dossier PUBBLICO IMPIEGO
(N.B.: nel presente dossier non sono
ricomprese le news pubblicate nel
dossier SINDACATI & ARAN) |
norme principali di riferimento:
D.P.R. 10.01.1957 n. 3
(Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati
civili dello Stato)
*
D.Lgs.
30.03.2001 n. 165
(Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche)
*
D.Lgs.
08.04.2013 n. 39
(Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di
incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in
controllo pubblico, a norma dell'articolo 1, commi 49 e 50, della legge
06.11.2012, n. 190)
*
D.P.R. 16.04. 2013 n. 62
(Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a
norma dell’articolo 54 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165)
*
C.C.N.L. 21.05.2018 del comparto FUNZIONI LOCALI (triennio 2016-2018)
Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del comparto FUNZIONI LOCALI -
periodo 2016-2018 - Raccolta sistematica delle disposizioni non disapplicate
(CGIL-FP di Bergamo, 22.05.2018). |
--->
per il dossier PUBBLICO IMPIEGO sino al 2018
cliccare qui
--->
per il dossier PUBBLICO IMPIEGO sino al 2012
cliccare qui |
settembre 2019 |
 |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incaricati senza libertà d’orario.
Non possono regolarlo in base alle esigenze degli uffici.
Un contratto che riconosca prerogative dirigenziali alle posizioni
organizzative sarebbe nullo.
Gli
incaricati di posizione organizzativa non possono regolare la propria
attività con orario di lavoro organizzato sulla base delle esigenze degli
uffici, come le qualifiche dirigenziali.
Sono ancora molto frequenti i casi nei quali negli enti locali, e
specialmente nelle forme associative, si verifichino violazioni palesi alle
disposizioni contrattuali, laddove si consenta ai «quadri» un orario di
lavoro non predeterminato.
Il tutto, nasce da un'interpretazione totalmente erronea dell'articolo 109,
comma 2, del dlgs 267/2000, ai sensi del quale «nei comuni privi di
personale di qualifica dirigenziale le funzioni di cui all'articolo 107,
commi 2 e 3, fatta salva l'applicazione dell'articolo 97, comma 4, lettera
d), possono essere attribuite, a seguito di provvedimento motivato del
sindaco, ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dalla
loro qualifica funzionale, anche in deroga a ogni diversa disposizione».
Tale norma è posta a rimediare alla circostanza che nella gran parte degli
enti locali mancano le qualifiche dirigenziali e, tuttavia, è comunque
necessario applicare il principio di separazione delle funzioni politiche da
quelle gestionali. L'articolo 109, comma 2, rimedia, consentendo di
attribuire le funzioni dirigenziali ai funzionari apicali, abilitati, quindi
ad esercitare dette funzioni dirigenziali. Ma, tale abilitazione non
trasforma i funzionari incaricati nell'area delle posizioni organizzative in
qualifiche dirigenziali.
Si continua ad applicare sempre soltanto e solo, dunque, il Ccnl del
comparto. Sull'orario di lavoro, il Ccnl 21.05.2018 non ha cambiato nulla
rispetto alla contrattazione collettiva previgente.
Resta attuale, allora, l'indicazione fornita nel 2011 dall'Aran con
il
parere 05.06.2011 n. RAL-613, ove si spiega che «il personale
incaricato delle posizioni organizzative è tenuto ad effettuare prestazioni
lavorative settimanali non inferiori a 36 ore (mentre, ai sensi dell'art.
10, comma 1, del Ccnl del 31.03.1999 e salvo quanto previsto dall'art. 39,
comma 2, del Ccnl del 14.09.2000 e dall'art. 16 del Ccnl del 05.10.2001, non
sono retribuite le eventuali prestazioni ulteriori che gli interessati
potrebbero aver effettuato, senza diritto ad eventuali recuperi, in
relazione all'incarico affidato e agli obiettivi da conseguire)».
Conseguentemente l'orario di lavoro va assoggettato «alla vigente disciplina
relativa a tutto il personale dell'ente e agli ordinari controlli sulla
relativa quantificazione». In particolare, spiega l'Aran, «il vigente Ccnl
non attribuisce, in particolare, né al datore di lavoro né al dipendente il
potere o il diritto all'autogestione dell'orario settimanale, consentita,
invece, al solo personale con qualifica dirigenziale».
È da aggiungere che laddove i funzionari incaricati di posizione
organizzativa non rispettassero le previsioni del Ccnl del comparto,
incorrono nella responsabilità disciplinare connessa alla violazione
dell'articolo 57, comma 3, lettera a), che impone di «collaborare con
diligenza, osservando le norme del contratto collettivo nazionale, le
disposizioni per l'esecuzione e la disciplina del lavoro»; l'articolo 59,
comma 3, lettera a), del Ccnl, ancora, considera esplicitamente violazione
disciplinare l'inosservanza delle disposizioni di servizio, anche in tema di
assenze per malattia, nonché dell'orario di lavoro.
È opportuno ricordare che qualsiasi contratto collettivo decentrato o
direttiva interna finalizzata a consentire alle posizioni organizzative di
fruire dell'orario previsto solo per la dirigenza, sarebbe del tutto nulla e
inapplicabile, per violazione di una disciplina riservata esclusivamente
alla contrattazione nazionale collettiva.
Non solo: la tolleranza nei
confronti di orari difformi, che, come visto sopra, implicano responsabilità
disciplinare, determinerebbe nei confronti dei dirigenti a loro volta
responsabilità disciplinare ai sensi dell'articolo 55-sexies, comma 3, del dlgs 165/2001, il quale dispone: «Il mancato esercizio o la decadenza
dall'azione disciplinare, dovuti all'omissione o al ritardo, senza
giustificato motivo, degli atti del procedimento disciplinare, inclusa la
segnalazione di cui all'articolo 55-bis, comma 4, ovvero a valutazioni
manifestamente irragionevoli di insussistenza dell'illecito in relazione a
condotte aventi oggettiva e palese rilevanza disciplinare, comporta, per i
soggetti responsabili, l'applicazione della sospensione dal servizio fino a
un massimo di tre mesi, salva la maggiore sanzione del licenziamento
prevista nei casi di cui all'articolo 55-quater, comma 1, lettera f-ter) e
comma 3-quinquies» (articolo ItaliaOggi del 20.09.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Posizioni
organizzative, è colpa grave il mancato controllo sugli atti dei propri
funzionari.
Con la
sentenza 19.09.2019 n. 350, la
Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la regione Toscana, ha
precisato che il responsabile di posizione organizzativa che appone la
propria firma agli atti predisposti dai funzionari senza operare mai alcun
controllo, nemmeno a campione, è suscettibile di condanna per responsabilità
sussidiaria a titolo di colpa grave, per omessa vigilanza e/o controllo.
Il fatto
Nel caso in esame, la Procura erariale, presso la Sezione Giurisdizionale
della regione Toscana, ha instaurato un giudizio di responsabilità nei
confronti di due dipendenti del comune di Cascina, rispettivamente nella
qualità di funzionario e di Responsabile di Posizione Organizzativa del
Settore “Macrostruttura 6-Educativo e Socio Culturale”; detto giudizio è
scaturito dalla segnalazione, da parte del suddetto comune, di un possibile
danno erariale, conseguente alla condotta, penalmente rilevante, posta in
essere dal menzionato funzionario, fra l'altro destinatario di misura di
custodia cautelare in carcere su richiesta della Procura della Repubblica
presso il Tribunale di Pisa, nonché di provvedimento di sospensione
cautelare adottato dal Comune di Cascina.
Infatti, dall’attività investigativa espletata dalla Guardia di Finanza,
nell’ambito del procedimento penale, era emerso che il funzionario,
assegnato quale unico addetto all’unità operativa “Nidi, Progettazione
Educativa e Diritto allo Studio”, si era appropriato di circa 400.000 euro,
fra i 2012 ed il 2017, stanziati dall'Ente di appartenenza e dalla Regione
Toscana per il potenziamento degli asili nido e per finanziare progetti
sociali a favore di infanti disabili e/o in stato di disagio.
Con riferimento al citato danno, la Procura contabile ha individuato oltre
la responsabilità principale e dolosa del funzionario –la cui condotta
illecita, era stata ampiamente dimostrata dalle risultanze probatorie del
procedimento penale–, anche quella sussidiaria, a titolo di culpa in
vigilando, in capo al Responsabile del Settore in cui il reo operava, poiché
non aveva esercitato sullo stesso alcun controllo, neanche a campione o
saltuario.
Infatti, il Responsabile aveva consentito, o comunque agevolato,
la condotta illecita del funzionario, apponendo, in maniera acritica ed
automatica, la propria firma sui provvedimenti che quest'ultimo gli
sottoponeva, ponendo in essere una condotta gravemente colposa di omesso
controllo e vigilanza, reiterata per ben cinque anni.
Il Responsabile, costituitosi in giudizio, ha eccepito l’impossibilità di
avere, in qualche modo, contezza del disegno criminoso portato avanti dal
funzionario, tant'è che, all’esito dell’attività istruttoria espletata nel
parallelo procedimento penale, non era stata formulata alcuna ipotesi di
reato nei suoi confronti, essendo emersa, invece, la sua totale estraneità
rispetto ai fatti incriminati, escludendo, di conseguenza, qualsiasi
responsabilità per culpa in vigilando.
Altresì, dall’esame degli atti
istruttori, era emerso che la maggior parte degli episodi criminosi
contestati si erano verificati successivamente all’erogazione delle somme da
parte del Comune, ovvero in una fase in cui non avrebbe potuto esserci alcun
controllo da parte del Responsabile.
Peraltro, da un lato gli atti prodotti
dal funzionario erano stati predisposti al di fuori dei protocolli
istituzionali, mediante documentazione ideologicamente e/o materialmente
falsa, dall'altro, nel corso degli anni, non vi era mai stata alcuna
contestazione sull'operato del funzionario da parte di terzi.
Altresì,
l’assenza di culpa in vigilando derivava dal fatto che il Responsabile
gestiva una macrostruttura con un elevato numero di servizi ed unità
operative (almeno 11) e potendo contare su personale limitato: in tale
contesto, di fronte irregolarità perpetrate prevalentemente al di fuori
dell’orario di servizio ed all’esterno della sede di lavoro ed in assenza di
segnali, anche minimi, che potessero far pensare a comportamenti illeciti
del funzionario, tali da giustificare una vigilanza “straordinaria”
sull’operato dello stesso, il controllo non avrebbe potuto essere diverso da
quello di fatto esercitato.
Le considerazioni della Corte
La Corte, entrando nel merito, ha ritenuto che la pretesa erariale fosse
meritevole di accoglimento nei confronti di entrambi i convenuti, ricorrendo
tutti i presupposti della contestata responsabilità amministrativa.
Per
quanto concerne la posizione del funzionario, il Collegio ha riconosciuto
pacifica la ricorrenza del cd "rapporto di servizio" con l’Amministrazione
danneggiata, nonché acclarate la sussistenza ed antigiuridicità delle
condotte contestate, alla luce della valutazione complessiva degli atti di
causa e di quelli derivanti dal parallelo procedimento penale –che ha
portato alla condanna del funzionario alla pena di 6 anni di reclusione per
i delitti di truffa e peculato, continuato ed in concorso con altri, nonché
all'interdizione in perpetuo dai pubblici uffici–, dai quali il giudice
contabile è legittimato a trarre elementi utili al proprio convincimento
(Corte Conti, Sez. giur. Lombardia n. 450/2012; Sez. giur. Friuli Venezia
Giulia n. 270/2011).
Alla responsabilità principale, di carattere doloso, per il Collegio si è
affiancata quella sussidiaria del Responsabile di Po: quest’ultimo, infatti,
pur essendo rimasto del tutto estraneo alle vicende penali, sulla base degli
atti e dei fatti esaminati, si è reso responsabile, a titolo di colpa grave,
di omessa vigilanza e/o controllo.
Infatti, per ben cinque anni, egli ha
firmato i provvedimenti di impegno/liquidazione predisposti dal funzionario,
senza avvertire mai la necessità di svolgere controlli, nemmeno a campione,
sull’attività preliminare ed istruttoria espletata. Considerato che la firma
del Responsabile sulle determine comporta, a suo carico, la piena
responsabilità dell’atto e dei relativi effetti, un controllo, anche
saltuario e a campione, sarebbe stato opportuno, se non necessario, a
prescindere ed indipendentemente da eventuali segnalazioni di anomalie e/o
irregolarità da parte di terzi.
In conclusione, alla luce del considerevole arco temporale di reiterazione,
le condotte omissive del Responsabile sono risultate, per la Corte,
connotate da colpa grave, alla luce dell’estrema noncuranza e superficialità
dimostrate per la salvaguardia delle risorse finanziarie del Comune di
Cascina, nonché, più in generale, per la corretta utilizzazione delle stesse
strumentale all’attuazione di valori di rilievo costituzionale, quali
l'imparzialità ed il buon andamento della Pa (articolo 97 della
Costituzione) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
03.10.2019).
---------------
SENTENZA
4. Alla responsabilità principale, di carattere doloso, del Sig. RO.
(per l’intero importo sopra visto) si affianca quella sussidiaria, a titolo
di colpa grave, della convenuta CA..
A tal riguardo, va in primo luogo rilevata la pacifica sussistenza del cd
rapporto di servizio tra l’Amministrazione danneggiata (Comune di Cascina) e
la Sig.ra CA., quale Responsabile di Posizione Organizzativa Autonoma
nell’ambito del Settore “Macrostruttura 6-Educativo e Socio Culturale”
della predetta Amministrazione.
Per quanto concerne il profilo dell’illiceità delle condotte serbate, il
Collegio, sulla base degli atti e fatti di causa, ritiene sicuramente di
escludere, in armonia con quanto fatto dall’Organo requirente, una
corresponsabilità dolosa della convenuta Ca..
Quest’ultima, infatti, è rimasta del tutto estranea alle vicende penali,
venendo, del resto, pienamente scagionata in quella sede dallo stesso Ro.
(vedasi interrogatorio reso al GIP in data 16.05.2017, ove il Ro. ha
espressamente dichiarato “…Le determine venivano firmate dal Dirigente
nel caso di specie la Dott.ssa Ca. che non era assolutamente consapevole di
quello che facevo”).
Nondimeno, sulla base degli stessi atti e fatti, risulta configurabile una
responsabilità della Sig.ra CA., a titolo di colpa grave per omessa
vigilanza e/o controllo.
Risulta, infatti, che la medesima CA., per un considerevole lasso temporale
(dal 2012 al 2017, epoca di svolgimento delle condotte illecite del Ro.,
secondo quanto emergente dai capi d’imputazione penale), si sia
completamente affidata al Ro. stesso, firmando, in maniera del tutto
acritica, i provvedimenti di impegno/liquidazione delle risorse dal medesimo
istruiti e predisposti, senza avvertire mai la necessità di svolgere
controlli, nemmeno a campione, sull’attività preliminare ed istruttoria
espletata (rectius, che avrebbe dovuto essere espletata) dal medesimo
(vedasi anche la relazione della Guardia di Finanza del 28.06.2017, prot. n.
0218909, con la documentazione contenuta nel dischetto informatico
allegato).
Sul punto, è appena il caso di rimarcare che colui il quale
firma, nell’esercizio precipuo delle competenze relative all’incarico di
responsabilità rivestito, determine comportanti l’attribuzione di risorse
finanziarie pubbliche in favore di soggetti terzi, si assume, con la
predetta sottoscrizione, la (piena) responsabilità dell’atto e dei relativi
effetti.
Di qui la necessità di un controllo, anche saltuario e a
campione, nel caso all’esame per
contro del tutto omesso, sull’attività preliminare e
propedeutica svolta dal responsabile del procedimento (o comunque
sull’operato dello stesso).
Tutto ciò a prescindere ed indipendentemente dalla
segnalazione di anomalie e/o irregolarità da parte di terzi.
Tale conclusione risulta invero confortata (anche) dalla particolare valenza
degli interessi coinvolti (nello specifico, quello alla corretta
utilizzazione delle risorse finanziarie pubbliche), strumentali
all’attuazione di valori di rilievo anche costituzionale (imparzialità e
buon andamento della P.A. ex art. 97 Cost.).
Né può ritenersi, in superamento delle argomentazioni difensive sul punto,
che tale controllo, nella fattispecie all’esame, non avrebbe potuto essere
concretamente esercitato dalla Sig.ra CA., per essersi l’attività illecita
del Sig. Ro. svolta prevalentemente al di fuori del rapporto di servizio
(investendo, in particolare, la richiesta di rimborso, supportata da false
motivazioni, delle somme erogate, a seguito di un’attività di erogazione che
sarebbe risultata di per sé lecita).
A tal riguardo, il Collegio ribadisce che, per quanto emerso in sede penale,
le condotte illecite del Sig. Ro. sono consistite essenzialmente nel:
a) richiedere, con false motivazioni, a vari asili nido la
restituzione di somme erogate in eccesso, al fine di creare una provvista di
cui poi appropriarsi, una volta ottenuta la restituzione di quanto
attribuito in eccesso rispetto al dovuto;
b) riconoscere ad associazioni (TE.TA.) e/o cooperative (TR.) “compiacenti”
contributi cui le stesse non avrebbero avuto diritto, per poi ottenere da
tali soggetti le somme in questione.
In entrambi i casi, l’appropriazione “illecita” è risultata possibile
per essere state le relative risorse previamente assegnate/liquidate con
determine firmate, in assenza di qualsivoglia controllo, da parte della
convenuta Ca..
La medesima assegnazione (e susseguente erogazione) risulta, invero,
anch’essa illecita, in quanto avvenuta in favore di cooperative/associazioni
“compiacenti”, non aventi titolo per beneficiarne, attesa la mancata
presentazione e/o svolgimento dei relativi progetti, ovvero intervenuta in
favore di soggetti (asili nido) astrattamente legittimati ad usufruirne, ma
in concreto destinatari di contributi superiori al dovuto.
Risulta allora evidente come i controlli omessi dalla Sig.ra CA. abbiano
consentito o quanto meno agevolato l’operazione illecita complessiva attuata
dal Ro., partita con l’assegnazione di somme a soggetti terzi (illecita per
le ragioni viste) e sfociata nella definitiva appropriazione (anch’essa
illecita) da parte del Ro. stesso (beneficiario “finale” della
medesima operazione).
Le condotte omissive serbate dalla Sig.ra CA. risultano,
invero, connotate da colpa grave, attesa l’estrema noncuranza e
superficialità mostrate per la salvaguardia delle risorse finanziarie del
Comune di Cascina.
Tutto ciò anche alla luce del considerevole arco temporale di reiterazione
delle condotte in questione e del mancato rinvenimento, nei fascicoli delle
determine acquisiti presso il Comune di Cascina, di traccia alcuna di
attività istruttoria (vedasi su tale ultimo punto pag. 6 della relazione
della Guardia di Finanza del 28.06.2017, prot. n. 218909).
