17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge
urbanistica fondamentale), quale introdotto dall'art. 17,
legge 06.08.1967, n. 675 (c.d. legge ponte)- il P.R.G.C. può
stabilire che gli istituti di istruzione superiore siano
collocati in zona F1, vale a dire nella zona territoriale
del comune specificamente destinata ad ospitare gli impianti
di interesse generale.
Questa previsione è aderente al disposto di cui all'art. 4,
sub n. 5, d.m. 1444 del 1968 e rinviene la propria ratio
nella circostanza che gli istituti superiori, avendo com'è
noto indirizzi diversi, soprattutto in cittadine di non
grandissime dimensioni, sono destinati ad essere frequentati
da ragazzi che risiedono in differenti zone della città (e
spesso in comuni limitrofi), sicché, da un lato, non v'è
ragione di collocarli in particolari zone residenziali,
servendo essi ad un'utenza vasta e variamente dislocata sul
territorio, e, d'altro lato, vi è invece necessità di
prevedere adeguate infrastrutture anche per i trasporti.
Sicché, l'ordinamento si fa carico di prevedere speciali e
più agili procedure che consentano di risolvere i problemi
dell'edilizia scolastica, se del caso derogando alle
previsioni del piano regolatore, anche in assenza
dell'approvazione di varianti al medesimo, laddove la
rigidità delle relative disposizioni si riveli in contrasto
con l'interesse pubblico connesso alle scelte legate al
settore dell'istruzione.
Difatti, l'art. 10, legge 05.08.1975, n. 412 -richiamato e "stabilizzato",
al di là dell'originario contesto che ne aveva visto
l'approvazione, dall'art 88, d.lgs. 16.04.1994, n. 297- dopo
aver affermato il principio secondo cui le aree necessarie
per l'esecuzione delle opere di edilizia scolastica sono
prescelte secondo le previsioni degli strumenti urbanistici
approvati o adottati, stabilisce che «la individuazione
delle aree in zone genericamente destinate dagli strumenti
urbanistici a servizi pubblici, ovvero la scelta di aree non
conformi, per sopravvenuta inidoneità di quelle già
indicate, alle previsioni degli strumenti urbanistici,
ovvero la scelta di aree in comuni i cui strumenti
urbanistici non contengono la indicazione di aree per
edilizia scolastica, ovvero in comuni sprovvisti di ogni
strumento urbanistico, sono disposte con deliberazione del
consiglio comunale, previo parere di una commissione
composta dal provveditore regionale alle opere pubbliche,
dall'ingegnere capo dell'ufficio del genio civile, dal
provveditore agli studi della provincia, dal medico
provinciale, dal sindaco, che la presiede, o da loro
delegati [ ... ]. Nel caso di scelta di aree non conformi
alle previsioni degli strumenti urbanistici la deliberazione
costituisce, in deroga alle norme vigenti, variante al piano
regolatore generale ed agli altri strumenti urbanistici, a
norma della legge 17.08.1942, n. 1150, e successive
modificazioni ed integrazioni» (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 05.04.2018 n. 15166 - link a
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EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Reato urbanistico di abuso d'ufficio in
concorso - Attività edificatoria realizzata sulla base di
titoli illeciti o macroscopicamente illegittimi -
Responsabilità del titolare del permesso, progettista e
responsabile dell'ufficio tecnico comunale - Art. 323 c.p.
abuso d'ufficio giurisprudenza.
Il reato urbanistico di abuso d'ufficio in concorso,
sussiste laddove il permesso di costruire -pur formalmente
rilasciato- sia illecito perché frutto di attività criminosa
(nella specie, quanto al permesso di costruire in variante,
è contestato l'abuso d'ufficio in concorso tra il titolare
del permesso ed il suo progettista ed il responsabile
dell'ufficio tecnico comunale) ovvero anche soltanto
macroscopicamente illegittimo (Cass. Sez. 3, n. 7423 del
18/12/2014, Cervino e a.) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 12.02.2018 n. 6738 - link a
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MASSIMA
4. Le censurabili
valutazioni della sentenza impugnata di cui si è dato conto
supra, sub n. 3 incidono sul giudizio circa la sussistenza
del reato urbanistico contestato al capo h) e dei delitti di
abuso d'ufficio contestati ai capi a) e b).
4.1. Quanto alla contravvenzione urbanistica, la conclusione
è evidente.
La contestazione, di fatti, muove dall'assunto secondo cui
deve considerarsi avvenuta in assenza di titolo edilizio -e
dunque riconducibile al reato di cui all'art. 44, comma 1,
lett. b), d.P.R. 380/2001- l'attività edificatoria
realizzata sulla base di titoli illeciti o macroscopicamente
illegittimi, quali nella specie ben potrebbero essere la
concessione edilizia n. 11/2003, le d.i.a. del 29.07.2008 e
03.02.2009 ed il permesso di costruire in variante prot.
6641 del 30.07.2009 se fossero ritenuti sussistenti i
contestati profili di macroscopica illegittimità più sopra
analizzati con riguardo all'edificazione di un numero di
piani ben superiore a quello consentito ed all'edificazione
di volumi assai più consistenti di quelli massimi previsti
(il capo h -a differenza dei capi a e b- non considera
invece il profilo relativo alle altezze).
Che il reato urbanistico in parola sussista laddove il
permesso di costruire -pur formalmente rilasciato- sia
illecito perché frutto di attività criminosa (nella specie,
quanto al permesso di costruire in variante, è contestato
l'abuso d'ufficio in concorso tra Sa.Mo. ed il suo
progettista Ca.Ma. ed il responsabile dell'ufficio tecnico
comunale Gi.Ze.) ovvero anche soltanto macroscopicamente
illegittimo è conclusione affermata da consolidata
giurisprudenza di legittimità che qui non viene neppure
contestata (cfr., di recente, Sez. 3, n. 7423 del
18/12/2014, Cervino e a., Rv. 263916).
Si consideri, al proposito, che il permesso di costruire in
variante rilasciato il 30.07.2009 aveva in particolare ad
oggetto la realizzazione di un ulteriore piano, sicché
-anche a voler prescindere dal fatto che lo stesso non
avrebbe aumentato la volumetria qualora fossero state
osservate le prescrizioni al proposito effettuate
dall'Ufficio Tecnico Comunale, vale a dire la demolizione di
alcuni muri perimetrali e la destinazione del nuovo piano
quale porticato ad uso collettivo- certamente incrementava
ulteriormente l'altezza ed il profilo di difformità dalle
norme urbanistiche quanto al numero dei piani edificabili.
Quanto, poi, alle d.i.a., trattandosi di lavori in variante
rispetto a quelli autorizzati con la concessione edilizia n.
11/2003, pure questi si collocavano nel solco di quelli
originari e -parzialmente incidendo sia sui volumi, sia
sulle altezze- ne postulavano (una nuova verifica ai fini di
accertare) la conformità alle previsioni degli strumenti
urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina
urbanistico-edilizia vigente (v. art 22, comma 2, d.P.R.
380/2001, sul punto non mutato con la sostituzione operata
dall'art. 1, comma 1, lett. f, n. 2, d.lgs. 25.11.2016, n.
222). Conformità che, per quanto sopra detto, era
palesemente assente, soprattutto con riferimento alla d.i.a.
del 29.07.2008, che incideva in modo pesante sul progetto.
Oltre a ciò -sempre con maggiore evidenza in quella da
ultimo menzionata- difettavano pure i requisiti previsti
dall'art. 22, comma 2, d.P.R. 380/2001, posto che
è possibile effettuare con d.i.a. (oggi s.c.i.a.)
lavori in variante a permessi costruire soltanto se si
tratti delle c.d. "varianti leggere", vale a dire
quelle che, oltre a non violare eventuali prescrizioni
contenute nel permesso, «non incidono sui parametri
urbanistici e sulle volumetrie, che non modificano la
destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la
sagoma dell'edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi
del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni»
(le parole in corsivo sono state aggiunte dall'art. 30,
comma 1, lett. e, d.l. 21.06.2013, n 69 conv., con modiff.,
nella legge 09.08.2013, n. 98, sicché all'epoca dei fatti
per cui è processo il requisito della non alterazione della
sagoma era richiesto per qualsiasi tipo di edificio).
Ed invero, la stessa sentenza impugnata, richiamando le
valutazioni del perito nominato in secondo grado, dà atto
(v. pp. 84 s. e pp. 87-92 relazione peritale ing. Go. cui si
fa espresso rinvio) che la prima d.i.a. in variante:
- apportava modifiche alla sagoma del fabbricato nel
corpo di monte a Nord (non rilevando ai fini di escludere la
natura di variante "pesante" di tale modifiche e la
necessità che fossero assentite con permesso di costruire il
fatto che le stesse sarebbero state necessarie per
assicurare il rispetto delle distanze tra il fabbricato e la
villetta comunale oggetto di generiche prescrizioni
riportate a penna sulle tavole allegate al progetto
originario, approvato con la concessione edilizia del 2003);
- incideva sulla volumetria (sia pur apparentemente
riducendola, ma sempre senza ricondurla nell'ambito di
quella effettivamente realizzabile sulla base delle
previsioni urbanistiche correttamente interpretate);
- introduceva significative modifiche alle distribuzioni
interne degli spazi, modificandone la destinazione d'uso.
La Corte d'appello (p. 100 sentenza) dà altresì atto che le
due denunce d'inizio attività ed il permesso di costruire in
variante sono successivi all'approvazione, avvenuta dopo il
rilascio della concessione edilizia originaria, del Piano di
Assetto Idrogeologico, e ciò nondimeno per nessuna di dette
opere fu richiesto l'obbligatorio parere preventivo
dell'Autorità di bacino: un'altra palese difformità sia
delle d.i.a. sia del permesso di costruire alle previsioni
urbanistiche che la Corte territoriale supera con
l'argomentazione, manifestamente illogica, secondo cui,
trattandosi di varianti che non comportavano aumento di
volumetria, le stesse non avrebbero inciso sull'assetto
idrogeologico del suolo.
Ed invero -a prescindere dal fatto che l'aumento di
volumetria è soltanto uno dei potenziali parametri da
prendersi in considerazione per quel giudizio- così
motivando la Corte territoriale ha arbitrariamente
sostituito la propria valutazione a quella riservata invece
all'Autorità di bacino, a cui debbono essere sottoposti
tutti i progetti che anche solo potenzialmente incidono
sull'assetto idrogeologico del suolo, quale certamente era
l'ampia modifica del progetto originario oggetto della
d.i.a. presentata nel 2008 (nella sentenza di primo grado
riportata dalla sentenza impugnata a pag. 29 si parla di
realizzazione di nuovi terrazzamenti prospicienti la
villetta comunale, della costruzione di una seconda rampa di
accesso ai box auto del primo piano interrato, della
realizzazione di una piccola cappella, della previsione di
un nuovo livello per box auto nel corpo di fabbrica a monte,
con realizzazione di un solaio tra due dei piani interrati)
e la costruzione di un ulteriore piano, il nono, sulla
sommità del fabbricato, piano porticato destinato ad uso
collettivo e, pertanto, al calpestio di un numero
potenzialmente elevato di fruitori.
Questi lavori, dunque, da un lato non si sarebbero
potuti fare con d.i.a. in variante, essendo invece
necessario procedere con permesso di costruire, ciò che -al
di là del diverso, e più garantito, iter amministrativo-
avrebbe imposto di riconsiderare l'intero progetto alla luce
delle previsioni delle norme tecniche di attuazione al
P.R.G. e regolamentari più sopra illustrate e di bloccare le
attività edificatorie essendo il manufatto palesemente
contrario alla disciplina urbanistica sostanziale.
D'altro lato, per le stesse ragioni, non avrebbero
dovuto condurre al rilascio del permesso di costruire in
variante del 30.07.2009.
Si trattò, dunque, di lavori eseguiti in
forza di titoli edilizi manifestamente contra legem,
da considerarsi quindi in assenza di permesso di costruire
con conseguente integrazione del reato di cui all'art. 44,
comma 1, lett. b), d.P.R. 380/2001.
La sentenza impugnata, che -pur dando atto dei suddetti
profili di contrasto quantomeno della d.i.a. presentata nel
2008 con l'art. 22, comma 2, d.P.R. 380/2001- non si cura di
trarne le dovute conseguenze e, a fronte delle corrette
valutazioni al proposito fatte nella sentenza di primo
grado, laconicamente afferma che «appare mancante e/o
comunque contraddittoria la prova della loro illegittimità»
incorre dunque certamente in violazione di legge e vizio di
motivazione.
4.2. Le argomentazioni svolte al punto che precede rendono
altresì ragione degli analoghi vizi che affliggono il
provvedimento impugnato in relazione al giudizio assolutorio
pronunciato con riguardo al concorso nei delitti di abuso
d'ufficio di cui ai capi a) ed e) di imputazione, relativi,
il primo, al non aver il responsabile dell'Ufficio tecnico
comunale Ze. notificato a Mo., ai sensi dell'art. 23, comma
6, d.P.R. 380/2001, l'ordine motivato di non effettuare i
lavori oggetto delle due d.i.a. contra legem e, il
secondo, all'aver rilasciato l'illegittimo permesso di
costruire in variante del 30.07.2009.
La Corte d'appello, di fatti, ha escluso la sussistenza dei
contestati reati -oltre che richiamando giurisprudenza di
legittimità che impone comunque la prova di rapporti
singolari o atipici tra il privato (nella specie, Mo. per il
tramite del professionista di fiducia Ma.) e il pubblico
ufficiale (Ze.) che violando norme di legge o regolamento
avrebbe procurato al primo un ingiusto vantaggio
patrimoniale- anche osservando come, in radice, non
sussistesse l'abuso d'ufficio proprio per la legittimità e
conformità alle previsioni urbanistiche e regolamentari
della concessione edilizia originaria, delle d.i.a. e del
permesso di costruire in variante.
Trattandosi di presupposto erroneo, occorre
dunque riconsiderare anche la sussistenza dei reati di cui
all'art. 323 cod. pen., onde verificare se la macroscopica
illegittimità degli atti e la loro reiterazione possano
fornire prova logica della collusione, come ritenuto nella
sentenza di primo grado
(Corte di Cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 12.02.2018 n. 6738). |
PUBBLICO IMPIEGO:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Abuso di
ufficio - Rilascio di un titolo abilitativo edilizio -
Configurabilità del reato di abuso di ufficio - Art. 323
cod. pen..
Integra il reato di abuso d’ufficio, il rilascio di un
titolo abilitativo edilizio per la realizzazione di un
immobile la cui edificazione non è consentita o il
mantenimento di un immobile abusivo mediante l'omessa
adozione dei provvedimenti finalizzati alla sua eliminazione
ovvero mediante sanatoria in assenza dei presupposti di
legge determina inequivocabilmente un vantaggio patrimoniale
ingiusto nei confronti del privato il quale, in forza del
titolo indebitamente conseguito o dell'inerzia del pubblico
ufficiale, costruisce o mantiene in essere un manufatto il
quale, oltre ad incrementare il valore dell'area ove
insiste, ha un valore intrinseco e può essere
successivamente alienato, locato o destinato comunque ad
utilizzazioni economicamente vantaggiose.
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Concorso del
privato nel delitto di abuso d'ufficio - Collusione tra il
privato ed il pubblico ufficiale - Giurisprudenza.
Ai fini della configurabilità del concorso del privato nel
delitto di abuso d'ufficio, l'esistenza di una collusione
tra il privato ed il pubblico ufficiale non può essere
dedotta dalla mera coincidenza tra la richiesta dell'uno e
il provvedimento adottato dall'altro ed il richiamo è
certamente pertinente, ma va considerato tenendo conto
dell'ulteriore precisazione, pure fornita dalla medesima
giurisprudenza, che, ai fini di tale accertamento vanno
anche considerati i profili inerenti al contesto fattuale,
ai rapporti personali tra i predetti soggetti, ovvero altri
dati di contorno, idonei a dimostrare che la domanda del
privato sia stata preceduta, accompagnata o seguita
dall'accordo con il pubblico ufficiale, se non da pressioni
dirette a sollecitarlo o persuaderlo al compimento dell'atto
illegittimo (Cass., Sez. 6, n. 33760 del 23/06/2015, Lo
Monaco e altro; Conf. Sez. 6, n. 37880 del 1117/2014, Savini
e altro; Sez. 6, n. 40499 del 21/05/2009, Bonito e altri;
Sez. 6, n. 37531 del 14/06/2007, Serione e altri; Sez. 6, n.
2844 del 01/12/2003 (dep. 2004), Celiano) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.01.2018 n. 4140 - link a
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anno 2017 |
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Aria e
molestie olfattive - Emissioni odorigene nauseabonde ed
emissioni in atmosfera di composti organici volatili - Getto
pericoloso di cose e requisiti del reato - Criterio della
"stretta tollerabilità" - Sequestro preventivo -
Restituzione dell'intero impianto produttivo Fonderie -
Abuso d'ufficio - Falsità ideologica e falsità materiale
commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici - VIA VAS
AIA - Autorizzazione Integrata Ambientale (A.I.A.) - Assenza
- Articoli 323, 479-476, codice penale - Artt. 29-ter, 137,
256 e 279 decreto legislativo n. 152 del 2006 - Sito natura
2000 ZPS - Art. 181 d.lgs. n.42/2004.
Il reato di cui all'articolo 674 del codice penale è
configurabile anche in presenza di "molestie olfattive"
promananti da impianto munito di autorizzazione per le
emissioni in atmosfera (e rispettoso dei relativi limiti), e
ciò perché non esiste una normativa statale che preveda
disposizioni specifiche -e, quindi, valori soglia- in
materia di odori (Sez. 3, n. 12019 del 10/02/2015, Pippi;
Sez. 3, n. 37037 del 29/05/2012, Guzzo); con conseguente
individuazione del criterio della "stretta tollerabilità"
quale parametro di legalità dell'emissione.
Né vale, in senso contrario, l'assunto, anche contenuto
nell'ordinanza impugnata, per il quale, in alcune occasioni,
la configurabilità dell'articolo 674 del codice penale è
esclusa in presenza di immissioni provenienti da attività
autorizzata e contenute nei limiti di legge, o
dell'autorizzazione, perché tali pronunce si riferiscono a
casi nei quali vi è piena corrispondenza "qualitativa"
e "tipologica" tra le immissioni riscontrate e quelle
oggetto del provvedimento amministrativo o disciplinate
dalla legge ossia tra quelle accertate e quelle che l'agente
si era impegnato a contenere entro determinati limiti;
situazione nella quale, come in precedenza precisato, il
rispetto di questi ultimi implica una presunzione di
legittimità del comportamento, concepita dall'ordinamento
come necessaria per contemperare le esigenze di tutela
pubblica con quelle della produzione economica (Sez. 3, n.
37495 del 13/07/2011, Dradi; Sez. 3, n. 40849 del
21/10/2010, Rocchi; Sez. 3, n. 15707 del 09/01/2009, Abbaneo).
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Emissioni da
un'attività autorizzata o da un'attività prevista e
disciplinata da atti normativi speciali - Presunzione di
legittimità del comportamento ed evento del reato di cui
all'art. 674 c.p..
In linea generale, il reato di cui all'articolo 674 del
codice penale, capo d) della rubrica, non è configurabile
nel caso in cui le emissioni provengano da un'attività
autorizzata o da un'attività prevista e disciplinata da atti
normativi speciali perché l'osservanza delle leggi di
settore e la presenza di specifici provvedimenti
amministrativi che disciplinano l'attività produttiva,
regolamentando le emissioni, implicano una presunzione di
legittimità del comportamento.
Tuttavia, l’evento del reato di cui all'art. 674 c.p.
consiste nella molestia, che prescinde dal superamento di
eventuali valori soglia previsti dalla legge, essendo
sufficiente quello del limite della stretta tollerabilità,
pertanto, qualora difetti la possibilità di accertare
obiettivamente, con adeguati strumenti, l'intensità delle
emissioni, il giudizio sull'esistenza e sulla non
tollerabilità delle stesse ben può basarsi sulle
dichiarazioni di testimoni, specie se a diretta conoscenza
dei fatti, quando tali dichiarazioni non si risolvano
nell’espressione di valutazioni meramente soggettive o in
giudizi di natura tecnica, ma consistano nel riferimento a
quanto oggettivamente percepito dagli stessi dichiaranti
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.12.2017 n. 57958 - link a
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PUBBLICO IMPIEGO:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Abuso di
ufficio - Prova del dolo intenzionale - Indici fattuali -
Verifiche obbligatorie del giudice - Fattispecie: Sequestro
preventivo di un impianto industriale.
In tema di abuso di ufficio, la prova del dolo intenzionale,
che qualifica la fattispecie criminosa, può essere desunta
anche da una serie di indici fattuali, tra i quali assumono
rilievo l'evidenza, la reiterazione e la gravità delle
violazioni, la competenza dell'agente, i rapporti tra
l'agente e il soggetto favorito, l'intento di sanare le
illegittimità con successive violazioni di legge cosicché,
in tema di sequestro preventivo, ai fini dell'affermazione
del fumus commissi delicti del reato proprio
contestato anche a soggetti che non rivestono la qualifica
tipica, è necessario che il giudice motivi anche
sull'elemento psicologico dell'autore del reato proprio,
atteso che la mancanza del dolo intenzionale impedisce la
stessa astratta configurabilità del predetto reato.
Pertanto, il giudice penale, anche nei casi in cui nella
fattispecie di reato sia previsto un atto amministrativo
(autorizzazione, concessione, permesso), non deve limitarsi
a verificare l'esistenza ontologica del provvedimento
amministrativo, ma deve esclusivamente verificare
l'integrazione o meno della fattispecie penale, "in vista
dell'interesse sostanziale che tale fattispecie assume a
tutela", interesse che nell'abuso d'ufficio è costituito
dal buon andamento e dall'imparzialità della pubblica
amministrazione, nella quale gli elementi di natura
extrapenale convergono organicamente, assumendo un
significato descrittivo (Sez. U., n. 11635 del 12/11/1993,
Borgia).
Fattispecie: riferita ad un impianto industriale la cui
dimensione "cartolare" risultava del tutto diversa da
quella reale, in quanto l'autorizzazione integrata
ambientale avrebbe assentito un impianto che solo dal punto
di vista "documentale" era più piccolo e diverso di
quello reale, giacché nella cartografia era stata omessa la
presenza di uno dei manufatti destinati alle attività
industriali, con la conseguenza che non sarebbe stato
evidenziato un immobile che rappresentava circa il 50%
dell'intero impianto, determinando ciò sia l'illiceità
connessa al reato di falso e sia l'illiceità della
procedura, con conseguente integrazione della violazione di
legge fondante, in uno ad altri elementi, il reato di abuso
di ufficio, perché si sarebbe dovuto tenere conto, in primo
luogo, che la presenza di tale consistente manufatto,
coincidente con circa la metà degli impianti (e, quindi, la
reale consistenza), non era stata valutata ai fini
dell'impatto ambientale e della complessiva autorizzabilità
dell'intera attività industriale; che, in secondo luogo,
l'impianto industriale era collocato all'interno del centro
urbano della città di Salerno, al confine con l'area del
parco urbano Valle dell'Imo, di interesse regionale, ai
sensi della legge n. 394 del 1991, cosicché l'insediamento
industriale, pur risalente nel tempo, era da ritenersi del
tutto incompatibile con l'area nella quale era allocato, se
ed in quanto l'attività industriale svolta fosse di tipo
inquinante (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.12.2017 n. 57958 - link a
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PUBBLICO IMPIEGO:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Reato di
abuso d'ufficio - Prova del dolo intenzionale - Macroscopica
illegittimità dell'atto - Vantaggio - Art. 323 codice
penale.
In tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale
che qualifica la fattispecie non richiede l'accertamento
dell'accordo collusivo con la persona che si intende
favorire, ben potendo essere desunta anche da altri elementi
sintomatici quali, ad esempio, la macroscopica illegittimità
dell'atto (Sez. 3, n. 48475 del 07/11/2013, Scaramazza) e
ben potendo l'intenzionalità del vantaggio prescindere dalla
volontà di favorire specificamente un determinato privato
interessato alla singola vicenda amministrativa (Sez. 6, n.
36179 del 15/04/2014, Dragotta; Sez. F, n. 38133 del
25/08/2011, Farina).
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Reato di
abuso d'ufficio - Mancanza della macroscopica illegittimità
dell'atto dal pubblico amministratore - Rilievo del
comportamento "non iure" osservato dall'agente - Vantaggio
patrimoniale o danno ingiusto - Presenza tra anomalie
istruttorie e rapporti personali tra l'agente e soggetto
ricevente i benefici dell'atto.
In tema di abuso d'ufficio, quando l'illegittimità
dell'atto, pur sussistente, non sia macroscopica oppure
quando manchi, come nella specie, una adeguata e logica
motivazione su punti decisivi al fine di sovvertire (o meno)
il giudizio di evidente illegittimità dell'elemento
normativo di fattispecie, la prova del dolo intenzionale
deve essere ricavata da elementi ulteriori rispetto al
comportamento "non iure" osservato dall'agente, che
evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del suo
comportamento (Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo),
cosicché la certezza della prova del dolo (intenzionale),
ossia che la volontà dell'imputato sia stata orientata
proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno
ingiusto, non può, in questi casi, provenire esclusivamente
dal comportamento "non iure" osservato dall'agente,
ma deve trovare conferma anche in altri elementi
sintomatici, quali la specifica competenza professionale del
soggetto attivo, l'apparato motivazionale su cui riposa il
provvedimento, la presenza o meno di anomalie istruttorie ed
i rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i soggetti
che dal provvedimento ricevono vantaggio patrimoniale o
subiscono danno (Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013, Baria, Rv.
255368; Sez. 6, n. 35814 del 27/06/2007, Pacia, Rv. 237916)
(Corte di Cassazione, Sez. III,
sentenza 29.12.2017 n. 57914 - link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Abuso
di ufficio - Difetto assoluto di attribuzione e carenza in
astratto del potere - Art. 323, cod. pen. - Art. 10, 44,
lett. b), d.P.R. n. 380/2001 - Art. 21-septies L. n.
241/1990.
Il difetto assoluto di attribuzione, quale causa di nullità
del provvedimento amministrativo, comporta la cosiddetta "carenza
di potere in astratto", vale a dire l'ipotesi in cui
l'Amministrazione assume di esercitare un potere che in
realtà nessuna norma le attribuisce.
Attraverso l'art. 21-septies della L. n. 241 del 1990 il
legislatore, nell'introdurre in via generale la categoria
normativa della nullità del provvedimento amministrativo, ha
ricondotto a tale radicale patologia il solo difetto
assoluto di attribuzione, che evoca la c.d. carenza in
astratto del potere, cioè l'assenza in astratto di
qualsivoglia norma giuridica attributiva del potere
esercitato con il provvedimento amministrativo, con ciò
facendo implicitamente rientrare nell'area della
annullabilità i casi della c.d. "carenza di potere in
concreto", ossia del potere pur astrattamente
sussistente esercitato senza i presupposti di legge (Cons.
St., Sez. 5, n. 45 del 10/01/2017; nello stesso senso, tra
le più recenti, Cons. St., Sez. 4, n. 5228 del 17/11/2015;
Cons. St., Sez. 4, n. 5671 del 18/11/2014; Cons. St., Sez.
5, n. 4323 del 30/08/2013).
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Reato di
abuso d'ufficio - Condotta in violazione delle norme -
Competenze e attribuzioni del pubblico ufficiale o
dell'incaricato di pubblico servizio - Art. 323, cod. pen..
Ai fini della sussistenza del reato di abuso d'ufficio di
cui all'art. 323, cod. pen., la condotta deve essere posta
in essere "nello svolgimento delle funzioni o del
servizio".
Ciò non comporta l'espunzione dalla fattispecie delle
condotte poste in essere in violazione delle norme che
disciplinano le competenze e le attribuzioni del pubblico
ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, ma solo di
quelle viziate da difetto assoluto di attribuzione ai sensi
dell'art. 21-septies, legge n. 241 del 1990 (che equipara,
ai fini della nullità dell'atto, la carenza di potere al
provvedimento amministrativo che manca degli elementi
essenziali).
In caso di difetto assoluto di attribuzione, l'ingiusto
vantaggio patrimoniale procurato a sé o ad altri o
l'ingiusto danno arrecato ad altri, che costituiscono gli
eventi alternativi del reato di abuso di ufficio, non
sarebbero causalmente riconducibili all'ufficio o al
servizio (ancorché patologicamente svolto), ma ad iniziative
estemporaneamente poste in essere dall'autore del reato
spendendo la sua qualità ed eventualmente rilevanti ai sensi
di altre norme (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.11.2017 n. 52053 - link a
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PUBBLICO IMPIEGO:
Sulla configurazione del delitto di abuso d'ufficio.
Nel delitto di abuso d'ufficio, per la
configurabilità dell'elemento soggettivo è richiesto che
l'evento costituito dall'ingiusto vantaggio patrimoniale o
dal danno ingiusto sia voluto dall'agente e non
semplicemente previsto ed accettato come possibile
conseguenza della propria condotta, per cui deve escludersi
la sussistenza del dolo, sotto il profilo
dell'intenzionalità, qualora risulti, con ragionevole
certezza, che l'agente si sia proposto il raggiungimento di
un fine pubblico, proprio del suo ufficio.
La prova dell'intenzionalità del dolo esige il
raggiungimento della certezza che la volontà dell'imputato
sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio
patrimoniale o il danno ingiusto. Tale certezza non può
provenire esclusivamente dal comportamento "non iure"
osservato dall'agente, ma deve trovare conferma anche in
altri elementi sintomatici, quali la specifica competenza
professionale dell'agente, l'apparato motivazionale su cui
riposa il provvedimento ed i rapporti personali tra l'agente
e il soggetto o i soggetti che dal provvedimento ricevono
vantaggio patrimoniale o subiscono danno.
Altresì, una condotta di omesso
controllo in relazione ad una situazione di illegittimità,
pur grave e diffusa, negli atti di un'amministrazione
comunale non può equivalere a ritenere dimostrata la
presenza del dolo dell'abuso di ufficio affermando che la
prova dell'intenzionalità del dolo esige il raggiungimento
della certezza che la volontà dell'imputato sia stata
orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il
danno ingiusto e tale certezza non può essere ricavata
esclusivamente dal rilievo di un comportamento "non iure"
osservato dall'agente, ma deve trovare conferma anche in
altri elementi sintomatici, che evidenzino la effettiva
"ratio" ispiratrice del comportamento, quali, ad esempio, la
specifica competenza professionale dell'agente, l'apparato
motivazionale su cui riposa il provvedimento ed il tenore
dei rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i
soggetti che dal provvedimento stesso ricevono vantaggio
patrimoniale o subiscono danno.
---------------
1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di
Potenza, a seguito di gravame interposto dal Procuratore
della Repubblica presso il locale Tribunale avverso la
sentenza assolutoria emessa il 17.04.2015 dal GUP del
Tribunale di Matera, in riforma della decisione ha
riconosciuto Fr.VI. colpevole del reato di cui all'art. 323
cod. pen. perché quale comandante della Stazione CC. di
Montescaglioso, nell'esercizio delle sue funzioni, in
violazione di quanto prescritto dall'art. 193 c.d.s., avendo
riscontrato nel corso di un controllo su strada che
l'autovettura Opel Vectra condotta dal proprietario Tr.Do.
era priva di assicurazione RCA obbligatoria, ometteva di
contravvenzionare il Tr. e procedere al sequestro
amministrativo dell'autovettura, così intenzionalmente
procurando al predetto Tr. un ingiusto vantaggio
patrimoniale, condannando l'imputato a pena di giustizia.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione
l'imputato che, a mezzo del difensore, deduce:
2.1. mancanza di motivazione in relazione all'elemento
psicologico del reato, non bastando a sostanziare la
intenzionalità del dolo il rilievo operato dalla Corte circa
l'obiettiva finalità di vantaggio nei confronti del privato
derivante dalla violazione della norma del codice della
strada, essendo l'obiettivo perseguito dal maresciallo VI.
comunque il perseguimento del pubblico interesse.
...
1. Il ricorso è fondato sull'assorbente primo motivo.
2. Nel delitto di abuso d'ufficio, per la
configurabilità dell'elemento soggettivo è richiesto che
l'evento costituito dall'ingiusto vantaggio patrimoniale o
dal danno ingiusto sia voluto dall'agente e non
semplicemente previsto ed accettato come possibile
conseguenza della propria condotta, per cui deve escludersi
la sussistenza del dolo, sotto il profilo
dell'intenzionalità, qualora risulti, con ragionevole
certezza, che l'agente si sia proposto il raggiungimento di
un fine pubblico, proprio del suo ufficio
(Sez. 6, n. 18149 del 07/04/2005, Fabbri ed altro, Rv.
231343); ancora, la prova
dell'intenzionalità del dolo esige il raggiungimento della
certezza che la volontà dell'imputato sia stata orientata
proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno
ingiusto. Tale certezza non può provenire esclusivamente dal
comportamento "non iure" osservato dall'agente, ma
deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici,
quali la specifica competenza professionale dell'agente,
l'apparato motivazionale su cui riposa il provvedimento ed i
rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i soggetti
che dal provvedimento ricevono vantaggio patrimoniale o
subiscono danno (Sez.
6, n. 35814 del 27/06/2007, Pacia e altri, Rv. 237916).
La Corte ha, inoltre, ritenuto che una
condotta di omesso controllo in relazione ad una situazione
di illegittimità, pur grave e diffusa, negli atti di
un'amministrazione comunale non può equivalere a ritenere
dimostrata la presenza del dolo dell'abuso di ufficio
affermando che la prova dell'intenzionalità del dolo esige
il raggiungimento della certezza che la volontà
dell'imputato sia stata orientata proprio a procurare il
vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto e tale certezza
non può essere ricavata esclusivamente dal rilievo di un
comportamento "non iure" osservato dall'agente, ma
deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici,
che evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del
comportamento, quali, ad esempio, la specifica competenza
professionale dell'agente, l'apparato motivazionale su cui
riposa il provvedimento ed il tenore dei rapporti personali
tra l'agente e il soggetto o i soggetti che dal
provvedimento stesso ricevono vantaggio patrimoniale o
subiscono danno (Sez.
6, n. 21192 del 25/01/2013, Barla e altri, Rv. 255368).
3. Esula, pertanto, dall'alveo di legittimità il giudizio
espresso dalla sentenza di "oggettiva finalizzazione"
della condotta omissiva posta in essere dal ricorrente,
essendosi omesso di motivare sulla intenzionalità
favoritrice rispetto ad una condotta tenuta nel corso di un
occasionale controllo su strada nei confronti di un soggetto
privo di relazioni con il ricorrente ed a seguito del quale
non fu comunque consentita la prosecuzione della marcia del
veicolo (Corte di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 11.10.2017 n. 46788). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: Sospensione
di diritto dalle cariche pubbliche a seguito di condanna.
---------------
● Giurisdizione - Comuni - Assessore - Nomina - Da parte
di Sindaco neo eletto condannato in primo grado per abuso
d’ufficio - Impugnazione - Giurisdizione giudice
amministrativo.
● Processo amministrativo - Riti - Cumulo rito ordinario e
rito elettorale - Prevale il rito elettorale.
● Enti locali - Comuni - Amministratori – Sospensione dalla
carica – Art. 11, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 235 del 2012
– Per condanna in primo grado per abuso d'ufficio – Notifica
dell’atto di accertamento – Non occorre - Ratio.
● Rientra nella giurisdizione del
giudice amministrativo l’impugnazione dell’atto di nomina di
un assessore da parte del Sindaco neo eletto che, condannato
in primo grado per abuso d’ufficio, non poteva emettere
alcun atto, in ragione della “sospensione di diritto”,
trattandosi di atti autoritativi concernenti
l’individuazione degli organi da investire di funzioni
pubbliche, ai sensi dell’art. 7 c.p.a. (1).
●
In assenza, nel comma 1 dell’art. 32 c.p.a., della
disciplina dell’ipotesi di cumulo, nello stesso giudizio, di
rito ordinario e di rito elettorale prevale il rito
elettorale, ispirato ad una logica di particolare rapidità
dei giudizi (2).
●
La sospensione di diritto, prevista dall’art. 11,
comma 5, d.lgs. 31.12.2012, n. 235 per coloro che abbiano
riportato in primo grado una condanna per il delitto di
abuso d’ufficio, non presuppone che l’atto di accertamento
sia notificato a chi versa in tale situazione, producendo
tale sospensione effetto nel momento stesso in cui vi è la
proclamazione degli eletti e inibendo l’esercizio delle
pubbliche funzioni a chi sia stato già condannato in sede
penale (3).
---------------
(1) Ha ricordato il Tar che la giurisdizione del giudice
ordinario si radica sulle controversie aventi ad oggetto il
provvedimento con cui il Prefetto, ai sensi dell’art. 11,
comma 1, lett. a), d.lgs. 31.12.2012, n. 235 accerta la
sussistenza dei presupposti della sospensione di diritto,
nei confronti di chi sia stato condannato in primo grado per
uno dei delitti che comportino la medesima sospensione
(Cass. civ., S.U., n. 11131 del 2015).
(2) Il comma 1 dell’art. 32 c.p.a. dispone che “1. È
sempre possibile nello stesso giudizio il cumulo di domande
connesse proposte in via principale o incidentale. Se le
azioni sono soggette a riti diversi, si applica quello
ordinario, salvo quanto previsto dal Titolo V del Libro IV”.
Ad avviso del Tar, nel silenzio della norma va infatti fatta
applicazione del principio, affermato dal Consiglio di Stato
(sez.
V, 17.02.2014, n. 755), secondo cui –quando
una controversia comunque riguarda la materia elettorale-
rileva la “necessità di definire rapidamente quali siano
le autorità titolati di poteri pubblici nell’assetto
costituzionale”: questo principio si applica anche
quando sono stati contestualmente impugnati altri atti per
illegittimità derivata, di cui si prospetti una sostanziale
unicità procedimentale.
(3) In altri termini, ad avviso del Tar, l’inibizione
all’esercizio delle pubbliche funzioni non discende
dall’atto del Prefetto (che accerta la sussistenza della
causa di sospensione, al fine di renderlo noto “agli
organi che hanno convalidato l’elezione o deliberato la
nomina”), tanto che neppure l’atto va notificato
all’interessato, ma dipende dalla preclusione derivante di
per sé dalla condanna di primo grado.
Diversamente opinando, e cioè se si ammettesse che, prima
dell’emanazione dell’atto del Prefetto, il candidato
risultato eletto possa porre in essere atti nella qualità
conseguente alla proclamazione, si verificherebbe una
elusione delle disposizioni dell’art. 11, d.lgs. n. 235 del
2012.
Si ammetterebbe cioè che il candidato risultato eletto, pur
se sospeso di diritto dall’esercizio delle funzioni,
potrebbe ugualmente disporre una nomina di carattere
fiduciario, di per sé avente una decisiva incidenza sulla
designazione di tutti gli assessori, ciò che urterebbe con
le ragioni poste a base della sospensione di diritto (cioè
la sussistenza di una ‘indegnità’ tale da comportare
l’assenza di un requisito essenziale per ricoprire
l’ufficio, sulla base di una valutazione del legislatore,
considerata ragionevole dalla Corte cost. con la sentenza n.
236 del 2015) (TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 05.10.2017 n. 862 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Abuso
di ufficio e dolo intenzionale - Responsabile dell'U.T.C. -
Fattispecie - Rilascio di concessione edilizia illegittima e
successivo rilascio in sanatoria del permesso di costruire -
Crollo del fabbricato - Tutela del pubblico interesse e
pericolo oggettivo per la staticità degli immobili adiacenti
- Ridimensionamento sostanziale dell'intervento edilizio -
Art. 323 cod. pen. - Artt. 12, 44, lett. b), d.P.R. n.
380/2001.
In tema di abuso di ufficio, la prova del dolo intenzionale,
che qualifica la fattispecie criminosa, non deve
necessariamente essere desunta dall'accertamento di un
accordo collusivo con la persona che si intende favorire, ma
anche da elementi sintomatici come la macroscopica
illegittimità dell'atto compiuto, l'evidenza, reiterazione e
gravità delle violazioni, la competenza dell'agente nonché
l'intento di sanare le illegittimità con successive
violazioni di legge, giacché l'intenzionalità del vantaggio
ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente
il privato interessato alla singola vicenda amministrativa
(tra le altre, da ultimo, Sez. 3, n. 35577 del 06/04/2016,
dep. 29/08/2016, Cella; Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014,
dep. 27/08/2014, Dragotta). Fattispecie: rilascio di
concessione edilizia per l'esecuzione di lavori di
ristrutturazione che non erano consentiti e successivo
rilascio in sanatoria del permesso di costruire.
Dirigenti e responsabili uffici comunali
- Abuso di ufficio - Irrilevanza della compresenza di una
finalità pubblicistica.
In tema di abuso di ufficio, non può rilevare al fine di
escludere il dolo intenzionale, la compresenza di una
finalità pubblicistica, salvo che il perseguimento del
pubblico interesse costituisca l'obiettivo principale
dell'agente (tra le altre, Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015,
dep. 29/05/2015, Adamo).
Nella specie, tutta la condotta dell'imputato, sin dal
rilascio dell'originaria concessione edilizia, è apparsa
strumentalmente indirizzata a favorire l'Unione coop. di
consumo, restando evidentemente recessivo e, dunque, non
significativo dell'assenza del dolo richiesto, il fine, pur
eventualmente legittimo, di sanare la situazione urbanistica
pregiudicata dal crollo del fabbricato (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 21.09.2017 n. 43160 - link a
www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Abuso d'ufficio - Dirigente - Rilascio
del certificato agibilità - Abusi edilizi e verifica dei
requisiti - Opere sottoposte a permesso di costruire -
Giurisprudenza.
In ordine alla configurabilità dell'elemento soggettivo del
delitto di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale,
che qualifica la fattispecie criminosa può essere desunta
anche da una serie di indici fattuali, tra i quali assumono
rilievo l'evidenza, la reiterazione e la gravità delle
violazioni, la competenza dell'agente, i rapporti fra quest'ultimo
e il soggetto favorito, l'intento di sanare le illegittimità
con successive violazioni di legge (Sez. 3, n. 35577 del
06/04/2016, dep. 29/08/2016, Cella; Sez. 6, n. 36179 del
15/04/2014, dep. 27/08/2014, Dragotta; Sez. 3, n. 48475 del
07/11/2013, dep. 04/12/2013, P.M. e P.C. in proc. Scaramazza
e altri; Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013, dep. 17/05/2013,
Baria e altri) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.08.2017 n. 38853 - link a
www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La prova del dolo
intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa
dell'abuso d'ufficio, può essere desunta anche da una serie
di indici fattuali, tra i quali assumono rilievo l'evidenza,
la reiterazione e la gravità delle violazioni, la competenza
dell'agente, i rapporti fra quest'ultimo e il soggetto
favorito, l'intento di sanare le illegittimità con
successive violazioni di legge.
---------------
3. Venendo, quindi,
al secondo motivo di doglianza, con il quale è stato
dedotto il vizio di violazione di legge e di motivazione in
ordine alla configurabilità dell'elemento soggettivo del
delitto di abuso d'ufficio, deve preliminarmente richiamarsi
il consolidato indirizzo interpretativo secondo cui la prova
del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie
criminosa in esame, può essere desunta anche da una serie di
indici fattuali, tra i quali assumono rilievo l'evidenza, la
reiterazione e la gravità delle violazioni, la competenza
dell'agente, i rapporti fra quest'ultimo e il soggetto
favorito, l'intento di sanare le illegittimità con
successive violazioni di legge (Sez. 3, n. 35577 del
06/04/2016, dep. 29/08/2016, Cella, Rv. 267633; Sez. 6, n.
36179 del 15/04/2014, dep. 27/08/2014, Dragotta, Rv. 260233;
Sez. 3, n. 48475 del 07/11/2013, dep. 04/12/2013, P.M. e
P.C. in proc. Scaramazza e altri, Rv. 258290; Sez. 6, n.
21192 del 25/01/2013, dep. 17/05/2013, Barla e altri, Rv.
255368)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.08.2017 n. 38853). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Rapporti tra Sindaco e Imprenditore: quando si verifica
l’abuso d’ufficio?
La
sentenza 03.08.2017 n. 38695 della Corte di
Cassazione, Sez. feriale penale, riguarda il sindaco di un
Comune calabrese e il legale rappresentante di una società
edile, entrambi accusati dei reati di turbata libertà degli
incanti e di abuso d’ufficio.
Ai fini della configurabilità del
concorso del privato nel delitto di abuso d’ufficio,
l’esistenza di una collusione tra il privato ed il pubblico
ufficiale non può essere dedotta dalla mera coincidenza tra
la richiesta dell’uno e il provvedimento adottato
dall’altro, essendo invece necessario che il contesto
fattuale, i rapporti personali tra i predetti soggetti,
ovvero altri dati di contorno, dimostrino che la domanda del
privato sia stata preceduta, accompagnata o seguita
dall’accordo con il pubblico ufficiale.
Quanto alla turbata libertà degli
incanti, la Suprema corte ricorda che il reato di cui
all’articolo 353 del codice penale può realizzarsi in
qualsiasi momento, sia prima che dopo la gara, e con le più
svariate modalità dirette ad allontanare gli offerenti,
«assumendo rilievo la sola lesione della libera concorrenza
che la norma penale intende tutelare a garanzia degli
interesse della Pubblica amministrazione».
---------------
MASSIMA
9. Alla stessa sorte non si sottrae la censura di
violazione di legge in relazione all'affermazione della
responsabilità penale per il reato di abuso in atti di
ufficio di cui al capo B).
Il motivo, che si limita a riportare massime della
giurisprudenza di legittimità, secondo cui per il concorso
nel reato del privato occorre la dimostrazione dell'attività
di istigazione o agevolazione nell'esecuzione del reato da
parte del pubblico ufficiale, appare connotato da
apsecificità ed è, comunque, manifestamente infondato,
avendo, i giudici del merito, fatto corretta applicazione
della legge penale con motivazione congrua e corretta sul
piano del diritto.
E' sufficiente, qui, ricordare che l'istanza di svolgimento
di lavori di pubblico utilità in luogo del pagamento del
prezzo, costituiva l'incipit indispensabile e
conditio sine qua non per la successiva condotta del
pubblico ufficiale di affidamento diretto dei lavori di
pubblica utilità al richiedente (affidamento in violazione
della legge ex art. 2, 11 e 53 del d.lvo 12.04.2006, n. 163
che prescrivono l'affidamento con gara pubblica in luogo
dell'affidamento diretto), condotta del pubblico ufficiale
che ha, così, procurato un indubbio doppio vantaggio
patrimoniale ben descritto a pag. 14.
