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dossier ATTI AMMINISTRATIVI: ABUSO D'UFFICIO ED ALTRI REATI CORRELATI CON LA P.A.


art. 323 Codice Penale
 

anno 2021

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Permesso di costruire – Rilascio del titolo abilitativo in difformità del piano regolatore generale o degli altri strumenti urbanistici – PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Abuso d’ufficio – Violazione di norme regolamentari o di norme di legge generali e astratte – Parziale “abolitio criminis” – Ambito applicativo dell’art. 323 cod. pen. – PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – Responsabile del procedimento amministrativo – Individuazione della responsabilità.
In tema di abuso d’ufficio, la modifica introdotta con l’art. 23 del d.l. 16.07.2020, n. 76 ha ristretto l’ambito applicativo dell’art. 323 cod. pen., determinando una parziale “abolitio criminis” in relazione alle condotte commesse prima dell’entrata in vigore della riforma, realizzate mediante violazione di norme regolamentari o di norme di legge generali e astratte, dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che lascino residuare margini di discrezionalità.
Tuttavia, proprio con riguardo all’adozione di un permesso di costruire, va ribadito il principio che, in tema di abuso di ufficio, il rilascio del titolo abilitativo edilizio avvenuto senza il rispetto del piano regolatore generale o degli altri strumenti urbanistici integra la violazione di specifiche regole di condotta previste dalla legge, così come richiesto dalla nuova formulazione dell’art. 323 cod. pen. ad opera dell’art. 16 del d.l. 16.07.2020, n. 76, convertito nella legge 11.09.2020, n. 120, atteso che l’art. 12, comma 1, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 prescrive espressamente che il permesso di costruire, per essere legittimo, deve conformarsi agli strumenti urbanistici ed il successivo art. 13 detta la specifica disciplina urbanistica che il direttore del settore è tenuto ad osservare.

...
Reati edilizi – Confisca obbligatoria del profitto del reato – Effetti dell’estinzione del reato per intervenuta prescrizione – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Applicazione dell’art. 578-bis cod. proc. pen..
In tema di confisca obbligatoria del profitto del reato, vale il principio secondo cui, il giudice nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, può disporla a condizione che vi sia stata una precedente pronuncia di condanna e che l’accertamento relativo alla sussistenza del reato, alla penale responsabilità dell’imputato e alla qualificazione del bene da confiscare come prezzo o profitto rimanga inalterato nel merito nei successivi gradi di giudizio.
Quando, come nella specie, la declaratoria di prescrizione del reato intervenga all’esito del giudizio di impugnazione, anche la Corte di cassazione è tenuta, in applicazione dell’art. 578-bis cod. proc. pen., a decidere sull’impugnazione agli effetti della confisca e laddove la sentenza impugnata sia affetta da vizio di motivazione in relazione a taluno degli elementi costitutivi del reato, la stessa va annullata con rinvio affinché sia colmato tale deficit argomentativo nel decidere.

...
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Reato di falso ideologico in atto pubblico – Elementi per la configurabilità del reato – Rapporti tra abuso d’ufficio e falso in atto pubblico – Concorso materiale.
Ai fini della configurazione del reato di falso ideologico in atto pubblico, costituiscono atti pubblici non solo quelli destinati ad assolvere una funzione attestativa o probatoria esterna, con riflessi diretti ed immediati nei rapporti tra privati e pubblica amministrazione, ma anche gli atti cosiddetti interni, cioè, sia quelli destinati ad inserirsi nel procedimento amministrativo, offrendo un contributo di conoscenza o di valutazione, sia quelli che si collocano nel contesto di un complesso iter –conforme o meno allo schema tipico– ponendosi come necessario presupposto di momenti procedurali successivi.
Né rileva il fatto che il provvedimento finale sia qualificabile –come nella specie– quale autorizzazione amministrativa la cui falsità ideologica sarebbe riconducibile al meno grave reato di cui all’art. 480 cod. pen., non potendo essere ricondotto a tale ultima fattispecie l’atto pubblico ideologicamente falso adottato nel corso del procedimento.
Sicché, in tema di rapporti tra abuso d’ufficio e falso in atto pubblico, sussiste concorso materiale, e non assorbimento dell’abuso d’ufficio nel più grave reato di falso, qualora la condotta di abuso non si esaurisca nel compimento dell’atto falso, essendo quest’ultimo strumentale alla realizzazione del reato di cui all’art. 323 cod. pen., costituendo una parte della più ampia condotta di abuso
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.09.2021 n. 33419 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Concorso morale in abuso d'ufficio per la telefonata che "convince" il pubblico ufficiale a non compiere il suo dovere.
In breve
Non si è trattato, secondo la Suprema corte, di una mera segnalazione che lasciava libera la volontà del soggetto di agire o meno nella direzione suggerita, ma di un'istigazione determinante nella decisione presa dall'agente di polizia.
Scatta il concorso morale nel reato di abuso di ufficio per la telefonata di raccomandazione che "convince" il pubblico ufficiale a non compiere il suo dovere.
Lo afferma la Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 27.05.2021 n. 21006.
La vicenda all'esame dei giudici di Piazza Cavour riguarda una contestazione stradale durante la quale un capo di sottosezione dopo avere fermato un automobilista ed essersi accorto che nella carta di circolazione non risultava annotata la installazione di un gancio di traino presente sull'autovettura, invece di applicare la multa con il relativo ritiro della patente (come prevede in questi casi il codice), disponeva per una trasgressione meno grave, come il mancato utilizzo di luci abbaglianti fuori dal centro abitato. Il repentino cambio di atteggiamento da parte del poliziotto si deve, come hanno correttamente ricostruito i giudici del merito, a una telefona ricevuta da persone influenti e conosciute in quella zona nella quale gli veniva chiesto di non applicare la contravvenzione più severa.
Non si è trattato, secondo la Suprema corte, di una mera segnalazione che lasciava libera la volontà del soggetto di agire o meno nella direzione suggerita, ma di un'istigazione determinante nella decisione presa dall'agente.
Senza quella telefonata infatti al guidatore sarebbe stata inflitta la contravvenzione prevista dall'articolo 78 del Cds e pertanto sull'indebito vantaggio patrimoniale arrecato al soggetto sottoposto al controllo (esborso di una somma di denaro minore e nessun ritiro della carta di circolazione) sussiste un concorso di abuso che comprende l'atteggiamento dell'agente di polizia e chi ha gli ha fatto pressione (articolo NT+Diritto del 27.05.2021).
---------------
SENTENZA
La vicenda è stata ricostruita in modo coerente alle risultanze istruttorie, avendo i giudici di merito con accertamenti di fatto logicamente ed adeguatamente motivati, insuscettibili pertanto di sindacato in sede di giudizio di legittimità, verificato la sicura incidenza causale che hanno avuto le condotte poste in essere dai due concorrenti "estranei", nella determinazione del concorrente "intraneo" che, nell'esercizio delle proprie funzioni, ed in violazione di norme di legge a contenuto vincolante, ha deliberatamente ed intenzionalmente arrecato ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale.
Nel pervenire a tali conclusioni, la Corte territoriale si è attenuta al principio di diritto secondo il quale
anche gli estranei al pubblico ufficio o al pubblico servizio possono concorrere nel reato di abuso d'ufficio, quando vi sia compartecipazione di questi all'attività criminosa del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio (Sez. 6, n. 2140 del 25/05/1995, Tontoli, Rv. 201841), in quanto per la configurabilità della responsabilità dell'extraneus per concorso nel reato proprio, è sufficiente, da un lato, la cooperazione materiale ovvero, come nel caso in esame, la determinazione o l'istigazione a commettere il reato, ed è indispensabile, dall'altro, che l'intraneo, esecutore materiale del delitto di abuso d'ufficio, sia riconosciuto responsabile del reato proprio (Sez. 6, n. 40303 del 08/07/2014, Zappia, Rv. 260465), condizioni entrambe nel caso di specie ampiamente sussistenti.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOConcorsi, abuso d’ufficio k.o. Reato escluso se per l’atto c’è margine di discrezionalità. Panoramica di sentenze della Cassazione sulla perseguibilità dei favoritismi nelle selezioni.
Non sono più abuso d'ufficio i favoritismi privati nelle selezioni pubbliche dopo la riforma dell'articolo 323 del codice penale. E ciò perché è escluso che il divieto possa considerarsi oggetto di un'espressa previsione da parte dell'articolo 97 della Costituzione sull'imparzialità della pubblica amministrazione, mentre il decreto semplificazioni ha ristretto l'area della rilevanza penale: ora sono perseguite soltanto le violazioni «di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge» che non offrono «margini di discrezionalità» al funzionario. Resta fuori dalla perseguibilità, dunque, il classico caso dell'atto amministrativo connotato da discrezionalità come la valutazione della produzione scientifica del candidato da parte della commissione.
È quanto emerge dalla sentenza 15.04.2021 n. 14214, pubblicata dalla VI Sez. penale della Corte di Cassazione.
Valutazione insindacabile. Bocciato il ricorso proposto dalla parte civile, il secondo classificato nella graduatoria della selezione per un contratto co.co.pro. da addetto stampa dell'azienda universitaria. E ciò benché la vincitrice abbia presentato un curriculum «tarocco»: riporta una collaborazione giornalistica mai svolta, ma il reato di falso è estinto per prescrizione.
Diventa invece definitiva l'assoluzione dall'abuso d'ufficio decisa dalla Corte d'appello in riforma della decisione del tribunale a favore della prima classificata e delle sue esaminatrici. Manca in realtà un'evidente sopravvalutazione dei titoli portati dalla candidata, che ha comunque svolto attività professionale non soltanto a livello di stage e parla bene inglese, come dimostra l'attestato dall'ambasciata Usa; la commissione, dal canto suo, non poteva accorgersi dell'unico falso nel curriculum. E quando la candidata firma per sbaglio il suo elaborato, avvisa subito la commissione ottenendo un altro foglio per poterlo copiare. Sussiste, insomma, la motivazione rafforzata per la sentenza liberatoria.
Attenzione, però: il fatto oggi non costituirebbe comunque più reato dopo la modifica apportata alla norma incriminatrice dall'articolo 23 del decreto legge 76/2020. Nella selezione «l'incoerenza del giudizio valutativo rispetto alla regola tecnica che lo sorregge» non integra più la fattispecie tipica dell'abuso d'ufficio. A meno che la regola tecnica non sia trasfusa in una regola di comportamento specifica e rigida, di fonte primaria. Ma anche in tal caso resta l'insindacabilità del «nucleo valutativo» del giudizio tecnico. Il tutto mentre il divieto di favoritismi privati si può dedurre soltanto in via indiretta dal principio costituzionale d'imparzialità della pubblica amministrazione.
Nessuna trasparenza. Non si salva dalla condanna, invece, il «barone» universitario che pilota il concorso per far vincere la cattedra al figlio. E ciò perché, spiega la sentenza 09.02.2021 n. 5057, pubblicata dalla VI Sez. penale della Cassazione, dalle intercettazioni risulta conclamata la violazione della norma che impone la trasparenza e l'imparzialità nelle procedure di assunzione del personale nelle amministrazioni pubbliche.
Diventano definitive le sanzioni inflitte nel processo per la «concorsopoli» accademica, fra cui quella per abuso d'ufficio al direttore del dipartimento. Che riesce a far vincere il concorso universitario al figlio nonostante l'inadeguatezza di titoli e pubblicazioni: induce infatti il collega a far ritirare un altro candidato più meritevole, facendogli prospettare conseguenze negative sulla carriera se avesse sostenuto la prova finale: il giovane con il punteggio più alto, peraltro, lavora gratis presso il dipartimento.
Non giova alla difesa invocare l'abolitio criminis introdotta con il decreto legge 76/2020. Eppure oggi non risulta più penalmente rilevante l'inosservanza di principi generali e di norme regolamentari. Né il giudice penale può sindacare il mero cattivo uso della discrezionalità, mentre resta reato la mancata astensione in caso di conflitto d'interessi.
Il punto è che nella specie non risultano violate soltanto le norme contenute nel regolamento adottato dall'Università. Le intercettazioni provano «ai limiti dell'evidenza» le responsabilità del «barone»: è lui a decidere i nomi dei sei professori dai quali devono essere estratti i tre che comporranno la commissione per il concorso del figlio. E non c'è dubbio che sia violato l'articolo 35 del decreto legislativo 165/2001 laddove impone trasparenza anche nella formazione nelle commissioni, mentre il «papà» piazza soggetti «fidati» per determinare l'esito del concorso.
Senza margini. Resta l'abuso d'ufficio anche quando la competenza a provvedere è attribuita soltanto a uno specifico organo amministrativo sulla base di una legge o da un atto che ha forza di legge: l'infrazione delle regole di attribuzione della materia, che risultano vincolanti e prive di discrezionalità, integra la violazione di specifiche regole di condotta che configura il reato; a patto che, avverte la sentenza 04.03.2021 n. 8792, pubblicata dalla III Sez. penale della Cassazione, si realizzino gli altri elementi costitutivi della fattispecie, dunque il dolo intenzionale e la doppia ingiustizia, cioè il vantaggio patrimoniale procurato oltre che la condotta connotata da violazione di legge.
Soltanto la prescrizione salva il responsabile dell'area tecnica del Comune che firma la concessione edilizia «incriminata» nel procedimento per lottizzazione abusiva.
In base alla legge urbanistica l'approvazione del piano di lottizzazione può avvenire soltanto da parte del consiglio comunale: è l'organo cui è attribuito l'indirizzo politico-amministrativo nella pianificazione del territorio nell'ambito dell'ente locale. E la concessione edilizia rilasciata dal dirigente comunale non può autorizzare le opere richieste dall'amministratore della società: si tratta di interventi urbanistici che equivalgono a un piano di lottizzazione ex novo. Nella specie si ricade dunque nella fattispecie prevista dalla nuova formulazione della norma incriminatrice.
Termini puntuali. Anche dopo la riforma è abuso d'ufficio quando il vigile toglie la multa all'amico. La responsabilità penale, sottolinea la sentenza 08.04.2021 n. 13250, pubblicata dalla V Sez. penale della Cassazione, si configura se il funzionario pubblico contravviene a regole che da una parte sono fissate dalla legge, e non da regolamenti, e dall'altra sono disegnate in modo specifico, in termini completi e puntuali.
È così per l'agente di polizia municipale, che ha violato almeno due norme di legge senza margini di discrezionalità: l'articolo 21-nonies della legge 241/1990, che consente l'annullamento d'ufficio dell'atto amministrativo solo di fronte a vizi tipici; le disposizioni del codice della strada secondo cui, quando a essere multato dall'autovelox è un soggetto istituzionale, la polizia trasmette gli atti al prefetto per l'archiviazione se sussistono cause che escludono la responsabilità.
Diritto intertemporale. Non può invece essere condannato il direttore generale dell'azienda ospedaliera che, dequalificando il singolo servizio, demansiona il relativo direttore.
Il restyling dell'articolo 323 codice penale, evidenzia la
sentenza 08.01.2021 n. 442, pubblicata dalla VI Sez. penale della Cassazione, pone una questione di diritto intertemporale: otterranno il proscioglimento perché «il fatto non è più previsto dalla legge come reato» gli imputati che prima del decreto semplificazioni hanno compiuto condotte non più riconducibili alla nuova versione dell'articolo 323 c.p.: ad esempio perché hanno violato solo regolamenti oppure norme di legge sì, ma generali e astratte, dalle quali non si possono ricavare regole di condotta specifiche e espresse o che comunque lasciano al funzionario margini di discrezionalità.
Esattamente come avviene in questo caso: il direttore generale fa cessare una situazione di fatto consolidatasi nel tempo, perché sia l'istituzione del servizio come struttura complessa sia la successiva dequalificazione sono prive del prescritto atto aziendale. E quindi la riorganizzazione costituisce una scelta di merito che rientra nella discrezionalità amministrativa: è penalmente irrilevante perché non nuoce al buon andamento dell'ospedale né risulta adottata in conflitto d'interessi (articolo ItaliaOggi del 26.04.2021).

EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Permesso di costruire apparentemente formato ma illegittimo – Dirigenti comunali – Attività criminosa del soggetto pubblico – Reati di abuso d’ufficio e falso ideologico – BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Reati paesaggistici – Verifica della legittimità dell’autorizzazione – AREE PROTETTE – Esecuzione di lavori sine titulo in area sottoposta a vincolo paesaggistico – Sito di interesse comunitario (SIC).
Con riguardo alla concessione edilizia non riferibile oggettivamente alla sfera del lecito giuridico, in quanto frutto dell’attività criminosa del soggetto pubblico che la rilascia o del soggetto privato che la ottiene, se ne era affermata l’equiparabilità alla situazione di un titolo mancante, anche senza necessità di prova della collusione tra amministratore e soggetti interessati o dell’accertamento dell’avvenuto inizio dell’azione penale a carico degli amministratori, sempre che risulti evidente un contrasto con norme imperative talmente grave da determinare non la mera illegittimità dell’atto, ma la illiceità del medesimo e la sua nullità.
Al di là del caso del provvedimento illecito, la contravvenzione di esecuzione di lavori sine titulo sussiste anche quando il permesso di costruire, pur apparentemente formato, sia illegittimo per contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia di fonte normativa o risultante dalla pianificazione.
E lo stesso vale in tema di reati paesaggistici, poiché pure in questo caso il giudice penale ha il potere-dovere di verificare in via incidentale la legittimità della autorizzazione paesaggistica, senza che ciò comporti l’eventuale “disapplicazione” dell’atto amministrativo ai sensi dell’art. 5 della legge 20.03.1865 n. 2248, allegato E, riguardando il suo esame solo l’integrazione o meno della fattispecie penale con riferimento all’interesse sostanziale tutelato
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.04.2021 n. 12459 - link a www.ambientediritto.it).
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3.3. Del pari manifestamente infondate e anche generiche –perché non pertinenti rispetto alla principale fattispecie incriminatrice il cui fumus è stato riconosciuto e che, da sola, sorregge la misura cautelare adottata– sono le doglianze circa la violazione del principio di legalità sul rilievo che l’aver ritenuto la giuridica inesistenza dei provvedimenti amministrativi rilasciati dal Comune e reputati illegittimi violerebbe l’art. 44, comma 1, lett. c), T.U.E., il cui disvalore, si sostiene in ricorso, sarebbe «polarizzato sull’assenza del titolo autorizzativo», sicché risulterebbe vanificata anche la possibilità per il cittadino di prevedere con ragionevole certezza il rischio penale derivante dalla sua azione.
3.3.1. Va innanzitutto osservato che il ricorrente non si confronta in alcun modo con l’orientamento, consolidato da oltre trent’anni, giusta il quale le contravvenzioni urbanistiche di esecuzione di lavori sine titulo sono punibili ai sensi dell’ipotesi di cui lett. b) della norma incriminatrice –ovvero ai sensi della lettera c), qualora l’abuso ricada in zona vincolata– quando si tratti di provvedimenti giuridicamente inesistenti o illeciti, ciò che nella specie il giudice del merito cautelare ha accertato a livello di fumus con riferimento ai reati di abuso di ufficio e falso ideologico contestati ai funzionari comunale che ebbero a rilasciare i titoli edilizi al ricorrente.
Ed invero, già con riguardo alla concessione edilizia non riferibile oggettivamente alla sfera del lecito giuridico, in quanto frutto dell’attività criminosa del soggetto pubblico che la rilascia o del soggetto privato che la ottiene, se ne era affermata l’equiparabilità alla situazione di un titolo mancante, anche senza necessità di prova della collusione tra amministratore e soggetti interessati o dell’accertamento dell’avvenuto inizio dell’azione penale a carico degli amministratori, sempre che risulti evidente un contrasto con norme imperative talmente grave da determinare non la mera illegittimità dell’atto, ma la illiceità del medesimo e la sua nullità (Sez. 3, n. 38735 del 11/07/2003, Schrotter e aa., Rv. 226576; nello stesso senso, ex multis: Sez. 3, n. 7423 del 18/12/2014, dep. 2015, Cervino e aa, Rv. 263916; Sez. 3, n. 1708 del 13/11/2002, dep. 2003, Pezzella, Rv. 223475; Sez. 3, n. 23230 del 22/04/2004, Verdelocco, Rv. 229438; Sez. 6, n. 3606 del 20/10/2016, dep. 2017, Borianno, Rv. 269345; Sez. 4, n. 38610 del 20/07/2017, Comune di Sperlonga e a., Rv. 270931).
Per non dire dei più recenti approdi della giurisprudenza di questa Corte, che hanno consolidato l’orientamento –pure questo risalente– giusta il quale, al di là del caso del provvedimento illecito, la contravvenzione di esecuzione di lavori sine titulo sussiste anche quando il permesso di costruire, pur apparentemente formato, sia illegittimo per contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia di fonte normativa o risultante dalla pianificazione (Sez. 3, n. 56678 del 21/09/2018, Iodice, Rv. 275565; Sez. 3, Sentenza n. 49687 del 07/06/2018, Bruno e a, n.m.; Sez. 3, n. 37847 del 14/05/2013, Sonni, Rv. 256971) 19/01/2013).
E lo stesso vale in tema di reati paesaggistici, poiché pure in questo caso il giudice penale ha il potere-dovere di verificare in via incidentale la legittimità della autorizzazione paesaggistica, senza che ciò comporti l’eventuale “disapplicazione” dell’atto amministrativo ai sensi dell’art. 5 della legge 20.03.1865 n. 2248, allegato E, riguardando il suo esame solo l’integrazione o meno della fattispecie penale con riferimento all’interesse sostanziale tutelato (Sez. 3, n. 38856 del 04/12/2017, dep. 2018, Schneider e a., Rv. 273703).

PUBBLICO IMPIEGOLa Cassazione mette un freno al nuovo abuso d'ufficio.
Magari non si potrà definirla una vera e propria demolizione, tuttavia la Cassazione si sta mettendo d’impegno per circoscrivere la riforma dell’abuso d’ufficio, in vigore da pochi mesi, e per conservare spazi anche ampi al penalmente rilevante.

Lo testimonia da ultimo la sentenza 01.03.2021 n. 8057 della VI Sez. con la quale è stata confermata la condanna inflitta, quando ancora era in vigore la vecchia disciplina dell’articolo 323 del Codice penale, a carico del responsabile del servizio di polizia municipale di un comune sardo.
La Cassazione, nel decidere il ricorso, ha dovuto inevitabilmente affrontare il nodo dell’intervento voluto dal Governo Conte 2, con il decreto legge n. 76 del 2020, operativo dal luglio scorso. Obiettivo dichiarato dell’intervento quello di evitare l’impatto di sostanziale deresponsabilizzazione, ovvero il “timore della firma”, dei funzionari pubblici anche per effetto di un’ampia applicazione dell’abuso d’ufficio. Di qui la riforma che ha voluto delimitare l’area del penalmente rilevante alle sole trasgressioni di regole di condotte previste dalla legge oppure di atti di forza equivalente che non lasciano spazi di discrezionalità.
Proprio su quest’ultimo aspetto si è concentrata la Corte (dopo che già poche settimane fa con la sentenza n. 442 del 2021 aveva considerato comunque penalmente sanzionabile un uso del potere discrezionale per fini distanti dall’interesse pubblico), facendo leva ancora sul concetto di potere discrezionale.
Per la sentenza, infatti, la riforma non ha voluto solo fare riferimento ai casi in cui la violazione ha per oggetto una specifica regola di condotta collegata all’esercizio di un potere già in origine previsto da una norma come del tutto vincolato, con un’azione amministrativa predeterminata in ogni suo aspetto, ma anche «ai casi riguardanti l’inosservanza di una regola di condotta collegata allo svolgimento di un potere che, astrattamente previsto dalla legge come discrezionale, sia divenuto in concreto vincolante per le scelte fatte dal pubblico agente prima dell’adozione dell’atto (o del comportamento) in cui si sostanzia l’abuso di ufficio».
Una sorta di discrezionalità in realtà solo “mascherata”, di non facile incasellamento giuridico e che la Cassazione considera comunque in linea con quanto già stabilito dalla giustizia amministrativa.
In questo senso la Corte chiama a corroborare il proprio ragionamento il Consiglio di Stato, pronuncia n. 4089 del 2019, con la quale è stato riconosciuto come annullabile il provvedimento amministrativo espressione di un potere discrezionale solo in astratto, ma diventato vincolato in concreto, un potere cioè che per le scelte che il pubblico ufficiale ha compiuto in concreto non poteva che considerarsi espressione di uno spazio ormai azzerato di discrezionalità (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 04.03.2021).

PUBBLICO IMPIEGOIl delitto, così come modificato dal d.l. 16.07.2020, n. 76, convertito nella legge 11.09.2020, n. 120, è configurabile non solo nel caso in cui la violazione di una specifica regola di condotta sia connessa all’esercizio di un potere già in origine previsto dalla legge come del tutto vincolato, ma anche nei casi in cui l’inosservanza della regola di condotta sia collegata allo svolgimento di un potere che, astrattamente previsto come discrezionale, sia divenuto in concreto vincolato per le scelte fatte dal pubblico agente prima dell’adozione dell’atto (o del comportamento) in cui si sostanzia l’abuso di ufficio.
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3. Sempre in via prioritaria occorre chiedersi se il fatto contestato al ricorrente non sia più previsto dalla legge come reato a seguito della parziale abolitio criminis conseguente alle modifiche apportate all'art. 323 cod. pen. dall'art. 23 del d.l. 16.07.2020, n. 76, convertito dalla legge 11.09.2020, n. 120, disposizione con la quale le parole "di norme di legge o di regolamento" contenute nell'art. 323 sono state sostituite con quelle "di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità".
Le novità sono tre.
Fermi restando l'immutato riferimento all'elemento psicologico del dolo intenzionale e l'immodificato richiamo alla fattispecie dell'abuso di ufficio per violazione, da parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, dell'obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti (ipotesi di reato che non è variata nei suoi elementi costitutivi), il delitto è ora configurabile solamente nei casi in cui la violazione da parte dell'agente pubblico abbia avuto ad oggetto "specifiche regole di condotta" e non anche regole di carattere generale; solo se tali specifiche regole sono dettate "da norme di legge o da atti aventi forza di legge", dunque non anche quelle fissate da meri regolamenti ovvero da altri atti normativi di fonte subprinnaria; e, in ogni caso, a condizione che quelle regole siano formulate in termini da non lasciare alcun margine di discrezionalità all'agente, restando perciò oggi escluse dalla applicabilità della norma incriminatrice quelle regole di condotta che rispondano, anche in misura marginale, all'esercizio di un potere discrezionale (in questo senso v. Sez. 6, n. 442 del 09/12/2020, dep. 2021, Garau, non massimata; Sez. 5, n. 37517 del 02/10/2020, Danzè e altri, non massimata).
Tali indicazioni legislative -che, destinate all'evidenza a restringere sotto l'aspetto oggettivo la rilevanza penale di talune condotte, sono operanti in via retroattiva giusta il principio di cui all'art. 2, quarto comma, cod. pen.- non sono applicabili al caso di specie.
E ciò perché all'odierno ricorrente è stata addebitata la violazione di una specifica regola di condotta prevista da una norma di legge, quella contenuta nell'art. 125 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (c.d. Codice degli appalti) che all'epoca dei fatti disciplinava il metodo che l'ente pubblico appaltante avrebbe dovuto seguire per l'individuazione del soggetto cui affidare l'esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture; disposizione che dettava criteri tecnici che vincolavano la stazione appaltante ad adottare un criterio di scelta invece che un altro sulla base del risultato di quell'accertamento, senza lasciare al funzionario responsabile alcuna possibilità di scelta discrezionale.
Né a differenti conclusioni è possibile giungere laddove si volesse sostenere che la scelta del metodo di individuazione dell'affidatario dell'appalto dipendeva dal superamento di determinate soglie di valore calcolate sulla base di dati tecnici suscettibili, almeno in parte, di essere valutati con un qualche margine di opinabilità: dunque, di elementi che potevano costituire oggetto di una discrezionalità tecnica.
Tale circostanza risulta, invero, irrilevante in tutti i casi di abuso di ufficio -come quello oggi in esame, per quanto si chiarirà nel prosieguo della presente decisione- in cui la violazione di una regola di condotta prevista da una norma di legge dovesse sostanziarsi nella preventiva totale rinuncia da parte del pubblico agente dell'esercizio di ogni potere discrezionale; ovvero laddove la violazione della regola di condotta dovesse intervenire in un momento del procedimento nel quale è possibile affermare che ogni determinazione dell'amministrazione è oramai espressione di un potere caratterizzato dall'essere in concreto privo di qualsivoglia margine di discrezionalità.
In tal senso è possibile fondatamente ritenere che il legislatore della novella, stabilendo che l'abuso di ufficio sia configurabile solo nel caso di "violazione di specifiche regole di condotta [...] dalle quali non residuino margini di discrezionalità", abbia inteso far riferimento non solamente ai casi in cui la violazione ha ad oggetto una specifica regola di condotta connessa all'esercizio di un potere già in origine previsto da una norma come del tutto vincolato (cioè di un potere del quale la legge abbia preordinato l'an, il quomodo, il quid e il quando dell'azione amministrativa); ma anche ai casi riguardanti l'inosservanza di una regola di condotta collegata allo svolgimento di un potere che, astrattamente previsto dalla legge come discrezionale, sia divenuto in concreto vincolato per le scelte fatte dal pubblico agente prima dell'adozione dell'atto (o del comportamento) in cui si sostanzia l'abuso di ufficio.
Tale linea interpretativa del 'nuovo' art. 323 cod. pen. appare, peraltro, coerente con le conclusioni cui è pervenuta la più attenta giurisprudenza amministrativa che, valorizzando il dettato dell'art. 21-octies della legge 07.08.1990, n. 241, ha riconosciuto che il provvedimento amministrativo è annullabile, per violazione delle norme sul procedimento o sulla forma degli atti, non solo quando sia espressione di un potere vincolato in astratto, cioè disciplinato da disposizioni che non contemplano alcuno spazio di discrezionalità demandato all'amministrazione, ma anche quando esso sia esplicazione di un potere, in astratto discrezionale, che sia divenuto vincolato in concreto: vale a dire di un potere che, per le scelte che il pubblico agente ha compiuto nell'ambito di quello stesso procedimento amministrativo, non poteva che essere quello indicato dalla legge perché oramai caratterizzato da un avvenuto esaurimento di ogni spazio di discrezionalità (in questo senso, tra le altre Cons. Stato, n. 4089 del 17/06/2019).
...
5. Anche il secondo motivo del ricorso è privo di pregio.
Costituiscono ius receptum nella giurisprudenza di legittimità i principi secondo i quali, per la configurabilità del reato di abuso di ufficio, è necessaria la prova della cd. 'doppia ingiustizia', che postula un duplice distinto apprezzamento, concernente sia la condotta che deve essere connotata da violazione di norme di legge o di regolamento, sia l'evento di vantaggio patrimoniale in quanto non spettante in base al diritto oggettivo, non potendosi far discendere l'ingiustizia del vantaggio o del danno dall'accertata illegittimità della condotta (così, tra le molte, Sez. 6, n. 17676 del 18/03/2016, Nodo, Rv. 267171; e, più di recente, Sez. 6, n. 19929 del 22/02/2019, Bernardi, non massimata); e nel reato di abuso di ufficio la prova del dolo intenzionale non presuppone l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, potendo tale prova essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto, essendo però necessario che tale valutazione non discenda dal mero comportamento non iure dell'agente, ma risulti anche da elementi ulteriori concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto (in questo senso, tra le altre, Sez. 6, n. 12974 del 08/01/2020, Zanola, Rv. 279264; Sez. 6, n. 52882 del 28/09/2018, Pastore, Rv. 274580).
Di tali criteri interpretativi la Corte distrettuale ha fatto buon governo, sottolineando come la palese violazione, da parte dell'imputato, delle considerate regole di condotta avesse finito non solo per determinare un ingiusto vantaggio patrimoniale per l'ente affidatario, ma anche un danno per l'ente comunale, che si era visto costretto ad avviare dispendiosi procedimenti per l'annullamento di quel contratto di appalto e per l'invalidazione in autotutela dei numerosi verbali di accertamento per contravvenzioni elevate.
Per altro verso, si è puntualizzato come il fatto che il prevenuto avesse agito con il chiaro consapevole intento di favorire il titolare della azienda alla quale quell'appalto era stato illegittimamente affidato, fosse stato dimostrato da plurime circostanze.
Quella che l'As. aveva stipulato il contratto e adottato la collegata determina dirigenziale ancor prima che la pratica venisse esaminata, in relazione al significativo impegno di spesa che quel servizio avrebbe comportato per il comune, dalla giunta municipale; nonché quella che l'imputato aveva permesso al responsabile della società appaltatrice (che, peraltro, aveva la sua sede nello stesso immobile dell'ufficio comunale) di installare e di iniziare ad utilizzare le apparecchiature per la rilevazione della velocità diversi giorni prima di stipulare il contratto, che non era stato neppure registrato; nonché di emanare la citata determina dirigenziale senza alcun preventivo rilascio della necessaria autorizzazione da parte dell'ente pubblico, l'Anas, cui era affidata la gestione della strada interessata dal collocamento dei rilevatori di velocità dei veicoli (Corte di cassazione, Sez. VI penale, sentenza 01.03.2021 n. 8057).

PUBBLICO IMPIEGOIn tema di abuso di ufficio, la nuova formulazione dell'art. 323 c.p., introdotta dal d.l. n. 76/2020, conv. dalla l. n. 120/2020 richiede che la condotta produttiva di responsabilità penale del pubblico funzionario sia connotata, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, dalla violazione di regole cogenti per l'azione amministrativa, che per un verso siano fissate dalla legge e per altro verso siano specificamente disegnate in termini completi e puntuali.
Ne deriva che è sottratto al giudice sia l'apprezzamento dell'inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare, sia il sindacato del mero cattivo uso della discrezionalità amministrativa.

CASUS DECISUS
La Corte d’appello di Cagliari confermava quella del locale Tribunale, che aveva condannato il Commissario straordinario e Direttore generale dell’Azienda Ospedaliera per avere, con vari atti organizzativi illegittimamente dequalificato il Servizio Prevenzione e Protezione da struttura complessa a struttura semplice, così demansionando la posizione giuridica ed economica del suo Direttore.
Pertanto, l’imputato ricorreva in Cassazione, denunciando, violazione di legge, a seguito della l. 120/2020, quanto al requisito previsto dall’art. 323 c.p. della "violazione di legge o di regolamento”, riguardante la normativa primaria relativa all’atto aziendale e la situazione di illegalità in cui versava la struttura.
ANNOTAZIONE
Nella sentenza in epigrafe la Suprema Corte analizza il reato di abuso di ufficio a seguito della novella della L. 120/2020, che ha sostituito le parole "di norme di legge o di regolamento" con quelle "di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità".
Premesso che la ragion d’essere della figura di reato delineata da una norma di chiusura, come l’art. 323 c.p., è ravvisata nell’obiettivo di tutelare i valori fondanti dell’azione della Pubblica Amministrazione, che l’art. 97 Cost. indica nel buon andamento e nella imparzialità, i nuovi elementi di fattispecie oggetto della violazione penalmente rilevante -introdotti dalla più recente riforma- sono costituiti dalle "specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità".
In luogo del generico richiamo della previgente disciplina alla indeterminata violazione "di norme di legge o di regolamento", si pretende oggi che la condotta produttiva di responsabilità penale del pubblico funzionario sia connotata, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, dalla violazione di regole cogenti per l’azione amministrativa, che per un verso siano fissate dalla legge (non rilevano dunque i regolamenti, né eventuali fonti subprimarie o secondarie) e per altro verso siano specificamente disegnate in termini completi e puntuali.
Di qui il lineare corollario della limitazione di responsabilità penale del pubblico funzionario, qualora le regole comportamentali gli consentano di agire in un contesto di discrezionalità amministrativa, anche tecnica: intesa, questa, nel suo nucleo essenziale come autonoma scelta di merito - effettuata all’esito di una ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici e quelli privati dell’interesse primario pubblico da perseguire in concreto.
In definitiva, la nuova disposizione normativa ha un ambito applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con la previgente definizione della modalità della condotta punibile, sottraendo al giudice penale tanto l’apprezzamento dell’inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare o subprimario, quanto il sindacato del mero "cattivo uso" -la violazione dei limiti interni nelle modalità di esercizio- della discrezionalità amministrativa
(tratto da www.neldiritto.it).
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SENTENZA
2. Tuttavia, la constatata estinzione del reato per prescrizione non esime questa Corte dall'esaminare la questione della rilevanza, nel caso in esame, della recente formulazione dell'art. 323 cod. pen., a seguito della novella introdotta dal d.l. 16.07.2020, n. 76, convertito dalla legge 11.09.2020, n. 120, che ha modificato il reato di abuso di ufficio, sostituendo le parole «di norme di legge o di regolamento» con quelle «di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità».
Premesso che la ragion d'essere della figura di reato delineata da una norma di chiusura, come l'art. 323 cod. pen., è ravvisata nell'obiettivo di tutelare i valori fondanti dell'azione della Pubblica Amministrazione, che l'art. 97 della Costituzione indica nel buon andamento e nella imparzialità, i nuovi elementi di fattispecie oggetto della violazione penalmente rilevante -introdotti dalla più recente riforma- sono costituiti dalle «specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità».
In luogo del generico richiamo della previgente disciplina alla indeterminata violazione «di norme di legge o di regolamento», si pretende oggi che la condotta produttiva di responsabilità penale del pubblico funzionario sia connotata, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, dalla violazione di regole cogenti per l'azione amministrativa, che per un verso siano fissate dalla legge (non rilevano dunque i regolamenti, né eventuali fonti subprimarie o secondarie) e per altro verso siano specificamente disegnate in termini completi e puntuali.
Di qui il lineare corollario della limitazione di responsabilità penale del pubblico funzionario, qualora le regole comportamentali gli consentano di agire in un contesto di discrezionalità amministrativa, anche tecnica: intesa, questa, nel suo nucleo essenziale come autonoma scelta di merito -effettuata all'esito di una ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici e quelli privati- dell'interesse primario pubblico da perseguire in concreto.
Beninteso: sempre che l'esercizio del potere discrezionale non trasmodi tuttavia in una vera e propria distorsione funzionale dai fini pubblici -c.d. sviamento di potere o violazione dei limiti esterni della discrezionalità- laddove risultino perseguiti, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, interessi oggettivamente difformi e collidenti con quelli per i quali soltanto il potere discrezionale è attribuito; oppure si sostanzi nell'alternativa modalità della condotta, rimasta penalmente rilevante, dell'inosservanza dell'obbligo di astensione in situazione di conflitto di interessi.
La nuova disposizione normativa ha dunque un ambito applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con la previgente definizione della modalità della condotta punibile, sottraendo al giudice penale tanto l'apprezzamento dell'inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare o subprimario (neppure secondo il classico schema della eterointegrazione, cioè della violazione "mediata" di norme di legge interposte), quanto il sindacato del mero "cattivo uso" -la violazione dei limiti interni nelle modalità di esercizio- della discrezionalità amministrativa.
3. La nuova formulazione della fattispecie dell'abuso di ufficio, restringendone l'ambito di operatività con riguardo al diverso atteggiarsi delle modalità della condotta, determina all'evidenza serie questioni di diritto intertemporale. In linea di principio, non può seriamente dubitarsi che si realizzi una parziale abolitio criminis in relazione ai fatti commessi prima dell'entrata in vigore della riforma, che non siano più riconducibili alla nuova versione dell'art. 323 cod. pen., siccome realizzati mediante violazione di norme regolamentari o di norme di legge generali e astratte, dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che comunque lascino residuare margini di discrezionalità.
Con il lineare corollario per cui all'abolizione del reato, ai sensi dell'art. 2, comma 2 cod. pen., consegue nei processi in corso il proscioglimento dell'imputato, con la formula "perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato" (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 08.01.2021 n. 442).

anno 2020

CONSIGLIERI COMUNALI: La Cassazione chiarisce la portata della riforma dell’abuso di ufficio, rilevandone l’ininfluenza sulla fattispecie di abuso per omessa astensione.
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di Cassazione, Sezione feriale, si è pronunciata in merito alla nuova formulazione della fattispecie di abuso di ufficio ad opera del Decreto Legge 16.07.2020, n. 76, poi convertito dalla Legge 11.09.2020, n. 120, il quale all’art. 323 c.p., primo comma, ha sostituito le parole “di norme di legge o di regolamento,” con quelle “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.
In particolare, la Corte ha rilevato che la riforma non ha inciso sulla seconda condotta punita dalla norma, la quale è rimasta invariata, vale a dire quella del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto.
Si riporta di seguito il ragionamento della Corte sul punto:
“(…) deve farsi un breve cenno alla modifica normativa dell’art. 323 cod. pen. introdotta di recente dal d.l. 16.07.2020, n. 76, (…) unicamente e solo per quanto serve ad evidenziarne la totale ininfluenza rispetto al caso qui in decisione (…).
Si tratta di una modifica che investe solo uno dei due segmenti di condotta che sono considerati rilevanti ai fini dell’integrazione del delitto di abuso d’ufficio che punisce con lo stesso trattamento sanzionatorio, accomunandone il relativo disvalore, sia la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che nello svolgimento delle funzioni o del servizio viola le norme di legge che ne disciplinano l’esercizio e sia quella, del medesimo soggetto qualificato, che ometta di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un proprio congiunto o negli altri casi prescritti.
Per effetto di tale modifica l’abuso di ufficio nella prima opzione, ovvero quello della violazione delle norme di legge che disciplinano lo svolgimento delle funzioni o del servizio, può essere ora integrato solo dalla violazione di ‘regole di condotta previste dalla legge o da atti aventi forza di legge’, cioè da fonti primarie, con esclusione dei regolamenti attuativi, e che abbiano, inoltre, un contenuto vincolante precettivo da cui non residui alcuna discrezionalità amministrativa.
Ma siffatta modifica, seppure di grande impatto ove non dovessero intervenire ulteriori modifiche in sede di conversione, e sebbene medio tempore abbia notevolmente ristretto l’ambito di rilevanza penale del delitto di abuso d’ufficio con inevitabili effetti di favore applicabili retroattivamente ai sensi dell’art. 2, comma 2 cod. pen., non esplica alcun effetto con riguardo al segmento di condotta che, in via alternativa rispetto al genus della violazione di legge, riguarda esclusivamente e più specificamente l’inosservanza dell’obbligo di astensione, rispetto al quale la fonte normativa della violazione è da individuarsi nella stessa norma penale salvo che per il rinvio agli altri casi prescritti, rispetto ai quali non pare ugualmente pertinente la limitazione alle fonti primarie di legge, trattandosi della violazione di un precetto vincolante già descritto dalla norma penale, sia pure attraverso il rinvio, ma solo per i casi diversi dalla presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto, ad altre fonti normative extra-penali che prescrivano lo stesso obbligo di astensione”
(commento tratto da www.giurisprudenzapenale.com).
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In via preliminare, deve farsi un breve cenno alla modifica normativa dell'art. 323 cod. pen. introdotta di recente dal d.l. 16.07.2020, n. 76, in attesa di conversione, ma unicamente e solo per quanto serve ad evidenziarne la totale ininfluenza rispetto al caso qui in decisione.
Per effetto di tale modifica, nel testo dell'art. 323 cod. pen. le parole "in violazione di norme di legge e di regolamento" sono state sostituite dalle seguenti: "in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità".
Si tratta di una modifica che investe solo uno dei due segmenti di condotta che sono considerati rilevanti ai fini dell'integrazione del delitto di abuso d'ufficio che punisce con lo stesso trattamento sanzionatorio, accomunandone il relativo disvalore, sia la condotta del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio che nello svolgimento delle funzioni o del servizio viola le norme di legge che ne disciplinano l'esercizio e sia quella, del medesimo soggetto qualificato, che ometta di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un proprio congiunto o negli altri casi prescritti.
Per effetto di tale modifica l'abuso di ufficio nella prima opzione, ovvero quello della violazione delle norme di legge che disciplinano lo svolgimento delle funzioni o del servizio, può essere ora integrato solo dalla violazione di "regole di condotta previste dalla legge o da atti aventi forza di legge", cioè da fonti primarie, con esclusione dei regolamenti attuativi, e che abbiano, inoltre, un contenuto vincolante precettivo da cui non residui alcuna discrezionalità amministrativa.
Ma siffatta modifica, seppure di grande impatto ove non dovessero intervenire ulteriori modifiche in sede di conversione, e sebbene medio tempore abbia notevolmente ristretto l'ambito di rilevanza penale del delitto di abuso d'ufficio con inevitabili effetti di favore applicabili retroattivamente ai sensi dell'art. 2, comma 2 cod. pen., non esplica alcun effetto con riguardo al segmento di condotta che, in via alternativa rispetto al genus della violazione di legge, riguarda esclusivamente e più specificamente l'inosservanza dell'obbligo di astensione, rispetto al quale la fonte normativa della violazione è da individuarsi nella stessa norma penale salvo che per il rinvio agli altri casi prescritti, rispetto ai quali non pare ugualmente pertinente la limitazione alle fonti primarie di legge, trattandosi della violazione di un precetto vincolante già descritto dalla norma penale, sia pure attraverso il rinvio, ma solo per i casi diversi dalla presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto, ad altre fonti normative extra-penali che prescrivano lo stesso obbligo di astensione.
Nel caso di specie, pertanto, vertendosi nell'ipotesi di un abuso di ufficio riferito alla specifica violazione dell'obbligo di astensione, la modifica normativa non produce alcun effetto, permanendo la rilevanza penale della condotta in esame anche rispetto alla violazione dell'art. 78 del T.U.E.L. oltre che del precetto contenuto nella stessa norma penale.
2. Passando ora, più nello specifico, all'esame dei motivi di ricorso si deve rilevare in quanto al primo motivo la manifesta infondatezza della dedotta violazione degli artt. 323 cod. pen. e 78 T.U.E.L., poiché entrambe le norme prevedono l'obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio nella decisione da assumere, sia pure con un diverso ambito applicativo di riferimento.
Più precisamente l'art. 323 cod. pen. nel descrivere la condotta del delitto di abuso d'ufficio stabilisce, con norma immediatamente precettiva, che vi è l'obbligo di astenersi per il soggetto attivo del reato, sia esso pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, "in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto", oltre poi a prevedere, "negli altri casi prescritti", il rinvio ad altre disposizioni normative extra-penali che impongano il medesimo obbligo.
L'art. 78, co. 2, T.U.E.L. prevede per gli amministratori -nella cui nozione rientrano anche il presidente del Consiglio comunale ed il sindaco per come specificato dall'art. 77, comma 2, del medesimo testo normativo- che gli stessi "devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado".
La stessa disposizione chiarisce e specifica, inoltre, che "L'obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado".
La questione circa l'erronea qualificazione come "mozione" anziché come "interrogazione" della istanza dei consiglieri di minoranza, sul rilievo che l'oggetto della decisione non rientrava nelle materie di competenza del Consiglio Comunale ma in quelle proprie della Giunta cui spettava ex art. 30 dello Statuto Comunale deliberare in materia di liti attive e passive, è manifestamente infondata oltre che irrilevante per le ragioni indicate tanto dal giudice di primo grado che dalla Corte di appello.
Il rilievo del ricorrente che l'art. 19 del regolamento consiliare espressamente stabilisce che la mozione implica "una proposta concreta di deliberazione inerente le materie proprie del Consiglio Comunale" è del tutto inconferente, atteso che, dalla ricostruzione dei verbali della seduta, è emerso pacificamente che la decisione su cui vedeva la mozione non era quella di deliberare la costituzione di parte civile del Comune interessato (pacificamente rimessa alla Giunta), ma la decisione della opportunità di dare un indirizzo politico alla decisione di competenza della Giunta, ovvero di sollecitarla a disporre la costituzione di parte civile, quindi una deliberazione di impulso delle decisioni di competenza della Giunta, che rientrava senza dubbio alcuno tra le attribuzioni del Consiglio Comunale che è per legge organo di indirizzo politico.
In ogni caso, come già evidenziato nella sentenza impugnata, la decisione sulla mozione, una volta ammessa all'ordine del giorno delle decisioni del Consiglio Comunale andava affrontata senza la partecipazione del sindaco, parte in causa, che avrebbe dovuto astenersi.
3. Manifestamente infondata è anche l'interpretazione invocata dal ricorrente che restringe l'ambito del dovere di astensione alle delibere relative ad atti "esterni", produttivi di effetti giuridici sulla sfera dei destinatari.
La normativa sopra richiamata (art. 78 TUEL), come correttamente rilevato dalla Corte di appello, riguarda ogni delibera con le sole eccezioni ivi indicate (delibere relative ad atti generali ed astratti).
Quindi, il sindaco, come parte direttamente e personalmente interessata dalla decisione relativa alla valutazione circa l'opportunità del Comune di costituirsi parte civile nel processo penale pendente a suo carico, doveva senz'altro astenersi dal partecipare alla seduta nel momento in cui veniva trattata la specifica mozione di minoranza messa all'ordine del giorno.
Come affermato ed accertato nel giudizio di merito, il De., anziché astenersi dal presiedere la seduta del consiglio, affidandone la direzione ad altri, ha utilizzato la sua posizione di presidente della seduta per interrompere ed impedire la discussione e la votazione della mozione, con ciò abusando dei relativi poteri connessi a detta veste pubblica.
Le altre questioni dedotte con riferimento alla natura politica della decisione da prendere e della sua inidoneità ad incidere sulla costituzione di parte civile, perché di spettanza di altro organo del Comune, sono palesemente irrilevanti, trattandosi di argomentazioni calibrate rispetto ad una fattispecie del tutto diversa da quella considerata nel giudizio di condanna e prima ancora nella imputazione contestata al ricorrente.
L'effetto di rilievo giuridico nella sfera dei destinatari oggetto dell'imputazione non è quello riguardante il sindaco, imputato nel processo in cui il Comune avrebbe dovuto costituirsi parte civile, e che poteva scaturire dalla decisione di competenza della Giunta (organo della maggioranza), ma quello prodotto dalla indebita attività svolta come presidente del Consiglio Comunale, che il sindaco ha proseguito a svolgere invece di astenersi, arrecando il danno ravvisato nell'impedire ai consiglieri di minoranza l'esercizio del diritto di mettere ai voti la loro mozione.
Quindi, il danno ingiusto prodotto dalla condotta illegittima del presidente del Consiglio Comunale, considerato rilevante ai fini dell'integrazione del delitto di abuso d'ufficio, prescinde totalmente nel caso in esame dalla decisione (ipotetica ed eventuale) circa la costituzione di parte civile del Comune.
In altre parole, per come coerentemente già evidenziato nel giudizio di merito, il danno ingiusto considerato nella imputazione non si correla alla mancata costituzione di parte civile nel processo penale a carico del sindaco, ma più semplicemente alla lesione delle prerogative della minoranza.
Giova, inoltre, rammentare per completezza che secondo la giurisprudenza consolidata di legittimità il reato di abuso di ufficio, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, è configurabile anche con riferimento ad atti del procedimento amministrativo privi di rilevanza esterna (come per i pareri anche non vincolanti), cui possono assimilarsi gli atti di mero impulso politico come quello rilevato nel caso di specie, essendo tali atti idonei ad arrecare un danno o un ingiusto profitto, attraverso il concorso nell'atto esterno.
Questa Corte di cassazione (Sez. 3, n. 16449 del 13/12/2016, Menna, Rv. 269820) ha già affermato che la fattispecie di abuso d'ufficio può essere integrata anche in riferimento ad un atto interno al procedimento amministrativo, non rilevando la circostanza che il provvedimento definitivo sia emesso da altro pubblico ufficiale (fattispecie relativa all'illegittimo rilascio di una autorizzazione per la realizzazione di un alloggio abitativo antisismico temporaneo, la cui istruttoria era stata illecitamente svolta da un professionista esterno che sostituiva il tecnico comunale, mentre il relativo titolo edilizio era stato emesso dal sindaco).
Ma si tratta, come già osservato, di una questione non pertinente al caso in esame. In questo caso il danno non si correla all'atto di indirizzo politico che è stato omesso, atteso che la mozione non è stata neppure messa ai voti.
Pertanto, non è pertinente al caso concreto neppure la questione della partecipazione al voto da parte del consigliere interessato personalmente dalla delibera che abbia prodotto l'effetto ingiusto a lui favorevole -ravvisato nel mancato impulso alla costituzione di parte civile del Comune nel processo a suo carico- perché l'evento-danno conseguente alla condotta illegittima del Sindaco che è oggetto del giudizio di responsabilità nel presente procedimento, è un altro, ed attiene alla decisione del presidente del consiglio comunale di sospendere la seduta e bloccare la decisione sulla mozione, quindi riguarda il danno arrecato attraverso la lesione dei diritti della minoranza, correlati alla presentazione della mozione ed alla conseguente legittima pretesa di iniziare e chiudere la discussione con la votazione finale.
Va anche osservato, avendone fatto cenno la difesa nel corso della discussione, che non è assolutamente pertinente al caso in esame neppure il condivisibile orientamento di legittimità (Sez. 6, n. 17628 del 12/02/2003, Pinto, Rv. 224683), che qui si ribadisce, secondo cui / perché si configuri il delitto di abuso di ufficio di cui all'art. 323 cod. pen., non è sufficiente che il pubblico ufficiale abbia emesso un atto violando il proprio dovere di astensione, ma è necessario che tale atto abbia arrecato o un indebito vantaggio patrimoniale o un ingiusto danno anche non di carattere patrimoniale; poiché, se l'atto è invece conforme al trattamento riservato a tutte le altre istanze di identico contenuto presentate dagli altri cittadini, esso non è idoneo a configurare l'illecito nonostante la violazione dell'obbligo di astensione (fattispecie relativa al Sindaco che in violazione al dovere di astensione riconosceva all'istanza di sospensione di pagamento presentata dalla moglie l'esenzione dall'imposta di bollo conformemente a tutte le altre istanze presentate da altri cittadini).
Orientamento che è stato di recente ribadito (Sez. 6, n. 12075 del 06/02/2020, Stefanelli, Rv. 278723) con riferimento al caso di un sindaco che aveva preso parte alla delibera di giunta di riconoscimento di un debito fuori bilancio in favore di un'impresa, dalla quale era stato convenuto in giudizio, ai sensi dell'art. 191 T.U.E.L., per il soddisfacimento di un credito derivante dall'effettiva esecuzione di lavori pubblici, risultati utili per il comune.
Nel caso in esame è, invece, evidente come alla violazione dell'obbligo di astensione abbia fatto seguito anche l'ingiustizia del danno arrecato, attraverso l'indebito esercizio del potere di sospendere la seduta del consiglio, impedendo in tal modo che i consiglieri di minoranza potessero discutere prima e poi votare la mozione ritualmente messa all'ordine del giorno nel corso di quella medesima seduta.
4. Manifestamente infondato, per quanto già detto, è anche il secondo ordine di motivi in merito al requisito della c.d. doppia ingiustizia, che il ricorrente ha posto al centro delle proprie censure sempre riproponendo il medesimo argomento correlato alla negazione della violazione dell'obbligo di astensione sulla base dell'erroneo rilievo che la decisione sollecitata dalle minoranze (la costituzione di parte civile del Comune) non rientrasse nelle materie di competenza del consiglio comunale.
La compressione dei diritti della minoranza costituisce, invece, per come già sopra illustrato, la ulteriore violazione che connota come "ingiusto" il danno arrecato ai consiglieri che avevano richiesto ed ottenuto che la questione venisse discussa e votata dal consiglio comunale nel rispetto delle forme che disciplinano l'istituto della mozione.
In particolare il presidente, sospendendo la discussione in violazione della norma regolamentare consiliare (nella sentenza impugnata si indica l'art. 19 del regolamento del consiglio comunale che disciplina la mozione e che prevede che la mozione debba essere messa ai voti e discussa entro trenta giorni), ha cagionato l'ingiusto evento costituito dal mancato svolgimento della discussione e della votazione della predetta mozione.
In merito al profilo della censura che investe la ricostruzione del fatto, si osserva che il dedotto vizio della motivazione per travisamento del fatto è articolato in modo palesemente inammissibile.
La circostanza che l'interruzione della seduta sia stata determinata dal comportamento antigiuridico tenuto dal sindaco che, a fronte delle legittime rimostranze dei consiglieri di minoranza rispetto al suo obbligo di astenersi, ha reagito togliendo loro la parola e provocando le loro legittime proteste poi confluite nello scioglimento della seduta, è stata affermata concordemente nei due gradi di giudizio sulla base della complessiva valutazione delle testimonianze assunte, rispetto alle quali il ricorrente ha contrapposto la ricostruzione di parte seguita dai testi a discarico (in particolare i testi Mo., Ve. e Se.), alla quale non è stato dato motivatamente credito, essendo stata ritenuta più coerente allo svolgimento dei fatti la ricostruzione della seduta fornita dagli altri testi escussi, tenuto conto della evidente e manifesta violazione in cui era incorso il sindaco non astenendosi dal presiedere la seduta di quel consiglio comunale (i testi Mu., St., Sa., Fa.) .
La tesi dell'interruzione imposta dalle intemperanze dei consiglieri di minoranza è stata quindi ritenuta non plausibile a fronte della situazione di conflitto di interesse che avrebbe imposto al sindaco di astenersi e che ha trovato riscontro nell'annullamento da parte del TAR Sardegna della sanzione dell'interdizione a partecipare ai lavori del consiglio comunale che il De., in qualità di presidente del Consiglio Comunale, aveva applicato al consigliere di minoranza St. in relazione a quanto accaduto nel corso della seduta del 15/10/2012 (Corte di Cassazione, Sez. feriale penale, sentenza 17.11.2020 n. 32174).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Natura di atti amministrativi generali dei piani urbanistici – Esonero dal pagamento degli oneri di costruzione – Abuso di ufficio in atti di ufficio nella disciplina urbanistica – Ultrattività del piano attuativo scaduto – Vantaggio patrimoniale per il privato – Accordo collusivo tra il pubblico ufficiale e i privati – Art. 323 cod. pen. – Artt. 19, 28-bis d.P.R. n. 380/2001.
I piani urbanistici non rientrano nella categoria dei regolamenti, come ritenuto da risalente e superato orientamento giurisprudenziale, che nel mutato quadro normativo escluderebbe la fattispecie di abuso in atti di ufficio, ma in quella degli atti amministrativi generali la cui violazione, in conformità dell’indirizzo ermeneutico consolidato, rappresenta solo il presupposto di fatto della violazione della normativa legale in materia urbanistica (art. 12 e 13 del d.P.R. n. 380 del 2001), normativa a cui deve farsi riferimento, per ritenere concretata la “violazione di legge”, quale dato strutturale della fattispecie delittuosa ex art. 323 cod. pen. anche seguito della modifica normativa.
Da cui la conferma della sussunzione del caso concreto nella fattispecie normativa di cui all’art. 323 cod. pen. ora vigente.
Trattasi senza dubbio di norme specifiche e per le quali non residuano margini di discrezionalità laddove l’art. 12 d.P.R. n. 380/2001 detta i requisiti di legittimità del permesso a costruire, e il successivo art 13 d.P.R. n. 380/2001, detta la disciplina urbanistica che il dirigente del settore è tenuto a rispettare nel rilascio del permesso a costruire.