Nondimeno, il Collegio, in considerazione delle peculiari circostanze del
caso concreto e del ruolo effettivamente rivestito nella vicenda de qua,
ritiene di limitare la responsabilità sussidiaria della Sig.ra Ca.
all’importo di euro 150.000,00.
5. In conclusione,
alla luce di tutto quanto sopra esposto, il Sig. RO.Al. va
condannato al pagamento, in favore del Comune di Cascina, dell’importo di
euro 372.863,25, a titolo di responsabilità principale di carattere
doloso.
Nel contempo, la Sig.ra CA.Ga. va condannata al pagamento,
in favore del Comune di Cascina, dell’importo di euro 150.000,00, a titolo
di responsabilità sussidiaria per colpa grave.
Sugli importi per cui è condanna, da ritenersi già comprensivi di
rivalutazione, vanno computati gli interessi, come da dispositivo. |
PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI: Incentivi
antievasione IMU e TARI solo se il bilancio è approvato entro il 31
dicembre.
Gli incentivi economici a favore dei dipendenti comunali per le attività
connesse al recupero dei tributi erariali (Imu e Tari) possono essere
corrisposti solo se l'ente approva tassativamente il bilancio di previsione
entro il 31 dicembre dell'anno precedente.
È questa l'importante indicazione contenuta nel
parere 18.09.2019 n. 52 della sezione regionale di controllo della
Corte dei conti dell'Emilia Romagna.
Il quesito
Il comma 1091, articolo 1, della legge di bilancio 2019 ha previsto la
possibilità per i Comuni di destinare una quota delle risorse derivanti dal
recupero dell'evasione dell'imposta municipale propria (Imu) e della Tari al
potenziamento delle risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla
gestione delle entrate e al trattamento accessorio del personale dipendente,
anche di qualifica dirigenziale, derogando al limite previsto dall'articolo
23, comma 2, del Dlgs 25.05.2017 n. 75.
Tra le condizioni che la norma pone per la sua applicazione vi è quella
secondo la quale l'ente deve aver approvato il bilancio di previsione e il
rendiconto «entro i termini stabiliti dal Tuel».
Ciò premesso un ente locale
ha chiesto alla Corte dei conti dell'Emilia Romagna se il termine per
l'approvazione del bilancio debba intendersi solo con riferimento al 31
dicembre dell'anno di riferimento (così come indicato nell'articolo 163,
comma 1, del Tuel) o può essere correttamente riferito al termine differito
(come previsto dal successivo comma 3, dell'articolo 163 del Tuel), con
specifica legge e/o decreti ministeriali.
La risposta
Per i giudici contabili la risposta al quesito formulato è nel senso che il
termine per l'approvazione del bilancio è da intendersi il 31 dicembre
dell'anno di riferimento e non anche il termine differito.
D'altronde «nell'ipotesi in cui il bilancio di previsione dell'ente non sia
approvato nel termine fisiologicamente indicato, il legislatore,
all'articolo 163 limita l'attività gestionale dell'ente a una serie di
attività tassativamente indicate e tra esse non può rientrarvi quella della
destinazione di incentivi al personale. E ciò in base alla sottesa
considerazione concernente la fase di criticità in cui versa quell'ente che
non sia in grado di corrispondere al fondamentale obiettivo della tempestiva
approvazione del bilancio di previsione, dal che discende, ex lege, una
gestione di tipo provvisorio dell'ente e limitata a specifiche attività».
Conclusioni
La posizione assunta dalla magistratura contabile emiliana spiazza molti
enti locali che hanno seguito l'indicazione fornita dall'Ifel nella nota di
approfondimento al comma 1091 della legge di bilancio 2019 dello scorso 28
febbraio (si veda Il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 04.03.2019).
L'istituto, infatti, aveva ritenuto soddisfatta la condizione imposta dalla
legge anche con l'approvazione del bilancio di previsione entro i termini
prorogati dal decreto ministeriale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
02.10.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI: Incentivi
Imu solo con bilancio entro il 31 dicembre.
La sezione regionale di controllo della Corte dei conti
dell'Emilia Romagna mette in seria crisi l'erogazione dell'incentivo Imu e
Tari introdotto dall'ultima legge di bilancio.
Il
parere 18.09.2019 n. 52
ha stabilito infatti che solo gli enti che hanno approvato il bilancio di
previsione entro il 31 dicembre possono stanziare le somme previste per
l'incentivazione del personale.
La norma della legge di bilancio
L'articolo 1, comma 1091, della legge 145/2018, dopo alcuni anni di assenza,
aveva reintrodotto la possibilità per i Comuni di prevedere somme
incentivanti in favore del personale addetto al raggiungimento degli
obiettivi del settore entrate. Subordinando tuttavia questa facoltà ad
alcune condizioni. In primo luogo, si tratta di una scelta facoltativa,
rimessa alla discrezione degli enti locali interessati.
Inoltre, la destinazione di una somma non superiore al 5 per cento del
maggior gettito accertato e riscosso relativo agli accertamenti Imu e Tari
dell'esercizio fiscale precedente al potenziamento delle risorse comunali
degli uffici entrate e al trattamento accessorio del personale impiegato nel
raggiungimento degli obiettivi del settore entrate, è subordinata
all'approvazione del bilancio di previsione e del rendiconto entro i termini
stabiliti dal testo unico degli enti locali.
Il rispetto del termine di approvazione del bilancio
La norma aveva ingenerato dei dubbi sull'individuazione dei suddetti
termini. In particolare per il bilancio di previsione, poiché l'articolo 151
del Dlgs 267/2000 stabilisce che il bilancio di previsione deve essere
approvato entro il 31 dicembre dell'anno precedente, prevedendo tuttavia che
«i termini possono essere differiti con decreto del ministro dell'Interno,
d'intesa con il ministro dell'Economia e delle finanze, sentita la
conferenza Stato-città e autonomie locali, in presenza di motivate esigenze.
L'Ifel, nella nota del 28.02.2019, ritiene che la condizione richiesta dalla
norma è comunque soddisfatta laddove l'ente approvi il bilancio entro i
termini stabiliti dal decreto ministeriale di proroga.
La Corte dei conti dell'Emilia Romagna, con la deliberazione sopra
richiamata, ha invece ritenuto che il termine per l'approvazione del
bilancio è da intendersi il 31 dicembre dell'anno di riferimento di cui
all'articolo 163, comma 1, del Dlgs 267/2000 e non anche il termine
differito di cui al comma 3 del medesimo articolo. Ciò in quanto l'articolo
163 del Tuel limita l'attività gestionale dell'ente a una serie di attività
tassativamente indicate e tra esse non può rientrarvi quella della
destinazione di incentivi al personale.
La Corte sostiene, infatti, che l'ente, nel caso di mancata approvazione del
bilancio nel termine, versa in una fase di criticità in quanto non è in
grado di corrispondere al fondamentale obiettivo dell'approvazione del
bilancio di previsione, dal che discende ex lege una gestione di tipo
provvisorio e limitata a specifiche attività.
La conclusione è tranchant. L'ente che non ha rispettato il termine del 31
dicembre, pur rispettando il termine fissato dal decreto di proroga, non può
stanziare per quell'anno (l'esercizio di riferimento) il fondo calcolato
sugli accertamenti Imu e Tari. Mettendo fuori gioco la maggior parte dei
Comuni italiani.
Considerazioni
Questa conclusione, a modesto parere di chi scrive, non tiene tuttavia conto
che laddove il legislatore, per consentire agli enti di beneficiare di
eventuali norme agevolative, ha voluto vincolare l'approvazione del bilancio
di previsione alla data del 31 dicembre, lo ha fatto espressamente. Si
pensi, ad esempio, al comma 905 dell'articolo 1 della medesima legge di
bilancio, che ha concesso agli enti che approvano il bilancio entro il 31
dicembre di non applicare alcuni limiti di spesa e di essere dispensati da
alcuni adempimenti, oppure all'analoga norma contenuta nell'articolo 21-bis,
comma 2, del Dl 50/2017.
L'aver fatto riferimento genericamente al termine previsto dal Tuel è indice
della volontà della norma di tenere conto di eventuali differimenti del
termine, sovente dovuti peraltro a cause non imputabili agli enti locali.
Inoltre, seppure è vero che l'ente che non approva il bilancio entro il 31
dicembre si trova a operare nei primi mesi dell'anno successivo in esercizio
provvisorio, tuttavia non si comprende come questa circostanza possa
impedire all'ente di stanziare le somme relative al fondo con l'approvazione
del bilancio di previsione (o meglio dopo l'approvazione del rendiconto
dell'esercizio precedente), incidendo i vincoli dell'esercizio provvisorio
sull'ente solo fino all'approvazione del documento contabile previsionale.
Una siffatta interpretazione appare molto penalizzante, considerando che
spesso i Comuni sono costretti ad approvare il bilancio dopo il termine
ordinario del 31 dicembre (peraltro sempre storicamente prorogato) a causa
delle mancate certezze sulle risorse disponibili, definite solitamente dallo
Stato a ridosso della fine dell'anno, con l'approvazione della legge di
bilancio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
27.09.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO -
TRIBUTI: Con
riferimento alla possibilità di istituire l’incentivo economico a favore dei
dipendenti comunali per le attività connesse alla partecipazione del Comune
all’accertamento dei tributi erariali e dei contributi sociali non
corrisposti e tenuto conto del disposto di cui all’art. 1, comma 1091, della
legge n. 145 del 2018, il termine per l’approvazione del bilancio deve
intendersi il 31/12 dell’anno di riferimento ai sensi dell’art. 163, comma
1, del d.lgs. n. 267/2000.
---------------
Il Sindaco del Comune di Sant’Agata Bolognese (BO) formula
seguente richiesta di parere: con riferimento alla possibilità di istituire
l’incentivo economico a favore dei dipendenti comunali per le attività
connesse alla partecipazione del Comune all’accertamento dei tributi
erariali e dei contributi sociali non corrisposti e tenuto conto del
disposto di cui all’art. 1, comma 1091, della legge n. 145 del 2018, “se
il termine per l’approvazione del bilancio debba intendersi solo con
riferimento al 31/12 dell’anno di riferimento ai sensi dell’art. 163, comma
1, del d.lgs. n. 267/2000 o può essere correttamente riferito al termine
differito, ai sensi dell’art. 163, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000, con
apposita legge e/o decreti ministeriali”.
...
2.1. Passando al merito, la risposta al quesito formulato è nel senso che il
termine per l’approvazione del bilancio è da intendersi il 31/12 dell’anno
di riferimento di cui all’art. 163, comma 1, del d.lgs. n. 267/2000 e non
anche il termine differito di cui all’art. 163, comma 3, del d.lgs. n.
267/2000.
2.2. Depone in tal senso la chiara disposizione di cui al citato art. 1,
comma 1091, della legge n. 145 del 2018, secondo la quale “1091. Ferme
restando le facoltà di regolamentazione del tributo di cui all'articolo 52
del decreto legislativo 15.12.1997, n. 446, i comuni che hanno approvato il
bilancio di previsione ed il rendiconto entro i termini stabiliti dal testo
unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, possono, con proprio
regolamento, prevedere che il maggiore gettito accertato e riscosso,
relativo agli accertamenti dell'imposta municipale propria e della TARI,
nell'esercizio fiscale precedente a quello di riferimento risultante dal
conto consuntivo approvato, nella misura massima del 5 per cento, sia
destinato, limitatamente all'anno di riferimento, al potenziamento delle
risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla gestione delle
entrate e al trattamento accessorio del personale dipendente, anche di
qualifica dirigenziale, in deroga al limite di cui all'articolo 23, comma 2,
del decreto legislativo 25.05.2017, n. 75. La quota destinata al trattamento
economico accessorio, al lordo degli oneri riflessi e dell'IRAP a carico
dell'amministrazione, è attribuita, mediante contrattazione integrativa, al
personale impiegato nel raggiungimento degli obiettivi del settore entrate,
anche con riferimento alle attività connesse alla partecipazione del comune
all'accertamento dei tributi erariali e dei contributi sociali non
corrisposti, in applicazione dell'articolo 1 del decreto-legge 30.09.2005,
n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 02.12.2005, n. 248. Il
beneficio attribuito non può superare il 15 per cento del trattamento
tabellare annuo lordo individuale. La presente disposizione non si applica
qualora il servizio di accertamento sia affidato in concessione.”.
Invero, l’inciso di cui alla norma citata consente la facoltà di destinare
risorse per incentivi al personale per l’accertamento di imposte municipali
alla condizione dell’approvazione del bilancio di previsione e del
rendiconto “entro i termini stabiliti dal testo unico di cui al decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267”, e cioè nei termini previsti dall’art.
163, comma 1, Tuel1, e dunque solo nel caso in cui il bilancio di
previsione sia approvato dal Consiglio entro il 31 dicembre dell'anno
precedente.
D’altro canto, nell’ipotesi in cui il bilancio di previsione dell’ente non
sia approvato nel termine fisiologicamente indicato, il legislatore,
all’art. 163 citato, limita l’attività gestionale dell’ente ad una serie di
attività tassativamente indicate e tra esse non può rientrarvi quella della
destinazione di incentivi al personale.
E ciò in base alla sottesa considerazione concernente la fase di criticità
in cui versa quell’ente che non sia in grado di corrispondere al
fondamentale obiettivo della tempestiva approvazione del bilancio di
previsione, dal che discende, ex lege, una gestione di tipo
provvisorio dell’ente e limitata a specifiche attività.
---------------
11. Se il bilancio di previsione non è approvato
dal Consiglio entro il 31 dicembre dell'anno precedente, la gestione
finanziaria dell'ente si svolge nel rispetto dei principi applicati della
contabilità finanziaria riguardanti l'esercizio provvisorio o la gestione
provvisoria. Nel corso dell'esercizio provvisorio o della gestione
provvisoria, gli enti gestiscono gli stanziamenti di competenza previsti
nell'ultimo bilancio approvato per l'esercizio cui si riferisce la gestione
o l'esercizio provvisorio, ed effettuano i pagamenti entro i limiti
determinati dalla somma dei residui al 31 dicembre dell'anno precedente e
degli stanziamenti di competenza al netto del fondo pluriennale vincolato.
2. Nel caso in cui il bilancio di esercizio non sia approvato entro
il 31 dicembre e non sia stato autorizzato l'esercizio provvisorio, o il
bilancio non sia stato approvato entro i termini previsti ai sensi del comma
3, è consentita esclusivamente una gestione provvisoria nei limiti dei
corrispondenti stanziamenti di spesa dell'ultimo bilancio approvato per
l'esercizio cui si riferisce la gestione provvisoria. Nel corso della
gestione provvisoria l'ente può assumere solo obbligazioni derivanti da
provvedimenti giurisdizionali esecutivi, quelle tassativamente regolate
dalla legge e quelle necessarie ad evitare che siano arrecati danni
patrimoniali certi e gravi all'ente. Nel corso della gestione provvisoria
l'ente può disporre pagamenti solo per l'assolvimento delle obbligazioni già
assunte, delle obbligazioni derivanti da provvedimenti giurisdizionali
esecutivi e di obblighi speciali tassativamente regolati dalla legge, per le
spese di personale, di residui passivi, di rate di mutuo, di canoni, imposte
e tasse, ed, in particolare, per le sole operazioni necessarie ad evitare
che siano arrecati danni patrimoniali certi e gravi all'ente.
3. L'esercizio provvisorio è autorizzato con legge o con decreto
del Ministro dell'interno che, ai sensi di quanto previsto dall'art. 151,
primo comma, differisce il termine di approvazione del bilancio, d'intesa
con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza
Stato-città ed autonomia locale, in presenza di motivate esigenze. Nel corso
dell'esercizio provvisorio non è consentito il ricorso all'indebitamento e
gli enti possono impegnare solo spese correnti, le eventuali spese correlate
riguardanti le partite di giro, lavori pubblici di somma urgenza o altri
interventi di somma urgenza. Nel corso dell'esercizio provvisorio è
consentito il ricorso all'anticipazione di tesoreria di cui all'art. 222.
4. All'avvio dell'esercizio provvisorio o della gestione
provvisoria l'ente trasmette al tesoriere l'elenco dei residui presunti alla
data del 1° gennaio e gli stanziamenti di competenza riguardanti l'anno a
cui si riferisce l'esercizio provvisorio o la gestione provvisoria previsti
nell'ultimo bilancio di previsione approvato, aggiornati alle variazioni
deliberate nel corso dell'esercizio precedente, indicanti -per ciascuna
missione, programma e titolo- gli impegni già assunti e l'importo del fondo
pluriennale vincolato.
5. Nel corso dell'esercizio provvisorio, gli enti possono impegnare
mensilmente, unitamente alla quota dei dodicesimi non utilizzata nei mesi
precedenti, per ciascun programma, le spese di cui al comma 3, per importi
non superiori ad un dodicesimo degli stanziamenti del secondo esercizio del
bilancio di previsione deliberato l'anno precedente, ridotti delle somme già
impegnate negli esercizi precedenti e dell'importo accantonato al fondo
pluriennale vincolato, con l'esclusione delle spese: a) tassativamente
regolate dalla legge; b) non suscettibili di pagamento frazionato in
dodicesimi; c) a carattere continuativo necessarie per garantire il
mantenimento del livello qualitativo e quantitativo dei servizi esistenti,
impegnate a seguito della scadenza dei relativi contratti.
6. I pagamenti riguardanti spese escluse dal limite dei dodicesimi
di cui al comma 5 sono individuati nel mandato attraverso l'indicatore di
cui all'art. 185, comma 2, lettera i-bis).
7. Nel corso dell'esercizio provvisorio, sono consentite le
variazioni di bilancio previste dall'art. 187, comma 3-quinquies, quelle
riguardanti le variazioni del fondo pluriennale vincolato, quelle necessarie
alla reimputazione agli esercizi in cui sono esigibili, di obbligazioni
riguardanti entrate vincolate già assunte, e delle spese correlate, nei casi
in cui anche la spesa è oggetto di reimputazione l'eventuale aggiornamento
delle spese già impegnate. Tali variazioni rilevano solo ai fini della
gestione dei dodicesimi (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 18.09.2019 n. 52). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Obblighi
di pubblicità e trasparenza bandi di concorso.
Domanda
Tra poche settimane dovremo pubblicare un bando di concorso. Quali sono gli
obblighi di trasparenza che ha il comune?
Risposta
Relativamente ai bandi di concorso, la legislazione vigente prevede vari e
diversi obblighi di pubblicità e trasparenza.
Il primo è rappresentato dalla pubblicazione del bando nella Gazzetta
Ufficiale, 4ª Serie Speciale – Concorsi ed Esami. Come previsto
dall’articolo 4, comma 1-bis, del DPR 09.05.1994, n. 487, per gli enti
locali, la diffusione in Gazzetta può essere sostituita dalla pubblicazione,
sempre nella G.U., del solo avviso di concorso, contenente gli estremi del
bando e l’indicazione della scadenza del termine per la presentazione delle
domande.