Ma non solo, la Corte d'appello, lungi dall'aver ritenuto la
responsabilità concorsuale del privato nel reato commesso
dal pubblico ufficiale sulla base del mero comportamento,
ancorché illegittimo, di costui, ha evidenziato, a chiare
lettere, una pluralità di elementi fattuali di contorno, tra
cui la pregressa conoscenza tra privato e pubblico
ufficiale, per avere il ricorrente eseguito lavori in un
alloggio del pubblico ufficiale, e la mancata precisa
indicazione dei tempi di versamento del prezzo nel bando di
gara e di diverse modalità di pagamento del prezzo, idonei a
configurare il previo concerto.
La Corte d'appello ha, dunque, fatto buon governo dei
principi affermato dalla giurisprudenza di legittimità
secondo cui, ai fini della configurabilità
del concorso del privato nel delitto di abuso d'ufficio,
l'esistenza di una collusione tra il privato ed il pubblico
ufficiale non può essere dedotta dalla mera coincidenza tra
la richiesta dell'uno e il provvedimento adottato
dall'altro, essendo invece necessario che il contesto
fattuale, i rapporti personali tra i predetti soggetti,
ovvero altri dati di contorno, dimostrino che la domanda del
privato sia stata preceduta, accompagnata o seguita
dall'accordo con il pubblico ufficiale
(Sez. 6, n. 33760 del 23/06/2015, Lo Monaco e altri, Rv.
264460) (Corte di Cassazione, Sez. feriale penale,
sentenza 03.08.2017 n. 38695). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ordine giudiziale di demolizione -
Natura di sanzione amministrativa di tipo ablatorio -
Autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso.
L'ordine giudiziale di demolizione ha natura di sanzione
amministrativa di tipo ablatorio, che costituisce
esplicitazione di un potere sanzionatorio autonomo e non
residuale o sostitutivo rispetto a quello dell'autorità
amministrativa, assolvendo ad una autonoma funzione
ripristinatoria del bene giuridico leso (Cass. Sez. 3, n.
37120 del 11/05/2005, Morelli).
TUTELA DELL'AMBIENTE - La materia
urbanistica rientra nella tutela dell'ambiente - Ordinato
sviluppo del territorio sotto il profilo urbanistico ed
edilizio - Responsabilità per il reato urbanistico e per la
contravvenzione di cui all'art. 734 cod. pen. -
LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE - Interessi delle associazioni di
tutela ambientale in relazione a violazione edilizia e abuso
di ufficio - Sussiste.
L’ordinato sviluppo del territorio sotto il profilo
urbanistico ed edilizio assume rilievo ai fini della tutela
dell’ambiente e rientra pertanto tra gli interessi delle
associazioni di tutela ambientale concretamente lesi da
attività illecita.
Sicché, il costante consumo di suolo, conseguenza di una non
corretta gestione del territorio (anche da parte di chi è
tenuto, per legge, a provvedervi), influisce negativamente
sulle diverse componenti ambientali, sottraendo risorse ed
agendo negativamente sulla fruibilità del bene nel suo
complesso, peggiorando la qualità della vita ed aumentando
rischi per la salute delle persone, poiché l'illecito
edilizio non comporta, quale conseguenza, la sola presenza
di nuovi volumi abusivamente realizzati, già di per se
rilevante, ma anche una incidenza sul carico urbanistico
produttiva di ulteriori effetti negativi.
A conclusioni analoghe deve pervenirsi per ciò che concerne
il reato di abuso d'ufficio, in quanto la legittimazione
alla costituzione di parte civile delle associazioni
ambientaliste deve riconoscersi anche con riferimento ai
reati commessi in occasione o con la finalità di violare
normative dirette alla tutela dell'ambiente e del territorio
(Sez. 5, n. 7015 del 17/11/2010 (dep. 2011), Associazione
Legambiente Onlus e altri) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 22.06.2017 n. 31282 - link a
www.ambientediritto.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza di legittimità ha
più volte affermato
che al soggetto autore di una falsa
dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà siano
effettivamente applicabili le sanzioni previste dall'art. 483 cod. pen..
Ciò, ad esempio:
- laddove vengano rese false attestazioni circa gli
stati, le qualità personali ed i fatti indicati nell'art. 46
del d.P.R. n. 445/2000 al fine di partecipare a una gara di
appalto,
oppure
- si affermi in difformità dal vero di aver completato
opere edilizie entro i termini utili per la concessione in
sanatoria,
ovvero ancora
- si dichiari falsamente di non avere mai riportato
condanne penali con atto allegato ad un'istanza di
iscrizione nel registro dei praticanti geometri.
Occorre, quale presupposto per
l'applicazione della norma de qua, che la dichiarazione
sostitutiva sia destinata a provare la verità dei fatti
oggetto di rappresentazione al pubblico ufficiale, vale a
dire che esista l'obbligo del privato di attestare il vero
in base a disposizioni di legge che ricolleghino «specifici
effetti all'atto-documento nel quale la dichiarazione è
inserita dal pubblico ufficiale ricevente».
---------------
1. Il ricorso appare fondato.
1.1 La giurisprudenza di legittimità ha
infatti più volte affermato
-in casi analoghi a quello oggi sub judice-
che al soggetto autore di una falsa dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà siano effettivamente
applicabili le sanzioni previste dall'art. 483 cod. pen.:
ciò, ad esempio, laddove vengano rese false attestazioni
circa gli stati, le qualità personali ed i fatti indicati
nell'art. 46 del d.P.R. n. 445/2000 al fine di partecipare a
una gara di appalto
(Cass., Sez. V, n. 20570 del 10/05/2006, Esposito),
oppure si affermi in difformità dal vero di aver
completato opere edilizie entro i termini utili per la
concessione in sanatoria
(Cass., Sez. V, n. 21209 del 25/05/2006, Bartolazzi),
ovvero ancora si dichiari falsamente di non
avere mai riportato condanne penali con atto allegato ad
un'istanza di iscrizione nel registro dei praticanti
geometri (Cass.,
Sez. V, n. 48681 del 06/06/2014, Sola).
Occorre, quale presupposto per
l'applicazione della norma de qua, che la
dichiarazione sostitutiva sia destinata a provare la verità
dei fatti oggetto di rappresentazione al pubblico ufficiale,
vale a dire che esista l'obbligo del privato di attestare il
vero in base a disposizioni di legge che ricolleghino «specifici
effetti all'atto-documento nel quale la dichiarazione è
inserita dal pubblico ufficiale ricevente»
(v. Cass., Sez. V, n. 18279 del 02/04/2014, Scalici, nonché
Cass., Sez. V, n. 39215 del 04/06/2015, Cremonese, dove la
configurabilità del delitto è stata esclusa in casi dove le
false dichiarazioni erano state rese ad un curatore
fallimentare, sull'avvenuta distruzione di documentazione
contabile e societaria, e ad un notaio, sul precedente
acquisto a titolo di usucapione di un bene oggetto di
successiva vendita).
Il menzionato presupposto ricorre, all'evidenza, anche
nell'odierna fattispecie concreta, visto che le indicazioni
della In. sullo status di disoccupati da riconoscere
ad alcuni componenti del suo nucleo familiare valevano ad
incidere sulla formazione della graduatoria per
l'assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica.
1.2 L'approccio interpretativo fatto proprio dal Gip del
Tribunale di Palermo, del resto, risulta chiaramente
smentito fino dal 2010, quando si è affermato che
argomentazioni come quelle oggi ribadite dal giudice di
merito portano «ad un risultato ermeneutico da ritenere
frutto di errata applicazione dell'art. 483 cod. pen.
Invero, che la dichiarazione sostitutiva di atto notorio,
presentata dal privato a corredo della istanza
amministrativa, sia tale da integrare il requisito della
"attestazione in atto pubblico", come previsto dall'art. 483
cod. pen., non può essere posto in dubbio.
Questa Corte, al riguardo, ha già messo in evidenza che le
false dichiarazioni del privato concernenti la sussistenza
dei requisiti richiesti dalla legge o dagli strumenti
urbanistici per il rilascio di concessione edilizia, essendo
destinate a dimostrare la verità dei fatti cui si
riferiscono e ad essere "recepite" quali condizioni per la
emanazione o per la efficacia dell'atto pubblico, producendo
cioè immediati effetti rilevanti sul piano giuridico, sono
idonee ad integrare, se ideologicamente false, il delitto di
cui all'art. 483 cod. pen. [...].
Della ricorrenza del requisito in parola non hanno dubitato
nemmeno le Sezioni Unite le quali, in una fattispecie in
tutto analoga (presentazione di dichiarazione di privato
circa il possesso dei requisiti per la partecipazione ad una
gara d'appalto), hanno confermato la sussistenza del reato
di cui all'art. 483 cod. pen. (Cass., Sez. U, n. 35488 del
28/06/2007, Scelsi).
Ad avviso della consolidata giurisprudenza, in conclusione,
la dichiarazione del privato resa con dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà, in presenza di una norma
che preveda il ricorso a tale procedura, vale a far ritenere
integrate anche l'ulteriore requisito richiesto dall'art.
483 cod. pen. (dichiarazione "in atto pubblico") ogni volta
in cui la dichiarazione stessa sia destinata ad essere poi
"trasfusa" in un atto pubblico [...].
Viceversa e specularmente si è escluso, ad esempio, che
integri il delitto di falso ideologico commesso dal privato
in atto pubblico la condotta del privato che attesti
falsamente, con dichiarazione diretta al sindaco,
l'ultimazione dei lavori di un fabbricato, quando tale
dichiarazione non sia destinata a confluire in un atto
pubblico e, quindi, a provare la verità dei fatti in essa
attestati, come verificatosi nella ipotesi di dichiarazione
finalizzata ad ottenere il rilascio del certificato di
abitabilità» (Cass., Sez. V, n. 2978/2010 del
26/11/2009, Urso).
Nella motivazione della pronuncia appena richiamata si legge
altresì che non risulta sostenibile l'assunto secondo cui il
requisito dato dalla necessità che il falso ideologico sia
commesso dal privato "in atto pubblico" non sarebbe
integrato dalla verifica che la falsa dichiarazione sia, in
alternativa, "destinata ad essere trasfusa in atto
pubblico", stante la diversità ontologica dei due
concetti e l'esistenza -nel corpo dell'art. 495 cod. pen.-
di una autonoma sanzione per l'ipotesi di "destinazione
della dichiarazione ad essere riprodotta in atto pubblico".
A tali osservazioni la sentenza Urso ribatte che «la
ipotesi del falso ideologico commesso dal privato ai sensi
dell'art. 483 cod. pen. deve ritenersi integrata in tutti i
suoi requisiti anche ulteriori per il combinato rilievo che
l'atto si intende [...] ricevuto dal pubblico ufficiale
nell'esercizio delle sue funzioni con la stessa attitudine a
produrre gli effetti giuridici connessi alla dichiarazione
dalla norma specifica che gli attribuisce l'obbligo di
affermare il vero.
Come già affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass.,
Sez. U, n. 6 del 17/02/1999, Lucarotti) "oggetto
della tutela penale in relazione al reato di cui all'art.
483 cod. pen. è l'interesse di garantire il bene giuridico
della pubblica fede in quanto si attiene alla pubblica fede
documentale attribuita agli atti pubblici non in relazione a
ciò che vi attesta per suo fatto e di sua scienza il
pubblico ufficiale documentante, ma per quello che vi
assevera, mediante la documentazione del pubblico ufficiale,
il dichiarante. Talché, è palese che il reato postula che il
dichiarante abbia il dovere giuridico di esporre la verità"
[...].
La situazione non è sostanzialmente mutata, ad avviso del
Collegio, a seguito dell'abrogazione della legge n. 15 del
1968, attuata in via generale, da ultimo, dal d.lgs. n. 445
del 2000, art. 77, in seguito alla quale la sottoscrizione
della dichiarazione sostitutiva di atto notorio non deve più
essere autenticata dal pubblico ufficiale, in quanto, come
sopra precisato, quel che rileva, ai fini della sussistenza
del delitto in questione, è la destinazione e lo scopo della
falsa dichiarazione del privato e gli effetti di essa sul
piano giuridico, che impongono una particolare tutela.
Quanto alla particolare menzione, contenuta nell'art. 495
cod. pen. [...], è appena il caso di ricordare come si
tratti di un inciso che reca un contributo assai opinabile
alla tesi che qui si esclude. Infatti quell'inciso è stato
eliminato dal legislatore nel testo vigente dell'art. 495
cod. pen., (come modificato con d.l. n. 92 del 2008),
assieme alla menzione, separata, della dichiarazione "in
atto pubblico", senza peraltro che tale
modifica abbia impedito alla giurisprudenza di sostenere,
pur in presenza del nuovo lessico normativo, che la condotta
di "attestazione falsa", nonostante l'eliminazione del
riferimento all'atto pubblico, continua a incriminare
tuttora il soggetto che renda false dichiarazioni
"attestanti", ovvero tese a garantire, il proprio stato od
altre qualità della propria od altrui persona, destinate ad
essere riprodotte in un atto fidefaciente idoneo a
documentarle».
La linea interpretativa ora illustrata, in chiara antitesi
rispetto alle tesi sostenute nella sentenza oggetto di
ricorso, risulta ribadita anche in pronunce successive (v.
Cass., Sez. V, n. 42524 del 12/07/2012, Picone) (Corte di
cassazione, Sez. V penale,
sentenza 07.04.2017 n. 17774). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Abuso d'ufficio - Macroscopica
illegittimità dell'atto compiuto - Accertamento dell'accordo
collusivo - Esclusione - Prova del dolo intenzionale - Art.
323 codice penale.
In tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale,
che qualifica la fattispecie criminosa, può essere desunta
anche da elementi sintomatici come la macroscopica
illegittimità dell'atto compiuto, non essendo richiesto
l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si
intende favorire, in quanto l'intenzionalità del vantaggio
ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente
quel privato interessato alla singola vicenda amministrativa
(Cass. Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, Dragotta).
Abuso d'ufficio - Concorso nel reato di
estranei al pubblico ufficio o al pubblico servizio -
Configurabilità - Compartecipazione all'attività criminosa
del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico
servizio - Responsabilità dell'extraneus per concorso nel
reato proprio.
Anche gli estranei al pubblico ufficio o al pubblico
servizio possono concorrere nel reato di abuso d'ufficio,
quando vi sia compartecipazione di questi all'attività
criminosa del pubblico ufficiale o dell'incaricato di
pubblico servizio (Sez. 6, n. 2140 del 25/05/1995, Tontol),
in quanto per la configurabilità della responsabilità dell'extraneus
per concorso nel reato proprio, è sufficiente, da un lato,
la cooperazione materiale ovvero, come nel caso in esame, la
determinazione o l'istigazione a commettere il reato, ed è
indispensabile, dall'altro, che l'intraneo, esecutore
materiale del delitto di abuso d'ufficio, sia riconosciuto
responsabile del reato proprio, indipendentemente dalla sua
punibilità in concreto per la eventuale presenza di cause
personali di esclusione della responsabilità (Sez. 6, n.
40303 del 08/07/2014, Zappia) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 31.03.2017 n. 16449 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Aree
colpite da sisma - Realizzazione di alloggio abitativo
antisismico - Disciplina emergenziale - Rispetto del
principio di legalità - Abuso di ufficio - Art. 97
Costituzione - Fattispecie: ottenimento illeciti benefici
preclusi nelle situazioni ordinarie.
La normativa emergenziale non rende legibus solutus
chi deve fare fronte ad eventi così devastanti per la
collettività e non affranca alcuno dal rispetto del
principio di legalità, che anzi deve maggiormente e
soprattutto in questi casi, così dirompenti e distruttivi
per la vita delle popolazioni colpite, costituire l'essenza
dell'attività amministrativa, secondo il paradigma
costituzionale declinato dall'articolo 97 della
Costituzione, in maniera da evitare che tali disastri si
risolvano in favoritismi assicurati a soggetti che alcun
danno dal sisma abbiano subito e che, approfittando invece
della situazione emergenziale, mirino ad ottenere illeciti
benefici a loro preclusi nelle situazioni ordinarie (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.03.2017 n. 16449 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Permesso
di costruire rilasciato dal dirigente o responsabile dello
sportello unico - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Abuso di
ufficio - Configurabilità del reato di abuso di ufficio.
BOSCHI E MACCHIA MEDITERRANEA - BENI CULTURALI ED AMBIENTALI
- Effettiva estensione dell'area boscata - Area sottoposta a
vincolo - False attestazioni del tecnico progettista - Art.
142, comma 1, lett. g), d.lgs. 42/2004 - Art. 13, 44, lett.
b), d.P.R. 380/2001.
L'inosservanza dell'art. 13 d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
secondo il quale "il permesso di costruire è rilasciato
dal dirigente o responsabile dello sportello unico nel
rispetto delle leggi, dei regolamenti e degli strumenti
urbanistici" integra il requisito della violazione di
legge rilevante ai fini della configurabilità del reato di
abuso di ufficio (Sez. 3, n. 39462 del 19/06/2012, Rullo;
conf., Sez. 6, n. 11620 del 25/01/2007, Pellegrino).
Fattispecie: in relazione ai reati di cui agli artt. 323
cod. pen. (per avere rilasciato un permesso di costruire,
mediante il quale era stata assentita la costruzione di un
nuovo fabbricato, illegittimo per violazione di legge) e 44,
lett. b), d.P.R. 380/2001 (per avere concorso con il
proprietario del fondo alla realizzazione di scavi di
fondazione con platea in cemento e movimentazione terra,
sulla base di permesso di costruire illegittimo), e con
riferimento al tecnico progettista e redattore di una
relazione tecnico progettuale, contenente false attestazioni
circa l'effettiva estensione dell'area boscata di un fondo
in relazione al quale era stato chiesto il rilascio di
permesso di costruire, in relazione al reato di cui all'art.
481, comma 2, cod. pen. (Corte di cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 31.03.2017 n. 16436 - link a
www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: In
tema di elemento soggettivo del reato di abuso di ufficio
non è richiesta la prova della collusione del pubblico
ufficiale con i beneficiari dell'abuso, essendo sufficiente
la verifica del favoritismo posto in essere con l'abuso
dell'atto di ufficio,
prova che può essere desunta anche da
elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità
dell'atto compiuto,
o anche anche da una serie di indici
fattuali, tra i quali assumono rilievo l'evidenza,
reiterazione e gravità delle violazioni, la competenza
dell'agente, i rapporti fra agente e soggetto favorito,
l'intento di sanare le illegittimità con successive
violazioni di legge.
--------------
3. Il ricorso è inammissibile perché generico e
manifestamente infondato.
4. Il G.u.p. ha motivato la propria decisione sul rilievo
che:
a) i provvedimenti amministrativi adottati non sono
macroscopicamente illegittimi;
b) il pubblico ufficiale aveva adottato i provvedimenti
in base all'istruttoria favorevolmente condotta dal tecnico
comunale che non aveva evidenziato alcuna illegittimità e
sulle cui conclusioni aveva fatto ragionevole affidamento;
c) il giudizio di conformità ambientale di cui agli artt.
181, comma 1-ter, e 167, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004, era
stato positivamente espresso relativamente alla piscina in
base ad un'interpretazione non uniforme dell'autorità
amministrativa preposta alla tutela del vincolo;
d) il Ve., prima ancora di ricevere l'avviso di
conclusione delle indagini preliminari, non appena ricevuta
l'informazione di polizia giudiziaria sugli abusi edilizi in
corso ne aveva ordinato la sospensione;
e) non v'è alcuna prova non solo di complicità con i
privati ma addirittura di un qualsiasi rapporto di
conoscenza tra di loro.
4.1. Il PG ricorrente devolve la questione in modo tale da
limitare la cognizione di questa Corte al solo fatto
dedotto: la mancanza della prova di collusione tra i tre
imputati, ritenuto decisivo ai fini dell'annullamento della
sentenza impugnata.
4.2. Questa Suprema Corte ha più volte affermato il
principio secondo il quale, in tema di
elemento soggettivo del reato di abuso di ufficio, non è
richiesta la prova della collusione del pubblico ufficiale
con i beneficiari dell'abuso, essendo sufficiente la
verifica del favoritismo posto in essere con l'abuso
dell'atto di ufficio
(Sez. 6, n. 910 del 18/11/1999, Giansante, Rv. 215430; Sez.
6, n. 21085 del 28/01/2004, Sodano, Rv. 229806; Sez. F. n.
38133 del 25/08/2011, Farina, Rv. 251088),
prova che può essere desunta anche da elementi sintomatici
come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto
(Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, Dragotta, Rv. 260233),
o anche anche da una serie di indici
fattuali, tra i quali assumono rilievo l'evidenza,
reiterazione e gravità delle violazioni, la competenza
dell'agente, i rapporti fra agente e soggetto favorito,
l'intento di sanare le illegittimità con successive
violazioni di legge
(Sez. 3, n. 35577 del 06/04/2016, Cella, Rv. 267633).
4.3. Tuttavia, come detto, di tutti gli indizi
complessivamente valutati dal G.u.p., il PG ne seleziona uno
solo, perdendo di vista la completezza e l'organicità del
ragionamento del Giudice sulla cui fondatezza questa Corte
non può ovviamente interloquire, perché non investita sul
punto.
Il PG, infatti, non eccepisce alcunché sulla natura non
macroscopicamente illegittima degli atti amministrativi
adottati, né sul legittimo affidamento fatto dal pubblico
ufficiale sull'istruttoria del tecnico comunale (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.03.2017 n. 12397). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Abuso di ufficio per sviamento di potere
- Dirigente dell'Ufficio edilizia pubblica - Violazione del
principio di imparzialità - Condotta del pubblico ufficiale
in contrasto con le norme - Obbligo di astensione - Elemento
psicologico del reato - Configurabilità del dolo
intenzionale - Scopo diverso da una finalità pubblica -
Condotta illecita - Prova dell'intenzionalità del dolo -
Art. 323 c.p. - Fattispecie: ottenimento una concessione
edilizia attraverso una procedura anomala e irrituale - Art.
44, d.P.R. n. 380/2001.
Ai fini della configurabilità del reato di abuso d'ufficio,
sussiste il requisito della violazione di legge non solo
quando la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in
contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere,
ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola
realizzazione di un interesse collidente con quello per il
quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi
il vizio dello sviamento di potere, che integra la
violazione di legge poiché lo stesso non viene esercitato
secondo lo schema normativo che ne legittima l'attribuzione
(Cass. Sez. U, n. 155 del 29/09/2011, Rossi; tra le altre,
Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo; Sez. 6, n. 27816 del
02/04/2015, Di Febo; Sez. 6, n. 43789 del 18/10/2012,
Contiguglia; Sez. 6, n. 35597 del 05/07/2011, Barbera).
Quanto, poi, all'elemento psicologico del reato, per detta
fattispecie criminosa, il dolo richiesto assume una
connotazione articolata e complessa: è generico, con
riferimento alla condotta (coscienza e volontà di violare
norme di legge o di regolamento ovvero di non osservare
l'obbligo di astensione) e assume la forma del dolo
intenzionale rispetto all'evento (vantaggio patrimoniale o
danno) che completa la fattispecie.