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Rilascio di permessi edilizi illegittimi – PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Abuso in atti di ufficio – Configurabilità del reato ex art. 323 cod. pen..
La configurazione del reato di abuso in atti di ufficio si integra nel caso di rilascio di permessi edilizi illegittimi, la violazione di legge è integrata dall’inosservanza dell’art. 12 del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo cui il permesso a costruire, quale atto non discrezionale, è rilasciato in conformità alle previsioni urbanistiche, ai regolamenti edilizi e alla disciplina urbanistica che il dirigente del settore è tenuto a rispettare ai sensi del successivo art. 13 d.P.R. n. 380/2001.
Inoltre, il permesso di costruire, per essere legittimo, deve conformarsi –ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 12, comma 1, –“alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico– edilizia vigente”.
Dall’espresso rinvio della norma agli strumenti urbanistici discende che il titolo abilitativo edilizio rilasciato senza rispetto del piano regolatore e degli altri strumenti urbanistici integra, una “violazione di legge”, rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 323 cod. pen.
La clausola di riserva contenuta nell’art. 323 cod. pen., non opera, quando ricorrono i presupposti del concorso materiale del reato di abuso in atti di ufficio e del reato di falso.

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Piano di lottizzazione o altro piano particolareggiato – Termine stabilito per l’esecuzione – Conseguenze della scadenza dell’efficacia.
In materia urbanistica, decorso il termine stabilito per l’esecuzione del piano di lottizzazione o altro piano particolareggiato, questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l’obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso, con la precisazione che da ciò discende che:
   a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata, le medesime previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato e, col decorso del termine (di dieci anni, per il piano particolareggiato di cui si discute), diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del p.r.g. e con le prescrizioni del piano attuativo (anche sugli allineamenti), che solo per questa parte ha efficacia ultrattiva;
   b) il termine di efficacia di 10 anni deve intendersi riferito all’esecuzione delle previste opere di urbanizzazione che devono essere realizzate entro tale termine; viceversa per la realizzazione delle costruzioni dei fabbricati trovano applicazione i termini previsti nei relativi titoli edilizi, fermo restando che poiché, in generale, il termine di efficacia dei piani attuativi, compresi i piani di lottizzazione, è di 10 anni, i titoli edilizi andranno richiesti e ottenuti entro tale termine, dato che, una volta che esso sia decorso, il piano decade per la parte rimasta inattuata rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l’obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso;
   c) le conseguenze della scadenza dell’efficacia del piano di lottizzazione si esauriscono pertanto nell’ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi;
   d) una volta scaduto il termine, l’autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova pianificazione urbanistica di dettaglio

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SENTENZA
5. Venendo al merito, l’ordinanza impugnata poggia su un apparato argomentativo pienamente esaustivo, fondato sulle emergenze processuali e corretto in diritto.
Quanto alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in relazione al reato di abuso in atti di ufficio (capo 1, 4 e 7), in concorso con il pubblico ufficiale Sp., in relazione al rilascio dei tre permessi a costruire, avvenuto in violazione di legge (vedi supra par. 1.1.), l’ordinanza impugnata ha ritenuto dimostrato:
   1) un accordo collusivo tra il pubblico ufficiale e i privati o, quantomeno, una situazione di asservimento del pubblico ufficiale Sp. piegato a garantire gli interessi economici del gruppo Ba., sul rilievo che il pubblico ufficiale si era prodigato per rilasciare, con anomala celerità in quanto l’iter amministrativo non era stato ancora completato, un permesso a costruire, consegnato nelle mani del Ca., per impedire il sequestro dell’area, sulla quale erano in corso lavori in assenza di permesso a costruire, mentre era in corso un sopralluogo della polizia municipale la mattina del 03.04.2017;
   2) la violazione di legge, segnatamente l’art. 12 del d.P.R. n. 380 del 2001, per avere rilasciato, lo Sp., i tre permessi a costruire in assenza di pianificazione urbanistica di attuazione richiesta per gli interventi di completamento dell’interporto, perché il piano particolareggiato, adottato il 02.04.1996, a seguito dell’Accordo di programma n. 14555 del 2006, determinante variante al piano regolatore generale, risultava inefficace dal 2016, per decorso del termine decennale di vigenza e non essendo intervenuta altra pianificazione urbanistica, non potendosi ritenere che la dichiarazione del Commissario Straordinario n. 230 del 2016 avesse natura di provvedimento, avendo la stessa natura di dichiarazione di scienza, sicché la convenzione ex art. 28-bis cit., fondata su tale presupposto, non era valido titolo edilizio. Inoltre era accertata la violazione dell’art. 19 comma 2 cit. atteso l’esonero dal pagamento degli oneri di costruzione di cui all’art. 19 cit., nonché dell’art. 9 comma 2, medesimo decreto, che pone limiti all’edificazione delle c.d. zone bianche interessate dall’assenza di strumenti attuativi;
   3) il vantaggio patrimoniale per il privato Barletta consistito nell’accrescimento della situazione giuridica di questi che si concretizzava nel rilascio dei permessi a costruire, da cui il conseguente profitto economico derivante dalla successiva realizzazione delle opere edilizie e la correlata ingiustizia della condotta in quanto connotata da violazione di legge integranti la c.d. doppia ingiustizia necessaria ai fini dell’integrazione del reato di abuso d’ufficio.
5.2. Ciò premesso, la censura (secondo motivo) svolta dalla difesa dei ricorrenti che si appunta sull’interpretazione della dichiarazione del Commissario Straordinario n. 230 del 2016 sulla scorta della quale, la difesa ha argomentato che i premessi a costruire erano stati rilasciati in presenza di pianificazione particolareggiata, sicché era destituita di fondamento l’impostazione accusatoria di rilascio di permessi a costruire in assenza di programmazione urbanistica, non ha pregio e si rivela infondata.
L’ordinanza impugnata dà atto che dalle stesse dichiarazioni del dott. Re., Commissario straordinario del Comune di Ma., era dimostrata la natura di dichiarazione di scienza della suddetta delibera n. 230 del 2016, evidenziando che si trattava di un mero atto di indirizzo politico che rimetteva la decisione al futuro Consiglio Comunale di Ma. (che poi non l’approvò), non avendo alcuna natura decisoria valevole quale atto di programmazione urbanistica, presupposto per il successivo rilascio dei permessi a costruire (cfr. pag. 13 e ss.). Ogni diversa lettura dell’atto in questione, in presenza di congrua e non illogica motivazione non è sindacabile in questa sede.
5.3. La difesa ha poi percorso la via interpretativa, espressa da una giurisprudenza amministrativa, secondo la quale l’art. 17 della legge n. 1150 del 1942 consentirebbe l’ultrattività del piano particolareggiato scaduto fino all’approvazione di un nuovo strumento urbanistico che disciplini le aree in esso incluse ed ha dedotto la violazione di legge.
Tale interpretazione non è condivisa dal Collegio e dalle più recenti pronunce del giudice amministrativo.
Secondo la più recente giurisprudenza amministrativa (cfr. da ultimo sentenza TAR Lombardia, Milano, Sezione Quarta, n. 2001 del 17.08.2018; TAR Lazio Roma, sez. II, 01/04/2015, n. 4920; Cons. Stato, Sez. V, 30.04.2009, n. 2768; Sez. IV, 27.10.2009, n. 6572), decorso il termine stabilito per l’esecuzione del piano di lottizzazione o altro piano particolareggiato, questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l’obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso, con la precisazione che da ciò discende che:
   a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata, le medesime previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato e, col decorso del termine (di dieci anni, per il piano particolareggiato di cui si discute), diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del p.r.g. e con le prescrizioni del piano attuativo (anche sugli allineamenti), che solo per questa parte ha efficacia ultrattiva (Tar Abruzzo L’Aquila, sez. I, 20/11/2014, n. 810; Cons. Stato, n. 2768 del 2009 e n. 6170 del 2007; Campania, Salerno, n. 522 del 2014);
   b) il termine di efficacia di 10 anni deve intendersi riferito all’esecuzione delle previste opere di urbanizzazione che devono essere realizzate entro tale termine; viceversa per la realizzazione delle costruzioni dei fabbricati trovano applicazione i termini previsti nei relativi titoli edilizi, fermo restando che poiché, in generale, il termine di efficacia dei piani attuativi, compresi i piani di lottizzazione, è di 10 anni, i titoli edilizi andranno richiesti e ottenuti entro tale termine, dato che, una volta che esso sia decorso, il piano decade per la parte rimasta inattuata rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l’obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso (cfr. TAR Lazio Latina, sez. I, 26/04/2018, n. 226;
   c) le conseguenze della scadenza dell’efficacia del piano di lottizzazione si esauriscono pertanto nell’ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi (cfr. in particolare, TAR Lazio Roma, sez. II, 01/04/2015, n. 4920), d) una volta scaduto il termine, l’autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova pianificazione urbanistica di dettaglio.
5.4. Con riferimento al caso in esame, l’ordinanza impugnata sul rilievo che era decorso il termine decennale, che l’autorità competente (Comune di Marcianise) non aveva esercitato il potere di dare nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate del P.U.P., che la Delibera del Commissario del 2016 non aveva natura di provvedimento quale “riassunzione di conformità al P.U.P.”, si da costituire presupposto per la conclusione della convenzione ex art. 28-bis cit. e per il rilascio dei permessi a costruire, ha ritenuto, del tutto correttamente, che i tre permessi a costruire erano stati rilasciati in assenza di pianificazione particolareggiata perché quella esistente aveva perso efficacia nel 2016.
Inoltre, nel caso in esame, era violata la disposizione di cui all’art. 9, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001, che pone specifici limiti di edificabilità delle c.d. zone bianche interessate dall’assenza di strumenti attuativi a seguito di perdita di efficacia per decorso del termine decennale, violazione neppure contestata dai ricorrenti.
5.5. Né può essere richiamata la sentenza di questa III Sez. n. 38555 del 2015, citata nel ricorso poiché, in quel caso, l’ultrattività della previsione di una lottizzazione divenuta priva di efficacia per decorso del tempo, era conseguente alla circostanza che le previsioni di questa erano state recepite nello strumento urbanistico del Comune di Arzachena, situazione all’evidenza del tutto diversa dal caso in scrutinio nel quale i provvedimenti autorizzatori erano stati rilasciati in assenza di piano attuativo decaduto e l’autorità amministrativa non aveva esercitato il potere di dare un nuovo assetto il territorio.
5.6. Va poi, per completezza, rilevato che secondo la costante giurisprudenza di legittimità in relazione alla configurazione del reato di abuso in atti di ufficio nel caso di rilascio di permessi edilizi illegittimi, la violazione di legge è integrata dall’inosservanza dell’art. 12 del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo cui il permesso a costruire, quale atto non discrezionale, è rilasciato in conformità alle previsioni urbanistiche, ai regolamenti edilizi e alla disciplina urbanistica che il dirigente del settore è tenuto a rispettare ai sensi del successivo art. 13 cit.
Quanto al delitto di abuso d’ufficio, condivide il Collegio, i principi espressi da Sez. 3, n. 39462 del 2012, secondo cui il permesso di costruire, per essere legittimo, deve conformarsi –ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 12, comma 1,– “alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico–edilizia vigente”.
Dall’espresso rinvio della norma agli strumenti urbanistici discende che il titolo abilitativo edilizio rilasciato senza rispetto del piano regolatore e degli altri strumenti urbanistici integra, una “violazione di legge”, rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 323 cod. pen. (Sez. 3, n. 39462 del 19/06/2012, Rullo, Rv. 254015 – 01, nello stesso senso Sez. 6, n. 11620 del 25/01/2007, Pellegrino, Rv. 236147 – 01).
Mentre, con riguardo altri elementi della fattispecie, deve rilevarsi che i ricorrenti non hanno svolto critiche censorie con riguardo al ritenuto accordo collusivo tra privati e pubblico ufficiale, né sull’esistenza dell’ingiusto profitto.
6. Osserva, infine, il Collegio che non assume rilievo, quanto al caso in esame, la modifica normativa all’art. 323 cod. pen. per effetto dell’art. 23 del d.l. 16.07.2020, n. 76, “Misure Urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale”, conv. con mod. nella legge 11.09.2020, n. 120, secondo cui all’art. 323 comma 1 cod. pen., le parole “di norme di legge o di regolamento,” sono sostituite dalle seguenti: “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.
Ora, la violazione di norme contenute nei regolamenti è esclusa dal perimetro della condotta di abuso, l’abuso potrà, infatti, essere integrato solo dalla violazione di “regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge”, cioè da fonti di rango primario.
Rileva, poi, la sola inosservanza di regole di condotta “specifiche” ed “espressamente previste” dalle citate fonti primarie.
Infine, si è previsto che rilevano solo regole di condotta “dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.
Senza ripercorre l’evoluzione giurisprudenziale che aveva generato un contrasto di giurisprudenza all’indomani della riforma del delitto di abuso in atti di ufficio a seguito della L. 16.07.1997, n. 234, contrasto successivamente appianato, l’orientamento consolidato di legittimità (vedi supra) ha, da tempo, affermato che il requisito della violazione di legge, rilevante ai fini della configurabilità del reato di abuso di ufficio, è integrato dalla conformità alle previsioni urbanistiche, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistica che il dirigente del settore è tenuto a rispettare ai sensi dell’art. 13 del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto il permesso di costruire, per essere legittimo, deve conformarsi –ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 12, comma 1,– “alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico–edilizia vigente”.
Dall’espresso rinvio della norma agli strumenti urbanistici discende che il titolo abilitativo edilizio rilasciato senza rispetto del piano regolatore e degli altri strumenti urbanistici integra, una “violazione di legge”, rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 323 cod. pen.
Ritiene il Collegio che l’interpretazione della nozione di “violazione di legge” come delineata dalla citata giurisprudenza sia pienamente condivisibile anche nel mutato quadro normativo.
Segnatamente, seguendo quell’elaborazione giurisprudenziale che il Collegio condivide, deve ribadirsi che i piani urbanistici non rientrano nella categoria dei regolamenti, come ritenuto da risalente e superato orientamento giurisprudenziale, che nel mutato quadro normativo escluderebbe la fattispecie di abuso in atti di ufficio, ma in quella degli atti amministrativi generali la cui violazione, in conformità dell’indirizzo ermeneutico consolidato, rappresenta solo il presupposto di fatto della violazione della normativa legale in materia urbanistica (art. 12 e 13 del d.P.R. n. 380 del 2001) (Sez. 6, n. 11620 del 25/01/2007, Pellegrino, Rv. 236147 – 01), normativa a cui deve farsi riferimento, per ritenere concretata la “violazione di legge”, quale dato strutturale della fattispecie delittuosa ex art. 323 cod. pen. anche seguito della modifica normativa.
Da cui la conferma della sussunzione del caso concreto nella fattispecie normativa di cui all’art. 323 cod. pen. ora vigente. Trattasi senza dubbio di norme specifiche e per le quali non residuano margini di discrezionalità laddove l’art. 12 cit. detta i requisiti di legittimità del permesso a costruire, e il successivo art 13 cit., detta la disciplina urbanistica che il dirigente del settore è tenuto a rispettare nel rilascio del permesso a costruire.
7. Deve rilevarsi la genericità della censura svolta con riguardo al reato di falso, non contenendo i ricorsi, al di là del generico riferimento dell’intitolazione del motivo, alcuna critica specifica all’ordinanza impugnata, mentre, con riguardo al profilo della ricorrenza della clausola di riserva contenuta nell’art. 323 cod. pen., essa non opera, ricorrendo il concorso materiale del reato di abuso in atti di ufficio e del reato di falso, poiché nel caso in esame sono contestate condotte ulteriori e che non si esauriscono nel reato di falso e segnatamente l’esonero dal pagamento degli oneri di costruzione di cui all’art. 19 del d.p.r. 380 del 2001, dovendosi escludere il concorso formale tra il delitto di abuso in atti di ufficio solo quando la condotta addebitata, quale condotta di abuso in atti di ufficio, si esaurisce nella commissione di un reato di falso (Sez. 6, n. 13849 del 28/02/2017, Rv. 269482 – 01).
In altri termini, la condotta addebitata ai ricorrenti, in concorso con Sp., pubblico ufficiale, a titolo di abuso di ufficio non si esaurisce, nelle sue componenti storico-naturalistiche, nella commissione di un fatto qualificabile come falso in atto pubblico.
Consegue, che non è ravvisabile alcuna violazione del principio del ne bis in idem per evidente diversità del fatto naturalistico (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.09.2020 n. 26834 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGOFunzionari pubblici più liberi. Addio (in parte) all’abuso d’ufficio. Discrezionalità estesa. Le modifiche previste dal dl 76/2020 convertito in legge. Obiettivo: sbloccare lavori e spese.
Il pubblico funzionario che agisce in violazione di regolamenti della pubblica amministrazione non commette abuso d'ufficio. E, nel caso risulti già indagato, imputato o addirittura condannato in sede penale per tale condotta, l'Autorità giudiziaria dovrà procedere all'archiviazione del procedimento, al proscioglimento dell'imputato, o alla revoca della sentenza di condanna.
Dl semplificazioni e abuso d'ufficio. Il dl 16/07/2020, n. 76 («Misure urgenti per la semplificazione e l'innovazione digitale»), c.d. decreto Semplificazioni, convertito in legge il 10 settembre con modificazioni, è intervenuto anche sulla responsabilità penale degli amministratori pubblici, attraverso la modifica della disciplina dell'abuso d'ufficio, reato previsto e punito dall'art. 323 del codice penale.
La fattispecie richiamata, inserita all'interno del codice penale tra i delitti contro la p.a., è finalizzata a tutelare, in coerenza ai principi enunciati dalla Costituzione (art. 97, comma 2), il corretto funzionamento della pubblica amministrazione, in termini di buon andamento, imparzialità e trasparenza della stessa.
L'abuso d'ufficio prima del dl semplificazioni. Prima della riforma intervenuta con il dl Semplificazioni, l'articolo 323 c.p. puniva, con la reclusione da uno a quattro anni, «il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto». In caso di rilevante gravità del vantaggio o del danno, inoltre, era previsto un aumento della pena detentiva.
Il «nuovo» abuso d'ufficio. La nuova formulazione della norma ha cambiato la struttura stessa della fattispecie di reato: da un lato, infatti, il legislatore ha soppresso la locuzione «in violazione di norme di legge o di regolamento», dall'altro, ha previsto la sanzione penale nei confronti del pubblico funzionario che agisce in «violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità».
La restante parte dell'articolo non ha subito, invece, ulteriori integrazioni e il testo è rimasto invariato.
Parziale abolizione del reato. L'intervento normativo apportato dal dl Semplificazioni ha abolito, innanzitutto, la rilevanza penale delle condotte con cui il soggetto pubblico, agendo in violazione di norme contenute nei regolamenti che spesso vengono adottati all'interno della P.a., ha ottenuto un ingiusto vantaggio patrimoniale.
In ordine alla parziale abolitio criminis dell'abuso d'ufficio, non vanno dimenticate anche le inevitabili ripercussioni sui fatti commessi prima dell'entrata in vigore del dl Semplificazioni. Sul punto, il nostro ordinamento prevede che «nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali» (art. 2, codice penale).
Ciò significa, in concreto, che ogni procedimento penale, pendente o già definito con provvedimento irrevocabile di condanna, avente per oggetto fatti di abuso d'ufficio privi di attuale rilevanza penale, deve concludersi con pronuncia favorevole nei confronti del pubblico funzionario coinvolto.
Condotta penalmente rilevante. Il nuovo ambito di applicazione dell'abuso d'ufficio, dunque, comprende, ora, le violazioni di «specifiche regole di condotta» che devono essere necessariamente previste dalla legge, o da atti aventi forza di legge (più precisamente, da fonti primarie e non secondarie, ove si collocano invece le misure regolamentari).
La discrezionalità. Ai fini della contestazione dell'art. 323 c.p., le regole di condotta eventualmente violate non devono consentire, durante la fase applicativa, l'esercizio di un potere discrezionale da parte del pubblico amministratore, aspetto che rischia di accentuare i profili critici dell'attuale figura di reato.
In altre e più chiare parole, la previsione dei c.d. «margini di discrezionalità» evocata dalla norma, rischia di estendere eccessivamente il campo d'azione del pubblico funzionario e di neutralizzare, così, la potenziale rilevanza penale anche di quelle condotte che presentano indubbie connotazioni illecite.
L'impostazione di fondo. Le ragioni di una modifica normativa così radicale, intervenuta sul delicato versante della responsabilità penale degli appartenenti alla pubblica amministrazione (seppur limitata, ovviamente, alla sola fattispecie di abuso d'ufficio), possono facilmente individuarsi nelle finalità che hanno condotto ad una decretazione d'urgenza che fosse dotata, nella prospettiva del legislatore, di tutti gli strumenti necessari per affrontare la situazione di grave crisi economica determinata dalle diverse misure emergenziali degli ultimi mesi.
Il legislatore, ritenuta la «straordinaria necessità e urgenza di realizzare un'accelerazione degli investimenti e delle infrastrutture attraverso la semplificazione delle procedure in materia di contratti pubblici e di edilizia» (premesse al dl), ha voluto procedere, in via parallela, alla «semplificazione in materia di responsabilità del personale delle amministrazioni» non solo sul piano penale, ma anche su quello erariale, con il dichiarato obiettivo di incentivare l'operatività della pubblica amministrazione, garantendo l'assenza (o, comunque, il forte contenimento) di diversi profili di responsabilità in capo alla stessa.
L'impostazione legislativa è insomma quella riassunta in alcune slide diffuse dalla presidenza del consiglio: «funzionari pubblici: basta paure conviene sbloccare» e «stop alla paura della firma: i funzionari pubblici devono poter sbloccare lavori e spese».
La responsabilità erariale. Il dl 16/07/2020, nella prospettiva di contenere, il più possibile, i rischi correlati alle diverse forme di responsabilità in capo alla pubblica amministrazione, è intervenuto non solo in ambito penale, con la nuova strutturazione dell'art. 323, c.p. (abuso d'ufficio), ma ha previsto una serie di rilevanti modifiche anche in tema di responsabilità per danno erariale.
In particolare, i principali interventi hanno riguardato proprio l'art. 1 della legge n. 20/1994 («Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti»), secondo cui «la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave, ferma restando l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali».
Prova del dolo. Il decreto legge, innanzitutto, ha inserito, all'art. 1 della legge n. 20/1994, la precisazione che «la prova del dolo richiede la dimostrazione della volontà dell'evento dannoso». Sul punto, non si può negare come l'accertamento del dolo, nei termini indicati dalla nuova disposizione, potrebbe risultare molto complesso, considerati anche alcuni orientamenti della giurisprudenza contabile.
Colpa grave. La seconda modifica, rilevante anche se di carattere transitorio, riguarda invece la soppressione della responsabilità per colpa grave con riferimento ai fatti commessi dall'entrata in vigore del dl Semplificazioni (16/07/2020) fino al 31/12/2021. Tale limitazione di responsabilità, definita da alcuni commentatori un vero e proprio «scudo erariale», non si applica, invece, ai danni cagionati dall'omissione o dall'inerzia del soggetto agente.
Finalità della nuova responsabilità erariale. La nuova disciplina della responsabilità per danno erariale, figlia della medesima impostazione che ha orientato la modifica del delitto di abuso d'ufficio, conferma, quindi, la volontà del legislatore di creare, con tutti i rischi e le criticità del caso, un ampio spazio operativo per la pubblica amministrazione (articolo ItaliaOggi Sette del 14.09.2020).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGOSussiste il fumus commissi delicti del reato di abuso d'ufficio e della contravvenzione urbanistica di costruzione sine titulo sul rilievo che il permesso di costruire debba ritenersi illecito e, dunque, tamquam non esset, per essere stato rilasciato in violazione di legge, quale frutto di collusione tra il richiedente ed il funzionario comunale che lo ha firmato, falsamente attestando la sussistenza dei presupposti, così procurando un ingiusto vantaggio patrimoniale al richiedente stesso, nell'ambito di una condotta illecita riconducibile ai delitti di cui all'art. 323 cod. pen. e di falso ideologico in autorizzazione amministrativa.
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1.2. Ciò premesso, osserva il Collegio che, a tacer d'altro (e il rilievo vale per il vizio di motivazione, non deducibile ex art. 325 cod. proc. pen., giusta quanto più oltre si dirà), le doglianze proposte dal ricorrente non inficiano la ratio decidendi che sorregge l'ordinanza impugnata.
Ed invero, il Tribunale ha confermato il fumus commissi delicti del reato di abuso d'ufficio e della contravvenzione urbanistica di costruzione sine titulo sul rilievo -non specificamente contestato dal ricorrente- che il permesso di costruire dovesse ritenersi illecito e, dunque, tamquam non esset, per essere stato rilasciato in violazione di legge, quale frutto di collusione tra i richiedenti ed il funzionario comunale che lo firmò, falsamente attestando la sussistenza dei presupposti, così procurando un ingiusto vantaggio patrimoniale alla società in allora proprietaria dell'area, nell'ambito di una condotta illecita riconducibile ai delitti di cui all'art. 323 cod. pen. e di falso ideologico in autorizzazione amministrativa.
Pacifica essendo, in tali casi, la configurabilità della contravvenzione urbanistica ipotizzata (cfr., ex multis, Sez. 6, n. 3606 del 20/10/2016, dep. 2017, Bonanno, Rv. 269345; Sez. 3, n. 7423 del 18/12/2014, dep. 2015, Cervino e aa Rv. 263916; Sez. 4, n. 38824 del 17/09/2008, Raso e a., Rv. 241064; Sez. 3, n. 38735 del 11/07/2003, Schrotter e aa., Rv. 226576; Sez. U, n. 3 del 31/01/1987, Giordano, Rv. 175115), quantomeno con riguardo a quest'ultima -ciò che è sufficiente a giustificare la misura cautelare disposta- correttamente il Tribunale ha ritenuto irrilevante indagare se la destinazione urbanistica dell'area stabilita dalle previsioni vigenti avrebbe egualmente potuto consentire il rilascio del titolo senza ricorrere a false attestazioni, come nella specie invece avvenuto, secondo la ricostruzione del giudice del merito cautelare.
Né rileva, ai fini della configurabilità del fumus commissi delicti, l'indagine sul profilo psicologico degli acquirenti del bene, trattandosi di tema evidentemente estraneo al giudizio sulla sussistenza del reato ad altri ascritto (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.08.2020 n. 23654).

PUBBLICO IMPIEGOAbuso d'ufficio: la semplificazione che complica (27.07.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

PUBBLICO IMPIEGO: La cosiddetta amministrazione difensiva non si combatte eliminando la colpa grave o il reato di abuso d'ufficio (31.05.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

INCARICHI PROGETTUALIAl progettista nonché direttore dei lavori, è stato contestato di avere falsamente attestato, nella dichiarazione allegata alla richiesta di agibilità, la conformità di opere edili di manutenzione straordinaria al progetto e alle successive varianti, l'avvenuta asciugatura dei muri e la salubrità degli ambienti.
Si tratta di condotta certamente qualificabile ai sensi dell'art. 481 cod. pen., in quanto tale attestazione, provenendo da soggetto qualificato, ha la funzione di fornire un'esatta informazione alla pubblica amministrazione (circa la conformità al progetto di quanto realizzato e la salubrità dei luoghi), pur non trattandosi di un'attestazione obbligatoriamente prevista dal procedimento amministrativo di riferimento, essendo comunque destinata a provare la verità di quanto in essa rappresentato, cosicché essa risulta destinata a svolgere la funzione certificativa (dello stato dei luoghi e della loro salubrità) richiesta dalla norma incriminatrice, con la conseguente correttezza della affermazione della configurabilità del delitto di falsità ideologica in certificato di cui all'art. 481 cod. pen..
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1. Con sentenza del 06.03.2019 la Corte d'appello di Trieste, provvedendo sulla impugnazione proposta dall'imputato nei confronti della sentenza del 27.05.2016 del Tribunale di Udine, con cui Gi.Po. era stato condannato alla pena di 300,00 euro di multa in relazione al reato di cui agli artt. 481 cod. pen., 76 d.P.R. 445/2000, 23 e 29 d.P.R. 380/2001 (ascrittogli per avere, quale progettista e direttore dei lavori, attestato, contrariamente al vero, la conformità di opere edilizie al progetto approvato e alle successive varianti), ha ridotto la pena a 200,00 euro di multa, ha revocato il beneficio della sospensione condizionale della pena e riconosciuto quello della non menzione della condanna, confermando nel resto la sentenza impugnata.
2. Avverso tale sentenza l'imputato ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi.
2.1. Con un primo motivo ha lamentato, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l'errata applicazione dell'art. 481 cod. pen., sulla base del rilievo che la attestazione sottoscritta dal ricorrente, di cui era stata contestata la falsità, non poteva essere qualificata come certificato, con la conseguente erronea affermazione della configurabilità del delitto di cui all'art. 481 cod. pen.
...
2. Il primo motivo, mediante il quale è stata denunciata l'errata applicazione dell'art. 481 cod. pen., a causa della affermazione della qualificabilità come certificato della attestazione sottoscritta dal ricorrente, non è fondato.
Va premesso che al ricorrente è stato contestato di avere, quale progettista e direttore dei lavori, falsamente attestato, nella dichiarazione allegata alla richiesta di agibilità, la conformità di opere edili di manutenzione straordinaria al progetto e alle successive varianti, l'avvenuta asciugatura dei muri e la salubrità degli ambienti: si tratta di condotta certamente qualificabile ai sensi dell'art. 481 cod. pen., in quanto tale attestazione, provenendo da soggetto qualificato, ha la funzione di fornire un'esatta informazione alla pubblica amministrazione (circa la conformità al progetto di quanto realizzato e la salubrità dei luoghi), pur non trattandosi di un'attestazione obbligatoriamente prevista dal procedimento amministrativo di riferimento, essendo comunque destinata a provare la verità di quanto in essa rappresentato (v. Sez. F, n. 39699 del 02/08/2018, Orlando, Rv. 273811; Sez. 3, n. 15228 del 31/01/2017, Cucino, Rv. 269579; Sez. 5, n. 39513 del 11/05/2012, Brentel, Rv. 253733), cosicché essa risulta destinata a svolgere la funzione certificativa (dello stato dei luoghi e della loro salubrità) richiesta dalla norma incriminatrice, con la conseguente correttezza della affermazione della configurabilità del delitto di falsità ideologica in certificato di cui all'art. 481 cod. pen. e l'insussistenza della violazione di tale disposizione lamentata dal ricorrente (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.01.2020 n. 3461).

anno 2019

PUBBLICO IMPIEGOL'assoluzione perché il fatto non costituisce reato non basta per rimborso delle spese legali.
Non è sufficiente per il dipendente pubblico che ambisca al rimborso delle spese legali, sostenute per la propria difesa in un processo penale, la formula contenuta nella sentenza assolutoria «perché il fatto non costituisce reato», nel caso in cui si è in presenza di una condotta asseritamente in contrasto con gli interessi dell'ente, ossia tutte le volte che il reato ipotizzato abbia visto l'ente come parte offesa. D'altra parte, il datore di lavoro pubblico per poter legittimamente procedere al rimborso, senza peraltro incorrere in una fattispecie di danno erariale, deve agire anche a tutela dei propri diritti e interessi.

Sono queste le conclusioni contenute nella sentenza 12.11.2019 n. 2709 del TAR Sicilia-Catania, Sez. I, che ha confermato il diniego del rimborso delle spese legali reclamate dal dipendente.
Il fatto
Un dipendente pubblico è stato assolto dal reato di abuso di ufficio con la formula «perché il fatto non costituisce reato». Ha quindi richiesto il rimborso delle spese legali sostenute nel procedimento penale in quanto si era in presenza di fatti inerenti a ragioni di servizio legate al rapporto di impiego con l'ente.
L'ente pubblico ha, tuttavia, denegato il rimborso poiché, malgrado l'avvenuta assoluzione del dipendente per carenza dell'elemento soggettivo del reato, è stata pur sempre riscontrata una condotta asseritamente in contrasto con gli interessi dell'ente.
Secondo l'ente, infatti, il dipendente avrebbe posto, in una selezione pubblica, condotte non coerenti con i canoni di legalità, imparzialità e buon andamento dell'azione della pubblica amministrazione, il cui rispetto è presupposto indispensabile del diritto al rimborso delle spese legali sostenute.
La conferma dei giudici amministrativi
Per il Tar, dalla sentenza di assoluzione del dipendente si rileva che, piuttosto che smentire, la stessa ha confermato, in capo al dipendente l'assenza di una partecipazione associativa al delitto, ma, nello stesso tempo, ha fatto emergere un evidente conflitto d'interessi nel quale il dipendente ha operato stante la consapevolezza di una oggettiva illegittimità della propria condotta.
D'altra parte, i giudici amministrativi hanno evidenziato come il datore di lavoro pubblico, per poter legittimamente procedere al rimborso, senza esporsi a possibili rilevi di danno erariale, deve agire anche a tutela dei propri diritti e interessi tanto che la normativa richiede di scegliere un legale di comune gradimento con il dipendente interessato.
In conclusione, nel caso di specie l'accusa era quella di aver commesso un reato che ha visto l'ente come parte offesa e, quindi, in oggettiva situazione di conflitto di interessi, con conseguente impossibilità a disporre il pagamento richiesto (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.12.2019).
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SENTENZA
8.- Ora, al fine di assumere maggiori elementi conoscitivi, il Collegio ha acquisito, con apposita ordinanza istruttoria, copia integrale della sentenza penale di cui trattasi dalla cui lettura ha tratto elementi di giudizio che inducono a ritenere sorrette da logicità e sufficiente supporto motivazionale le argomentazioni espresse nei pareri dell’Avvocatura dello Stato, ciò che induce a ritenere immune dalle censure prospettate l’operato -OMISSIS-.
9.- Ed invero, dalla medesima sentenza emerge come la condotta (tra gli altri) della ricorrente sia stata caratterizzata dall’aver concorso all’adozione di atti contra legem poiché manifestamente disallineati rispetto al decisum del Giudice amministrativo, il cui pronunciamento ha, di fatto, subito una torsione che ha realizzato, in danno -OMISSIS- interessi diversi da quelli alla cui tutela era preordinata la decisione giudiziaria.
L’affermazione dell’Amministrazione circa la sussistenza di un conflitto d’interessi della ricorrente con quelli -OMISSIS- si disvela, dunque, del tutto logica e coerente con l’incedere dell’ampia narrazione dei fatti espressi nella sentenza penale (alla quale per esigenze di sinteticità si rinvia), ciò che, su un piano astratto, pacificamente impedisce il riconoscimento, a carico della pubblica amministrazione–datore di lavoro, del beneficio del rimborso delle spese legali al dipendente pubblico.
L’assoluzione, a ben vedere, è maturata in un contesto processuale che, piuttosto che smentire, ha confermato, in capo alla parte ricorrente, l’assenza di una partecipazione associativa al delitto, ma, nello stesso tempo, un evidente conflitto d’interessi nel quale la stessa ha operato stante la consapevolezza di una oggettiva illegittimità della propria condotta, opposta a quella segnata dal decisum giurisdizionale amministrativo, rispetto all’interesse dell’Ente di appartenenza a una procedura selettiva corretta (in tal senso, ex aliis, cfr. Cons. giust. amm. sic. n. 606 del 2014).
Sul punto deve essere ulteriormente evidenziato che il datore di lavoro pubblico, per poter legittimamente procedere al rimborso (senza peraltro incorrere in una fattispecie di danno erariale) deve agire anche a tutela dei propri diritti ed interessi (tant’è che in talune ipotesi inerenti al pubblico impiego privatizzato la p.a. è chiamata a scegliere un legale di comune gradimento con il dipendente interessato), sicché in considerazione che nel caso di specie l'accusa era quella di aver commesso un reato che ha visto l’Università come parte offesa (e, quindi, in oggettiva situazione di conflitto di interessi), il diritto al rimborso non può che subire qui, sotto tale profilo, una radicale dequotazione.
10.- Ciò precisato, non può qui utilmente invocarsi l’evidenziato presunto difetto di competenza dell’Avvocatura dello Stato nell’aver esaminato «il merito» della vicenda procedimentale ai fini dell’espressione del parere di competenza: essa, nella valutazione della congruità delle somme richieste, non può prescindere dall’esame della sussistenza, in radice, dei presupposti per la relativa liquidabilità, qui correttamente ritenuti carenti, al di là di ogni precedente pronunciamento della stessa Avvocatura dello Stato, irrilevante in quanto non in linea con l’assetto fattuale della vicenda.
11.- Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso va rigettato.

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOREATI CONTRO LA PA/ Abuso d’ufficio per il sindaco che punisce lo zelo. Punito il comportamento ritorsivo contro un dipendente diligente.
Abuso d’ufficio per il sindaco che non rinnova l’incarico e nega l’indennità al responsabile di area come ritorsione per il suo zelo. E il reato -oltre alla valutabilità del danno il danno economico e professionale- scatta a prescindere dal diritto o meno del dipendente alla riconferma.
La colpa del funzionario era di aver agevolato l’accertamento della responsabilità contabile, poi esclusa, del primo cittadino e della giunta in merito ad alcune nomine, e nell’aver dato seguito, malgrado sconsigliato in maniera “pressante”, ad iniziative per presunti illeciti della polizia locale. Un comportamento virtuoso che gli era costato il rinnovo della nomina a responsabile dell’area vigilanza e le indennità: in pratica un demansionamento.
Per la Corte di Cassazione (Sez. VI penale, sentenza 23.05.2019 n. 22871), che avalla la linea della Corte d’Appello, il sindaco con le sue azioni ritorsive e discriminatorie, aveva prima di tutto violato la Costituzione. E, in particolare l’articolo a tutela del buon andamento e dell’imparzialità della Pa, e l’articolo , secondo il quale i cittadini a cui sono affidate funzioni pubbliche devono adempierle con disciplina e onore.
Una lettura che non era piaciuta al ricorrente, secondo il quale, la Corte di merito aveva valorizzato la Carta per il reato di abuso d’ufficio (articolo del Codice penale) anziché norme specifiche. Ad avviso della difesa, infatti, la Costituzione non ha un contenuto precettivo, mentre per contestare il reato sarebbe stato necessario individuare la violazione di una specifica disciplina.
La Cassazione condivide l’impostazione dei giudici di merito che, pur avendo analizzato le norme sul conferimento degli incarichi e sull’impiego pubblico, non le hanno messe al centro della loro decisione.
Chiarito che il demansionamento c’era stato perché non erano stati assecondati i desiderata del sindaco, il reato, e la conseguente valutabilità dei danni, ci sono, infatti, al di là del diritto al rinnovo dell’incarico e all’indennità. La Cassazione spiega che l’abuso d’ufficio «fa riferimento a una condotta che non è genericamente connotata da abuso, ma deve essere caratterizzata da violazione di norme di legge o di regolamento ovvero dall’omessa astensione».
Il legislatore ha voluto dunque delimitare con più precisione la sfera dell’illecito «in modo che non consentisse indebite interferenze nell’azione amministrativa e implicasse la chiara definizione dei canoni di riferimento». E non si può affermare che il riferimento alla legge non includa le fonti sovraordinate: prima fra tutte la Costituzione. In questo quadro pesa l’articolo , da valutare in sinergia con l’articolo , che impone di esercitare con disciplina e onore le funzioni pubbliche e ai pubblici ufficiali di assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’ amministrazione.
Solo in apparenza la Carta introduce canoni di carattere generale, in realtà le direttive hanno un immediato risvolto applicativo. È chiaro il rilievo dato all’inosservanza del principio di imparzialità che mette “fuori legge” ingiustificate preferenze, favoritismi e vessazioni intenzionali e discriminatorie (articolo Il Sole 24 Ore del 24.05.2019).
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La condotta evidenzia discriminazioni e ritorsioni.
Risponde del reato di abuso di ufficio il sindaco che discrimina e fa ritorsioni nei confronti del responsabile di un settore amministrativo dell'ente locale, non rinnovandogli l'incarico perché non ha seguito le sue indicazioni e procurandogli un danno connesso alla mancata corresponsione di indennità associate alla posizione e a un sostanziale demansionamento.