Il secondo obbligo è quello di pubblicare il bando e il relativo schema di
domanda di partecipazione all’albo pretorio on-line dell’ente, per tutta la
durata del termine di presentazione della domanda. Per evitare possibili
confusioni tra le date è bene che la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e
quella all’albo pretorio comunale sia prevista nella stessa data.
Sempre nella medesima data, parte il terzo obbligo che è quello di
pubblicare il bando e lo schema di domanda nella sezione del sito web,
denominata Amministrazione trasparente > Bandi di concorso.
Per tale sezione gli obblighi di trasparenza sono fissati nell’articolo 19,
del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, che testualmente recita:
Art. 19 Bandi di concorso
1. Fermi restando gli altri obblighi di pubblicità legale, le
pubbliche amministrazioni pubblicano i bandi di concorso per il
reclutamento, a qualsiasi titolo, di personale presso l’amministrazione,
nonché i criteri di valutazione della Commissione e le tracce delle prove
scritte.
2. Le pubbliche amministrazioni pubblicano e tengono costantemente
aggiornato l’elenco dei bandi in corso.
Come si può notare, gli obblighi contenuti nel decreto Trasparenza (d.lgs.
33/2013) fanno salvi gli altri obblighi di pubblicità legale (Gazzetta e
albo) e non si limitano alla pubblicazione del bando e del fac-simile di
domanda, ma riguardano anche:
• i criteri di valutazione della Commissione (spesso previsti nel
regolamento dei concorsi ed eventualmente integrati dalla Commissione
stessa, nella sua prima seduta);
• le tracce delle prove scritte, intendendo sia quelle estratte per
lo svolgimento delle prove, sia quelle preparate dalla Commissione e non
utilizzate nella procedura concorsuale.
Con le ultime modifiche introdotte dall’articolo 18, del decreto legislativo
25.05.2016, n. 97, è stato soppresso l’obbligo di pubblicare tutti i bandi
espletati nel corso dell’ultimo triennio, accompagnati dall’indicazione, per
ciascuno di essi, del numero dei dipendenti assunti e delle spese sostenute
per l’espletamento del concorso.
Contrariamente a quanto previsto per le commissioni di gara (si veda
articolo 37, comma 1, lettera b, del d.lgs. 33/2013 e art. 29, comma 1,
d.lgs. 50/2016), per i bandi di concorso non vengono previsti obblighi
particolari di pubblicità circa la composizione della commissione
giudicatrice, né per la pubblicazione dei curricula dei suoi
componenti
(10.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sullo
scorrimento delle graduatorie dei concorsi pre-2019 in Corte dei conti vince
il «sì».
Si possono scorrere le graduatorie dei concorsi banditi prima del 2019? Per
la maggioranza delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti
fin qui intervenute, tra cui in modo esplicito quella della Marche, la
risposta è positiva; per i giudici contabili della Sardegna la risposta è
negativa.
È questa l'ennesima occasione su cui una disposizione di legge,
per la verità molto lacunosa tecnicamente, viene letta in modo differente
dai giudici contabili, peraltro nell'assenza in questa occasione di
indicazioni da parte dei ministeri. Il caso torna a sollevare ancora una
volta la necessità di migliorare la tecnica di redazione delle leggi e di
garantire omogeneità nelle interpretazioni.
Il nuovo quadro normativo
Sulla base delle disposizioni della legge di bilancio del 2019, e questo è
un dato acclarato, le graduatorie dei concorsi banditi a partire dallo
scorso 1° gennaio non potranno essere utilizzate per scorrimento né da parte
degli enti che hanno indetto le selezioni concorsuali né da parte di altre
amministrazioni.
Sulla base delle modifiche introdotte dalla legge di
conversione del Dl 135/2018 le graduatorie dei concorsi banditi dal 2019
vanno comunque utilizzate per scorrimento per la sostituzione dei vincitori
non assunti o decaduti o dimessi durante il periodo di validità della
stessa. Con una deroga introdotta dalla legge di conversione del Dl 34/2019
il divieto di scorrimento per le assunzioni degli idonei non si applica al
personale educativo e docente degli enti locali.
Il
parere
06.09.2019 n. 41 della
sezione regionale di controllo della Corte dei conti delle Marche
(già sul Quotidiano degli enti locali e della Pa del 10 settembre) ha
opportunamente aggiunto che queste graduatorie possono comunque essere
utilizzate per le assunzioni del personale a tempo indeterminato, in quanto
la disposizione che lo consente (articolo 36 del Dlgs 165/2001) costituisce
una norma speciale e non è quindi abrogata in modo implicito delle nuove
disposizioni.
Questa stessa deliberazione in modo esplicito e facendo seguito a quanto
implicitamente contenuto nelle pronunce delle sezioni regionali di controllo
della Puglia (parere
09.07.2019 n. 72) e del Veneto (parere
22.05.2019 n. 113) chiarisce che il
legislatore non ha introdotto un divieto di scorrimento delle graduatorie a
tempo indeterminato per i concorsi banditi negli anni precedenti, ma
solamente per quelli banditi a partire dal 2019. Con ciò smentendo il
parere 03.07.2019 n. 36
dei giudici contabili della Sardegna.
È da
considerare assodato che con la legge di bilancio è stata invertita la
logica che ha ispirato il legislatore negli ultimi anni, cioè il favore per
lo strumento dello scorrimento delle graduatorie. Ma, punto del contrasto,
questa inversione si applica solamente per i concorsi del 2019 o si estende
a tutti, con l'abrogazione implicita dell'articolo 3, comma 61, della legge
350/2003?
Effetti e interpretazioni di legge
È del tutto evidente che lo scorrimento delle graduatorie abbrevia i tempi
in cui si porta a conclusione un'assunzione ed è molta "comoda" per l'ente,
perché evita di dovere indire e attuare un concorso e, quindi, comporta
oneri finanziari e organizzativi assai contenuti. Dall'altro lato, è del
tutto evidente che gli idonei non sono dei vincitori e che la possibilità di
attingere senza limiti numerici, tanto più se congiunto all'allungamento dei
periodi di validità delle graduatorie, possono determinare rilevanti effetti distorsivi.
L'eccessiva durata delle graduatorie è stata tolta di mezzo
dalla legge di bilancio, visto che dal 1° gennaio non sono più utilizzabili
le graduatorie approvate fino a tutto il 2009, dal prossimo 30 settembre non
lo saranno più quelle approvate negli anni dal 2010 al 2014 ed entro pochi
anni si ritorna alla validità triennale di tutte le graduatorie. Ma
l'utilizzazione delle graduatorie non ha limiti numerici.
È opportuno ricordare infine, richiamando le indicazioni dei giudici
contabili marchigiani, che lo scorrimento delle graduatorie, sia da parte
dell'ente che ha indetto il concorso sia da parte delle altre
amministrazioni, è vietato per i posti di nuova istituzione o che risultano
dalla trasformazione dei posti esistenti. Un divieto che peraltro deve
essere chiarito dopo che con la legge Madia il rilievo delle dotazioni
organiche è stato significativamente ridimensionato.
E, ancora, si deve ricordare che la possibilità di utilizzare per
scorrimento graduatorie di altri enti sulla base di intese raggiunte dopo
che la loro approvazione costituisce una deroga ai principi di carattere
generale, quindi da applicare in via eccezionale, e comunque le
amministrazioni si devono dare meccanismi predeterminati e trasparenti di
scelta delle graduatorie da utilizzare, senza ad esempio poterne sovvertire
l'ordine di merito (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
12.09.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Graduatorie, largo agli idonei. Sì allo
scorrimento per i bandi antecedenti al 2019. La Corte dei conti Marche
sconfessa la sezione Sardegna.
Graduatorie, largo agli idonei Per i bandi antecedenti al 2019 è ancora
possibile sia lo scorrimento delle graduatorie degli idonei, sia l'utilizzo
delle graduatorie di altri enti.
Lo ha chiarito la Corte conti Marche nel
parere
06.09.2019 n. 41.
In risposta ad alcuni quesiti sulla possibilità di scorrere le graduatorie,
la sezione Marche della magistratura contabile si discosta, correttamente,
dall'erronea interpretazione fornita dalla sezione Sardegna col
parere 03.07.2019 n. 36,
ammettendo che per i bandi antecedenti al 2019 sia ancora possibile sia lo
scorrimento delle graduatorie degli idonei, sia l'utilizzo delle graduatorie
di altri enti.
Nell'affrontare la questione della possibilità di scorrere le graduatorie
degli idonei allo scopo di assumere a tempo determinato, invece, il parere
della sezione Marche inciampa in evidenti equivoci. Esso afferma che «per
le assunzioni a tempo determinato di idonei non vincitori di graduatorie a
tempo indeterminato è possibile derogare all'obbligo di utilizzo delle
graduatorie per i soli posti messi a concorso previsto dal combinato
disposto dei commi 361 e 365 dell'art. 1 della legge n. 145 del 2018».
Quindi, per la sezione Marche, mentre i dipendenti a tempo indeterminato si
possono assumere attingendo solo ai vincitori, al contrario i dipendenti a
tempo determinato potrebbero essere assunti anche chiamando gli idonei non
vincitori.
Questo perché «in sostanza, l'art. 36, comma 2, dlgs 165/2001 costituisce
una normativa di carattere speciale rispetto alle previsioni della legge n.
145 del 2018, dettata da una ratio differente». La specialità di tale
disposizione, secondo la magistratura contabile sarebbe «supportata non
solo dalla interpretazione teleologica dell'intervento normativo che l'ha
introdotta ma anche dalla stessa interpretazione letterale e sistematica
della legge n. 145 del 2018, che ha abrogato solo alcune delle disposizioni
contenute nel medesimo art. 4 del decreto-legge n. 101 del 2013, ma non
quella modificativa dell'art. 36, comma 2, dlgs 165/2001».
Tale impianto interpretativo non regge. L'articolo 36, comma 2, penultimo
periodo, del dlgs 165/2001 dispone: «Per prevenire fenomeni di
precariato, le amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle disposizioni
del presente articolo, sottoscrivono contratti a tempo determinato con i
vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi
pubblici a tempo indeterminato».
È vero che la disposizione citata consente di sottoscrivere i contratti a
termine sia coi vincitori, sia con gli idonei. Ma, altrettanto vero è che
occorra, nel nuovo regime normativo, coordinare tale disposizioni con le
previsioni contenute nell'articolo 1, comma 361, della legge 145/2018, ai
sensi del quale a partire dalle procedure bandite nel 2019 si possono
assumere solo i vincitori e non gli idonei (ferma la possibilità di scorrere
le graduatorie quando per qualsiasi ragione il rapporto di lavoro con i
vincitori non si sia costituito o si sia interrotto entro la vigenza delle
graduatorie).
Lo scopo dichiarato dell'articolo 36, comma 2, del dlgs 165/2001 è evitare
il fenomeno del precariato. In un regime nel quale lo scorrimento delle
graduatorie fino alla chiamata degli idonei è ammesso, un idoneo assunto a
tempo determinato può contare su una futura assunzione a tempo indeterminato
dovuta appunto allo scorrimento della graduatoria; dunque, la sua assunzione
a termine attenua la «precarietà» insita in un contratto flessibile.
Ma, nel nuovo regime, un idoneo non può vantare alcuna fondata aspettativa
allo scorrimento della graduatoria a tempo indeterminato. Quindi, una sua
assunzione con contratto a termine molto difficilmente precederebbe una
successiva assunzione a tempo indeterminato.
Pertanto, la chiamata con contratto a termine di idonei di graduatorie a
tempo indeterminato, esattamente all'opposto della tesi proposta dalla
sezione Marche, finisce proprio per tradursi senza dubbio alcuno nella
produzione di precariato pubblico, in aperta violazione della prescrizione
normativa, che va vista nella combinazione tra articoli 1, comma 361, della
legge 145/2018 e articolo 36, comma 2, penultimo periodo, del dlgs 165/2001,
norma, quindi, da non poter in alcun modo considerare come «speciale»,
ma necessariamente da coordinare e integrare con le disposizioni della legge
di Bilancio 2019
(articolo ItaliaOggi dell'11.09.2019).
---------------
Con nota a firma del Sindaco del Comune di Falconara Marittima (AN), pervenuta via PEC in data 08.08.2019 per il tramite del CAL,
il Comune
di Falconara Marittima ha avanzato a questa Corte una richiesta di parere,
ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge n. 131 del 2003, concernente
l’interpretazione della normativa vigente in materia di utilizzo di
graduatorie concorsuali.
In particolare, l’Ente ha chiesto se:
· alla luce della perdurante vigenza dell’art. 36, comma 2, penultimo
capoverso, del decreto legislativo n. 165 del 2001, le graduatorie di
concorsi, banditi successivamente al 01.01.2019 per posti a tempo
indeterminato, possano essere correttamente utilizzate –nel rispetto dei
limiti e vincoli delle norme contabili– per assunzioni a tempo determinato,
domandando, altresì, in caso positivo, di specificare i limiti e le modalità
procedurali sia nel caso di utilizzo di proprie graduatorie che di
graduatorie di altri comuni;
· alla luce delle vigenti norme, si ritiene ancora possibile l’assunzione
mediante scorrimento degli idonei della graduatoria di altro ente formata a
seguito di un bando pubblicato precedentemente al 01.01.2019, in quanto
fuori dall’ambito applicativo della legge n. 145 del 2018.
Al riguardo, l’Ente ha chiesto l’interpretazione di specifiche disposizioni
di legge, quali l’art. 1, comma 363, della legge n. 145 del 2018; l’art. 4,
comma 3-ter, del decreto-legge n. 101 del 2013; l’art. 36, comma 2, del
decreto legislativo n. 165 del 2001, facendo presente che la propria tesi
interpretativa è favorevole per entrambe le questioni.
...
Nel merito
1. Normativa di riferimento
Passando a trattare il merito della questione sottoposta al vaglio della
Sezione, ferma restando la normativa in materia di vincoli di spesa e di
vincoli assunzionali vigenti, in merito alla quale si rinvia alla costante
giurisprudenza della Corte dei conti (ex multis, Sezione regionale di
controllo per la Puglia,
parere 09.07.2019 n. 72, Sezione regionale di
controllo per il Veneto,
parere 20.12.2018 n. 548), appare opportuno
effettuare un sintetico excursus della normativa in applicazione.
1.1. Il d.l. 31.08.2013, n. 101, convertito in legge 30.10.2013, n.
125, recante “Disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di
razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni”, ha introdotto, all’art.
4, una serie di disposizioni volte a consentire alle pubbliche
amministrazioni di sottoscrivere contratti a tempo determinato con i
vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi
pubblici a tempo indeterminato. In particolare, il medesimo articolo:
· ha modificato l’art. 36, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001,
introducendo l’ultimo periodo, ancora in vigore, che dispone: “Per prevenire
fenomeni di precariato, le amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle
disposizioni del presente articolo, sottoscrivono contratti a tempo
determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti
per concorsi pubblici a tempo indeterminato. È consentita l'applicazione
dell'articolo 3, comma 61, terzo periodo, della legge 24.12.2003, n.
350, ferma restando la salvaguardia della posizione occupata nella
graduatoria dai vincitori e dagli idonei per le assunzioni a tempo
indeterminato”;
· ha previsto, al comma 3, che “per le amministrazioni dello Stato, anche ad
ordinamento autonomo, le agenzie, gli enti pubblici non economici e gli enti
di ricerca, l'autorizzazione all'avvio di nuove procedure concorsuali, ai
sensi dell'articolo 35, comma 4, del decreto legislativo 30.03.2001, n.
165, e successive modificazioni, è subordinata alla verifica: a)
dell'avvenuta immissione in servizio, nella stessa amministrazione, di tutti
i vincitori collocati nelle proprie graduatorie vigenti di concorsi pubblici
per assunzioni a tempo indeterminato per qualsiasi qualifica, salve
comprovate non temporanee necessità organizzative adeguatamente motivate; b)
dell'assenza, nella stessa amministrazione, di idonei collocati nelle
proprie graduatorie vigenti e approvate a partire dal 01.01.2007,
relative alle professionalità necessarie anche secondo un criterio di
equivalenza”;
· ha previsto, al comma 3-bis, che “per la copertura dei posti in organico,
è comunque necessaria la previa attivazione della procedura prevista
dall'articolo 33 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive
modificazioni, in materia di trasferimento unilaterale del personale eccedentario”.
· ha previsto, al comma 3-ter, che “resta ferma per i vincitori e gli idonei
delle graduatorie di cui al comma 3 del presente articolo l'applicabilità
dell'articolo 3, comma 61, terzo periodo, della legge 24.12.2003, n.
350”;
· ha disposto, al comma 3-quater, che “l'assunzione dei vincitori e degli
idonei, nelle procedure concorsuali già avviate dai soggetti di cui al comma
3 e non ancora concluse alla data di entrata in vigore della legge di
conversione del presente decreto, è subordinata alla verifica del rispetto
della condizione di cui alla lettera a) del medesimo comma”.
Fino alla legge n. 145 del 2018, gli interventi normativi hanno esteso la
possibilità di utilizzo delle graduatorie concorsuali, mediante il loro
scorrimento, per l’assunzione dei candidati idonei non vincitori.
In particolare, con il decreto-legge n. 101 del 2013, il legislatore ha
limitato l’autorizzazione all’avvio di nuove procedure concorsuali,
prevedendo preliminarmente la verifica di una serie di condizioni quali:
a)
l’avvenuta immissione in servizio, nella stessa Amministrazione, di tutti i
vincitori collocati nelle proprie graduatorie vigenti di concorsi pubblici
per assunzioni a tempo indeterminato per qualsiasi qualifica, salve
comprovate non temporanee necessità organizzative adeguatamente motivate; e
b) l’assenza, nella stessa Amministrazione, di idonei collocati nelle
proprie graduatorie vigenti e approvate a partire dal 01.01.2007,
relative alle professionalità necessarie anche secondo un criterio di
equivalenza.
Oltre a ciò, lo stesso corpo normativo ha previsto ulteriori condizioni,
quali la previa attivazione della procedura prevista dall’articolo 33 del
decreto legislativo n. 165 del 2001, in materia di trasferimento unilaterale
del personale eccedentario.
Inoltre, veniva fatta salva, per i vincitori e gli idonei delle graduatorie
di cui sopra, l’applicabilità dell’articolo 3, comma 61, terzo periodo,
della legge 24.12.2003, n. 350, mentre anche l’assunzione dei
vincitori e degli idonei, nelle procedure concorsuali già avviate dai
soggetti di cui sopra e non ancora concluse alla data di entrata in vigore
della legge di conversione, veniva subordinata alla verifica del rispetto
della condizione dell’avvenuta immissione in servizio, nella stessa
Amministrazione, di tutti i vincitori collocati nelle proprie graduatorie
vigenti di concorsi pubblici per assunzioni a tempo indeterminato per
qualsiasi qualifica, salve comprovate non temporanee necessità organizzative
adeguatamente motivate.