Sicché, il dolo intenzionale è configurabile qualora si
accerti che il pubblico ufficiale o l'incaricato di un
pubblico servizio abbia agito con uno scopo diverso da
quello consistente nel realizzare una finalità pubblica, il
cui conseguimento deve essere escluso non soltanto nei casi
nei quali questa manchi del tutto, ma anche laddove la
stessa rappresenti una mera occasione della condotta
illecita, posta in essere invece al preciso scopo di
perseguire, in via immediata, un danno ingiusto ad altri o
un vantaggio patrimoniale ingiusto per sé o per altri (Sez.
3, sent. n. 10810 del 17/01/2014, Altieri e altri).
Invero, la prova dell'intenzionalità del dolo esige il
raggiungimento della certezza che la volontà dell'imputato
sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio
patrimoniale o il danno ingiusto e tale certezza non può
essere ricavata esclusivamente dal rilievo di un
comportamento "non iure" osservato dall'agente, come
tale insufficiente, ma deve trovare conferma anche in altri
elementi sintomatici, che evidenzino la effettiva "ratio"
ispiratrice del comportamento, quali, ad esempio, la
specifica competenza professionale dell'agente, l'apparato
motivazionale su cui riposa il provvedimento ed il tenore
dei rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i
soggetti che dal provvedimento stesso ricevono vantaggio
patrimoniale o subiscono danno (Cass. Sez. 6, sent. n. 21192
del 25/01/2013, Baria ed altri; nello stesso sostanziale
senso, v. Sez. 3, sent. n. 13735 del 26/02/2013, p.c. in
proc. Fabrizio e altro).
Fattispecie: violazione del principio di imparzialità
dell'attività amministrativa, gestendo in modo anomalo e con
irrituale partecipazione una procedura introdotta al fine di
ottenere una specifica concessione edilizia.
Pubblico ufficiale - Reato di abuso di
ufficio - Principio di buon andamento e di imparzialità
dell'azione della pubblica amministrazione - Art. 323 c.p. -
Violazione dell'art. 97 Cost. - Giurisprudenza.
In tema di abuso di ufficio, il requisito della violazione
di legge può consistere anche nella inosservanza dell'art.
97 della Costituzione, nella parte immediatamente precettiva
che impone ad ogni pubblico funzionario, nell'esercizio
delle sue funzioni, di non usare il potere che la legge gli
conferisce per compiere deliberati favoritismi e procurare
ingiusti vantaggi ovvero per realizzare intenzionali
vessazioni o discriminazioni e procurare ingiusti danni (Cass.,
Sez. 2, n. 46096 del 27/10/2015, Giorgina; Sez. 6, n. 27816
del 02/04/2015, Di Febo; Sez. 6, n. 37373 del 24/06/2014,
Cocuzza) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.02.2017 n. 7161 - link a
www.ambientediritto.it). |
anno 2016 |
|
PUBBLICO IMPIEGO:
Abuso di ufficio.
Il dolo del reato di abuso d'ufficio
sussiste ogni qualvolta l'ingiusto vantaggio proprio o
altrui, ovvero l'ingiusto danno altrui, siano stati
rappresentati e voluti dall'agente come obiettivo primario
della propria condotta.
Tale intenzione va desunta dal complessivo svolgersi dei
comportamenti, soprattutto quando sia stato rilevato un iter
procedimentale illegittimo e caratterizzato da plurime
condotte omissive e dilatorie dell'imputato.
La reiterazione dei comportamenti, la evidente illegittimità
di essi e le altre circostanze afferenti i rapporti tra
agente e soggetto favorito o danneggiato, costituiscono
evidenti indici della sussistenza del dolo, anche se non è
necessario che il fine che deve animare l'agente sia
esclusivo.
----------------
1. Va premesso che in relazione
all'elemento soggettivo nel delitto di abuso di ufficio, è
stato affermato che "la prova del dolo intenzionale deve
essere ricavata da elementi ulteriori rispetto al
comportamento "non iure" osservato dall'agente, che
evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del
comportamento dell'agente, senza che al riguardo possa
rilevare la compresenza di una finalità pubblicistica, salvo
che il perseguimento del pubblico interesse costituisca
l'obiettivo principale dell'agente"
(cfr. Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo, Rv. 264280).
E' stato anche precisato che è necessario
che il perseguimento dell'interesse pubblico costituisca il
fine primario dell'agente affinché possa essere ritenuto
insussistente l'elemento soggettivo del dolo
(in tal senso: Sez. 6, n. 14038/2015 del 02/10/2014, De
Felicis e altro, Rv. 262950).
2. In sintesi, il dolo sussiste quando
l'ingiusto vantaggio proprio od altrui, ovvero l'ingiusto
danno altrui siano stati rappresentati e voluti dall'agente
come obiettivo primario della propria condotta. Tale
intenzione va desunta dal complessivo svolgersi dei
comportamenti, soprattutto quando, come nel caso di specie,
sia stato rilevato -concordemente dai giudici di primo e
secondo grado- un iter procedimentale illegittimo e
caratterizzato da plurime condotte omissive e dilatorie
dell'imputato. La reiterazione dei comportamenti, la
evidente illegittimità di essi, nonché le altre circostanze
afferenti i rapporti tra agente e soggetto favorito o
danneggiato ed, in caso di compresenza di più fini, dalla
comparazione dei rispettivi vantaggi o svantaggi
(cfr. Sez. 6, n. 41365 del 09/11/2006, Fabbri, Rv. 235434),
costituiscono, pertanto, evidenti indici
della sussistenza del dolo, anche se non è necessario che il
fine che deve animare l'agente sia esclusivo.
3. Come già questa Corte ha affermato,
ritenere che l'agente debba agire "al solo scopo di",
equivarrebbe ad una sostanziale disapplicazione della
fattispecie delittuosa
(in tal senso: Sez. 3, n. 13735 del 26/02/2013,p.c. in proc.
Fabrizio e altro, Rv. 254856).
Di fatti, va ribadito il principio che,
poiché l'abuso di ufficio è un reato proprio che può essere
commesso solo dal pubblico ufficiale od incaricato di un
pubblico servizio nell'esercizio delle proprie rispettive
funzioni, in qualche modo finisce per risultare sempre
manifestata una finalità pubblicistica, e ciò non solo
quando tale pubblica finalità sia utilizzata per mascherare
il vero, ma diverso, fine di avvantaggiare il soggetto
privato, ma anche quando il medesimo obiettivo pubblico
venga strumentalizzato quale scusante o limite del mancato
riconoscimento delle ragioni o diritti del privato, e quindi
con l'intenzione di provocare al privato un danno.
4. Nel caso di specie, i giudici di appello hanno omesso di
svolgere il menzionato giudizio di "finalità prevalente"
in merito all'iter procedimentale dagli stessi riconosciuto
illegittimo, in quanto hanno ritenuto che mancassero
elementi di prova relativi alla sussistenza, in capo
all'imputato, dell'obiettivo di danneggiare l'attività
imprenditoriale della parte offesa, danneggiamento in verità
avvenuto, posto che a seguito dell'illegittimo procedimento
mai più concluso -fatto non riconducibile ad alcuna finalità
pubblicistica, visto che il procedimento di intesa ai sensi
del Piano paesaggistico regionale era stato promosso per
altra coeva iniziativa edilizia- era stato provocato uno
stato di incertezza tale da porre nel nulla il progettato
intervento imprenditoriale volto alla realizzazione di
strutture ricettivo-turistiche (Corte di Cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 22.07.2016 n. 31865). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Consuma
il reato di "abuso d'ufficio" il sindaco che, con ordinanza
contingibile ed urgente ex art. 54 d.lgs. 267/2000,
mette in atto un espediente per aggirare
le prescrizioni connesse al vincolo ambientale e realizzare
un intento illecito, e cioè favorire l'attività di
ristorazione ivi esistente, essendo risultati del tutto
artificiosi i riferimenti ad incidenti stradali verificatisi
nella zona, non essendo derivati dal traffico estivo, e non
essendo correlate alle esigenze della circolazione le opere
diverse dalla realizzazione del parcheggio autorizzate con
la medesima ordinanza, volte invece a favorire l'afflusso di
clienti presso l'esercizio commerciale e ad ampliarne e
rendere più attrattiva l'attività, ritenendo di conseguenza
viziato da violazione di legge tale provvedimento, in quanto
non caratterizzato da eccesso di potere (nel senso del
compimento di non corrette valutazioni discrezionali) ma
dalla assoluta mancanza dei presupposti legittimanti
l'esercizio di tale potere, artificiosamente prospettati
nella ordinanza stessa.
---------------
Il ricorso è infondato.
...
2. Il secondo motivo di ricorso, mediante il quale
è stata prospettata violazione di legge, ed
in particolare dell'art. 54 d.lgs. 267/2000, in relazione
alla ritenuta sussistenza del reato di cui all'art. 323 cod.
pen., sul rilievo che l'ordinanza contingibile ed urgente
emanata dal De Ru.
quale Sindaco
di Lampedusa e Linosa per consentire la
realizzazione del parcheggio era stata adottata per
risolvere i problemi di congestione del traffico veicolare
nell'area prospiciente la spiaggia dell'Isola dei Conigli,
dunque in relazione ad una situazione di pericolo per la
sicurezza e l'incolumità pubblica,
risulta anch'esso infondato.
Al riguardo la Corte d'appello di Palermo ha sottolineato
le anomalie della procedura conclusasi con
l'emissione di detta ordinanza, ritenuta un espediente per
aggirare le prescrizioni connesse al vincolo ambientale e
realizzare un intento illecito, e cioè favorire l'attività
di ristorazione del Cu., essendo risultati del tutto
artificiosi i riferimenti ad incidenti stradali verificatisi
nella zona, non essendo derivati dal traffico estivo, e non
essendo correlate alle esigenze della circolazione le opere
diverse dalla realizzazione del parcheggio autorizzate con
la medesima ordinanza, volte invece a favorire l'afflusso di
clienti presso l'esercizio commerciale del Cu. e ad
ampliarne e rendere più attrattiva l'attività, ritenendo di
conseguenza viziato da violazione di legge tale
provvedimento, in quanto non caratterizzato da eccesso di
potere (nel senso del compimento di non corrette valutazioni
discrezionali) ma dalla assoluta mancanza dei presupposti
legittimanti l'esercizio di tale potere, artificiosamente
prospettati nella ordinanza stessa.
A fronte di tali considerazioni il ricorrente si è limitato
a ribadire l'esistenza di una situazione di pericolo
conseguente all'intenso traffico veicolare nella zona,
omettendo di confrontarsi con i suddetti rilievi della Corte
d'appello, circa la pretestuosità di tale indicazione e la
sua inconferenza rispetto al complesso degli interventi e
dei lavori autorizzati, con la conseguente infondatezza
della censura, risultando corretta la riconducibilità del
vizio di detta ordinanza alla categoria della violazione di
legge, in quanto emessa in totale assenza dei presupposti
legittimanti, e cioè una situazione di pericolo per la
sicurezza e l'incolumità pubblica, esclusa in punto di fatto
ed in relazione alla quale, comunque, gli interventi
autorizzati risultavano inconferenti.
L'ampliamento del piccolo bar
di cui il Cu. era titolare, mediante
trasformazione in un vero e proprio punto di ristoro, con
parcheggio e docce, determinava un evidente vantaggio
patrimoniale per il gestore, conseguente alla radicale
trasformazione del suo esercizio commerciale, in termini di
dimensioni, caratteristiche e maggiori servizi offerti ai
turisti, con la conseguenza che risulta corretta la
valutazione compiuta dalla Corte d'appello circa lo scopo di
procurare tale vantaggio al Cu. insito nella adozione della
ordinanza d'urgenza da parte del De Ru..
Infine risulta infondata anche la censura sollevata in
relazione alla condanna del ricorrente al risarcimento dei
danni in favore della parte civile costituita,
avendo l'imputato esorbitato dalle sue attribuzioni
di Sindaco, emettendo una ordinanza in mancanza dei
presupposti legittimanti l'esercizio del relativo potere, e
dovendo, di conseguenza, rispondere delle conseguenze di
tale atto anche sul piano risarcitorio, essendo venuto meno
per effetto dell'illecito il rapporto di rappresentanza ed
immedesimazione organica con l'ente.
In conclusione il ricorso in esame deve essere respinto,
stante l'infondatezza di entrambi i motivi cui è stato
affidato, ed il ricorrente condannato al pagamento delle
spese processuali ed alla rifusione alla parte civile di
quelle dalla stessa sostenute nel grado, liquidate come da
dispositivo (Corte di Cassazione, Sez. III Penale,
sentenza 12.07.2016 n. 28938). |
EDILIZIA PRIVATA:
QUALI SONO I DOVERI DI CONTROLLO DEL PUBBLICO AMMINISTRATORE
PRIMA DI RILASCIARE UN TITOLO ABILITATIVO EDILIZIO?
Nel procedimento amministrativo di
rilascio di un titolo abilitativo alla realizzazione di
opere o allo svolgimento di attività coinvolgenti immobili,
l’indagine sulla conformità dell’immobile alla disciplina
urbanistica costituisce un momento istruttorio ineludibile
espressamente previsto dal legislatore, sicché solo
l’acquisizione di dati positivi nel senso favorevole al
richiedente consente il legittimo rilascio del provvedimento
abilitativo, con la conseguenza che l’inosservanza di tale
procedimento concreta il vizio di violazione di legge
rilevante ai sensi dell’art. 323 c.p., trattandosi di norme
che impongono all’amministrazione comportamenti specifici e
puntuali la cui omissione ha l’effetto di procurare un
vantaggio al beneficiario.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della S.C.
verte, in particolare, sulla individuazione degli obblighi
incombenti sul pubblico amministratore (di regola, il
responsabile dell’ufficio tecnico comunale, deputato
all’istruttoria delle pratiche edilizie), prima di procedere
al rilascio di un titolo abilitativo.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza di
condanna pronunciata nei confronti del responsabile
dell’ufficio tecnico comunale per il reato di cui all’art.
323 c.p.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione
l’imputato, in particolare sostenendo che le emergenze
processuali non avrebbero fornito alcuna prova in ordine
alla sua responsabilità, ed i dati offerti alla difesa
sarebbero rimasti del tutto negletti con conseguente vizio
motivazionale della impugnata sentenza.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima, ha dichiarato inammissibile il ricorso, in
particolare, osservando come decisamente consolidato è
l’orientamento giurisprudenziale che qualifica come
rilevante per la sussistenza del reato di abuso di ufficio
la violazione delle norme che disciplinano i compiti degli
amministratori pubblici in materia di edilizia e di
urbanistica, ossia, dapprima, il Sindaco ai sensi della L.
n. 47 del 1985, art. 4; e poi, il responsabile dell’Ufficio
tecnico comunale, a partire dall’entrata in vigore del D.Lgs.
n. 267 del 2000, art. 107, comma 3, lett. g), (testo unico
delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), che ha
recepito e unificato le normative precedenti (a partire
dalla L. n. 142 del 1990, art. 51), stabilendo che tutti gli
interventi in materia di violazioni edilizie sono di
competenza del Dirigente responsabile dell’Ufficio tecnico
comunale, nel solco del disegno complessivo che ha inteso
separare, nelle amministrazioni locali, l’attività di
indirizzo e controllo, spettante agli organi elettivi, dai
compiti di gestione amministrativa affidati ai dirigenti.
Nello specifico, ai sensi degli artt. 27 e 31 del testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia edilizia, contenuto nel d.P.R. n. 380 del 2001, il
Dirigente o il responsabile dell’Ufficio tecnico comunale è
attualmente titolare della posizione di garantire il
corretto assetto dello sviluppo urbanistico del Comune,
esercitando la vigilanza “sull’attività
urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne
la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità
esecutive fissate nei titoli abilitativi”, ed avendo
l’obbligo di intervenire “ogni qualvolta venga accertato
l’inizio o l’esecuzione di opere eseguite senza titolo o in
difformità della normativa urbanistica, attraverso
l’emanazione di provvedimenti interdittivi e cautelari”.
Si noti, del resto, che sin dalle prime pronunce intervenute
dopo l’entrata in vigore della L. n. 234 del 1997, si è
affermato che, nel procedimento amministrativo di rilascio
di un titolo abilitativo alla realizzazione di opere o allo
svolgimento di attività coinvolgenti immobili, l’indagine
sulla conformità dell’immobile alla disciplina urbanistica
costituisce un momento istruttorio ineludibile “espressamente
previsto dal legislatore, sicché solo l’acquisizione di dati
positivi nel senso favorevole al richiedente consente il
legittimo rilascio” del provvedimento abilitativo, con
la conseguenza che “l’inosservanza di tale procedimento
concreta (...) il vizio di violazione di legge rilevante ai
sensi dell’art. 323 c.p., trattandosi di norme che impongono
all’amministrazione comportamenti specifici e puntuali la
cui omissione ha l’effetto di procurare un vantaggio al
beneficiario” (v. ad es., Cass. pen., Sez. VI,
04.08.1998, n. 9116, E., in CED, n. 211579) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.06.2016 n. 23682 - Urbanistica e
appalti 10/2016). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Decisamente
consolidato è l'orientamento giurisprudenziale che qualifica
come rilevante per la sussistenza del reato di abuso di
ufficio la violazione delle norme che disciplinano i compiti
degli amministratori pubblici in materia di edilizia e di
urbanistica, ossia, dapprima, il Sindaco ai sensi dell'art.
4 legge n. 47 del 1985; e poi, il responsabile dell'Ufficio
tecnico comunale, a partire dall'entrata in vigore dell'art.
107, comma 3, lettera g), del decreto legislativo n. 267 del
2000, stabilendo che tutti gli
interventi in materia di violazioni edilizie sono di
competenza del Dirigente responsabile dell'Ufficio tecnico
comunale, nel solco del disegno complessivo che ha inteso
separare, nelle amministrazioni locali, l'attività di
indirizzo e controllo, spettante agli organi elettivi, dai
compiti di gestione amministrativa affidati ai dirigenti.
---------------
Nel procedimento amministrativo di rilascio di un titolo
abilitativo alla realizzazione di opere o allo svolgimento
di attività coinvolgenti immobili, l'indagine sulla
conformità dell'immobile alla disciplina urbanistica
costituisce un momento istruttorio ineludibile
«espressamente previsto dal legislatore, sicché solo
l'acquisizione di dati positivi nel senso favorevole al
richiedente consente il legittimo rilascio» del
provvedimento abilitativo, con la conseguenza che
«l'inosservanza di tale procedimento concreta (...) il vizio
di violazione di legge rilevante ai sensi dell'art. 323
codice penale, trattandosi di norme che impongono
all'amministrazione comportamenti specifici e puntuali la
cui omissione ha l'effetto di procurare un vantaggio al
beneficiario».
---------------
Pacifico è che, nel delitto di abuso d'ufficio, non è
richiesta la prova della collusione tra p.u. e privato. Si è
infatti affermato più volte che in tema di abuso d'ufficio,
la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie
criminosa, può essere desunta anche da elementi sintomatici
come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto, non
essendo richiesto l'accertamento dell'accordo collusivo con
la persona che si intende favorire, in quanto
l'intenzionalità del vantaggio ben può prescindere dalla
volontà di favorire specificamente quel privato interessato
alla singola vicenda amministrativa.
---------------
3. Il ricorso è manifestamente infondato e dev'essere
dichiarato inammissibile.
4. Anzitutto, osserva il Collegio, il primo motivo si
appalesa del tutto inammissibile.
La Corte d'appello, infatti, spiega le ragioni per le quali
l'intervento edilizio non avrebbe potuto essere condonato,
atteso che lo stesso tecnico istruttore della pratica aveva
evidenziato la mancanza dei previsti elaborati grafici
formulando parere negativo all'accoglimento dell'istanza di
condono; la stessa Corte d'appello chiarisce (v. pagg. 5/6)
che proprio l'esame di tale documentazione planimetrica
avrebbe consentito di accertare che il sottotetto non era
condonabile, in particolare trattandosi di sanatoria per
ristrutturazione edilizia funzionale a modifiche della
destinazione d'uso da deposito ad abitazione; era quindi
necessario accertare che i volumi fossero tali da consentire
detto mutamento, atteso che la variazione avveniva tra
categorie non omogenee.
La Corte d'appello, quindi, perviene ad affermare che,
rilasciando il titolo abilitativo, il ricorrente aveva
abusato del suo ufficio (e che l'architetto Di. avesse
presente che si trattava di rilascio di titolo abilitativo
in sanatoria e non di certificato di abitabilità-agibilità
risultava pacificamente dagli atti); quanto al dolo viene
spiegato dalla corte d'appello perché lo stesso ben poteva
essere ritenuto sussistente (v. pagg. 6 e 7), sicché il
rilascio del titolo avvenne in mancanza di quei dati che si
assumevano come esistenti ed acquisiti (non potendosi
nemmeno trascurare il fatto che il dubbio sulla ritualità
della pratica era oltremodo stato evidenziato anche dagli
esposti dei condomini dello stabile, sicché era evidente
come fosse sicuramente opportuno un comportamento
dell'imputato improntato a maggior prudenza); detto
comportamento, si spiega nella sentenza d'appello, ha
determinato un incremento del valore economico dell'unità
immobiliare del Pi. con conseguente integrazione della
cosiddetta doppia ingiustizia.
5. Infine, e conclusivamente, deve peraltro evidenziarsi che
il condono non avrebbe potuto essere rilasciato perché la
relativa istanza era stata ritenuta inveritiera in quanto
l'immobile non era stato ultimato entro il 31.03.2003 (non
va, infatti, dimenticato che il proprietario era stato
condannato per violazione dell'art. 483 cod. pen.), e l'Am.,
quale pubblico ufficiale addetto alla valutazione delle
relative pratiche, aveva il dovere di controllarne la
rispondenza al vero prima di rilasciare il condono e
comunque dovendo procedere alle verifiche imposte dall'art.
35, legge n. 47 del 1985.
Con specifico riguardo al tema d'indagine, si osserva che
decisamente consolidato è l'orientamento
giurisprudenziale che qualifica come rilevante per la
sussistenza del reato di abuso di ufficio la violazione
delle norme che disciplinano i compiti degli amministratori
pubblici in materia di edilizia e di urbanistica, ossia,
dapprima, il Sindaco ai sensi dell'art. 4 legge n. 47 del
1985; e poi, il responsabile dell'Ufficio tecnico comunale,
a partire dall'entrata in vigore dell'art. 107, comma 3,
lettera g), del decreto legislativo n. 267 del 2000
(testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti
locali), che ha recepito e unificato le normative precedenti
(a partire dall'art. 51 legge n. 142 del 1990),
stabilendo che tutti gli interventi in materia di
violazioni edilizie sono di competenza del Dirigente
responsabile dell'Ufficio tecnico comunale, nel solco del
disegno complessivo che ha inteso separare, nelle
amministrazioni locali, l'attività di indirizzo e controllo,
spettante agli organi elettivi, dai compiti di gestione
amministrativa affidati ai dirigenti.
Nello specifico, ai sensi degli artt. 27 e 31 del testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia edilizia, contenuto nel decreto del Presidente della
Repubblica n. 380 del 2001, il Dirigente o il responsabile
dell'Ufficio tecnico comunale è attualmente titolare della
posizione di garantire il corretto assetto dello sviluppo
urbanistico del Comune, esercitando la vigilanza «sull'attività
urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne
la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità
esecutive fissate nei titoli abilitativi», ed avendo
l'obbligo di intervenire «ogni qualvolta venga accertato
l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo o in
difformità della normativa urbanistica, attraverso
l'emanazione di provvedimenti interdittivi e cautelari».