Così la Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 23.05.2019 n. 22871.
Il delitto di abuso d'ufficio nella formulazione che risulta dalle modifiche introdotte dalla legge 234/1997, fa riferimento a una condotta che non è genericamente connotata da abuso, ma deve essere caratterizzata da violazione di norme di legge o di regolamento ovvero dall'omessa astensione. Il legislatore ha voluto in questo modo delimitare con più precisione la sfera dell'illecito, circoscrivendolo entro un ambito che non consentisse indebite interferenze nell'azione amministrativa e implicasse la chiara definizione dei canoni esterni di riferimento.
Nel caso in esame è stato ravvisato il delitto di abuso di ufficio quando «la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge, poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l'attribuzione».
E nel contempo si comprende che sia stato dato rilievo all'inosservanza del principio costituzionale dell'imparzialità, che preclude ingiustificate preferenze o favoritismi ovvero intenzionali vessazioni o discriminazioni.
Ciò significa che l'articolo 323 del codice penale (reato di abuso di ufficio), pur non essendo di per sé riferibile alla violazione di norme poste da fonti diverse da quelle menzionate, tuttavia ricomprende la violazione di quei canoni costituzionali, che assumono precisa valenza e costituiscono la base stessa dell'esercizio dei pubblici uffici. Ne deriva, affermano i giudici di legittimità, che il riscontro del carattere discriminatorio e ritorsivo dell'azione amministrativa non vale solo a qualificare ab extrinseco il movente, ma rileva sul piano oggettivo, connotando il contenuto di tale azione e rendendo la condotta penalmente tipica.
Per la Cassazione è corretto il ragionamento dei giudici di merito, che hanno ravvisato l'illiceità della condotta del sindaco ricorrente proprio in ragione del suo contenuto discriminatorio e ritorsivo, contrastante non con evanescenti principi generali bensì con una precisa direttiva, sottostante all'azione di qualsiasi pubblico ufficiale, che implica l'osservanza della causa del potere assegnato e il rifiuto di qualsivoglia pregiudiziale discriminazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.05.2019).
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MASSIMA
2. Il secondo motivo è infondato.
2.1. Va in effetti rimarcato che la contestazione di cui al capo B), per la quale è stata pronunciata condanna, nel far riferimento al disposto dell'art. 97 Cost. e dell'art. 1, comma 1, legge 241 del 1990, intendeva far leva essenzialmente sul carattere discriminatorio e ritorsivo della condotta del ricorrente in danno del Sa., indicando in tale quadro alcuni elementi descrittivi, aventi lo scopo di corroborare tale assunto, costituiti dall'utilizzo di una motivazione apparente, dalla nomina di altro soggetto privo di diploma di laurea, in assenza di una procedura comparativa, dal contributo che era stato fornito dal Sa. per l'accertamento della responsabilità contabile del Sindaco e della Giunta per i fatti di cui all'originario capo A), dal fatto che il Sa. aveva contravvenuto alle espresse richieste del Sindaco di non dar corso ad iniziative per presunti illeciti commessi da agenti della Polizia locale.
La Corte ha sul punto condiviso l'impostazione del primo Giudice, che proprio sul carattere discriminatorio e ritorsivo della condotta in danno del Sa. ha fondato il proprio giudizio, nel quale non ha assunto un rilievo centrale il riferimento agli artt. 110 d.lgs. 267 del 2000 e 19 d.lgs. 165 del 2001, pur menzionati nel capo di imputazione.
2.2. Ciò posto, le doglianze del ricorrente non possono trovare accoglimento.
L'art. 323 cod. pen. nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dalla legge 234 del 1997, fa riferimento ad una condotta che non è genericamente connotata da abuso, ma deve essere caratterizzata da violazione di norme di legge o di regolamento ovvero dall'omessa astensione.
Il legislatore ha voluto in tal modo delimitare con più precisione la sfera dell'illecito, circoscrivendolo entro un ambito che non consentisse indebite interferenze nell'azione amministrativa e implicasse la chiara definizione dei canoni esterni di riferimento.
In tale prospettiva la violazione di legge o di regolamento non può che essere intesa come rappresentativa del superamento di quei canoni esterni, posti da fonti ben individuate.
D'altro canto non può in alcun modo affermarsi che il riferimento alla legge non includa altresì quello a fonti sovraordinate, prima di tutto la Carta fondamentale, cioè la Costituzione, ove parimenti in grado di definire in modo preciso i limiti dell'azione amministrativa.
Ed anzi deve al riguardo rimarcarsi come l'intera disciplina di tale azione debba essere collocata nell'ambito costituzionale, in relazione a precise direttive che dalla Costituzione possano desumersi sia sul versante della stretta correlazione tra il potere affidato e la fonte di esso sia su quello dell'effettivo svolgimento dell'azione amministrativa.
In tale quadro viene in evidenza l'art. 97 Cost., da valutare in sinergia con l'art. 54 Cost.: ed invero si desume da tali norme che
le funzioni pubbliche devono essere esercitate con disciplina ed onore e che i pubblici uffici devono essere organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione.
Solo in apparenza per tale via sono introdotti canoni di carattere generale, in quanto in realtà siffatte direttive contengono un immediato risvolto applicativo, imponendo da un lato il rispetto della causa di attribuzione del potere, in modo che lo stesso non sia esercitato al di fuori dei suoi presupposti, e dall'altro l'imparzialità dell'azione, la quale non deve essere contrassegnata da profili di discriminazione e ingiustizia manifesta, aspetti di per sé contrastanti con l'intero assetto costituzionale dei poteri amministrativi, come in concreto poi disciplinati dalla legge.
Ben si comprende su tali basi che sia stato ravvisato il delitto di abuso di ufficio quando «la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge, poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l'attribuzione» (Cass. Sez. U. n. 155 del 29/09/2011, dep. nel 2012, Rossi, rv. 251498; Cass. Sez. 6, n. 27816 del 02/04/2015, Di Febo, rv. 263932).
E nel contempo
si comprende che sia stato dato rilievo all'inosservanza del principio costituzionale dell'imparzialità, che preclude ingiustificate preferenze o favoritismi ovvero intenzionali vessazioni o discriminazioni (Cass. Sez. 6, n. 49549 del 12/06/2018, Laimer, rv. 274225; Cass. Sez. 2, n. 46096 del 27/10/2015, Giorgino, rv. 265464).
Ciò significa che
l'art. 323 cod. pen., pur non essendo di per sé riferibile alla violazione di norme poste da fonti diverse da quelle menzionate, tuttavia ricomprende la violazione di quei canoni costituzionali, che assumono precisa valenza e costituiscono la base stessa dell'esercizio dei pubblici uffici.
Ne deriva che
il riscontro del carattere discriminatorio e ritorsivo dell'azione amministrativa non vale solo a qualificare ab extrinseco il movente, ma rileva sul piano oggettivo, connotando il contenuto di tale azione e rendendo la condotta penalmente tipica.
2.3. Ed allora
deve rilevarsi la correttezza del ragionamento dei Giudici di merito, che hanno ravvisato l'illiceità della condotta del ricorrente proprio in ragione del suo contenuto discriminatorio e ritorsivo, contrastante non con evanescenti principi generali bensì con una precisa direttiva, sottostante all'azione di qualsiasi pubblico ufficiale, implicante l'osservanza della causa del potere assegnato e il rifiuto di qualsivoglia pregiudiziale discriminazione.
In particolare, anche sulla scorta di quanto rilevato dal Giudice del lavoro nel provvedimento del 15/10/2014, è stato osservato:
   - che
l'apertura del procedimento per il mancato rinnovo al Sa. dell'incarico di Responsabile dell'Area Vigilanza era stato caratterizzato da motivazioni (riferite alla necessità di rotazione per ragioni di prevenzione della corruzione) del tutto pretestuose, prive di qualsivoglia riscontro e intrinsecamente contraddittorie rispetto a quanto in diversa occasione rilevato;
   - che
il Sa. si era per contro distinto nel propiziare l'accertamento della responsabilità erariale del Sindaco e della Giunta nella vicenda della nomina di Ci.Ro. (oggetto dell'originario capo A) e nel contravvenire ai pressanti suggerimenti del Sindaco di non dar corso ad iniziative riguardanti presunti illeciti addebitabili all'agente Ch.;
   - che
al momento di procedere alla nomina del nuovo Responsabile dell'Area Sicurezza, il Sindaco aveva del tutto omesso di procedere ad una valutazione comparativa, assegnando l'incarico a Qu.Lu. appena transitato in mobilità nel ruolo del Comune, ma sprovvisto del diploma di laurea, e ponendo il Sa. in posizione addirittura subordinata a colui che era stato il suo vice;
   - che
la richiesta di assegnazione di un'indennità di coordinamento o di maggiorazione dell'indennità di posizione, era stata negata senza una sostanziale motivazione, dopo che nel luglio 2013 il Sindaco, con una mail, aveva mostrato di correlare l'accoglimento della richiesta al modo in cui il Sa. avrebbe gestito la questione riguardante gli illeciti addebitati al Ch..
Tali elementi sono stati tutt'altro che arbitrariamente posti a fondamento del carattere ritorsivo e discriminatorio del trattamento riservato al Sa., non rilevando la circostanza che il predetto avesse o meno uno specifico diritto al rinnovo ovvero al riconoscimento dell'indennità, a fronte del contenuto assunto dall'azione amministrativa e del concreto sviamento del potere, esercitato con modalità contrastanti con le ragioni poste a fondamento di esso.
Prive di rilievo risultano in tale prospettiva anche le deduzioni, peraltro largamente assertive, riguardanti l'interpretazione degli artt. 50, 107, 109 e 110 d.lgs. 267 del 2000, a fronte del carattere assorbente del rilevato profilo di illiceità, qualificato anche dalla mancata adozione di un'adeguata valutazione comparativa, tale da costituire specifica giustificazione della determinazione assunta:
va invero rilevato come tale mancanza costituisca dato sintomaticamente idoneo a rafforzare il giudizio in ordine al contenuto discriminatorio di tale determinazione, così come la sostanziale assenza di una specifica motivazione del mancato riconoscimento dell'indennità, a fronte di quanto precedentemente prospettato in termini di correlazione con i desiderata del Sindaco, suffraga la valenza ritorsiva del diniego, quand'anche legato a valutazione discrezionale (per il rilievo della motivazione deve del resto richiamarsi Cass. Sez. 6, n. 13341 del 27/10/1999, Stagno D'Alcontres, rv. 215278, nonché la più recente Cass. Sez. 6, n. 21976 del 05/04/2013, Paiardini, rv. 256549).
E' del tutto inconferente infine la circostanza che la fonte dell'indennità fosse costituita da una convenzione, non riconducibile né alla legge né al regolamento: in realtà deve ribadirsi come la valutazione di illiceità riposi anche in questo caso sulla valenza discriminatoria e ritorsiva del diniego, nei termini già descritti.
3. E' parimenti infondato il terzo motivo.
3.1.
Con riguardo al tema della c.d. doppia ingiustizia, si rileva in generale che accanto al profilo della violazione di legge o di regolamento (o della violazione dell'obbligo di astensione) che deve connotare la condotta, deve individuarsi il profilo dell'ingiustizia del vantaggio patrimoniale o del danno, che costituiscono, in alternativa, l'evento consumativo del delitto di abuso di ufficio.
Tale ingiustizia può essere individuata sia in base a profili autonomi rispetto a quelli che connotano la condotta sia quale proiezione di quegli stessi profili, ove idonei a qualificare il risultato prodotto (sul punto Cass. Sez. 6, n. 48913 del 04/11/2015, Ricci, rv. 265473; Cass. Sez. 6, n. 11394 del 29/01/2015, Strassoldo, rv. 262793).
D'altro canto
la nozione di danno ingiusto deve essere intesa non solo con riguardo a situazioni patrimoniali e a diritti soggettivi perfetti (Cass. Sez. 6, n. 39452 del 07/07/2016, Brigandì, rv. 268222), dovendosi aver riguardo ad ogni tipo di aggressione arrecata a situazioni soggettive di pertinenza di un soggetto, nel presupposto che la stessa sia giuridicamente ingiustificata e tale da produrre conseguenze lesive.
Assume infatti rilievo la fattispecie di danno ingiusto evocata dall'art. 2043 cod. civ., riferibile anche alla lesione di interessi legittimi (sul punto dopo l'analisi di Cass. Civ. Sez. U., n. 500 del 22/07/1999, rv., si rinvia per più recenti puntualizzazioni del tema a Cass. Civ., Sez. 1, n. 16196 del 20/06/2018, rv. 649479; Cass. Sez. L., n. 7043 del 13/04/2004, rv. 572035), ferma restando la concreta valutabilità della «chance», particolarmente rilevante nel caso di comparazione di poche posizioni.
3.2. In tale prospettiva è all'evidenza infondata la doglianza incentrata sulla non configurabilità di un diritto soggettivo del Sa. a vedersi confermato l'incarico ed a fruire dell'indennità richiesta.
Al contrario deve condividersi l'assunto dei Giudici di merito secondo i quali
la condotta discriminatoria e ritorsiva del ricorrente, sostenuta altresì da quello specifico animus, si è proiettata sul Sa., determinando l'intenzionale pregiudizio della sua posizione, valutabile in termini professionali e patrimoniali, pur a prescindere dalla sussistenza di un vero e proprio diritto soggettivo, in quanto ha compromesso in quello specifico momento la possibilità del Sa. di continuare a svolgere le medesime mansioni, ne ha per contro determinato il sostanziale demansionamento, con sottoposizione a soggetto precedentemente a lui sottoposto, ha significato il mancato riconoscimento dell'indennità, che lo stesso Sindaco aveva mostrato di voler condizionare a comportamenti in linea con i suoi desiderata.
Tali effetti lesivi della condotta sono stati dunque correttamente qualificati come di per sé ingiusti, in quanto tali da pregiudicare la posizione del Sa. e da non trovare alcuna giuridica giustificazione, avuto riguardo alle illecite determinazioni assunte.
Non rileva in senso contrario che in prosieguo di tempo, dopo l'annullamento disposto dal Giudice del lavoro, fosse stato riattivato il procedimento con valutazione comparativa, cui il Sa. aveva omesso di partecipare, e fosse stata assunta una nuova determinazione in merito alla spettanza dell'indennità con esito negativo per lo stesso Sa., avallato questa volta dal Giudice del lavoro, a fronte di addotti persistenti profili di discriminatorietà.
Va infatti rimarcata in questa sede la lesione già prodottasi, in conseguenza dell'illecito esercizio delle funzioni amministrative e del contenuto discriminatorio delle relative determinazioni, tali da arrecare di per sé, «hic et nunc», un pregiudizio contra ius, peraltro assistito dall'intenzionalità, insita nello stesso connotato di ritorsione sotteso all'agire amministrativo.

PUBBLICO IMPIEGOAbuso d'ufficio e falso al comandante della polizia locale che tollera il commercio illegale.
Il comandante della Polizia locale che chiude un occhio su una serie di attività illecite dei venditori ambulanti è responsabile penalmente e non trova giustificazione neanche quando lamenta di aver avuto un atteggiamento non doloso, ma di semplice e diffusa tolleranza.
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I reati per i quali è intervenuta condanna nei due gradi di merito chiamano in causa Be. nella qualità di pubblico ufficiale in quanto Comandante della Polizia Locale di Bagnara Calabria:
   - con il capo C)
è contestato il reato continuato di abuso d'ufficio, per aver procurato ad un ambulante sprovvisto di autorizzazione un ingiusto vantaggio patrimoniale consistito nel libero svolgimento dell'attività e nell'ingiusto risparmio delle sanzioni amministrative (accertato il 26/06/2012);
   - con il capo D)
sono contestati i reati continuati di omissione d'atti d'ufficio e di omessa denuncia in relazione alla mancata identificazione degli ambulanti autori del reato di cui all'art. 474 cod. pen. e alla conseguente mancata adozione di atti di polizia giudiziaria (accertato il 30/09/2012);
   - con il capo F) sono contestati i reati continuati di omissione d'atti d'ufficio e di omessa denuncia in relazione alla mancata identificazione degli autori di un abuso edilizio e alla conseguente mancata adozione di atti di polizia giudiziaria (accertato il 26/06/2012);
   - con il capo L) è contestato il reato di falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atto pubblico, perché, a seguito di presentazione di istanza da parte di Fr.An.Ca. diretta ad ottenere l'autorizzazione ad occupare una porzione di suolo pubblico per un'attività commerciale, formava un parere attestando falsamente che l'occupazione rispettava le prescrizioni del codice della strada, laddove l'occupazione stessa insisteva tra due strade -con ciò creando pericolo per la circolazione veicolare- e interamente sul marciapiede (il 05/07/2011);
   - con il capo M) è contestato il reato di falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atto pubblico, perché attestava falsamente in una nota esplicativa di aver provveduto ad una ricognizione generale delle occupazioni già in essere da parte degli esercizi commerciali, accertando che le occupazioni relative ad una serie di locali non rispettavano i requisiti del codice della strada, laddove già all'atto del rilascio del parere le occupazioni non erano conformi a detti requisiti (il 27/06/2012);
   - con il capo O) è contestato in concorso a Be., a Ca.Fu. e ad An.Fu. il reato continuato di invasione di suolo demaniale (accertato il 09/08/2012).
...
2. Muovendo dal ricorso nell'interesse di Be., il primo motivo, nella parte relativa all'imputazione sub C), è inammissibile.
Ripercorso il compendio probatorio nella parte d'interesse, la Corte di appello ha osservato che i dati probatori rendono ragione non già di un singolo episodio nel quale l'imputato ha mostrato un atteggiamento di tolleranza nei confronti di un commerciante abusivo, ma di un indiscriminato e diffuso clima di illegalità che investiva tutto il territorio di Bagnara Calabra: i fatti di cui all'imputazione, osserva dunque la Corte distrettuale, sono ben lontani dall'atteggiamento di tolleranza prospettato dalla difesa, in quanto rappresentano «una sorta di scelta dettata dalle priorità che portavano a privilegiare taluni aspetti piuttosto che altri», colorandosi di «vera e propria tolleranza all'illegalità diffusa che mal si concilia ed anzi si contrappone a quelli che sono i doveri del pubblico ufficiale», tanto più che Be. «non si limitava ad una condotta tendente a favorire il commerciante abusivo ma andava oltre rallentando l'iter relativo alla contravvenzione elevata mostrando con tale condotta successiva la volontà di favorire il predetto commerciante».
Nei termini indicati, la sentenza impugnata ha dato conto della prova del dolo intenzionale sulla base di una serie di indici fattuali, tra i quali assumono rilievo l'evidenza, la reiterazione e la gravità delle violazioni (Sez. 3, n. 35577 del 06/04/2016, Cella, Rv. 267633), ossia di elementi concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto (Sez. 6, n. 52882 del 27/09/2018, Pastore, Rv. 274580).
Il ricorso reitera le censure in ordine al dolo intenzionale e alla riconducibilità dei fatti ad una sorta di tolleranza occasionale, omettendo di confrontarsi con i dati richiamati dal giudice di appello e con le inferenze tratte, in termini immuni da vizi logici, sulla base di essi: dati che, come si è visto, rendono ragione del carattere tutt'altro che occasionale delle condotte oggetto dell'imputazione e della loro proiezione finalistica a "favorire" l'ambulante, secondo il testuale riferimento tratto da una conversazione intercettata.
Le censure, pertanto, sono del tutto carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione (Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012, Pezzo, Rv. 253849).
3. Il primo motivo, nella parte relativa all'imputazione sub D), è del pari inammissibile.
In premessa, mette conto rimarcare come i giudici di merito abbiano ricondotto alla fattispecie incriminatrice di cui all'art. 361 cod. pen. l'omissione del doveroso rapporto all'autorità giudiziaria della messa in vendita di prodotti contraffatti da parte dei venditori ambulanti e a quella di cui all'art. 328 cod. pen. l'omesso sequestro della merce e l'omessa identificazione dei detentori.
Ciò posto, le censure reiterano quelle esaminate e disattese dalla Corte distrettuale, che ha escluso l'invocata irrilevanza penale delle omissioni in questione in ragione di asserite ragioni di interesse superiore (collegate alla festa patronale e al notevole afflusso di persone), richiamando i dati probatori dimostrativi, da un lato, dell'ostacolo alla viabilità determinato proprio dall'esposizione della merce contraffatta e, dall'altro, della circostanza che l'imputato omise di intervenire per assecondare le sollecitazioni di un terzo («un santo in paradiso che li ha salvati»).
Anche per questo capo, il ricorso si sottrae alla specifica disamina critica della motivazione resa dalla Corte distrettuale sulla base di dati probatori non contestati e con argomentazione esente da cadute di conseguenzialità logica (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 21.05.2019 n. 22145).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Sull'abuso d'ufficio del pubblico dipendente.
Il dolo intenzionale tipico dell'art. 323 cod. pen. prescinde dall'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, potendo essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto, purché tale valutazione non discenda in modo apodittico e parziale dal comportamento "non iure" dell'agente, ma risulti anche da elementi ulteriori, concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto.
Il dolo intenzionale deve essere, quindi, ricavato da elementi ulteriori rispetto al comportamento "non iure" dell'agente, che evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del suo comportamento, cosicché la certezza che la volontà dell'agente sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto non può provenire esclusivamente dal comportamento "non iure", ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, quali la specifica competenza professionale del soggetto attivo, l'apparato motivazionale del provvedimento, la presenza o meno di anomalie istruttorie ed i rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i soggetti, che dal provvedimento ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno.
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Ulteriore carenza di motivazione si riscontra anche in ordine al concorso del ricorrente nel reato di abuso d'ufficio, in quanto il Tribunale ha ritenuto integrato il reato in ragione della macroscopica illegittimità della proroga rilasciata dall'ufficio tecnico, nonostante la Soprintendenza archeologica avesse segnalato, già nell'agosto 2015, l'assenza di documentazione relativa ad una concessione demaniale marittima rilasciata al Ge., sollecitandone la trasmissione urgente per l'adozione dei provvedimenti vincolanti di competenza, in assenza dei quali la concessione doveva ritenersi illegittima; ha inoltre, affermato che il rilascio della proroga in violazione di legge e l'evidente vantaggio patrimoniale conseguito dal Ge. rende superfluo l'accertamento di un accordo collusivo tra il Ge. e il dirigente dell'ufficio tecnico.
La motivazione sul punto è apparente, in quanto secondo l'orientamento di questa Corte il dolo intenzionale tipico dell'art. 323 cod. pen. prescinde dall'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, potendo essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto, purché tale valutazione non discenda in modo apodittico e parziale dal comportamento "non iure" dell'agente, ma risulti anche da elementi ulteriori, concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto (Sez. 6, n. 52882 del 27/09/2018, Pastore, Rv. 274580 - 01; Sez. 3, n. 57914 del 28/09/2017, Di Palma, Rv.272331).
Il dolo intenzionale deve essere, quindi, ricavato da elementi ulteriori rispetto al comportamento "non iure" dell'agente, che evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del suo comportamento (Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo, Rv. 264280), cosicché la certezza che la volontà dell'agente sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto non può provenire esclusivamente dal comportamento "non iure", ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, quali la specifica competenza professionale del soggetto attivo, l'apparato motivazionale del provvedimento, la presenza o meno di anomalie istruttorie ed i rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i soggetti, che dal provvedimento ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno (Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013, Barla, Rv. 255368; Sez. 6, n. 35814 del 27/06/2007, Pacia, Rv. 237916), nella specie mancanti, specie a fronte di proroghe rilasciate in base a disposizioni normative, che prorogavano i termini di scadenza delle concessioni di beni demaniali marittimi con finalità turistico-ricreative.
Il concorso del ricorrente non risulta sorretto da una adeguata e logica motivazione, non risultando evidenziato il previo concerto e/o l'istigazione o la determinazione criminosa del privato né valutato l'affidamento riposto dal privato nel comportamento della P.A., che sino all'adozione dell'ultimo provvedimento censurato aveva esitato favorevolmente le richieste di proroga (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 30.04.2019 n. 17989).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Omessa denuncia degli abusi edilizi, il dirigente comunale non ha responsabilità oggettiva.
Non risponde automaticamente del reato di omessa denuncia, disciplinato dall'articolo 361 del codice penale -nel caso di un abuso edilizio- il responsabile dell'ufficio tecnico del comune che a seguito della presentazione di un permesso di costruire in sanatoria, non abbia trasmesso la notizia all'autorità giudiziaria.
È infatti necessario dimostrare anche la «sussistenza dell'elemento soggettivo» del reato –vale a dire l'effettiva conoscenza della notitia criminis- «non potendosi ipotizzare una responsabilità in capo al pubblico ufficiale
responsabile in base alla sola funzione amministrativa esercitata all'interno della struttura burocratica comunale
».
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RITENUTO IN FATTO
1. Salvatore Caudullo, per mezzo del difensore, propone ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello di Catania che, in parziale riforma della decisione del Tribunale di Catania, per quel che in questa sede rileva, ha rideterminato la pena in euro 340 di multa in ordine al reato di cui all'ad 361 cod. pen. (capo G), in quanto, quale Capo dell'Ufficio Tecnico del Comune di Bronte, essendo venuto a conoscenza della commissione di abusi edilizi da parte di Th.Co., Vi.Sa. e Da.Gi. (stesse persone con cui era stato chiamato, a titolo di omissione ex art. 40, comma secondo, cod. pen., a rispondere del concorso nella realizzazione dei reati di cui ai capi da A) a F) relativi a contravvenzioni in materia edilizia, urbanistica, sismica ed ambientale), i quali avevano presentato una istanza di permesso di costruire in sanatoria per poter realizzare un immobile, ometteva di darne comunicazione all'autorità giudiziaria, fatto commesso in Bronte in data antecedente al 08.06.2011.
2. Il ricorrente deduce difetto di motivazione, travisamento della prova e violazione degli artt. 36, 42, 43 e 361 cod. pen.
La Corte territoriale non avrebbe adeguatamente apprezzato il dato normativo, le risultanze processuali, per come ricostruite dall'esame dei testi e dell'imputato, oltre che la documentazione acquisita e fornita dalla difesa.
Sa.Ca. -si osserva- era coordinatore di ben otto servizi, tra i quali quello di Urbanistica e Repressione Abusivismo Edilizio, settori a loro volta retti da altri (Sa. e Gr.) cui competeva l'istruttoria delle pratiche assegnate.
La prassi prevedeva che tutte le pratiche di richiesta di sanatoria ex artt. 12 e 13 L. 47/1985 (art. 36 d.P.R. 06.06.2001, n. 380) non fossero inoltrate all'Autorità Giudiziaria, obbligo di comunicazione che incombeva sul solo personale di Polizia Giudiziaria,
Il ricorrente evidenzia l'assoluta buona fede del Ca. che, quale capo dell'Ufficio Tecnico, si era limitato a coordinare i vari servizi demandando ai singoli responsabili le relative decisioni, circostanza che impone di ritenere insussistente l'elemento soggettivo quantomeno ex art. 533 cod. proc. pen.
CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato, così imponendosi l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.
2. L'accusa mossa a Sa.Ca., quale dirigente dell'Ufficio tecnico comunale (originariamente in concorso con il responsabile del servizio di polizia giudiziaria ed amministrativa, tenente Gi.Sa.), è quella di aver omesso di trasmettere all'autorità giudiziaria la denuncia in ordine alla commissione di reati edilizi ed ambientali da parte di Th.Co., Vi.Sa. e Da.Gi., a cagione della presentazione, da parte di costoro, dell'istanza di permesso di costruire in sanatoria per la realizzazione di un immobile.
In particolare, è stato ritenuto che la pratica relativa all'immobile in questione, affidata al geometra An.Sa., era stata istruita dall'ufficio tecnico di cui il ricorrente era responsabile ed inserita esclusivamente nella comunicazione quindicinale inviata all'Assessorato Territorio ed Ambiente della Regione.
Da tanto è stato desunta la sussistenza del dolo generico in capo al ricorrente che aveva giustificato la condotta dell'Ufficio, di cui evidenziava la articolata consistenza, sulla base della prassi all'epoca vigente a mente della quale la comunicazione in ordine a tutte le istanze in sanatoria non venivano inviate immediatamente all'autorità giudiziaria, ma ciò avveniva solo al momento della richiesta di agibilità o abitabilità degli immobili ovvero all'esito della conclusa istruttoria.
3. Deve premettersi che
l'elemento soggettivo del reato di omissione di denuncia consiste nella consapevolezza e volontarietà dell'omissione allorché risulti sussistente il presupposto da cui deriva il dovere di trasmettere la notizia di reato all'autorità giudiziaria, ovvero la conoscenza, da parte del pubblico ufficiale, del fatto costituente reato a causa e nell'esercizio delle sue funzioni.
È, invece, estraneo alla nozione del dolo di omissione il motivo che porta il soggetto, su cui grava l'obbligo di informazione, ad astenersi dal trasmettere la notizia di reato; sicché è irrilevante che il pubblico ufficiale ritenga che l'informativa della "notitia criminis" di cui sia venuto a conoscenza, competa ad altro pubblico ufficiale ovvero supponga che l'informativa medesima sia stata da questi già fornita. Infatti, l'errore in cui l'obbligato può incorrere, al riguardo, non esclude la volontarietà dell'omissione, ma concerne semmai la sua legittimità ed è, pertanto, penalmente inscusabile (Sez. 6, n. 1407 del 05/11/1998, Pirari, Rv. 212551; sez. 6, n. 9701 del 23/09/1996, Gobbi, Rv. 206014).
Risulta, inoltre, pacifico il principio a mente del quale si realizza l'omessa denuncia penalmente rilevante ex art. 361 cod. pen., quando il pubblico ufficiale è in grado di individuare gli elementi ed acquisire ogni altro dato utile per la formazione della denuncia stessa (Sez. 6, n. 49833 del 03/07/2018, Pesci, Rv. 274310).
4. Tanto premesso deve rilevarsi che, nonostante specifica censura anche proposta in sede di gravame, nessuna emergenza consente di ritenere che, a prescindere dalla (certamente irrilevante) invocata prassi da parte del ricorrente, lo stesso fosse consapevole dell'esistenza di una "notitia criminis". tenuto conto delle innumerevoli istanze di sanatoria pervenute presso l'ufficio dal medesimo diretto e trasmesse per l'istruttoria al funzionario responsabile di altro settore.
Il ricorrente, infatti, aveva fatto presente la complessa articolazione degli uffici che gli erano stati affidati, con particolare riferimento alle tre posizioni organizzative di cui era responsabile, rimarcando come il servizio urbanistico, interno all'area tecnica, era da Ca. coordinato, così da limitarsi a sottoscrivere i provvedimenti finali all'esito dell'esame della pratica svolta dal pubblico ufficiale incaricato (penultima pagina sentenza del Tribunale). Circostanza anche ribadita nei motivi di appello, ove, oltre ad ipotizzare in capo ad altri soggetti l'obbligo di denuncia, emergenza non pertinente in quanto non idonea a far venir meno la responsabilità in capo al pubblico funzionario (in tal senso v. Sez. 6, n. 1407 del 05/11/1998, dep. 1999, Pirari F, Rv. 212551), si era rappresentato che il fascicolo in questione era stato assegnato agli uffici competenti per la relativa istruttoria.
Nonostante, quindi, plurimi siano stati i rilievi tesi ad evidenziare una assenza di conoscenza della pratica relativa all'immobile oggetto di sanatoria ed in ordine al quale il ricorrente aveva fornito risposte esclusivamente circa i compiti assegnati al proprio ufficio, i Giudici di merito hanno ritenuto Sa.Ca. responsabile sulla base della sola posizione apicale ricoperta all'interno della struttura burocratica comunale e senza individuare alcun effettivo elemento idoneo a far ritenere che fosse consapevole della consistenza, anche solo generica, della specifica istanza.
Questa Corte ha da tempo avuto modo di evidenziare che
non risponde di omessa denuncia di reato, ai sensi dell'art. 361, comma primo cod. pen., il sindaco che ometta di portare a conoscenza dell'autorità giudiziaria il contenuto delle domande di sanatoria per abusi edilizi pervenute all'amministrazione comunale, o ne ritardi la trasmissione informale, richiesta dall'A.G., prescindendo dal loro vaglio, anche ai fini specifici dell'accertamento di fatti costituenti reato (Sez. 6, n. 5499 del 09/05/1985, Di Giovanna, Rv. 169537), principio tranquillamente esportabile in capo al Dirigente dell'Ufficio tecnico cui oggi compete l'accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Tanto non implica che il dirigente di tale servizio non possa rendersi astrattamente responsabile del delitto di omessa denuncia di un fatto di reato di cui sia venuto a conoscenza in ragione dell'espletamento della funzione, e ciò a maggior ragione quando vengono coinvolti interessi connessi alla salvaguardia del territorio alla cui tutela il pubblico ufficiale è preposto.
Ma non è possibile che tale obbligo/dovere di denuncia si estenda sino a ricomprendere le molteplici evenienze che involgono il campo d'azione dell'esercizio della funzione amministrativa e senza in concreto accertare se la notizia di reato sia stata realmente apprezzata dal soggetto agente al fine di valutarne il necessario elemento soggettivo del dolo omissivo richiesto dalla fattispecie di cui all'art. 361 cod. pen.

Né può ritenersi che nel caso sottoposto a scrutinio si tratti di valutare la sussistenza di un eventuale errore in ordine alla sola consistenza della notizia di reato di cui l'agente sia venuto a conoscenza, errore chiaramente inescusabile in quanto non idoneo ad escludere la volontarietà dell'omissione (v. Sez. 6, n. 1407 del 05/11/1998, Pirari, Rv. 212551; sez. 6, n. 9701 del 23/09/1996, Gobbi, Rv. 206014, cui sopra è cenno), quanto, piuttosto, la mancata conoscenza della concreta notizia di reato e, conseguentemente, l'ambito su cui va a ricadere l'elemento soggettivo dell'agente che necessita di specifico accertamento, nel concreto omesso.
Questa Corte, seppure con rifermento all'esame del solo elemento oggettivo, ha avuto modo di precisare che
non integra il reato di cui all'art. 361 cod. pen. la condotta del pubblico ufficiale che, dinanzi alla segnalazione di un fatto avente connotazioni di possibile rilievo penale, disponga i necessari approfondimenti all'interno del proprio ufficio, al fine di verificare l'effettiva sussistenza di una "notitia criminis", e non di elementi di mero sospetto (Sez. 6, n. 12021 del 06/02/2014, Kutufà, Rv. 258339).
Principio di diritto che impone, a maggior ragione, di ritenere logicamente necessario il previo accertamento della sussistenza dell'elemento soggettivo sull'esistenza della notitia criminís, non potendosi ipotizzare una responsabilità in capo al pubblico ufficiale responsabile in base alla sola funzione amministrativa esercitata all'interno della struttura burocratica comunale.
5. Da quanto sopra consegue l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 16.04.2019 n. 16577).

EDILIZIA PRIVATA: Reati urbanistici - Dirigente o responsabile dello sportello unico - Configurabilità del reato di abuso di ufficio - Elemento soggettivo - Consapevolezza dell'ingiustizia del vantaggio patrimoniale - Macroscopica illiceità dell'atto - Fattispecie.
L'inosservanza dell'art. 13 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, secondo il quale "il permesso di costruire è rilasciato dal dirigente o responsabile dello sportello unico nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e degli strumenti urbanistici" integra il requisito della violazione di legge rilevante ai fini della configurabilità del reato di abuso di ufficio.
Per quanto riguarda, poi, l'elemento soggettivo, si è affermato che esso consiste nella consapevolezza dell'ingiustizia del vantaggio patrimoniale e nella volontà di agire per procurarlo e può essere desunta dalla macroscopica illiceità dell'atto.
Nella specie, l'evidenza della natura abusiva della costruzione non emerge esclusivamente dalle sue caratteristiche dimensionali, ma anche per il contrasto dell'opera con la destinazione di zona (agricola)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.03.2019 n. 11505 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Sul reato di abuso d'ufficio.
L'inosservanza dell'art. 13 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, secondo il quale "il permesso di costruire è rilasciato dal dirigente o responsabile dello sportello unico nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e degli strumenti urbanistici" integra il requisito della violazione di legge rilevante ai fini della configurabilità del reato di abuso di ufficio.
Per quanto riguarda, poi, l'elemento soggettivo, si è affermato che esso consiste nella consapevolezza dell'ingiustizia del vantaggio patrimoniale e nella volontà di agire per procurarlo e può essere desunta dalla macroscopica illiceità dell'atto.

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Entrambi i motivi di ricorso riguardano il reato di abuso d'ufficio contestato all'imputato e la sua sussistenza sotto i profili oggettivo e soggettivo.
Ancora una volta deve richiamarsi preliminarmente quanto in precedenza osservato circa la smaccata evidenza della abusività dell'immobile costruito, nonché delle plurime irregolarità, per contrasto a specifiche disposizioni normative, che hanno caratterizzato il rilascio della concessione edilizia.
Va a tale proposito ricordato che l'inosservanza dell'art. 13 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, secondo il quale "il permesso di costruire è rilasciato dal dirigente o responsabile dello sportello unico nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e degli strumenti urbanistici" integra il requisito della violazione di legge rilevante ai fini della configurabilità del reato di abuso di ufficio (Sez. 3, n. 39462 del 19/06/2012, Rullo, Rv. 254015).
Per quanto riguarda, poi, l'elemento soggettivo, si è affermato che esso consiste nella consapevolezza dell'ingiustizia del vantaggio patrimoniale e nella volontà di agire per procurarlo e può essere desunta dalla macroscopica illiceità dell'atto (così, da ultimo, Sez. 6, n. 31 594 del 19/04/2017, Pazzaglia, Rv. 270460)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.03.2019 n. 11505).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALICorrotti e corruttori al bando. La riabilitazione può attendere. Stretta a 360 gradi sui delitti contro la p.a. con le norme approvate il 18 dicembre
Via per sempre (o quasi) dalla vita economica del Paese corrotti e corruttori: i primi saranno interdetti dai pubblici uffici a vita, oltre che per i reati attualmente previsti, anche in caso di corruzione impropria e aggravata, induzione indebita a dare o promettere utilità, per corruzione di persona incaricata di pubblico servizio, corruzione attiva, istigazione alla corruzione; traffico di influenze illecite.
I secondi saranno esclusi dalla vita economica pubblica anche per i reati di peculato, escluso quello d'uso; corruzione in atti giudiziari; traffico di influenze illecite.
E non solo. Anche se dovesse intervenire la riabilitazione (che estingue la condanna) a seguito dell'esito positivo dell'affidamento in prova ai servizi sociali, le pene accessorie interdittive sarebbero comunque perpetue.
Insomma: niente più casi «Berlusconi», il quale è tornato ad essere candidabile dopo che il Tribunale di sorveglianza di Milano nella primavera scorsa lo ha riabilitato a seguito del servizio sociale svolto presso l'istituto della Sacra Famiglia di Cesano Boscone.
I «faccendieri» non potranno più far sentire la loro influenza, reale o millantata che sia.

La stretta del governo giallo-verde sulla corruzione si annuncia destinata a propagare i suoi effetti in un futuro espanso, e non solo nei termini della maggiore incisività investigativa e di accertamento dei reati contro la pubblica amministrazione nel processo, ma anche con l'intento, in effetti anche dichiarato, di «spazzare via» dalla vita pubblica tutti coloro che si sono macchiati di comportamenti illeciti nei confronti dell'amministrazione pubblica.
Sono forse questi gli aspetti di maggiore incisività, che si aggiungono ai temi più prettamente processuali, della legge «spazzacorrotti» approvata in via definitiva dal Senato lo scorso 18 dicembre. Ed ai quali si sommano le altre novità, oltre il cosiddetto «Daspo» appunto: aumento dell'entità delle pene accessorie, arresto in flagranza di reato, aumento a due anni dei termini delle indagini preliminari e preclusioni ad accedere ai benefici penitenziari e misure alternative. Introduzione del «pentito» e delle operazioni sotto copertura (ma non agente provocatore) e della possibilità di utilizzare le intercettazioni con trojan (finora limitate alle ipotesi di criminalità organizzata e terrorismo) anche per i reati contro la p.a. Congelamento della prescrizione dopo le sentenze di primo grado e nuove regole per la trasparenza del finanziamento dei partiti.
L'andamento parlamentare. Approvata con la fiducia al Senato il 23 novembre scorso, il testo esaminato in seconda lettura da Montecitorio è pressoché identico a quello licenziato in prima lettura se non fosse per la modifica che ha eliminato la disposizione volta ad assorbire nell'abuso d'ufficio una fattispecie configurata attualmente come peculato e perciò punita più severamente.
«Questa legge è per tutti i cittadini onesti», ha detto il ministro guardasigilli Alfonso Bonafede commentando il voto finale, «per tutti gli imprenditori che vogliono fare bene il loro lavoro e per tutte le persone che faranno rinascere questo Paese. Per noi questa è una legge molto importante, il mio primo pensiero va ai giovani italiani e al loro futuro».
Per magistrati e avvocati però la musica è diversa: Anm e Ucpisi si sono ritrovate nelle critiche alle modifiche alla norma sulla prescrizione, destinate, è la denuncia, a rendere il processo penale una spada di Damocle permanente sulla testa degli indagati o imputati.
Anche il Csm, con un parere arrivato a legge approvata, lo scorso 19 dicembre, ha espresso critiche sulla riforma della prescrizione e sulla previsione del Daspo a vita per i corrotti adombrando seri rischi di incostituzionalità anche per gli effetti sui diritti alla difesa e alla ragionevole durata dei processi. Con conseguente probabile ricaduta sugli esborsi ex Legge Pinto.
L'inasprimento dei reati contro la Pa. Per grandi linee, il provvedimento interviene su due questioni: i reati contro la pubblica amministrazione e la trasparenza nel finanziamento ai partiti.
Sul primo fronte, la legge interviene sul codice penale (inasprendo le pene dei reati contro la pa), sul codice di procedura penale (potenziando strumenti di indagine e di accertamento), sul codice civile (rendendo perseguibile d'ufficio la corruzione tra privati), sull'ordinamento penitenziario e sulla legge 231/2001 sulla responsabilità amministrativa da reato per le persone giuridiche (vedi altro articolo nella pagina affianco).
Il testo introduce un'aggravante del delitto di indebita percezione di erogazioni a danno della Stato, quando il fatto sia commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio; aumenta le pene per i delitti di corruzione per l'esercizio della funzione e di appropriazione indebita.
Ridefinisce la fattispecie del traffico di influenze illecite, assorbendo il millantato credito e rendendo passibile di pena anche colui che dà o promette la somma di denaro, non più reputato alla stregua di una vittima del raggiro.
Inasprimento delle pene accessorie (Daspo). Il provvedimento introduce l'incapacità di contrarre con la p.a. (cosiddetto Daspo) nell'ipotesi di un ventaglio molto ampio di reati, così come la interdizione perpetua dai pubblici uffici.
La riabilitazione sarà possibile, sulla carta, non prima di sette anni e con la prova di buona condotta. Aumentano i termini della interdizione temporanea.
L'accesso alla sospensione condizionale della pena sarà più oneroso: non solo riguarderà anche il corruttore «privato» e sarà condizionato al pagamento, all'amministrazione lesa, della somma determinata a titolo di riparazione pecuniaria; ma il giudice potrà decidere di non estenderne gli effetti alla interdizione dai pubblici uffici o al cosiddetto Daspo.
Viene introdotta la figura del «pentito». La legge introduce una causa di non punibilità (nuovo articolo 323-ter), in presenza di autodenuncia (prima di essere iscritto nel registro degli indagati e in ogni caso entro sei mesi dal fatto, mettendo a disposizione l'utilità ricevuta) e di collaborazione con l'autorità giudiziaria.
Il millantato credito viene abrogato come fattispecie a sé e ricompreso nella nuova formulazione del traffico di influenze illecite.
Agente sotto copertura. Il provvedimento estende la disciplina delle operazioni di polizia sotto copertura al contrasto di alcuni reati contro la pubblica amministrazione.
La nuova prescrizione. Per quanto riguarda la prescrizione, il testo prevede una parziale riforma modificando gli articoli 158, 159 e 160 del codice penale.
Il provvedimento individua nel giorno di cessazione della continuazione il termine di decorrenza della prescrizione in caso di reato continuato (si tratta di un ritorno alla disciplina anteriore alla legge ex Cirielli del 2005); sospende il corso della prescrizione dalla data di pronuncia della sentenza di primo grado (sia di condanna che di assoluzione) o dal decreto di condanna, fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o alla data di irrevocabilità del citato decreto.
L'entrata in vigore della riforma della prescrizione è fissata (comma 2 dell'art. 1) al 1° gennaio 2020.
Trojan per investigazioni domiciliari ad ampio raggio. Sono consentite sempre le intercettazioni mediante l'uso dei captatori informatici (cd. trojan) su dispositivi elettronici portatili nei procedimenti per delitti contro la pubblica amministrazione puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni. Inoltre cade il paletto del loro utilizzo domiciliare, che sarà possibile anche quando non vi è motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l'attività criminosa (articolo ItaliaOggi Sette del 07.01.2019).

anno 2018

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIncarichi a contratto, la Cassazione conferma l’obbligo di pubblicazione in Gazzetta.
Obbligo di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale delle assunzioni del personale in base all’articolo 110 del Tuel, sia se la competenza è devoluta al giudice amministrativo, qualora la selezione dovesse rispettare le regole del concorso pubblico, ad esempio in presenza della nomina di una commissione, nell'attribuzione di punteggi o nella formazione di una graduatoria (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 21 settembre), sia qualora la stessa dovesse essere devoluta al giudice ordinario, in quanto non rispettosa delle regole del concorso pubblico.