Tali prescrizioni, inizialmente dettate per le amministrazioni dello Stato,
anche ad ordinamento autonomo, le agenzie, gli enti pubblici non economici e
gli enti di ricerca, sono state estese anche agli enti locali dall’art. 3,
comma 5-ter, del decreto-legge n. 90 del 2014, secondo cui i principi
dell’art. 4, comma 3, del decreto-legge n. 101 del 2013, convertito, con
modifiche, dalla legge n. 114 del 2014, si applicano alle amministrazioni di
cui al comma 5 del medesimo art. 3 ovvero alle regioni e agli enti
sottoposti al patto di stabilità interno.
Peraltro, la giurisprudenza ha riconosciuto un “generale favor
dell’ordinamento per lo scorrimento di graduatorie ancora efficaci ai fini
della copertura di posti vacanti nella pianta organica” (si veda, ex multis,
Sezione regionale di controllo per il Veneto, deliberazione n. 371/2018/PAR,
Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria n. 14/2011, Sezione regionale di
controllo per la Campania, deliberazione n. 158/2018/PAR).
In particolare, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la
decisione di scorrimento della graduatoria preesistente ed efficace
rappresenta ormai la regola generale, mentre l’indizione del nuovo concorso
costituisce l’eccezione e richiede un’apposita e approfondita motivazione,
che dia conto del sacrificio imposto ai concorrenti idonei e delle
preminenti esigenze di interesse pubblico (TAR Lazio, sent. n. 3444/2012,
TAR Campania, Napoli, sent. n. 366/2017, Consiglio di Stato, sent. n.
6247/2013), senza che tuttavia sia configurabile un diritto soggettivo
all’assunzione in capo agli idonei per il solo fatto della disponibilità di
posti in organico: infatti, l’Amministrazione deve sempre motivare le forme
prescelte per il reclutamento, tenendo conto delle graduatorie vigenti e del
fatto che “l’ordinamento attuale afferma un generale favore per
l’utilizzazione delle graduatorie degli idonei, che recede solo in presenza
di speciali discipline di settore o di particolari circostanze di fatto o di
ragioni di interesse pubblico prevalenti, che devono, comunque, essere
puntualmente enucleate nel provvedimento di indizione del nuovo concorso”
(Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 14 del 2011).
1.2. Successivamente, il comma 363 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018
ha modificato il decreto-legge n. 101 del 2013 sopra richiamato, abrogando
la lettera b) del comma 3 e i commi 3-ter e 3-quater dell’art. 4.
In particolare, i commi 360-367 della citata legge, concernenti le modalità
delle procedure concorsuali per il reclutamento del personale nelle
pubbliche amministrazioni, hanno ammesso l’utilizzo delle graduatorie
concorsuali solo per la copertura dei posti messi a concorso e hanno
modificato, in via transitoria, i termini di vigenza delle graduatorie
medesime. I commi in esame riguardano tutte le pubbliche amministrazioni (di
cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, e
successive modificazioni), con esclusione delle assunzioni del personale
scolastico (ivi compresi i dirigenti) e del personale delle istituzioni di
alta formazione artistica, musicale e coreutica.
In particolare, il comma 360 ha esteso a tutte le procedure concorsuali
delle pubbliche amministrazioni le modalità semplificate che verranno
definite con il regolamento ministeriale di cui al precedente comma 300.
I commi 361 e 365 hanno previsto, con riferimento alle procedure concorsuali
bandite dopo il 01.01.2019, che le relative graduatorie siano impiegate
esclusivamente per la copertura dei posti messi a concorso, fermi restando i
termini di vigenza delle medesime graduatorie.
Tali termini sono stati modificati, in via transitoria, dal successivo comma
362, che ha posto termini di durata specifici a seconda dell'anno di
approvazione della graduatoria, con riferimento agli anni 2010-2018, mentre
è stato confermato il termine già vigente di 3 anni per le graduatorie
approvate a decorrere dal 01.01.2019. E’ stata, inoltre, esplicitamente
confermata la possibilità, per le leggi regionali, di stabilire periodi di
vigenza inferiori.
Infine, i commi 363 e 364 hanno abrogato alcune norme, ai fini del
coordinamento con i principi citati.
Come evidenziato nel recente
parere 03.07.2019 n. 36 della Sezione di
controllo della Corte dei conti per la regione Sardegna, i due interventi
normativi hanno una ratio differente: infatti, mente il primo (decreto-legge
n. 101 del 2013) si colloca in un quadro normativo da cui emerge una
preferenza per l’assunzione di personale mediante lo scorrimento di
graduatorie, proprie o altrui, il secondo (legge n. 145 del 2018), con le
disposizioni innanzi richiamate, ha introdotto una evidente discontinuità
con gli interventi normativi precedenti: infatti, la disciplina dettata
dall’art. 1, comma 361, della legge n. 145 del 2018, nel prevedere che le
graduatorie dei concorsi siano utilizzate “esclusivamente” per la copertura
dei posti messi a concorso, impedisce l’utilizzo della medesima graduatoria
per la copertura di qualsiasi altro posto diverso da quelli messi a
concorso, sia esso della medesima o di altra Amministrazione.
Lo scorrimento della graduatoria viene quindi limitato, a partire dal 2019,
alla sola possibilità di attingere ai candidati “idonei” per la copertura di
posti che, pur essendo stati messi a concorso, non siano stati coperti o
siano successivamente divenuti scoperti nel periodo di permanente efficacia
della graduatoria medesima.
Come rimarcato nella deliberazione sopra richiamata, “la regola introdotta
dal menzionato art. 1, comma 361, della legge n. 145/2018, pertanto,
determina una inversione di tendenza nella utilizzabilità delle graduatorie
di concorso, non consentendo più lo scorrimento da parte di altre
amministrazioni, né da parte della medesima Amministrazione che intendesse
utilizzare una propria graduatoria, ancora efficace, per la copertura di un
posto diverso da quelli messi a concorso. Il successivo art. 1, comma 363,
nell’abrogare alcune norme che prevedevano la possibilità di utilizzare le
graduatorie di altre amministrazioni, si pone in coerenza con la volontà
legislativa espressa nella nuova regola generale di cui al comma 361: da un
lato, infatti, si crea uno stretto collegamento tra graduatoria e posto
messo a concorso; dall’altro, coerentemente, vengono abrogate le norme che
prevedevano l’utilizzo della graduatoria per la copertura di posti diversi
da quelli messi a concorso” (Sezione di controllo per la Sardegna,
parere 03.07.2019 n. 36).
1.3. Si evidenzia che i sopra citati commi della legge n. 145 del 2018 sono
stati modificati di recente dall’articolo 9-bis, comma 1, lettera a), del
decreto-legge 14.12.2018, n. 135, convertito in legge, con
modificazioni, dalla legge 11.02.2019, n. 12, dall'articolo 14-ter,
comma 2, del decreto-legge 28.01.2019, n. 4, convertito in legge, con
modificazioni, dalla legge 28.03.2019, n. 26 e dall’articolo 33, comma
2-bis, del decreto-legge 30.04.2019, n. 34, convertito in legge, con
modificazioni, dalla legge 28.06.2019, n. 58.
In particolare, il comma 361 è stato modificato dall’art. 14-ter del
decreto-legge 28.01.2019, n. 4, che ha aggiunto, dopo le parole «a
concorso», le seguenti: «nonché di quelli che si rendono disponibili, entro
i limiti di efficacia temporale delle graduatorie medesime, fermo restando
il numero dei posti banditi e nel rispetto dell'ordine di merito, in
conseguenza della mancata costituzione o dell'avvenuta estinzione del
rapporto di lavoro con i candidati dichiarati vincitori. Le graduatorie
possono essere utilizzate anche per effettuare, entro i limiti percentuali
stabiliti dalle disposizioni vigenti e comunque in via prioritaria rispetto
alle convenzioni previste dall'articolo 11 della legge 12.03.1999, n. 68,
le assunzioni obbligatorie di cui agli articoli 3 e 18 della medesima legge
n. 68 del 1999, nonché quelle dei soggetti titolari del diritto al
collocamento obbligatorio di cui all'articolo 1, comma 2, della legge 23.11.1998, n. 407, sebbene collocati oltre il limite dei posti ad essi
riservati nel concorso».
Il Collegio osserva come il primo periodo dell’ultima parte del comma 361,
aggiunta dall’art. 14-ter del decreto-legge 28.01.2019, n. 4, non
introduce una deroga al principio di stretto collegamento tra graduatoria e
posto messo a concorso, bensì, con un’endiadi, chiarisce il significato
della locuzione “posti messi a concorso”, evidenziando come la stessa non
coincida con il termine “vincitori”, comprendendo la possibilità di
scorrimento delle graduatorie degli idonei nei casi in cui si verifichino
vicende che possono portare alla mancata costituzione o alla estinzione
anticipata del rapporto di lavoro con i candidati dichiarati vincitori.
Inoltre, a seguito delle modifiche apportate all’art. 1, comma 366, della
legge n. 145 del 2018 ad opera del decreto-legge n. 34 del 2019, i commi
360, 361, 363 e 364 non si applicano alle assunzioni del personale educativo
degli enti locali.
1.4. Infine, si evidenzia come il principio sancito dal comma 361 sopra
citato non sia stato superato dal recente intervento normativo operato con
la legge 19.06.2019, n. 56 (c.d. legge concretezza).
In particolare, l’articolo 3, comma 4, della legge 19.06.2019, n. 56
(c.d. legge concretezza), dispone che: “Al fine di ridurre i tempi di
accesso al pubblico impiego, per il triennio 2019-2021, fatto salvo quanto
stabilito dall’articolo 1, comma 399, della legge 30.12.2018, n. 145,
le amministrazioni di cui al comma 1” ovvero le amministrazioni dello Stato,
anche ad ordinamento autonomo, le agenzie e gli enti pubblici non economici,
“possono procedere, in deroga a quanto previsto dal primo periodo del comma
3 del presente articolo e all'articolo 30 del decreto legislativo n. 165 del
2001, nel rispetto dell'articolo 4, commi 3 e 3-bis, del decreto-legge 31.08.2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.10.2013, n. 125,
nonché del piano dei fabbisogni definito secondo i criteri di
cui al comma 2 del presente articolo: a) all'assunzione a tempo
indeterminato di vincitori o allo scorrimento delle graduatorie vigenti, nel
limite massimo dell'80 per cento delle facoltà di assunzione previste dai
commi 1 e 3, per ciascun anno”.
L’art. 6 della medesima legge ha esteso l’applicazione delle disposizioni
sopra richiamate anche agli enti locali, prevedendo che le stesse “recano
norme di diretta attuazione dell’art. 97 della Costituzione e costituiscono
principi generali dell’ordinamento” (comma 1) e che “le Regioni, anche per
quanto concerne i propri enti e le amministrazioni del Servizio sanitario
nazionale, e gli enti locali adeguano i propri ordinamenti alle disposizioni
della presente legge” (comma 4).
Il citato art. 3, come evidenziato nella rubrica, introduce “Misure per
accelerare le assunzioni mirate e il ricambio generazionale nella pubblica
amministrazione", intervenendo, tra l’altro, in materia di facoltà assunzionali, di procedure per le assunzioni, nonché di concorsi pubblici e
di personale in disponibilità e assunzioni delle categorie protette. In
particolare, il comma 4 del medesimo articolo reca norme transitorie, intese
a ridurre i tempi di accesso al pubblico impiego, in deroga alla procedura
di autorizzazione di cui all’art. 4, comma 3, primo periodo, ed alle norme
sulla mobilità volontaria.
Ritiene questa Sezione che, con il richiamo contenuto nell’art. 3, comma 4,
lettera a), della legge. n. 56 del 2019 allo “scorrimento delle
graduatorie”, il legislatore magis dixit quam voluit, poiché l’intero inciso
di tale comma, più sopra riportato, “Al fine di ridurre i tempi di accesso
al pubblico impiego...”, deve intendersi genericamente riferito allo
snellimento delle procedure di reclutamento del personale, senza alcun
intento di ripristinare la persistente valenza delle graduatorie pregresse.
A riprova di tale assunto, la citata legge n. 56 del 2019 ha espressamente
derogato alle sole disposizioni riferentesi al preventivo espletamento delle
procedure di mobilità e non anche alle più volte menzionate disposizioni
della legge n. 145 del 2018 che hanno escluso (con la decorrenza che più
innanzi sarà specificata) lo scorrimento delle graduatorie per le assunzioni
a tempo indeterminato.
In ragione di tale conclusione, il parere può essere reso nei termini
prospettati dalla richiedente Amministrazione.
2. L’utilizzo, per assunzioni a tempo determinato, di graduatorie di
concorsi per posti a tempo indeterminato e l’art. 36, comma 2, del d.lgs.
165/2001.
2.1. La legge n. 145 del 2018 stabilisce, dunque, un obbligo in capo alle
amministrazioni pubbliche ai sensi dell'art. 1, comma 2, del decreto
legislativo n. 165 del 2001 sulle modalità di utilizzo delle graduatorie di
concorso per il reclutamento del proprio personale: attraverso la previsione
dell'utilizzabilità delle graduatorie “esclusivamente per la copertura dei
posti messi a concorso”, infatti, viene sostanzialmente eliminata tanto la
possibilità di operare uno scorrimento delle graduatorie -nel periodo di
vigenza delle stesse- per far fronte alla copertura di posti che si
rendessero vacanti successivamente all'indizione del concorso, quanto la
possibilità di utilizzo delle graduatorie -nel periodo di vigenza delle
stesse- per la copertura di posti necessari ad altro Ente.
Il Collegio ritiene, tuttavia, che tale principio non possa trovare
applicazione per le assunzioni a tempo determinato.
Il citato comma 363 dell'art. 1, infatti, ha abrogato alcune disposizioni
dell'art. 4 del decreto-legge n. 101 del 2013, convertito in legge, con
modificazioni, dalla legge n. 125 del 2013, che permettevano lo scorrimento
delle graduatorie e l'utilizzo di graduatorie di concorsi banditi da altre
pubbliche amministrazioni, al fine di rendere operativo l'obbligo di cui al
precedente comma 361.
La disposizione in esame, al contempo, non ha abrogato il comma 1 dell'art.
4 del richiamato decreto-legge n. 101 del 2013, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 125 del 2013.
In particolare, l’art. 4, comma 1, del decreto-legge n. 101 del 2013 ha
modificato l’art. 36, comma 2, del decreto legislativo n. 165/2001,
prescrivendo l'obbligo per tutte le pubbliche amministrazioni, al fine di
prevenire fenomeni di precariato, di procedere ad assunzioni a tempo
determinato di vincitori e idonei collocati nelle graduatorie vigenti per
concorsi a tempo indeterminato, proprie o approvate da altre
amministrazioni, previo accordo con le stesse. Con riferimento all’utilizzo
di graduatorie di altri enti, lo stesso art. 36, comma 2, del decreto
legislativo n. 165 del 2001 afferma che “È consentita l'applicazione
dell'articolo 3, comma 61, terzo periodo, della legge 24.12.2003, n.
350, ferma restando la salvaguardia della posizione occupata nella
graduatoria dai vincitori e dagli idonei per le assunzioni a tempo
indeterminato”.
La giurisprudenza della Corte dei conti ha più volte evidenziato come la
disposizione citata, contenuta nell’art. 36, comma 2, del decreto
legislativo n. 165 del 2001, come modificato dall’art. 4, comma 1,
decreto-legge n. 101 del 2013, si collochi nell’ambito di una serie di
disposizioni volte a limitare la possibilità per gli enti locali di
utilizzare contratti di lavoro flessibile, in particolare, il tempo
determinato, ribadendo che la regola generale per assumere è il contratto a
tempo indeterminato, quale strumento ordinario per far fronte al fabbisogno
di personale, mentre le assunzioni a tempo determinato possono avvenire
soltanto per esigenze di carattere "esclusivamente" temporaneo o
eccezionale.
In particolare, è stato affermato come la disposizione sopra
richiamata “introduce un evidente favor per i contratti di lavoro
subordinato a tempo indeterminato, da utilizzare per dare risposta ai
fabbisogni ordinari ed alle esigenze di carattere duraturo, nel rispetto
delle norme contrattuali e della disciplina di settore. Al contempo, relega
le forme contrattuali flessibili all’esclusivo soddisfacimento di esigenze
di carattere temporaneo o eccezionale” (cfr. Corte dei conti, Sezione
regionale di controllo per la Campania, n. 31/2017/PAR).
In tale quadro normativo si colloca la disposizione contenuta nel medesimo
art. 36, comma 2, che, sempre nell'ottica di restringere la possibilità di
ricorso a forme di lavoro flessibile, ha previsto la possibilità per le p.a.,
“al fine di prevenire il precariato”, di sottoscrivere contratti a tempo
determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti
per concorsi pubblici a tempo indeterminato. L'intento del legislatore è,
quindi, quello di evitare, attraverso l’assunzione con contratti a tempo
determinato di vincitori di concorsi per posti a tempo indeterminato, la
creazione dei presupposti del precariato.
Infatti, il Dipartimento della
Funzione pubblica, con la circolare n. 5/2013, ha chiarito che il
lavoratore, che si trova all'interno di una graduatoria a tempo
indeterminato, nel caso in cui sia assunto con contratto a termine potrà poi
“essere assunto con rapporto di lavoro a tempo indeterminato senza necessità
di altre procedure”, una volta verificate le condizioni per l'assunzione
definitiva in ruolo.
Pertanto, per le assunzioni a tempo determinato di idonei non vincitori di
graduatorie a tempo indeterminato è possibile derogare all'obbligo di
utilizzo delle graduatorie per i soli posti messi a concorso previsto dal
combinato disposto dei commi 361 e 365 dell'art. 1 della legge n. 145 del
2018.
In sostanza, l’art. 36, comma 2, d.lgs. 165/2001 costituisce una normativa
di carattere speciale rispetto alle previsioni della legge n. 145 del 2018,
dettata da una ratio differente. Peraltro, come già sopra evidenziato, la
specialità di tale disposizione è supportata non solo dalla interpretazione
teleologica dell’intervento normativo che l’ha introdotta ma anche dalla
stessa interpretazione letterale e sistematica della legge n. 145 del 2018,
che ha abrogato solo alcune delle disposizioni contenute nel medesimo art. 4
del decreto-legge n. 101 del 2013, ma non quella modificativa dell’art. 36,
comma 2, d.lgs. 165/2001.
2.2. L’Ente ha chiesto, altresì, di indicare i limiti e le modalità
procedurali sia nel caso di utilizzo di proprie graduatorie sia nel caso di
(eventuale) utilizzo di graduatorie di altri comuni.
Per quanto riguarda i limiti allo scorrimento di graduatorie, si rinvia alla
costante giurisprudenza della Corte dei conti, che si è pronunciata più
volte sulla necessità che i posti da coprire non siano di nuova istituzione
o trasformazione ai sensi dell’art. 91, comma 4, d.lgs. 267/2001 e sulla
identità di posti tra quello oggetto della procedura che ha dato luogo alla
graduatoria e la nuova esigenza assunzionale (ex multis, Corte dei conti,
sezione regionale di controllo per la Puglia, deliberazione n. 72 del 2019 e
la giurisprudenza ivi richiamata), nonché, nel caso di utilizzo di
graduatorie di altri Enti, sulle condizioni del “previo accordo” tra le
amministrazioni interessate (sul punto si rinvia al par. 4).