Sin dalle prime pronunce intervenute dopo l'entrata in
vigore della legge n. 234 del 1997, si è affermato che,
nel procedimento amministrativo di rilascio
di un titolo abilitativo alla realizzazione di opere o allo
svolgimento di attività coinvolgenti immobili, l'indagine
sulla conformità dell'immobile alla disciplina urbanistica
costituisce un momento istruttorio ineludibile «espressamente
previsto dal legislatore, sicché solo l'acquisizione di dati
positivi nel senso favorevole al richiedente consente il
legittimo rilascio» del provvedimento abilitativo, con
la conseguenza che «l'inosservanza di tale procedimento
concreta (...) il vizio di violazione di legge rilevante ai
sensi dell'art. 323 codice penale, trattandosi di norme che
impongono all'amministrazione comportamenti specifici e
puntuali la cui omissione ha l'effetto di procurare un
vantaggio al beneficiario»
(v. ad es., Sez. 6, n. 9116 del 01/07/1998 - dep.
04/08/1998, Egidi C, Rv. 211579).
6. Tenuto conto di quanto sopra, il ricorrente svolge
censure che -lungi dal prospettare un vizio motivazionale-
si propongono di pervenire ad un obiettivo diverso, ossia
chiedere a questa Corte di sostituire la valutazione operata
dai giudici di merito con una propria "rivalutazione"
dei fatti, operazione vietata in questa sede.
Le deduzioni difensive si risolvono, all'evidenza -lungi dal
prospettare un vizio di motivazione- nella manifestazione
del dissenso rispetto alla ricostruzione del fatto ed alla
valutazione probatoria operata dai giudici di merito,
operazione, come detto, non consentita in questa sede.
Si ribadisce, e non potrebbe essere altrimenti, che
l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della
decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato
demandato alla Corte di cassazione essere limitato -per
espressa volontà del legislatore- a riscontrare l'esistenza
di un logico apparato argomentativo sui vari punti della
decisione impugnata, senza possibilità di verificare
l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di
merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o
la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula,
infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una
"rilettura" degli elementi di fatto posti a
fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via
esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa
integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di
una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione
delle risultanze processuali (per tutte., v.: Sez. U, n.
6402 del 30/04/1997 - dep. 02/07/1997, Dessimone e altri, Rv.
207944).
A ciò si aggiunge -con particolare riferimento alle
doglianze riguardanti il preteso vizio motivazionale- che
gli accertamenti (giudizio ricostruttivo dei fatti) e gli
apprezzamenti (giudiziovalutativo dei fatti) cui il giudice
del merito sia pervenuto attraverso l'esame delle prove,
sorretto da adeguata motivazione esente da errori logici e
giuridici, sono sottratti al sindacato di legittimità e non
possono essere investiti dalla censura di difetto o
contraddittorietà della motivazione solo perché contrari
agli assunti del ricorrente; ne consegue che tra le
doglianze proponibili quali mezzi di ricorso, ai sensi
dell'art. 606, lett. e), cod. proc. pen., non rientrano
quelle relative alla valutazione delle prove, specie se
implicanti la soluzione di contrasti testimoniali, la scelta
tra divergenti versioni ed interpretazioni, l'indagine
sull'attendibilità dei testimoni e sulle risultanze
peritali, salvo il controllo estrinseco della congruità e
logicità della motivazione (tra le tante: Sez. 4, n. 87 del
27/09/1989 - dep. 11/01/1990, Bianchesi, Rv. 182961).
Controllo, in questa sede, agevolmente superato dalla
sentenza impugnata.
Quanto, alla sussistenza del dolo normativamente richiesto,
infine, pacifico è che, nel delitto di
abuso d'ufficio, non è richiesta la prova della collusione
tra p.u. e privato. Si è infatti affermato più volte che in
tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale, che
qualifica la fattispecie criminosa, può essere desunta anche
da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità
dell'atto compiuto, non essendo richiesto l'accertamento
dell'accordo collusivo con la persona che si intende
favorire, in quanto l'intenzionalità del vantaggio ben può
prescindere dalla volontà di favorire specificamente quel
privato interessato alla singola vicenda amministrativa
(Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014 - dep. 27/08/2014, Dragotta,
Rv. 260233; Sez. F, n. 38133 del 25/08/2011 - dep.
21/10/2011, P.G. e p.c. in proc. Farina, Rv. 251088; Sez. 6,
n. 21085 del 28/01/2004 - dep. 05/05/2004, P.C.in proc.
Sodano e altri, Rv. 229806) (Corte di cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 08.06.2016 n. 23682). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
Abuso d’ufficio il direttore generale di un Comune che
esprime una valutazione negativa della professionalità di un
proprio sottoposto al fine di bloccargli la progressione
economica.
La prova del dolo intenzionale del
delitto di abuso d'ufficio deve essere ricavata da elementi
ulteriori rispetto al comportamento non iure osservato
dall'agente, che evidenzino la effettiva ratio ispiratrice
del comportamento dell'agente, senza che al riguardo possa
rilevare la compresenza di una finalità pubblicistica, salvo
che il perseguimento del pubblico interesse costituisca
l'obiettivo principale dell'agente.
Si è anche condivisibilmente affermato che
il dolo intenzionale non è escluso per il solo fatto del
perseguimento da parte del pubblico agente di una finalità
pubblica, laddove la stessa rappresenti una mera occasione
della condotta illecita, posta in essere invece al preciso
scopo di perseguire, in via immediata, un danno ingiusto ad
altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto per sé o per
altri.
Va richiamato l'insegnamento, secondo cui
la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie
criminosa dell'abuso di ufficio, può essere desunta anche da
elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità
dell'atto compiuto.
---------------
2. Il primo motivo è palesemente infondato.
In sede di appello, l'imputato aveva soltanto contestato la
sussistenza della condotta lesiva del principio di
imparzialità della P.A., sostenendo che il suo comportamento
era stato ispirato alla finalità di «premiare i
dipendenti produttivi e spronare quelli improduttivi a fare
meglio per poter ottenere dei riconoscimenti di natura
economica al contempo evitando di incorrere in eventuali
danni erariali ove non rispettasse la ratto della PEO».
Pertanto, oltre a non aver sollevato la questione, è lo
stesso imputato a riconoscere alla valutazione PEO un
diretto impatto economico sui dipendenti. In ogni caso, la
sentenza impugnata dimostra per tabulas l'ingiustizia
del danno patito dall'An., richiamando le iniziative legali
vittoriose da questo intraprese in sede civile per
ristabilire i propri diritti.
Invero, il sistema di progressione economica orizzontale
prevede la selezione -sulla base della valutazione del
personale che ne abbia fatto domanda e quindi una
graduatoria di merito- di dipendenti meritevoli ad accedere
a diverse posizioni economiche all'interno di una stessa
categoria.
Il vulnus arrecato
all'An. con l'attribuzione di un punteggio
insufficiente per il passaggio alla categoria D4 realizzava
quindi l'evento del danno ingiusto richiesto dall'art. 323
cod. pen., che -come più volte chiarito dalla Suprema Corte-
non deve intendersi limitato solo a situazioni soggettive di
carattere patrimoniale e nemmeno a diritti soggettivi
perfetti, riguardando l'aggressione ingiusta alla sfera
della personalità per come tutelata dai principi
costituzionali
(tra le tante, Sez. 5, n. 32023 del 19/02/2014, Omodeo
Zorini, Rv. 261899).
Nel caso in esame, oltre all'impossibilità
di accedere alla selezione per l'incremento economico (come
tale tutelabile davanti al giudice ordinario,
cfr. Sez. U civ., n. 26295 del 31/10/2008, Rv. 605275),
il danno subito dall'An. era da rinvenirsi
anche alla perdita di prestigio e di decoro nei confronti
dei propri colleghi di lavoro, strettamente connesso alla
valutazione decisamente negativa e pregiudizievole emessa a
suo carico dall'imputato.
...
4. Non può essere accolto neppure l'ultimo motivo.
Il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata non abbia
motivato sul perché l'agire dell'imputato non fosse stato
sorretto dalla finalità di perseguire il buon andamento
dell'ente.
Va ribadito al riguardo che la prova del
dolo intenzionale del delitto di abuso d'ufficio deve essere
ricavata da elementi ulteriori rispetto al comportamento
non iure osservato dall'agente, che evidenzino la
effettiva ratio ispiratrice del comportamento
dell'agente, senza che al riguardo possa rilevare la
compresenza di una finalità pubblicistica, salvo che il
perseguimento del pubblico interesse costituisca l'obiettivo
principale dell'agente
(Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo, Rv. 264280).
Si è anche condivisibilmente affermato che
il dolo intenzionale non è escluso per il solo fatto del
perseguimento da parte del pubblico agente di una finalità
pubblica, laddove la stessa rappresenti una mera occasione
della condotta illecita, posta in essere invece al preciso
scopo di perseguire, in via immediata, un danno ingiusto ad
altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto per sé o per
altri (Sez. 3, n.
10810 del 17/01/2014, Altieri, Rv. 258893).
Fatte queste premesse, appaiono quindi non dirimenti le
osservazioni difensive.
Per il resto, le critiche sulle carenze motivazionali in
ordine all'elemento soggettivo si rivelano parimenti
infondate.
La sentenza impugnata ha sufficientemente dimostrato come
l'imputato avesse perseguito come obiettivo primario del suo
operato (evento tipico) quello di danneggiare la persona
offesa per ritorsione e vendetta personale, traendo elementi
dimostrativi dalla modalità della condotta, che si era
estrinsecata in punteggi così ingiustificatamente negativi
(come il punteggio per i rapporti con il dirigente pari a
uno) da rivelare le reali intenzioni dell'imputato.
A tal riguardo va richiamato l'insegnamento, secondo cui
la prova del dolo intenzionale, che
qualifica la fattispecie criminosa dell'abuso di ufficio,
può essere desunta anche da elementi sintomatici come la
macroscopica illegittimità dell'atto compiuto
(Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, Dragotta, Rv. 260233; Sez.
3, n. 48475 del 07/11/2013, Scaramazza, Rv. 258290; Sez. 6,
n. 49554 del 22/10/2003, Cianflone, Rv. 227205) (Corte di
Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 19.05.2016 n. 20974). |
PUBBLICO IMPIEGO: In
tema di peculato, l’appropriazione si realizza con
l’inversione del titolo del possesso da parte del pubblico
agente, che si comporta, oggettivamente e soggettivamente
uti dominus nei confronti della cosa posseduta in ragione
dell’ufficio, che conseguentemente viene estromessa
totalmente dal patrimonio dell’avente diritto.
----------------
1. Il ricorso va accolto in ragione della diversa
qualificazione giuridica del fatto e della sopravvenuta
estinzione del reato per prescrizione.
Premesso che in tema di peculato
l'appropriazione si realizza con l'inversione del titolo del
possesso da parte del pubblico agente, che si comporta,
oggettivamente e soggettivamente uti dominus nei
confronti della cosa posseduta in ragione dell'ufficio, che
conseguentemente viene estromessa totalmente dal patrimonio
dell'avente diritto,
nel caso in esame non è ravvisabile il peculato, mancando la
definitiva perdita del bene da parte della pubblica
amministrazione, in quanto sia sul piano oggettivo che
soggettivo è emerso che l'imputato ha solo fatto un uso
indebito del fax dell'ufficio, distogliendolo
temporaneamente dalla sua destinazione originaria per fini
personali.
Nella sentenza n. 19054/2013 le Sezioni Unite hanno chiarito
che in caso di utilizzo del telefono
d'ufficio non sono oggetto di appropriazione definitiva né
il bene materiale né l'energia elettrica, necessaria ad
attivare le onde elettromagnetiche, che viene in rilievo
quale entità di consumo inscindibilmente legata al
funzionamento dell'apparecchio e, pertanto, non può
costituire l'oggetto diretto, specifico ed autonomo della
condotta dell'agente, né il costo che la pubblica
amministrazione sopporta per l'utilizzo indebito del bene,
trattandosi di una conseguenza della condotta dell'agente
infedele, il quale non ha il previo possesso delle somme
corrispondenti all'onere economico che la pubblica
amministrazione sostiene per effetto della sua condotta.
Chiarito, altresì, che nel caso in esame l'imputato
utilizzava in modo programmaticamente momentaneo il fax
dell'ufficio per scopi privati e che l'abuso del possesso
del bene della pubblica amministrazione non si è tradotto
nella stabile inversione in dominio, in quanto, dopo l'uso
arbitrario, il bene è stato restituito alla sua destinazione
pubblicistica originaria, nella fattispecie
non solo va esclusa la configurabilità del peculato
ma anche del peculato d'uso per mancanza di concreta
offensività del fatto.
Per la rilevanza penale del fatto occorre sempre che l'uso
indebito produca un apprezzabile danno al patrimonio della
p.a. o di terzi o una concreta lesione della funzionalità
dell'ufficio, non ravvisabili nella fattispecie in ragione
della minima entità del danno cagionato, neppure
quantificato.
Tuttavia, diversamente da quanto prospettato dal ricorrente,
la condotta non è penalmente irrilevante,
residuando l'abuso d'ufficio quale cornice legale
nella quale sussumerla.
Infatti, come già precisato da questa Corte,
mentre nel delitto di peculato la condotta
consiste nell'appropriazione di danaro o altra cosa mobile
altrui, di cui il responsabile abbia il possesso o la
disponibilità per ragioni del suo ufficio -onde la
violazione dei doveri di ufficio costituisce esclusivamente
la modalità della condotta, cioè dell'appropriazione-, nell'abuso
di ufficio -di carattere sussidiario- la condotta si
identifica con l'abuso funzionale, cioè con l'esercizio
delle potestà e con l'uso dei mezzi inerenti ad una funzione
pubblica per finalità differenti da quelle per le quali
l'esercizio del potere è concesso, e finalizzate, mediante
attività di rilevanza giuridica o comportamenti materiali, a
procurare un vantaggio patrimoniale per sé o per altri
ovvero ad arrecare ad altri un ingiusto danno
(Sez. 6, sentenza n. 20094 del 04/05/2011, Rv. 250071,
relativa proprio all'indebito utilizzo del fax dell'ufficio
per ottenere informazioni all'Aci su autovetture
immatricolate a Trieste al fine di favorire la moglie,
procacciatrice di affari per conto di un'agenzia di
assicurazioni).
Si è, altresì, affermato che "Integra il
delitto di abuso d'ufficio la condotta del pubblico
dipendente di indebito uso del bene che non comporti la
perdita dello stesso e la conseguente lesione patrimoniale a
danno dell'avente diritto"
(Sez. 6, n. 14978 del 13/03/2009, Rv. 243311; Sez. 6,
02.04.1992 n. 10896, Bronte, Rv. 192873; Sez. 6, 12.12.2000
n. 381, Genchi, Rv. 219086; Sez. 6, 09.04.2008 n. 31688,
Cannalire, Rv. 240692) ed è indubbio, per come accertato dai
giudici di merito, che il Ma. abbia reiteratamente
utilizzato e per un discreto arco temporale il fax
dell'ufficio per ricevere e trasmettere documenti ed atti,
consegnatigli dai clienti proprio all'interno dell'ufficio,
alla società con la quale collaborava per curare pratiche
infortunistiche, destinando l'ufficio a succursale della
stessa.
Oggettivo è,
quindi, il reiterato indebito utilizzo del
fax dell'ufficio, di norma destinato alla ricezione di
comunicazioni ed atti urgenti presso il posto di polizia
dell'ospedale pubblico, per scopi meramente privati in
consapevole violazione dei doveri di lealtà e correttezza
imposti ad un pubblico ufficiale: in sostanza, l'imputato ha
coscientemente e volontariamente realizzato le condotte
contestate, strumentalizzando ed abusando dell'ufficio e dei
mezzi a sua disposizione per procurarsi l'ingiusto vantaggio
di velocizzare pratiche infortunistiche, favorendo i clienti
ai quali evitava il disagio di recarsi presso la sede della
società e curando, parallelamente, in orario di lavoro, la
propria attività privata.
L'infondatezza del ricorso ne imporrebbe il rigetto,
tuttavia, sullo stesso prevale, in assenza di altri elementi
suscettibili di determinare un'assoluzione nel merito del
ricorrente, l'applicazione della causa sopravvenuta di
estinzione del reato ai sensi dell'art. 129, comma 1, cod.
proc. pen. in quanto il reato di cui all'art. 323 cod. pen.,
così riqualificato il fatto, è estinto per prescrizione,
essendo maturato il termine massimo di anni sette e mesi sei
dalla data di consumazione (da settembre 2007 a giugno 2008)
e non risultando rinvii. Conseguentemente, la sentenza
impugnata va annullata senza rinvio (Corte di Cassazione,
Sez. VI penale,
sentenza 30.05.2016 n. 22800). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
LA COMPLESSITÀ DELLE VICENDE GIUDIZIARIE ED AMMINISTRATIVE
IN MATERIA EDILIZIA NON ESCLUDE IL DOLO DEL REATO DI ABUSO
D’UFFICIO.
In tema di abuso d’ufficio, la prova del
dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa,
può essere desunta anche da elementi sintomatici come la
macroscopica illegittimità dell’atto compiuto, non essendo
richiesto l’accertamento dell’accordo collusivo con la
persona che si intende favorire, in quanto l’intenzionalità
del vantaggio ben può prescindere dalla volontà di favorire
specificamente quel privato interessato alla singola vicenda
amministrativa.
La Corte di cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza
qui esaminata, del tema della configurabilità del reato di
abuso d’ufficio in materia edilizia.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte
per occuparsi della questione segue alla sentenza con cui la
Corte d’Appello, in riforma della pronuncia emessa dal
Giudice per le indagini preliminari del Tribunale, assolveva
R.G., F.G., F.A. e C.P. dall’imputazione loro ascritta ai
sensi degli artt. 110 e 323 c.p., perché il fatto non
costituisce reato, e dichiarava non doversi procedere nei
confronti degli stessi quanto alle contravvenzioni loro
contestate a norma del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, e del
D.Lgs. 05.02.1997, n. 22 (poi, D.Lgs. 22.01.2004, n. 42),
perché estinte per intervenuta prescrizione.
Quanto al delitto, parimenti estinto ex artt. 157 e 61 c.p.,
la Corte riteneva che l’iter amministrativo e giudiziario
della vicenda particolarmente complesso e connotato da
provvedimenti spesso contrastanti consentisse di escludere
il dolo, specie considerando che gli imputati si erano
inizialmente muniti di tutte autorizzazioni necessarie,
amministrative e sanitarie.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione il
Procuratore Generale presso la Corte d’Appello sostenendo,
con riguardo al delitto di concorso in abuso di ufficio, che
la Corte d’Appello avrebbe errato nell’escludere l’elemento
soggettivo del reato pur a fronte di chiari riscontri di
segno opposto; a muover dalla macroscopica illegittimità dei
permessi di costruire, che certamente non poteva esser
ignorata dagli imputati, oltre che dagli amministratori
comunali, giudicati separatamente e condannati
(provvedimenti rilasciati, a tacer d’altro, per realizzare
un impianto industriale in zona agricola, quel che non era
consentito senza mutamento della destinazione d’uso, ed
interessanti anche immobili della società già gravati da
abusi mai sanati, tanto da esser destinatari di un ordine di
demolizione).
E senza che, in senso contrario, potesse condividersi
l’affermazione -a fondamento della sentenza- per cui la
complessità della vicenda ed il susseguirsi di provvedimenti
di segno diverso avrebbe generato negli imputati incertezza
ed affidamento incolpevole; quel che si doveva escludere
-come più volte affermato anche dalla S.C.- alla luce della
rilevantissima e manifesta illegittimità dell’intera
procedura seguita.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima, ha accolto il ricorso, in particolare osservando
come, nel caso di specie, emergessero elementi tali da
evidenziare un contesto di macroscopica illegittimità in
ordine ai permessi di costruire.
Questi provvedimenti, infatti, erano stati pacificamente
richiesti -e rilasciati- per realizzare un impianto
industriale 1) in zona agricola, in contrasto con il
programma di fabbricazione; 2) in assenza del nulla osta
dell’autorità preposta al vincolo idrogeologico; 3) in
assenza del parere dell’ASL competente; 4) in area sulla
quale insistevano altri immobili, di proprietà della
società, già oggetto di abusi mai condonati, e sui quali
pendeva un ordine di demolizione emanato dalla stessa
amministrazione comunale (quel che avrebbe imposto, prima di
una nuova edificazione, l’abbattimento degli abusi).
E con la precisazione che la medesima persona fisica -il
coimputato P.- aveva sottoscritto sia questo ordine di
abbattimento, sia il permesso di costruire; 5) in violazione
della procedura di cui al D.Lgs. 05.02.1997, n. 22, art. 27,
avendo intrapreso quella semplificata di cui agli artt. 31
ss., stesso decreto, pur difettandone con evidenza i
presupposti.
E con l’ulteriore precisazione per cui il secondo dei
provvedimenti era stato richiesto ed emesso - peraltro non
già in sanatoria, ma in variante - circa sei mesi dopo la
dichiarazione di ultimazione dei lavori, come se le opere
fossero state ancora in corso.
Tutti elementi che la sentenza non aveva inteso valutare in
alcun modo, assumendo, in modo palesemente apodittico ed
immotivato, che i ravvisati profili di illegittimità non
fossero, invero, così palesi (v., in giurisprudenza, in
senso conforme alla massima: Cass. pen., Sez. VI,
15.04.2014, n. 36179, D., in CED, n. 260233; Cass. pen.,
Sez. III, 07.11.2013, n. 48475, S., in CED, n. 258290)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.04.2016 n. 17430 - Urbanistica e
appalti 10/2016). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Abuso edilizio e dolo.
Premesso che il dolo caratterizzante il
reato di abuso di ufficio è quello "intenzionale", va
rammentato che la prova dello stesso deve essere ricavata da
elementi ulteriori rispetto al comportamento "non iure"
osservato dall'agente, che evidenzino la effettiva "ratio"
ispiratrice del comportamento dell'agente, giacché la
condotta illecita deve essere posta in essere al preciso
scopo di perseguire, in via immediata, un danno ingiusto ad
altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto per sé o per
altri.
---------------
2. Con un secondo motivo lamenta l'illogicità della
motivazione della sentenza con riferimento all'eccepita
mancanza del dolo intenzionale; segnatamente la sentenza non
ha fatto sul punto alcun riferimento a quanto sollevato con
l'atto di appello.
Aggiunge come da un lato la attività del tecnico comunale al
momento dell'approvazione del progetto sia meramente
cartolare e dall'altro la sentenza abbia trascurato di
considerare le conclusioni della sentenza del Tar che ha
ritenuto assente ogni violazione della normativa urbanistica
da parte dell'imputato. Non è stata raggiunta alcuna prova
circa le pretese scorrette modalità delle verifiche condotte
dall'imputato.
Anche l'affermazione dei benefici economici ricavati
dall'impresa edilizia destinataria del provvedimento sarebbe
erronea posto che anzi è stata applicata la sanzione
prevista dall'art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001.
...
5. E' invece fondato il secondo motivo:
premesso che il dolo caratterizzante il reato di abuso di
ufficio è quello "intenzionale", va rammentato che la
prova dello stesso deve essere ricavata da elementi
ulteriori rispetto al comportamento "non iure"
osservato dall'agente, che evidenzino la effettiva "ratio"
ispiratrice del comportamento dell'agente
(Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo, Rv. 264280),
giacché la condotta illecita deve essere
posta in essere al preciso scopo di perseguire, in via
immediata, un danno ingiusto ad altri o un vantaggio
patrimoniale ingiusto per sé o per altri
(Sez. 3, n. 10810 del 17/01/2014, Altieri ed altri, Rv.