Queste ultime conclusioni sono contenute nella sentenza 27.11.2018 n. 53180 della Corte di Cassazione, Sez. feriale penale.
La posizione dei giudici e quella della difesa
Sia il tribunale di primo grado sia successivamente la Corte d’appello hanno condannato, per abuso di ufficio (articolo 323 del codice penale), il dirigente finanziario e alcuni membri della giunta comunale per l'assunzione di un funzionario apicale in base all’articolo 110 del Tuel.
Secondo i giudici penali si sarebbe in presenza di una violazione dell'articolo 4, comma 1-bis, del Dpr 487/1994, per mancata pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell'avviso contenente gli estremi del bando, oltre che violazione dell'articolo 124, comma 1, del Dlgs 267/2000 per mancata affissione dell'avviso nell'albo pretorio per un periodo non inferiore ai prescritti 15 giorni.
Di diverso avviso i ricorrenti che hanno impugnato in Cassazione la sentenza dei giudici di appello. A loro dire, vi sarebbe un errore di fondo nella motivazioni della sentenza, in quanto la giurisprudenza amministrativa ha escluso la riferibilità agli enti locali territoriali della disciplina del Dpr 487/1994, applicabile soltanto ai concorsi pubblici, sicché nessun obbligo di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale sussisteva nel caso di specie, la cui omissione, pertanto, non integra la fattispecie di reato ascritta, mentre la sanzionata pubblicazione nell'albo pretorio, perché inferiore nella durata a quanto prescritto dall'articolo 124 del Dlgs 267/2000, è essenzialmente dovuta alla scadenza della presentazione delle domande da parte dei candidati. D'altra parte lo stesso Dl 90/2014 prescrive esclusivamente una selezione che nulla ha a che vedere con il concorso pubblico.
Le indicazioni della Cassazione
In merito alle assunzioni effettuate secondo l’articolo 110 del Tuel, il Dl 90/2014 ha inserito la selezione pubblica quale medesimo adempimento previsto dall'articolo 35, comma 1, del Dlgs 165/2001. Ora precisa la Suprema corte, l'attività selettiva non è assimilabile a un concorso pubblico, funzionale all'assunzione di pubblici dipendenti, in quanto diretta soltanto a reperire il candidato più rispondente alle caratteristiche e alle esigenze dell'ente e alle mansioni da assegnare, senza la formazione di una graduatoria all'esito dell'attribuzione di un punteggio, in base ai titoli o ad altri criteri valutativi.
Comunque non è stato seguito il procedimento mediante adozione di adempimenti sequenziali, diretti a garantire la pubblicità dell'avviso, la partecipazione di tutti i possibili aspiranti e lo scrutinio dei candidati fino a un giudizio finale di individuazione di quello ritenuto più idoneo. Pertanto, è da ritenersi corretta la sentenza che ha evidenziato il mancato rispetto sia delle prescrizioni sulla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell'avviso di selezione pubblica sia sul tempo minimo obbligatorio di pubblicazione all'albo pretorio per quindici giorni.
Per i giudici di Piazza Cavour, tuttavia, la semplice violazione di legge non conduce all'abuso di ufficio, non avendo la Corte di appello adeguatamente motivato l'intenzionalità della condotta del funzionario pubblico di voler procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto richiesto dalla norma penale. La mancanza della motivazioni induce, in conclusione, la Cassazione ad annullare la sentenza e rinviare ad altra sezione della Corte di appello per il nuovo esame (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 07.12.2018).
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MASSIMA
2.3 L'assunto difensivo non ha pregio e considera in modo incompleto il quadro normativo di riferimento.
Come già osservato dalla Corte di merito, l'art. 110 del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, D.Lgs. n. 267/2000, sotto la rubrica "incarichi a contratto", nella parte rilevante ai fini del presente processo, stabilisce al comma 1: "Lo statuto può prevedere che la copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato di diritto pubblico o, eccezionalmente e con deliberazione motivata, di diritto privato, fermi restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire" (comma 1).
Al comma 2 prevede "Il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, negli enti in cui è prevista la dirigenza, stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, contratti a tempo determinato per i dirigenti e le alte specializzazioni, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire. Tali contratti sono stipulati in misura complessivamente non superiore al 5 per cento del totale della dotazione organica della dirigenza e dell'area direttiva e comunque per almeno una unità. Negli altri enti, il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, solo in assenza di professionalità analoghe presenti all'interno dell'ente, contratti a tempo determinato di dirigenti, alte specializzazioni o funzionari dell'area direttiva, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire. Tali contratti sono stipulati in misura complessivamente non superiore al 5 per cento della dotazione organica dell'ente, o ad una unità negli enti con una dotazione organica inferiore alle 20 unità".
Le due disposizioni citate differiscono tra loro, perché, seppur riferite entrambe al conferimento di incarichi a contratto a tempo determinato, soltanto la prima riguarda mansioni corrispondenti a quelle di un posto presente in pianta organica di responsabile dei servizi o degli uffici, di dirigente o di alta specializzazione, mentre la seconda prevede incarichi per tali figure professionali "al di fuori della dotazione organica" a fronte di esigenze straordinarie, non affrontabili con le risorse umane già disponibili. In entrambe le situazioni disciplinate, secondo esplicita previsione normativa, spetta allo statuto dell'ente prevedere la copertura dei posti in pianta organica con contratti a tempo determinato.
Ebbene, tali rilievi convincono della necessità, anche sulla base della stessa linea difensiva degli imputati, di valutare la fattispecie concreta in base alle previsioni statutarie del Comune interessato; rispetto all'addebito come descritto al capo A), ritenuto fondato dal Tribunale, non si rinviene in sentenza nessuna argomentazione per sostenere o per escludere questo aspetto di contestata violazione di legge, ossia la contrarietà del procedimento che aveva riguardato l'arch. St. all'art. 66 dello statuto comunale per l'assenza di un previo atto di indirizzo della Giunta comunale, al quale non vi è nessun riferimento nella motivazione senza che al contempo sia intervenuta una pronuncia di assoluzione, né che i ricorsi abbiano mosso una specifica contestazione al riguardo.
Per contro, nella sentenza di primo grado è ben evidenziato che, non soltanto la determina non era stata preceduta da un atto d'indirizzo della Giunta comunale, ma era illegittimo e pretestuoso a tale fine il richiamo alla delibera di Giunta n. 40 del 2010, che era stata revocata in autotutela e quindi non poteva esplicare nessun effetto giuridico.
Più in generale va condivisa l'opinione, espressa in sentenza, per la quale
le disposizioni del D.Lgs. n. 165 del 2001, introduttivo delle "Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche", devono essere osservate anche nell'ambito delle amministrazioni locali, per tali intendendosi "le Regioni, le Province e i Comuni" (art. 1, comma 2), a ragione della loro natura, riconosciuta espressamente dal comma 3 dello stesso art. 1, di principi fondamentali ai sensi dell'art. 117 Cost.. In coerenza con tale premessa sono rinvenibili nel D.Lgs. n. 267 del 2000, contenente il Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, plurimi richiami alla disciplina sul pubblico impiego.
In tal senso rilevano:
   - l'art. 7 del D.Lgs. n. 165/2001, il quale, nell'ambito dei principi generali, dopo avere disposto al comma 6 che le amministrazioni pubbliche, per esigenze cui non possono provvedere con personale già in servizio, conferiscono ad esperti incarichi individuali con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, stabilisce che "I regolamenti di cui all'art. 110, comma 6, del T.U. di cui al D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 si adeguano ai principi di cui al comma 6";
   - l'art. 88 del D.Lgs. n. 267/2000 per il quale "all'ordinamento degli uffici e del personale degli enti locali, ivi compresi i dirigenti ed i segretari comunali e provinciali, si applicano le disposizioni del D.Lgs. 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni ed integrazioni, e le altre disposizioni di legge in materia di organizzazione e lavoro nelle pubbliche amministrazioni";
   - l'art. 111 dello stesso D.Lgs. n. 267/2000, il quale stabilisce che gli "Enti locali, tenendo conto delle proprie peculiarietà nell'esercizio della propria potestà statutaria e regolamentare, adeguano lo statuto ed il regolamento ai principi del presente capo e del capo 2 del D.Lgs. 03.02.1929, n. 29, e successive modificazioni ed integrazioni".
   - l'art. 19 del D.Lgs. n. 165 del 2001 sulla durata degli incarichi dirigenziali a termine, reso applicabile anche agli enti locali, compresi Regioni, Province e Comuni, dal D.Lgs. 27.10.2009, n. 150, art. 40, comma 1, lett. f), introduttivo dei commi 6-bis e 6-ter.
Come già affermato dalla giurisprudenza di legittimità civile, occupatasi del tema in riferimento alla durata del rapporti scaturiti da contratti di affidamento di incarichi dirigenziali a tempo determinato presso enti locali territoriali, con conclusioni che mantengono validità anche per la presente vicenda e qui condivise e ribadite, la normativa contenuta nel testo unico del pubblico impiego appronta la disciplina fondamentale anche per i dipendenti degli enti locali e per i destinatari degli incarichi temporanei corrispondenti a mansioni di pubblici dipendenti (Cass. civ., sez. L., n. 478 del 23/10/2013, rv. 620670; sez. L, n. 849 del 28/10/2014, rv. 634201).
La disciplina di cui all'art. 110 del D.lgs. n. 267/2000 non detta indicazioni particolari per gli incarichi a termine, se non per la costituzione e per la cessazione del rapporto, che sono diversamente regolate rispetto a quanto previsto per il rapporto di pubblico impiego a tempo indeterminato con assegnazione di incarichi dirigenziali.
Si conviene con le difese che l'ente conferente non si trovava a dover perfezionare un'assunzione di un pubblico dipendente per instaurare un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e che in concreto tanto non si è verificato nella vicenda in esame; ciò nonostante, non può nemmeno sostenersi che la materia, pur implicando l'instaurazione di un rapporto fiduciario con il soggetto prescelto, non fosse regolamentata e lasciasse piena libertà di azione ai suoi funzionari ed amministratori, in quanto per diretta previsione contenuta, dapprima nella delibera di Giunta Comunale n. 40 del 2010, poi revocata, quindi nella determina adottata dal Pe., era stata indetta una selezione pubblica.
All'epoca dei fatti l'adozione di tale procedura non era ancora imposta per disposizione di legge, poiché sarebbe stata introdotta nel testo dell'art. 110 del D.Lgs., nel solo comma 1, n. 267/2000 soltanto nel 2014 dall'art. 11, comma 1, lett. a), del D.L. 24/06/2014, n. 90, conv. dalla L. 11/08/2014, n. 114, con la previsione dello stesso adempimento di cui all'art. 35, comma 1, D.Lgs. n. 165/2001 e nel suo testo antecedente tale modifica non era contenuta una esplicita norma a regolamentare il procedimento prodromico alla conclusione del contratto.
E sebbene in linea generale l'attività selettiva non sia assimilabile ad un concorso pubblico, funzionale all'assunzione di pubblici dipendenti, in quanto diretta soltanto a reperire il candidato più rispondente alle caratteristiche ed alle esigenze dell'ente ed alle mansioni da assegnare senza la formazione di una graduatoria all'esito dell'attribuzione di un punteggio in base ai titoli o ad altri criteri valutativi, ciò nonostante nel caso specifico ne era stata prevista la procedimentalizzazione mediante l'adozione di adempimenti sequenziali, diretti a garantire la pubblicità dell'avviso, la partecipazione di tutti i possibili aspiranti e lo scrutinio dei candidati fino ad un giudizio finale di individuazione di quello ritenuto più idoneo, il che deve ritenersi avesse volontariamente vincolato il Comune al rispetto delle prescrizioni normative in materia di procedure concorsuali.
Pertanto, non giova richiamare i poteri attribuiti al Sindaco dall'art. 50, comma 10, del D.Lgs. n. 267/2000, per il quale "Il sindaco e il presidente della provincia nominano i responsabili degli uffici e dei servizi, attribuiscono e definiscono gli incarichi dirigenziali e quelli di collaborazione esterna secondo le modalità ed i criteri stabiliti dagli articoli 109 e 110, nonché dai rispettivi statuti e regolamenti comunali e provinciali", perché con gli atti adottati si era autolimitata la libertà dell'ente di agire privatisticamente nella scelta del personale cui conferire l'incarico e comunque non si erano rispettate le prescrizioni statutarie di cui al già citato art. 66. Inoltre, al momento dell'indizione della selezione pubblica il Pe. non aveva ancora rivestito la carica di Sindaco, essendo il responsabile del servizio finanziario del Comune, circostanza che, come contestato, ha dato luogo alla violazione delle disposizioni di cui agli artt. 48 e 107 del D.Lgs. n. 267/2000.
Considerata la vicenda in base a tale presupposto, è dunque corretto ritenere che nel caso specifico non fossero state rispettate le attribuzioni spettanti al Sindaco quanto all'avvio della procedura, le prescrizioni sulla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell'avviso della selezione pubblica, sul tempo minimo obbligatorio di pubblicazione per quindici giorni e sul divieto per gli organi politici, in questo caso per il Pe. in quanto Sindaco del Comune, di prendere parte alle commissioni esaminatrici a garanzia della trasparenza, della legalità ed imparzialità del relativo operato secondo i principi generali previsti dall'art. 35, comma 3, del D.Lgs. n. 165/2001 cui si devono conformare le procedure per il reclutamento nelle pubbliche amministrazioni.

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Abuso di ufficio - Macroscopica illegittimità dell'atto - Istruttoria palesemente lacunosa - Prova del dolo intenzionale - Comportamento non iure dell'agente Art. 323 cod. pen..
In tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie di cui all'art. 323 cod. pen., prescinde dall'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, potendo essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto, sempre che tale valutazione non discenda in modo apodittico e parziale dal comportamento non iure dell'agente, ma risulti anche da elementi ulteriori concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto.
Nel caso di specie, è stato adeguatamente approfondito dai giudici di merito, attraverso il richiamo alla reiterazione dei provvedimenti palesemente illegittimi, nonostante le plurime "anomalie" della procedura amministrativa, da parte di un funzionario che, anche in considerazione della contenuta estensione del Comune dove sono avvenuti i fatti, avrebbe avuto tutti gli strumenti per poter porre rimedio alle carenze e alle contraddizioni di una istanza insuscettibile di essere accolta, per come formulata, non essendo di per sé dirimente in senso contrario il conseguimento di pareri interlocutori favorevoli da parte di altri Enti, alla luce del ruolo maggiormente incisivo riconosciuto al titolare del potere di rilasciare il provvedimento finale
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.10.2018 n. 46080 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: In tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie di cui all'art. 323 cod. pen., prescinde dall'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, potendo essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto, sempre che tale valutazione non discenda in modo apodittico e parziale dal comportamento non iure dell'agente, ma risulti anche da elementi ulteriori concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto, profilo questo che nel caso di specie è stato adeguatamente approfondito dai giudici di merito, attraverso il richiamo alla reiterazione dei provvedimenti palesemente illegittimi, nonostante le plurime "anomalie" della procedura amministrativa, da parte di un funzionario che, anche in considerazione della contenuta estensione del Comune dove sono avvenuti i fatti, avrebbe avuto tutti gli strumenti per poter porre rimedio alle carenze e alle contraddizioni di una istanza insuscettibile di essere accolta, per come formulata, non essendo di per sé dirimente in senso contrario il conseguimento di pareri interlocutori favorevoli da parte di altri Enti, alla luce del ruolo maggiormente incisivo riconosciuto al titolare del potere di rilasciare il provvedimento finale.
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4. Passando infine al ricorso proposto nell'interesse di Mo., occorre iniziare dai primi due motivi, che possono essere trattati congiuntamente, inerendo entrambi il giudizio sulla sussistenza del delitto di abuso d'ufficio.
Al riguardo, le due conformi sentenze di merito hanno ricostruito i singoli passaggi dell'iter amministrativo che ha portato al rilascio, da parte di Mo., Responsabile dell'Ufficio Tecnico del Comune di Patù, del permesso di costruire n. 14 del 06.03.2008 in favore della Mi., con il quale veniva assentito l'intervento richiesto, cioè il recupero di un vecchio fabbricato rurale, da destinare ad abitazione, mentre nell'area interessata non era mai preesistito alcun fabbricato rurale e doveva parlarsi non di manutenzione straordinaria, ma di una vera e propria "nuova costruzione", non assentibile nel caso concreto.
Come correttamente osservato nella sentenza impugnata, stante la pochezza di informazioni presenti negli atti forniti dai richiedenti e anzi in presenza di una foto eloquente dell'immobile preesistente, di cui era stata omessa l'indicazione di qualsiasi dimensione, l'imputato avrebbe potuto e dovuto sciogliere le evidenti perplessità derivanti dal contenuto ambiguo degli atti a sua disposizione attivando i suoi poteri di controllo, anche mediante un eventuale sopralluogo.
Se è vero infatti che il sopralluogo del tecnico comunale nella prassi non costituisce un'evenienza frequente, è altrettanto innegabile che lo stesso si rende doveroso, in alternativa al rigetto allo stato dell'istanza, qualora la pratica amministrativa presenti incongruenze meritevoli di necessari approfondimenti.
E nel caso di specie, ribadito lo scarso valore probatorio delle già richiamate dichiarazioni dei testi della difesa, non c'è dubbio che l'intera procedura è risultata scandita da profonde anomalie: l'assenza nell'istanza di riferimenti alla volumetria, la falsa rappresentazione di un immobile preesistente, l'omessa comunicazione dei tecnici e della ditta appaltatrice dei lavori, la mancata allegazione del Durc, la reiterazione della condotte, stante il rilascio del permesso in sanatoria, e la circostanza che, rispetto al tratturo, per il quale vi era solo una comunicazione di inizio lavori, erano state sequestrate delle bozze dei provvedimenti di sospensione dei predetti lavori prive di data certa e inviate sei mesi dopo la comunicazione e l'invito del Sindaco di eseguire un sopralluogo.
Tutte queste circostanze hanno ragionevolmente indotto i giudici di merito a ritenere ravvisabile una macroscopica violazione della normativa urbanistica, che ha consentito alla Mi. di conseguire un titolo abilitativo cui non aveva diritto, a seguito di un'istruttoria palesemente lacunosa, nonostante la presenza di plurimi indizi di illegittimità della tipologia dell'intervento edilizio oggetto della richiesta.
A fronte di tali elementi, correttamente è stata ritenuta non necessaria ai fini della sussistenza del reato contestato la prova di un vero e proprio patto collusivo tra la Mi. e Mo., dovendosi richiamare al riguardo la costante affermazione di questa Corte (cfr. ex multis Sez. 3, n. 57914 del 28/09/2017, Rv. 272331), secondo cui, in tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie di cui all'art. 323 cod. pen., prescinde dall'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, potendo essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto, sempre che tale valutazione non discenda in modo apodittico e parziale dal comportamento non iure dell'agente, ma risulti anche da elementi ulteriori concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto, profilo questo che nel caso di specie è stato adeguatamente approfondito dai giudici di merito, attraverso il richiamo alla reiterazione dei provvedimenti palesemente illegittimi, nonostante le plurime "anomalie" della procedura amministrativa, da parte di un funzionario che, anche in considerazione della contenuta estensione del Comune dove sono avvenuti i fatti, avrebbe avuto tutti gli strumenti per poter porre rimedio alle carenze e alle contraddizioni di una istanza insuscettibile di essere accolta, per come formulata, non essendo di per sé dirimente in senso contrario il conseguimento di pareri interlocutori favorevoli da parte di altri Enti, alla luce del ruolo maggiormente incisivo riconosciuto al titolare del potere di rilasciare il provvedimento finale.
In definitiva, la motivazione della sentenza impugnata, in quanto aderente alle risultanze probatorie acquisite e in linea con le coordinate interpretative prima richiamate, resiste ampiamente alle censure difensive, che si limitano a riproporre temi già trattati ed efficacemente superati dai giudici di appello con arg omenti privi di elementi di illogicità e dunque non censurabili in questa sede (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.10.2018 n. 46080).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire - Momento consumativo del reato di abuso d'ufficio - Condotta del pubblico ufficiale - Ingiusto vantaggio patrimoniale per il soggetto beneficiato - Incremento patrimoniale dell'immobile divenuto edificabile - Giurisprudenza.
Il permesso di costruire, sebbene effettivamente suscettibile, una volta rilasciato, di generare un eventuale ulteriore incremento del patrimonio del destinatario tramite l'esecuzione dei lavori autorizzati o il trasferimento del bene immobile divenuto edificabile a terzi, costituisce già di per sé una voce attiva nell'ambito della situazione giuridica soggettiva dell'interessato, perché il riconoscimento dell'edificabilità di un terreno attribuisce a tale terreno una nuova possibilità di messa a reddito, che ne determina un fisiologico incremento di valore in relazione alle ampliate opportunità di suo utilizzo (ex plurimis, Sez. 3, n. 4140 del 13/12/2017, dep. 29/01/2018; Sez. 6, n. 37531 del 14/06/2007; Sez. 6, n. 49554 del 22/10/2003).
Può dunque affermarsi che, rispetto all'incremento patrimoniale che normalmente discende già dalla semplice emanazione di un permesso ai costruire illegittimo, l'eventuale successiva attività edificatoria -così come l'eventuale successiva alienazione del terreno divenuto edificabile- costituisce un post factum, che dipende da una condotta ulteriore del titolare del bene, rimanendo estraneo alla sfera di azione del pubblico ufficiale che ha emanato l'atto illegittimo.
Ne consegue che il momento consumativo del reato di abuso d'ufficio consistente nell'emanazione di un permesso ai costruire illegittimo coincide con l'emanazione dell'atto stesso, perché in tale momento si compie la condotta del pubblico ufficiale e si verifica l'ingiusto vantaggio patrimoniale per il soggetto beneficiato
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.10.2018 n. 44104 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza consolidata è giunta ad affermare che l'individuazione dell'area da acquisire al patrimonio pubblico non deve essere necessariamente indicata nell'ordinanza di demolizione, ben potendo essere contenuta nel successivo provvedimento con il quale l'Amministrazione procede all'acquisizione del bene, fermo restando che, almeno l'atto di acquisizione, deve contenere tale esatta indicazione dei beni abusivi da acquisire alla mano pubblica nonché l'indicazione anche catastale dell'area di sedime e delle ulteriori aree acquisite dall'Amministrazione.
Ciò discende dal fatto che l'ordinanza di acquisizione costituisce titolo per la immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari e non può pertanto prescindere dalla esatta individuazione delle particelle catastali coinvolte.
(Nella specie né l'ordinanza di demolizione né l'ordinanza di acquisizione oggetto del presente giudizio riportano i suddetti dati, né risulta allegata all'ordinanza gravata una planimetria o altri atti che consentano l'identificazione esatta della aree interessate).
Sicché, la concreta individuazione delle aree da acquisire al patrimonio del comune e la loro esatta perimetrazione costituiscono elementi necessari del provvedimento acquisitivo, in mancanza dei quali non può in alcun modo costituirsi il titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari.
Atteso che l'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita, l’area da acquisire deve essere individuata con precisione: nell'applicazione della sanzione l'autorità competente deve rispettare il principio di proporzionalità mediante l’irrogazione di una sanzione che, entro il limite massimo legale stabilito, sacrifichi la posizione soggettiva del privato in modo adeguato, necessario e strettamente proporzionale all'obiettivo di interesse pubblico perseguito.

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Con verbale dell’11.05.1997 del Corpo forestale veniva contestato alla ricorrente un movimento di terra in contrada Monte Caputo in San Martino delle scale, movimento di terra (asseritamente) finalizzato alla costruzione di una casa di mq. 40.
Con lo stesso verbale il terreno era sottoposto a sequestro, con apposizione di sigilli al fine di conservare l’integrità del corpo del reato ed impedire il mutamento dello stato dei luoghi.
Era quindi emesso decreto di sequestro preventivo da parte del GIP (n. 6254/97 – 7761/97, notificato il 17/05/1997.
Il Comune di Monreale intimava, oltre la sospensione dei lavori, anche la demolizione del fabbricato abusivo (ordinanze n. 367 e n. 368 del 26/06/1997)
Con ordinanza n. 188 del 13/07/2000 l’Amministrazione comunale integrava le precedenti ordinanze nella parte in cui non erano stati indicati i dati catastali, rinnovando quindi l’ordine di demolizione precisando che, qualora le opere fossero state sottoposte a sigilli giudiziari, i lavori avrebbero dovuto essere eseguiti dopo la rimozione dei sigilli.
Con verbale del 14/09/2001 alcuni funzionari della polizia locale evidenziavano l’inottemperanza all’ordine demolitorio: in tesi di parte la mancata demolizione era dovuta alla persistenza del sequestro giudiziario.
Quindi con provvedimento del 17/05/2002 il Settore Urbanistica del Comune di Monterale notificava il provvedimento dirigenziale n. 524/M con cui è stata disposta l’acquisizione gratuita dell’immobile al patrimonio del Comune per l’omessa ottemperanza entro il termine prescritto all’ordine di demolizione.
...
Preliminarmente
il Collegio non può esimersi dallo stigmatizzare il comportamento del Comune di Monreale che, al di là della libera scelta di non voler resistere al ricorso, non ha dato riscontro ai reiterati ordini istruttori emessi da questo Giudice, di cui alla Ordinanza presidenziale n. 74/2016 e le due ordinanze collegiali n. 250/2017 e n. 2891/2017: sulle consequenziali determinazioni il Collegio ritornerà a conclusione della presente sentenza.
Ciò premesso, il ricorso è fondato e va accolto nei limiti di cui di seguito meglio precisati.
Risultano fondate la seconda e la terza censura qui previamente e contestualmente scrutinate.
Il provvedimento impugnato, nel disporre l'acquisizione gratuita, indica, in modo del tutto approssimativo, un'area pari fino a dieci volte la superficie complessiva utile abusivamente costruita sulla particella n. 59 del foglio di mappa n. 20 del N.C.T. di Monreale esteso per circa mq. 1510, a fronte di un contestato abuso di circa 45 mq.
La mancata precisa individuazione della acquisenda area, essendo indicata solo la particella ma non anche la porzione di questa, inficia il provvedimento impugnato.
Ed invero, diversamente da quanto può anche non essere presente nel provvedimento di che intima le demolizione del bene, per quanto attiene al momento con si dispone l’acquisizione dello stesso e della relativa aera di sedime, in una misura che comunque non può essere superiore a 10 volte quella dell’abuso, occorre che l’ordinanza specifichi nel dettaglio la porzione del maggiore terreno che con il provvedimento si intende acquisire.
Opportunamente parte ricorrente richiama l’orientamento della giurisprudenza amministrativa secondo cui "La giurisprudenza consolidata è giunta ad affermare che l'individuazione dell'area da acquisire al patrimonio pubblico non deve essere necessariamente indicata nell'ordinanza di demolizione, ben potendo essere contenuta nel successivo provvedimento con il quale l'Amministrazione procede all'acquisizione del bene (in termini TAR Toscana, sez. 3^, 07.05.2013, n. 724), fermo restando che, almeno l'atto di acquisizione, deve contenere tale esatta indicazione dei beni abusivi da acquisire alla mano pubblica nonché l'indicazione anche catastale dell'area di sedime e delle ulteriori aree acquisite dall'Amministrazione. Ciò discende dal fatto che l'ordinanza di acquisizione costituisce titolo per la immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari e non può pertanto prescindere dalla esatta individuazione delle particelle catastali coinvolte. Nella specie né l'ordinanza di demolizione né l'ordinanza di acquisizione oggetto del presente giudizio riportano i suddetti dati, né risulta allegata all'ordinanza gravata una planimetria o altri atti che consentano l'identificazione esatta della aree interessate. Alla luce delle considerazioni che precedono la censura risulta fondata, il che comporta l'accoglimento del ricorso con il conseguente annullamento dell'ordinanza n. 150 del 1997 gravata, potendosi ritenere assorbite le ulteriori censure proposte" (cfr. TAR Toscana—Firenze, Sez. III, 16.01.2014, n. 64; principio affermato anche nelle recentissime decisioni del TAR Piemonte—Torino, 28.04.2016, n. 573 e del TAR Sardegna—Cagliari, 24.03.2016, n. 278).
La concreta individuazione delle aree da acquisire al patrimonio del comune e la loro esatta perimetrazione costituiscono elementi necessari del provvedimento acquisitivo, in mancanza dei quali non può in alcun modo costituirsi il titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari.
Quanto alla terza censura, il Collegio ritiene di poter condividere il precedente invocato dalla parte, di cui alla sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 14.09.2014 n. 5607, secondo cui "–atteso che l'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita- l’area da acquisire deve essere individuata con precisione: nell'applicazione della sanzione l'autorità competente deve rispettare il principio di proporzionalità mediante l’irrogazione di una sanzione che, entro il limite massimo legale stabilito, sacrifichi la posizione soggettiva del privato in modo adeguato, necessario e strettamente proporzionale all'obiettivo di interesse pubblico perseguito": nel caso in esame, attesa l’estensione della superficie abusiva, parti a circa 45 mq, ed il rapporto con l’estensione della particella di circa mq 1.510, l’Amministrazione non illustra le ragioni per cui ha ritenuto di procedere alla acquisizione secondo il parametro massimo (di dieci volte l’estensione della superficie abusiva).
In conclusione, il ricorso va accolto con conseguente annullamento, nei limiti sopra esposti, del provvedimento impugnato, con improcedibilità di ogni altra censura siccome ininfluente ai fini del decidere.
Ciò posto, come già osservato,
va stigmatizzato il mancato riscontro alle sopra citate ordinanze istruttorie. Oltre che contrastare con le previsioni del codice del processo amministrativo che impongono alle parti di cooperate con il Giudice ai fini della ragionevole durata del processo (art. 2 comma 2), il comportamento tenuto dal Comune di Monreale può altresì integrare ipotesi di reato (tra cui la violazione dell’art. 328 c.p. e l’art. 650 c.p.) per cui appare opportuno sin d’ora disporre la trasmissione della presente sentenza alla Procura della Repubblica di Palermo e alla Procura Regionale della Corte dei Conti per le valutazioni di competenza.
Le spese di lite possono tuttavia essere compensate tra le parti tenuto conto del contestuale mancato riscontro all’ordine istruttorio, ord. n. 2891/2017, che incombeva, per quanto di pertinenza, sulla stessa parte ricorrente.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla il provvedimento impugnato nei sensi di cui in motivazione.
Spese compensate.
Manda la Segreteria di
trasmettere copia della presente sentenza alla Procura della Repubblica di Palermo e alla Procura Regionale della Corte dei Conti per la Sicilia per le opportune valutazioni di competenza (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 13.09.2018 n. 1944 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Rilascio di un parere paesaggistico sulla base una relazione tecnica falsa - Mancata attività ricognitiva - Concorso nel reato di falso - Responsabile dell'ufficio tecnico - Sussistenza dei presupposti giuridico­fattuali - Obblighi di verifica.
Si configura il concorso nell'illecito rilascio di un parere paesaggistico sulla base una relazione tecnica, integrativa della domanda presentata dal progettista, nella quale si attesta falsamente che le opere previste nella proposta progettuale non comportano variazione di sagoma né aumenti delle volumetrie esistenti.
L'utilizzazione del termine «consistenza», da parte del legislatore, nell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 380/2001 inevitabilmente include tutte le caratteristiche essenziali dell'edifico preesistente (volumetria, altezza, struttura complessiva, etc.), con la conseguenza che, in mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, dovrà escludersi la sussistenza del requisito richiesto dalla norma.
Parimenti, detta verifica non potrà essere rimessa ad apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma dovrà, invece, basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente apprezzabili.
Nella specie, si fa riferimento al più grave reato di cui all'art. 479 cod. pen., che si configura con il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente, nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal richiedente circa la sussistenza dei presupposti giuridico­fattuali per l'accoglimento della relativa domanda, essendo l'organo competente obbligato a svolgere in qualunque modo, e non necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive verifiche in merito alla sussistenza delle relative condizioni.

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PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Falso ideologico nella valutazione tecnica - Pubblico ufficiale libero nella scelta dei criteri di valutazione - Parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi - Configurabilità del reato - Giurisprudenza.
E' configurabile il delitto di falso ideologico nella valutazione tecnica formulata in un contesto implicante l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi (ribadito in Sez. 3, n. 41373 del 17/07/2014, P.M in proc. Pasteris e altri; Cass. Sez. 1, n. 45373 del 10/06/2013, Capogrosso e altro).
Mentre, nel caso in cui il pubblico ufficiale sia libero nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto, tuttavia, se l'atto da compiere fa riferimento, anche implicito, a previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, con conseguente integrazione della falsità se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato (Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, p.c. in proc. Platamone e altro; si vedano anche Sez. 5, n. 39360 del 15/07/2011, Gulino; Sez. 5, n. 14486 del 21/02/2011, Marini e altro)
(Corte di Cassazione, Sez. III, sentenza 31.08.2018 n. 39340 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Si è ricordato, con riferimento al più grave reato di cui all'art. 479 cod. pen. (Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), come lo stesso si configuri con il rilascio di autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente, nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal richiedente circa la sussistenza dei presupposti giuridico-fattuali per l'accoglimento della relativa domanda, essendo l'organo competente obbligato a svolgere in qualunque modo, e non necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive verifiche in merito alla sussistenza delle relative condizioni.
Ancora, è configurabile il delitto di falso ideologico nella valutazione tecnica formulata in un contesto implicante l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi.
Anche altre decisioni hanno specificato che, se pure è vero che, nel caso in cui il pubblico ufficiale sia libero nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto, tuttavia, se l'atto da compiere fa riferimento, anche implicito, a previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, con conseguente integrazione della falsità se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato.
Si è conseguentemente ritenuto che i provvedimenti autorizzativi rilasciati fossero fondati su presupposti urbanistici e paesaggistici falsi, contenuti anche nella relazione tecnica e, come tale, anch'essa falsa.
Va conseguentemente considerato che, dovendo la discrezionalità tecnica essere vincolata alla verifica della conformità della situazione fattuale alle previsioni normative, il reato di falso ideologico è pienamente configurabile quando detto giudizio di conformità non sia rispondente ai parametri normativi richiesti per l'emanazione di atti amministrativi, che la veridicità di determinate situazioni fattuali richiedono quali necessari presupposti per l'integrazione delle fattispecie giuridiche di riferimento, ossia nei casi in cui l'agente, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o anche solo di criteri tecnici generalmente accettati, se ne discosti consapevolmente in modo da creare, con la propria idonea e concreta condotta, una situazione di pericolo per il normale svolgimento del traffico giuridico, impedendo all'atto pubblico di adempiere alla funzione di affidamento che gli è propria.
Occorre poi rilevare come, in alcune occasioni, altre decisioni di questa Corte siano giunte a conclusioni diverse, le quali, tuttavia, non pongono in discussione i principi dianzi ricordati, i quali, pienamente condivisi dal Collegio, meritano conferma.
Invero, le difformi decisioni prendono in considerazione il fatto specifico, riconoscendo come corrispondenti al vero i fatti rappresentati negli elaborati progettuali, sul difetto dell'elemento soggettivo ovvero sostenendo che la valutazione oggetto di imputazione, essendo correlata alla mera interpretazione della normativa di settore, ma svincolata da qualsiasi riferimento ad elementi fattuali integranti il presupposto dell'atto, è priva di quella funzione informativa in forza della quale l'enunciato può essere predicato di falsità.
Si tratta, in tale ultimo caso, di una non condivisibile qualificazione dei contenuti dell'atto che si assume falso, perché, come si è affermato in una recente pronuncia, nell'autorizzazione paesaggistica vengono attestate la conformità urbanistica e la compatibilità ambientale delle opere da edificare, esprimendo quindi un giudizio in base alla rispondenza dell'intervento edilizio ad oggettivi e preesistenti criteri normativi, in quanto tale non caratterizzato da mera discrezionalità tecnica, quanto, piuttosto, da una verifica oggettiva.
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Quanto alla sussistenza dell'elemento soggettivo, si è sempre attribuito decisivo rilievo alla piena conoscenza della normativa di settore, da parte dei soggetti coinvolti, trattandosi di tecnici, alla insostenibilità della tesi difensiva della difficoltà della normativa edilizia riferita alle zone agricole ed al fatto che la procedura seguita rientrasse in una "prassi" seguita dagli uffici comunali, alla sistematicità del meccanismo ideato per aggirare la disciplina urbanistica e paesaggistica, rilevando, in definitiva, come i giudici del merito avessero del tutto legittimamente riconosciuto la piena consapevolezza, da parte degli imputati, della illiceità delle loro azioni e, segnatamente, della non compatibilità dell'intervento edilizio con la destinazione di zona.
Tali principi, come si è detto, sono applicabili anche nel caso in esame ed ad essi si è opportunamente allineata la Corte territoriale, ponendo in evidenza come l'atto del quale è stata riconosciuta la falsità "contiene qualificazioni decisive per la produzione degli effetti giuridici ad esso assegnato dall'ordinamento platealmente false laddove attesta la congruità dell'intervento con il preesistente, con supino recepimento delle indicazioni, parimenti false, contenute nella relazione in cui la proprietaria committente ed il tecnico progettista quantificano le dimensioni al fine esclusivo di aumentare le stesse (...)" ed escludendo la possibilità di un mero errore tecnico.
Tale ultimo aspetto offre valida risposta alla questione concernente la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato, atteso che la falsità delle indicazioni circa l'originaria consistenza del manufatto crollato era evidente per le modalità con le quali si assumeva verificata ed immediatamente percepibile dall'imputato in quanto soggetto tecnicamente qualificato, a nulla rilevando il fatto che altri soggetti coinvolti nel procedimento amministrativo, quali la Soprintendenza, non avrebbero riscontrato tale anomala situazione, trattandosi peraltro di dato fattuale non riscontrabile in questa sede.
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6. Quanto al secondo e terzo motivo di ricorso, osserva il Collegio che gli stessi riguardano la sussistenza del falso in relazione al titolo abilitativo paesaggistico e sollevano questioni analoghe a quelle più volte affrontate da questa Corte con riferimento alla vicenda delle illecite cessioni di cubatura, che hanno visto coinvolto anche l'odierno ricorrente, sicché pare opportuno richiamare, anche in questa occasione, i precedenti arresti giurisprudenziali.
Nei diversi casi sottoposti all'attenzione di questa Corte la condotta attribuita agli imputati veniva originariamente qualificata come violazione dell'art. 479 cod. pen. e poi riqualificata ai sensi dell'art. 480 cod. pen.
In una recente decisione (Sez. 3, n. 28713 del 19/04/2017, Colella ed altri, non massimata) riguardante una vicenda relativa al comune di Morciano di Leuca, richiamate altre decisioni attinenti a procedimenti aventi ad oggetto fatti analoghi (Sez. 3, n. 42064 del 30/06/2016, Quaranta e altri, Rv. 268083; Sez. 5, n. 35556 del 26/04/2016, Renna, Rv. 267953), si è ricordato, con riferimento al più grave reato di cui all'art. 479 cod. pen., in quell'occasione contestato, come lo stesso si configuri con il rilascio di autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente, nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal richiedente circa la sussistenza dei presupposti giuridico-fattuali per l'accoglimento della relativa domanda, essendo l'organo competente obbligato a svolgere in qualunque modo, e non necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive verifiche in merito alla sussistenza delle relative condizioni.
Ancora, va ricordato il principio secondo il quale è configurabile il delitto di falso ideologico nella valutazione tecnica formulata in un contesto implicante l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi (ribadito in Sez. 3, n. 41373 del 17/07/2014, P.M in proc. Pasteris e altri, Rv. 260968, non massimata sul punto, che a sua volta richiama Sez. 1, n. 45373 del 10/06/2013, Capogrosso e altro, Rv. 257895).
Anche altre decisioni hanno specificato che, se pure è vero che, nel caso in cui il pubblico ufficiale sia libero nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto, tuttavia, se l'atto da compiere fa riferimento, anche implicito, a previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, con conseguente integrazione della falsità se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato (Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, p.c. in proc. Platamone e altro, Rv. 254305; si vedano anche Sez. 5, n. 39360 dell 05/07/2011, Gulino, Rv. 251533; Sez. 5, n. 14486 del 21/02/2011, Marini e altro, Rv. 249858).
Tali principi sono stati anche recentemente ribaditi (Sez. 3, n. 9881 del 08/02/2018, Costantini ed altri, cit.; Sez. 3, n. 2281 del 24/11/2017 (dep. 2018), Siciliano ed altri, cit.. V. anche Sez. 3, n. 57120 del 29/09/2017, Borrello ed altro, non massimata; Sez. 3, n. 57108 del 17/05/2017, Renna, non massimata. V. anche Sez. 3 n. 18890 del 08/11/2017 (dep. 2018), Renna non ancora massimata).
Si è conseguentemente ritenuto che i provvedimenti autorizzativi rilasciati fossero fondati su presupposti urbanistici e paesaggistici falsi, contenuti anche nella relazione tecnica e, come tale, anch'essa falsa.
Va conseguentemente considerato che, dovendo la discrezionalità tecnica essere vincolata alla verifica della conformità della situazione fattuale alle previsioni normative, il reato di falso ideologico è pienamente configurabile quando detto giudizio di conformità non sia rispondente, come nei casi esaminati, ai parametri normativi richiesti per l'emanazione di atti amministrativi, che la veridicità di determinate situazioni fattuali richiedono quali necessari presupposti per l'integrazione delle fattispecie giuridiche di riferimento, ossia nei casi in cui l'agente, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o anche solo di criteri tecnici generalmente accettati, se ne discosti consapevolmente in modo da creare, con la propria idonea e concreta condotta, una situazione di pericolo per il normale svolgimento del traffico giuridico, impedendo all'atto pubblico di adempiere alla funzione di affidamento che gli è propria.
Occorre poi rilevare come, in alcune occasioni, altre decisioni di questa Corte siano giunte a conclusioni diverse, le quali, tuttavia, non pongono in discussione i principi dianzi ricordati, i quali, pienamente condivisi dal Collegio, meritano conferma.
Invero, le difformi decisioni prendono in considerazione il fatto specifico, riconoscendo come corrispondenti al vero i fatti rappresentati negli elaborati progettuali (Sez. 3, n. 4566 del 10/10/2017 (dep. 2018), Morciano ed altro, non massimata), sul difetto dell'elemento soggettivo (v. Sez. 5 n. 37915 del 26/04/2017, Baglivo, non massimata) ovvero sostenendo che la valutazione oggetto di imputazione, essendo correlata alla mera interpretazione della normativa di settore, ma svincolata da qualsiasi riferimento ad elementi fattuali integranti il presupposto dell'atto, è priva di quella funzione informativa in forza della quale l'enunciato può essere predicato di falsità (Sez. 5, n. 19384 del 12/2/2018, De Micheli ed altri, non massimata; Sez. 5, n. 7879 del 16/01/2018, Daversa e altri, Rv. 272457).
Si tratta, in tale ultimo caso, di una non condivisibile qualificazione dei contenuti dell'atto che si assume falso, perché, come si è affermato in una recente pronuncia (Sez. 3, n. 8844 del 18/01/2018, Renna ed altro, non massimata, la quale a sua volta richiama Sez. 3, n. 57108 del 17/05/2017, Renna, cit. Negli stessi termini, Sez. 3, n. 8852 del 18/01/2018, Dilonardo ed altri, non massimata), nell'autorizzazione paesaggistica vengono attestate la conformità urbanistica e la compatibilità ambientale delle opere da edificare, esprimendo quindi un giudizio in base alla rispondenza dell'intervento edilizio ad oggettivi e preesistenti criteri normativi, in quanto tale non caratterizzato da mera discrezionalità tecnica, quanto, piuttosto, da una verifica oggettiva.
Quanto alla sussistenza dell'elemento soggettivo, nei casi esaminati si è sempre attribuito decisivo rilievo alla piena conoscenza della normativa di settore, da parte dei soggetti coinvolti, trattandosi di tecnici, alla insostenibilità della tesi difensiva della difficoltà della normativa edilizia riferita alle zone agricole ed al fatto che la procedura seguita rientrasse in una "prassi" seguita dagli uffici comunali (Sez. 3, n. 35166 del 28/03/2017, Nespoli ed altri, citata), alla sistematicità del meccanismo ideato per aggirare la disciplina urbanistica e paesaggistica, rilevando, in definitiva, come i giudici del merito avessero del tutto legittimamente riconosciuto la piena consapevolezza, da parte degli imputati, della illiceità delle loro azioni e, segnatamente, della non compatibilità dell'intervento edilizio con la destinazione di zona.
Tali principi, come si è detto, sono applicabili anche nel caso in esame ed ad essi si è opportunamente allineata la Corte territoriale, ponendo in evidenza come l'atto del quale è stata riconosciuta la falsità "contiene qualificazioni decisive per la produzione degli effetti giuridici ad esso assegnato dall'ordinamento platealmente false laddove attesta la congruità dell'intervento con il preesistente, con supino recepimento delle indicazioni, parimenti false, contenute nella relazione in cui la proprietaria committente ed il tecnico progettista quantificano le dimensioni al fine esclusivo di aumentare le stesse (...)" ed escludendo la possibilità di un mero errore tecnico.
Tale ultimo aspetto offre valida risposta alla questione concernente la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato, atteso che la falsità delle indicazioni circa l'originaria consistenza del manufatto crollato era evidente per le modalità con le quali si assumeva verificata ed immediatamente percepibile dall'imputato in quanto soggetto tecnicamente qualificato, a nulla rilevando il fatto che altri soggetti coinvolti nel procedimento amministrativo, quali la Soprintendenza, non avrebbero riscontrato tale anomala situazione, trattandosi peraltro di dato fattuale non riscontrabile in questa sede (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.08.2018 n. 39340).

APPALTIArtificioso frazionamento. C’è abuso di ufficio. Sentenza della Cassazione.
In caso di artificioso frazionamento di un appalto il responsabile del procedimento è imputabile per il reato di abuso d'ufficio.

Lo afferma la Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 11.06.2018 n. 26610.
Era accaduto che, frazionando artificiosamente un intervento, il responsabile unico del procedimento affidasse i lavori attraverso la procedura del cottimo fiduciario, omettendo l'applicazione della procedura di cui al comma 8 dell'art. 125 del testo allora vigente (2010) del codice dei contratti pubblici.
In particolare l'appalto, avente ad oggetto i lavori di rifacimento del lucernaio di un capannone, era stato suddiviso in cinque distinti interventi, tre dei quali dell'importo di euro 40 mila e due di importo inferiore, uno corrispondente a euro 25 mila e l'altro di euro 34 mila. Si era quindi proceduto ad affidamento dei lavori con la procedura del cottimo fiduciario, senza procedere neppure alla consultazione di almeno altre quattro ditte.
La Cassazione ha confermato che è stato puntualmente ricostruito il rapporto di conoscenza dell'imputato con l'amministratore della società che aveva eseguito, nel medesimo capannone, lavori di ampliamento ed il procedimento di affidamento dei nuovi ed ulteriori lavori.
La macroscopica illegittimità della procedura, si legge nella sentenza, denota per la Suprema corte, a chiare lettere, l'elemento soggettivo del dolo intenzionale, ossia la rappresentazione e la volizione dell'evento come conseguenza diretta e immediata della condotta dell'agente e obiettivo primario da costui perseguito.
Questa condotta risulta inequivocabilmente orientata a procurare il vantaggio patrimoniale alla società assegnataria dei lavori, finalità rispetto alla quale non rileva la circostanza che la ditta avesse poi direttamente eseguito buona parte dei lavori e non, come da originaria contestazione, solo una parte mentre la parte restante era stata affidata in subappalto alla Im..
Il dolo, inoltre, prescinde dall'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, potendo essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto
(articolo ItaliaOggi del 17.08.2018).
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MASSIMA
3. Anche il secondo motivo di ricorso non è fondato.
Deve escludersi, sulla scorta della ricostruzione compiuta nella sentenza impugnata ed in quella di primo grado che il ricorrente sia stato condannato, in violazione dell'art. 521 cod. proc. pen., per un fatto diverso da quello che aveva costituito oggetto di addebito nella originaria contestazione, benché le sentenze di merito diano diffusamente atto che, durante l'istruttoria dibattimentale, era emerso, in relazione al vizio di violazione di legge che inficiava la procedura di scelta del contraente seguita per l'affidamento dei lavori, un aspetto, cioè che l'importo di tre degli ordinativi non consentiva di procedere all'affidamento diretto dei lavori.
Tale vizio, tuttavia, non aveva costituito oggetto di contestazione e, men che mai, è stato oggetto di addebito con le decisioni che avevano affermato la penale responsabilità del Pi..
3.2 Per come è dato evincere dalla sentenza impugnata, An.Pi. è stato ritenuto responsabile del reato di abuso di ufficio perché, al fine di procurare un indebito vantaggio patrimoniale alla Ed., aveva, artificiosamente frazionato, in accordo con il defunto amministratore della società che aveva inviato i corrispondenti preventivi, l'appalto avente ad oggetto i lavori di rifacimento del lucernaio di un capannone, suddividendoli in cinque distinti interventi, tre dei quali dell'importo di euro 40.000,00 e due di importo inferiore, uno corrispondente ad euro 25.000,00 e l'altro di euro 34.000, così procedendo ad affidamento dei lavori con la procedura del cottimo fiduciario, senza procedere neppure alla consultazione di almeno altre quattro ditte.
Secondo il ricorrente, invece, dall'istruttoria dibattimentale era emerso che il vizio che inficiava la procedura di scelta del contraente era ravvisabile nella circostanza che anche per l'appalto di lavori di importo pari a 40.000,00 euro -e non solo superiori a detto importo- era d'obbligo procedere a gara, vizio, questo, che non aveva costituito oggetto di contestazione e rispetto al quale erano risultate elusive le risposte alle deduzioni difensive contenute nella sentenza impugnata ed in quella di primo grado.
3.3. Ritiene il Collegio, sulla scorta dei profili di illegittimità individuati nelle sentenze di merito in relazione alla descritta procedura, che deve escludersi siano stati addebitati al ricorrente vizi della procedura diversi ed ulteriori rispetto a quelli che avevano costituito oggetto dell'originaria contestazione e che, in ogni caso, la valutazione compiuta dai giudici del merito, quanto alla configurabilità del delitto di abuso ascrittogli, è operata in conseguenza di una valutazione logica del materiale processuale e senza alcun rilevante errore di diritto circa gli elementi costitutivi essenziali del fatto, ai fini della sua sussunzione nella fattispecie incriminatrice, con la conseguenza che la Corte di Cassazione non può compiere un diverso apprezzamento dei dati fattuali venendo, altrimenti, vulnerato il principio dell'autonomia esclusiva del convincimento in fatto del giudice di merito.
4. Per mera completezza, ed in aggiunta ai rilievi testé svolti, ritiene il Collegio che può perfino dubitarsi, a livello epistemologico, che l'ulteriore aspetto di illegittimità denunciato dal ricorrente -cioè, che l'importo di tre dei cinque ordinativi rendeva obbligatorio procedere a gara- sia tale da connotare il fatto originariamente contestato in termini di fatto diverso -men che mai in termini di fatto nuovo-, non trattandosi di aspetto tale da ingenerare il dubbio che il fatto materiale ascritto all'imputato si sia svolto in tempi, in luoghi o con modalità difformi a quelle descritte nell'imputazione e tenuto conto, altresì, che la violazione dell'obbligo di correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza, non si verifica quando l'accusa venga precisata o integrata con le risultanze di atti acquisiti al processo, e quando la modifica, rispetto all'accusa originaria, non abbia in alcun modo menomato le possibilità di difesa (Sez. 2, n. 18868 del 10/02/2012 - dep. 17/05/2012, Osmenaj, Rv. 252822), e, in particolare, quando il fatto ritenuto in sentenza, quantunque diverso da quello contestato, sia stato prospettato dallo stesso imputato, atteso che, avendo in tal caso il medesimo imputato apprestato la necessaria difesa in relazione alla diversa prospettazione del fatto volontariamente offerta.
5. Corrisponde all'osservanza di precise regole nella valutazione delle prove, di completezza e logicità della motivazione, l'iter argomentativo posto a fondamento della sentenza impugnata con riguardo alla individuazione e sussistenza dell'ingiusto vantaggio patrimoniale che, quale diretta conseguenza della condotta abusiva, i giudici di appello hanno individuato nell'avere procurato alla Ed. una commessa alla quale l'impresa non aveva alcun diritto.
Nella sentenza (cfr. pag. 11) è stato puntualmente ricostruito il rapporto di conoscenza dell'imputato con l'amministratore della società Ed. (nel frattempo deceduto) che aveva eseguito, nel medesimo capannone, lavori di ampliamento ed il procedimento di affidamento dei nuovi ed ulteriori lavori -oggetto di contestazione- che veniva seguito personalmente dall'imputato, nella qualità, a partire dal sopralluogo eseguito nel mese di luglio 2009, per verificare le infiltrazioni, sopralluogo al quale aveva fatto seguito, in mancanza di una previsione di spesa dei lavori da eseguire, la presentazione, da parte della società, dei preventivi che, ritoccati nell'importo ridotto a quarantamila euro, vennero poi posti a base degli ordini di lavoro che, pur investendo un intervento sostanzialmente e funzionalmente unitario (cioè il rifacimento del tetto del capannone) risultavano, senza alcuna apparente ragione, senza alcuna ragionevole giustificazione e in contrasto con le previsioni recate dall'art. 125, comma 13, del Codice degli appalti, artificiosamente frazionati (la costruzione del ponteggio per la esecuzione dei lavori, oggetto del primo ordine; lo smontaggio dei pannelli di copertura del tetto, oggetto del secondo; la fornitura e posa in opera dei strutture, oltre alla pitturazione trasporto a discarica del materiale di risulta, il terzo, quarto e quinto ordine) allo scopo di sottoporli alla disciplina delle acquisizioni in economia, ovvero attraverso la procedura del cottimo fiduciario, così in concreto seguita.
6.
La macroscopica illegittimità della procedura seguita, secondo le corrette valutazioni dei giudici del merito, denota a chiare lettere l'elemento soggettivo del dolo intenzionale, ossia la rappresentazione e la volizione dell'evento come conseguenza diretta e immediata della condotta dell'agente e obiettivo primario da costui perseguito ( Sez. 6, n. 35859 del 07/05/2008, Pro, Rv. 241210; Sez. 5, n. 3039 del 03/12/2010, Marotta e altri, Rv. 249706) e risulta inequivocabilmente orientata a procurare il vantaggio patrimoniale alla società assegnataria dei lavori, finalità rispetto alla quale non rileva la circostanza che la ditta avesse poi direttamente eseguito buona parte dei lavori e non, come da originaria contestazione, solo una parte mentre la parte restante era stata affidata in subappalto alla Im.. Il dolo, inoltre, prescinde dall'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, potendo essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto (Sez. 3, n. 57914 del 28/09/2017, Di Palma e altri, Rv. 272331).
7. Come noto
ai fini del perfezionamento del reato di abuso d'ufficio assume rilievo il concreto verificarsi (reale o potenziale) di un ingiusto vantaggio patrimoniale che il soggetto attivo procura con i suoi atti a se stesso o ad altri, ovvero di un ingiusto danno che quei medesimi atti procurano a terzi (Sez. 6, n. 36020 del 24/05/2011, Rossattini, Rv. 250776).
È, quindi, necessario che sussista la cosiddetta doppia ingiustizia, nel senso che ingiusta deve essere la condotta, perché connotata da violazione di legge, ed ingiusto deve essere l'evento di vantaggio patrimoniale, in quanto non spettante in base al diritto oggettivo regolante la materia e nel caso comprovato dal favoritismo accordato alla Ed. assicurandole l'appalto, frazionato in cinque ordinativi, e con l'intenzione di arrecarle un vantaggio, evitando la gara.