Relativamente alle modalità procedurali nel caso di utilizzo di graduatorie
proprie e di altri comuni, si rammenta che tale decisione esula dalla
funzione consultiva della Corte dei conti, concernente l’esame da un punto
di vista astratto e su temi di carattere generale.
Pertanto, la decisione
relativa alle modalità procedurali non può che essere rimessa alla
valutazione dell’Ente, rientrando nella sfera di competenza amministrativa
del singolo Comune e nella discrezionalità e responsabilità diretta degli
organi di governo, fermo restando il rispetto dei principi di trasparenza ed
imparzialità che devono ispirare le suddette procedure.
3. L’utilizzo, per assunzioni a tempo indeterminato, di graduatorie di
concorsi per posti a tempo indeterminato e l’ambito di applicazione della
legge n. 145 del 2018
3.1. Il secondo quesito riguarda la possibilità di attingere a graduatorie
di altre amministrazioni per posti a tempo indeterminato. In particolare,
l’Ente ha chiesto se sia ancora possibile l’assunzione mediante scorrimento
degli idonei della graduatoria di altro Ente formata a seguito di un bando
pubblicato precedentemente al 01.01.2019, in quanto fuori dall’ambito
applicativo della richiamata legge n. 145 del 2018.
A tale riguardo, il Collegio evidenzia come
per i concorsi banditi
successivamente al 01.01.2019, data di entrata in vigore della legge n.
145 del 2018, l’assunzione mediante scorrimento degli idonei della
graduatoria di altro Ente non sia possibile né per le graduatorie proprie né
per quelle di altro Ente (cfr. Sezione regionale di controllo per la
Sardegna,
parere 03.07.2019 n. 36).
Infatti, il citato comma 361 della
legge n. 145 del 2018 ha eliminato sia la possibilità di operare lo
scorrimento delle graduatorie per far fronte alla copertura di posti che si
rendessero vacanti successivamente all’indizione del concorso sia la
possibilità di utilizzo delle graduatorie per la copertura di posti
necessari ad altro Ente.
Al contrario,
per i concorsi banditi antecedentemente al 31.12.2018,
il Collegio ritiene che non si possa affermare lo stesso principio, dal
momento che l'art. 1, comma 365, dispone che “la previsione di cui al comma
361 si applica alle graduatorie delle procedure concorsuali bandite
successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge”.
3.2. Come sopra esposto, il principio sancito dal comma 361 citato è stato
mitigato dall’art. 14-ter del decreto-legge 28.01.2019, n. 4 (si veda
par. 1.3).
4. L’assunzione mediante scorrimento degli idonei della graduatoria di altro
Ente
4.1. Le fattispecie su cui l’Ente ha richiesto il parere si pongono, quindi,
al di fuori dell’ambito applicativo della legge n. 145 del 2018: la prima in
quanto trattasi di utilizzo di graduatorie di concorsi a tempo indeterminato
per assunzioni a tempo determinato, per il quale si applica la normativa
speciale dettata dall’art. 36, comma 2, d.lgs. 165/2001; la seconda in
quanto trattasi di utilizzo, per assunzioni a tempo indeterminato, di
graduatorie di procedure concorsuali a tempo indeterminato, bandite prima
del 01.01.2019, per le quali, ai sensi del comma 365, non è applicabile
il comma 361.
In entrambi i casi, trattandosi appunto di fattispecie non rientranti
nell’ambito applicativo della legge n. 145 del 2018, si impone una
precisazione per quanto concerne l’utilizzo di graduatorie di altri enti.
Come già sopra evidenziato, con riferimento alla prima fattispecie, lo
stesso art. 36, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001 consente
l’utilizzo di graduatorie di altri enti, richiamando l’art. 3, comma 61,
terzo periodo, della legge n. 350 del 2003.
Con riferimento alla seconda fattispecie, il comma 363 della legge n. 145
del 2018 ha abrogato alcune disposizioni contenute nel decreto-legge n. 101
del 2013, ovvero l’art. 1, lettera b), del comma 3 e i commi 3-ter e 3-quater
dell’art. 4.
In particolare, l’art. 3, comma 3-ter, prevedeva che “resta ferma per i
vincitori e gli idonei delle graduatorie di cui al comma 3 del presente
articolo l'applicabilità dell'articolo 3, comma 61, terzo periodo, della
legge 24.12.2003, n. 350”. Il comma citato è stato abrogato a
decorrere dal 01.01.2019.
Tuttavia, la legge n. 145 del 2018 non ha abrogato l’articolo 3, comma 61,
terzo periodo, della legge n. 350 del 2003, che dispone: “In attesa
dell'emanazione del regolamento di cui all'articolo 9 della legge 16.01.2003, n. 3, le amministrazioni pubbliche ivi contemplate, nel rispetto delle
limitazioni e delle procedure di cui ai commi da 53 a 71, possono effettuare
assunzioni anche utilizzando le graduatorie di pubblici concorsi approvate
da altre amministrazioni, previo accordo tra le amministrazioni
interessate”.
La sezione Sardegna, con
parere 03.07.2019 n. 36, ha affermato che
non è
possibile procedere allo scorrimento di graduatoria concorsuale formata da
altro Ente pubblico, per l’assunzione di personale a tempo indeterminato,
evidenziando come l’art. 3, comma 61, sebbene non espressamente abrogato
dalla legge n. 145 del 2018, risulterebbe implicitamente abrogato in quanto
incompatibile con la nuova regola generale di cui al comma 361 della legge
n. 145 del 2018.
Il Collegio evidenzia, a tale riguardo, come tale principio si possa
applicare solo ai casi rientranti nell’ambito applicativo della legge n. 145
del 2018, ossia alle graduatorie delle procedure concorsuali bandite
successivamente al 01.01.2019, per espressa previsione normativa (comma
365). Di conseguenza, l’art. 3, comma 61, della legge n. 350 del 2003
risulterebbe inapplicabile solo per dette graduatorie.
Tale soluzione interpretativa è avallata dall’interpretazione letterale
delle disposizioni contenute nella legge n. 145 del 2018, nonché dalla
stessa ratio dell’intervento normativo: infatti, la legge n. 145 del 2018
prevede che le graduatorie dei concorsi siano utilizzate “esclusivamente”
per la copertura dei posti messi a concorso, impedendo, per le graduatorie
delle procedure concorsuali bandite successivamente alla data di entrata in
vigore della medesima legge, l’utilizzo della graduatoria per la copertura
di qualsiasi altro posto diverso da quelli messi a concorso, sia esso della
medesima o di altra Amministrazione. Il principio espresso nel comma 361 ha
uno specifico ambito applicativo, anche dal punto di vista temporale (comma
365), e non può che valere a prescindere da quale Amministrazione utilizzi
la graduatoria, stante la generalità della previsione, che si riferisce
all’utilizzo di graduatorie in generale.
Inoltre, il Collegio, a conferma della perdurante vigenza dell’art. 3, comma
61, della legge n. 350 del 2003, evidenzia come lo stesso sia tuttora citato
in diverse disposizioni (art. 36, comma 2, del decreto legislativo n. 165
del 2001; art. 1, comma 100, della legge n. 311 del 2004; art. 9, comma
4-bis, del decreto-legge n. 78 del 2010); pertanto, tale articolo non
risulterebbe inapplicabile in ogni caso, ma solo con riguardo alle
fattispecie rientranti nel perimetro applicativo della legge n. 145 del
2018, in quanto non compatibile con la ratio del revirement
normativo, risultando invece applicabile ai casi che si collocano al di
fuori di esso (assunzioni a tempo determinato e assunzioni a tempo
indeterminato in caso di utilizzo di graduatorie di bandi pubblicati prima
del 01.01.2019).
4.2. Con specifico riferimento all’utilizzo di graduatorie di altri Enti, si
evidenzia come le Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti si
siano più volte pronunciate sulla interpretazione del requisito normativo
del “previo accordo” tra le amministrazioni interessate, necessario
per la legittimità dell’assunzione del candidato idoneo in una graduatoria
di concorso bandito da altro Ente, ai sensi dell’art. 3, comma 61, della
legge n. 350 del 2003, affermando come tale previsione debba necessariamente
raccordarsi con la previsione contenuta nell’art. 91, comma 4, del decreto
legislativo n. 267 del 2001.
A tale riguardo, con deliberazione n.
3/2019/PAR, la Sezione regionale di controllo per il Piemonte ha affermato
che “se l’utilizzo delle proprie graduatorie è escluso per i posti
istituiti o trasformati dopo l’indizione del concorso da parte dello stesso
ente, è evidente che tale limite vale anche per l’utilizzo delle altrui
graduatorie” (cfr. anche Sezione regionale di controllo per l’Umbria,
deliberazione n. 28/2018/PAR e Sezione regionale di controllo per il
Piemonte, n. 114/2018).
Peraltro, è stato evidenziato come tale accordo con le altre Amministrazioni
interessate, sebbene la normativa non lo imponga, dovrebbe, per ragioni di
trasparenza, precedere l’indizione del concorso del diverso Ente o
l’approvazione della graduatoria.
In tal senso, la Sezione regionale di
controllo per l’Umbria, con deliberazione n. 124/2013, ha affermato che ciò
che rileva è che “l’accordo stesso, che comunque deve intervenire prima
dell’utilizzazione della graduatoria, si inserisca in un chiaro e
trasparente procedimento di corretto esercizio del potere di utilizzare
graduatorie concorsuali di altri Enti, così da escludere ogni arbitrio e/o
irragionevolezza e, segnatamente, la violazione delle cennate regole di
“concorsualità” per l’accesso ai pubblici uffici” (cfr. anche Sezione
regionale di controllo per il Veneto, deliberazioni nn. 189/2018 e 371/2018,
che si sofferma anche sugli altri requisiti richiesti dall’ordinamento ai
fini del corretto e legittimo utilizzo della graduatoria di altro Ente)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Marche,
parere
06.09.2019 n. 41). |
luglio 2019 |
 |
INCARICHI PROFESSIONALI -
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
Danno erariale al segretario comunale che autorizza l'incarico professionale
esterno a un dipendente dell'Ente.
I dipendenti della Pa a tempo parziale -che svolgono un orario lavorativo
non superiore alle 18 ore settimanali- possono essere autorizzati dall'ente
di appartenenza anche a svolgere altra attività lavorativa, inclusa quella
professionale a partita Iva. Tuttavia, l'amministrazione non può conferire
un incarico professionale esterno al medesimo dipendente.
Queste sono in
sintesi le conclusioni della Corte dei conti - Sez. giurisdiz. Puglia (sentenza
31.07.2019 n.
501) che ha condannato per danno erariale in solido il responsabile del
servizio finanziario e il segretario comunale che ha autorizzato l'incarico
esterno di resistenza nei giudizi tributari al medesimo responsabile del
servizio finanziario e dei tributi.
La vicenda
Il commissario straordinario di un Comune di modeste dimensioni aveva
attivato le procedure di recupero delle somme indebitamente corrisposte al
responsabile finanziario e dei tributi per l'incarico professionale di
resistenza in giudizio davanti alle commissioni tributarie.
In
considerazione del mancato versamento degli importi, la Procura della Corte
dei conti ha chiamato a rispondere di danno erariale sia il segretario
comunale, per aver espresso parere favorevole all'incarico professionale al
dipendente, sia il responsabile finanziario e dei tributi che, pur a
conoscenza della normativa, ha formalizzato e ricevuto le parcelle
professionali.
Nel caso di specie, la Procura ha contestato un reale
conflitto tra le due posizioni assunte dal medesimo soggetto, in quanto
l'attività di recupero tributario, non può che rientrare nelle funzioni
istituzionali dell'ente e del responsabile del settore preposto e, qualora esternalizzato, non può essere affidato allo stesso soggetto che svolge,
all'interno, le funzioni di responsabile del servizio.
La difesa dei convenuti
Nelle memorie di costituzione in giudizio è stato rilevato come il
responsabile finanziario fosse un dipendente in part-time, con orario non
superiore alla metà del tempo pieno, autorizzato dall'ente a svolgere
attività professionale esterna.
La disposizione legislativa -articolo 11,
comma 3, Dlgs 546/1992– prevede espressamente che «L'ente locale nei cui
confronti è proposto il ricorso può stare in giudizio anche mediante il
dirigente dell'ufficio tributi …», mentre l'articolo 15, comma 2-bis,
dispone che «Nella liquidazione delle spese a favore dell'ente impositore,
dell'agente della riscossione e dei soggetti iscritti nell'albo di cui
all'articolo 53 del decreto legislativo 15.12.1997, n. 446, se
assistiti da propri funzionari, si applicano le disposizioni per la
liquidazione del compenso spettante agli avvocati, con la riduzione del
venti per cento dell'importo complessivo ivi previsto».
La decisione del collegio contabile
I giudici contabili pugliesi oltre a ritenere fondate le conclusioni cui è
giunto il Pm contabile, di un reale conflitto tra le due posizioni assunte
dal responsabile finanziario -da un lato resistente in giudizio in quanto
dirigente dell'ufficio tributi e dall'altro lato in qualità di libero
professionista- hanno anche accertato l'inconsistenza del pagamento
previsto dalla normativa.
L'Aran ha, infatti, da sempre chiarito che, per l'attività di difesa avanti
alle Commissioni tributarie, ai funzionari può essere riconosciuta
un'integrazione dell'indennità di risultato oppure una diversa forma di
incentivazione, a condizione che sussista al riguardo uno specifico
intervento di regolazione nell'ambito della contrattazione integrativa.
Nel caso di specie, ha precisato il collegio contabile, non c'è stato alcun
iter contrattuale per forme integrative di incentivi al personale, bensì
l'affidamento al dirigente responsabile del settore finanziario di due
incarichi esterni di rappresentanza del Comune davanti alle commissioni
tributarie, in palese violazione di legge.
Inoltre, stante la consapevolezza dei convenuti di tenere un comportamento
vietato dalla legge, si rientra nell'ipotesi di dolo con conseguente
responsabilità solidale dei convenuti al pagamento delle somme indebitamente
corrisposta al responsabile finanziario
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.08.2019).
---------------
MASSIMA
Il thema decidendum del presente giudizio riguarda l’accertamento
della responsabilità dei convenuti –in qualità di dipendenti del Comune di
Roseto Valfortore- per il danno patrimoniale, asseritamente arrecato
all’ente, in conseguenza dell’indebito affidamento di incarico professionale
al responsabile del settore finanziario dott. MI., in difetto dei
presupposti di legge.
...
2. Nel merito, la domanda è fondata.
Occorre premettere che l’obbligo della pubblica
amministrazione di provvedere ai compiti istituzionali con la propria
organizzazione e con il proprio personale, costituisce regola fondamentale
dell’ordinamento, codificata da specifiche disposizioni di legge.
In particolare, l’art. 24, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, recependo
quanto già previsto dal d.lgs. n. 29 del 1993, ha rafforzato il principio di
onnicomprensività della retribuzione dei dirigenti delle pubbliche
amministrazioni, stabilendo che il trattamento economico contrattualmente
determinato remunera tutte le funzioni e i compiti loro attribuiti, nonché
qualsiasi incarico ad essi conferito in ragione del loro ufficio o,
comunque, conferito dall’Amministrazione presso cui prestano servizio o su
designazione della stessa.
Pertanto, risulta in primo luogo violato il principio di onnicomprensività
della retribuzione, svolgendo il Mi. l’incarico di dirigente a tempo
determinato ex art. 110, comma 2, del d.lgs n. 267 de 2000.
Egli, seppure in regime di part-time, svolgeva le funzioni di
responsabile del settore finanziario e, come tale, era responsabile anche
della gestione dei tributi, ivi compresa, appunto, tutta l'attività relativa
al loro recupero.
Invero, in quanto titolare di posizione organizzativa, al Mi. era già
attribuita l'indennità di posizione, l'indennità di risultato e la specifica
indennità ad personam prevista dall'art. 110, comma 3, del d.lgs. n.
267 del 2000, oltre ad un rimborso spese di viaggio per raggiungere la sede
di servizio (deliberazione della Giunta comunale n. 116 del 13.11.2002).
In merito alle attività attribuite alla responsabilità dell’odierno
convenuto, inoltre, il decreto del Sindaco del Comune di Roseto Valfortore,
n. 5912 del 13.11.2002 dispone espressamente che il dott. Mi. dal 01.01.2003
veniva chiamato o svolgere le funzioni di responsabile del Settore
economico–finanziario, “comprendente tutti servizi economico e finanziari
esemplificativamente riferiti a: ….tributi ed entrate patrimoniali (gestione
di tutte le fasi compreso controllo riscossioni in concessione)”.
Di conseguenza, la rappresentanza dell’ente avanti alle Commissioni
tributarie rientrava appieno tra i compiti istituzionali affidati al Mi.,
con ciò smentendo tutte le eccezioni opposte dai convenuti circa la
legittimità dell’affidamento dell’incarico professionale. Né vi è prova che
l’Amministrazione non fosse in grado di provvedervi per l’eccessivo carico
di lavoro, meramente enunciato dal Mi..
Al riguardo, l'art. 11, comma 3, del D.Lgs 546/1992, come modificato
dall'art. 3-bis del D.L. 31.03.2005, n. 44 prevede espressamente che "L'ente
locale nei cui confronti è proposto il ricorso può stare in giudizio anche
mediante il dirigente dell'ufficio tributi, ovvero, per gli enti locali
privi di figura dirigenziale, mediante il titolare della posizione
organizzativa in cui è collocato detto ufficio".
Il Procuratore regionale, pertanto, ha correttamente contestato agli odierni
convenuti un reale conflitto tra le due posizioni assunte dal medesimo
soggetto (art. 6, comma 2, d.p.c.m. 117/1989). In particolare, l’attore
pubblico ha osservato che l’attività di recupero dell'ICI, non può che
rientrare nelle funzioni istituzionali dell'ente e del responsabile del
settore preposto e, qualora esternalizzato, non può essere affidato allo
stesso soggetto che svolge, all'interno, le funzioni di responsabile del
servizio.
Il Collegio non può che condividere tale assunto.
Per l’attività in questione, al dirigente non spettava alcun compenso.
Priva di pregio appare, al riguardo l’eccezione opposta da parte convenuta
secondo cui il compenso sarebbe comunque spettato al Mi. ex art. 15, comma
2-bis (ora comma 2-sexies) del d.lgs n. 546 del 1992 che dispone “Nella
liquidazione delle spese a favore dell'ente impositore, dell'agente della
riscossione e dei soggetti iscritti nell'albo di cui all'articolo 53 del
decreto legislativo 15.12.1997, n. 446, se assistiti da propri funzionari,
si applicano le disposizioni per la liquidazione del compenso spettante agli
avvocati, con la riduzione del venti per cento dell'importo complessivo ivi
previsto”.