258893).
La sentenza si è sul punto limitata a richiamare la "tutt'altro
che trascurabile entità delle violazioni commesse" e "i
rilevanti benefici economici procurati all'impresa edilizia",
tra i quali quelli relativi agli oneri di urbanizzazione,
senza chiarire perché tali aspetti, lungi dall'essere
compatibili con un dolo anche solo generico, dovrebbero
essere univocamente indicativi dello scopo di favorire
l'impresa costruttrice, sui cui eventuali legami o rapporti
con l'imputato nulla è dato sapere.
La sentenza andrebbe dunque annullata con rinvio per nuova
motivazione sul punto; sennonché la prescrizione del reato,
nelle more intervenuta per decorso del termine scaduto in
data 13/09/2014 (anche a volere, come contestato dal
ricorrente, considerare la data di consumazione del
13/03/2007 indicata in imputazione) osta all'annullamento
posto che il conseguente rinvio all'esame del giudice di
merito è incompatibile con l'obbligo di immediata
declaratoria di proscioglimento stabilito dall'art. 129
c.p.p. (da ultimo, Sez. 3, n. 23260 del 29/04/2015, Gori, Rv.
263668); sicché la sentenza impugnata deve essere, da un
lato, annullata senza rinvio per essere il reato (unico
residuato già all'esito del giudizio di primo grado) estinto
appunto per prescrizione e, dall'altro, quanto alle
statuizioni civili adottate (nella specie la condanna
dell'imputato, confermata in appello, al risarcimento dei
danni in favore della costituita parte civile), annullata
con rinvio ai fini civili al giudice civile competente per
valore in grado d'appello (da ultimo, Sez. 5, n. 594 del
16/11/2011, Perrone, Rv. 252665; Sez. 5, n. 15015 del
23/02/2012, P.G. e p.c. in proc. Genovese, Rv. 252487)
(tratto da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 18.04.2016 n. 15895). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Abuso d’ufficio l’ingaggio illegittimo.
Cassazione. Reato per il dirigente comunale che proroga la
convenzione senza il via libera degli organi competenti.
Abuso d’ufficio per il dirigente del
Comune che proroga la convenzione con un centro, senza il
via libera degli organi competenti. Il reato scatta anche in
virtù dell’ingiusto vantaggio procurato a cinque persone
ingaggiate per l’occasione al di fuori di ogni criterio di
trasparenza e per due contratti di collaborazione prorogati.
La Corte di
Cassazione (Sez. VI penale,
sentenza 04.04.2016 n. 13426) esclude che l’abuso
si possa giustificare, come nel caso esaminato, con
l’intento di non perdere dei fondi europei. Il ricorrente,
infatti, aveva motivato la proroga della convenzione con la
finalità di assicurare il completamento di un progetto
affidato al centro in modo da garantirsi un finanziamento Ue.
In realtà per la Cassazione il comportamento del dirigente è
intenzionalmente doloso e nell’abuso d’ufficio il dolo
essere desunto anche da elementi che sono la spia della
macroscopica illegittimità dell’atto compiuto. Mentre non
serve la prova dell’accordo collusivo con la persona che si
intende favorire: l’intenzionalità del vantaggio può
prescindere dalla volontà di “aiutare” specificamente
quel privato interessato alla singola vicenda.
Nel concreto c’era stato il conferimento di cinque nuovi
contratti, non richiesti neppure dal centro interessato, a
persone scelte discrezionalmente e pagate con denaro
pubblico. Al progetto europeo aveva, infatti, aderito solo
la Regione molto tempo dopo le determinazioni illegittime
del dirigente, ma mai il Comune. Inoltre si trattava di un
progetto pagato in gran parte dall’ente che intendeva “sottoscriverlo”.
Il ricorrente aveva comunque firmato le proroghe in
violazione delle regole sul riparto delle attribuzione (Dlgs
267/2000) che riserva agli organi di indirizzo del Comune le
scelte fondamentali. A questo si era unito l’ingiusto
vantaggio conseguito da sette persone
(articolo
Il Sole 24 Ore del 05.04.2016).
---------------
MASSIMA
1. Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito
precisate.
2. Le censure, per quanto formalmente raggruppate sotto un
unico motivo, in realtà si riferiscono sia al profilo
oggettivo sia al profilo soggettivo del reato di abuso di
ufficio.
3. Per quanto attiene al profilo oggettivo, le doglianze
insistono sul fatto che illogicamente la sentenza impugnata
non avrebbe considerato la natura degli atti adottati dal
ricorrente, qualificabili come di mera proroga di
provvedimenti preesistenti.
3.1. La sentenza impugnata rappresenta innanzitutto che le
due determine dirigenziali del LU. (la n. 21-bis del
30.06.2004 e la n. 29 del 29.09.2004):
a) comportarono un sensibile incremento di organico del
soggetto destinatario dei provvedimenti, il Centro Risorse
Donne, che passò da tre a sette unità, in assenza di
qualunque previsione contenuta in atti degli organi
comunali, e persino di specifiche richieste della
responsabile del Centro, la quale si limitò a richiedere
l'assunzione di un operatore esperto in lingua inglese;
b) facevano riferimento non più al progetto europeo
RECITE II-E.N.R.E.C., cui il Comune di Taranto aveva
formalmente aderito con delibera del Commissario
Straordinario del 13.12.1999, e che era definitivamente
cessato alla data del 30.06.2004, bensì al progetto europeo
Interreg III CASDES-WEFnet, cui, però, la Regione Puglia,
quale "soggetto referente", aderirà solo
successivamente alla determine, in data 28.10.2004, che non
risulta mai oggetto di formale delibera di adesione da parte
del Comune di Taranto, e che addossava una quota consistente
del costo complessivo al singolo ente aderente;
c) non contenevano alcuna indicazione dei fondi necessari
ad assicurare la copertura del progetto, limitandosi a
richiamare «entrate terze», esterne al bilancio,
senza precisare quali fossero.
Rileva, poi, che le violazioni delle regole procedurali sul
riparto di attribuzioni tra gli organi del Comune, indicate
dal capo di imputazione negli art. 42, 48, 107, 169, 175,
183 e 191 d.lgs. n. 267 del 2000, e che riservano agli
organi di indirizzo le scelte fondamentali, non hanno avuto,
nel caso di specie, valenza meramente endoprocedimentale, ma
si sono poste «in evidente e diretto rapporto causale con
l'ingiusto vantaggio arrecato ai beneficiari delle determine
medesime e con il correlativo danno che ne è scaturito a
carico del Comune».
Osserva, quindi, che «all'ingiustizia delle determine
adottate dall'imputato, e tra loro strettamente correlate
[...] si somma l'ingiustizia della percezione degli
emolumenti da parte dei soggetti indicati nel capo d'accusa
[i cinque neoingaggiati ed i due prorogati]».
3.2. Questi essendo i presupposti di fatto, la cui
ricostruzione non è oggetto di puntuali contestazioni nel
ricorso, corretta risulta essere la conclusione raggiunta.
Il delitto di abuso di ufficio,
infatti, postula l'avvenuta violazione di
una norma di legge o di regolamento e l'ingiustizia del
danno o del vantaggio procurato a sé o ad altri, ma non una
duplicità di violazioni di legge. Come osserva un
significativo orientamento giurisprudenziale, l'integrazione
del reato di abuso d'ufficio, se richiede una duplice
distinta valutazione di ingiustizia, sia della condotta (che
deve essere connotata da violazione di norme di legge o di
regolamento), sia dell'evento di vantaggio patrimoniale (che
deve risultare non spettante in base al diritto oggettivo),
non presuppone, però, che l'ingiustizia del vantaggio
patrimoniale derivi da una violazione di norme diversa ed
autonoma da quella che ha caratterizzato l'illegittimità
della condotta, qualora -all'esito della predetta distinta
valutazione- l'accrescimento della sfera patrimoniale del
privato debba considerarsi contra ius
(così Sez. 6, n. 48913 del 04/11/2015, Ricci, Rv. 265473,
nonché Sez. 6, n. 11394 del 29/01/2015, Strassoldo, Rv.
262793).
Nella specie, la sentenza impugnata ha individuato le norme
violate nelle disposizioni di legge del testo unico sugli
enti locali in tema di ripartizioni di competenze tra gli
organi comunali, l'ingiustizia del vantaggio nel
conferimento ex novo o nella proroga di incarichi di
collaborazione retribuita in difetto di ogni potere in
materia e sulla base di criteri di selezione dei beneficiati
assolutamente arbitraria, l'ingiustizia del danno
nell'assunzione di una spesa a carico del Comune in assenza
di qualunque deliberazione degli organi competenti.
Deve perciò escludersi che, con riferimento al profilo
dell'elemento obiettivo del reato di abuso di ufficio, la
decisione della Corte di appello sia censurabile per
violazione di legge o vizio di motivazione.
4. Con riferimento al profilo soggettivo, le censure
deducono che la sentenza impugnata è sostanzialmente priva
di motivazione o fondata su «mere ed apodittiche
supposizioni», pur essendo necessaria per legge la
certezza che la volontà dell'imputato sia stata orientata
proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno
ingiusto, che la prova del dolo non può essere desunta dalla
sola illegittimità degli atti adottati dall'imputato, e che,
in realtà, le determine adottate dal LU. avevano la finalità
pubblicistica di portare a compimento il lavoro del Centro
Risorse Donne per garantirsi gli importi del finanziamento
europeo.
4.1. Occorre premettere in proposito che, secondo un
orientamento giurisprudenziale condiviso dal Collegio,
la prova del dolo intenzionale, necessaria
per l'integrazione della fattispecie di abuso di ufficio,
può essere desunta anche da elementi sintomatici come la
macroscopica illegittimità dell'atto compiuto, non essendo
richiesto l'accertamento dell'accordo collusivo con la
persona che si intende favorire, in quanto l'intenzionalità
del vantaggio ben può prescindere dalla volontà di favorire
specificamente quel privato interessato alla singola vicenda
amministrativa (cfr.,
tra le più recenti: Sez. 6, n. 14038 del 02/10/2014, dep.
2015, De Felicis, Rv. 262950, non specificamente massimata
sul punto; Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, Dragotta, Rv.
260233; Sez. 3, n. 48475 del 07/11/2013, Scaramazza, Rv.
258290).
4.2. Nella vicenda in esame, pur mancando la prova di un
accordo collusivo tra soggetti beneficiati e pubblico
ufficiale, la pluralità di violazioni di regole giuridiche
e, in particolare, il conferimento di ben cinque contratti
di collaborazione retribuita con l'impiego di denaro
pubblico a persone scelte al di fuori di ogni criterio di
leggibilità e di competenza professionale (persino la
responsabile del Ce.Ri.Do. si era limitata a chiedere
esclusivamente l'assunzione di un operatore esperto in
lingua inglese) rendono immune da vizi la valutazione della
sentenza impugnata che ha ritenuto sussistente il dolo
intenzionale richiesto dalla fattispecie incriminatrice.
Tale rilievo, anzi, esclude la plausibilità della
prospettazione difensiva, peraltro allegata in termini
generici, secondo cui il LU. avrebbe agito nel modo
accertato al solo fine di realizzare l'interesse pubblico di
portare a compimento il lavoro del Ce.Ri.Do. per garantirsi
gli importi del finanziamento europeo. Invero, la finalità
di assicurare il completamento del progetto affidato al
Ce.Ri.Do. non può comunque spiegare la stipulazione di
cinque contratti di collaborazione con persone scelte al di
fuori di ogni criterio obiettivamente verificabile. |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: In
termini generali ed astratti il reato di abuso di ufficio
tentato sussiste ogni volta che il pubblico ufficiale (o
l'incaricato di pubblico servizio) ponga in essere, in
violazione di legge o di regolamento o del dovere di
astensione, atti idonei diretti in modo non equivoco a
cagionare ad altri un danno ingiusto o beneficiare altri di
un vantaggio patrimoniale ingiusto che non si realizzano per
cause estranee alla volontà dell'autore della condotta.
Non v'è dubbio, pertanto, che integra il reato (anche nella
forma tentata se l'evento non si realizza) consentire a un
privato di smaltire rifiuti con modalità vietate dalla legge
che gli consentono di lucrare sui relativi risparmi.
---------------
Quando,
però, il pubblico ufficiale non sia l'autore del
provvedimento che attribuisce direttamente al beneficiario
l'ingiusto vantaggio (o l'ingiusto danno) la sua condotta
può essere valutata, anche ai fini del tentativo, solo sotto
il profilo del concorso nel reato che può assumere la forma
del concorso materiale (se egli confeziona o predispone
materialmente la minuta del provvedimento ovvero il
provvedimento stesso poi sottoposto alla firma del pubblico
ufficiale competente ad emetterlo) o di quello morale,
poiché il pubblico ufficiale concorre in tal modo a
manifestare la volontà della pubblica amministrazione
mediante l'adozione degli atti del procedimento prodromici
alla emissione del provvedimento finale.
In quest'ultimo caso, però, non è sufficiente che il
pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio
adotti un atto del procedimento finalizzato ad orientare la
decisione finale nella segreta speranza del successo della
propria iniziativa; é necessario che il proposito criminoso
sussista anche nel pubblico ufficiale autore principale.
Ove il pubblico ufficiale competente a emettere il
provvedimento finale non sia già animato da alcun intento
criminoso, il parere o la proposta di adozione del
provvedimento stesso, ove non accolta, dovrà essere valutata
alla stregua di un'istigazione non accolta. In mancanza di
prova dell'accordo collusivo la proposta di adozione del
provvedimento illegittimo resta tale, non integra il
tentativo punibile di abuso d'ufficio ed é penalmente
irrilevante.
---------------
3.4. E' invece fondata l'eccezione relativa alla non
configurabilità, nel caso in esame, del tentativo di delitto
di abuso d'ufficio.
3.5. In termini generali ed astratti il reato di abuso di
ufficio tentato sussiste ogni volta che il pubblico
ufficiale (o l'incaricato di pubblico servizio) ponga in
essere, in violazione di legge o di regolamento o del dovere
di astensione, atti idonei diretti in modo non equivoco a
cagionare ad altri un danno ingiusto o beneficiare altri di
un vantaggio patrimoniale ingiusto che non si realizzano per
cause estranee alla volontà dell'autore della condotta (cfr.
sul punto Sez. 6, n. 10136 del 24/06/1998, Ottaviano, Rv.
211567; Sez. 6, n. 26617 del 01/04/2009, Masella, Rv.
244465).
3.6. Non v'è dubbio, pertanto, che integra il reato (anche
nella forma tentata se l'evento non si realizza) consentire
a un privato di smaltire rifiuti con modalità vietate dalla
legge che gli consentono di lucrare sui relativi risparmi.
3.7. L'ordinanza, peraltro, dà ampiamente conto dei rapporti
personali che intercorrevano tra il pubblico ufficiale ed il
privato (rapporti che il ricorrente nemmeno menziona,
quantomeno per confutarli) per cui non è affatto
irragionevole desumerne l'intenzionale asservimento del
pubblico ufficio agli interessi privati del beneficiario
della condotta.
3.8. Quando, però, il pubblico ufficiale non sia l'autore
del provvedimento che attribuisce direttamente al
beneficiario l'ingiusto vantaggio (o l'ingiusto danno) la
sua condotta può essere valutata, anche ai fini del
tentativo, solo sotto il profilo del concorso nel reato che
può assumere la forma del concorso materiale (se egli
confeziona o predispone materialmente la minuta del
provvedimento ovvero il provvedimento stesso poi sottoposto
alla firma del pubblico ufficiale competente ad emetterlo) o
di quello morale, poiché il pubblico ufficiale concorre in
tal modo a manifestare la volontà della pubblica
amministrazione mediante l'adozione degli atti del
procedimento prodromici alla emissione del provvedimento
finale.
3.9. In quest'ultimo caso, però, non è sufficiente che il
pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio
adotti un atto del procedimento finalizzato ad orientare la
decisione finale nella segreta speranza del successo della
propria iniziativa; é necessario che il proposito criminoso
sussista anche nel pubblico ufficiale autore principale (Sez.
6, n. 36125 del 13/05/2014, Minardo, Rv. 260235; Sez. 6, n.
15116 del 25/02/2003, Gueli, Rv. 224690).
Ove il pubblico ufficiale competente a emettere il
provvedimento finale non sia già animato da alcun intento
criminoso, il parere o la proposta di adozione del
provvedimento stesso, ove non accolta, dovrà essere valutata
alla stregua di un'istigazione non accolta. In mancanza di
prova dell'accordo collusivo la proposta di adozione del
provvedimento illegittimo resta tale, non integra il
tentativo punibile di abuso d'ufficio ed é penalmente
irrilevante.
3.10. Sono invece infondate le censure relative alla
insussistenza del reato di cui all'articolo 351, cod. pen..
Non ha a tal fine alcun rilievo la circostanza (peraltro di
natura fattuale) che la documentazione fosse stata
consegnata al proprio difensore, sia perché si tratta di
persona comunque estranea alla pubblica amministrazione, sia
perché -ove con tale deduzione si voglia sottintendere la
liceità del fine- il reato é punito a titolo di dolo
generico.
Nemmeno rileva la circostanza (anche essa fattuale) che
tutti fossero a conoscenza della "sottrazione" della
documentazione perché ciò non esclude l'offensività della
condotta integrata ogniqualvolta il bene sia sottratto per
un periodo di tempo apprezzabile dal luogo in cui è
custodita (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.03.2016 n. 9458). |
PUBBLICO IMPIEGO:
È abuso d’ufficio l’azione disciplinare
fatta per ritorsione.
Abuso d’ufficio per
i direttori dell’azienda pubblica che esercitano l’azione
disciplinare per ritorsione.
Licenziamenti e Pa. I limiti ai poteri dei
vertici.
La Corte di
Cassazione, Sez. VI penale, con la
sentenza 18.02.2016 n. 6665, accoglie il ricorso
del Pubblico ministero contro la decisione del Gip di
dichiarare il non luogo a procedere nei confronti del
direttore generale e di quello dell’area tecnica
dell’Azienda territoriale per l’edilizia pubblica. L’accusa
era di aver “preso di mira” un ingegnere,
bersagliandola con rilievi e sanzioni disciplinari,
arrivando poi alla soluzione finale del licenziamento, sulla
base di presupposti inesistenti.
Secondo il Gip l’abuso d’ufficio non poteva essere
contestato perché i rapporti di lavoro con l’Agenzia
territoriale sono regolati dal codice civile e dunque la
contestata distorta o mancata applicazione delle norme che
li disciplinano, non può essere considera una violazioni di
legge o di regolamento idonea a far scattare il reato di
abuso d’ufficio. Inoltre, per quanto riguardava il
licenziamento senza preavviso, disposto come massima
sanzione disciplinare, questo poteva essere attribuito al
direttore generale, il solo che aveva messo la sua firma sul
foglio di “espulsione”, mentre nessuna responsabilità
andava addebitata al direttore di area, solo in virtù del
suo potere di iniziativa nell’applicazione delle sanzioni.
La Cassazione accoglie il ricorso del Pm.
La Suprema corte chiarisce che la condotta contestata di
abuso d’ufficio, contrariamente a quanto rilevato dal Gip,
non riguarda la violazione delle norme che disciplinano il
rapporto di lavoro nell’ente pubblico, indubbiamente, di
tipo privato, ma l’esercizio distorto della “funzione”
disciplinare da parte di un pubblico ufficiale o
dell’esercente un pubblico servizio. Un potere che certo
rientra nell’area di gestione dei rapporti di lavoro
sottoposto ai contratti collettivi e si esprime attraverso
atti negoziali e non con provvedimenti amministrativi, ma
che va comunque esercitato nel rispetto della legge, con
eventuali integrazioni della contrattazione collettiva.
I giudici precisano che è suscettibile di integrare l’abuso
d’ufficio (articolo 323 del Codice penale) la violazione
delle disposizioni di legge fissate in materia di
procedimento disciplinare, quando il potere non è “figlio”
dell’interesse pubblico, ma viene usato per motivi
pretestuosi sorretti da un intento ritorsivo.
E il Gip sbaglia anche quando proscioglie il direttore di
area. Nel concorso di reato il contributo acquista rilevanza
non solo quando ha efficacia causale e si pone come
condizione dell’evento illecito ma anche quando agevola o
rafforza un proposito criminoso già esistente.
Almeno in linea ipotetica, conclude la corte, il giudice per
le indagini preliminari non poteva escludere che il
l’imputata, a prescindere dalla mancata firma, possa
comunque aver assicurato il suo contributo, morale e
materiale, al prodursi dell’evento. Questo senza arrivare ad
ipotizzare una responsabilità oggettiva in virtù della
posizione apicale ricoperta. La Cassazione annulla la
sentenza del Gip e rinvia per una nuova valutazione
(articolo
Il Sole 24 Ore del 19.02.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).
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MASSIMA
4. Con riguardo alle contestazioni di abuso d'ufficio,
va invero rilevato che -contrariamente a quanto deciso dal
Giudice laziale- nel caso sub iudice,
la condotta di abuso d'ufficio non riguarda la contestata
violazione di norme a disciplina del rapporto di lavoro in
seno all'ente pubblico, rapporto avente indubitabilmente
natura privatistica, bensì l'esercizio da parte del pubblico
ufficiale o dell'esercente il pubblico servizio del potere
attribuito all'ufficio di appartenenza in una materia, quale
quella disciplinare, che è e resta disciplinata dalla legge.
4.1. Ed invero, il potere disciplinare nel
pubblico impiego, pur rientrando nell'area della gestione
dei rapporti di lavoro sottoposto a contratto collettivo di
matrice privatistica e si esprima mediante atti negoziali, e
non con provvedimenti amministrativi, deve essere esercitato
nei limiti disegnati dalla legge ed eventualmente integrati
dalla contrattazione collettiva.
Giova rammentare che la disciplina legale
in materia è delineata da plurime fonti normativa,
segnatamente dall'art. 2106 cod. civ., dall'art. 7 L.
20.05.1970, n. 300 (c.d. Statuto dei lavoratori) e dagli
artt. da 54 a 55-octies del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, come
modificati con D.Lgs. 27.10.2009, n. 150.
In particolare, l'art. 40 del citato decreto stabilisce, al
comma 1 che "La contrattazione collettiva determina i
diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto
di lavoro, nonché le materie relative alle relazioni
sindacali. (...) Nelle materie relative alle sanzioni
disciplinari, alla valutazione delle prestazioni ai fini
della corresponsione del trattamento accessorio, della
mobilità e delle progressioni economiche, la contrattazione
collettiva è consentita negli esclusivi limiti previsti
dalle norme di legge".
All'art. 55, commi 1 e 2, stesso decreto viene espressamente
sancito: "1. Le disposizioni del presente articolo e di
quelli seguenti, fino all'articolo 55-octies, costituiscono
norme imperative, ai sensi e per gli effetti degli articoli
1339 e 1419, secondo comma, del codice civile, e si
applicano ai rapporti di lavoro di cui all'articolo 2, comma
2, alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui
all'articolo 1, comma 2.
2. Ferma la disciplina in materia di responsabilità civile,
amministrativa, penale e contabile, ai rapporti di lavoro di
cui al comma 1 si applica l'articolo 2106 del codice civile.