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOAbuso d’ufficio al sindaco che revoca in anticipo l'incarico di posizione organizzativa.
Al di fuori delle ipotesi tipizzate dalla legge, dal contratto o dal regolamento degli uffici e dei servizi, il sindaco che dispone la revoca anticipata dell'incarico di posizione organizzativa, del responsabile dei servizi finanziari, commette il reato di abuso d’ufficio.

Sono le conclusioni della sentenza 04.05.2018 n. 19519 della Corte di Cassazione, Sez. IV penale.
La vicenda
Il sindaco di un piccolo Comune, in prospettiva di una ristrutturazione dell'apparato organizzativo che potesse condurre a una razionalizzazione della spesa, ha proceduto alla revoca anticipata dell'incarico del responsabile del servizio finanziario assumendone ad interim le funzioni.
Il responsabile estromesso ha denunciato il sindaco per violazione delle norme legislative, contrattuali e regolamentari con una risoluzione anticipata dell'incarico in mancanza dei presupposti. Il responsabile, infatti, ha lamentato che il provvedimento ha procurato un danno ingiusto, per perdita del trattamento economico, oltre che asseritamente punitivo.
Dopo la condanna per abuso d’ufficio da parte del tribunale successivamente confermata in Corte d’appello, il sindaco ha proposto ricorso in Cassazione evidenziando l'errore in cui erano incorsi i giudici per non avere adeguatamente valutato che il provvedimento di revoca avrebbe condotto a un contenimento della spesa pubblica espressamente previsto da altra norma di legge (articolo 53, comma 23, legge n. 388 del 2000) per i piccoli Comuni.
La conferma della Suprema Corte
Secondo la Cassazione, integra il reato di abuso d’ufficio non solo la condotta del pubblico ufficiale in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche le condotte che siano dirette alla realizzazione di un interesse che collide con quello per il quale il potere è conferito, ponendo in essere un vero e proprio sviamento della funzione. In tema di revoca dell'incarico dirigenziale disposto nel caso di specie dal sindaco, l'atto diviene strumento attraverso il quale si realizza il reato.
Infatti, come correttamente rilevato dalla Corte d’appello, la revoca era stata disposta dal sindaco prima della modifica del modello organizzativo che conferiva ai membri dell'organo esecutivo, per un possibile risparmio della spesa, la titolarità della conduzione degli uffici. In altri termini, l'atto di revoca proprio perché privo di effettiva motivazione in quanto disposto prima dell'adozione di un atto organizzativo, mostra la sua obbligatoria distanza dal paradigma legislativo e/o contrattuale.
Caduta, pertanto, la motivazione organizzativa, la revoca dell'incarico sarebbe stata legittima solo qualora fosse stata conforme all'articolo 109 del Dlgs 267/2000, dove è stabilito che la revoca prima della scadenza degli incarichi dirigenziali intervenga, tra l'altro, in caso di inosservanza delle direttive del sindaco o di mancato raggiungimento, alla fine di ogni anno finanziario, degli obiettivi assegnati o per responsabilità particolarmente grave e reiterata o nei casi disciplinati dai contratti collettivi di lavoro.
Avendo, pertanto, agito il sindaco al di fuori delle ipotesi tipizzate e, quindi, in violazione di legge, ha avuto un comportamento che definisce l'elemento soggettivo quale dolo di abuso secondo l’articolo 323 del codice penale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.05.2018).
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4. La deduzione è altresì irrilevante.
In tema di abuso d'ufficio, la violazione di legge cui fa riferimento l'art. 323 cod. pen. riguarda non solo la condotta del pubblico ufficiale in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche le condotte che siano dirette alla realizzazione di un interesse collidente con quello per quale il potere è conferito, ponendo in essere un vero e proprio sviamento della funzione (Sez. 6, n. 43789 del 18/10/2012, Contiguglia, Rv. 254124).
Ove l'abuso di ufficio si realizzi per adozione di un atto di revoca, l'atto diviene strumento attraverso il quale si realizza il comportamento costituente reato perseguendosi per il primo l'intento di recare un danno obiettivamente ingiusto, qual è per l'appunto la revoca di incarico, a cui si accompagnano negative implicazioni economiche, funzionali e di immagine connesse, al di fuori dei casi consentiti.
L'estraneità dell'atto dallo schema legale tipico si pone in tal caso di intensità tale da sconfinare in 'comportamento' per l'assenza dei presupposti di fatto che consentono di ravvisare nel primo l'azione della Pubblica amministrazione
(Sez. 6, n. 19135 del 02/04/2009, Palascino, Rv. 243535; Id., n. 37172 del 11/06/2008, Gatto, Rv. 240932).
Fermi gli indicati principi, vero è che la questione della tempestività della delibera di giunta in ordine alla diversa organizzazione dell'apparato comunale, comunque non posta tempestivamente nel giudizio di merito, non viene trattata come capace di rivelare o escludere le ragioni vendicative che del decreto di revoca dell'incarico dirigenziale avrebbero sostenuto l'adozione.
La Corte di appello ragiona invero, conformando in tal modo il proprio giudizio a quello del giudice di primo grado, sulla illegittimità del decreto di revoca nella rilevata insussistenza al momento della sua adozione di un provvedimento organizzativo che, in quanto cronologicamente precedente, della revoca legittimasse l'adozione.
Ai fini della configurabilità del reato di abuso di ufficio, l'esigenza di dotare la compagine amministrativa locale di una diversa organizzazione con attribuzione, ai fini di contenimento della spesa, ai componenti dell'organo esecutivo della responsabilità degli uffici e dei servizi e del potere di adottare atti anche di natura tecnico-gestionale, ai sensi dell'art. 53, comma 23, d.lgs. n. 267 del 2000, vale a giustificare per l'art. 109 d.lgs. n. 267 del 2000, la revoca del dirigente ai servizi in precedenza nominato se ed in quanto la delibera di adozione del diverso modello preceda la revoca stessa.
Non può infatti diversamente valere la mera intenzione enunciata dal pubblico amministratore nel provvedimento di revoca del dirigente di dotarsi, in futuro, del nuovo modello organizzativo.
Il contenimento della spesa deve invero poter essere documentato ogni anno, con apposita delibera, in sede di approvazione del bilancio, evidenza espressiva, ai fini dello scrutinio dell'abuso di ufficio, della mancanza di una intenzione di malevolenza nell'adozione dell'atto di revoca che resta così giustificato dall'obiettivo fine del contenimento della spesa pubblica, verificabile per aperto confronto tra costi originari e risparmi conseguiti.
La necessità che la diversa scelta organizzativa preceda e non segua la revoca ex art. 109 d.lgs. cit. vale a sottrarre quest'ultima ad ogni apprezzamento di strumentalità rispetto al diverso fine emulativo delle posizioni del dirigente revocato ed ove rimasta inosservata integra quel rilevante distacco dall'atto tipico che dello stesso rivela la natura di comportamento illegittimo, estraneo all'azione della pubblica amministrazione.

Le evidenziate circostanze, chiare nella motivazione adottata dalla Corte di merito, restano quindi inammissibilmente contestate in ricorso per una pretesa adozione del diverso atto organizzativo in un'epoca che, seppure successiva, sarebbe comunque rimasta prossima al decreto di revoca in tal modo ancora sostenendo, si assume, la legittimità dell'atto nella sua necessitata esigenza di contenimento della spesa pubblica.
5. A fronte della richiamata ricostruzione della illegittimità dell'atto degradato in comportamento, in ogni caso l'elemento intenzionale del contestato reato resta pure in modo inefficace contrastato là dove in ricorso si deduce che la stessa persona offesa, escussa in sede dibattimentale in primo grado, avrebbe riferito di una propria intenzione di candidarsi nella lista avversaria rispetto a quella del sindaco Fi. nell'anno 2010 e quindi solo successivamente all'intervenuta revoca del novembre del 2009.
Si tratta invero di un parcellizzato richiamo, in ricorso, alle dichiarazioni rese in sede di esame testimoniale dall'offeso che non vale a sottrarre concludenza alla diversa e piena affermazione, contenuta nell'impugnata sentenza, dell'esistenza dell'estremo soggettivo del contestato reato per un più ampio quadro di prova in cui convergono univocamente anche le dichiarazioni del teste Ma., non attinte da critica, e per le quali il sindaco avrebbe rivelato l'intenzione di addivenire a revoca dell'incarico nella registrata frattura del rapporto di fiducia con l'Ab..
In ogni caso, rispetto a siffatta cornice, all'interno della quale in modo pregnante è definito l'elemento soggettivo, la pure dedotta vicinanza temporale tra revoca e diverso atto organizzativo non vale ad escludere il dolo di abuso ex art. 323 cod. pen. e lascia anche per tale profilo inefficacemente e quindi inammissibilimente proposto il ricorso.

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALINiente abuso d’ufficio per il sindaco che nomina il segretario a capo dei vigili urbani.
La Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 20.04.2018 n. 17991, ha accolto il ricorso di un sindaco e del segretario di un Comune che non dovranno neppure risarcire le parti civili perché i fatti a loro addebitati non costituiscono reato.
La vicenda
Il caso è caratterizzato da un lungo contenzioso tra il sindaco e il segretario comunale da una parte, e una dipendente dall'altra.
In particolare tra una dipendente (parte civile) risultata vincitrice di un concorso bandito dal Comune per la copertura del posto di comandante della polizia municipale e assunta con quella qualifica con contratto a tempo indeterminato, e l’amministrazione si erano verificati dei dissapori a causa di indebite pressioni esercitate sulla stessa dipendente.
La cosa sfociò nel licenziamento della dipendente, licenziamento dichiarato illegittimo dal giudice del lavoro che ordinò la reintegra nel posto di lavoro della donna, mai eseguita dal Comune. Il sindaco intanto aveva nominato un'altra persona a capo della polizia municipale. Per questo i giudici del merito hanno condannato sindaco e segretario generale per il reato di abuso d'ufficio; avverso la sentenza sfavorevole i due imputati sono ricorsi in Cassazione.
La decisione
La valutazione dei giudici di merito cade nell'equivoco, secondo i giudici di legittimità, in quanto considera violata una norma dell'ordinamento di polizia locale, dettata per l'istituzione e l’organizzazione dei corpi e dei servizi di polizia locale, non applicabile al caso in esame.
La Cassazione osserva come la normativa nazionale e regionale stabilivano, come riconosciuto dalla sentenza della Corte d’appello, che nel caso in esame non risulta istituito il Corpo di polizia municipale, con la conseguenza che la dipendente era nominata capo del settore, ma non responsabile del servizio di polizia municipale, rientrando questa nomina nelle competenze del sindaco a norma dell'articolo 50, comma 10, del Dlgs 267/2000 e dell'articolo 8 del regolamento comunale: e infatti, il sindaco aveva nominato responsabile della polizia municipale il segretario comunale che dava esecuzione alle delibere di Giunta con la quale venivano individuati i responsabili dei servizi dell'ente.
Da questa ricostruzione discende la non necessaria coincidenza delle funzioni di comandante della polizia municipale e di responsabile del servizio, prevista solo per il comandante del Corpo di polizia municipale dall'articolo 7 della legge 65/1986, e l'erronea impostazione del ragionamento dei giudici di merito (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.04.2018).
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MASSIMA
3. Nel merito i ricorsi sono fondati.
L'impostazione dei giudici di merito poggia su un equivoco di fondo ovvero sulla istituzione del Corpo di polizia municipale nel comune di Sperlonga, al quale si aggiungono la non corretta distinzione tra competenze del comandante di polizia municipale e responsabilità del servizio e l'interpretazione delle norme regolamentari, statutarie e regionali, come riconosciuto nelle sentenze prodotte dai difensori dei ricorrenti.
Va peraltro, evidenziato che la stessa persona offesa ha ammesso di non aver mai ottenuto la nomina di responsabile del servizio di polizia municipale, essendo le competenze affidate al segretario comunale, al quale spettava la gestione delle risorse finanziarie, limitandosi ella alla gestione delle spese ordinarie; ha anche ammesso di aver continuato ad esercitare sino al licenziamento le funzioni di comandante della polizia municipale.
Sia l'art. 7 della legge n. 65/1986 che l'art. 2, comma 2, della legge regionale n. 20/1990 stabilivano che "i comuni, che destinano almeno sette addetti al servizio di polizia locale, possono istituire il Corpo di polizia municipale" ed anche l'art. 12, comma 1, della legge regionale n. 1/2005 lo ribadisce, ma, come riconosciuto dalla sentenza della Corte di appello di Roma, Sezione lavoro, presso il comune di Sperlonga non risulta istituito il Corpo di polizia municipale, con la conseguenza che la d.ssa Ci. era nominata capo del settore, ma non responsabile del servizio di polizia municipale, rientrando tale nomina nelle competenze del sindaco a norma dell'art. 50, comma 10, d.lgs. 267/2000 e dell'art. 8 del regolamento comunale: ed infatti, il Cu. aveva nominato responsabile della polizia municipale il segretario comunale con il provvedimento del 30.01.2001 in atti, che dava esecuzione alle delibere di Giunta del 23.01.2001 con la quale venivano individuati i responsabili dei servizi dell'ente secondo le previsioni degli artt. 7 e 8 del regolamento degli uffici e dei servizi, approvato con delibera n. 41 del 20.02.1998.
Da tale ricostruzione
discende la non necessaria coincidenza delle funzioni di comandante della polizia municipale e di responsabile del servizio, prevista solo per il comandante del Corpo di polizia municipale dall'art. 7 l. 65/1986, e l'erronea impostazione del ragionamento dei giudici di merito.
Pur non potendosi negare che sino al momento in cui si verificarono le frizioni tra i vertici comunali e la persona offesa, alla stessa era stato consentito di esercitare attribuzioni, poi assunte dal responsabile del servizio, e che tale comportamento dell'amministrazione aveva creato nella Ci. un legittimo affidamento ed il convincimento di essere stata esautorata dei propri poteri, innescando una sequenza di provvedimenti ed un insanabile contrasto, sfociato nel licenziamento, ritenuto legittimo anche dai giudici di secondo grado, come già detto,
la linea di condotta tenuta dall'amministrazione non risulta in contrasto con il quadro normativo ricostruito in precedenza.
Analogamente deve escludersi l'illegittimità della delibera n. 76 del 03.05.2005 di adozione del nuovo regolamento comunale, che riorganizzava la struttura dell'ente con l'istituzione di aree, accorpando nell'Area III, Servizi al cittadino, il servizio di polizia municipale, e ne attribuiva la presponsabilità ad un funzionario di vertice, come riconosciuto dal Consiglio di stato nella sentenza n. 6065 del 2008, che ha sancito la legittimità dell'atto riorganizzativo degli uffici e dei servizi comunali, escludendone il contrasto con lo statuto comunale.
A fronte del giudicato amministrativo, già i giudici di primo grado avevano escluso, in linea con la sentenza del giudice amministrativo, la violazione dell'art. 30 dello statuto comunale ed anche dell'art. 110 TUEL, ma avevano ravvisato un profilo di illegittimità nell'attribuzione al capo area, in aggiunta ai poteri di direzione e vigilanza della stessa, della responsabilità del servizio di polizia locale con mansioni e compiti propri del comandante, in violazione dell'art. 12, lett. c), della legge regionale n. 1/2005, e tale valutazione ha trovato concordi i giudici di appello.
A differenza di quanto sostenuto dai ricorrenti, tale valutazione non integra la violazione del giudicato amministrativo, essendo stato individuato un profilo di illegittimità non valutato in tale sede e ciò è in linea con l'orientamento giurisprudenziale di questa Corte, secondo il quale al giudice penale è preclusa la valutazione della legittimità dei provvedimenti amministrativi che costituiscono il presupposto dell'illecito penale qualora sul tema sia intervenuta una sentenza irrevocabile del giudice amministrativo, ma tale preclusione non si estende ai profili di illegittimità, fatti valere in sede penale, che non siano stati dedotti ed effettivamente decisi in quella amministrativa (Sez. 3, n. 44077 del 18/07/2014, Scotto Di Clemente, Rv. 260612).
Tuttavia, la valutazione dei giudici di merito ricade nell'equivoco indicato in precedenza, in quanto considera violata una norma dell'ordinamento di polizia locale, dettato per l'istituzione ed organizzazione dei corpi e dei servizi di polizia locale, non applicabile al caso in esame.
Il tema è diffusamente trattato nelle sentenze di primo e di secondo grado emesse dai giudici del lavoro, ai quali la persona offesa aveva chiesto di dichiarare l'illegittimità della dequalificazione e del demansionamento subiti con riassegnazione delle funzioni di comandante della polizia municipale. Muovendo dalla legittimità del regolamento, riconosciuta dal giudice amministrativo, e dall'inequivoco tenore dell'art. 42 del regolamento, che attribuisce al capo dell'area III, Servizi al cittadino, la responsabilità del servizio di polizia locale e ne individua in modo specifico le attribuzioni, tra le quali rientrano l'emanazione degli ordini di servizio e la gestione del personale mediante assegnazione alle unità operative secondo le specifiche necessità, i giudici hanno ritenuto infondata la domanda della Ci. di riassegnazione alle mansioni di responsabile del servizio di polizia municipale, ribadendo la distinzione tra le funzioni di responsabile del servizio e di comandante della polizia locale, funzioni queste che l'istante aveva continuato ad esercitare.
Alla luce della ricostruzione che precede e delle sentenze emesse dal giudice amministrativo e dai giudici dei lavoro, che la confermano,
devono ritenersi insussistenti gli elementi costitutivi degli abusi di ufficio contestati, fondati su un'erronea interpretazione delle norme e della situazione di fatto esaminata.
Ne consegue l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché i fatti reato ascritti ai ricorrenti non sussistono e la revoca delle statuizioni civili adottate a carico degli stessi.

PUBBLICO IMPIEGO: Abuso d'ufficio in riferimento ad un atto interno al procedimento amministrativo - Formulazione di un parere consultivo espresso contra legem - Fattispecie: Concorso dei privati nell'iter criminis.
La fattispecie di abuso d'ufficio può essere integrata anche in riferimento ad un atto interno al procedimento amministrativo, non rilevando la circostanza che il provvedimento definitivo sia emesso da altro pubblico ufficiale (ex plurimis, Sez. 3, n. 16449 del 13/12/2016, dep. 31/03/2017).
Sicché, in tema, di abuso di ufficio, può integrare la condotta del reato anche la formulazione di un parere consultivo, se espresso contra legem, nel caso in cui il giudice abbia accertato che il provvedimento finale sia stato frutto di accordo tra gli operanti, con la conseguenza che il predetto parere si inserisce nell'iter criminis come elemento diretto ad agevolare la formazione di un atto illegittimo ed in grado di far conseguire un ingiusto vantaggio (Cass. Sez. 2, n. 5546 del 11/12/2013, dep. 04/02/2014).
Fattispecie: concorso dei privati, laddove si fa riferimento all'accordo tra gli imputati che emerge dall'assoluta macroscopicità dell'abuso edilizio, evidenziata dalla stessa linea difensiva degli imputati, che si basa, da un lato, sull'affermata incertezza della effettiva consistenza dell'immobile preesistente e, dall'altro, sulla sostanziale ammissione della non corrispondenza dell'immobile oggetto dell'imputazione anche rispetto alla consistenza dell'immobile preesistente quale prospettata dalla stessa difesa.
Si è trattato, in sintesi, di un'operazione che ha visto la piena partecipazione di tutti i soggetti interessati allo scopo di realizzare un rilevante intervento di nuova costruzione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.04.2018 n. 15416 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: La fattispecie di abuso d'ufficio può essere integrata anche in riferimento ad un atto interno al procedimento amministrativo, non rilevando la circostanza che il provvedimento definitivo sia emesso da altro pubblico ufficiale.
E, in tema, di abuso di ufficio, può integrare la condotta del reato anche la formulazione di un parere consultivo, se espresso contra legem, nel caso in cui il giudice abbia accertato che il provvedimento finale sia stato frutto di accordo tra gli operanti, con la conseguenza che il predetto parere si inserisce nell'iter criminis come elemento diretto ad agevolare la formazione di un atto illegittimo ed in grado di far conseguire un ingiusto vantaggio.
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Inammissibile è il motivo con cui la difesa contesta la motivazione della sentenza impugnata circa il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Come ben evidenziato dalla Corte d'appello, la condotta dell'imputato presenta una rilevante gravità, perché l'assoluta evidenza degli abusi commessi denota una particolare pervicacia oltre a un totale dispregio della funzione pubblica esercitata.
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4.13. - I motivi sub 2.30., 2.33., 3.2. -che possono essere trattati congiuntamente, perché attengono alla sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi del reato di abuso d'ufficio- sono inammissibili, perché meramente ripetitivi di doglianze già motivatamente disattese dalla Corte d'appello.
Sul piano giuridico, deve permettersi che -contrariamente a quanto ritenuto dalle difese- il rilascio, da parte dell'imputato Ce., del parere favorevole è pienamente idoneo a integrare il reato di abuso d'ufficio.
Infatti, la fattispecie di abuso d'ufficio può essere integrata anche in riferimento ad un atto interno al procedimento amministrativo, non rilevando la circostanza che il provvedimento definitivo sia emesso da altro pubblico ufficiale (ex plurimis, Sez. 3, n. 16449 del 13/12/2016, dep. 31/03/2017, Rv. 269820).
E, in tema, di abuso di ufficio, può integrare la condotta del reato anche la formulazione di un parere consultivo, se espresso contra legem, nel caso in cui il giudice abbia accertato che il provvedimento finale sia stato frutto di accordo tra gli operanti, con la conseguenza che il predetto parere si inserisce nell'iter criminis come elemento diretto ad agevolare la formazione di un atto illegittimo ed in grado di far conseguire un ingiusto vantaggio (Sez. 2, n. 5546 del 11/12/2013, dep. 04/02/2014, Rv. 258206).
Quanto, poi, al concorso dei privati nel caso concreto, lo stesso è stato ben delineato nella sentenza impugnata (pagg. 51-52), laddove si fa riferimento all'accordo tra gli imputati che emerge dall'assoluta macroscopicità dell'abuso edilizio, evidenziata dalla stessa linea difensiva degli imputati, che si basa, da un lato, sull'affermata incertezza della effettiva consistenza dell'immobile preesistente e, dall'altro, sulla sostanziale ammissione della non corrispondenza dell'immobile oggetto dell'imputazione anche rispetto alla consistenza dell'immobile preesistente quale prospettata dalla stessa difesa.
Si è trattato, in sintesi, di un'operazione che ha visto la piena partecipazione di tutti i soggetti interessati allo scopo di realizzare un rilevante intervento di nuova costruzione. E tali considerazioni risultano pienamente idonee anche i fini della ritenuta sussistenza del dolo in capo agli imputati.
4.14. - La doglianza sub 3.1. -riferita alla ritenuta sussistenza del dolo del reato di falso in capo a Ce.- è anche essa inammissibile. La difesa nega l'evidenza laddove afferma che il pubblico ufficiale imputato avrebbe sottoscritto la documentazione di cui al capo di imputazione sul presupposto della veridicità della produzione del richiedente, senza considerare l'assoluta insufficienza di tale produzione al fine di accertare l'esistenza dei presupposti per qualificare l'intervento edilizio come di ristrutturazione anziché di nuova costruzione.
E anzi -come già ampiamente evidenziato- la totale difformità tra l'immobile preesistente e quello da realizzare emergeva in modo sufficientemente chiaro dalla documentazione di parte.
4.15. - Analoghe considerazioni valgono in relazione alla sussistenza dell'elemento soggettivo della contravvenzione edilizia, oggetto della doglianza sub 3.3., in presenza dei macroscopici elementi già delineati, che inducono a ritenere l'esistenza di un accordo fra gli imputati per la realizzazione dell'operazione edilizia abusiva.
4.16. - Inammissibile è anche il motivo sub 3.4., con cui la difesa di Ce. contesta la motivazione della sentenza impugnata circa il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Come ben evidenziato dalla Corte d'appello, la condotta dell'imputato presenta una rilevante gravità, perché l'assoluta evidenza degli abusi commessi denota una particolare pervicacia oltre a un totale dispregio della funzione pubblica esercitata; elementi a fronte dei quali l'incensuratezza non può assumere alcun rilievo, visto anche il disposto dell'art. 62-bis, terzo comma, cod. pen. (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.04.2018 n. 15416).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Abuso di ufficio - Adozione di permessi di costruire in violazione del PRG - Responsabilità del funzionario responsabile dell'Area Urbanistica del Comune - Cambio di destinazione d'uso dell'edificio - Art. 323 cod. pen. Giurisprudenza.
L'adozione di permessi di costruire in violazione delle disposizioni contenute nel piano regolatore integra violazione di legge rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 323 cod. pen. (Cass. Sez. 6, n. 16241 del 02/04/2001 Ud., Ruggeri; Sez. 6, n. 6247 del 14/03/2000, Sisti e a.) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.04.2018 n. 15166 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO - URBANISTICA: Opere di edilizia scolastica - Iter amministrativo - Violazione delle Norme Tecniche di Attuazione (N.T.A.) - Piano Regolatore Generale Comunale (P.R.G.C.) - Fattispecie: Cambio di destinazione d'uso dell'edificio - Contrasto con le prescrizioni dello strumento urbanistico - Abuso di ufficio.
In conformità al d.m. 02.04.1968, n. 1444 -che stabilisce i parametri urbanistici inderogabili da osservarsi per l'edificazione nelle zone territoriali omogenee di cui all'art. 41-quinquies, legge 17.08.1942, n. 1150 (c.d. legge urbanistica fondamentale), quale introdotto dall'art. 17, legge 06.08.1967, n. 675 (c.d. legge ponte)- il P.R.G.C. può stabilire che gli istituti di istruzione superiore siano collocati in zona F1, vale a dire nella zona territoriale del comune specificamente destinata ad ospitare gli impianti di interesse generale.
Questa previsione è aderente al disposto di cui all'art. 4, sub n. 5, d.m. 1444 del 1968 e rinviene la propria ratio nella circostanza che gli istituti superiori, avendo com'è noto indirizzi diversi, soprattutto in cittadine di non grandissime dimensioni, sono destinati ad essere frequentati da ragazzi che risiedono in differenti zone della città (e spesso in comuni limitrofi), sicché, da un lato, non v'è ragione di collocarli in particolari zone residenziali, servendo essi ad un'utenza vasta e variamente dislocata sul territorio, e, d'altro lato, vi è invece necessità di prevedere adeguate infrastrutture anche per i trasporti.
Sicché, l'ordinamento si fa carico di prevedere speciali e più agili procedure che consentano di risolvere i problemi dell'edilizia scolastica, se del caso derogando alle previsioni del piano regolatore, anche in assenza dell'approvazione di varianti al medesimo, laddove la rigidità delle relative disposizioni si riveli in contrasto con l'interesse pubblico connesso alle scelte legate al settore dell'istruzione.
Difatti, l'art. 10, legge 05.08.1975, n. 412 -richiamato e "stabilizzato", al di là dell'originario contesto che ne aveva visto l'approvazione, dall'art 88, d.lgs. 16.04.1994, n. 297- dopo aver affermato il principio secondo cui le aree necessarie per l'esecuzione delle opere di edilizia scolastica sono prescelte secondo le previsioni degli strumenti urbanistici approvati o adottati, stabilisce che «la individuazione delle aree in zone genericamente destinate dagli strumenti urbanistici a servizi pubblici, ovvero la scelta di aree non conformi, per sopravvenuta inidoneità di quelle già indicate, alle previsioni degli strumenti urbanistici, ovvero la scelta di aree in comuni i cui strumenti urbanistici non contengono la indicazione di aree per edilizia scolastica, ovvero in comuni sprovvisti di ogni strumento urbanistico, sono disposte con deliberazione del consiglio comunale, previo parere di una commissione composta dal provveditore regionale alle opere pubbliche, dall'ingegnere capo dell'ufficio del genio civile, dal provveditore agli studi della provincia, dal medico provinciale, dal sindaco, che la presiede, o da loro delegati [ ... ]. Nel caso di scelta di aree non conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici la deliberazione costituisce, in deroga alle norme vigenti, variante al piano regolatore generale ed agli altri strumenti urbanistici, a norma della legge 17.08.1942, n. 1150, e successive modificazioni ed integrazioni» (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.04.2018 n. 15166 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Reato urbanistico di abuso d'ufficio in concorso - Attività edificatoria realizzata sulla base di titoli illeciti o macroscopicamente illegittimi - Responsabilità del titolare del permesso, progettista e responsabile dell'ufficio tecnico comunale - Art. 323 c.p. abuso d'ufficio giurisprudenza.
Il reato urbanistico di abuso d'ufficio in concorso, sussiste laddove il permesso di costruire -pur formalmente rilasciato- sia illecito perché frutto di attività criminosa (nella specie, quanto al permesso di costruire in variante, è contestato l'abuso d'ufficio in concorso tra il titolare del permesso ed il suo progettista ed il responsabile dell'ufficio tecnico comunale) ovvero anche soltanto macroscopicamente illegittimo (Cass. Sez. 3, n. 7423 del 18/12/2014, Cervino e a.) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.02.2018 n. 6738 - link a
www.ambientediritto.it).
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4. Le censurabili valutazioni della sentenza impugnata di cui si è dato conto supra, sub n. 3 incidono sul giudizio circa la sussistenza del reato urbanistico contestato al capo h) e dei delitti di abuso d'ufficio contestati ai capi a) e b).
4.1. Quanto alla contravvenzione urbanistica, la conclusione è evidente.
La contestazione, di fatti, muove dall'assunto secondo cui deve considerarsi avvenuta in assenza di titolo edilizio -e dunque riconducibile al reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380/2001- l'attività edificatoria realizzata sulla base di titoli illeciti o macroscopicamente illegittimi, quali nella specie ben potrebbero essere la concessione edilizia n. 11/2003, le d.i.a. del 29.07.2008 e 03.02.2009 ed il permesso di costruire in variante prot. 6641 del 30.07.2009 se fossero ritenuti sussistenti i contestati profili di macroscopica illegittimità più sopra analizzati con riguardo all'edificazione di un numero di piani ben superiore a quello consentito ed all'edificazione di volumi assai più consistenti di quelli massimi previsti (il capo h -a differenza dei capi a e b- non considera invece il profilo relativo alle altezze).
Che il reato urbanistico in parola sussista laddove il permesso di costruire -pur formalmente rilasciato- sia illecito perché frutto di attività criminosa (nella specie, quanto al permesso di costruire in variante, è contestato l'abuso d'ufficio in concorso tra Sa.Mo. ed il suo progettista Ca.Ma. ed il responsabile dell'ufficio tecnico comunale Gi.Ze.) ovvero anche soltanto macroscopicamente illegittimo è conclusione affermata da consolidata giurisprudenza di legittimità che qui non viene neppure contestata (cfr., di recente, Sez. 3, n. 7423 del 18/12/2014, Cervino e a., Rv. 263916).
Si consideri, al proposito, che il permesso di costruire in variante rilasciato il 30.07.2009 aveva in particolare ad oggetto la realizzazione di un ulteriore piano, sicché -anche a voler prescindere dal fatto che lo stesso non avrebbe aumentato la volumetria qualora fossero state osservate le prescrizioni al proposito effettuate dall'Ufficio Tecnico Comunale, vale a dire la demolizione di alcuni muri perimetrali e la destinazione del nuovo piano quale porticato ad uso collettivo- certamente incrementava ulteriormente l'altezza ed il profilo di difformità dalle norme urbanistiche quanto al numero dei piani edificabili.
Quanto, poi, alle d.i.a., trattandosi di lavori in variante rispetto a quelli autorizzati con la concessione edilizia n. 11/2003, pure questi si collocavano nel solco di quelli originari e -parzialmente incidendo sia sui volumi, sia sulle altezze- ne postulavano (una nuova verifica ai fini di accertare) la conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente (v. art 22, comma 2, d.P.R. 380/2001, sul punto non mutato con la sostituzione operata dall'art. 1, comma 1, lett. f, n. 2, d.lgs. 25.11.2016, n. 222). Conformità che, per quanto sopra detto, era palesemente assente, soprattutto con riferimento alla d.i.a. del 29.07.2008, che incideva in modo pesante sul progetto.
Oltre a ciò -sempre con maggiore evidenza in quella da ultimo menzionata- difettavano pure i requisiti previsti dall'art. 22, comma 2, d.P.R. 380/2001, posto che
è possibile effettuare con d.i.a. (oggi s.c.i.a.) lavori in variante a permessi costruire soltanto se si tratti delle c.d. "varianti leggere", vale a dire quelle che, oltre a non violare eventuali prescrizioni contenute nel permesso, «non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni» (le parole in corsivo sono state aggiunte dall'art. 30, comma 1, lett. e, d.l. 21.06.2013, n 69 conv., con modiff., nella legge 09.08.2013, n. 98, sicché all'epoca dei fatti per cui è processo il requisito della non alterazione della sagoma era richiesto per qualsiasi tipo di edificio).
Ed invero, la stessa sentenza impugnata, richiamando le valutazioni del perito nominato in secondo grado, dà atto (v. pp. 84 s. e pp. 87-92 relazione peritale ing. Go. cui si fa espresso rinvio) che la prima d.i.a. in variante:
   - apportava modifiche alla sagoma del fabbricato nel corpo di monte a Nord (non rilevando ai fini di escludere la natura di variante "pesante" di tale modifiche e la necessità che fossero assentite con permesso di costruire il fatto che le stesse sarebbero state necessarie per assicurare il rispetto delle distanze tra il fabbricato e la villetta comunale oggetto di generiche prescrizioni riportate a penna sulle tavole allegate al progetto originario, approvato con la concessione edilizia del 2003);
   - incideva sulla volumetria (sia pur apparentemente riducendola, ma sempre senza ricondurla nell'ambito di quella effettivamente realizzabile sulla base delle previsioni urbanistiche correttamente interpretate);
   - introduceva significative modifiche alle distribuzioni interne degli spazi, modificandone la destinazione d'uso.
La Corte d'appello (p. 100 sentenza) dà altresì atto che le due denunce d'inizio attività ed il permesso di costruire in variante sono successivi all'approvazione, avvenuta dopo il rilascio della concessione edilizia originaria, del Piano di Assetto Idrogeologico, e ciò nondimeno per nessuna di dette opere fu richiesto l'obbligatorio parere preventivo dell'Autorità di bacino: un'altra palese difformità sia delle d.i.a. sia del permesso di costruire alle previsioni urbanistiche che la Corte territoriale supera con l'argomentazione, manifestamente illogica, secondo cui, trattandosi di varianti che non comportavano aumento di volumetria, le stesse non avrebbero inciso sull'assetto idrogeologico del suolo.
Ed invero -a prescindere dal fatto che l'aumento di volumetria è soltanto uno dei potenziali parametri da prendersi in considerazione per quel giudizio- così motivando la Corte territoriale ha arbitrariamente sostituito la propria valutazione a quella riservata invece all'Autorità di bacino, a cui debbono essere sottoposti tutti i progetti che anche solo potenzialmente incidono sull'assetto idrogeologico del suolo, quale certamente era l'ampia modifica del progetto originario oggetto della d.i.a. presentata nel 2008 (nella sentenza di primo grado riportata dalla sentenza impugnata a pag. 29 si parla di realizzazione di nuovi terrazzamenti prospicienti la villetta comunale, della costruzione di una seconda rampa di accesso ai box auto del primo piano interrato, della realizzazione di una piccola cappella, della previsione di un nuovo livello per box auto nel corpo di fabbrica a monte, con realizzazione di un solaio tra due dei piani interrati) e la costruzione di un ulteriore piano, il nono, sulla sommità del fabbricato, piano porticato destinato ad uso collettivo e, pertanto, al calpestio di un numero potenzialmente elevato di fruitori.
Questi lavori, dunque, da un lato non si sarebbero potuti fare con d.i.a. in variante, essendo invece necessario procedere con permesso di costruire, ciò che -al di là del diverso, e più garantito, iter amministrativo- avrebbe imposto di riconsiderare l'intero progetto alla luce delle previsioni delle norme tecniche di attuazione al P.R.G. e regolamentari più sopra illustrate e di bloccare le attività edificatorie essendo il manufatto palesemente contrario alla disciplina urbanistica sostanziale. D'altro lato, per le stesse ragioni, non avrebbero dovuto condurre al rilascio del permesso di costruire in variante del 30.07.2009.
Si trattò, dunque, di lavori eseguiti in forza di titoli edilizi manifestamente contra legem, da considerarsi quindi in assenza di permesso di costruire con conseguente integrazione del reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380/2001.
La sentenza impugnata, che -pur dando atto dei suddetti profili di contrasto quantomeno della d.i.a. presentata nel 2008 con l'art. 22, comma 2, d.P.R. 380/2001- non si cura di trarne le dovute conseguenze e, a fronte delle corrette valutazioni al proposito fatte nella sentenza di primo grado, laconicamente afferma che «appare mancante e/o comunque contraddittoria la prova della loro illegittimità» incorre dunque certamente in violazione di legge e vizio di motivazione.
4.2. Le argomentazioni svolte al punto che precede rendono altresì ragione degli analoghi vizi che affliggono il provvedimento impugnato in relazione al giudizio assolutorio pronunciato con riguardo al concorso nei delitti di abuso d'ufficio di cui ai capi a) ed e) di imputazione, relativi, il primo, al non aver il responsabile dell'Ufficio tecnico comunale Ze. notificato a Mo., ai sensi dell'art. 23, comma 6, d.P.R. 380/2001, l'ordine motivato di non effettuare i lavori oggetto delle due d.i.a. contra legem e, il secondo, all'aver rilasciato l'illegittimo permesso di costruire in variante del 30.07.2009.
La Corte d'appello, di fatti, ha escluso la sussistenza dei contestati reati -oltre che richiamando giurisprudenza di legittimità che impone comunque la prova di rapporti singolari o atipici tra il privato (nella specie, Mo. per il tramite del professionista di fiducia Ma.) e il pubblico ufficiale (Ze.) che violando norme di legge o regolamento avrebbe procurato al primo un ingiusto vantaggio patrimoniale- anche osservando come, in radice, non sussistesse l'abuso d'ufficio proprio per la legittimità e conformità alle previsioni urbanistiche e regolamentari della concessione edilizia originaria, delle d.i.a. e del permesso di costruire in variante.
Trattandosi di presupposto erroneo, occorre dunque riconsiderare anche la sussistenza dei reati di cui all'art. 323 cod. pen., onde verificare se la macroscopica illegittimità degli atti e la loro reiterazione possano fornire prova logica della collusione, come ritenuto nella sentenza di primo grado (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.02.2018 n. 6738).

PUBBLICO IMPIEGO: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Abuso di ufficio - Rilascio di un titolo abilitativo edilizio - Configurabilità del reato di abuso di ufficio - Art. 323 cod. pen..
Integra il reato di abuso d’ufficio, il rilascio di un titolo abilitativo edilizio per la realizzazione di un immobile la cui edificazione non è consentita o il mantenimento di un immobile abusivo mediante l'omessa adozione dei provvedimenti finalizzati alla sua eliminazione ovvero mediante sanatoria in assenza dei presupposti di legge determina inequivocabilmente un vantaggio patrimoniale ingiusto nei confronti del privato il quale, in forza del titolo indebitamente conseguito o dell'inerzia del pubblico ufficiale, costruisce o mantiene in essere un manufatto il quale, oltre ad incrementare il valore dell'area ove insiste, ha un valore intrinseco e può essere successivamente alienato, locato o destinato comunque ad utilizzazioni economicamente vantaggiose.
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Concorso del privato nel delitto di abuso d'ufficio - Collusione tra il privato ed il pubblico ufficiale - Giurisprudenza.
Ai fini della configurabilità del concorso del privato nel delitto di abuso d'ufficio, l'esistenza di una collusione tra il privato ed il pubblico ufficiale non può essere dedotta dalla mera coincidenza tra la richiesta dell'uno e il provvedimento adottato dall'altro ed il richiamo è certamente pertinente, ma va considerato tenendo conto dell'ulteriore precisazione, pure fornita dalla medesima giurisprudenza, che, ai fini di tale accertamento vanno anche considerati i profili inerenti al contesto fattuale, ai rapporti personali tra i predetti soggetti, ovvero altri dati di contorno, idonei a dimostrare che la domanda del privato sia stata preceduta, accompagnata o seguita dall'accordo con il pubblico ufficiale, se non da pressioni dirette a sollecitarlo o persuaderlo al compimento dell'atto illegittimo (Cass., Sez. 6, n. 33760 del 23/06/2015, Lo Monaco e altro; Conf. Sez. 6, n. 37880 del 1117/2014, Savini e altro; Sez. 6, n. 40499 del 21/05/2009, Bonito e altri; Sez. 6, n. 37531 del 14/06/2007, Serione e altri; Sez. 6, n. 2844 del 01/12/2003 (dep. 2004), Celiano) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.01.2018 n. 4140 - link a
www.ambientediritto.it).