Non vi è dubbio, infatti, che la liquidazione delle spese di difesa avviene
nei confronti dell’Amministrazione, risultata vittoriosa nel giudizio
tributario, e non già nei confronti del soggetto che la rappresenta. Sulla
questione, l'ARAN (RAL 1660) ha chiarito che, per l’attività di difesa
avanti alle Commissioni tributarie, ai funzionari può essere riconosciuta
un’integrazione dell'indennità di risultato oppure una diversa forma di
incentivazione, a condizione che sussista al riguardo uno specifico
intervento di regolazione nell’ambito della contrattazione integrativa.
Nel caso di specie, non vi è stata alcun iter contrattuale per forme
integrative di incentivi al personale, bensì vi è stato l’affidamento al
dirigente responsabile del settore finanziario di due incarichi esterni di
rappresentanza del Comune avanti alle Commissioni tributarie, in palese
violazione di legge.
Sicché il compenso che è stato erogato al Mi., nella veste
di professionista esterno, rappresenta certamente un’indebita spesa
sostenuta dal Comune.
Il danno risarcibile ammonta a complessivi euro 163.991,74.
Responsabili in solido di tale indebita spesa risultano entrambi i convenuti
a titolo di dolo. Al riguardo, occorre chiarire che, nel
processo contabile, per dolo deve intendersi la consapevolezza dell’agente
di tenere un comportamento vietato dalla legge.
Il Mi. è responsabile per aver scientemente lucrato il compenso per la
difesa del Comune, pur nella piena consapevolezza di aver assunto l’obbligo
di svolgere tale attività in veste di dirigente responsabile del settore
finanziario.
La dott.ssa Ce., in qualità di Segretario generale
dell’ente, per il ruolo rivestito di garante della legittimità dell’azione
amministrativa del Comune, che nulla ha obiettato a tutela della corretta e
proficua gestione del denaro pubblico, esprimendo per di più parere
favorevole per l’affidamento dell’incarico in questione e provvedendo ad
impegnare e liquidare il compenso de quo.
L’indebita spesa, pari a complessivi euro 163.991,74, erogata dal Comune di
Roseto Valfortore è la conseguenza unica e diretta delle
condotte tenute dai convenuti, nella piena consapevolezza del totale
dispregio degli interessi dell’Amministrazione.
Ai soli fini della ripartizione interna delle quote di danno, per cui
ciascuno potrà eventualmente rivalersi nei confronti dell’altro responsabile
in solido, per il ruolo preponderante rivestito nella vicenda dal dott. Mi.,
a lui compete la maggior quota di danno pari al 70 per cento del danno
risarcibile, mentre il restante 30 va attribuito alla responsabilità della
dott.ssa Ce..
Trattandosi di responsabilità per dolo deve essere escluso
il ricorso al potere riduttivo dell’addebito.
Sull’importo di euro 163.991,74 per cui è condanna va computata la
rivalutazione monetaria dalla data dei pagamenti e fino alla pubblicazione
della presente sentenza. Per tutte le ragioni espresse, la domanda è
accolta.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
La Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Puglia,
definitivamente pronunciando, accoglie la domanda attrice e, per l’effetto,
CONDANNA
I signori Ma.MI. e Ma.Ce.An.CE. al pagamento in solido della complessiva
somma di euro 163.991,74 (centossessantatremilanovecentonovantuno/74), oltre
rivalutazione monetaria, in favore del Comune di Roseto Valfortore.
Sulle somme rivalutate spettano all’Amministrazione gli interessi al tasso
legale decorrenti dalla data di deposito della sentenza e fino al totale
soddisfo. |
PUBBLICO IMPIEGO: Obblighi
di trasparenza per gli incaricati di posizione organizzativa.
Domanda
Nel nostro ente (con dirigenza) sono state nominate, di
recente, delle posizioni organizzative, ex art. 13 e
seguenti del CCNL Funzioni locali. Su dieci P.O., cinque
hanno anche delle deleghe dirigenziali. I restanti cinque
non l’hanno.
Come si deve comportare l’ente per ciò che concerne gli
obblighi di pubblicità e trasparenza delle P.O.?
Risposta
Per effetto dell’articolo 14, commi 1 e 1-quinquies, del
decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, nel testo inserito
dall’art. 13, comma 1, lettera c), del decreto legislativo
25.05.2016, n. 97, gli obblighi di pubblicazione e
trasparenza per le posizioni organizzative sono notevolmente
differenziati a seconda delle seguenti casistiche:
• Posizione organizzativa in ente con dirigenza, senza delega
dirigenziale;
• posizione organizzativa in ente senza dirigenza o con delega
dirigenziale.
Per gli incaricati di posizione organizzativa, negli enti
CON dirigenza e SENZA delega dirigenziale, l’obbligo è
ristretto alla pubblicazione del curriculum, redatto in
conformità al vigente modello europeo.
Il documento va pubblicato nella sezione Amministrazione
trasparente > Personale > Posizioni organizzative.
Il termine per provvedere alla pubblicazione è previsto
entro tre mesi dal conferimento e l’obbligo decade dopo tre
anni dalla cessazione dall’incarico. L’aggiornamento del
curriculum, deve avvenire in modo “tempestivo” (art. 8, d.lgs. 33/2013), se si verificano delle variazioni
significative rispetto a quelle pubblicate.
Per gli incaricati di posizione organizzativa negli enti
senza dirigenza e in quelli con dirigenti e delega
dirigenziale, gli obblighi restano quelli riportati nel
comma 1, del citato art. 14 e sono i seguenti:
a) l’atto di nomina o di proclamazione, con l’indicazione della
durata dell’incarico o del mandato elettivo;
b) il curriculum;
c) i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della
carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati
con fondi pubblici;
d) i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti
pubblici o privati, ed i relativi compensi a qualsiasi
titolo corrisposti;
e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza
pubblica e l’indicazione dei compensi spettanti;
f) le dichiarazioni di cui all’articolo 2, della legge 05.07.1982, n. 441, nonché le attestazioni e dichiarazioni di cui
agli articoli 3 e 4 della medesima legge, come modificata
dal presente decreto, limitatamente al soggetto, al coniuge
non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli
stessi vi consentano. Viene in ogni caso data evidenza al
mancato consenso. Alle informazioni di cui alla presente
lettera concernenti soggetti diversi dal titolare
dell’organo di indirizzo politico non si applicano le
disposizioni di cui all’articolo 7.
Per gli obblighi della lettera f) –situazione reddituale e
patrimoniale– è intervenuta la sentenza della Corte
costituzionale n. 20/2019, che ha escluso l’obbligo per i
dirigenti e le P.O., con la sola eccezione dei titolari
degli incarichi dirigenziali, previsti dall’art. 19, commi 3
e 4, del d.lgs. 165/2001.
Per la seconda tipologia di incarichi, gli obblighi vengono
assolti –entro tre mesi dal conferimento dell’incarico–
con pubblicazione dei dati e delle informazioni su
Amministrazione trasparente > Personale > Titolari di
incarichi dirigenziali (dirigenti non generali). I dati
dovranno essere pubblicati in tabelle che distinguano le
seguenti situazioni:
• dirigenti;
• dirigenti individuati discrezionalmente;
• titolari di posizione organizzativa con funzione dirigenziali.
Anche in questo caso, l’aggiornamento dei dati deve essere
tempestivo e l’obbligo cessa, dopo tre anni dal termine
dell’incarico di P.O. (art. 14, comma 2, d.lgs. 33/2013) (30.07.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Trasformazione part-time.
Domanda
Può essere negata la richiesta da parte di un lavoratore di
avere il proprio rapporto di lavoro trasformato da tempo
pieno a tempo parziale?
Risposta
Con l’art. 73 del decreto-legge n. 112 del 2008, convertito,
in legge n. 133 del 2008, è stato modificato il regime
giuridico relativo alla trasformazione del rapporto da tempo
pieno a part-time, con una novella all’art. 1, comma 58,
della legge n. 662 del 1996. Inoltre, sempre con il medesimo
provvedimento, è stato modificato il comma 59 del citato
articolo, incidendo sulla destinazione finanziaria dei
risparmi derivanti dalla trasformazione dei rapporti.
In sintesi, le novità apportate con il decreto-legge n. 112
del 2008 riguardano i seguenti aspetti:
• è stato eliminato ogni automatismo nella trasformazione del
rapporto, che attualmente è subordinato alla valutazione
discrezionale dell’amministrazione interessata;
• stata soppressa la mera possibilità per l’amministrazione
di differire la trasformazione del rapporto sino al termine
dei sei mesi nel caso di grave pregiudizio alla funzionalità
dell’amministrazione stessa;
• è stata contestualmente introdotta la possibilità di
rigettare l’istanza di trasformazione del rapporto
presentata dal dipendente nel caso di sussistenza di un
pregiudizio alla funzionalità dell’amministrazione;
• è stata innovata la destinazione dei risparmi derivanti
dalle trasformazioni, prevedendo che una quota sino al 70%
degli stessi possa essere destinata interamente
all’incentivazione della mobilità, secondo le modalità ed i
criteri stabiliti in contrattazione collettiva, per le
amministrazioni che dimostrino di aver proceduto ad attivare
piani di mobilità e di riallocazione di personale da una
sede all’altra.
Non vi è quindi nessun automatismo, ma la trasformazione
deve sempre essere concessa (25.07.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO -
SEGRETARI COMUNALI: Segretari
comunali: quella dannosa voglia di "dirigente apicale"
(in memoria di Stefano Fedeli)
(14.08.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).
---------------
Non è compito dei segretari comunali
svolgere funzioni di direzione di strutture amministrative
assumendo la qualità di dirigenti. Tali funzioni possono
essere gestite, specie nei comuni di grandi dimensioni, solo
per in via temporanea e suppletiva, avendo prima dimostrato
l’assoluta carenza di professionalità interne.
La
sentenza 23.07.2019 n. 489
della Corte dei conti, Sezione giurisdiz. per la Puglia, è
particolarmente rilevante perché smonta in modo ultimativo
il castello di sabbia del “dirigente apicale” ed
indica in modo chiaro e puntuale quali sono le peculiarità
della funzione dei segretari comunali.
E’ una sentenza importantissima, che evidenzia le gravissime
pecche purtroppo contenute nella superficiale
sentenza
22.02.2019 n. 23 della
Corte costituzionale (sul punto:
cliccare qui e
cliccare anche qui),
in particolare nella debolissima parte nella quale la
Consulta ha in modo vistosamente erroneo considerato
costituzionalmente legittimo lo spoil system, anche in
considerazione delle funzioni dirigenziali viste come
“tipiche” della figura del segretario comunale.
Una svista imperdonabile, che viene indirettamente, ma
ferocemente evidenziata dalle considerazioni della Corte dei
conti della Puglia, che, limitandosi a leggere ed applicare
in maniera niente più che piana e corretta le disposizioni
normative e contrattuali, ricorda come le funzioni
dirigenziali siano, per i segretari comunali, solo un
accessorio, eventuale e non tipizzante per nulla le proprie
funzioni. Con buona pace di chi pervicacemente cerca di
ammantare la figura con quel ruolo di “dirigente apicale”
che la mancata riforma Madia ha impedito venisse in essere.
E’ bene specificare che la Corte dei conti ha riconosciuto
la responsabilità per danno erariale a carico di un
segretario comunale di un comune di grandi dimensioni, che
per anni ha svolto funzioni di dirigente di una quantità
ingiustificabile anche solo logicamente, prima che
organizzativamente, di servizi, ottenendo maggiorazioni
retributive persino superiori a quelle ammesse dal
contratto. Non si può non fare proprie le considerazioni,
sul punto, della Corte dei conti: “Quello che sconcerta
ancor di più, e che rende irrimediabilmente grave sotto il
profilo omissivo la sua condotta, e che la ricollega causalmente al danno qui azionato è il fatto che il soggetto
che è rimasto passivo e inerte in ordine a emolumenti
ricevuti e spiccatamente esorbitanti rispetto al dovuto, sia
proprio colui che istituzionalmente aveva il dovere
giuridico di conformare alla legalità l’agere
amministrativo”.
Lo sconcerto è forte. E dura da anni, esattamente da quel
1997 che introducendo l’inutile figura del direttore
generale ha scatenato in molti (non tutti, ovviamente) i
segretari comunali gli appetiti da “dirigente apicale”.
Si sono visti incarichi di direttore generale in comuni con
pochissimi dipendenti e senza Peg, incarichi in comuni
convenzionati ma singoli per ciascun comune, cifre
elevatissime non giustificate da funzioni nuove e diverse.
Uno spreco di denaro pubblico, che nel 2009 portò alla
cancellazione (purtroppo limitata ai soli comuni con
popolazione fino a 100.000 abitanti) del direttore generale.
Sconcerta, comunque, ancora che la voglia di “apicalità” e,
soprattutto, di ottenere maggiorazioni retributive, invece
di passare dalla via maestra di una migliore contrattazione
collettiva capace di valorizzare le funzioni effettivamente
caratterizzanti dei segretari, in modo strisciante anche
sigle sindacali abbiano lavorato per creare una condizione
di “dirigente apicale” di fatto (preparatoria, senza
successo, alla riforma Madia), soffiando sul fuoco delle
ambizioni personali.
La gran parte dei segretari comunali sa qual è il proprio
ruolo, conosce la profonda differenza del coordinamento
rispetto alla gestione operativa, valorizza la prima in
funzione del miglior funzionamento della seconda.
Per non pochi, al contrario, la funzione del segretario
praticamente non può che ridursi a quella di un dirigente
che assommi su di sé (salvo, spesso, poi deleghe diffuse e
in bianco) funzioni gestionali, gestite fin troppo, poi, nel
rispetto della “fiducia” contrattata a suon di inevitabili
reciproche concessioni con sindaci disposti a remunerare
queste funzioni dirigenziali anche ben oltre i limiti
contrattuali. Con sprezzo dell’evidente rischio di danno
erariale.
Questa visione della “apicalità” dirigenziale necessitata
del segretario comunale viene letteralmente posta nel nulla
dalla sentenza della Corte dei conti. Essa evidenzia quali
siano le rilevanti e complesse competenze previste
dall’articolo 97 del d.lgs 267/2000, non negando,
ovviamente, che è operante il comma 4, lettera d), per
effetto del quale il sindaco può attribuire al segretario
ogni altra funzione.
Sagacemente, il giudice contabile
osserva, però: “Tale ultima previsione, pur integrando una
sorta di clausola in bianco, si dà consentire, in linea di
principio (per ragioni di flessibilità organizzativa),
l’affidamento al segretario di funzioni gestionali, va però
contemperata con altre disposizioni affermative di principi
di ordine generale, come quella secondo cui i compiti c.dd.
di amministrazione attiva spettano ai dirigenti e non
possono essere loro sottratti se non in virtù di una norma
primaria espressa (cfr. l’art. 4, comma 2 e 3, l’art. 15 e
ss. del citato t.u.p.i.; l’art. 107, comma 4, del t.u.o.e.l.)”.
L’attribuzione di funzioni dirigenziali ai segretari
comunali non è posta in posizione di equivalenza con la
scelta di assegnare incarichi di direzione ai dirigenti.
Questi ultimi sono titolari in via esclusiva della gestione.
Il che non può non portare alla conclusione secondo la quale
l’assegnazione di funzioni di direzione ai segretari (lo
stesso vale per l’attivazione dell’articolo 110 del Tuel) va
saldamente giustificato con l’evidenziazione di una
situazione non rimediabile se non con una temporanea
attività di “supplenza”, fermo restando che se
l’organizzazione prevede una struttura di vertice, essa non
può restare acefala o essere a tempo indefinito affidata
alla preposizione direzionale di un soggetto che non può e
non deve svolgere la funzione direzionale in via
continuativa, come il segretario comunale.
Sul punto, la Corte dei conti della Puglia è chiarissima:
“l’Accordo integrativo del 22.12.2003, sottoscritto in
attuazione dell’articolo 41, comma 4, del CCNL, e il
successivo Accordo integrativo del 13.01.2009. In
particolare, il primo dei citati accordi ha stabilito a
quali condizioni possa essere concessa la maggiorazione
dell’indennità in parola, condizioni che possono essere sia
di carattere oggettivo che di carattere soggettivo. Senza
entrare nello specifico di tali condizioni,
basti qui mettere in luce che il contratto precisa
che tale maggiorazione è consentita a condizione che al
segretario siano affidati incarichi gestionali comunque
afferenti alle sue funzioni istituzionali, ma “in via temporanea e dopo
aver accertato l’inesistenza delle necessarie
professionalità all’interno dell’Ente”. L’Accordo fissa poi
la misura minima e massima di tale maggiorazione, che non
può essere inferiore al 10% e superiore al 50% della
retribuzione di posizione in godimento, ad eccezione dei
comuni inferiori a 3.000 abitanti”.
Dunque, è l’ordinamento giuridico ad impedire di considerare
come fungibili gli incarichi dirigenziali. Essi sono
competenza esclusiva dei dirigenti. La scelta di affidarli
al segretario è transeunte e motivata da una verifica reale
di assenza di professionalità interne.
Spiega ancora la
Corte dei conti: “Tanto è vero che le sopra indicate
disposizioni contrattuali integrative si sono fatte carico
di precisare che l’attribuzione al segretario di funzioni
dirigenziali possa avvenire solo con atto formale del capo
dell’Amministrazione e in ogni caso previo accertamento
dell’assenza di adeguate figure professionali interne e
(solo) in via temporanea. Ciò evidenza chiaramente che la
strada dell’affidamento di compiti gestionali ai segretari
sia percorribile solo in via transitoria, e in caso di
eccezionale assenza delle necessarie professionalità
all’interno dell’Ente (ex multis, Cass., S.L. 12.06.2007, n.
13708; Cons. St., Sez. V, 25.09.2006, n. 5625; cfr.
anche Parere Min. Interno 17.12.2008): solo in tal modo è
possibile conciliare la facoltà concessa dal citato art. 97, co. 4, lett. d), del t.u.o.e.l.,
da un lato (come detto) con
l’intestazione ex lege di tali funzioni ai dirigenti,
dall’altro con l’esercizio in concreto dei compiti
gestionali negli enti di piccole dimensioni (notoriamente
privi di dirigenza e, sovente, anche di dipendenti inidonei
a svolgerle) o in particolari frangenti, tali da generare
situazioni di paralisi gestionale non risolvibili aliunde
(ex multis, Tar Piemonte, sez. II, 04.11.2008 n. 2739; Cons.
St., sez. IV, 21.08.2006 n. 4858). Dunque, nel rispetto di
tali presupposti al segretario possono essere attribuite
funzioni dirigenziali”.
L’ultimo passaggio enfatizzato in
grassetto smentisce le diverse ed erronee conclusioni cui,
invece, purtroppo è giunta la Consulta.
Può, comunque, un comune decidere per scelta organizzativa
di puntare su un segretario “dirigente apicale” di fatto e
quindi in ogni caso dotarlo di funzioni dirigenziali in via
continuativa, sì da giustificare anche una remunerazione
superiore alle maggiorazioni previste contrattualmente?