Salvo quanto previsto dalle disposizioni del presente Capo,
la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è
definita dai contratti collettivi. La pubblicazione sul sito
istituzionale dell'amministrazione del codice disciplinare,
recante l'indicazione delle predette infrazioni e relative
sanzioni, equivale a tutti gli effetti alla sua affissione
all'ingresso della sede di lavoro".
L'art. 55-bis (come novellato nel 2009) disciplina le forme
e termini del procedimento disciplinare. Infine, l'art.
54-bis stesso decreto del 2001 prevede una specifica tutela
del dipendente pubblico che segnali condotte illecite di cui
sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro,
prevedendo che questi non possa essere sanzionato,
licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria,
diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di
lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente
alla denuncia.
4.2. Orbene, dal quadro normativo sopra delineato discende
che è certamente suscettibile di integrare
la violazione di legge rilevante ai fini dell'art. 323 cod.
pen. l'inosservanza alle disposizioni fissate in materia di
procedimento disciplinare dalla legge (appunto dall'art.
2106 cod. civ. e dal D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 come
modificato con D.Lgs. 27.10.2009, n. 150), allorché il
potere disciplinare sia esercitato -almeno secondo l'ipotesi
accusatoria da sottoporre al vaglio giurisdizionale- non in
funzione dell'interesse pubblico, ma da motivi pretestuosi e
sorretti da un intento ritorsivo.
Per altro verso, si deve ribadire che,
anche dopo la privatizzazione del rapporto di lavoro dei
pubblici dipendenti, non è mutata la natura pubblicistica
della funzione svolta e dei poteri esercitati dai dirigenti
amministrativi e, con essa, la qualifica di pubblico
ufficiale rilevante ai fini dell'art. 357 cod. pen.
(Sez. 6, n. 19135 del 02/04/2009 - dep. 07/05/2009,
Palascino, Rv. 243535).
5. E' fondato anche il secondo profilo di doglianza
concernente il disposto proscioglimento di Va.Fr. in
relazione al delitto di abuso d'ufficio sub capo M).
5.1. Per un verso, va evidenziato come, secondo i principi
di diritto già sopra ricordati sub punto 2), in presenza di
una situazione nella quale il quadro probatorio si prestava
ad una molteplicità ed alternatività di soluzioni valutative
in merito al coinvolgimento diretto della Fr. nel
licenziamento disciplinare, il Giudice si sarebbe dovuto
limitare a verificare la possibilità di superare tale
situazione attraverso le verifiche e gli approfondimenti
propri della fase del giudizio, senza compiere valutazioni
di tipo sostanziale spettanti al giudice dibattimentale.
Operando in tale senso ed, in particolare, entrando nel
merito del contributo prestato dalla Fr. ai fini della
adozione del provvedimento di licenziamento nei confronti
della Br., il Giudice di Viterbo si è illegittimamente
spinto oltre i limiti previsti per la sentenza ex art. 425
c.p.p..
5.2. Per altro verso, il Giudice ha comunque errato là dove
ha escluso il concorso della Fr. nella condotta di abuso sub
capo M) sulla scorta della considerazione che l'imputata,
non avendo apposto la propria firma in calce al
provvedimento di licenziamento disciplinare non potrebbe
rispondere della condotta a mero titolo di responsabilità
oggettiva, tenuto conto della sua posizione e della
conseguente titolarità del potere d'iniziativa per
l'applicazione delle sanzioni disciplinari.
Ed invero, secondo i principi generali in
tema di concorso di persone nel reato cristallizzati
nell'art. 110 cod. pen., il contributo concorsuale acquista
rilevanza non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi
come condizione dell'evento illecito, ma anche quando assuma
la forma di un contributo agevolatore e di rafforzamento del
proposito criminoso già esistente nei concorrenti, in modo
da aumentare la possibilità di commissione del reato
(fattispecie in tema di abuso di ufficio) (Sez. 6, n. 36125
del 13/05/2014 - dep. 25/08/2014, Minardo e altro, Rv.
260235).
Ne discende che, almeno in linea ipotetica,
non può essere escluso che l'imputata, a prescindere dalla
mancata apposizione della firma sotto il provvedimento di
licenziamento e senza dover ipotizzare una responsabilità
oggettiva discendente dalla posizione apicale ricoperta in
seno all'ufficio, possa comunque avere assicurato il proprio
contributo, morale o materiale, anche di natura meramente
agevolatrice, al prodursi dell'evento. |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nel reato di abuso di ufficio, l’uso
dell’avverbio “intenzionalmente” per qualificare il dolo
implica che sussiste il reato solo quando l’agente si
rappresenta e vuole l’evento di danno altrui o di vantaggio
patrimoniale proprio o altrui come conseguenza diretta ed
immediata della sua condotta e come obiettivo primario
perseguito, e non invece quando egli intende perseguire
l’interesse pubblico come obiettivo primario.
In tema di abuso d’ufficio, per la configurabilità
dell’elemento soggettivo è richiesto il dolo intenzionale,
ossia la rappresentazione e la volizione dell’evento come
conseguenza diretta e immediata della condotta dell’agente e
obiettivo primario da costui perseguito.
---------------
3. Sotto un primo profilo, deve essere rilevato come,
secondo il consolidato insegnamento di questa Corte,
ai fini del perfezionamento del reato di
abuso d'ufficio non assume alcun rilievo, stante la sua
natura di reato di evento, l'adozione di atti amministrativi
illegittimi da parte del pubblico ufficiale agente, ma
unicamente il concreto verificarsi (reale o potenziale) di
un ingiusto vantaggio patrimoniale che il soggetto attivo
procura con i suoi atti a sé stesso o ad altri, ovvero di un
ingiusto danno che quei medesimi atti procurano a terzi
(Sez. 6, n. 36020 del 24/05/2011, Rossattini, Rv. 250776).
Ne discende che il delitto di abuso
d'ufficio è integrato dalla doppia e autonoma ingiustizia,
sia della condotta che deve essere connotata da violazione
di norme di legge o di regolamento, che dell'evento di
vantaggio patrimoniale in quanto non spettante in base al
diritto oggettivo, con la conseguente necessità di una
duplice distinta valutazione in proposito, non potendosi far
discendere l'ingiustizia del vantaggio dalla illegittimità
del mezzo utilizzato e, quindi, dall'accertata illegittimità
della condotta
(fattispecie in cui la Corte ha annullato la sentenza
impugnata che, in relazione alla condotta di un assessore
comunale, consistita nell'assegnazione di un immobile di
proprietà dell'ente per lo svolgimento di attività di
ristorazione con delibera di giunta adottata senza il previo
espletamento di procedure ad evidenza pubblica, aveva
ritenuto integrato il reato omettendo di verificare se il
soggetto assegnatario avesse o meno titolo a conseguire la
disponibilità dell'immobile per condurre l'attività di
ristorazione) (Sez. 6, n. 10133 del 17/02/2015 - dep.
10/03/2015, Scassellati e altro, Rv. 262800; Sez. 6, n. 1733
del 14/12/2012 - dep. 14/01/2013, Amato, Rv. 254208).
Secondo il principio della c.d. doppia
ingiustizia, è, quindi, necessario che ingiusta sia la
condotta, in quanto connotata da violazione di legge, ed
ingiusto sia l'evento di vantaggio patrimoniale, in quanto
non spettante in base al diritto oggettivo regolante la
materia, di tal che occorre operare una duplice distinta
valutazione in proposito, non potendosi far discendere
l'ingiustizia del vantaggio conseguito dalla illegittimità
del mezzo utilizzato e quindi dalla accertata esistenza
dell'illegittimità della condotta
(Sez. 6, n. 35381 del 27/06/2006 Rv. 234832 Moro).
La violazione di legge cui fa riferimento
l'art. 323 cod. pen. riguarda non solo la condotta del
pubblico ufficiale in contrasto con le norme che regolano
l'esercizio del potere, ma anche le condotte che siano
dirette alla realizzazione di un interesse collidente con
quello per quale il potere è conferito, ponendo in essere un
vero e proprio sviamento della funzione
(Sez. 6, n. 43789 del 18/10/2012, Contiguglia ed altri, Rv.
254124) rispetto alla quale si configura
l'elemento soggettivo del dolo intenzionale, ossia la
rappresentazione e la volizione dell'evento come conseguenza
diretta e immediata della condotta dell'agente e obiettivo
primario da costui perseguito
(Sez. 6, n. 35859 del 07/05/2008, Pro, Rv. 241210; Sez. 5,
n. 3039 del 03/12/2010, Marotta e altri, Rv. 249706).
Tirando le fila dei principi di diritto sopra rammentati,
la prova della integrazione del reato ex art. 323 c.p. non
può esaurirsi nella verifica della violazione di legge,
dunque dell'ingiustizia del mezzo adottato, stabilendo una
erronea equivalenza fra lo strumento utilizzato ed il
risultato-evento che l'incriminazione richiede per la sua
consumazione, ma richiede altresì l'accertamento dell'evento
di vantaggio ingiusto.
4. A tale insegnamento non si è conformato il Collegio
torinese, là dove -contravvenendo ai principi appena
ricordati- si è limitato ad argomentare in merito alla
violazione del disposto dell'art. 122, comma 7, D.Lgs n.
163/2006 (Codice dei contratti pubblici) [che facoltizza le
stazioni appaltanti (nella specie il comune) ad utilizzare
la procedura negoziata, con selezione dell'appaltatore
operata mediante gara informale anziché con bando di gara,
per l'assegnazione di lavori di importo complessivo
inferiore a un milione di euro senza previo invito a
presentare le offerte rivolto a dieci o cinque operatori
economici (a secondo del valore dei lavori)] ed ha, di
contro, omesso di verificare se la società assegnataria
della convenzione avesse titolo per la gestione della
bocciofila, id est sia configurabile un vantaggio
ingiusto.
Verifica tanto necessaria nel caso di specie nel quale -come
dichiarato dallo stesso imputato all'A.G. e dato atto dalla
Corte distrettuale- già in passato l'amministrazione
comunale aveva seguito un'analoga procedura in
considerazione del fatto che, in paese, "vi è una
associazione sola che si occupa del gioco delle bocce".
5. La decisione in verifica si appalesa lacunosa anche sotto
il diverso profilo del dolo.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte,
nel reato di abuso di ufficio, l'uso dell'avverbio "intenzionalmente"
per qualificare il dolo implica che sussiste il reato solo
quando l'agente si rappresenta e vuole l'evento di danno
altrui o di vantaggio patrimoniale proprio o altrui come
conseguenza diretta ed immediata della sua condotta e come
obiettivo primario perseguito, e non invece quando egli
intende perseguire l'interesse pubblico come obiettivo
primario
(fattispecie relativa ad un sindaco che aveva rilasciato
un'autorizzazione edilizia in violazione della normativa
urbanistica sul risanamento del centro storico, allo scopo
esclusivo di favorire il recupero di abitanti nella zona del
borgo antico che si stava progressivamente spopolando con
rischio di un definitivo abbandono) (Sez. 6, n. 708 del
08/10/2003 - dep. 15/01/2004, Mannello, Rv. 227280).
In tema di abuso d'ufficio, per la
configurabilità dell'elemento soggettivo è richiesto il dolo
intenzionale, ossia la rappresentazione e la volizione
dell'evento come conseguenza diretta e immediata della
condotta dell'agente e obiettivo primario da costui
perseguito (Sez.
5, n. 3039 del 03/12/2010 - dep. 27/01/2011, Marotta Rv.
249706).
Di tali principi di legittimità non ha fatto buon governo la
Corte di merito, nella parte in cui, nel confermare il
giudizio di colpevolezza in merito al reato di cui al capo
1), ha omesso di esplicitare le ragioni sulla scorta delle
quali sia possibile ritenere integrata una prova certa
secondo il canone dell'"al di là di ogni ragionevole
dubbio" codificato all'art. 533 cod. proc. pen., che la
volontà dell'imputato fosse orientata proprio a procurare un
ingiusto vantaggio patrimoniale alla società "Jo.Cl.", e non
piuttosto a perseguire in via esclusiva gli interessi della
cittadinanza del piccolo comune di Buronzo a che il
bocciodromo potesse continuare a rimanere aperto al pubblico
(massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di
Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 14.01.2016 n. 1332). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Illegittimo
rilascio della concessione edilizia e reato di abuso
d'ufficio.
In tema di abuso d'ufficio, a seguito
della trasformazione da reato di pura condotta a dolo
specifico in reato di evento, avvenuta con la legge n. 1234
del 1997, il dolo richiesto è generico con
riferimento alla condotta (coscienza e volontà di violare
norme di legge o di regolamento ovvero di non osservare
l'obbligo di astensione), mentre assume la forma del dolo
intenzionale rispetto all'evento (vantaggio o danno) che
completa la fattispecie.
A tal ultimo riguardo, la prova
dell'intenzionalità del dolo esige il raggiungimento della
certezza che la volontà dell'imputato sia stata orientata
proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno
ingiusti.
Tale certezza non può provenire
esclusivamente dal comportamento non iure tenuto
dall'agente, ma deve trovare conferma anche in altri
elementi sintomatici, che evidenzino l'effettiva ratio
ispiratrice del comportamento, quali la specifica competenza
professionale dell'agente, l'apparato motivazionale su cui
riposa il provvedimento, il contesto e il tenore dei
rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i soggetti
che dal provvedimento ricevono vantaggio patrimoniale o
subiscono danno.
Non va del resto dimenticato, per
cogliere l'importanza dell'accertamento sull'elemento
soggettivo, che, nel reato di abuso d'ufficio, si richiede
appunto il "dolo intenzionale", nel
senso che l'agente deve aver agito proprio per perseguire
uno degli eventi tipici della fattispecie incriminatrice,
ossia [per quanto qui potrebbe interessare] l'ingiusto
profitto patrimoniale, per sé o per altri, ovvero l'altrui
danno ingiusto.
In altri termini, non sarebbe
sufficiente che il soggetto attivo abbia agito con "dolo
diretto", cioè rappresentandosi l'evento come
verificabile con elevato grado di probabilità, né con "dolo
eventuale", cioè accettando il rischio del suo
verificarsi: è necessario che l'evento di danno o quello di
vantaggio sia voluto e realizzato come obiettivo immediato e
diretto della condotta, e non risulti semplicemente
realizzato come risultato accessorio di questa.
---------------
Tanto premesso, va detto che la motivazione impugnata non
appare del tutto congrua in ordine alla valutazione
dell'elemento soggettivo del reato di abuso d'ufficio.
Come è noto, in tema di abuso d'ufficio, a
seguito della trasformazione da reato di pura condotta a
dolo specifico in reato di evento, avvenuta con la legge n.
1234 del 1997, il dolo richiesto è generico con
riferimento alla condotta (coscienza e volontà di violare
norme di legge o di regolamento ovvero di non osservare
l'obbligo di astensione), mentre assume la forma del dolo
intenzionale rispetto all'evento (vantaggio o danno) che
completa la fattispecie.
A tal ultimo riguardo, la prova
dell'intenzionalità del dolo esige il raggiungimento della
certezza che la volontà dell'imputato sia stata orientata
proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno
ingiusti.
Tale certezza non può provenire
esclusivamente dal comportamento non iure tenuto
dall'agente, ma deve trovare conferma anche in altri
elementi sintomatici, che evidenzino l'effettiva ratio
ispiratrice del comportamento, quali la specifica competenza
professionale dell'agente, l'apparato motivazionale su cui
riposa il provvedimento, il contesto e il tenore dei
rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i soggetti
che dal provvedimento ricevono vantaggio patrimoniale o
subiscono danno (cfr.
Sez. VI, 25.01.2013, Barla ed altri).
Sotto questo profilo, la motivazione della Corte è
manifestamente carente e contraddittoria.
Proprio la complessità della situazione giuridica non può
semplicisticamente autorizzare un addebito in punto di
consapevole violazione delle norme a carico dei funzionari
che hanno curato l'iter concessorio.
Mentre è stato impropriamente valorizzato l'iter definito
come eccessivamente sollecito della pratica, allorquando in
tutta evidenza tale procedura non ha interessato e visti
coinvolti solo gli odierni imputati e, comunque, allorquando
non si è in presenza di una abnormità evidente della
procedura, quanto alla tempistica e/o ai diversi passaggi
che hanno portato al rilascio del titolo.
Non va del resto dimenticato, per cogliere
l'importanza dell'accertamento sull'elemento soggettivo,
che, nel reato di abuso d'ufficio, si richiede appunto il "dolo
intenzionale", nel senso che l'agente deve aver
agito proprio per perseguire uno degli eventi tipici della
fattispecie incriminatrice, ossia [per quanto qui potrebbe
interessare] l'ingiusto profitto patrimoniale, per sé o per
altri, ovvero l'altrui danno ingiusto.
In altri termini, non sarebbe sufficiente
che il soggetto attivo abbia agito con "dolo diretto",
cioè rappresentandosi l'evento come verificabile con elevato
grado di probabilità, né con "dolo eventuale",
cioè accettando il rischio del suo verificarsi: è necessario
che l'evento di danno o quello di vantaggio sia voluto e
realizzato come obiettivo immediato e diretto della
condotta, e non risulti semplicemente realizzato come
risultato accessorio di questa
(Sezione VI, 17.11.2009, Ratti ed altro) (Corte di
Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 07.01.2016 n. 87). |
anno 2015 |
|
CONSIGLIERI COMUNALI:
Abuso d'ufficio della Giunta sulla Municipalizzata.
IL CASO: l'azienda speciale di un
Comune, costituita per la gestione di servizi comunali e
sociali, su indicazione del sindaco e di alcuni assessori
del Comune, assumeva alcuni dipendenti indicati dagli stessi
componenti della giunta per l'erogazione di servizi fittizi.
Nel caso di specie, lo sviamento del potere e la violazione
dell'art. 97 della Costituzione, possono essere ritenuti
violazioni di legge alla stregua dei quali può essere
contestato il reato di abuso di ufficio?
(Risponde l'Avv. Guido Paratico)
La norma che disciplina il reato di abuso di ufficio è
l'art. 323 del Codice Penale.
La norma così dispone: "Salvo che il fatto non
costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o
l'incaricato di pubblico sevizio che, nello svolgimento
delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di
legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in
presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto
o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé
o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca
ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno
a quattro anni. La pena è aumentata nei casi in cui il
vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità".
La norma, in sostanza, vuole punire l'abuso funzionale, che
si evidenzia su un piano oggettivo prima ancora che
psicologico, che porta la violazione del buon andamento e
dell'imparzialità della pubblica amministrazione tutelati
dall'articolo 97 della Costituzione.
Per l'accertamento di tale reato occorre evidenziare in
termini precisi, oltre all'individuazione di norme
procedurali violate, anche quale aspetto le violazioni
abbiano inciso sulla violazione delle buon andamento
dell'amministrazione.
Più nello specifico, infatti, la giurisprudenza ha chiarito
come, in tema di abuso d'ufficio, il requisito della
violazione di norme di legge può essere integrato anche solo
dall'inosservanza del principio costituzionale di
imparzialità dell'organizzazione per la parte in cui esprime
il divieto di ingiustificate preferenze favoritismi che
impone al pubblico ufficiale e all'incaricato incaricato di
pubblico servizio una regola di comportamento di immediata
applicazione.
Così, nel caso di specie sopra descritto, non può
ravvisarsi, come potrebbe apparire ad un primo esame,
un'ipotesi di "eccesso di potere" (che non sarebbe da
solo fonte di responsabilità penale), bensì una vera e
propria ipotesi di "sviamento del potere".
Infatti, deve ritenersi sussistente il requisito della
violazione di legge non solo quando la condotta del pubblico
ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano
l'esercizio del potere, ma anche quando il comportamento
incriminato sia orientato alla sola realizzazione di un
interesse collidente con quello per il quale il potere è
attribuito: in questo caso si realizza il tipico vizio dello
sviamento di potere, che integra la violazione di legge in
quanto il potere non viene esercitato secondo lo schema
normativo che legittima l'attribuzione, ma persegue
obiettivi non previsti nella ponderazione tra interesse
pubblico e interessi privati (Sez. un., n. 155 del
29/09/2011, Rossi).
Allo stesso modo, nel caso di specie, la condotta degli
organi di indirizzo politico del Comune nonché del Direttore
dell'Azienda speciale, costituiscono senz'altro violazione
dell'art. 97 della Costituzione che, come visto, ha natura
di precetto immediatamente applicabile (la cui violazione
comporta anche l'abuso d'ufficio) quando pone il divieto di
favoritismi, cioè impone l'obbligo di trattare i soggetti
portatori di un interesse tutelato con la medesima misura
Il meccanismo con cui avvenivano le assunzioni, infatti, era
ispirato dall'intento di favorire alcune persone vicine ai
componenti della Giunta. Infatti, risulta l'attuazione di un
meccanismo diretto a realizzare veri e propri favoritismi
nelle assunzioni, consistito negli stanziamenti per far
fronte a progetti fittizi, a vantaggio esclusivo degli
assunti in maniera irregolare, perché in violazione delle
norme finanziarie e di quelle che regolano le assunzioni
presso gli enti locali.
In altri, invece, l'abuso d'ufficio non è stato ravvisato
nella condotta consistita nella inosservanza delle
disposizioni inserite nel bando di concorso il quale è atto
amministrativo e, quindi, fonte normativa non riconducibile
a quelle tassativamente indicate dal citato articolo 323
(cioè, la legge o il regolamento) (tratto dalla
newsletter 21.12.2015 n. 131 di http://asmecomm.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
In tema di abuso d’ufficio il dovere di
astensione da parte del soggetto qualificato deve ravvisarsi
anche laddove vengano in considerazione provvedimenti per i
quali è riconoscibile un interesse personale, anche
indiretto, ed il relativo presupposto di fatto deve
presentarsi, come avvenuto nel caso in esame, quale
situazione identificabile a priori, ponendosi come visibile
fattore inquinante in relazione alla determinazione del
contenuto dell’atto o dell’operazione da compiere.
---------------
3. Secondo una pacifica linea interpretativa
tracciata da questa Suprema Corte, la fattispecie
incriminatrice di cui all'art. 323 c.p., nella parte
relativa all'omessa astensione in presenza di un interesse
proprio dell'agente o di un prossimo congiunto, ha
introdotto nell'ordinamento, in via diretta e generale, un
dovere di astensione per i pubblici ufficiali o incaricati
di pubblico servizio che si trovino in una situazione di
conflitto di interessi.
Ne discende che l'inosservanza di tale dovere comporta
l'integrazione del reato anche quando faccia difetto, per il
procedimento ove l'agente è chiamato ad operare, una
specifica disciplina dell'astensione, o nei casi in cui la
disciplina eventualmente esistente riguardi un numero più
ridotto di ipotesi o sia priva di carattere cogente (Sez.
6, n. 14457 del 15/03/2013, dep. 27/03/2013, Rv. 255324;
Sez. 6, n. 7992/05 del 19/10/2004, Rv. 231477; v., inoltre,
Sez. 6, 27.05.2014, n. 38350).
Tale obbligo, infatti, trova la sua fonte nella stessa
formulazione dell'art. 323 c.p., ove la previsione della
norma incriminatrice descrive come antidoverosa l'omessa
astensione in presenza di un interesse proprio e dei propri
congiunti, così tipizzando tale situazione di
incompatibilità e rinviando alla normativa extrapenale per
quelle diverse "negli altri casi prescritti" (v.,
in motivazione, Sez. 6, n. 11549 del 02/10/1998, dep.