anno 2017

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Aria e molestie olfattive - Emissioni odorigene nauseabonde ed emissioni in atmosfera di composti organici volatili - Getto pericoloso di cose e requisiti del reato - Criterio della "stretta tollerabilità" - Sequestro preventivo - Restituzione dell'intero impianto produttivo Fonderie - Abuso d'ufficio - Falsità ideologica e falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici - VIA VAS AIA - Autorizzazione Integrata Ambientale (A.I.A.) - Assenza - Articoli 323, 479-476, codice penale - Artt. 29-ter, 137, 256 e 279 decreto legislativo n. 152 del 2006 - Sito natura 2000 ZPS - Art. 181 d.lgs. n.42/2004.
Il reato di cui all'articolo 674 del codice penale è configurabile anche in presenza di "molestie olfattive" promananti da impianto munito di autorizzazione per le emissioni in atmosfera (e rispettoso dei relativi limiti), e ciò perché non esiste una normativa statale che preveda disposizioni specifiche -e, quindi, valori soglia- in materia di odori (Sez. 3, n. 12019 del 10/02/2015, Pippi; Sez. 3, n. 37037 del 29/05/2012, Guzzo); con conseguente individuazione del criterio della "stretta tollerabilità" quale parametro di legalità dell'emissione.
Né vale, in senso contrario, l'assunto, anche contenuto nell'ordinanza impugnata, per il quale, in alcune occasioni, la configurabilità dell'articolo 674 del codice penale è esclusa in presenza di immissioni provenienti da attività autorizzata e contenute nei limiti di legge, o dell'autorizzazione, perché tali pronunce si riferiscono a casi nei quali vi è piena corrispondenza "qualitativa" e "tipologica" tra le immissioni riscontrate e quelle oggetto del provvedimento amministrativo o disciplinate dalla legge ossia tra quelle accertate e quelle che l'agente si era impegnato a contenere entro determinati limiti; situazione nella quale, come in precedenza precisato, il rispetto di questi ultimi implica una presunzione di legittimità del comportamento, concepita dall'ordinamento come necessaria per contemperare le esigenze di tutela pubblica con quelle della produzione economica (Sez. 3, n. 37495 del 13/07/2011, Dradi; Sez. 3, n. 40849 del 21/10/2010, Rocchi; Sez. 3, n. 15707 del 09/01/2009, Abbaneo).
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Emissioni da un'attività autorizzata o da un'attività prevista e disciplinata da atti normativi speciali - Presunzione di legittimità del comportamento ed evento del reato di cui all'art. 674 c.p..
In linea generale, il reato di cui all'articolo 674 del codice penale, capo d) della rubrica, non è configurabile nel caso in cui le emissioni provengano da un'attività autorizzata o da un'attività prevista e disciplinata da atti normativi speciali perché l'osservanza delle leggi di settore e la presenza di specifici provvedimenti amministrativi che disciplinano l'attività produttiva, regolamentando le emissioni, implicano una presunzione di legittimità del comportamento.
Tuttavia, l’evento del reato di cui all'art. 674 c.p. consiste nella molestia, che prescinde dal superamento di eventuali valori soglia previsti dalla legge, essendo sufficiente quello del limite della stretta tollerabilità, pertanto, qualora difetti la possibilità di accertare obiettivamente, con adeguati strumenti, l'intensità delle emissioni, il giudizio sull'esistenza e sulla non tollerabilità delle stesse ben può basarsi sulle dichiarazioni di testimoni, specie se a diretta conoscenza dei fatti, quando tali dichiarazioni non si risolvano nell’espressione di valutazioni meramente soggettive o in giudizi di natura tecnica, ma consistano nel riferimento a quanto oggettivamente percepito dagli stessi dichiaranti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.12.2017 n. 57958 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Abuso di ufficio - Prova del dolo intenzionale - Indici fattuali - Verifiche obbligatorie del giudice - Fattispecie: Sequestro preventivo di un impianto industriale.
In tema di abuso di ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa, può essere desunta anche da una serie di indici fattuali, tra i quali assumono rilievo l'evidenza, la reiterazione e la gravità delle violazioni, la competenza dell'agente, i rapporti tra l'agente e il soggetto favorito, l'intento di sanare le illegittimità con successive violazioni di legge cosicché, in tema di sequestro preventivo, ai fini dell'affermazione del fumus commissi delicti del reato proprio contestato anche a soggetti che non rivestono la qualifica tipica, è necessario che il giudice motivi anche sull'elemento psicologico dell'autore del reato proprio, atteso che la mancanza del dolo intenzionale impedisce la stessa astratta configurabilità del predetto reato.
Pertanto, il giudice penale, anche nei casi in cui nella fattispecie di reato sia previsto un atto amministrativo (autorizzazione, concessione, permesso), non deve limitarsi a verificare l'esistenza ontologica del provvedimento amministrativo, ma deve esclusivamente verificare l'integrazione o meno della fattispecie penale, "in vista dell'interesse sostanziale che tale fattispecie assume a tutela", interesse che nell'abuso d'ufficio è costituito dal buon andamento e dall'imparzialità della pubblica amministrazione, nella quale gli elementi di natura extrapenale convergono organicamente, assumendo un significato descrittivo (Sez. U., n. 11635 del 12/11/1993, Borgia).
Fattispecie: riferita ad un impianto industriale la cui dimensione "cartolare" risultava del tutto diversa da quella reale, in quanto l'autorizzazione integrata ambientale avrebbe assentito un impianto che solo dal punto di vista "documentale" era più piccolo e diverso di quello reale, giacché nella cartografia era stata omessa la presenza di uno dei manufatti destinati alle attività industriali, con la conseguenza che non sarebbe stato evidenziato un immobile che rappresentava circa il 50% dell'intero impianto, determinando ciò sia l'illiceità connessa al reato di falso e sia l'illiceità della procedura, con conseguente integrazione della violazione di legge fondante, in uno ad altri elementi, il reato di abuso di ufficio, perché si sarebbe dovuto tenere conto, in primo luogo, che la presenza di tale consistente manufatto, coincidente con circa la metà degli impianti (e, quindi, la reale consistenza), non era stata valutata ai fini dell'impatto ambientale e della complessiva autorizzabilità dell'intera attività industriale; che, in secondo luogo, l'impianto industriale era collocato all'interno del centro urbano della città di Salerno, al confine con l'area del parco urbano Valle dell'Imo, di interesse regionale, ai sensi della legge n. 394 del 1991, cosicché l'insediamento industriale, pur risalente nel tempo, era da ritenersi del tutto incompatibile con l'area nella quale era allocato, se ed in quanto l'attività industriale svolta fosse di tipo inquinante (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.12.2017 n. 57958 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Reato di abuso d'ufficio - Prova del dolo intenzionale - Macroscopica illegittimità dell'atto - Vantaggio - Art. 323 codice penale.
In tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale che qualifica la fattispecie non richiede l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, ben potendo essere desunta anche da altri elementi sintomatici quali, ad esempio, la macroscopica illegittimità dell'atto (Sez. 3, n. 48475 del 07/11/2013, Scaramazza) e ben potendo l'intenzionalità del vantaggio prescindere dalla volontà di favorire specificamente un determinato privato interessato alla singola vicenda amministrativa (Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, Dragotta; Sez. F, n. 38133 del 25/08/2011, Farina).
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Reato di abuso d'ufficio - Mancanza della macroscopica illegittimità dell'atto dal pubblico amministratore - Rilievo del comportamento "non iure" osservato dall'agente - Vantaggio patrimoniale o danno ingiusto - Presenza tra anomalie istruttorie e rapporti personali tra l'agente e soggetto ricevente i benefici dell'atto.
In tema di abuso d'ufficio, quando l'illegittimità dell'atto, pur sussistente, non sia macroscopica oppure quando manchi, come nella specie, una adeguata e logica motivazione su punti decisivi al fine di sovvertire (o meno) il giudizio di evidente illegittimità dell'elemento normativo di fattispecie, la prova del dolo intenzionale deve essere ricavata da elementi ulteriori rispetto al comportamento "non iure" osservato dall'agente, che evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del suo comportamento (Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo), cosicché la certezza della prova del dolo (intenzionale), ossia che la volontà dell'imputato sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto, non può, in questi casi, provenire esclusivamente dal comportamento "non iure" osservato dall'agente, ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, quali la specifica competenza professionale del soggetto attivo, l'apparato motivazionale su cui riposa il provvedimento, la presenza o meno di anomalie istruttorie ed i rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i soggetti che dal provvedimento ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno (Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013, Baria, Rv. 255368; Sez. 6, n. 35814 del 27/06/2007, Pacia, Rv. 237916) (Corte di Cassazione, Sez. III, sentenza 29.12.2017 n. 57914 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Abuso di ufficio - Difetto assoluto di attribuzione e carenza in astratto del potere - Art. 323, cod. pen. - Art. 10, 44, lett. b), d.P.R. n. 380/2001 - Art. 21-septies L. n. 241/1990.
Il difetto assoluto di attribuzione, quale causa di nullità del provvedimento amministrativo, comporta la cosiddetta "carenza di potere in astratto", vale a dire l'ipotesi in cui l'Amministrazione assume di esercitare un potere che in realtà nessuna norma le attribuisce.
Attraverso l'art. 21-septies della L. n. 241 del 1990 il legislatore, nell'introdurre in via generale la categoria normativa della nullità del provvedimento amministrativo, ha ricondotto a tale radicale patologia il solo difetto assoluto di attribuzione, che evoca la c.d. carenza in astratto del potere, cioè l'assenza in astratto di qualsivoglia norma giuridica attributiva del potere esercitato con il provvedimento amministrativo, con ciò facendo implicitamente rientrare nell'area della annullabilità i casi della c.d. "carenza di potere in concreto", ossia del potere pur astrattamente sussistente esercitato senza i presupposti di legge (Cons. St., Sez. 5, n. 45 del 10/01/2017; nello stesso senso, tra le più recenti, Cons. St., Sez. 4, n. 5228 del 17/11/2015; Cons. St., Sez. 4, n. 5671 del 18/11/2014; Cons. St., Sez. 5, n. 4323 del 30/08/2013).
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Reato di abuso d'ufficio - Condotta in violazione delle norme - Competenze e attribuzioni del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio - Art. 323, cod. pen..
Ai fini della sussistenza del reato di abuso d'ufficio di cui all'art. 323, cod. pen., la condotta deve essere posta in essere "nello svolgimento delle funzioni o del servizio".
Ciò non comporta l'espunzione dalla fattispecie delle condotte poste in essere in violazione delle norme che disciplinano le competenze e le attribuzioni del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, ma solo di quelle viziate da difetto assoluto di attribuzione ai sensi dell'art. 21-septies, legge n. 241 del 1990 (che equipara, ai fini della nullità dell'atto, la carenza di potere al provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali).
In caso di difetto assoluto di attribuzione, l'ingiusto vantaggio patrimoniale procurato a sé o ad altri o l'ingiusto danno arrecato ad altri, che costituiscono gli eventi alternativi del reato di abuso di ufficio, non sarebbero causalmente riconducibili all'ufficio o al servizio (ancorché patologicamente svolto), ma ad iniziative estemporaneamente poste in essere dall'autore del reato spendendo la sua qualità ed eventualmente rilevanti ai sensi di altre norme (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.11.2017 n. 52053 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Sulla configurazione del delitto di abuso d'ufficio.
Nel delitto di abuso d'ufficio, per la configurabilità dell'elemento soggettivo è richiesto che l'evento costituito dall'ingiusto vantaggio patrimoniale o dal danno ingiusto sia voluto dall'agente e non semplicemente previsto ed accettato come possibile conseguenza della propria condotta, per cui deve escludersi la sussistenza del dolo, sotto il profilo dell'intenzionalità, qualora risulti, con ragionevole certezza, che l'agente si sia proposto il raggiungimento di un fine pubblico, proprio del suo ufficio.
La prova dell'intenzionalità del dolo esige il raggiungimento della certezza che la volontà dell'imputato sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto. Tale certezza non può provenire esclusivamente dal comportamento "non iure" osservato dall'agente, ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, quali la specifica competenza professionale dell'agente, l'apparato motivazionale su cui riposa il provvedimento ed i rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i soggetti che dal provvedimento ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno
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Altresì,
una condotta di omesso controllo in relazione ad una situazione di illegittimità, pur grave e diffusa, negli atti di un'amministrazione comunale non può equivalere a ritenere dimostrata la presenza del dolo dell'abuso di ufficio affermando che la prova dell'intenzionalità del dolo esige il raggiungimento della certezza che la volontà dell'imputato sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto e tale certezza non può essere ricavata esclusivamente dal rilievo di un comportamento "non iure" osservato dall'agente, ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, che evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del comportamento, quali, ad esempio, la specifica competenza professionale dell'agente, l'apparato motivazionale su cui riposa il provvedimento ed il tenore dei rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i soggetti che dal provvedimento stesso ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno.
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1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Potenza, a seguito di gravame interposto dal Procuratore della Repubblica presso il locale Tribunale avverso la sentenza assolutoria emessa il 17.04.2015 dal GUP del Tribunale di Matera, in riforma della decisione ha riconosciuto Fr.VI. colpevole del reato di cui all'art. 323 cod. pen. perché quale comandante della Stazione CC. di Montescaglioso, nell'esercizio delle sue funzioni, in violazione di quanto prescritto dall'art. 193 c.d.s., avendo riscontrato nel corso di un controllo su strada che l'autovettura Opel Vectra condotta dal proprietario Tr.Do. era priva di assicurazione RCA obbligatoria, ometteva di contravvenzionare il Tr. e procedere al sequestro amministrativo dell'autovettura, così intenzionalmente procurando al predetto Tr. un ingiusto vantaggio patrimoniale, condannando l'imputato a pena di giustizia.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione
l'imputato che, a mezzo del difensore, deduce:
2.1. mancanza di motivazione in relazione all'elemento psicologico del reato, non bastando a sostanziare la intenzionalità del dolo il rilievo operato dalla Corte circa l'obiettiva finalità di vantaggio nei confronti del privato derivante dalla violazione della norma del codice della strada, essendo l'obiettivo perseguito dal maresciallo VI. comunque il perseguimento del pubblico interesse.
...
1. Il ricorso è fondato sull'assorbente primo motivo.
2.
Nel delitto di abuso d'ufficio, per la configurabilità dell'elemento soggettivo è richiesto che l'evento costituito dall'ingiusto vantaggio patrimoniale o dal danno ingiusto sia voluto dall'agente e non semplicemente previsto ed accettato come possibile conseguenza della propria condotta, per cui deve escludersi la sussistenza del dolo, sotto il profilo dell'intenzionalità, qualora risulti, con ragionevole certezza, che l'agente si sia proposto il raggiungimento di un fine pubblico, proprio del suo ufficio (Sez. 6, n. 18149 del 07/04/2005, Fabbri ed altro, Rv. 231343); ancora, la prova dell'intenzionalità del dolo esige il raggiungimento della certezza che la volontà dell'imputato sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto. Tale certezza non può provenire esclusivamente dal comportamento "non iure" osservato dall'agente, ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, quali la specifica competenza professionale dell'agente, l'apparato motivazionale su cui riposa il provvedimento ed i rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i soggetti che dal provvedimento ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno (Sez. 6, n. 35814 del 27/06/2007, Pacia e altri, Rv. 237916).
La Corte ha, inoltre, ritenuto che
una condotta di omesso controllo in relazione ad una situazione di illegittimità, pur grave e diffusa, negli atti di un'amministrazione comunale non può equivalere a ritenere dimostrata la presenza del dolo dell'abuso di ufficio affermando che la prova dell'intenzionalità del dolo esige il raggiungimento della certezza che la volontà dell'imputato sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto e tale certezza non può essere ricavata esclusivamente dal rilievo di un comportamento "non iure" osservato dall'agente, ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, che evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del comportamento, quali, ad esempio, la specifica competenza professionale dell'agente, l'apparato motivazionale su cui riposa il provvedimento ed il tenore dei rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i soggetti che dal provvedimento stesso ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno (Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013, Barla e altri, Rv. 255368).
3. Esula, pertanto, dall'alveo di legittimità il giudizio espresso dalla sentenza di "oggettiva finalizzazione" della condotta omissiva posta in essere dal ricorrente, essendosi omesso di motivare sulla intenzionalità favoritrice rispetto ad una condotta tenuta nel corso di un occasionale controllo su strada nei confronti di un soggetto privo di relazioni con il ricorrente ed a seguito del quale non fu comunque consentita la prosecuzione della marcia del veicolo (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 11.10.2017 n. 46788).

CONSIGLIERI COMUNALI: Sospensione di diritto dalle cariche pubbliche a seguito di condanna.
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● Giurisdizione - Comuni - Assessore - Nomina - Da parte di Sindaco neo eletto condannato in primo grado per abuso d’ufficio - Impugnazione - Giurisdizione giudice amministrativo.
● Processo amministrativo - Riti - Cumulo rito ordinario e rito elettorale - Prevale il rito elettorale.
● Enti locali - Comuni - Amministratori – Sospensione dalla carica – Art. 11, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 235 del 2012 – Per condanna in primo grado per abuso d'ufficio – Notifica dell’atto di accertamento – Non occorre - Ratio.
Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo l’impugnazione dell’atto di nomina di un assessore da parte del Sindaco neo eletto che, condannato in primo grado per abuso d’ufficio, non poteva emettere alcun atto, in ragione della “sospensione di diritto”, trattandosi di atti autoritativi concernenti l’individuazione degli organi da investire di funzioni pubbliche, ai sensi dell’art. 7 c.p.a. (1).
In assenza, nel comma 1 dell’art. 32 c.p.a., della disciplina dell’ipotesi di cumulo, nello stesso giudizio, di rito ordinario e di rito elettorale prevale il rito elettorale, ispirato ad una logica di particolare rapidità dei giudizi (2).
La sospensione di diritto, prevista dall’art. 11, comma 5, d.lgs. 31.12.2012, n. 235 per coloro che abbiano riportato in primo grado una condanna per il delitto di abuso d’ufficio, non presuppone che l’atto di accertamento sia notificato a chi versa in tale situazione, producendo tale sospensione effetto nel momento stesso in cui vi è la proclamazione degli eletti e inibendo l’esercizio delle pubbliche funzioni a chi sia stato già condannato in sede penale (3).

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   (1) Ha ricordato il Tar che la giurisdizione del giudice ordinario si radica sulle controversie aventi ad oggetto il provvedimento con cui il Prefetto, ai sensi dell’art. 11, comma 1, lett. a), d.lgs. 31.12.2012, n. 235 accerta la sussistenza dei presupposti della sospensione di diritto, nei confronti di chi sia stato condannato in primo grado per uno dei delitti che comportino la medesima sospensione (Cass. civ., S.U., n. 11131 del 2015).
   (2) Il comma 1 dell’art. 32 c.p.a. dispone che “1. È sempre possibile nello stesso giudizio il cumulo di domande connesse proposte in via principale o incidentale. Se le azioni sono soggette a riti diversi, si applica quello ordinario, salvo quanto previsto dal Titolo V del Libro IV”.
Ad avviso del Tar, nel silenzio della norma va infatti fatta applicazione del principio, affermato dal Consiglio di Stato (sez. V, 17.02.2014, n. 755), secondo cui –quando una controversia comunque riguarda la materia elettorale- rileva la “necessità di definire rapidamente quali siano le autorità titolati di poteri pubblici nell’assetto costituzionale”: questo principio si applica anche quando sono stati contestualmente impugnati altri atti per illegittimità derivata, di cui si prospetti una sostanziale unicità procedimentale.
   (3) In altri termini, ad avviso del Tar, l’inibizione all’esercizio delle pubbliche funzioni non discende dall’atto del Prefetto (che accerta la sussistenza della causa di sospensione, al fine di renderlo noto “agli organi che hanno convalidato l’elezione o deliberato la nomina”), tanto che neppure l’atto va notificato all’interessato, ma dipende dalla preclusione derivante di per sé dalla condanna di primo grado.
Diversamente opinando, e cioè se si ammettesse che, prima dell’emanazione dell’atto del Prefetto, il candidato risultato eletto possa porre in essere atti nella qualità conseguente alla proclamazione, si verificherebbe una elusione delle disposizioni dell’art. 11, d.lgs. n. 235 del 2012.
Si ammetterebbe cioè che il candidato risultato eletto, pur se sospeso di diritto dall’esercizio delle funzioni, potrebbe ugualmente disporre una nomina di carattere fiduciario, di per sé avente una decisiva incidenza sulla designazione di tutti gli assessori, ciò che urterebbe con le ragioni poste a base della sospensione di diritto (cioè la sussistenza di una ‘indegnità’ tale da comportare l’assenza di un requisito essenziale per ricoprire l’ufficio, sulla base di una valutazione del legislatore, considerata ragionevole dalla Corte cost. con la sentenza n. 236 del 2015) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 05.10.2017 n. 862 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOAbuso di ufficio e dolo intenzionale - Responsabile dell'U.T.C. - Fattispecie - Rilascio di concessione edilizia illegittima e successivo rilascio in sanatoria del permesso di costruire - Crollo del fabbricato - Tutela del pubblico interesse e pericolo oggettivo per la staticità degli immobili adiacenti - Ridimensionamento sostanziale dell'intervento edilizio - Art. 323 cod. pen. - Artt. 12, 44, lett. b), d.P.R. n. 380/2001.
In tema di abuso di ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa, non deve necessariamente essere desunta dall'accertamento di un accordo collusivo con la persona che si intende favorire, ma anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto, l'evidenza, reiterazione e gravità delle violazioni, la competenza dell'agente nonché l'intento di sanare le illegittimità con successive violazioni di legge, giacché l'intenzionalità del vantaggio ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente il privato interessato alla singola vicenda amministrativa (tra le altre, da ultimo, Sez. 3, n. 35577 del 06/04/2016, dep. 29/08/2016, Cella; Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, dep. 27/08/2014, Dragotta). Fattispecie: rilascio di concessione edilizia per l'esecuzione di lavori di ristrutturazione che non erano consentiti e successivo rilascio in sanatoria del permesso di costruire.
Dirigenti e responsabili uffici comunali - Abuso di ufficio - Irrilevanza della compresenza di una finalità pubblicistica.
In tema di abuso di ufficio, non può rilevare al fine di escludere il dolo intenzionale, la compresenza di una finalità pubblicistica, salvo che il perseguimento del pubblico interesse costituisca l'obiettivo principale dell'agente (tra le altre, Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, dep. 29/05/2015, Adamo).
Nella specie, tutta la condotta dell'imputato, sin dal rilascio dell'originaria concessione edilizia, è apparsa strumentalmente indirizzata a favorire l'Unione coop. di consumo, restando evidentemente recessivo e, dunque, non significativo dell'assenza del dolo richiesto, il fine, pur eventualmente legittimo, di sanare la situazione urbanistica pregiudicata dal crollo del fabbricato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.09.2017 n. 43160 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Abuso d'ufficio - Dirigente - Rilascio del certificato agibilità - Abusi edilizi e verifica dei requisiti - Opere sottoposte a permesso di costruire - Giurisprudenza.
In ordine alla configurabilità dell'elemento soggettivo del delitto di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa può essere desunta anche da una serie di indici fattuali, tra i quali assumono rilievo l'evidenza, la reiterazione e la gravità delle violazioni, la competenza dell'agente, i rapporti fra quest'ultimo e il soggetto favorito, l'intento di sanare le illegittimità con successive violazioni di legge (Sez. 3, n. 35577 del 06/04/2016, dep. 29/08/2016, Cella; Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, dep. 27/08/2014, Dragotta; Sez. 3, n. 48475 del 07/11/2013, dep. 04/12/2013, P.M. e P.C. in proc. Scaramazza e altri; Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013, dep. 17/05/2013, Baria e altri) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.08.2017 n. 38853 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: La prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa dell'abuso d'ufficio, può essere desunta anche da una serie di indici fattuali, tra i quali assumono rilievo l'evidenza, la reiterazione e la gravità delle violazioni, la competenza dell'agente, i rapporti fra quest'ultimo e il soggetto favorito, l'intento di sanare le illegittimità con successive violazioni di legge.
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3. Venendo, quindi, al secondo motivo di doglianza, con il quale è stato dedotto il vizio di violazione di legge e di motivazione in ordine alla configurabilità dell'elemento soggettivo del delitto di abuso d'ufficio, deve preliminarmente richiamarsi il consolidato indirizzo interpretativo secondo cui la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa in esame, può essere desunta anche da una serie di indici fattuali, tra i quali assumono rilievo l'evidenza, la reiterazione e la gravità delle violazioni, la competenza dell'agente, i rapporti fra quest'ultimo e il soggetto favorito, l'intento di sanare le illegittimità con successive violazioni di legge (Sez. 3, n. 35577 del 06/04/2016, dep. 29/08/2016, Cella, Rv. 267633; Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, dep. 27/08/2014, Dragotta, Rv. 260233; Sez. 3, n. 48475 del 07/11/2013, dep. 04/12/2013, P.M. e P.C. in proc. Scaramazza e altri, Rv. 258290; Sez. 6, n. 21192 del 25/01/2013, dep. 17/05/2013, Barla e altri, Rv. 255368) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.08.2017 n. 38853).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Rapporti tra Sindaco e Imprenditore: quando si verifica l’abuso d’ufficio?
La sentenza 03.08.2017 n. 38695 della Corte di Cassazione, Sez. feriale penale, riguarda il sindaco di un Comune calabrese e il legale rappresentante di una società edile, entrambi accusati dei reati di turbata libertà degli incanti e di abuso d’ufficio.
Ai fini della configurabilità del concorso del privato nel delitto di abuso d’ufficio, l’esistenza di una collusione tra il privato ed il pubblico ufficiale non può essere dedotta dalla mera coincidenza tra la richiesta dell’uno e il provvedimento adottato dall’altro, essendo invece necessario che il contesto fattuale, i rapporti personali tra i predetti soggetti, ovvero altri dati di contorno, dimostrino che la domanda del privato sia stata preceduta, accompagnata o seguita dall’accordo con il pubblico ufficiale.
Quanto alla turbata libertà degli incanti, la Suprema corte ricorda che il reato di cui all’articolo 353 del codice penale può realizzarsi in qualsiasi momento, sia prima che dopo la gara, e con le più svariate modalità dirette ad allontanare gli offerenti, «assumendo rilievo la sola lesione della libera concorrenza che la norma penale intende tutelare a garanzia degli interesse della Pubblica amministrazione».
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MASSIMA
9. Alla stessa sorte non si sottrae la censura di violazione di legge in relazione all'affermazione della responsabilità penale per il reato di abuso in atti di ufficio di cui al capo B).
Il motivo, che si limita a riportare massime della giurisprudenza di legittimità, secondo cui per il concorso nel reato del privato occorre la dimostrazione dell'attività di istigazione o agevolazione nell'esecuzione del reato da parte del pubblico ufficiale, appare connotato da apsecificità ed è, comunque, manifestamente infondato, avendo, i giudici del merito, fatto corretta applicazione della legge penale con motivazione congrua e corretta sul piano del diritto.
E' sufficiente, qui, ricordare che l'istanza di svolgimento di lavori di pubblico utilità in luogo del pagamento del prezzo, costituiva l'incipit indispensabile e conditio sine qua non per la successiva condotta del pubblico ufficiale di affidamento diretto dei lavori di pubblica utilità al richiedente (affidamento in violazione della legge ex art. 2, 11 e 53 del d.lvo 12.04.2006, n. 163 che prescrivono l'affidamento con gara pubblica in luogo dell'affidamento diretto), condotta del pubblico ufficiale che ha, così, procurato un indubbio doppio vantaggio patrimoniale ben descritto a pag. 14.
Ma non solo, la Corte d'appello, lungi dall'aver ritenuto la responsabilità concorsuale del privato nel reato commesso dal pubblico ufficiale sulla base del mero comportamento, ancorché illegittimo, di costui, ha evidenziato, a chiare lettere, una pluralità di elementi fattuali di contorno, tra cui la pregressa conoscenza tra privato e pubblico ufficiale, per avere il ricorrente eseguito lavori in un alloggio del pubblico ufficiale, e la mancata precisa indicazione dei tempi di versamento del prezzo nel bando di gara e di diverse modalità di pagamento del prezzo, idonei a configurare il previo concerto.
La Corte d'appello ha, dunque, fatto buon governo dei principi affermato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui,
ai fini della configurabilità del concorso del privato nel delitto di abuso d'ufficio, l'esistenza di una collusione tra il privato ed il pubblico ufficiale non può essere dedotta dalla mera coincidenza tra la richiesta dell'uno e il provvedimento adottato dall'altro, essendo invece necessario che il contesto fattuale, i rapporti personali tra i predetti soggetti, ovvero altri dati di contorno, dimostrino che la domanda del privato sia stata preceduta, accompagnata o seguita dall'accordo con il pubblico ufficiale (Sez. 6, n. 33760 del 23/06/2015, Lo Monaco e altri, Rv. 264460) (Corte di Cassazione, Sez. feriale penale, sentenza 03.08.2017 n. 38695).

EDILIZIA PRIVATA: Ordine giudiziale di demolizione - Natura di sanzione amministrativa di tipo ablatorio - Autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso.
L'ordine giudiziale di demolizione ha natura di sanzione amministrativa di tipo ablatorio, che costituisce esplicitazione di un potere sanzionatorio autonomo e non residuale o sostitutivo rispetto a quello dell'autorità amministrativa, assolvendo ad una autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso (Cass. Sez. 3, n. 37120 del 11/05/2005, Morelli).
TUTELA DELL'AMBIENTE - La materia urbanistica rientra nella tutela dell'ambiente - Ordinato sviluppo del territorio sotto il profilo urbanistico ed edilizio - Responsabilità per il reato urbanistico e per la contravvenzione di cui all'art. 734 cod. pen. - LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE - Interessi delle associazioni di tutela ambientale in relazione a violazione edilizia e abuso di ufficio - Sussiste.
L’ordinato sviluppo del territorio sotto il profilo urbanistico ed edilizio assume rilievo ai fini della tutela dell’ambiente e rientra pertanto tra gli interessi delle associazioni di tutela ambientale concretamente lesi da attività illecita.
Sicché, il costante consumo di suolo, conseguenza di una non corretta gestione del territorio (anche da parte di chi è tenuto, per legge, a provvedervi), influisce negativamente sulle diverse componenti ambientali, sottraendo risorse ed agendo negativamente sulla fruibilità del bene nel suo complesso, peggiorando la qualità della vita ed aumentando rischi per la salute delle persone, poiché l'illecito edilizio non comporta, quale conseguenza, la sola presenza di nuovi volumi abusivamente realizzati, già di per se rilevante, ma anche una incidenza sul carico urbanistico produttiva di ulteriori effetti negativi.
A conclusioni analoghe deve pervenirsi per ciò che concerne il reato di abuso d'ufficio, in quanto la legittimazione alla costituzione di parte civile delle associazioni ambientaliste deve riconoscersi anche con riferimento ai reati commessi in occasione o con la finalità di violare normative dirette alla tutela dell'ambiente e del territorio (Sez. 5, n. 7015 del 17/11/2010 (dep. 2011), Associazione Legambiente Onlus e altri) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.06.2017 n. 31282 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato che al soggetto autore di una falsa dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà siano effettivamente applicabili le sanzioni previste dall'art. 483 cod. pen.. Ciò, ad esempio:
   - laddove vengano rese false attestazioni circa gli stati, le qualità personali ed i fatti indicati nell'art. 46 del d.P.R. n. 445/2000 al fine di partecipare a una gara di appalto
, oppure
   - si affermi in difformità dal vero di aver completato opere edilizie entro i termini utili per la concessione in sanatoria
, ovvero ancora
   - si dichiari falsamente di non avere mai riportato condanne penali con atto allegato ad un'istanza di iscrizione nel registro dei praticanti geometri
.
Occorre, quale presupposto per l'applicazione della norma de qua, che la dichiarazione sostitutiva sia destinata a provare la verità dei fatti oggetto di rappresentazione al pubblico ufficiale, vale a dire che esista l'obbligo del privato di attestare il vero in base a disposizioni di legge che ricolleghino «specifici effetti all'atto-documento nel quale la dichiarazione è inserita dal pubblico ufficiale ricevente».
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1. Il ricorso appare fondato.
1.1
La giurisprudenza di legittimità ha infatti più volte affermato -in casi analoghi a quello oggi sub judice- che al soggetto autore di una falsa dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà siano effettivamente applicabili le sanzioni previste dall'art. 483 cod. pen.: ciò, ad esempio, laddove vengano rese false attestazioni circa gli stati, le qualità personali ed i fatti indicati nell'art. 46 del d.P.R. n. 445/2000 al fine di partecipare a una gara di appalto (Cass., Sez. V, n. 20570 del 10/05/2006, Esposito), oppure si affermi in difformità dal vero di aver completato opere edilizie entro i termini utili per la concessione in sanatoria (Cass., Sez. V, n. 21209 del 25/05/2006, Bartolazzi), ovvero ancora si dichiari falsamente di non avere mai riportato condanne penali con atto allegato ad un'istanza di iscrizione nel registro dei praticanti geometri (Cass., Sez. V, n. 48681 del 06/06/2014, Sola).
Occorre, quale presupposto per l'applicazione della norma de qua, che la dichiarazione sostitutiva sia destinata a provare la verità dei fatti oggetto di rappresentazione al pubblico ufficiale, vale a dire che esista l'obbligo del privato di attestare il vero in base a disposizioni di legge che ricolleghino «specifici effetti all'atto-documento nel quale la dichiarazione è inserita dal pubblico ufficiale ricevente» (v. Cass., Sez. V, n. 18279 del 02/04/2014, Scalici, nonché Cass., Sez. V, n. 39215 del 04/06/2015, Cremonese, dove la configurabilità del delitto è stata esclusa in casi dove le false dichiarazioni erano state rese ad un curatore fallimentare, sull'avvenuta distruzione di documentazione contabile e societaria, e ad un notaio, sul precedente acquisto a titolo di usucapione di un bene oggetto di successiva vendita).
Il menzionato presupposto ricorre, all'evidenza, anche nell'odierna fattispecie concreta, visto che le indicazioni della In. sullo status di disoccupati da riconoscere ad alcuni componenti del suo nucleo familiare valevano ad incidere sulla formazione della graduatoria per l'assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica.
1.2 L'approccio interpretativo fatto proprio dal Gip del Tribunale di Palermo, del resto, risulta chiaramente smentito fino dal 2010, quando si è affermato che argomentazioni come quelle oggi ribadite dal giudice di merito portano «ad un risultato ermeneutico da ritenere frutto di errata applicazione dell'art. 483 cod. pen. Invero, che la dichiarazione sostitutiva di atto notorio, presentata dal privato a corredo della istanza amministrativa, sia tale da integrare il requisito della "attestazione in atto pubblico", come previsto dall'art. 483 cod. pen., non può essere posto in dubbio.
Questa Corte, al riguardo, ha già messo in evidenza che le false dichiarazioni del privato concernenti la sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge o dagli strumenti urbanistici per il rilascio di concessione edilizia, essendo destinate a dimostrare la verità dei fatti cui si riferiscono e ad essere "recepite" quali condizioni per la emanazione o per la efficacia dell'atto pubblico, producendo cioè immediati effetti rilevanti sul piano giuridico, sono idonee ad integrare, se ideologicamente false, il delitto di cui all'art. 483 cod. pen. [...].
Della ricorrenza del requisito in parola non hanno dubitato nemmeno le Sezioni Unite le quali, in una fattispecie in tutto analoga (presentazione di dichiarazione di privato circa il possesso dei requisiti per la partecipazione ad una gara d'appalto), hanno confermato la sussistenza del reato di cui all'art. 483 cod. pen. (Cass., Sez. U, n. 35488 del 28/06/2007, Scelsi).
Ad avviso della consolidata giurisprudenza, in conclusione, la dichiarazione del privato resa con dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, in presenza di una norma che preveda il ricorso a tale procedura, vale a far ritenere integrate anche l'ulteriore requisito richiesto dall'art. 483 cod. pen. (dichiarazione "in atto pubblico") ogni volta in cui la dichiarazione stessa sia destinata ad essere poi "trasfusa" in un atto pubblico [...].
Viceversa e specularmente si è escluso, ad esempio, che integri il delitto di falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico la condotta del privato che attesti falsamente, con dichiarazione diretta al sindaco, l'ultimazione dei lavori di un fabbricato, quando tale dichiarazione non sia destinata a confluire in un atto pubblico e, quindi, a provare la verità dei fatti in essa attestati, come verificatosi nella ipotesi di dichiarazione finalizzata ad ottenere il rilascio del certificato di abitabilità
» (Cass., Sez. V, n. 2978/2010 del 26/11/2009, Urso).
Nella motivazione della pronuncia appena richiamata si legge altresì che non risulta sostenibile l'assunto secondo cui il requisito dato dalla necessità che il falso ideologico sia commesso dal privato "in atto pubblico" non sarebbe integrato dalla verifica che la falsa dichiarazione sia, in alternativa, "destinata ad essere trasfusa in atto pubblico", stante la diversità ontologica dei due concetti e l'esistenza -nel corpo dell'art. 495 cod. pen.- di una autonoma sanzione per l'ipotesi di "destinazione della dichiarazione ad essere riprodotta in atto pubblico".
A tali osservazioni la sentenza Urso ribatte che «
la ipotesi del falso ideologico commesso dal privato ai sensi dell'art. 483 cod. pen. deve ritenersi integrata in tutti i suoi requisiti anche ulteriori per il combinato rilievo che l'atto si intende [...] ricevuto dal pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni con la stessa attitudine a produrre gli effetti giuridici connessi alla dichiarazione dalla norma specifica che gli attribuisce l'obbligo di affermare il vero.
Come già affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sez. U, n. 6 del 17/02/1999, Lucarotti) "
oggetto della tutela penale in relazione al reato di cui all'art. 483 cod. pen. è l'interesse di garantire il bene giuridico della pubblica fede in quanto si attiene alla pubblica fede documentale attribuita agli atti pubblici non in relazione a ciò che vi attesta per suo fatto e di sua scienza il pubblico ufficiale documentante, ma per quello che vi assevera, mediante la documentazione del pubblico ufficiale, il dichiarante. Talché, è palese che il reato postula che il dichiarante abbia il dovere giuridico di esporre la verità" [...].
La situazione non è sostanzialmente mutata, ad avviso del Collegio, a seguito dell'abrogazione della legge n. 15 del 1968, attuata in via generale, da ultimo, dal d.lgs. n. 445 del 2000, art. 77, in seguito alla quale la sottoscrizione della dichiarazione sostitutiva di atto notorio non deve più essere autenticata dal pubblico ufficiale, in quanto, come sopra precisato, quel che rileva, ai fini della sussistenza del delitto in questione, è la destinazione e lo scopo della falsa dichiarazione del privato e gli effetti di essa sul piano giuridico, che impongono una particolare tutela.
Quanto alla particolare menzione, contenuta nell'art. 495 cod. pen. [...], è appena il caso di ricordare come si tratti di un inciso che reca un contributo assai opinabile alla tesi che qui si esclude. Infatti quell'inciso è stato eliminato dal legislatore nel testo vigente dell'art. 495 cod. pen., (come modificato con d.l. n. 92 del 2008), assieme alla menzione, separata, della dichiarazione "in atto pubblico",
senza peraltro che tale modifica abbia impedito alla giurisprudenza di sostenere, pur in presenza del nuovo lessico normativo, che la condotta di "attestazione falsa", nonostante l'eliminazione del riferimento all'atto pubblico, continua a incriminare tuttora il soggetto che renda false dichiarazioni "attestanti", ovvero tese a garantire, il proprio stato od altre qualità della propria od altrui persona, destinate ad essere riprodotte in un atto fidefaciente idoneo a documentarle
».
La linea interpretativa ora illustrata, in chiara antitesi rispetto alle tesi sostenute nella sentenza oggetto di ricorso, risulta ribadita anche in pronunce successive (v. Cass., Sez. V, n. 42524 del 12/07/2012, Picone) (Corte di cassazione, Sez. V penale, sentenza 07.04.2017 n. 17774).

PUBBLICO IMPIEGO: Abuso d'ufficio - Macroscopica illegittimità dell'atto compiuto - Accertamento dell'accordo collusivo - Esclusione - Prova del dolo intenzionale - Art. 323 codice penale.
In tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa, può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto, non essendo richiesto l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, in quanto l'intenzionalità del vantaggio ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente quel privato interessato alla singola vicenda amministrativa (Cass. Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, Dragotta).
Abuso d'ufficio - Concorso nel reato di estranei al pubblico ufficio o al pubblico servizio - Configurabilità - Compartecipazione all'attività criminosa del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio - Responsabilità dell'extraneus per concorso nel reato proprio.
Anche gli estranei al pubblico ufficio o al pubblico servizio possono concorrere nel reato di abuso d'ufficio, quando vi sia compartecipazione di questi all'attività criminosa del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio (Sez. 6, n. 2140 del 25/05/1995, Tontol), in quanto per la configurabilità della responsabilità dell'extraneus per concorso nel reato proprio, è sufficiente, da un lato, la cooperazione materiale ovvero, come nel caso in esame, la determinazione o l'istigazione a commettere il reato, ed è indispensabile, dall'altro, che l'intraneo, esecutore materiale del delitto di abuso d'ufficio, sia riconosciuto responsabile del reato proprio, indipendentemente dalla sua punibilità in concreto per la eventuale presenza di cause personali di esclusione della responsabilità (Sez. 6, n. 40303 del 08/07/2014, Zappia) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.03.2017 n. 16449 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAAree colpite da sisma - Realizzazione di alloggio abitativo antisismico - Disciplina emergenziale - Rispetto del principio di legalità - Abuso di ufficio - Art. 97 Costituzione - Fattispecie: ottenimento illeciti benefici preclusi nelle situazioni ordinarie.
La normativa emergenziale non rende legibus solutus chi deve fare fronte ad eventi così devastanti per la collettività e non affranca alcuno dal rispetto del principio di legalità, che anzi deve maggiormente e soprattutto in questi casi, così dirompenti e distruttivi per la vita delle popolazioni colpite, costituire l'essenza dell'attività amministrativa, secondo il paradigma costituzionale declinato dall'articolo 97 della Costituzione, in maniera da evitare che tali disastri si risolvano in favoritismi assicurati a soggetti che alcun danno dal sisma abbiano subito e che, approfittando invece della situazione emergenziale, mirino ad ottenere illeciti benefici a loro preclusi nelle situazioni ordinarie (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.03.2017 n. 16449 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGOPermesso di costruire rilasciato dal dirigente o responsabile dello sportello unico - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Abuso di ufficio - Configurabilità del reato di abuso di ufficio.
BOSCHI E MACCHIA MEDITERRANEA - BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Effettiva estensione dell'area boscata - Area sottoposta a vincolo - False attestazioni del tecnico progettista - Art. 142, comma 1, lett. g), d.lgs. 42/2004 - Art. 13, 44, lett. b), d.P.R. 380/2001.

L'inosservanza dell'art. 13 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, secondo il quale "il permesso di costruire è rilasciato dal dirigente o responsabile dello sportello unico nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e degli strumenti urbanistici" integra il requisito della violazione di legge rilevante ai fini della configurabilità del reato di abuso di ufficio (Sez. 3, n. 39462 del 19/06/2012, Rullo; conf., Sez. 6, n. 11620 del 25/01/2007, Pellegrino).
Fattispecie: in relazione ai reati di cui agli artt. 323 cod. pen. (per avere rilasciato un permesso di costruire, mediante il quale era stata assentita la costruzione di un nuovo fabbricato, illegittimo per violazione di legge) e 44, lett. b), d.P.R. 380/2001 (per avere concorso con il proprietario del fondo alla realizzazione di scavi di fondazione con platea in cemento e movimentazione terra, sulla base di permesso di costruire illegittimo), e con riferimento al tecnico progettista e redattore di una relazione tecnico progettuale, contenente false attestazioni circa l'effettiva estensione dell'area boscata di un fondo in relazione al quale era stato chiesto il rilascio di permesso di costruire, in relazione al reato di cui all'art. 481, comma 2, cod. pen. (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.03.2017 n. 16436 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGOIn tema di elemento soggettivo del reato di abuso di ufficio non è richiesta la prova della collusione del pubblico ufficiale con i beneficiari dell'abuso, essendo sufficiente la verifica del favoritismo posto in essere con l'abuso dell'atto di ufficio, prova che può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto, o anche anche da una serie di indici fattuali, tra i quali assumono rilievo l'evidenza, reiterazione e gravità delle violazioni, la competenza dell'agente, i rapporti fra agente e soggetto favorito, l'intento di sanare le illegittimità con successive violazioni di legge.
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3. Il ricorso è inammissibile perché generico e manifestamente infondato.
4. Il G.u.p. ha motivato la propria decisione sul rilievo che:
   a) i provvedimenti amministrativi adottati non sono macroscopicamente illegittimi;
   b) il pubblico ufficiale aveva adottato i provvedimenti in base all'istruttoria favorevolmente condotta dal tecnico comunale che non aveva evidenziato alcuna illegittimità e sulle cui conclusioni aveva fatto ragionevole affidamento;
   c) il giudizio di conformità ambientale di cui agli artt. 181, comma 1-ter, e 167, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004, era stato positivamente espresso relativamente alla piscina in base ad un'interpretazione non uniforme dell'autorità amministrativa preposta alla tutela del vincolo;
   d) il Ve., prima ancora di ricevere l'avviso di conclusione delle indagini preliminari, non appena ricevuta l'informazione di polizia giudiziaria sugli abusi edilizi in corso ne aveva ordinato la sospensione;
   e) non v'è alcuna prova non solo di complicità con i privati ma addirittura di un qualsiasi rapporto di conoscenza tra di loro.
4.1. Il PG ricorrente devolve la questione in modo tale da limitare la cognizione di questa Corte al solo fatto dedotto: la mancanza della prova di collusione tra i tre imputati, ritenuto decisivo ai fini dell'annullamento della sentenza impugnata.
4.2. Questa Suprema Corte ha più volte affermato il principio secondo il quale,
in tema di elemento soggettivo del reato di abuso di ufficio, non è richiesta la prova della collusione del pubblico ufficiale con i beneficiari dell'abuso, essendo sufficiente la verifica del favoritismo posto in essere con l'abuso dell'atto di ufficio (Sez. 6, n. 910 del 18/11/1999, Giansante, Rv. 215430; Sez. 6, n. 21085 del 28/01/2004, Sodano, Rv. 229806; Sez. F. n. 38133 del 25/08/2011, Farina, Rv. 251088), prova che può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto (Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, Dragotta, Rv. 260233), o anche anche da una serie di indici fattuali, tra i quali assumono rilievo l'evidenza, reiterazione e gravità delle violazioni, la competenza dell'agente, i rapporti fra agente e soggetto favorito, l'intento di sanare le illegittimità con successive violazioni di legge (Sez. 3, n. 35577 del 06/04/2016, Cella, Rv. 267633).
4.3. Tuttavia, come detto, di tutti gli indizi complessivamente valutati dal G.u.p., il PG ne seleziona uno solo, perdendo di vista la completezza e l'organicità del ragionamento del Giudice sulla cui fondatezza questa Corte non può ovviamente interloquire, perché non investita sul punto.
Il PG, infatti, non eccepisce alcunché sulla natura non macroscopicamente illegittima degli atti amministrativi adottati, né sul legittimo affidamento fatto dal pubblico ufficiale sull'istruttoria del tecnico comunale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.03.2017 n. 12397).

PUBBLICO IMPIEGO: Abuso di ufficio per sviamento di potere - Dirigente dell'Ufficio edilizia pubblica - Violazione del principio di imparzialità - Condotta del pubblico ufficiale in contrasto con le norme - Obbligo di astensione - Elemento psicologico del reato - Configurabilità del dolo intenzionale - Scopo diverso da una finalità pubblica - Condotta illecita - Prova dell'intenzionalità del dolo - Art. 323 c.p. - Fattispecie: ottenimento una concessione edilizia attraverso una procedura anomala e irrituale - Art. 44, d.P.R. n. 380/2001.
Ai fini della configurabilità del reato di abuso d'ufficio, sussiste il requisito della violazione di legge non solo quando la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l'attribuzione (Cass. Sez. U, n. 155 del 29/09/2011, Rossi; tra le altre, Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo; Sez. 6, n. 27816 del 02/04/2015, Di Febo; Sez. 6, n. 43789 del 18/10/2012, Contiguglia; Sez. 6, n. 35597 del 05/07/2011, Barbera).
Quanto, poi, all'elemento psicologico del reato, per detta fattispecie criminosa, il dolo richiesto assume una connotazione articolata e complessa: è generico, con riferimento alla condotta (coscienza e volontà di violare norme di legge o di regolamento ovvero di non osservare l'obbligo di astensione) e assume la forma del dolo intenzionale rispetto all'evento (vantaggio patrimoniale o danno) che completa la fattispecie.
Sicché, il dolo intenzionale è configurabile qualora si accerti che il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio abbia agito con uno scopo diverso da quello consistente nel realizzare una finalità pubblica, il cui conseguimento deve essere escluso non soltanto nei casi nei quali questa manchi del tutto, ma anche laddove la stessa rappresenti una mera occasione della condotta illecita, posta in essere invece al preciso scopo di perseguire, in via immediata, un danno ingiusto ad altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto per sé o per altri (Sez. 3, sent. n. 10810 del 17/01/2014, Altieri e altri).
Invero, la prova dell'intenzionalità del dolo esige il raggiungimento della certezza che la volontà dell'imputato sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto e tale certezza non può essere ricavata esclusivamente dal rilievo di un comportamento "non iure" osservato dall'agente, come tale insufficiente, ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, che evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del comportamento, quali, ad esempio, la specifica competenza professionale dell'agente, l'apparato motivazionale su cui riposa il provvedimento ed il tenore dei rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i soggetti che dal provvedimento stesso ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno (Cass. Sez. 6, sent. n. 21192 del 25/01/2013, Baria ed altri; nello stesso sostanziale senso, v. Sez. 3, sent. n. 13735 del 26/02/2013, p.c. in proc. Fabrizio e altro).
Fattispecie: violazione del principio di imparzialità dell'attività amministrativa, gestendo in modo anomalo e con irrituale partecipazione una procedura introdotta al fine di ottenere una specifica concessione edilizia.
Pubblico ufficiale - Reato di abuso di ufficio - Principio di buon andamento e di imparzialità dell'azione della pubblica amministrazione - Art. 323 c.p. - Violazione dell'art. 97 Cost. - Giurisprudenza.
In tema di abuso di ufficio, il requisito della violazione di legge può consistere anche nella inosservanza dell'art. 97 della Costituzione, nella parte immediatamente precettiva che impone ad ogni pubblico funzionario, nell'esercizio delle sue funzioni, di non usare il potere che la legge gli conferisce per compiere deliberati favoritismi e procurare ingiusti vantaggi ovvero per realizzare intenzionali vessazioni o discriminazioni e procurare ingiusti danni (Cass., Sez. 2, n. 46096 del 27/10/2015, Giorgina; Sez. 6, n. 27816 del 02/04/2015, Di Febo; Sez. 6, n. 37373 del 24/06/2014, Cocuzza) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.02.2017 n. 7161 - link a www.ambientediritto.it).

anno 2016

PUBBLICO IMPIEGO: Abuso di ufficio.
Il dolo del reato di abuso d'ufficio sussiste ogni qualvolta l'ingiusto vantaggio proprio o altrui, ovvero l'ingiusto danno altrui, siano stati rappresentati e voluti dall'agente come obiettivo primario della propria condotta.
Tale intenzione va desunta dal complessivo svolgersi dei comportamenti, soprattutto quando sia stato rilevato un iter procedimentale illegittimo e caratterizzato da plurime condotte omissive e dilatorie dell'imputato.
La reiterazione dei comportamenti, la evidente illegittimità di essi e le altre circostanze afferenti i rapporti tra agente e soggetto favorito o danneggiato, costituiscono evidenti indici della sussistenza del dolo, anche se non è necessario che il fine che deve animare l'agente sia esclusivo.

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1. Va premesso che
in relazione all'elemento soggettivo nel delitto di abuso di ufficio, è stato affermato che "la prova del dolo intenzionale deve essere ricavata da elementi ulteriori rispetto al comportamento "non iure" osservato dall'agente, che evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del comportamento dell'agente, senza che al riguardo possa rilevare la compresenza di una finalità pubblicistica, salvo che il perseguimento del pubblico interesse costituisca l'obiettivo principale dell'agente" (cfr. Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo, Rv. 264280).
E' stato anche precisato che
è necessario che il perseguimento dell'interesse pubblico costituisca il fine primario dell'agente affinché possa essere ritenuto insussistente l'elemento soggettivo del dolo (in tal senso: Sez. 6, n. 14038/2015 del 02/10/2014, De Felicis e altro, Rv. 262950).
2. In sintesi,
il dolo sussiste quando l'ingiusto vantaggio proprio od altrui, ovvero l'ingiusto danno altrui siano stati rappresentati e voluti dall'agente come obiettivo primario della propria condotta. Tale intenzione va desunta dal complessivo svolgersi dei comportamenti, soprattutto quando, come nel caso di specie, sia stato rilevato -concordemente dai giudici di primo e secondo grado- un iter procedimentale illegittimo e caratterizzato da plurime condotte omissive e dilatorie dell'imputato. La reiterazione dei comportamenti, la evidente illegittimità di essi, nonché le altre circostanze afferenti i rapporti tra agente e soggetto favorito o danneggiato ed, in caso di compresenza di più fini, dalla comparazione dei rispettivi vantaggi o svantaggi (cfr. Sez. 6, n. 41365 del 09/11/2006, Fabbri, Rv. 235434), costituiscono, pertanto, evidenti indici della sussistenza del dolo, anche se non è necessario che il fine che deve animare l'agente sia esclusivo.
3. Come già questa Corte ha affermato,
ritenere che l'agente debba agire "al solo scopo di", equivarrebbe ad una sostanziale disapplicazione della fattispecie delittuosa (in tal senso: Sez. 3, n. 13735 del 26/02/2013,p.c. in proc. Fabrizio e altro, Rv. 254856).
Di fatti,
va ribadito il principio che, poiché l'abuso di ufficio è un reato proprio che può essere commesso solo dal pubblico ufficiale od incaricato di un pubblico servizio nell'esercizio delle proprie rispettive funzioni, in qualche modo finisce per risultare sempre manifestata una finalità pubblicistica, e ciò non solo quando tale pubblica finalità sia utilizzata per mascherare il vero, ma diverso, fine di avvantaggiare il soggetto privato, ma anche quando il medesimo obiettivo pubblico venga strumentalizzato quale scusante o limite del mancato riconoscimento delle ragioni o diritti del privato, e quindi con l'intenzione di provocare al privato un danno.
4. Nel caso di specie, i giudici di appello hanno omesso di svolgere il menzionato giudizio di "finalità prevalente" in merito all'iter procedimentale dagli stessi riconosciuto illegittimo, in quanto hanno ritenuto che mancassero elementi di prova relativi alla sussistenza, in capo all'imputato, dell'obiettivo di danneggiare l'attività imprenditoriale della parte offesa, danneggiamento in verità avvenuto, posto che a seguito dell'illegittimo procedimento mai più concluso -fatto non riconducibile ad alcuna finalità pubblicistica, visto che il procedimento di intesa ai sensi del Piano paesaggistico regionale era stato promosso per altra coeva iniziativa edilizia- era stato provocato uno stato di incertezza tale da porre nel nulla il progettato intervento imprenditoriale volto alla realizzazione di strutture ricettivo-turistiche (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.07.2016 n. 31865).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAConsuma il reato di "abuso d'ufficio" il sindaco che, con ordinanza contingibile ed urgente ex art. 54 d.lgs. 267/2000, mette in atto un espediente per aggirare le prescrizioni connesse al vincolo ambientale e realizzare un intento illecito, e cioè favorire l'attività di ristorazione ivi esistente, essendo risultati del tutto artificiosi i riferimenti ad incidenti stradali verificatisi nella zona, non essendo derivati dal traffico estivo, e non essendo correlate alle esigenze della circolazione le opere diverse dalla realizzazione del parcheggio autorizzate con la medesima ordinanza, volte invece a favorire l'afflusso di clienti presso l'esercizio commerciale e ad ampliarne e rendere più attrattiva l'attività, ritenendo di conseguenza viziato da violazione di legge tale provvedimento, in quanto non caratterizzato da eccesso di potere (nel senso del compimento di non corrette valutazioni discrezionali) ma dalla assoluta mancanza dei presupposti legittimanti l'esercizio di tale potere, artificiosamente prospettati nella ordinanza stessa.
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Il ricorso è infondato.
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2. Il secondo motivo di ricorso, mediante il quale
è stata prospettata violazione di legge, ed in particolare dell'art. 54 d.lgs. 267/2000, in relazione alla ritenuta sussistenza del reato di cui all'art. 323 cod. pen., sul rilievo che l'ordinanza contingibile ed urgente emanata dal De Ru. quale Sindaco di Lampedusa e Linosa per consentire la realizzazione del parcheggio era stata adottata per risolvere i problemi di congestione del traffico veicolare nell'area prospiciente la spiaggia dell'Isola dei Conigli, dunque in relazione ad una situazione di pericolo per la sicurezza e l'incolumità pubblica, risulta anch'esso infondato.
Al riguardo la Corte d'appello di Palermo ha sottolineato
le anomalie della procedura conclusasi con l'emissione di detta ordinanza, ritenuta un espediente per aggirare le prescrizioni connesse al vincolo ambientale e realizzare un intento illecito, e cioè favorire l'attività di ristorazione del Cu., essendo risultati del tutto artificiosi i riferimenti ad incidenti stradali verificatisi nella zona, non essendo derivati dal traffico estivo, e non essendo correlate alle esigenze della circolazione le opere diverse dalla realizzazione del parcheggio autorizzate con la medesima ordinanza, volte invece a favorire l'afflusso di clienti presso l'esercizio commerciale del Cu. e ad ampliarne e rendere più attrattiva l'attività, ritenendo di conseguenza viziato da violazione di legge tale provvedimento, in quanto non caratterizzato da eccesso di potere (nel senso del compimento di non corrette valutazioni discrezionali) ma dalla assoluta mancanza dei presupposti legittimanti l'esercizio di tale potere, artificiosamente prospettati nella ordinanza stessa.
A fronte di tali considerazioni il ricorrente si è limitato a ribadire l'esistenza di una situazione di pericolo conseguente all'intenso traffico veicolare nella zona, omettendo di confrontarsi con i suddetti rilievi della Corte d'appello, circa la pretestuosità di tale indicazione e la sua inconferenza rispetto al complesso degli interventi e dei lavori autorizzati, con la conseguente infondatezza della censura, risultando corretta la riconducibilità del vizio di detta ordinanza alla categoria della violazione di legge, in quanto emessa in totale assenza dei presupposti legittimanti, e cioè una situazione di pericolo per la sicurezza e l'incolumità pubblica, esclusa in punto di fatto ed in relazione alla quale, comunque, gli interventi autorizzati risultavano inconferenti.
L'ampliamento del piccolo bar di cui il Cu. era titolare, mediante trasformazione in un vero e proprio punto di ristoro, con parcheggio e docce, determinava un evidente vantaggio patrimoniale per il gestore, conseguente alla radicale trasformazione del suo esercizio commerciale, in termini di dimensioni, caratteristiche e maggiori servizi offerti ai turisti, con la conseguenza che risulta corretta la valutazione compiuta dalla Corte d'appello circa lo scopo di procurare tale vantaggio al Cu. insito nella adozione della ordinanza d'urgenza da parte del De Ru..
Infine risulta infondata anche la censura sollevata in relazione alla condanna del ricorrente al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita,
avendo l'imputato esorbitato dalle sue attribuzioni di Sindaco, emettendo una ordinanza in mancanza dei presupposti legittimanti l'esercizio del relativo potere, e dovendo, di conseguenza, rispondere delle conseguenze di tale atto anche sul piano risarcitorio, essendo venuto meno per effetto dell'illecito il rapporto di rappresentanza ed immedesimazione organica con l'ente.
In conclusione il ricorso in esame deve essere respinto, stante l'infondatezza di entrambi i motivi cui è stato affidato, ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione alla parte civile di quelle dalla stessa sostenute nel grado, liquidate come da dispositivo (Corte di Cassazione, Sez. III Penale, sentenza 12.07.2016 n. 28938).