La risposta della Sezione Puglia è radicale e negativa: “Non
coglie nel segno sul punto l’assunto difensivo che fa leva
sulla asserita legittimità della retribuzione di posizione
in quanto finalizzata a remunerare funzioni gestionali
affidate non in via temporanea ma continuativa. In
proposito, per vero, è appena il caso di osservare che
la
stessa attribuzione di funzioni gestionali affidate non in
via temporanea, ma stabile e duratura al segretario generale
–sia pure attraverso diversi provvedimenti a tempo
riguardanti distinti servizi– si appalesa contra legem
perché effettuata in difetto dei presupposti normativi”.
C’è un vizio di legittimità genetico e non superabile nella
scelta di attribuire funzioni gestionali ai segretari
comunali. Che, per altro, sebbene spesso ottengano queste
funzioni a seguito delle “contrattazioni” spesso improprie
coi sindaci, poi pagano molto caramente, in termini di
serenità operativa e condizioni di lavoro, la disponibilità
data a riscontro delle maggiorazioni contrattuali.
Nel caso di specie, lo sconcerto mostrato dalla Corte dei
conti, sorge anche solo guardando l’incredibile elenco di
incarichi dirigenziali assegnati al segretario, con
molteplici decreti sindacali:
-
gestione dell’Ufficio Legale,
-
gestione della Segreteria Comunale,
-
gestione della Presidenza del Consiglio Comunale,
-
gestione del Servizio Sistemi Informativi e Statistica,
-
gestione del Contratto d’Area,
-
gestione del del 2° Settore “Attuazione Politiche per
l’Occupazione”,
-
gestione del del 5° Settore “Attuazione Politiche Sociali,
Educative, Culturali e Ricreative”,
-
gestione dell’Ufficio di Piano.
Una “non organizzazione”, uno schema organizzativo
semplicemente assurdo e non credibile, con una
concentrazione direzionale ingiustificabile, implausibile e
oggettivamente irrazionale.
Per altro, spiega la sentenza della Sezione Puglia “nessuno
dei competenti decreti sindacali di conferimento evidenzia
(se non nel limitato caso di cui al decreto n. 52 del
13.10.2010, in cui il segretario è stato incaricato ad
interim, per tre giorni, della gestione del Settore Bilancio
a causa del congedo del titolare dell’ufficio) alcun
elemento da cui arguire la mancanza in concreto di idonee
professionalità all’interno dell’Ente o la presenza di
situazioni contingenti di sorta, ulteriori rispetto alla
richiamata astratta esigenza di riorganizzare gli uffici, o
a quella generica di sgravare il dirigente fino ad allora
designato dal relativo carico”.
Indicazioni che sarebbero
state ancor più generali, in considerazione della dimensione
del comune, di quasi 60.000 abitanti, che, secondo la Corte
“induce ad ipotizzare –in difetto di contrarie allegazioni– un organico dirigenziale di assoluto rilievo e
consistenza, anche in termini di presenza di idonee figure
dirigenziali nei settori di competenza gestionale affidati,
invece, al segretario”.
La conclusione della Corte è caustica: “In definitiva,
il
sistema ordinamentale sopra tratteggiato [...] non consente
che ai segretari siano conferite funzioni gestionali in
pianta stabile, se non nei casi limite sopra indicati
(comuni privi di idonee figure dirigenziali, situazioni di
paralisi gestionale, ecc.) e previa adeguata motivazione”.
Laddove i segretari sono caricati di queste funzioni, la
verifica puntuale spesso porterebbe ad osservare situazioni
del tutto improprie, come quelle della sentenza, in cui la
caccia alla mostrina di “dirigente apicale” porta a
situazioni paradossali e dannose per l’erario; oppure, a
situazioni del tutto opposte, nelle quali, specie in piccoli
comuni, il segretario viene subissato di funzioni e
competenze, senza mezzi, senza strumenti, con strutture
spesso torpide, che agiscono a “tenaglia” con
l’amministrazione nello schiacciare l’ordinato svolgersi
delle competenze della figura.
La Corte costituzionale con la
sentenza
22.02.2019 n. 23 ha perso
l’occasione enorme di riallineare l’ordinamento a logica e
razionalità. La sentenza della Corte dei conti della Puglia
è lì, scolpita, a ricordarci di questa occasione
drammaticamente sfuggita. |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Nomina
di un RPCT diverso dal vicesegretario.
Domanda
Nel nostro comune è vacante il posto di segretario comunale
da molti mesi. Per sopperire a tale vacanza è stato nominato
un vicesegretario che lo sostituisce. Nel frattempo il
Sindaco ha nominato Responsabile Anticorruzione e
Trasparenza un altro funzionario del comune e non il
vicesegretario.
La nomina è legittima ?
Risposta
L’articolo 1, comma 7, della legge 06.11.2012, n. 190,
prevede che negli enti locali, il Responsabile della
prevenzione della corruzione e della trasparenza sia
individuato (dal sindaco, nei comuni) –di norma– nel
segretario o nel dirigente apicale, salva diversa e motivata
determinazione.
Come si può notare, la nomina del segretario comunale, in
qualità di RPCT, rappresenta la situazione di “normalità”,
ma non è l’unica ed esclusiva prevista dalle disposizioni in
materia di prevenzione della corruzione nella pubblica
amministrazione.
Per ciò che concerne l’incarico di vicesegretario occorre
rifarsi, invece, all’articolo 97, comma 5, del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, il quale stabilisce che
il ROUS (Regolamento di organizzazione uffici e servizi),
può prevedere un vicesegretario, con il compito di
coadiuvare il segretario e sostituirlo nei casi di assenza o
impedimento.
Nel caso specifico segnalato nel quesito, non si ritiene che
le funzioni svolte dal vicesegretario comunale debbano, per
forza o in automatico, riguardare anche l’incarico di RPCT.
La diversa valutazione compiuta dal sindaco, che ha
individuato un altro responsabile, è certamente legittima e
dovrà essere debitamente sostenuta dalle motivazioni
inserite nell’atto di nomina (23.07.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Ufficio
di staff con incarico gratuito.
Domanda
È possibile costituire l’ufficio di staff (ex art. 90 TUEL)
attribuendo un incarico gratuito ad un collaboratore del
sindaco? Cambia qualcosa se il collaboratore fosse in
pensione?
Risposta
Per poter costituire un ufficio alle dirette dipendenze del
sindaco (o della giunta o dei singoli assessori) è
necessario che la materia venga preventivamente disciplinata
nel ROUS (Regolamento per l’Ordinamento degli Uffici e dei
Servizi). L’ufficio di staff viene costituito per
l’esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo
attribuite –in questo caso– al sindaco.
L’ufficio di staff –struttura eventuale, ma non necessaria
in un ente locale– può essere costituito da dipendenti
dell’ente, che lasciano i propri incarichi e mansioni per
dedicarsi ad altro, o, se l’ente non è dissestato o
strutturalmente deficitario, da collaboratori assunti con
contratto a tempo determinato. Se questi collaboratori, sono
dipendenti di altra amministrazione, vengono posti in
aspettativa senza assegni (comma 1).
Al personale assunto con contratto di lavoro subordinato e a
tempo determinato, si applica il CCNL del comparto Funzioni
locali (comma 2).
L’ufficio di staff trova la sua ragion d’essere nella
collaborazione dell’organo politico, per l’esercizio delle
funzioni di indirizzo e controllo, per cui sono escluse
tutte le attività gestionali che restano in capo ai
dipendenti inquadrati nella struttura organizzativa del
comune, identificati nei dirigenti o posizioni organizzative
negli enti senza la dirigenza (comma 3-bis).
Ricapitolando tutte le disposizioni contenute nell’articolo
90, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, comprese
le ultime modifiche apportate, nel 2014 con il d.l. 90,
possiamo riassumere che la costituzione dell’ufficio di
staff:
• non richiede la pubblicazione di avvisi o lo svolgimento di
prove selettive;
• non richiede il possesso di specifici titoli di studio;
• non richiede specifica esperienza professionale;
• non richiede particolari contenuti del curriculum vitae o
professionale;
• non richiede che vi sia una verifica preventiva
dell’assenza di professionalità nell’ambito dell’ente;
• prevede, necessariamente, un carattere oneroso;
• non pone alcun limite alla possibilità di inquadrare i
destinatari degli incarichi, i cui contratti possono,
pertanto, classificarli dalla categoria A fino alla
dirigenza, nell’ambito del CCNL del comparto Funzioni
locali;
• non pone alcun limite alla retribuzione;
• non richiede alcuna particolare motivazione sulla scelta
del destinatario;
• è assoggettata ai limiti di spesa per il personale (media
della spesa del triennio 2011/2013).
Dopo aver provato a chiarire il quadro normativo in cui ci
si muove, dando risposta al doppio quesito presentato è
possibile scrivere quanto segue:
a) data la chiara portata dei commi 1 e 2 dell’articolo 90,
del TUEL, non è possibile nominare un componente
dell’ufficio di staff a titolo gratuito. Il collaboratore
esterno deve essere titolare di un contratto di lavoro
subordinato, a tempo determinato, parametrato a quello dei
dipendenti del comparto Funzioni locali, con le eventuali
deroghe –previste nel comma 3– per ciò che concerne il
trattamento economico accessorio;
b) non sarebbe vietato nominare nell’ufficio di staff un
collaboratore in pensione, ma resta vietato nominarlo a
titolo gratuito.
A completamento si riporta l’articolo 90, nel testo
attualmente in vigore: "Articolo 90 Uffici di supporto agli organi di direzione
politica
1. Il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei
servizi può prevedere la costituzione di uffici posti alle
dirette dipendenze del sindaco, del presidente della
provincia, della giunta o degli assessori, per l’esercizio
delle funzioni di indirizzo e di controllo loro attribuite
dalla legge, costituiti da dipendenti dell’ente, ovvero,
salvo che per gli enti dissestati o strutturalmente
deficitari, da collaboratori assunti con contratto a tempo
determinato, i quali, se dipendenti da una pubblica
amministrazione, sono collocati in aspettativa senza
assegni.
2. Al personale assunto con contratto di lavoro subordinato
a tempo determinato si applica il contratto collettivo
nazionale di lavoro del personale degli enti locali.
3. Con provvedimento motivato della giunta, al personale di
cui al comma 2 il trattamento economico accessorio previsto
dai contratti collettivi può essere sostituito da un unico
emolumento comprensivo dei compensi per il lavoro
straordinario, per la produttività collettiva e per la
qualità della prestazione individuale.
3-bis. Resta fermo il divieto di effettuazione di attività
gestionale anche nel caso in cui nel contratto individuale
di lavoro il trattamento economico, prescindendo dal
possesso del titolo di studio, è parametrato a quello
dirigenziale" (18.07.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi
PO e superamento limiti.
Domanda
Il Sindaco ha firmato dei decreti di nomina dei Responsabili
dei Servizi corrispondendo importi di retribuzione di
posizione che non rispettano il tetto del 2016. Cosa ci
suggerite?
Risposta
In risposta al vostro quesito, innanzitutto suggeriamo di
verificare se il calcolo dei valori delle posizioni
organizzative sono stati effettuati tenendo in
considerazione il concetto di “destinato” o meglio
dire “finalizzato” all’istituto così come riassunto
dalla Corte dei conti della Sicilia nella Deliberazione n.
172/2018: “il limite massimo di spesa di riferimento,
pertanto, non può essere quello quantificato tenendo conto
della ipotetica struttura organizzativa né quello relativo
alle somme effettivamente erogate e riferite all’esercizio
2016, piuttosto deve essere quello rappresentato
dall’ammontare delle risorse stanziate in bilancio nel
medesimo esercizio finanziario, nel rispetto del contratto
di lavoro e dei vincoli di finanza pubblica”.
Di fatto, nel 2017 non potevano essere stanziate somme in
misura incompatibili con l’art. 23, comma 2, del d.lgs.
75/2017 che prevede di non superare il trattamento
accessorio del 2016, tetto che va rispettato come unico
aggregato tra fondo e posizioni organizzative.
Pertanto, già in fase di attribuzione delle somme per
retribuzione di posizione e di risultato, l’ente avrebbe
dovuto preoccuparsi di verificare il rispetto della norma.
Purtroppo, però, dal momento in cui viene identificato
l’importo in un decreto del Sindaco, tale somme diventa a
nostro parere esigibile da parte del lavoratore, il quale,
se non corrisposta potrebbe rivolgersi al giudice del
lavoro.
Va però altresì precisato che, in ogni caso, il Sindaco non
ha un’autonoma e illimitata discrezionalità nell’aumentare
gli importi delle posizioni organizzative, in quanto il
sistema ha sempre previsto la necessità di avere nell’ente
criteri per la graduazione delle aree. Quindi, in assenza di
questi, c’è da chiedersi se i decreti di nomina del Sindaco
siano legittimi o non possano essere anche rivisti in
autotutela.
In ogni caso, tornando alla questione, se dalla somma
aritmetica dei valori come sopra determinati risulta che un
ente non ha rispettato il tetto dell’anno di riferimento,
non vi è alcun dubbio che ha creato un superamento del
vincolo finanziario che dovrà essere recuperato negli anni
successivi.
Ora, se diamo per assodato che i valori delle p.o. siano “giusti”
e quindi quelli stanziati, l’ente non avrebbe potuto
stanziare quelle somme di parte variabile nel fondo negli
anni di riferimento perché quei valori portano al
superamento del limite che, appunto, ora dovrà essere
recuperato sui fondi degli anni successivi.
Se invece l’ente ritiene che l’errore sia nella
quantificazione del valore delle p.o. dovrà agire in
autotutela con la revisione dei decreti di nomina (11.07.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Allattamento genitore lavoratore autonomo.
Domanda
Un papà chiede le 2 ore di allattamento giornaliere per suo
figlio. La madre è lavoratrice autonoma e gode
dell’indennità di maternità riconosciuta dall’INPS. La
domanda del padre può essere accolta?
Risposta
I riposi giornalieri del padre, meglio noti come le 2 ore di
allattamento, sono disciplinati all’art. 40 del d.lgs.
151/2001.
La norma di legge prevede che al padre siano riconosciuti 2
periodi di riposo della durata di 1 ora ciascuno (se
l’orario di lavoro è di almeno 6 ore) solo nelle seguenti
ipotesi:
a) nel caso in cui i figli siano affidati al solo padre;
b) in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne
avvalga
c) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente;
d) in caso di morte o di grave infermità della madre.
L’alternatività nel godimento dei riposi giornalieri da
parte del padre è prevista solo in relazione alla madre
«lavoratrice dipendente» che non se ne avvalga.
Quindi, solo se la madre è lavoratrice subordinata, è
prevista la regola dell’alternatività, ovvero il padre può
godere dei riposi giornalieri solo se la madre non se ne
avvale. Vale a dire che se la madre subordinata è in congedo
di maternità, il padre non può godere dei riposi
giornalieri.
Al contrario, nel caso di madre “lavoratrice autonoma”
non vi è alcun divieto normativo di cumulo tra godimento
dell’indennità di maternità e la fruizione dei riposi
giornalieri.
Le ragioni della diversa disciplina nascono dalla diversa
condizione lavorativa delle madri, meno tutelata dal punto
di vista economico per la lavoratrice autonoma rispetto alle
garanzie che la legge offre alla lavoratrice dipendente.
La cumulabilità del congedo di maternità della lavoratrice
autonoma con i riposi giornalieri del padre è confermata
dalla Cassazione con sentenza n. 22177 del 12.09.2018 (04.07.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
giugno 2019 |
 |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Comporta
responsabilità amministrativa l’erroneo calcolo degli oneri di
urbanizzazione posti a carico dei privati ai quali è rilasciata la
concessione edilizia. Il termine di prescrizione decorre dalla data di
rilascio del titolo edilizio.
Fermo restando la concorrente responsabilità degli organi di governo
dell’Ente, causa danno erariale la condotta del responsabile dell’ufficio
tecnico che non abbia segnalato, tra l’altro, la necessità di adottare la
delibera di adeguamento dei costi in esame sulla base delle variazioni
ISTAT.
----------------
FATTO
1. Con la sentenza n. 87/2017, depositata il 06.03.2017 e notificata il
15.05.2017 la Sezione giurisdizionale regionale della Corte dei conti per la
Puglia, in parziale accoglimento della domanda risarcitoria in tal senso
proposta dalla Procura regionale, ha condannato il sig. Fr.Ma., responsabile
del Settore tecnico del Comune di Salve (LE), a pagare a quest’ultimo, la
somma complessiva di euro 10.000,00, omnicomprensivi di rivalutazione
monetaria, oltre interessi, in misura legale, fino al momento del soddisfo.
1.1. Le contestazioni della Procura, condivise dalla sentenza del giudice di
primo grado attengono alla mancata applicazione nel Comune di Salve (LE),
per il periodo dal 2008 al 2011, del corretto valore del costo di
costruzione da utilizzare per la quantificazione del contributo finanziario
a carico dei privati in sede di rilascio dei permessi di costruire.
1.2. La Sezione regionale, dopo avere affermato la concretezza e l’attualità
del danno sin dalla data del rilascio del permesso di costruire ha accolto
parzialmente la domanda attrice, rideterminando il danno addebitabile al Ma.
in euro 16.839,77.
Ha sostenuto la Sezione che la parte di danno relativa al periodo
interessato dagli aggiornamenti disposti dalla Giunta Comunale non può
essere collegata completamente imputata al convenuto, essendo tali decisioni
state assunte dall'organo di governo, e che pertanto nel periodo in cui sono
intervenute le delibere di Giunta (aprile 2009 e giugno 2011), può
quantificarsi pari a due terzi di quello prodottosi nel 2009 (2.927,06) ed
alla metà di quello scaturito per l'anno 2011 (2.742,28).
Rilevato il recupero da parte del Comune, con riguardo alle pratiche
edilizie del 2008 dell'importo di euro 3.090,61 e per quelle relative al
2009 dell'importo di euro 2.235,53, ha portato in diminuzione per intero
dalla somma il primo importo ed il secondo in riduzione nei limiti della
quota di danno addebitata al convenuto per l'anno 2009 ossia pari ad un
terzo.
In applicazione del potere riduttivo dell'addebito ha, poi, rideterminato
l'importo di danno nella misura di euro 10.000,00 comprensivi anche della
rivalutazione monetaria maturata sino alla data di deposito in Segreteria
della decisione; oltre gli interessi in misura legale, calcolati a decorrere
dalla suddetta data sino al soddisfo.
2. Avverso la sentenza ha proposto appello il sig. Ma. rilevando vari motivi
di gravame.
...
DIRITTO
1. La presente fattispecie ha ad oggetto il danno causato al Comune di
Salve (LE) a causa della mancata applicazione nel Comune di Salve (LE), per
il periodo dal 2008 al 2011, del corretto valore del costo di costruzione da
utilizzare per la quantificazione del contributo finanziario a carico dei
privati in sede di rilascio dei permessi di costruire.