06/11/1998, Rv. 213031).
Nel caso in esame emerge con chiarezza, dalla su esposta
ricostruzione in fatto dei Giudici di merito, la presenza di
un obbligo di astensione dell'imputato in relazione all'atto
di designazione del componente la su indicata Commissione
medica locale, sussistendo una situazione di evidente
conflitto di interessi in ragione del rapporto di coniugio,
con una palese ed originaria violazione del principio
generale di imparzialità e trasparenza nell'azione della
Pubblica amministrazione, riconducibile all'art. 97 Cost..
Il dovere di astensione, infatti, sussiste quando vengano
in considerazione provvedimenti per i quali è riconoscibile
un interesse personale anche indiretto (Sez. 6, n. 14457
del 15/03/2013 cit.) ed il relativo presupposto di fatto
deve presentarsi, come avvenuto nel caso in esame, quale
situazione identificabile a priori, ponendosi come visibile
fattore inquinante in relazione alla determinazione del
contenuto dell'atto o dell'operazione da compiere.
Potrebbe escludersi il dovere di astensione, dunque, solo
con riferimento all'adozione di provvedimenti normativi o di
carattere generale (ad es., le delibere di approvazione di
piani regolatori generali), frutto di un procedimento
complesso in cui confluiscano e si compensino molteplici
interessi, collettivi o individuali, sicché la decisione
espressa dal pubblico funzionario non riguardi una specifica
prescrizione, ma il contenuto generale dell'atto: nel caso
in questione, di contro, viene in rilievo l'adozione di un
provvedimento ad hoc, il cui esito decisorio è
oggettivamente caratterizzato da una correlazione diretta ed
immediata fra il contenuto dell'atto e l'incidenza sulla
sfera di concreti e specifici interessi del pubblico
funzionario e/o dei suoi prossimi congiunti (arg. ex
Sez. 6, n. 12642 del 28/01/2015, dep. 25/03/2015, Rv.
263069).
4. Sotto altro, ma connesso profilo, deve rilevarsi come
costituisca oramai espressione di un consolidato
orientamento interpretativo il principio secondo il quale,
ai fini dell'integrazione del reato di abuso di ufficio,
anche nel caso di violazione dell'obbligo di astensione è
necessario che a tale omissione, già fonte di una violazione
di legge, si aggiunga l'ingiustizia del vantaggio
patrimoniale procurato o del danno arrecato (così, tra
le diverse, Sez. 6, n. 47978 del 27/10/2009, Rv. 245447;
Sez. 6, n. 26324 del 26/04/2007, Rv. 236857; Sez. 6, n.
11415 del 21/02/2003, Rv. 224070).
Nel caso di specie, come si è visto, l'illegittimità della
scelta operata dall'imputato attraverso l'atto di
designazione compiuto in favore della moglie ne ha
determinato un illegittimo accrescimento della sfera
patrimoniale per effetto dell'erogazione degli emolumenti
spettanti ai componenti la predetta commissione, non essendo
affatto necessario -ai fini della distinta valutazione di
ingiustizia della condotta e dell'evento di vantaggio
patrimoniale, che deve risultare non spettante in base al
diritto oggettivo- che l'ingiustizia del vantaggio derivi da
una violazione di norme diversa ed autonoma da quella che ha
caratterizzato l'illegittimità della condotta, qualora
l'accrescimento della sfera patrimoniale del privato debba
considerarsi "contra ius" (Sez. 6, n. 11394 del
29/01/2015, dep. 18/03/2015, Rv. 262793).
È infatti sufficiente la violazione di prescrizioni
normative sul solo versante della condotta, sempre che, per
effetto di essa, il privato abbia ottenuto una posizione di
maggior favore alla quale non aveva diritto, senza che si
renda necessaria l'attribuzione di un vantaggio patrimoniale
attraverso la violazione di un'ulteriore norma di legge.
Occorre pertanto che il giudice effettui, al riguardo, una
duplice valutazione, tenendo ben distinto il profilo
inerente all'illegittimità della condotta da quello relativo
all'ingiustizia del vantaggio, non potendosi inferire quest'ultima
dall'accertata esistenza della violazione di norme di legge
o di regolamento (ex plurimis, v. Cass., Sez. 6,
27.06.2009, Moro), ma dovendosi sempre accertare che il
privato non abbia titolo a ricevere il vantaggio
attribuitogli, perché non dovuto, cioè iniuste datum,
ovvero perché ottenuto sine iure (da ultimo, v. Sez.
6, 31 marzo - 19.06.2015, n. 25944).
Il vantaggio, infatti, è ingiusto ogniqualvolta non trovi
fondamento in un corrispondente diritto sostanziale, dunque
non soltanto qualora sia in sé contrario all'ordinamento, ma
anche quando il privato non possa vantare, rispetto ad esso,
alcuna situazione giuridica soggettiva a sostegno della
relativa pretesa.
In tal senso, la contrarietà a diritto del vantaggio
patrimoniale acquisito dal soggetto prescelto per effetto
dell'atto di designazione è direttamente scaturita, nel caso
di specie, dall'ottenimento e dal conseguente svolgimento di
un incarico amministrativo conferito in presenza di una
situazione viziata, come si è già avuto modo di rilevare, da
un macroscopico conflitto d'interessi.
Del tutto congetturale e non assistito da un congruo
sostegno logico-argomentativo deve, infine, ritenersi il
passaggio della motivazione (v., supra, il par. 2) in
cui il Tribunale fa riferimento, per escludere l'esistenza
del dovere di astensione, alle implicazioni di una non
meglio precisata valutazione di "compatibilità" della
gestione dell'attività lavorativa della moglie, che gli
organi dirigenziali avrebbero espresso riguardo alle
funzioni in concreto svolte ed all'organizzazione dell'ASL
di appartenenza (massima
tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez.
VI penale,
sentenza 10.12.2015 n. 48913). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: È
FALSO PER INDUZIONE L’ATTESTAZIONE DEL P.U. CHE UN
FABBRICATO È CONFORME AL PROGETTO APPROVATO CON IL PERMESSO
DI COSTRUIRE.
Il falso per induzione ex artt. 48 e 479
c.p. sussiste indipendentemente dalla natura fidefacente
dell’autocertificazione; ne consegue che l’atto con cui il
pubblico ufficiale attesta la conformità di un fabbricato al
progetto approvato con la concessione edilizia costituisce
atto pubblico.
Il tema esaminato dalla Cassazione, con la sentenza in
esame, verte sulla natura o meno di atto pubblico
dell’attestazione, promanante dal pubblico ufficiale, circa
la conformità del fabbricato al progetto assentito.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza che aveva
condannato l’imputato per falso per induzione, in
particolare per avere dichiarato falsamente in sede di
autocertificazione che l’intervento di costruzione di una
palazzina residenziale era stato realizzato in conformità ai
disegni approvati e tenendo presenti tutte le prescrizioni
di cui al permesso di costruire rilasciato dal comune,
dichiarazione non veritiera atteso che non erano stati
realizzati gli allacci alle reti tecnologiche, in
particolare alla rete idrica gestita dalla società R.R.
S.p.A..
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione
l’imputato, in particolare deducendo la mancanza di
un’autocertificazione fidefacente, per inesistenza di una
specifica previsione normativa che conferisse valore de
veritate all’attestazione resa dal privato al pubblico
ufficiale.
La dichiarazione resa in autocertificazione sarebbe stata
priva dei requisiti richiesti dal d.P.R. n. 445 del 2000,
art. 46 per avere la funzione di provare i fatti attestati
dal privato al pubblico ufficiale, per cui sarebbe priva di
potenzialità lesiva della pubblica fede.
Inoltre, l’autocertificazione non era stata sottoscritta in
presenza di un dipendente del Comune, né era stata
presentata unitamente alla copia fotostatica di un documento
di identità, onde non aveva i requisiti per valere come
dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà ex d.P.R.
n. 445 del 2000, artt. 47 e 38, di tal che non poteva
provare i fatti in essa attestati e non poteva confluire nel
certificato di agibilità. Infine, la medesima
autocertificazione, come risulta dal testo, non era idonea a
comprovare i fatti della stessa dichiarati perché non
espressamente indicati nell’art. 46 (con riferimento al cit.
d.P.R., art. 47, comma 3), onde anche per tale motivo non
aveva alcuna potenzialità lesiva della pubblica fede.
Trattavasi di una semplice dichiarazione, priva di qualunque
efficacia certificativa, tanto più se si considera che essa
non è necessaria ai sensi dell’art. 25, comma 1, del Testo
unico in materia edilizia (d.P.R. n. 380 del 2001) per cui
non è destinata a confluire nel certificato di agibilità e
quindi a provare la verità dei fatti in essa attestati.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima, ha annullato per insussistenza del fatto la
sentenza di condanna, in particolare osservando come che il
reato non sussisteva, atteso che la prescrizione del
permesso di costruire (“Prima della richiesta del
rilascio del permesso di agibilità dovranno essere
realizzati gli allacci alle reti tecnologiche”) non
implicava l’attivazione in concreto della fornitura (che,
peraltro, non si vede come possa essere richiesta dal
costruttore a nome del futuro acquirente), bensì solo la
predisposizione tecnica degli impianti per l’allacciamento
alla rete idrica, mediante esternalizzazione dell’impianto
fino all’armadio o al pozzetto di successiva installazione
del contatore.
Tale interpretazione era, altresì, confortata non solo dagli
atti dell’ufficio tecnico comunale, che, dopo un’iniziale
sospensione dell’agibilità, aveva revocato il provvedimento
cautelare, ma gli stessi atti privati, risultando in modo
espresso dal contratto preliminare di compravendita che
l’impresa avrebbe proceduto esclusivamente alla
realizzazione degli impianti, restando a carico
dell’acquirente il successivo allaccio mediante stipula del
relativo contratto di fornitura (v., nel senso del principio
affermato: Cass. pen., SS.UU., 17.09.984, n. 7299, Nirella,
in CED, n. 165602) (Corte di Cassazione, Sez. V penale,
sentenza 23.07.2015 n. 32433 - Urbanistica e
appalti n. 11/2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Abuso d'ufficio.
In tema di abuso d'ufficio, la prova del
dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa,
può essere desunta anche da elementi sintomatici come la
macroscopica illegittimità dell'atto compiuto, non essendo
richiesto l'accertamento dell'accordo collusivo con la
persona che si intende favorire, in quanto l'intenzionalità
del vantaggio ben può prescindere dalla volontà di favorire
specificamente quel privato interessato alla singola vicenda
amministrativa.
4.2. — Quanto al secondo motivo di ricorso, è sufficiente
qui rilevare che i giudici di primo e secondo grado muovono
dalle evidenze processuali, costituite dalla macroscopicità
della violazione e dalla specifica competenza tecnica di
entrambi gli imputati, per farne logicamente conseguire, pur
in mancanza di prova di un accordo fra i due, la piena
sussistenza dell'elemento soggettivo, rappresentato dalla
piena consapevolezza e partecipazione di entrambi gli
imputati alla commissione del reato.
E la natura macroscopica dell'abuso risulta ulteriormente
confermata -secondo la coerente valutazione dei giudici di
merito- dall'analogia tra la fattispecie qui in esame e la
vicenda relativa ad altro centro commerciale (I...) nella
quale era già venuta in rilievo l'illegittimità di
insediamenti commerciali nell'area F3 destinata a verde
pubblico; con la conseguenza che, anche a prescindere
dall'assoluta chiarezza delle disposizioni dello strumento
urbanistico sul punto, vi è ulteriore conferma che gli
imputati avessero piena e puntuale contezza dell'illiceità
dell'attività che andavano svolgendo. Né osta a tale
conclusione il generico richiamo della difesa a non meglio
precisati chiarimenti che l'imputato Biondi avrebbe
richiesto in via preventiva alla Procura della Repubblica.
E del resto, come costantemente affermato da questa Corte,
in tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale,
che qualifica la fattispecie criminosa, può essere desunta
anche da elementi sintomatici come la macroscopica
illegittimità dell'atto compiuto, non essendo richiesto
l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si
intende favorire, in quanto l'intenzionalità del vantaggio
ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente
quel privato interessato alla singola vicenda amministrativa
(ex plurimis, sez. 6, 15.04.2014, n. 36179, rv.
260233; sez. 3, 07.11.2013, n. 48475, rv. 258290).
Ne deriva la manifesta infondatezza di tale censura (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.05.2015 n. 19182 - tratto da
www.lexambiente.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: IL
TERMINE DI PRESCRIZIONE DEL TENTATO ABUSO DI UFFICIO DECORRE
DAL MOMENTO IN CUI È STATO POSTO IN ESSERE L’ULTIMO ATTO DEL
TENTATIVO.
Ai fini della decorrenza del termine di
prescrizione del delitto tentato ha rilievo non il giorno in
cui la condotta illecita viene scoperta o comunque il reato
non può essere più consumato per cause indipendenti dalla
volontà dell’agente, bensì il giorno in cui il reo ha
compiuto l’ultimo atto integrante la fattispecie tentata.
Di particolare interesse la questione affrontata dalla Corte
di cassazione sul problema giuridico oggetto di esame da
parte dei giudici di legittimità con la sentenza in esame,
in cui viene ad essere affrontato il tema del momento di
decorrenza iniziale del reato di tentato abuso di ufficio
collegato alla violazione della disciplina edilizia.
La vicenda processuale traeva origine dalla sentenza con cui
la Corte d’Appello confermava la sentenza del tribunale, con
cui gli imputati (un pubblico ufficiale ed un privato) erano
stati condannati in quanto ritenuti responsabili del reato
di abuso d’ufficio tentato in concorso, per aver compiuto
atti idonei diretti in modo non equivoco a far rilasciare
alla società R.T. s.r.l. due permessi di costruire in
sanatoria illegittimi, sia quanto ai presupposti di fatto
che a quelli di diritto, non riuscendo nel loro intento per
cause indipendenti dalla propria volontà e specificamente a
causa dell’intervento e degli accertamenti effettuati dal
responsabile dell’U.T. comunale e dalla polizia municipale.
Contro la sentenza gli stessi proponevano ricorso per
cassazione, dolendosi, per quanto qui di interesse, della
ritenuta configurabilità del reato contestato, sia sotto il
profilo oggettivo che soggettivo.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima, ha annullato la sentenza per intervenuta estinzione
del reato per prescrizione, osservando come l’imputazione
ascritta -consistente nell’aver redatto attestazione di
regolarità tecnica in cui si affermava la corretta
definizione delle pratiche e che si erano verificate tutte
le condizioni per il rilascio del permesso di costruire in
sanatoria, nonché predisponendo materialmente il permesso di
costruire in sanatoria-, rendeva corretta la richiesta degli
imputati secondo cui il dies a quo da cui far
decorrere il termine di prescrizione sarebbe quello,
contestato, individuabile nella data della formazione delle
false attestazioni di regolarità tecnica, conseguendone la
intervenuta prescrizione prima della sentenza d’appello.
La eccezione è stata considerata come corretta in diritto
dai Supremi Giudici, atteso che, nella fattispecie
configurata in forma tentata, al fine del computo del
termine prescrizionale, ha rilievo il momento in cui il reo
ha compiuto l’ultimo atto integrante la fattispecie tentata
(Cass. pen., Sez. II, n. 16609 del 29.04.2011, C., in CED,
n. 250112; Cass. pen., Sez. II, n. 313 del 13.01.1999, G.,
in CED, n. 212201).
Ne discende, pertanto, che detto dies a quo non può essere
individuato in quello coincidente con la data in cui è
intervenuto il rigetto dell’istanza di condono, poiché in
tal momento si verificherebbe la cristallizzazione degli
effetti della condotta finalizzata al conseguimento
dell’ingiusto vantaggio patrimoniale (come affermato da
Cass. pen., Sez. VI, n. 10230 del 27.08.1999, C., in CED, n.
214376), principio, questo, tuttavia applicabile solo nel
caso di fattispecie consumata e non nel caso, come quello
esaminato, di fattispecie tentata, per il quale trova invece
applicazione il diverso principio sopra illustrato (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.02.2015 n. 7384 - Urbanistica e
appalti n. 5/2015). |
anno 2013 |
|
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Uffici
tecnici. Abusi edilizi. La denuncia è obbligata.
Il responsabile di
un ufficio tecnico ha l'obbligo di denunziare all'autorità
giudiziaria gli abusi edilizi da lui stesso riscontrati nel
corso di sopralluogo effettuato insieme al comandante della
polizia municipale.
L'elemento soggettivo del reato di omissione di denuncia
consiste nella consapevolezza e volontarietà dell'omissione
della denuncia allorché si sia verificato il presupposto da
cui deriva l'obbligo di informare l'autorità giudiziaria,
ovvero la conoscenza, da parte del pubblico ufficiale, del
fatto costituente reato a causa e nell'esercizio delle sue
funzioni.
È irrilevante che il pubblico ufficiale ritenga che
l'informativa della «notitia criminis» di cui sia venuto a
conoscenza, competa ad altro pubblico ufficiale ovvero
supponga che l'informativa medesima sia stata da questi già
fornita.
Questo è quanto afferma la Corte di Cassazione, Sez. VI
penale, con la
sentenza 03.06.2013 n. 23956 (articolo ItaliaOggi del
06.06.2013).
---------------
G.C. è imputato del reato di cui all'art. 361 c.p. per
avere, in qualità di geometra dell'Ufficio Tecnico del
Comune di (omissis), omesso di denunciare senza ritardo alla
Autorità Giudiziaria l'abuso edilizio da lui stesso
riscontrato nel corso di sopralluogo effettuato insieme al
comandante della Polizia Municipale in data 02.02.2009
presso la proprietà di T.D..
A Z.D. è contestato lo stesso reato per avere, in qualità
di responsabile dell'Ufficio Tecnico del Comune di
(OMISSIS), omesso di denunciare senza ritardo alla Autorità
Giudiziaria l'abuso edilizio di cui era venuto a conoscenza
a seguito della ricezione di rapporto di servizio redatto
dalla Polizia locale in data 03.12.2009.
Il GUP di Pavia, dopo avere premesso che doveva
ritenersi pacifico in punto di fatto che alla segnalazione
dell'abuso edilizio ed alla sua constatazione era seguita la
totale inerzia degli organi competenti, ha rilevato che
tale condotta aveva rilievo penale unicamente a carico degli
agenti e degli ufficiali di polizia giudiziaria, in quanto
la disposizione di cui all'art. 27, comma 4, DPR 380/2001
costituirebbe norma speciale rispetto all'art. 361 c.p.. In
base a tale interpretazione sistematica dall'obbligo di
denuncia sarebbero esonerati i dirigenti dell'Ufficio
Tecnico e ciò comporterebbe anche una razionalizzazione del
sistema, evitando onerose duplicazioni di comunicazioni di
reato.
Si tratta di una erronea interpretazione delle disposizioni
di legge in questione.
In primo luogo nessun rapporto di specialità
sussiste tra le due disposizioni, posto che soltanto l'art.
361 c.p. è norma penale incriminatrice a differenza
dell'art. 27 DPR 380/2001, per la cui violazione non è
prevista alcuna sanzione penale.
In secondo luogo si tratta di norme con differenti
ambiti di applicazione: da un lato la norma penale ha
maggiore estensione, rivolgendosi in generale al pubblico
ufficiale come soggetto attivo a differenza della norma
amministrativa, che limita la propria sfera ai soli
ufficiali e agenti di polizia giudiziaria; dall'altro l'art.
361 c.p. circoscrive l'oggetto dell'obbligo di denuncia ai
soli reati, mentre il citato art. 27 estende l'obbligo a
tutti gli altri casi di presunta violazione urbanistico -
edilizia, anche quando non rivestono carattere penale.
Ne deriva che tra le due disposizioni non intercorre un
rapporto di specialità, ma al più di complementarietà,
trattandosi di norme che prevedono diversi doveri di
comunicazione alla Autorità Giudiziaria nell'ottica di un
più accurato controllo dell'assetto urbanistico-edilizio del
territorio.
A parte il fatto che l'interpretazione del GUP di Pavia
rischia chiaramente di determinare inerzia ed omissioni di
denunce nei Comuni privi di corpi di Polizia Municipale,
allorquando i dirigenti degli Uffici Tecnici vengano
comunque a conoscenza di abusi edilizi penalmente
sanzionati, oltre in via più generale a determinare un
concreto pericolo di diffusione di inaccettabili prassi di
scarico reciproco di responsabilità, come avvenuto nel caso
di specie.
Va, infine, ricordato che l'elemento soggettivo del reato di
omissione di denuncia consiste nella consapevolezza e
volontarietà dell'omissione della denuncia allorché si sia
verificato il presupposto da cui deriva l'obbligo di
informare l'autorità giudiziaria, ovvero la conoscenza, da
parte del pubblico ufficiale, del fatto costituente reato a
causa e nell’esercizio delle sue funzioni.
È, invece, estraneo alla nozione del dolo di omissione il
motivo che induca il soggetto, su cui grava l'obbligo di
informazione, ad astenersene; sicché è irrilevante che il
pubblico ufficiale ritenga che l'informativa della "notitia
criminis" di cui sia venuto a conoscenza, competa ad
altro pubblico ufficiale ovvero supponga che l'informativa
medesima sia stata da questi già fornita.
Infatti, l'errore in cui il soggetto possa incorrere, al
riguardo, non esclude la volontarietà dell'omissione, ma
concerne semmai la sua legittimità ed è, pertanto,
penalmente inscusabile (Sez. 6, Sentenza n. 1407 del
05/11/1998, Rv. 212551, Pirari; sez. 6, sentenza n. 9701 del
23.09.1996, RV 206014, Gobbi).
---------------
Al riguardo si legga anche:
● M. Santoloci,
Una sentenza importante che conferma un principio base
logico ma spesso soggetto a controversie interpretative.
Cassazione: il dirigente dell’ufficio tecnico comunale ha
l’obbligo di denunciare l’abuso edilizio. Come è sempre
stato logico… (24.07.2013 - link a
http://dirittoambiente.net).
...
Il dirigente dell’ufficio tecnico comunale ha l’obbligo,
sempre e comunque, di denunciare alla Procura della
Repubblica un abuso edilizio del quale ha notizia
nell’esercizio o a causa delle sue funzioni.
Questo principio è diventato “notizia” sui mass‐media e su
internet dopo una sentenza della Cassazione che ha ricordato
il principio stesso.
In questa nostra Italia accade oggi che –soprattutto nel
campo ambientale– quello che è logico, scontato e doveroso
diventa un fatto eccezionale di cronaca, una “novità” degna
di articoli sulla stampa. E questo per un solo fatto ormai
chiaro: alcuni principi del diritto connessi ai temi
ambientali o sono caduti in desuetudine applicativa
(traduco: di fatto non li applica più nessuno e ci siamo
dimenticati che esistono) oppure sono stravolti da anni di
interpretazioni malevoli e strumentali, spesso generate da
polemiche sul rimbalzo (traduco: scaricabarile) di
competente reciproche, a tal punto che il principio stesso
viene di fatto vaporizzato nel nulla e dimenticato per
prassi.
Poi all’improvviso su questo teatro di narcosi collettiva
spunta fuori una sentenza della Cassazione che
–opportunamente e doverosamente– va a ricordare il principio
stesso secondo una logica ordinaria, ed allora tale richiamo
della Cassazione diventa “novità” e “notizia”. O perlomeno
come tale viene percepita. (...continua). |
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