EDILIZIA PRIVATA: QUALI SONO I DOVERI DI CONTROLLO DEL PUBBLICO AMMINISTRATORE PRIMA DI RILASCIARE UN TITOLO ABILITATIVO EDILIZIO?
Nel procedimento amministrativo di rilascio di un titolo abilitativo alla realizzazione di opere o allo svolgimento di attività coinvolgenti immobili, l’indagine sulla conformità dell’immobile alla disciplina urbanistica costituisce un momento istruttorio ineludibile espressamente previsto dal legislatore, sicché solo l’acquisizione di dati positivi nel senso favorevole al richiedente consente il legittimo rilascio del provvedimento abilitativo, con la conseguenza che l’inosservanza di tale procedimento concreta il vizio di violazione di legge rilevante ai sensi dell’art. 323 c.p., trattandosi di norme che impongono all’amministrazione comportamenti specifici e puntuali la cui omissione ha l’effetto di procurare un vantaggio al beneficiario.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della S.C. verte, in particolare, sulla individuazione degli obblighi incombenti sul pubblico amministratore (di regola, il responsabile dell’ufficio tecnico comunale, deputato all’istruttoria delle pratiche edilizie), prima di procedere al rilascio di un titolo abilitativo.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza di condanna pronunciata nei confronti del responsabile dell’ufficio tecnico comunale per il reato di cui all’art. 323 c.p.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare sostenendo che le emergenze processuali non avrebbero fornito alcuna prova in ordine alla sua responsabilità, ed i dati offerti alla difesa sarebbero rimasti del tutto negletti con conseguente vizio motivazionale della impugnata sentenza.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha dichiarato inammissibile il ricorso, in particolare, osservando come decisamente consolidato è l’orientamento giurisprudenziale che qualifica come rilevante per la sussistenza del reato di abuso di ufficio la violazione delle norme che disciplinano i compiti degli amministratori pubblici in materia di edilizia e di urbanistica, ossia, dapprima, il Sindaco ai sensi della L. n. 47 del 1985, art. 4; e poi, il responsabile dell’Ufficio tecnico comunale, a partire dall’entrata in vigore del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 107, comma 3, lett. g), (testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), che ha recepito e unificato le normative precedenti (a partire dalla L. n. 142 del 1990, art. 51), stabilendo che tutti gli interventi in materia di violazioni edilizie sono di competenza del Dirigente responsabile dell’Ufficio tecnico comunale, nel solco del disegno complessivo che ha inteso separare, nelle amministrazioni locali, l’attività di indirizzo e controllo, spettante agli organi elettivi, dai compiti di gestione amministrativa affidati ai dirigenti.
Nello specifico, ai sensi degli artt. 27 e 31 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, contenuto nel d.P.R. n. 380 del 2001, il Dirigente o il responsabile dell’Ufficio tecnico comunale è attualmente titolare della posizione di garantire il corretto assetto dello sviluppo urbanistico del Comune, esercitando la vigilanza “sull’attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi”, ed avendo l’obbligo di intervenire “ogni qualvolta venga accertato l’inizio o l’esecuzione di opere eseguite senza titolo o in difformità della normativa urbanistica, attraverso l’emanazione di provvedimenti interdittivi e cautelari”.
Si noti, del resto, che sin dalle prime pronunce intervenute dopo l’entrata in vigore della L. n. 234 del 1997, si è affermato che, nel procedimento amministrativo di rilascio di un titolo abilitativo alla realizzazione di opere o allo svolgimento di attività coinvolgenti immobili, l’indagine sulla conformità dell’immobile alla disciplina urbanistica costituisce un momento istruttorio ineludibile “espressamente previsto dal legislatore, sicché solo l’acquisizione di dati positivi nel senso favorevole al richiedente consente il legittimo rilascio” del provvedimento abilitativo, con la conseguenza che “l’inosservanza di tale procedimento concreta (...) il vizio di violazione di legge rilevante ai sensi dell’art. 323 c.p., trattandosi di norme che impongono all’amministrazione comportamenti specifici e puntuali la cui omissione ha l’effetto di procurare un vantaggio al beneficiario” (v. ad es., Cass. pen., Sez. VI, 04.08.1998, n. 9116, E., in CED, n. 211579) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.06.2016 n. 23682 - Urbanistica e appalti 10/2016).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGODecisamente consolidato è l'orientamento giurisprudenziale che qualifica come rilevante per la sussistenza del reato di abuso di ufficio la violazione delle norme che disciplinano i compiti degli amministratori pubblici in materia di edilizia e di urbanistica, ossia, dapprima, il Sindaco ai sensi dell'art. 4 legge n. 47 del 1985; e poi, il responsabile dell'Ufficio tecnico comunale, a partire dall'entrata in vigore dell'art. 107, comma 3, lettera g), del decreto legislativo n. 267 del 2000, stabilendo che tutti gli interventi in materia di violazioni edilizie sono di competenza del Dirigente responsabile dell'Ufficio tecnico comunale, nel solco del disegno complessivo che ha inteso separare, nelle amministrazioni locali, l'attività di indirizzo e controllo, spettante agli organi elettivi, dai compiti di gestione amministrativa affidati ai dirigenti.
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Nel procedimento amministrativo di rilascio di un titolo abilitativo alla realizzazione di opere o allo svolgimento di attività coinvolgenti immobili, l'indagine sulla conformità dell'immobile alla disciplina urbanistica costituisce un momento istruttorio ineludibile «espressamente previsto dal legislatore, sicché solo l'acquisizione di dati positivi nel senso favorevole al richiedente consente il legittimo rilascio» del provvedimento abilitativo, con la conseguenza che «l'inosservanza di tale procedimento concreta (...) il vizio di violazione di legge rilevante ai sensi dell'art. 323 codice penale, trattandosi di norme che impongono all'amministrazione comportamenti specifici e puntuali la cui omissione ha l'effetto di procurare un vantaggio al beneficiario».
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Pacifico è che, nel delitto di abuso d'ufficio, non è richiesta la prova della collusione tra p.u. e privato. Si è infatti affermato più volte che in tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa, può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto, non essendo richiesto l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, in quanto l'intenzionalità del vantaggio ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente quel privato interessato alla singola vicenda amministrativa.

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3. Il ricorso è manifestamente infondato e dev'essere dichiarato inammissibile.
4. Anzitutto, osserva il Collegio, il primo motivo si appalesa del tutto inammissibile.
La Corte d'appello, infatti, spiega le ragioni per le quali l'intervento edilizio non avrebbe potuto essere condonato, atteso che lo stesso tecnico istruttore della pratica aveva evidenziato la mancanza dei previsti elaborati grafici formulando parere negativo all'accoglimento dell'istanza di condono; la stessa Corte d'appello chiarisce (v. pagg. 5/6) che proprio l'esame di tale documentazione planimetrica avrebbe consentito di accertare che il sottotetto non era condonabile, in particolare trattandosi di sanatoria per ristrutturazione edilizia funzionale a modifiche della destinazione d'uso da deposito ad abitazione; era quindi necessario accertare che i volumi fossero tali da consentire detto mutamento, atteso che la variazione avveniva tra categorie non omogenee.
La Corte d'appello, quindi, perviene ad affermare che, rilasciando il titolo abilitativo, il ricorrente aveva abusato del suo ufficio (e che l'architetto Di. avesse presente che si trattava di rilascio di titolo abilitativo in sanatoria e non di certificato di abitabilità-agibilità risultava pacificamente dagli atti); quanto al dolo viene spiegato dalla corte d'appello perché lo stesso ben poteva essere ritenuto sussistente (v. pagg. 6 e 7), sicché il rilascio del titolo avvenne in mancanza di quei dati che si assumevano come esistenti ed acquisiti (non potendosi nemmeno trascurare il fatto che il dubbio sulla ritualità della pratica era oltremodo stato evidenziato anche dagli esposti dei condomini dello stabile, sicché era evidente come fosse sicuramente opportuno un comportamento dell'imputato improntato a maggior prudenza); detto comportamento, si spiega nella sentenza d'appello, ha determinato un incremento del valore economico dell'unità immobiliare del Pi. con conseguente integrazione della cosiddetta doppia ingiustizia.
5. Infine, e conclusivamente, deve peraltro evidenziarsi che il condono non avrebbe potuto essere rilasciato perché la relativa istanza era stata ritenuta inveritiera in quanto l'immobile non era stato ultimato entro il 31.03.2003 (non va, infatti, dimenticato che il proprietario era stato condannato per violazione dell'art. 483 cod. pen.), e l'Am., quale pubblico ufficiale addetto alla valutazione delle relative pratiche, aveva il dovere di controllarne la rispondenza al vero prima di rilasciare il condono e comunque dovendo procedere alle verifiche imposte dall'art. 35, legge n. 47 del 1985.
Con specifico riguardo al tema d'indagine, si osserva che
decisamente consolidato è l'orientamento giurisprudenziale che qualifica come rilevante per la sussistenza del reato di abuso di ufficio la violazione delle norme che disciplinano i compiti degli amministratori pubblici in materia di edilizia e di urbanistica, ossia, dapprima, il Sindaco ai sensi dell'art. 4 legge n. 47 del 1985; e poi, il responsabile dell'Ufficio tecnico comunale, a partire dall'entrata in vigore dell'art. 107, comma 3, lettera g), del decreto legislativo n. 267 del 2000 (testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), che ha recepito e unificato le normative precedenti (a partire dall'art. 51 legge n. 142 del 1990), stabilendo che tutti gli interventi in materia di violazioni edilizie sono di competenza del Dirigente responsabile dell'Ufficio tecnico comunale, nel solco del disegno complessivo che ha inteso separare, nelle amministrazioni locali, l'attività di indirizzo e controllo, spettante agli organi elettivi, dai compiti di gestione amministrativa affidati ai dirigenti.
Nello specifico, ai sensi degli artt. 27 e 31 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, contenuto nel decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, il Dirigente o il responsabile dell'Ufficio tecnico comunale è attualmente titolare della posizione di garantire il corretto assetto dello sviluppo urbanistico del Comune, esercitando la vigilanza «sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi», ed avendo l'obbligo di intervenire «ogni qualvolta venga accertato l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo o in difformità della normativa urbanistica, attraverso l'emanazione di provvedimenti interdittivi e cautelari».
Sin dalle prime pronunce intervenute dopo l'entrata in vigore della legge n. 234 del 1997, si è affermato che,
nel procedimento amministrativo di rilascio di un titolo abilitativo alla realizzazione di opere o allo svolgimento di attività coinvolgenti immobili, l'indagine sulla conformità dell'immobile alla disciplina urbanistica costituisce un momento istruttorio ineludibile «espressamente previsto dal legislatore, sicché solo l'acquisizione di dati positivi nel senso favorevole al richiedente consente il legittimo rilascio» del provvedimento abilitativo, con la conseguenza che «l'inosservanza di tale procedimento concreta (...) il vizio di violazione di legge rilevante ai sensi dell'art. 323 codice penale, trattandosi di norme che impongono all'amministrazione comportamenti specifici e puntuali la cui omissione ha l'effetto di procurare un vantaggio al beneficiario» (v. ad es., Sez. 6, n. 9116 del 01/07/1998 - dep. 04/08/1998, Egidi C, Rv. 211579).
6. Tenuto conto di quanto sopra, il ricorrente svolge censure che -lungi dal prospettare un vizio motivazionale- si propongono di pervenire ad un obiettivo diverso, ossia chiedere a questa Corte di sostituire la valutazione operata dai giudici di merito con una propria "rivalutazione" dei fatti, operazione vietata in questa sede.
Le deduzioni difensive si risolvono, all'evidenza -lungi dal prospettare un vizio di motivazione- nella manifestazione del dissenso rispetto alla ricostruzione del fatto ed alla valutazione probatoria operata dai giudici di merito, operazione, come detto, non consentita in questa sede.
Si ribadisce, e non potrebbe essere altrimenti, che l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato -per espressa volontà del legislatore- a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (per tutte., v.: Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997 - dep. 02/07/1997, Dessimone e altri, Rv. 207944).
A ciò si aggiunge -con particolare riferimento alle doglianze riguardanti il preteso vizio motivazionale- che gli accertamenti (giudizio ricostruttivo dei fatti) e gli apprezzamenti (giudiziovalutativo dei fatti) cui il giudice del merito sia pervenuto attraverso l'esame delle prove, sorretto da adeguata motivazione esente da errori logici e giuridici, sono sottratti al sindacato di legittimità e non possono essere investiti dalla censura di difetto o contraddittorietà della motivazione solo perché contrari agli assunti del ricorrente; ne consegue che tra le doglianze proponibili quali mezzi di ricorso, ai sensi dell'art. 606, lett. e), cod. proc. pen., non rientrano quelle relative alla valutazione delle prove, specie se implicanti la soluzione di contrasti testimoniali, la scelta tra divergenti versioni ed interpretazioni, l'indagine sull'attendibilità dei testimoni e sulle risultanze peritali, salvo il controllo estrinseco della congruità e logicità della motivazione (tra le tante: Sez. 4, n. 87 del 27/09/1989 - dep. 11/01/1990, Bianchesi, Rv. 182961).
Controllo, in questa sede, agevolmente superato dalla sentenza impugnata.
Quanto, alla sussistenza del dolo normativamente richiesto, infine,
pacifico è che, nel delitto di abuso d'ufficio, non è richiesta la prova della collusione tra p.u. e privato. Si è infatti affermato più volte che in tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa, può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto, non essendo richiesto l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, in quanto l'intenzionalità del vantaggio ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente quel privato interessato alla singola vicenda amministrativa (Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014 - dep. 27/08/2014, Dragotta, Rv. 260233; Sez. F, n. 38133 del 25/08/2011 - dep. 21/10/2011, P.G. e p.c. in proc. Farina, Rv. 251088; Sez. 6, n. 21085 del 28/01/2004 - dep. 05/05/2004, P.C.in proc. Sodano e altri, Rv. 229806) (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.06.2016 n. 23682).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Abuso d’ufficio il direttore generale di un Comune che esprime una valutazione negativa della professionalità di un proprio sottoposto al fine di bloccargli la progressione economica.
La prova del dolo intenzionale del delitto di abuso d'ufficio deve essere ricavata da elementi ulteriori rispetto al comportamento non iure osservato dall'agente, che evidenzino la effettiva ratio ispiratrice del comportamento dell'agente, senza che al riguardo possa rilevare la compresenza di una finalità pubblicistica, salvo che il perseguimento del pubblico interesse costituisca l'obiettivo principale dell'agente.
Si è anche condivisibilmente affermato che
il dolo intenzionale non è escluso per il solo fatto del perseguimento da parte del pubblico agente di una finalità pubblica, laddove la stessa rappresenti una mera occasione della condotta illecita, posta in essere invece al preciso scopo di perseguire, in via immediata, un danno ingiusto ad altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto per sé o per altri.
Va richiamato l'insegnamento, secondo cui
la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa dell'abuso di ufficio, può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto.

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2. Il primo motivo è palesemente infondato.
In sede di appello, l'imputato aveva soltanto contestato la sussistenza della condotta lesiva del principio di imparzialità della P.A., sostenendo che il suo comportamento era stato ispirato alla finalità di «premiare i dipendenti produttivi e spronare quelli improduttivi a fare meglio per poter ottenere dei riconoscimenti di natura economica al contempo evitando di incorrere in eventuali danni erariali ove non rispettasse la ratto della PEO».
Pertanto, oltre a non aver sollevato la questione, è lo stesso imputato a riconoscere alla valutazione PEO un diretto impatto economico sui dipendenti. In ogni caso, la sentenza impugnata dimostra per tabulas l'ingiustizia del danno patito dall'An., richiamando le iniziative legali vittoriose da questo intraprese in sede civile per ristabilire i propri diritti.
Invero, il sistema di progressione economica orizzontale prevede la selezione -sulla base della valutazione del personale che ne abbia fatto domanda e quindi una graduatoria di merito- di dipendenti meritevoli ad accedere a diverse posizioni economiche all'interno di una stessa categoria.
Il vulnus arrecato all'An. con l'attribuzione di un punteggio insufficiente per il passaggio alla categoria D4 realizzava quindi l'evento del danno ingiusto richiesto dall'art. 323 cod. pen., che -come più volte chiarito dalla Suprema Corte- non deve intendersi limitato solo a situazioni soggettive di carattere patrimoniale e nemmeno a diritti soggettivi perfetti, riguardando l'aggressione ingiusta alla sfera della personalità per come tutelata dai principi costituzionali (tra le tante, Sez. 5, n. 32023 del 19/02/2014, Omodeo Zorini, Rv. 261899).
Nel caso in esame, oltre all'impossibilità di accedere alla selezione per l'incremento economico (come tale tutelabile davanti al giudice ordinario, cfr. Sez. U civ., n. 26295 del 31/10/2008, Rv. 605275), il danno subito dall'An. era da rinvenirsi anche alla perdita di prestigio e di decoro nei confronti dei propri colleghi di lavoro, strettamente connesso alla valutazione decisamente negativa e pregiudizievole emessa a suo carico dall'imputato.
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4. Non può essere accolto neppure l'ultimo motivo.
Il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata non abbia motivato sul perché l'agire dell'imputato non fosse stato sorretto dalla finalità di perseguire il buon andamento dell'ente.
Va ribadito al riguardo che
la prova del dolo intenzionale del delitto di abuso d'ufficio deve essere ricavata da elementi ulteriori rispetto al comportamento non iure osservato dall'agente, che evidenzino la effettiva ratio ispiratrice del comportamento dell'agente, senza che al riguardo possa rilevare la compresenza di una finalità pubblicistica, salvo che il perseguimento del pubblico interesse costituisca l'obiettivo principale dell'agente (Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo, Rv. 264280).
Si è anche condivisibilmente affermato che
il dolo intenzionale non è escluso per il solo fatto del perseguimento da parte del pubblico agente di una finalità pubblica, laddove la stessa rappresenti una mera occasione della condotta illecita, posta in essere invece al preciso scopo di perseguire, in via immediata, un danno ingiusto ad altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto per sé o per altri (Sez. 3, n. 10810 del 17/01/2014, Altieri, Rv. 258893).
Fatte queste premesse, appaiono quindi non dirimenti le osservazioni difensive.
Per il resto, le critiche sulle carenze motivazionali in ordine all'elemento soggettivo si rivelano parimenti infondate.
La sentenza impugnata ha sufficientemente dimostrato come l'imputato avesse perseguito come obiettivo primario del suo operato (evento tipico) quello di danneggiare la persona offesa per ritorsione e vendetta personale, traendo elementi dimostrativi dalla modalità della condotta, che si era estrinsecata in punteggi così ingiustificatamente negativi (come il punteggio per i rapporti con il dirigente pari a uno) da rivelare le reali intenzioni dell'imputato.
A tal riguardo va richiamato l'insegnamento, secondo cui
la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa dell'abuso di ufficio, può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto (Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, Dragotta, Rv. 260233; Sez. 3, n. 48475 del 07/11/2013, Scaramazza, Rv. 258290; Sez. 6, n. 49554 del 22/10/2003, Cianflone, Rv. 227205) (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 19.05.2016 n. 20974).

PUBBLICO IMPIEGOIn tema di peculato, l’appropriazione si realizza con l’inversione del titolo del possesso da parte del pubblico agente, che si comporta, oggettivamente e soggettivamente uti dominus nei confronti della cosa posseduta in ragione dell’ufficio, che conseguentemente viene estromessa totalmente dal patrimonio dell’avente diritto.
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1. Il ricorso va accolto in ragione della diversa qualificazione giuridica del fatto e della sopravvenuta estinzione del reato per prescrizione.
Premesso che
in tema di peculato l'appropriazione si realizza con l'inversione del titolo del possesso da parte del pubblico agente, che si comporta, oggettivamente e soggettivamente uti dominus nei confronti della cosa posseduta in ragione dell'ufficio, che conseguentemente viene estromessa totalmente dal patrimonio dell'avente diritto, nel caso in esame non è ravvisabile il peculato, mancando la definitiva perdita del bene da parte della pubblica amministrazione, in quanto sia sul piano oggettivo che soggettivo è emerso che l'imputato ha solo fatto un uso indebito del fax dell'ufficio, distogliendolo temporaneamente dalla sua destinazione originaria per fini personali.
Nella sentenza n. 19054/2013 le Sezioni Unite hanno chiarito che
in caso di utilizzo del telefono d'ufficio non sono oggetto di appropriazione definitiva né il bene materiale né l'energia elettrica, necessaria ad attivare le onde elettromagnetiche, che viene in rilievo quale entità di consumo inscindibilmente legata al funzionamento dell'apparecchio e, pertanto, non può costituire l'oggetto diretto, specifico ed autonomo della condotta dell'agente, né il costo che la pubblica amministrazione sopporta per l'utilizzo indebito del bene, trattandosi di una conseguenza della condotta dell'agente infedele, il quale non ha il previo possesso delle somme corrispondenti all'onere economico che la pubblica amministrazione sostiene per effetto della sua condotta.
Chiarito, altresì, che nel caso in esame l'imputato utilizzava in modo programmaticamente momentaneo il fax dell'ufficio per scopi privati e che l'abuso del possesso del bene della pubblica amministrazione non si è tradotto nella stabile inversione in dominio, in quanto, dopo l'uso arbitrario, il bene è stato restituito alla sua destinazione pubblicistica originaria,
nella fattispecie non solo va esclusa la configurabilità del peculato ma anche del peculato d'uso per mancanza di concreta offensività del fatto.
Per la rilevanza penale del fatto occorre sempre che l'uso indebito produca un apprezzabile danno al patrimonio della p.a. o di terzi o una concreta lesione della funzionalità dell'ufficio, non ravvisabili nella fattispecie in ragione della minima entità del danno cagionato, neppure quantificato.
Tuttavia, diversamente da quanto prospettato dal ricorrente,
la condotta non è penalmente irrilevante, residuando l'abuso d'ufficio quale cornice legale nella quale sussumerla.
Infatti, come già precisato da questa Corte,
mentre nel delitto di peculato la condotta consiste nell'appropriazione di danaro o altra cosa mobile altrui, di cui il responsabile abbia il possesso o la disponibilità per ragioni del suo ufficio -onde la violazione dei doveri di ufficio costituisce esclusivamente la modalità della condotta, cioè dell'appropriazione-, nell'abuso di ufficio -di carattere sussidiario- la condotta si identifica con l'abuso funzionale, cioè con l'esercizio delle potestà e con l'uso dei mezzi inerenti ad una funzione pubblica per finalità differenti da quelle per le quali l'esercizio del potere è concesso, e finalizzate, mediante attività di rilevanza giuridica o comportamenti materiali, a procurare un vantaggio patrimoniale per sé o per altri ovvero ad arrecare ad altri un ingiusto danno (Sez. 6, sentenza n. 20094 del 04/05/2011, Rv. 250071, relativa proprio all'indebito utilizzo del fax dell'ufficio per ottenere informazioni all'Aci su autovetture immatricolate a Trieste al fine di favorire la moglie, procacciatrice di affari per conto di un'agenzia di assicurazioni).
Si è, altresì, affermato che "
Integra il delitto di abuso d'ufficio la condotta del pubblico dipendente di indebito uso del bene che non comporti la perdita dello stesso e la conseguente lesione patrimoniale a danno dell'avente diritto" (Sez. 6, n. 14978 del 13/03/2009, Rv. 243311; Sez. 6, 02.04.1992 n. 10896, Bronte, Rv. 192873; Sez. 6, 12.12.2000 n. 381, Genchi, Rv. 219086; Sez. 6, 09.04.2008 n. 31688, Cannalire, Rv. 240692) ed è indubbio, per come accertato dai giudici di merito, che il Ma. abbia reiteratamente utilizzato e per un discreto arco temporale il fax dell'ufficio per ricevere e trasmettere documenti ed atti, consegnatigli dai clienti proprio all'interno dell'ufficio, alla società con la quale collaborava per curare pratiche infortunistiche, destinando l'ufficio a succursale della stessa.
Oggettivo è, quindi, il reiterato indebito utilizzo del fax dell'ufficio, di norma destinato alla ricezione di comunicazioni ed atti urgenti presso il posto di polizia dell'ospedale pubblico, per scopi meramente privati in consapevole violazione dei doveri di lealtà e correttezza imposti ad un pubblico ufficiale: in sostanza, l'imputato ha coscientemente e volontariamente realizzato le condotte contestate, strumentalizzando ed abusando dell'ufficio e dei mezzi a sua disposizione per procurarsi l'ingiusto vantaggio di velocizzare pratiche infortunistiche, favorendo i clienti ai quali evitava il disagio di recarsi presso la sede della società e curando, parallelamente, in orario di lavoro, la propria attività privata.
L'infondatezza del ricorso ne imporrebbe il rigetto, tuttavia, sullo stesso prevale, in assenza di altri elementi suscettibili di determinare un'assoluzione nel merito del ricorrente, l'applicazione della causa sopravvenuta di estinzione del reato ai sensi dell'art. 129, comma 1, cod. proc. pen. in quanto il reato di cui all'art. 323 cod. pen., così riqualificato il fatto, è estinto per prescrizione, essendo maturato il termine massimo di anni sette e mesi sei dalla data di consumazione (da settembre 2007 a giugno 2008) e non risultando rinvii. Conseguentemente, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 30.05.2016 n. 22800).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: LA COMPLESSITÀ DELLE VICENDE GIUDIZIARIE ED AMMINISTRATIVE IN MATERIA EDILIZIA NON ESCLUDE IL DOLO DEL REATO DI ABUSO D’UFFICIO.
In tema di abuso d’ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa, può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell’atto compiuto, non essendo richiesto l’accertamento dell’accordo collusivo con la persona che si intende favorire, in quanto l’intenzionalità del vantaggio ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente quel privato interessato alla singola vicenda amministrativa.
La Corte di cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza qui esaminata, del tema della configurabilità del reato di abuso d’ufficio in materia edilizia.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della questione segue alla sentenza con cui la Corte d’Appello, in riforma della pronuncia emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale, assolveva R.G., F.G., F.A. e C.P. dall’imputazione loro ascritta ai sensi degli artt. 110 e 323 c.p., perché il fatto non costituisce reato, e dichiarava non doversi procedere nei confronti degli stessi quanto alle contravvenzioni loro contestate a norma del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, e del D.Lgs. 05.02.1997, n. 22 (poi, D.Lgs. 22.01.2004, n. 42), perché estinte per intervenuta prescrizione.
Quanto al delitto, parimenti estinto ex artt. 157 e 61 c.p., la Corte riteneva che l’iter amministrativo e giudiziario della vicenda particolarmente complesso e connotato da provvedimenti spesso contrastanti consentisse di escludere il dolo, specie considerando che gli imputati si erano inizialmente muniti di tutte autorizzazioni necessarie, amministrative e sanitarie.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello sostenendo, con riguardo al delitto di concorso in abuso di ufficio, che la Corte d’Appello avrebbe errato nell’escludere l’elemento soggettivo del reato pur a fronte di chiari riscontri di segno opposto; a muover dalla macroscopica illegittimità dei permessi di costruire, che certamente non poteva esser ignorata dagli imputati, oltre che dagli amministratori comunali, giudicati separatamente e condannati (provvedimenti rilasciati, a tacer d’altro, per realizzare un impianto industriale in zona agricola, quel che non era consentito senza mutamento della destinazione d’uso, ed interessanti anche immobili della società già gravati da abusi mai sanati, tanto da esser destinatari di un ordine di demolizione).
E senza che, in senso contrario, potesse condividersi l’affermazione -a fondamento della sentenza- per cui la complessità della vicenda ed il susseguirsi di provvedimenti di segno diverso avrebbe generato negli imputati incertezza ed affidamento incolpevole; quel che si doveva escludere -come più volte affermato anche dalla S.C.- alla luce della rilevantissima e manifesta illegittimità dell’intera procedura seguita.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha accolto il ricorso, in particolare osservando come, nel caso di specie, emergessero elementi tali da evidenziare un contesto di macroscopica illegittimità in ordine ai permessi di costruire.
Questi provvedimenti, infatti, erano stati pacificamente richiesti -e rilasciati- per realizzare un impianto industriale 1) in zona agricola, in contrasto con il programma di fabbricazione; 2) in assenza del nulla osta dell’autorità preposta al vincolo idrogeologico; 3) in assenza del parere dell’ASL competente; 4) in area sulla quale insistevano altri immobili, di proprietà della società, già oggetto di abusi mai condonati, e sui quali pendeva un ordine di demolizione emanato dalla stessa amministrazione comunale (quel che avrebbe imposto, prima di una nuova edificazione, l’abbattimento degli abusi).
E con la precisazione che la medesima persona fisica -il coimputato P.- aveva sottoscritto sia questo ordine di abbattimento, sia il permesso di costruire; 5) in violazione della procedura di cui al D.Lgs. 05.02.1997, n. 22, art. 27, avendo intrapreso quella semplificata di cui agli artt. 31 ss., stesso decreto, pur difettandone con evidenza i presupposti.
E con l’ulteriore precisazione per cui il secondo dei provvedimenti era stato richiesto ed emesso - peraltro non già in sanatoria, ma in variante - circa sei mesi dopo la dichiarazione di ultimazione dei lavori, come se le opere fossero state ancora in corso.
Tutti elementi che la sentenza non aveva inteso valutare in alcun modo, assumendo, in modo palesemente apodittico ed immotivato, che i ravvisati profili di illegittimità non fossero, invero, così palesi (v., in giurisprudenza, in senso conforme alla massima: Cass. pen., Sez. VI, 15.04.2014, n. 36179, D., in CED, n. 260233; Cass. pen., Sez. III, 07.11.2013, n. 48475, S., in CED, n. 258290) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.04.2016 n. 17430 - Urbanistica e appalti 10/2016).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Abuso edilizio e dolo.
Premesso che il dolo caratterizzante il reato di abuso di ufficio è quello "intenzionale", va rammentato che la prova dello stesso deve essere ricavata da elementi ulteriori rispetto al comportamento "non iure" osservato dall'agente, che evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del comportamento dell'agente, giacché la condotta illecita deve essere posta in essere al preciso scopo di perseguire, in via immediata, un danno ingiusto ad altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto per sé o per altri.
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2. Con un secondo motivo lamenta l'illogicità della motivazione della sentenza con riferimento all'eccepita mancanza del dolo intenzionale; segnatamente la sentenza non ha fatto sul punto alcun riferimento a quanto sollevato con l'atto di appello.
Aggiunge come da un lato la attività del tecnico comunale al momento dell'approvazione del progetto sia meramente cartolare e dall'altro la sentenza abbia trascurato di considerare le conclusioni della sentenza del Tar che ha ritenuto assente ogni violazione della normativa urbanistica da parte dell'imputato. Non è stata raggiunta alcuna prova circa le pretese scorrette modalità delle verifiche condotte dall'imputato.
Anche l'affermazione dei benefici economici ricavati dall'impresa edilizia destinataria del provvedimento sarebbe erronea posto che anzi è stata applicata la sanzione prevista dall'art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001.
...
5. E' invece fondato il secondo motivo:
premesso che il dolo caratterizzante il reato di abuso di ufficio è quello "intenzionale", va rammentato che la prova dello stesso deve essere ricavata da elementi ulteriori rispetto al comportamento "non iure" osservato dall'agente, che evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del comportamento dell'agente (Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo, Rv. 264280), giacché la condotta illecita deve essere posta in essere al preciso scopo di perseguire, in via immediata, un danno ingiusto ad altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto per sé o per altri (Sez. 3, n. 10810 del 17/01/2014, Altieri ed altri, Rv. 258893).
La sentenza si è sul punto limitata a richiamare la "tutt'altro che trascurabile entità delle violazioni commesse" e "i rilevanti benefici economici procurati all'impresa edilizia", tra i quali quelli relativi agli oneri di urbanizzazione, senza chiarire perché tali aspetti, lungi dall'essere compatibili con un dolo anche solo generico, dovrebbero essere univocamente indicativi dello scopo di favorire l'impresa costruttrice, sui cui eventuali legami o rapporti con l'imputato nulla è dato sapere.
La sentenza andrebbe dunque annullata con rinvio per nuova motivazione sul punto; sennonché la prescrizione del reato, nelle more intervenuta per decorso del termine scaduto in data 13/09/2014 (anche a volere, come contestato dal ricorrente, considerare la data di consumazione del 13/03/2007 indicata in imputazione) osta all'annullamento posto che il conseguente rinvio all'esame del giudice di merito è incompatibile con l'obbligo di immediata declaratoria di proscioglimento stabilito dall'art. 129 c.p.p. (da ultimo, Sez. 3, n. 23260 del 29/04/2015, Gori, Rv. 263668); sicché la sentenza impugnata deve essere, da un lato, annullata senza rinvio per essere il reato (unico residuato già all'esito del giudizio di primo grado) estinto appunto per prescrizione e, dall'altro, quanto alle statuizioni civili adottate (nella specie la condanna dell'imputato, confermata in appello, al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile), annullata con rinvio ai fini civili al giudice civile competente per valore in grado d'appello (da ultimo, Sez. 5, n. 594 del 16/11/2011, Perrone, Rv. 252665; Sez. 5, n. 15015 del 23/02/2012, P.G. e p.c. in proc. Genovese, Rv. 252487) (tratto da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.04.2016 n. 15895).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Abuso d’ufficio l’ingaggio illegittimo. Cassazione. Reato per il dirigente comunale che proroga la convenzione senza il via libera degli organi competenti.
Abuso d’ufficio per il dirigente del Comune che proroga la convenzione con un centro, senza il via libera degli organi competenti. Il reato scatta anche in virtù dell’ingiusto vantaggio procurato a cinque persone ingaggiate per l’occasione al di fuori di ogni criterio di trasparenza e per due contratti di collaborazione prorogati.
La Corte di Cassazione (Sez. VI penale, sentenza 04.04.2016 n. 13426) esclude che l’abuso si possa giustificare, come nel caso esaminato, con l’intento di non perdere dei fondi europei. Il ricorrente, infatti, aveva motivato la proroga della convenzione con la finalità di assicurare il completamento di un progetto affidato al centro in modo da garantirsi un finanziamento Ue.
In realtà per la Cassazione il comportamento del dirigente è intenzionalmente doloso e nell’abuso d’ufficio il dolo essere desunto anche da elementi che sono la spia della macroscopica illegittimità dell’atto compiuto. Mentre non serve la prova dell’accordo collusivo con la persona che si intende favorire: l’intenzionalità del vantaggio può prescindere dalla volontà di “aiutare” specificamente quel privato interessato alla singola vicenda.
Nel concreto c’era stato il conferimento di cinque nuovi contratti, non richiesti neppure dal centro interessato, a persone scelte discrezionalmente e pagate con denaro pubblico. Al progetto europeo aveva, infatti, aderito solo la Regione molto tempo dopo le determinazioni illegittime del dirigente, ma mai il Comune. Inoltre si trattava di un progetto pagato in gran parte dall’ente che intendeva “sottoscriverlo”.
Il ricorrente aveva comunque firmato le proroghe in violazione delle regole sul riparto delle attribuzione (Dlgs 267/2000) che riserva agli organi di indirizzo del Comune le scelte fondamentali. A questo si era unito l’ingiusto vantaggio conseguito da sette persone
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.04.2016).
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MASSIMA
1. Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito precisate.
2. Le censure, per quanto formalmente raggruppate sotto un unico motivo, in realtà si riferiscono sia al profilo oggettivo sia al profilo soggettivo del reato di abuso di ufficio.
3. Per quanto attiene al profilo oggettivo, le doglianze insistono sul fatto che illogicamente la sentenza impugnata non avrebbe considerato la natura degli atti adottati dal ricorrente, qualificabili come di mera proroga di provvedimenti preesistenti.
3.1. La sentenza impugnata rappresenta innanzitutto che le due determine dirigenziali del LU. (la n. 21-bis del 30.06.2004 e la n. 29 del 29.09.2004):
   a) comportarono un sensibile incremento di organico del soggetto destinatario dei provvedimenti, il Centro Risorse Donne, che passò da tre a sette unità, in assenza di qualunque previsione contenuta in atti degli organi comunali, e persino di specifiche richieste della responsabile del Centro, la quale si limitò a richiedere l'assunzione di un operatore esperto in lingua inglese;
   b) facevano riferimento non più al progetto europeo RECITE II-E.N.R.E.C., cui il Comune di Taranto aveva formalmente aderito con delibera del Commissario Straordinario del 13.12.1999, e che era definitivamente cessato alla data del 30.06.2004, bensì al progetto europeo Interreg III CASDES-WEFnet, cui, però, la Regione Puglia, quale "soggetto referente", aderirà solo successivamente alla determine, in data 28.10.2004, che non risulta mai oggetto di formale delibera di adesione da parte del Comune di Taranto, e che addossava una quota consistente del costo complessivo al singolo ente aderente;
   c) non contenevano alcuna indicazione dei fondi necessari ad assicurare la copertura del progetto, limitandosi a richiamare «entrate terze», esterne al bilancio, senza precisare quali fossero.
Rileva, poi, che le violazioni delle regole procedurali sul riparto di attribuzioni tra gli organi del Comune, indicate dal capo di imputazione negli art. 42, 48, 107, 169, 175, 183 e 191 d.lgs. n. 267 del 2000, e che riservano agli organi di indirizzo le scelte fondamentali, non hanno avuto, nel caso di specie, valenza meramente endoprocedimentale, ma si sono poste «in evidente e diretto rapporto causale con l'ingiusto vantaggio arrecato ai beneficiari delle determine medesime e con il correlativo danno che ne è scaturito a carico del Comune».
Osserva, quindi, che «all'ingiustizia delle determine adottate dall'imputato, e tra loro strettamente correlate [...] si somma l'ingiustizia della percezione degli emolumenti da parte dei soggetti indicati nel capo d'accusa [i cinque neoingaggiati ed i due prorogati]».
3.2. Questi essendo i presupposti di fatto, la cui ricostruzione non è oggetto di puntuali contestazioni nel ricorso, corretta risulta essere la conclusione raggiunta.
Il delitto di abuso di ufficio, infatti, postula l'avvenuta violazione di una norma di legge o di regolamento e l'ingiustizia del danno o del vantaggio procurato a sé o ad altri, ma non una duplicità di violazioni di legge. Come osserva un significativo orientamento giurisprudenziale, l'integrazione del reato di abuso d'ufficio, se richiede una duplice distinta valutazione di ingiustizia, sia della condotta (che deve essere connotata da violazione di norme di legge o di regolamento), sia dell'evento di vantaggio patrimoniale (che deve risultare non spettante in base al diritto oggettivo), non presuppone, però, che l'ingiustizia del vantaggio patrimoniale derivi da una violazione di norme diversa ed autonoma da quella che ha caratterizzato l'illegittimità della condotta, qualora -all'esito della predetta distinta valutazione- l'accrescimento della sfera patrimoniale del privato debba considerarsi contra ius (così Sez. 6, n. 48913 del 04/11/2015, Ricci, Rv. 265473, nonché Sez. 6, n. 11394 del 29/01/2015, Strassoldo, Rv. 262793).
Nella specie, la sentenza impugnata ha individuato le norme violate nelle disposizioni di legge del testo unico sugli enti locali in tema di ripartizioni di competenze tra gli organi comunali, l'ingiustizia del vantaggio nel conferimento ex novo o nella proroga di incarichi di collaborazione retribuita in difetto di ogni potere in materia e sulla base di criteri di selezione dei beneficiati assolutamente arbitraria, l'ingiustizia del danno nell'assunzione di una spesa a carico del Comune in assenza di qualunque deliberazione degli organi competenti.
Deve perciò escludersi che, con riferimento al profilo dell'elemento obiettivo del reato di abuso di ufficio, la decisione della Corte di appello sia censurabile per violazione di legge o vizio di motivazione.
4. Con riferimento al profilo soggettivo, le censure deducono che la sentenza impugnata è sostanzialmente priva di motivazione o fondata su «mere ed apodittiche supposizioni», pur essendo necessaria per legge la certezza che la volontà dell'imputato sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto, che la prova del dolo non può essere desunta dalla sola illegittimità degli atti adottati dall'imputato, e che, in realtà, le determine adottate dal LU. avevano la finalità pubblicistica di portare a compimento il lavoro del Centro Risorse Donne per garantirsi gli importi del finanziamento europeo.
4.1. Occorre premettere in proposito che, secondo un orientamento giurisprudenziale condiviso dal Collegio,
la prova del dolo intenzionale, necessaria per l'integrazione della fattispecie di abuso di ufficio, può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto, non essendo richiesto l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, in quanto l'intenzionalità del vantaggio ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente quel privato interessato alla singola vicenda amministrativa (cfr., tra le più recenti: Sez. 6, n. 14038 del 02/10/2014, dep. 2015, De Felicis, Rv. 262950, non specificamente massimata sul punto; Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, Dragotta, Rv. 260233; Sez. 3, n. 48475 del 07/11/2013, Scaramazza, Rv. 258290).
4.2. Nella vicenda in esame, pur mancando la prova di un accordo collusivo tra soggetti beneficiati e pubblico ufficiale, la pluralità di violazioni di regole giuridiche e, in particolare, il conferimento di ben cinque contratti di collaborazione retribuita con l'impiego di denaro pubblico a persone scelte al di fuori di ogni criterio di leggibilità e di competenza professionale (persino la responsabile del Ce.Ri.Do. si era limitata a chiedere esclusivamente l'assunzione di un operatore esperto in lingua inglese) rendono immune da vizi la valutazione della sentenza impugnata che ha ritenuto sussistente il dolo intenzionale richiesto dalla fattispecie incriminatrice.
Tale rilievo, anzi, esclude la plausibilità della prospettazione difensiva, peraltro allegata in termini generici, secondo cui il LU. avrebbe agito nel modo accertato al solo fine di realizzare l'interesse pubblico di portare a compimento il lavoro del Ce.Ri.Do. per garantirsi gli importi del finanziamento europeo. Invero, la finalità di assicurare il completamento del progetto affidato al Ce.Ri.Do. non può comunque spiegare la stipulazione di cinque contratti di collaborazione con persone scelte al di fuori di ogni criterio obiettivamente verificabile.

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGOIn termini generali ed astratti il reato di abuso di ufficio tentato sussiste ogni volta che il pubblico ufficiale (o l'incaricato di pubblico servizio) ponga in essere, in violazione di legge o di regolamento o del dovere di astensione, atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionare ad altri un danno ingiusto o beneficiare altri di un vantaggio patrimoniale ingiusto che non si realizzano per cause estranee alla volontà dell'autore della condotta.
Non v'è dubbio, pertanto, che integra il reato (anche nella forma tentata se l'evento non si realizza) consentire a un privato di smaltire rifiuti con modalità vietate dalla legge che gli consentono di lucrare sui relativi risparmi.

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Quando, però, il pubblico ufficiale non sia l'autore del provvedimento che attribuisce direttamente al beneficiario l'ingiusto vantaggio (o l'ingiusto danno) la sua condotta può essere valutata, anche ai fini del tentativo, solo sotto il profilo del concorso nel reato che può assumere la forma del concorso materiale (se egli confeziona o predispone materialmente la minuta del provvedimento ovvero il provvedimento stesso poi sottoposto alla firma del pubblico ufficiale competente ad emetterlo) o di quello morale, poiché il pubblico ufficiale concorre in tal modo a manifestare la volontà della pubblica amministrazione mediante l'adozione degli atti del procedimento prodromici alla emissione del provvedimento finale.
In quest'ultimo caso, però, non è sufficiente che il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio adotti un atto del procedimento finalizzato ad orientare la decisione finale nella segreta speranza del successo della propria iniziativa; é necessario che il proposito criminoso sussista anche nel pubblico ufficiale autore principale. 
Ove il pubblico ufficiale competente a emettere il provvedimento finale non sia già animato da alcun intento criminoso, il parere o la proposta di adozione del provvedimento stesso, ove non accolta, dovrà essere valutata alla stregua di un'istigazione non accolta. In mancanza di prova dell'accordo collusivo la proposta di adozione del provvedimento illegittimo resta tale, non integra il tentativo punibile di abuso d'ufficio ed é penalmente irrilevante.

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3.4. E' invece fondata l'eccezione relativa alla non configurabilità, nel caso in esame, del tentativo di delitto di abuso d'ufficio.
3.5. In termini generali ed astratti il reato di abuso di ufficio tentato sussiste ogni volta che il pubblico ufficiale (o l'incaricato di pubblico servizio) ponga in essere, in violazione di legge o di regolamento o del dovere di astensione, atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionare ad altri un danno ingiusto o beneficiare altri di un vantaggio patrimoniale ingiusto che non si realizzano per cause estranee alla volontà dell'autore della condotta (cfr. sul punto Sez. 6, n. 10136 del 24/06/1998, Ottaviano, Rv. 211567; Sez. 6, n. 26617 del 01/04/2009, Masella, Rv. 244465).
3.6. Non v'è dubbio, pertanto, che integra il reato (anche nella forma tentata se l'evento non si realizza) consentire a un privato di smaltire rifiuti con modalità vietate dalla legge che gli consentono di lucrare sui relativi risparmi.
3.7. L'ordinanza, peraltro, dà ampiamente conto dei rapporti personali che intercorrevano tra il pubblico ufficiale ed il privato (rapporti che il ricorrente nemmeno menziona, quantomeno per confutarli) per cui non è affatto irragionevole desumerne l'intenzionale asservimento del pubblico ufficio agli interessi privati del beneficiario della condotta.
3.8. Quando, però, il pubblico ufficiale non sia l'autore del provvedimento che attribuisce direttamente al beneficiario l'ingiusto vantaggio (o l'ingiusto danno) la sua condotta può essere valutata, anche ai fini del tentativo, solo sotto il profilo del concorso nel reato che può assumere la forma del concorso materiale (se egli confeziona o predispone materialmente la minuta del provvedimento ovvero il provvedimento stesso poi sottoposto alla firma del pubblico ufficiale competente ad emetterlo) o di quello morale, poiché il pubblico ufficiale concorre in tal modo a manifestare la volontà della pubblica amministrazione mediante l'adozione degli atti del procedimento prodromici alla emissione del provvedimento finale.
3.9. In quest'ultimo caso, però, non è sufficiente che il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio adotti un atto del procedimento finalizzato ad orientare la decisione finale nella segreta speranza del successo della propria iniziativa; é necessario che il proposito criminoso sussista anche nel pubblico ufficiale autore principale (Sez. 6, n. 36125 del 13/05/2014, Minardo, Rv. 260235; Sez. 6, n. 15116 del 25/02/2003, Gueli, Rv. 224690). 
Ove il pubblico ufficiale competente a emettere il provvedimento finale non sia già animato da alcun intento criminoso, il parere o la proposta di adozione del provvedimento stesso, ove non accolta, dovrà essere valutata alla stregua di un'istigazione non accolta. In mancanza di prova dell'accordo collusivo la proposta di adozione del provvedimento illegittimo resta tale, non integra il tentativo punibile di abuso d'ufficio ed é penalmente irrilevante.
3.10. Sono invece infondate le censure relative alla insussistenza del reato di cui all'articolo 351, cod. pen..
Non ha a tal fine alcun rilievo la circostanza (peraltro di natura fattuale) che la documentazione fosse stata consegnata al proprio difensore, sia perché si tratta di persona comunque estranea alla pubblica amministrazione, sia perché -ove con tale deduzione si voglia sottintendere la liceità del fine- il reato é punito a titolo di dolo generico.
Nemmeno rileva la circostanza (anche essa fattuale) che tutti fossero a conoscenza della "sottrazione" della documentazione perché ciò non esclude l'offensività della condotta integrata ogniqualvolta il bene sia sottratto per un periodo di tempo apprezzabile dal luogo in cui è custodita (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.03.2016 n. 9458).

PUBBLICO IMPIEGO: È abuso d’ufficio l’azione disciplinare fatta per ritorsione. Abuso d’ufficio per i direttori dell’azienda pubblica che esercitano l’azione disciplinare per ritorsione.
Licenziamenti e Pa. I limiti ai poteri dei vertici.
La Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 18.02.2016 n. 6665, accoglie il ricorso del Pubblico ministero contro la decisione del Gip di dichiarare il non luogo a procedere nei confronti del direttore generale e di quello dell’area tecnica dell’Azienda territoriale per l’edilizia pubblica. L’accusa era di aver “preso di mira” un ingegnere, bersagliandola con rilievi e sanzioni disciplinari, arrivando poi alla soluzione finale del licenziamento, sulla base di presupposti inesistenti.
Secondo il Gip l’abuso d’ufficio non poteva essere contestato perché i rapporti di lavoro con l’Agenzia territoriale sono regolati dal codice civile e dunque la contestata distorta o mancata applicazione delle norme che li disciplinano, non può essere considera una violazioni di legge o di regolamento idonea a far scattare il reato di abuso d’ufficio. Inoltre, per quanto riguardava il licenziamento senza preavviso, disposto come massima sanzione disciplinare, questo poteva essere attribuito al direttore generale, il solo che aveva messo la sua firma sul foglio di “espulsione”, mentre nessuna responsabilità andava addebitata al direttore di area, solo in virtù del suo potere di iniziativa nell’applicazione delle sanzioni.
La Cassazione accoglie il ricorso del Pm.
La Suprema corte chiarisce che la condotta contestata di abuso d’ufficio, contrariamente a quanto rilevato dal Gip, non riguarda la violazione delle norme che disciplinano il rapporto di lavoro nell’ente pubblico, indubbiamente, di tipo privato, ma l’esercizio distorto della “funzione” disciplinare da parte di un pubblico ufficiale o dell’esercente un pubblico servizio. Un potere che certo rientra nell’area di gestione dei rapporti di lavoro sottoposto ai contratti collettivi e si esprime attraverso atti negoziali e non con provvedimenti amministrativi, ma che va comunque esercitato nel rispetto della legge, con eventuali integrazioni della contrattazione collettiva.
I giudici precisano che è suscettibile di integrare l’abuso d’ufficio (articolo 323 del Codice penale) la violazione delle disposizioni di legge fissate in materia di procedimento disciplinare, quando il potere non è “figlio” dell’interesse pubblico, ma viene usato per motivi pretestuosi sorretti da un intento ritorsivo.
E il Gip sbaglia anche quando proscioglie il direttore di area. Nel concorso di reato il contributo acquista rilevanza non solo quando ha efficacia causale e si pone come condizione dell’evento illecito ma anche quando agevola o rafforza un proposito criminoso già esistente.
Almeno in linea ipotetica, conclude la corte, il giudice per le indagini preliminari non poteva escludere che il l’imputata, a prescindere dalla mancata firma, possa comunque aver assicurato il suo contributo, morale e materiale, al prodursi dell’evento. Questo senza arrivare ad ipotizzare una responsabilità oggettiva in virtù della posizione apicale ricoperta. La Cassazione annulla la sentenza del Gip e rinvia per una nuova valutazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.02.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).
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MASSIMA
4. Con riguardo alle contestazioni di abuso d'ufficio, va invero rilevato che -contrariamente a quanto deciso dal Giudice laziale-
nel caso sub iudice, la condotta di abuso d'ufficio non riguarda la contestata violazione di norme a disciplina del rapporto di lavoro in seno all'ente pubblico, rapporto avente indubitabilmente natura privatistica, bensì l'esercizio da parte del pubblico ufficiale o dell'esercente il pubblico servizio del potere attribuito all'ufficio di appartenenza in una materia, quale quella disciplinare, che è e resta disciplinata dalla legge.
4.1. Ed invero,
il potere disciplinare nel pubblico impiego, pur rientrando nell'area della gestione dei rapporti di lavoro sottoposto a contratto collettivo di matrice privatistica e si esprima mediante atti negoziali, e non con provvedimenti amministrativi, deve essere esercitato nei limiti disegnati dalla legge ed eventualmente integrati dalla contrattazione collettiva.
Giova rammentare che
la disciplina legale in materia è delineata da plurime fonti normativa, segnatamente dall'art. 2106 cod. civ., dall'art. 7 L. 20.05.1970, n. 300 (c.d. Statuto dei lavoratori) e dagli artt. da 54 a 55-octies del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, come modificati con D.Lgs. 27.10.2009, n. 150.
In particolare, l'art. 40 del citato decreto stabilisce, al comma 1 che "La contrattazione collettiva determina i diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto di lavoro, nonché le materie relative alle relazioni sindacali. (...) Nelle materie relative alle sanzioni disciplinari, alla valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio, della mobilità e delle progressioni economiche, la contrattazione collettiva è consentita negli esclusivi limiti previsti dalle norme di legge".
All'art. 55, commi 1 e 2, stesso decreto viene espressamente sancito: "1. Le disposizioni del presente articolo e di quelli seguenti, fino all'articolo 55-octies, costituiscono norme imperative, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile, e si applicano ai rapporti di lavoro di cui all'articolo 2, comma 2, alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2.
2. Ferma la disciplina in materia di responsabilità civile, amministrativa, penale e contabile, ai rapporti di lavoro di cui al comma 1 si applica l'articolo 2106 del codice civile. Salvo quanto previsto dalle disposizioni del presente Capo, la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è definita dai contratti collettivi. La pubblicazione sul sito istituzionale dell'amministrazione del codice disciplinare, recante l'indicazione delle predette infrazioni e relative sanzioni, equivale a tutti gli effetti alla sua affissione all'ingresso della sede di lavor
o".
L'art. 55-bis (come novellato nel 2009) disciplina le forme e termini del procedimento disciplinare. Infine, l'art. 54-bis stesso decreto del 2001 prevede una specifica tutela del dipendente pubblico che segnali condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, prevedendo che questi non possa essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia.
4.2. Orbene, dal quadro normativo sopra delineato discende che
è certamente suscettibile di integrare la violazione di legge rilevante ai fini dell'art. 323 cod. pen. l'inosservanza alle disposizioni fissate in materia di procedimento disciplinare dalla legge (appunto dall'art. 2106 cod. civ. e dal D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 come modificato con D.Lgs. 27.10.2009, n. 150), allorché il potere disciplinare sia esercitato -almeno secondo l'ipotesi accusatoria da sottoporre al vaglio giurisdizionale- non in funzione dell'interesse pubblico, ma da motivi pretestuosi e sorretti da un intento ritorsivo.
Per altro verso,
si deve ribadire che, anche dopo la privatizzazione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, non è mutata la natura pubblicistica della funzione svolta e dei poteri esercitati dai dirigenti amministrativi e, con essa, la qualifica di pubblico ufficiale rilevante ai fini dell'art. 357 cod. pen. (Sez. 6, n. 19135 del 02/04/2009 - dep. 07/05/2009, Palascino, Rv. 243535).
5. E' fondato anche il secondo profilo di doglianza concernente il disposto proscioglimento di Va.Fr. in relazione al delitto di abuso d'ufficio sub capo M).
5.1. Per un verso, va evidenziato come, secondo i principi di diritto già sopra ricordati sub punto 2), in presenza di una situazione nella quale il quadro probatorio si prestava ad una molteplicità ed alternatività di soluzioni valutative in merito al coinvolgimento diretto della Fr. nel licenziamento disciplinare, il Giudice si sarebbe dovuto limitare a verificare la possibilità di superare tale situazione attraverso le verifiche e gli approfondimenti propri della fase del giudizio, senza compiere valutazioni di tipo sostanziale spettanti al giudice dibattimentale.
Operando in tale senso ed, in particolare, entrando nel merito del contributo prestato dalla Fr. ai fini della adozione del provvedimento di licenziamento nei confronti della Br., il Giudice di Viterbo si è illegittimamente spinto oltre i limiti previsti per la sentenza ex art. 425 c.p.p..
5.2. Per altro verso, il Giudice ha comunque errato là dove ha escluso il concorso della Fr. nella condotta di abuso sub capo M) sulla scorta della considerazione che l'imputata, non avendo apposto la propria firma in calce al provvedimento di licenziamento disciplinare non potrebbe rispondere della condotta a mero titolo di responsabilità oggettiva, tenuto conto della sua posizione e della conseguente titolarità del potere d'iniziativa per l'applicazione delle sanzioni disciplinari.
Ed invero,
secondo i principi generali in tema di concorso di persone nel reato cristallizzati nell'art. 110 cod. pen., il contributo concorsuale acquista rilevanza non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi come condizione dell'evento illecito, ma anche quando assuma la forma di un contributo agevolatore e di rafforzamento del proposito criminoso già esistente nei concorrenti, in modo da aumentare la possibilità di commissione del reato (fattispecie in tema di abuso di ufficio) (Sez. 6, n. 36125 del 13/05/2014 - dep. 25/08/2014, Minardo e altro, Rv. 260235).
Ne discende che,
almeno in linea ipotetica, non può essere escluso che l'imputata, a prescindere dalla mancata apposizione della firma sotto il provvedimento di licenziamento e senza dover ipotizzare una responsabilità oggettiva discendente dalla posizione apicale ricoperta in seno all'ufficio, possa comunque avere assicurato il proprio contributo, morale o materiale, anche di natura meramente agevolatrice, al prodursi dell'evento.

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nel reato di abuso di ufficio, l’uso dell’avverbio “intenzionalmente” per qualificare il dolo implica che sussiste il reato solo quando l’agente si rappresenta e vuole l’evento di danno altrui o di vantaggio patrimoniale proprio o altrui come conseguenza diretta ed immediata della sua condotta e come obiettivo primario perseguito, e non invece quando egli intende perseguire l’interesse pubblico come obiettivo primario.
In tema di abuso d’ufficio, per la configurabilità dell’elemento soggettivo è richiesto il dolo intenzionale, ossia la rappresentazione e la volizione dell’evento come conseguenza diretta e immediata della condotta dell’agente e obiettivo primario da costui perseguito.

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3. Sotto un primo profilo, deve essere rilevato come, secondo il consolidato insegnamento di questa Corte,
ai fini del perfezionamento del reato di abuso d'ufficio non assume alcun rilievo, stante la sua natura di reato di evento, l'adozione di atti amministrativi illegittimi da parte del pubblico ufficiale agente, ma unicamente il concreto verificarsi (reale o potenziale) di un ingiusto vantaggio patrimoniale che il soggetto attivo procura con i suoi atti a sé stesso o ad altri, ovvero di un ingiusto danno che quei medesimi atti procurano a terzi (Sez. 6, n. 36020 del 24/05/2011, Rossattini, Rv. 250776).
Ne discende che
il delitto di abuso d'ufficio è integrato dalla doppia e autonoma ingiustizia, sia della condotta che deve essere connotata da violazione di norme di legge o di regolamento, che dell'evento di vantaggio patrimoniale in quanto non spettante in base al diritto oggettivo, con la conseguente necessità di una duplice distinta valutazione in proposito, non potendosi far discendere l'ingiustizia del vantaggio dalla illegittimità del mezzo utilizzato e, quindi, dall'accertata illegittimità della condotta (fattispecie in cui la Corte ha annullato la sentenza impugnata che, in relazione alla condotta di un assessore comunale, consistita nell'assegnazione di un immobile di proprietà dell'ente per lo svolgimento di attività di ristorazione con delibera di giunta adottata senza il previo espletamento di procedure ad evidenza pubblica, aveva ritenuto integrato il reato omettendo di verificare se il soggetto assegnatario avesse o meno titolo a conseguire la disponibilità dell'immobile per condurre l'attività di ristorazione) (Sez. 6, n. 10133 del 17/02/2015 - dep. 10/03/2015, Scassellati e altro, Rv. 262800; Sez. 6, n. 1733 del 14/12/2012 - dep. 14/01/2013, Amato, Rv. 254208).
Secondo il principio della c.d. doppia ingiustizia, è, quindi, necessario che ingiusta sia la condotta, in quanto connotata da violazione di legge, ed ingiusto sia l'evento di vantaggio patrimoniale, in quanto non spettante in base al diritto oggettivo regolante la materia, di tal che occorre operare una duplice distinta valutazione in proposito, non potendosi far discendere l'ingiustizia del vantaggio conseguito dalla illegittimità del mezzo utilizzato e quindi dalla accertata esistenza dell'illegittimità della condotta (Sez. 6, n. 35381 del 27/06/2006 Rv. 234832 Moro).
La violazione di legge cui fa riferimento l'art. 323 cod. pen. riguarda non solo la condotta del pubblico ufficiale in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche le condotte che siano dirette alla realizzazione di un interesse collidente con quello per quale il potere è conferito, ponendo in essere un vero e proprio sviamento della funzione (Sez. 6, n. 43789 del 18/10/2012, Contiguglia ed altri, Rv. 254124) rispetto alla quale si configura l'elemento soggettivo del dolo intenzionale, ossia la rappresentazione e la volizione dell'evento come conseguenza diretta e immediata della condotta dell'agente e obiettivo primario da costui perseguito (Sez. 6, n. 35859 del 07/05/2008, Pro, Rv. 241210; Sez. 5, n. 3039 del 03/12/2010, Marotta e altri, Rv. 249706).
Tirando le fila dei principi di diritto sopra rammentati,
la prova della integrazione del reato ex art. 323 c.p. non può esaurirsi nella verifica della violazione di legge, dunque dell'ingiustizia del mezzo adottato, stabilendo una erronea equivalenza fra lo strumento utilizzato ed il risultato-evento che l'incriminazione richiede per la sua consumazione, ma richiede altresì l'accertamento dell'evento di vantaggio ingiusto.
4. A tale insegnamento non si è conformato il Collegio torinese, là dove -contravvenendo ai principi appena ricordati- si è limitato ad argomentare in merito alla violazione del disposto dell'art. 122, comma 7, D.Lgs n. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici) [che facoltizza le stazioni appaltanti (nella specie il comune) ad utilizzare la procedura negoziata, con selezione dell'appaltatore operata mediante gara informale anziché con bando di gara, per l'assegnazione di lavori di importo complessivo inferiore a un milione di euro senza previo invito a presentare le offerte rivolto a dieci o cinque operatori economici (a secondo del valore dei lavori)] ed ha, di contro, omesso di verificare se la società assegnataria della convenzione avesse titolo per la gestione della bocciofila, id est sia configurabile un vantaggio ingiusto.
Verifica tanto necessaria nel caso di specie nel quale -come dichiarato dallo stesso imputato all'A.G. e dato atto dalla Corte distrettuale- già in passato l'amministrazione comunale aveva seguito un'analoga procedura in considerazione del fatto che, in paese, "vi è una associazione sola che si occupa del gioco delle bocce".
5. La decisione in verifica si appalesa lacunosa anche sotto il diverso profilo del dolo.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte,
nel reato di abuso di ufficio, l'uso dell'avverbio "intenzionalmente" per qualificare il dolo implica che sussiste il reato solo quando l'agente si rappresenta e vuole l'evento di danno altrui o di vantaggio patrimoniale proprio o altrui come conseguenza diretta ed immediata della sua condotta e  come obiettivo primario perseguito, e non invece quando egli intende perseguire l'interesse pubblico come obiettivo primario (fattispecie relativa ad un sindaco che aveva rilasciato un'autorizzazione edilizia in violazione della normativa urbanistica sul risanamento del centro storico, allo scopo esclusivo di favorire il recupero di abitanti nella zona del borgo antico che si stava progressivamente spopolando con rischio di un definitivo abbandono) (Sez. 6, n. 708 del 08/10/2003 - dep. 15/01/2004, Mannello, Rv. 227280).
In tema di abuso d'ufficio, per la configurabilità dell'elemento soggettivo è richiesto il dolo intenzionale, ossia la rappresentazione e la volizione dell'evento come conseguenza diretta e immediata della condotta dell'agente e obiettivo primario da costui perseguito (Sez. 5, n. 3039 del 03/12/2010 - dep. 27/01/2011, Marotta Rv. 249706).
Di tali principi di legittimità non ha fatto buon governo la Corte di merito,  nella parte in cui, nel confermare il giudizio di colpevolezza in merito al reato di cui al capo 1), ha omesso di esplicitare le ragioni sulla scorta delle quali sia possibile ritenere integrata una prova certa secondo il canone dell'"al di là di ogni ragionevole dubbio" codificato all'art. 533 cod. proc. pen., che la volontà dell'imputato fosse orientata proprio a procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale alla società "Jo.Cl.", e non piuttosto a perseguire in via esclusiva gli interessi della cittadinanza del piccolo comune di Buronzo a che il bocciodromo potesse continuare a rimanere aperto al pubblico (massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 14.01.2016 n. 1332).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Illegittimo rilascio della concessione edilizia e reato di abuso d'ufficio.
In tema di abuso d'ufficio, a seguito della trasformazione da reato di pura condotta a dolo specifico in reato di evento, avvenuta con la legge n. 1234 del 1997, il dolo richiesto è generico con riferimento alla condotta (coscienza e volontà di violare norme di legge o di regolamento ovvero di non osservare l'obbligo di astensione), mentre assume la forma del dolo intenzionale rispetto all'evento (vantaggio o danno) che completa la fattispecie.
A tal ultimo riguardo,
la prova dell'intenzionalità del dolo esige il raggiungimento della certezza che la volontà dell'imputato sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusti.
Tale certezza non può provenire esclusivamente dal comportamento non iure tenuto dall'agente, ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, che evidenzino l'effettiva ratio ispiratrice del comportamento, quali la specifica competenza professionale dell'agente, l'apparato motivazionale su cui riposa il provvedimento, il contesto e il tenore dei rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i soggetti che dal provvedimento ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno.
Non va del resto dimenticato, per cogliere l'importanza dell'accertamento sull'elemento soggettivo, che, nel reato di abuso d'ufficio, si richiede appunto il "dolo intenzionale", nel senso che l'agente deve aver agito proprio per perseguire uno degli eventi tipici della fattispecie incriminatrice, ossia [per quanto qui potrebbe interessare] l'ingiusto profitto patrimoniale, per sé o per altri, ovvero l'altrui danno ingiusto.
In altri termini,
non sarebbe sufficiente che il soggetto attivo abbia agito con "dolo diretto", cioè rappresentandosi l'evento come verificabile con elevato grado di probabilità, né con "dolo eventuale", cioè accettando il rischio del suo verificarsi: è necessario che l'evento di danno o quello di vantaggio sia voluto e realizzato come obiettivo immediato e diretto della condotta, e non risulti semplicemente realizzato come risultato accessorio di questa.
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Tanto premesso, va detto che la motivazione impugnata non appare del tutto congrua in ordine alla valutazione dell'elemento soggettivo del reato di abuso d'ufficio.
Come è noto,
in tema di abuso d'ufficio, a seguito della trasformazione da reato di pura condotta a dolo specifico in reato di evento, avvenuta con la legge n. 1234 del 1997, il dolo richiesto è generico con riferimento alla condotta (coscienza e volontà di violare norme di legge o di regolamento ovvero di non osservare l'obbligo di astensione), mentre assume la forma del dolo intenzionale rispetto all'evento (vantaggio o danno) che completa la fattispecie.
A tal ultimo riguardo,
la prova dell'intenzionalità del dolo esige il raggiungimento della certezza che la volontà dell'imputato sia stata orientata proprio a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusti.
Tale certezza non può provenire esclusivamente dal comportamento non iure tenuto dall'agente, ma deve trovare conferma anche in altri elementi sintomatici, che evidenzino l'effettiva ratio ispiratrice del comportamento, quali la specifica competenza professionale dell'agente, l'apparato motivazionale su cui riposa il provvedimento, il contesto e il tenore dei rapporti personali tra l'agente e il soggetto o i soggetti che dal provvedimento ricevono vantaggio patrimoniale o subiscono danno (cfr. Sez. VI, 25.01.2013, Barla ed altri).
Sotto questo profilo, la motivazione della Corte è manifestamente carente e contraddittoria.
Proprio la complessità della situazione giuridica non può semplicisticamente autorizzare un addebito in punto di consapevole violazione delle norme a carico dei funzionari che hanno curato l'iter concessorio.
Mentre è stato impropriamente valorizzato l'iter definito come eccessivamente sollecito della pratica, allorquando in tutta evidenza tale procedura non ha interessato e visti coinvolti solo gli odierni imputati e, comunque, allorquando non si è in presenza di una abnormità evidente della procedura, quanto alla tempistica e/o ai diversi passaggi che hanno portato al rilascio del titolo.
Non va del resto dimenticato, per cogliere l'importanza dell'accertamento sull'elemento soggettivo, che, nel reato di abuso d'ufficio, si richiede appunto il "dolo intenzionale", nel senso che l'agente deve aver agito proprio per perseguire uno degli eventi tipici della fattispecie incriminatrice, ossia [per quanto qui potrebbe interessare] l'ingiusto profitto patrimoniale, per sé o per altri, ovvero l'altrui danno ingiusto.
In altri termini,
non sarebbe sufficiente che il soggetto attivo abbia agito con "dolo diretto", cioè rappresentandosi l'evento come verificabile con elevato grado di probabilità, né con "dolo eventuale", cioè accettando il rischio del suo verificarsi: è necessario che l'evento di danno o quello di vantaggio sia voluto e realizzato come obiettivo immediato e diretto della condotta, e non risulti semplicemente realizzato come risultato accessorio di questa (Sezione VI, 17.11.2009, Ratti ed altro) (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 07.01.2016 n. 87).

anno 2015

CONSIGLIERI COMUNALI: Abuso d'ufficio della Giunta sulla Municipalizzata.
IL CASO: l'azienda speciale di un Comune, costituita per la gestione di servizi comunali e sociali, su indicazione del sindaco e di alcuni assessori del Comune, assumeva alcuni dipendenti indicati dagli stessi componenti della giunta per l'erogazione di servizi fittizi.
Nel caso di specie, lo sviamento del potere e la violazione dell'art. 97 della Costituzione, possono essere ritenuti violazioni di legge alla stregua dei quali può essere contestato il reato di abuso di ufficio?

(Risponde l'Avv. Guido Paratico)
La norma che disciplina il reato di abuso di ufficio è l'art. 323 del Codice Penale.
La norma così dispone: "Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico sevizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità".
La norma, in sostanza, vuole punire l'abuso funzionale, che si evidenzia su un piano oggettivo prima ancora che psicologico, che porta la violazione del buon andamento e dell'imparzialità della pubblica amministrazione tutelati dall'articolo 97 della Costituzione.
Per l'accertamento di tale reato occorre evidenziare in termini precisi, oltre all'individuazione di norme procedurali violate, anche quale aspetto le violazioni abbiano inciso sulla violazione delle buon andamento dell'amministrazione.
Più nello specifico, infatti, la giurisprudenza ha chiarito come, in tema di abuso d'ufficio, il requisito della violazione di norme di legge può essere integrato anche solo dall'inosservanza del principio costituzionale di imparzialità dell'organizzazione per la parte in cui esprime il divieto di ingiustificate preferenze favoritismi che impone al pubblico ufficiale e all'incaricato incaricato di pubblico servizio una regola di comportamento di immediata applicazione.
Così, nel caso di specie sopra descritto, non può ravvisarsi, come potrebbe apparire ad un primo esame, un'ipotesi di "eccesso di potere" (che non sarebbe da solo fonte di responsabilità penale), bensì una vera e propria ipotesi di "sviamento del potere".
Infatti, deve ritenersi sussistente il requisito della violazione di legge non solo quando la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche quando il comportamento incriminato sia orientato alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito: in questo caso si realizza il tipico vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge in quanto il potere non viene esercitato secondo lo schema normativo che legittima l'attribuzione, ma persegue obiettivi non previsti nella ponderazione tra interesse pubblico e interessi privati (Sez. un., n. 155 del 29/09/2011, Rossi).
Allo stesso modo, nel caso di specie, la condotta degli organi di indirizzo politico del Comune nonché del Direttore dell'Azienda speciale, costituiscono senz'altro violazione dell'art. 97 della Costituzione che, come visto, ha natura di precetto immediatamente applicabile (la cui violazione comporta anche l'abuso d'ufficio) quando pone il divieto di favoritismi, cioè impone l'obbligo di trattare i soggetti portatori di un interesse tutelato con la medesima misura
Il meccanismo con cui avvenivano le assunzioni, infatti, era ispirato dall'intento di favorire alcune persone vicine ai componenti della Giunta. Infatti, risulta l'attuazione di un meccanismo diretto a realizzare veri e propri favoritismi nelle assunzioni, consistito negli stanziamenti per far fronte a progetti fittizi, a vantaggio esclusivo degli assunti in maniera irregolare, perché in violazione delle norme finanziarie e di quelle che regolano le assunzioni presso gli enti locali.
In altri, invece, l'abuso d'ufficio non è stato ravvisato nella condotta consistita nella inosservanza delle disposizioni inserite nel bando di concorso il quale è atto amministrativo e, quindi, fonte normativa non riconducibile a quelle tassativamente indicate dal citato articolo 323 (cioè, la legge o il regolamento) (tratto dalla newsletter 21.12.2015 n. 131 di http://asmecomm.it).

PUBBLICO IMPIEGO: In tema di abuso d’ufficio il dovere di astensione da parte del soggetto qualificato deve ravvisarsi anche laddove vengano in considerazione provvedimenti per i quali è riconoscibile un interesse personale, anche indiretto, ed il relativo presupposto di fatto deve presentarsi, come avvenuto nel caso in esame, quale situazione identificabile a priori, ponendosi come visibile fattore inquinante in relazione alla determinazione del contenuto dell’atto o dell’operazione da compiere.
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3. Secondo una pacifica linea interpretativa tracciata da questa Suprema Corte, la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 323 c.p., nella parte relativa all'omessa astensione in presenza di un interesse proprio dell'agente o di un prossimo congiunto, ha introdotto nell'ordinamento, in via diretta e generale, un dovere di astensione per i pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio che si trovino in una situazione di conflitto di interessi.
Ne discende che l'inosservanza di tale dovere comporta l'integrazione del reato anche quando faccia difetto, per il procedimento ove l'agente è chiamato ad operare, una specifica disciplina dell'astensione, o nei casi in cui la disciplina eventualmente esistente riguardi un numero più ridotto di ipotesi o sia priva di carattere cogente
(Sez. 6, n. 14457 del 15/03/2013, dep. 27/03/2013, Rv. 255324; Sez. 6, n. 7992/05 del 19/10/2004, Rv. 231477; v., inoltre, Sez. 6, 27.05.2014, n. 38350).
Tale obbligo, infatti, trova la sua fonte nella stessa formulazione dell'art. 323 c.p., ove la previsione della norma incriminatrice descrive come antidoverosa l'omessa astensione in presenza di un interesse proprio e dei propri congiunti, così tipizzando tale situazione di incompatibilità e rinviando alla normativa extrapenale per quelle diverse "negli altri casi prescritti" (v., in motivazione, Sez. 6, n. 11549 del 02/10/1998, dep. 06/11/1998, Rv. 213031).
Nel caso in esame emerge con chiarezza, dalla su esposta ricostruzione in fatto dei Giudici di merito, la presenza di un obbligo di astensione dell'imputato in relazione all'atto di designazione del componente la su indicata Commissione medica locale, sussistendo una situazione di evidente conflitto di interessi in ragione del rapporto di coniugio, con una palese ed originaria violazione del principio generale di imparzialità e trasparenza nell'azione della Pubblica amministrazione, riconducibile all'art. 97 Cost..
Il dovere di astensione, infatti, sussiste quando vengano in considerazione provvedimenti per i quali è riconoscibile un interesse personale anche indiretto (Sez. 6, n. 14457 del 15/03/2013 cit.) ed il relativo presupposto di fatto deve presentarsi, come avvenuto nel caso in esame, quale situazione identificabile a priori, ponendosi come visibile fattore inquinante in relazione alla determinazione del contenuto dell'atto o dell'operazione da compiere.
Potrebbe escludersi il dovere di astensione, dunque, solo con riferimento all'adozione di provvedimenti normativi o di carattere generale (ad es., le delibere di approvazione di piani regolatori generali), frutto di un procedimento complesso in cui confluiscano e si compensino molteplici interessi, collettivi o individuali, sicché la decisione espressa dal pubblico funzionario non riguardi una specifica prescrizione, ma il contenuto generale dell'atto: nel caso in questione, di contro, viene in rilievo l'adozione di un provvedimento ad hoc, il cui esito decisorio è oggettivamente caratterizzato da una correlazione diretta ed immediata fra il contenuto dell'atto e l'incidenza sulla sfera di concreti e specifici interessi del pubblico funzionario e/o dei suoi prossimi congiunti (arg. ex Sez. 6, n. 12642 del 28/01/2015, dep. 25/03/2015, Rv. 263069).
4. Sotto altro, ma connesso profilo, deve rilevarsi come costituisca oramai espressione di un consolidato orientamento interpretativo il principio secondo il quale, ai fini dell'integrazione del reato di abuso di ufficio, anche nel caso di violazione dell'obbligo di astensione è necessario che a tale omissione, già fonte di una violazione di legge, si aggiunga l'ingiustizia del vantaggio patrimoniale procurato o del danno arrecato (così, tra le diverse, Sez. 6, n. 47978 del 27/10/2009, Rv. 245447; Sez. 6, n. 26324 del 26/04/2007, Rv. 236857; Sez. 6, n. 11415 del 21/02/2003, Rv. 224070).
Nel caso di specie, come si è visto, l'illegittimità della scelta operata dall'imputato attraverso l'atto di designazione compiuto in favore della moglie ne ha determinato un illegittimo accrescimento della sfera patrimoniale per effetto dell'erogazione degli emolumenti spettanti ai componenti la predetta commissione, non essendo affatto necessario -ai fini della distinta valutazione di ingiustizia della condotta e dell'evento di vantaggio patrimoniale, che deve risultare non spettante in base al diritto oggettivo- che l'ingiustizia del vantaggio derivi da una violazione di norme diversa ed autonoma da quella che ha caratterizzato l'illegittimità della condotta, qualora l'accrescimento della sfera patrimoniale del privato debba considerarsi "contra ius" (Sez. 6, n. 11394 del 29/01/2015, dep. 18/03/2015, Rv. 262793).
È infatti sufficiente la violazione di prescrizioni normative sul solo versante della condotta, sempre che, per effetto di essa, il privato abbia ottenuto una posizione di maggior favore alla quale non aveva diritto, senza che si renda necessaria l'attribuzione di un vantaggio patrimoniale attraverso la violazione di un'ulteriore norma di legge. Occorre pertanto che il giudice effettui, al riguardo, una duplice valutazione, tenendo ben distinto il profilo inerente all'illegittimità della condotta da quello relativo all'ingiustizia del vantaggio, non potendosi inferire quest'ultima dall'accertata esistenza della violazione di norme di legge o di regolamento (ex plurimis, v. Cass., Sez. 6, 27.06.2009, Moro), ma dovendosi sempre accertare che il privato non abbia titolo a ricevere il vantaggio attribuitogli, perché non dovuto, cioè iniuste datum, ovvero perché ottenuto sine iure (da ultimo, v. Sez. 6, 31 marzo - 19.06.2015, n. 25944).
Il vantaggio, infatti, è ingiusto ogniqualvolta non trovi fondamento in un corrispondente diritto sostanziale, dunque non soltanto qualora sia in sé contrario all'ordinamento, ma anche quando il privato non possa vantare, rispetto ad esso, alcuna situazione giuridica soggettiva a sostegno della relativa pretesa.
In tal senso, la contrarietà a diritto del vantaggio patrimoniale acquisito dal soggetto prescelto per effetto dell'atto di designazione è direttamente scaturita, nel caso di specie, dall'ottenimento e dal conseguente svolgimento di un incarico amministrativo conferito in presenza di una situazione viziata, come si è già avuto modo di rilevare, da un macroscopico conflitto d'interessi.
Del tutto congetturale e non assistito da un congruo sostegno logico-argomentativo deve, infine, ritenersi il passaggio della motivazione (v., supra, il par. 2) in cui il Tribunale fa riferimento, per escludere l'esistenza del dovere di astensione, alle implicazioni di una non meglio precisata valutazione di "compatibilità" della gestione dell'attività lavorativa della moglie, che gli organi dirigenziali avrebbero espresso riguardo alle funzioni in concreto svolte ed all'organizzazione dell'ASL di appartenenza (massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 10.12.2015 n. 48913).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: È FALSO PER INDUZIONE L’ATTESTAZIONE DEL P.U. CHE UN FABBRICATO È CONFORME AL PROGETTO APPROVATO CON IL PERMESSO DI COSTRUIRE.
Il falso per induzione ex artt. 48 e 479 c.p. sussiste indipendentemente dalla natura fidefacente dell’autocertificazione; ne consegue che l’atto con cui il pubblico ufficiale attesta la conformità di un fabbricato al progetto approvato con la concessione edilizia costituisce atto pubblico.
Il tema esaminato dalla Cassazione, con la sentenza in esame, verte sulla natura o meno di atto pubblico dell’attestazione, promanante dal pubblico ufficiale, circa la conformità del fabbricato al progetto assentito.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza che aveva condannato l’imputato per falso per induzione, in particolare per avere dichiarato falsamente in sede di autocertificazione che l’intervento di costruzione di una palazzina residenziale era stato realizzato in conformità ai disegni approvati e tenendo presenti tutte le prescrizioni di cui al permesso di costruire rilasciato dal comune, dichiarazione non veritiera atteso che non erano stati realizzati gli allacci alle reti tecnologiche, in particolare alla rete idrica gestita dalla società R.R. S.p.A..
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare deducendo la mancanza di un’autocertificazione fidefacente, per inesistenza di una specifica previsione normativa che conferisse valore de veritate all’attestazione resa dal privato al pubblico ufficiale.
La dichiarazione resa in autocertificazione sarebbe stata priva dei requisiti richiesti dal d.P.R. n. 445 del 2000, art. 46 per avere la funzione di provare i fatti attestati dal privato al pubblico ufficiale, per cui sarebbe priva di potenzialità lesiva della pubblica fede.
Inoltre, l’autocertificazione non era stata sottoscritta in presenza di un dipendente del Comune, né era stata presentata unitamente alla copia fotostatica di un documento di identità, onde non aveva i requisiti per valere come dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà ex d.P.R. n. 445 del 2000, artt. 47 e 38, di tal che non poteva provare i fatti in essa attestati e non poteva confluire nel certificato di agibilità. Infine, la medesima autocertificazione, come risulta dal testo, non era idonea a comprovare i fatti della stessa dichiarati perché non espressamente indicati nell’art. 46 (con riferimento al cit. d.P.R., art. 47, comma 3), onde anche per tale motivo non aveva alcuna potenzialità lesiva della pubblica fede.
Trattavasi di una semplice dichiarazione, priva di qualunque efficacia certificativa, tanto più se si considera che essa non è necessaria ai sensi dell’art. 25, comma 1, del Testo unico in materia edilizia (d.P.R. n. 380 del 2001) per cui non è destinata a confluire nel certificato di agibilità e quindi a provare la verità dei fatti in essa attestati.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha annullato per insussistenza del fatto la sentenza di condanna, in particolare osservando come che il reato non sussisteva, atteso che la prescrizione del permesso di costruire (“Prima della richiesta del rilascio del permesso di agibilità dovranno essere realizzati gli allacci alle reti tecnologiche”) non implicava l’attivazione in concreto della fornitura (che, peraltro, non si vede come possa essere richiesta dal costruttore a nome del futuro acquirente), bensì solo la predisposizione tecnica degli impianti per l’allacciamento alla rete idrica, mediante esternalizzazione dell’impianto fino all’armadio o al pozzetto di successiva installazione del contatore.
Tale interpretazione era, altresì, confortata non solo dagli atti dell’ufficio tecnico comunale, che, dopo un’iniziale sospensione dell’agibilità, aveva revocato il provvedimento cautelare, ma gli stessi atti privati, risultando in modo espresso dal contratto preliminare di compravendita che l’impresa avrebbe proceduto esclusivamente alla realizzazione degli impianti, restando a carico dell’acquirente il successivo allaccio mediante stipula del relativo contratto di fornitura (v., nel senso del principio affermato: Cass. pen., SS.UU., 17.09.984, n. 7299, Nirella, in CED, n. 165602) (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 23.07.2015 n. 32433 - Urbanistica e appalti n. 11/2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Abuso d'ufficio.
In tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa, può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto, non essendo richiesto l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, in quanto l'intenzionalità del vantaggio ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente quel privato interessato alla singola vicenda amministrativa.
4.2. — Quanto al secondo motivo di ricorso, è sufficiente qui rilevare che i giudici di primo e secondo grado muovono dalle evidenze processuali, costituite dalla macroscopicità della violazione e dalla specifica competenza tecnica di entrambi gli imputati, per farne logicamente conseguire, pur in mancanza di prova di un accordo fra i due, la piena sussistenza dell'elemento soggettivo, rappresentato dalla piena consapevolezza e partecipazione di entrambi gli imputati alla commissione del reato.
E la natura macroscopica dell'abuso risulta ulteriormente confermata -secondo la coerente valutazione dei giudici di merito- dall'analogia tra la fattispecie qui in esame e la vicenda relativa ad altro centro commerciale (I...) nella quale era già venuta in rilievo l'illegittimità di insediamenti commerciali nell'area F3 destinata a verde pubblico; con la conseguenza che, anche a prescindere dall'assoluta chiarezza delle disposizioni dello strumento urbanistico sul punto, vi è ulteriore conferma che gli imputati avessero piena e puntuale contezza dell'illiceità dell'attività che andavano svolgendo. Né osta a tale conclusione il generico richiamo della difesa a non meglio precisati chiarimenti che l'imputato Biondi avrebbe richiesto in via preventiva alla Procura della Repubblica.
E del resto, come costantemente affermato da questa Corte, in tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa, può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto, non essendo richiesto l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, in quanto l'intenzionalità del vantaggio ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente quel privato interessato alla singola vicenda amministrativa (ex plurimis, sez. 6, 15.04.2014, n. 36179, rv. 260233; sez. 3, 07.11.2013, n. 48475, rv. 258290).
Ne deriva la manifesta infondatezza di tale censura (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.05.2015 n. 19182 - tratto da www.lexambiente.it).

PUBBLICO IMPIEGO: IL TERMINE DI PRESCRIZIONE DEL TENTATO ABUSO DI UFFICIO DECORRE DAL MOMENTO IN CUI È STATO POSTO IN ESSERE L’ULTIMO ATTO DEL TENTATIVO.
Ai fini della decorrenza del termine di prescrizione del delitto tentato ha rilievo non il giorno in cui la condotta illecita viene scoperta o comunque il reato non può essere più consumato per cause indipendenti dalla volontà dell’agente, bensì il giorno in cui il reo ha compiuto l’ultimo atto integrante la fattispecie tentata.
Di particolare interesse la questione affrontata dalla Corte di cassazione sul problema giuridico oggetto di esame da parte dei giudici di legittimità con la sentenza in esame, in cui viene ad essere affrontato il tema del momento di decorrenza iniziale del reato di tentato abuso di ufficio collegato alla violazione della disciplina edilizia.
La vicenda processuale traeva origine dalla sentenza con cui la Corte d’Appello confermava la sentenza del tribunale, con cui gli imputati (un pubblico ufficiale ed un privato) erano stati condannati in quanto ritenuti responsabili del reato di abuso d’ufficio tentato in concorso, per aver compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a far rilasciare alla società R.T. s.r.l. due permessi di costruire in sanatoria illegittimi, sia quanto ai presupposti di fatto che a quelli di diritto, non riuscendo nel loro intento per cause indipendenti dalla propria volontà e specificamente a causa dell’intervento e degli accertamenti effettuati dal responsabile dell’U.T. comunale e dalla polizia municipale. Contro la sentenza gli stessi proponevano ricorso per cassazione, dolendosi, per quanto qui di interesse, della ritenuta configurabilità del reato contestato, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha annullato la sentenza per intervenuta estinzione del reato per prescrizione, osservando come l’imputazione ascritta -consistente nell’aver redatto attestazione di regolarità tecnica in cui si affermava la corretta definizione delle pratiche e che si erano verificate tutte le condizioni per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria, nonché predisponendo materialmente il permesso di costruire in sanatoria-, rendeva corretta la richiesta degli imputati secondo cui il dies a quo da cui far decorrere il termine di prescrizione sarebbe quello, contestato, individuabile nella data della formazione delle false attestazioni di regolarità tecnica, conseguendone la intervenuta prescrizione prima della sentenza d’appello.
La eccezione è stata considerata come corretta in diritto dai Supremi Giudici, atteso che, nella fattispecie configurata in forma tentata, al fine del computo del termine prescrizionale, ha rilievo il momento in cui il reo ha compiuto l’ultimo atto integrante la fattispecie tentata (Cass. pen., Sez. II, n. 16609 del 29.04.2011, C., in CED, n. 250112; Cass. pen., Sez. II, n. 313 del 13.01.1999, G., in CED, n. 212201).
Ne discende, pertanto, che detto dies a quo non può essere individuato in quello coincidente con la data in cui è intervenuto il rigetto dell’istanza di condono, poiché in tal momento si verificherebbe la cristallizzazione degli effetti della condotta finalizzata al conseguimento dell’ingiusto vantaggio patrimoniale (come affermato da Cass. pen., Sez. VI, n. 10230 del 27.08.1999, C., in CED, n. 214376), principio, questo, tuttavia applicabile solo nel caso di fattispecie consumata e non nel caso, come quello esaminato, di fattispecie tentata, per il quale trova invece applicazione il diverso principio sopra illustrato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.02.2015 n. 7384 - Urbanistica e appalti n. 5/2015).

anno 2013

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGOUffici tecnici. Abusi edilizi. La denuncia è obbligata.
Il responsabile di un ufficio tecnico ha l'obbligo di denunziare all'autorità giudiziaria gli abusi edilizi da lui stesso riscontrati nel corso di sopralluogo effettuato insieme al comandante della polizia municipale.
L'elemento soggettivo del reato di omissione di denuncia consiste nella consapevolezza e volontarietà dell'omissione della denuncia allorché si sia verificato il presupposto da cui deriva l'obbligo di informare l'autorità giudiziaria, ovvero la conoscenza, da parte del pubblico ufficiale, del fatto costituente reato a causa e nell'esercizio delle sue funzioni.
È irrilevante che il pubblico ufficiale ritenga che l'informativa della «notitia criminis» di cui sia venuto a conoscenza, competa ad altro pubblico ufficiale ovvero supponga che l'informativa medesima sia stata da questi già fornita.

Questo è quanto afferma la Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 03.06.2013 n. 23956 (articolo ItaliaOggi del 06.06.2013).

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G.C. è imputato del reato di cui all'art. 361 c.p. per avere, in qualità di geometra dell'Ufficio Tecnico del Comune di (omissis), omesso di denunciare senza ritardo alla Autorità Giudiziaria l'abuso edilizio da lui stesso riscontrato nel corso di sopralluogo effettuato insieme al comandante della Polizia Municipale in data 02.02.2009 presso la proprietà di T.D..
A Z.D. è contestato lo stesso reato per avere, in qualità di responsabile dell'Ufficio Tecnico del Comune di (OMISSIS), omesso di denunciare senza ritardo alla Autorità Giudiziaria l'abuso edilizio di cui era venuto a conoscenza a seguito della ricezione di rapporto di servizio redatto dalla Polizia locale in data 03.12.2009.
Il GUP di Pavia, dopo avere premesso che doveva ritenersi pacifico in punto di fatto che alla segnalazione dell'abuso edilizio ed alla sua constatazione era seguita la totale inerzia degli organi competenti, ha rilevato che tale condotta aveva rilievo penale unicamente a carico degli agenti e degli ufficiali di polizia giudiziaria, in quanto la disposizione di cui all'art. 27, comma 4, DPR 380/2001 costituirebbe norma speciale rispetto all'art. 361 c.p.. In base a tale interpretazione sistematica dall'obbligo di denuncia sarebbero esonerati i dirigenti dell'Ufficio Tecnico e ciò comporterebbe anche una razionalizzazione del sistema, evitando onerose duplicazioni di comunicazioni di reato.
Si tratta di una erronea interpretazione delle disposizioni di legge in questione.
In primo luogo nessun rapporto di specialità sussiste tra le due disposizioni, posto che soltanto l'art. 361 c.p. è norma penale incriminatrice a differenza dell'art. 27 DPR 380/2001, per la cui violazione non è prevista alcuna sanzione penale.
In secondo luogo si tratta di norme con differenti ambiti di applicazione: da un lato la norma penale ha maggiore estensione, rivolgendosi in generale al pubblico ufficiale come soggetto attivo a differenza della norma amministrativa, che limita la propria sfera ai soli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria; dall'altro l'art. 361 c.p. circoscrive l'oggetto dell'obbligo di denuncia ai soli reati, mentre il citato art. 27 estende l'obbligo a tutti gli altri casi di presunta violazione urbanistico - edilizia, anche quando non rivestono carattere penale.
Ne deriva che tra le due disposizioni non intercorre un rapporto di specialità, ma al più di complementarietà, trattandosi di norme che prevedono diversi doveri di comunicazione alla Autorità Giudiziaria nell'ottica di un più accurato controllo dell'assetto urbanistico-edilizio del territorio.
A parte il fatto che l'interpretazione del GUP di Pavia rischia chiaramente di determinare inerzia ed omissioni di denunce nei Comuni privi di corpi di Polizia Municipale, allorquando i dirigenti degli Uffici Tecnici vengano comunque a conoscenza di abusi edilizi penalmente sanzionati, oltre in via più generale a determinare un concreto pericolo di diffusione di inaccettabili prassi di scarico reciproco di responsabilità, come avvenuto nel caso di specie.
Va, infine, ricordato che l'elemento soggettivo del reato di omissione di denuncia consiste nella consapevolezza e volontarietà dell'omissione della denuncia allorché si sia verificato il presupposto da cui deriva l'obbligo di informare l'autorità giudiziaria, ovvero la conoscenza, da parte del pubblico ufficiale, del fatto costituente reato a causa e nell’esercizio delle sue funzioni.
È, invece, estraneo alla nozione del dolo di omissione il motivo che induca il soggetto, su cui grava l'obbligo di informazione, ad astenersene; sicché è irrilevante che il pubblico ufficiale ritenga che l'informativa della "notitia criminis" di cui sia venuto a conoscenza, competa ad altro pubblico ufficiale ovvero supponga che l'informativa medesima sia stata da questi già fornita.
Infatti, l'errore in cui il soggetto possa incorrere, al riguardo, non esclude la volontarietà dell'omissione, ma concerne semmai la sua legittimità ed è, pertanto, penalmente inscusabile (Sez. 6, Sentenza n. 1407 del 05/11/1998, Rv. 212551, Pirari; sez. 6, sentenza n. 9701 del 23.09.1996, RV 206014, Gobbi).
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Al riguardo si legga anche:
  
● M. Santoloci, Una sentenza importante che conferma un principio base logico ma spesso soggetto a controversie interpretative. Cassazione: il dirigente dell’ufficio tecnico comunale ha l’obbligo di denunciare l’abuso edilizio. Come è sempre stato logico… (24.07.2013 - link a http://dirittoambiente.net).
...
Il dirigente dell’ufficio tecnico comunale ha l’obbligo, sempre e comunque, di denunciare alla Procura della Repubblica un abuso edilizio del quale ha notizia nell’esercizio o a causa delle sue funzioni.
Questo principio è diventato “notizia” sui mass‐media e su internet dopo una sentenza della Cassazione che ha ricordato il principio stesso.
In questa nostra Italia accade oggi che –soprattutto nel campo ambientale– quello che è logico, scontato e doveroso diventa un fatto eccezionale di cronaca, una “novità” degna di articoli sulla stampa. E questo per un solo fatto ormai chiaro: alcuni principi del diritto connessi ai temi ambientali o sono caduti in desuetudine applicativa (traduco: di fatto non li applica più nessuno e ci siamo dimenticati che esistono) oppure sono stravolti da anni di interpretazioni malevoli e strumentali, spesso generate da polemiche sul rimbalzo (traduco: scaricabarile) di competente reciproche, a tal punto che il principio stesso viene di fatto vaporizzato nel nulla e dimenticato per prassi.
Poi all’improvviso su questo teatro di narcosi collettiva spunta fuori una sentenza della Cassazione che –opportunamente e doverosamente– va a ricordare il principio stesso secondo una logica ordinaria, ed allora tale richiamo della Cassazione diventa “novità” e “notizia”. O perlomeno come tale viene percepita. (...continua).