Con il primo motivo l’appellante lamenta, sostanzialmente,
l’inattualità del danno, atteso che il Comune può ancora intervenire nel
termine di prescrizione decennale per recuperare la differenza tra i costi
di costruzione riscossi e quelli dovuti.
Il motivo non ha pregio, perché anche se ciò è vero, le relative partite
contabili non risultano in atto incassate, né è certo se mai lo saranno: la
concretezza e l’attualità del danno, infatti, risiede nella perdita
dell’originaria fonte di credito per l’Ente Locale e poiché gli oneri di
costruzione sono stati riscossi in misura inferiore al dovuto, il
procedimento volto al recupero dei differenziali si appalesa, all’attualità,
di esito incerto e non prevedibile, considerato che i contribuenti, per via
del tempo trascorso, potrebbero più facilmente contestarne la legittimità.
La stessa giurisprudenza del giudice amministrativo ritiene che il costo di
costruzione, sia una prestazione patrimoniale di natura impositiva che trova
la sua ratio nell’incremento patrimoniale che il titolare del permesso di
costruire consegue in dipendenza dell’intervento edilizio e che viene
determinato al momento del rilascio della concessione, che costituisce il
fatto costitutivo del relativo obbligo giuridico.
Relativamente alla dedotta assenza dell’elemento soggettivo della colpa
grave rileva preliminarmente il Collegio che, alla luce della posizione
rivestita dall’appellante, nel 2008, così come negli anni successivi, di
responsabile del settore Tecnico del predetto comune, rientrava, senza alcun
dubbio, tra i doveri e gli obblighi intestati a tale tipologia di
funzionario, la vigilanza sull’ammontare degli introiti, da parte del
Comune, relativi al settore di competenza.
Infatti, gli artt. 4 e 11 del D.L.vo n. 165/2001 e 111 del D.L.vo n.
267/2000 stabiliscono che agli amministratori spettano poteri di indirizzo
politico, mentre ai dirigenti la relativa attuazione e la concreta gestione.
D’altronde, la normativa in materia, nazionale e regionale, prevedeva che il
costo di costruzione venisse determinato periodicamente dalle Regioni e
adeguato annualmente sulla base delle variazioni ISTAT.
E che gli adempimenti di cui trattasi rientrassero tra gli atti di gestione,
trattandosi di autorizzazioni e concessioni edilizie da corredare,
necessariamente con la determinazione del relativo quantum da versare, è
fuor di dubbio.
Ma anche a voler considerare, per gli anni 2008 e 2010 l’inerzia dell’organo
politico, che, secondo l’appellante, non avrebbe adottato la deliberazione
annuale di adeguamento dei costi in questione, resta, pur sempre, inalterata
la responsabilità del Martella il quale, in qualità di responsabile del
settore, avrebbe dovuto segnalare tale inadempimento e sollecitarlo al fine
di evitare le conseguenze dannose derivanti dal mancato adeguamento, nel
tempo, del contributo in argomento.
In tal senso la sentenza deve essere confermata.
In ordine al quantum debetaur, invece, osserva il Collegio che la
documentazione depositata nel corso del giudizio, dalla quale risulta per
tabulas che il Comune ha già recuperato la somma di € 3.772,26, relativa
ai contributi di costruzione per l’anno 2008, la somma di € 3.446,62,
relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2009; la somma di €
5.796,91, relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2010; la somma di
€ 4.065,08, relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2011, consente
di potere dichiarare la cessazione della materia del contendere fino alla
concorrenza della somma, di € 8.915,09.
Va infatti, nella determinazione del quantum, seguito il calcolo
operato in sentenza (sulle cui modalità si è formato giudicato), e va tenuto
conto che, ai fini della determinazione del danno al 21.12.2016 è già stato
decurtato, con riguardo alle pratiche edilizie del 2008 l'importo di €
3.090,61 e per quelle relative al 2009 l'importo di € 2.235,53.
Pertanto dalla somma di € 10.000,00 (di cui è condanna) va detratta la somma
di euro somma di € 681.65 (€ 3.772,26 – € 3.090,61) relativa ai contributi
di costruzione per l’anno 2008, la somma di € 403,69 (1/3 di € 3.446,62 – €
2.235,53) relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2009; la somma di
€ 5.796,91, relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2010; la somma
di € 2.032,84, relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2011 ( pari
ad ½ di € 4.065,08).
Per il resto, la sentenza deve essere confermata con il rigetto
dell’appello, fermo restando che, con riferimento alla somma residua pari a
€ 1.084.91, l’interessato potrà far valere –in sede esecutiva– l’eventuale
ulteriore recupero, da parte del Comune, della somma di cui è condanna.
Ogni ulteriore motivo non espressamente affrontato deve ritenersi assorbito
e, in ogni caso, respinto.
Le spese sono compensate ai sensi dell’art. 31, comma 3 c.g.c.
P.Q.M.
La Corte dei Conti - Sezione Terza Centrale d’appello, definitivamente
pronunciando, disattesa ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione,
dichiara cessata la materia del contendere fino alla concorrenza di €
8.915,09.
Respinge l’appello e conferma la sentenza impugnata fino alla concorrenza di
€ 1084.91, nei termini di cui in motivazione (Corte dei Conti, Sez. III
centrale d'appello,
sentenza 27.06.2019 n. 127). |
PUBBLICO IMPIEGO: Cambio
turno.
Domanda
È possibile per un dipendente chiedere autonomamente il “cambio
turno”? Come funziona?
Risposta
Premesso che la fattispecie non è normata da alcuna
disciplina di contratto e di legge, il cambio turno non
esiste dal punto di vista giuridico, per cui l’unico
soggetto che legittimamente può regolamentare in materia è
il datore di lavoro (dirigente) nell’esercizio dei suoi
poteri conferitegli dall’art. 5, comma 2, del d.lgs.
165/2001.
La regolamentazione va inserita nel disciplinare sull’orario
di lavoro e non richiede alcuna partecipazione sindacale
diversa dalla sola informazione.
Ciò detto, le motivazioni che legittimano il cambio turno
sono definite e perimetrate dal datore di lavoro che deve
tenere conto del rischio che conduce un abuso di questo
istituto.
Non sono le motivazioni personali generiche dei lavoratori a
prevalere sull’esigenza di rispettare le condizioni
legittimanti l’indennità di turno (in proposito si legga la
delibera della Corte dei Conti Molise n. 25/2016).
Un utilizzo incontrollato di cambi turni può far venire meno
la legittimità della corresponsione della relativa
indennità, producendo ad esempio un disequilibrio tra turni
mattutini e pomeridiani nell’arco del mese, è quindi dovere
e compito del datore di lavoro monitorare e regolamentare un
corretto e proprio utilizzo del cambio turno.
Tale ipotesi, del resto, è certamente riconducibile ad una
forma di flessibilità, non normata, e che per questa ragione
richiede di essere regolamentata tenuto conto di quanto
sopra (27.06.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto:
Chiarimenti e linee guida in materia di collocamento
obbligatorio delle categorie protette. Articoli 35 e 39 e
seguenti del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 - Legge
12.03.1999, n. 68 - Legge 23.11.1998, n. 407 - Legge
11.03.2011, n. 25
(direttiva
24.06.2019 n. 1/2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Danno
erariale alla commissione di concorso che forma una graduatoria errata.
Alla commissione di concorso è richiesto uno standard
minimo professionale nella valutazione dei titoli dei candidati al momento
della formazione della graduatoria, specialmente quando una sua errata
valutazione possa comportare un ribaltamento della posizione utile del
candidato che aspira alla copertura del posto a vantaggio del secondo
classificato.
In caso di annullamento della graduatoria disposto dal
tribunale amministrativo, pertanto, le spese inutilmente sopportate
dall'ente pubblico devono essere poste a carico della commissione che abbia
operato al di sotto della ordinaria esigibilità.
Queste sono le conclusioni cui è giunta la Corte dei conti della Toscana (sentenza
20.06.2019 n. 262).
La vicenda
Il bando di concorso per la nomina a tempo determinato di un addetto stampa
prevedeva il possesso dell'iscrizione all'albo dei pubblicisti o dei
giornalisti, mentre per la formazione della graduatoria la commissione
avrebbe dovuto valutare i candidati secondo questi punteggi: «Titoli di
studio: diploma di laurea o laurea specialistica in materie attinenti fino a
20 punti; Titoli culturali o professionali, fino ad un massimo di 30 punti;
3. Curriculum fino ad un massimo di 40 punti; colloquio fino ad un massimo
di 10 punti».
Avverso la scelta del candidato vincitore, il secondo idoneo in graduatoria
chiedeva alla commissione di modificare la medesima, in considerazione del
fatto che al vincitore erano stati attribuiti dei punteggi sul titolo di
studio della laurea che non possedeva. A seguito di questa richiesta, la
commissione di concorso confermava il vincitore modificando tuttavia i
punteggi complessivi dei titoli, avendo proceduto da un alto alla
eliminazione del punteggio erroneamente attribuito al vincitore nel titolo
di studio, ma dall'altro lato modificava anche il punteggio dei titoli
culturali e professionali in modo tale da far restare immutata la
graduatoria.
Il Tar cui era ricorso il candidato estromesso annullava la graduatoria e
condannava l'ente pubblico alle spese di giudizio, che la procura contabile
riteneva inutilmente sborsate dall'ente pubblico e quindi configuranti danno
erariale da porre a carico della commissione di concorso, che era
interamente rinviata a giudizio.
La conferma del danno erariale
Il collegio contabile toscano ha preliminarmente evidenziato come la
medesima commissione abbia inizialmente corretto il proprio errore per aver
attribuito un punteggio su un titolo di studio non posseduto dal candidato
risultato vincitore, ammettendo i propri sbagli. La sussistenza della colpa
grave è dovuta sicuramente alla imperizia con la quale la commissione di
concorso ha proceduto all'attribuzione di un punteggio inesistente al
vincitore della selezione, imperizia questa che giustifica da sola il danno
erariale che è pari al valore del rimborso delle spese di giudizio
sopportate dall'ente pubblico.
Per i giudici contabili, infatti, la colpa grave è caratterizzata dal
comportamento il cui grado di diligenza, perizia, prudenza, correttezza e
razionalità sono da ritenersi inferiori allo standard minimo professionale
esigibile e tale da rendere prevedibile o probabile il concreto verificarsi
dell'evento dannoso (tra le tante: Corte conti, Sezione II Appello, sentenza
n. 611/2011 e Sezione I Appello n. 357/2018).
Secondo la Corte dei conti, pertanto, l'errore commesso dalla commissione di
concorso è da classificarsi al di sotto della ordinaria esigibilità, con la
conseguenza del danno erariale subito dall'ente pubblico pari alle spese di
giudizio sopportate inutilmente
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 25.06.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Articolazione orario lavoro.
Domanda
Abbiamo la necessità di aprire lo sportello al pubblico
anche il sabato modificando quindi l’orario di lavoro a due
dipendenti. Avrei bisogno di sapere cosa dobbiamo fare per
procedere in tal senso?
Risposta
La modifica dell’articolazione dell’orario di lavoro è
oggetto di confronto con le parti sindacali. La dinamica del
confronto è indicata all’art. 5 del contratto che riportiamo
di seguito:
1. Il confronto è la modalità attraverso la quale si instaura un
dialogo approfondito sulle materie rimesse a tale livello di
relazione, al fine di consentire ai soggetti sindacali di
cui all’art. 7, comma 2, di esprimere valutazioni esaustive
e di partecipare costruttivamente alla definizione delle
misure che l’ente intende adottare.
2. Il confronto si avvia mediante l’invio ai soggetti sindacali
degli elementi conoscitivi sulle misure da adottare, con le
modalità previste per la informazione. A seguito della
trasmissione delle informazioni, ente e soggetti sindacali
si incontrano se, entro 5 giorni dall’informazione, il
confronto è richiesto da questi ultimi. L’incontro può anche
essere proposto dall’ente, contestualmente all’invio
dell’informazione. Il periodo durante il quale si svolgono
gli incontri non può essere superiore a trenta giorni. Al
termine del confronto, è redatta una sintesi dei lavori e
delle posizioni emerse.
3. Sono oggetto di confronto, con i soggetti sindacali di cui
all’articolo 7, comma 2:
a) l’articolazione delle tipologie dell’orario di
lavoro;
b) i criteri generali dei sistemi di valutazione
della performance;
c) l’individuazione dei profili professionali;
d) i criteri per il conferimento e la revoca
degli incarichi di posizione organizzativa;
e) i criteri per la graduazione delle posizioni
organizzative, ai fini dell’attribuzione della relativa
indennità;
f) il trasferimento o il conferimento di attività
ad altri soggetti, pubblici o privati, ai sensi dell’art. 31
del D. Lgs. n. 165/2001;
g) la verifica delle facoltà di implementazione
del Fondo risorse decentrate in relazione a quanto previsto
dall’art. 15, comma 7;
h) i criteri generali di priorità per la mobilità
tra sedi di lavoro dell’amministrazione;
i) negli enti con meno di 300 dipendenti, linee
generali di riferimento per la pianificazione delle attività
formative.
A seguire e a confronto concluso (30 giorni) va redatta una
determina dirigenziale (20.06.2019 - tratto da e link
a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Danno
erariale, prescrizione e responsabilità solidale tra dirigente e
responsabile del procedimento.
La
sentenza
17.06.2019 n. 117 della
Corte di Conti, Sez. III Giur.le Centrale d’Appello, merita particolare
attenzione poiché affronta due temi frequenti nei giudizi contabili,
offrendo utili chiarimenti.
L’uno riguarda la condivisione della responsabilità per il danno
erariale tra il dirigente e il responsabile del procedimento; l’altro
il termine di prescrizione e, nella specie, il momento della sua decorrenza
in materia di indebite erogazioni quando soggetto erogante e soggetto
concedente non coincidano.
Solidarietà tra dirigente e responsabile del procedimento
In linea generale e di principio il dirigente è responsabile del danno
erariale prodotto dall’atto amministrativo (illegittimo) di cui è
firmatario.
Tale responsabilità può essere condivisa, in ragione dell’apporto causale,
con il responsabile del procedimento.
Ai sensi dell’art. 5 e ss, Legge 241/1990 quest’ultimo è tenuto a curare
l’istruttoria e tutti quegli adempimenti previsti dalla legge e/o delegati
dal dirigente, necessari alla formazione della volontà amministrativa. Il
dirigente può accogliere i risultati dell’istruttoria e, dunque, provvedere
di conseguenza oppure può respingerli, sollecitando ulteriori attività di
accertamento, ovvero rinunciare all’adozione dell’atto.
Recentemente è stata apprezzata una certa tendenza di alcuni dirigenti a
ridurre e/o esimersi dalla propria responsabilità amministrativa
riversandola sul responsabile del procedimento. Taluni, addirittura, per
fortuna molto pochi, usano dell’istituto allo scopo di precostitursi un
coobbligato solidale, una sorta di assicurazione gratuita per la
responsabilità professionale.
Il giudice contabile, con la sentenza in nota, ha precisato che la
responsabilità per danno erariale derivante dall’emissione di una
illegittima e dannosa determina dirigenziale vada attribuita al solo
dirigente quando “manchi del tutto l’evidenza della partecipazione alla fase
istruttoria del responsabile del procedimento”, evidenza da individuarsi
almeno nella presentazione per la firma della bozza del provvedimento
finale.
La formale attribuzione della responsabilità del procedimento, infatti, “non
è elemento sufficiente, di per sé, a fondare una sua responsabilità per
l’emissione di atti a conclusione di procedimenti nei quali non sia
concretamente intervenuto”.
Lo stesso dicasi nell’ipotesi in cui –pur essendo intervenuto– non abbia
firmato (con il dirigente) l’atto amministrativo incriminato.
La prescrizione del danno
Secondo la consolidata giurisprudenza del giudice contabile (SS.RR.,
15.01.2003, n. 2/QM) “l’art. 1, comma 2, della l. n. 20/1994, nel costituire
declinazione della regola generale sulla prescrizione dei diritti espressa
nell’art. 2935 c.c., deve essere interpretato nel senso che la prescrizione
non può decorrere prima che il “fatto” (cioè “l'evento” dannoso, costituito
da condotta e depauperamento patrimoniale) sia conosciuto, o conoscibile
secondo l’ordinaria diligenza, da parte dell’ente danneggiato.”
Nel caso all’esame della Corte -indebite erogazioni- deve escludersi che
il dies a quo della prescrizione possa identificarsi con l’erogazione del
beneficio, poiché nel particolare procedimento mancava, al momento
dell’erogazione, una “conoscibilità oggettiva” dell’illecito da parte
dell’ente erogatore il quale non era né il soggetto concedente né
l’intestatario di poteri di controllo.
Sono atti interruttivi del decorso del termine prescrizionale, tra gli
altri, la notifica dell’invito a dedurre e la notificazione dell’atto di
citazione
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.06.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Cause di inconferibilità per incarico ex art. 110, comma 1, del tuel
267/2000.
Domanda
Dopo le elezioni amministrative del 26.05.2019, il nostro sindaco
(confermato) intende avviare una procedura pubblica finalizzata alla
copertura di un posto di responsabile apicale di area –con posizione
organizzativa, in ente senza dirigenza– ai sensi dell’articolo 110, comma 1,
del TUEL. Tra i “papabili” figura un ex assessore che ha terminato il
proprio mandato il 26/05/2019. Il comune ha meno di 15.000 abitanti.
Come ci dobbiamo comportare se l’ex assessore partecipa alla procedura? Lo
dobbiamo ammettere?
Risposta
Il riferimento normativo in materia di inconferibilità e incompatibilità di
incarichi dirigenziali presso le pubbliche amministrazioni (compresi i
comuni), va rinvenuto nel decreto legislativo 08.04.2013, n. 39.
In particolare, va evidenziato che l’articolo 2, comma 2, del citato decreto
prevede che le norme si applicano, negli enti locali, anche al conferimento
di incarichi dirigenziali a personale non dirigenziale, come in effetti
accade nei comuni, nei comuni privi di figure dirigenziali, con i titolari
di posizione organizzativa, a cui il sindaco conferisce le funzioni
dirigenziali, ai sensi degli articoli 50, comma 10 e 109, comma 2, del Testo
Unico Enti Locali.
Venendo allo specifico quesito, si ritiene che le cause di inconferibilità,
non siano rinvenibili, nel caso segnalato, dal momento che il vostro comune
ha meno di 15.000 abitanti.
L’articolo 7, comma 2, lettera b) –che richiama la precedente lettera a)–
prevede, infatti, una causa di inconferibilità per i componenti dei consigli
o delle giunte (fissata in uno o due anni), ma solamente per gli incarichi
dirigenziali nei comuni sopra 15.000 abitanti.
In tali enti (ma solo in quelli) si deve rispettare quello che alcuni
commentatori hanno definito il “periodo di raffreddamento”,
intendendo per esso un lasso temporale che non comporta un’esclusione
permanente dal conferimento dell’incarico dirigenziale, ma solo di natura
temporanea.
La normativa, in pratica, vuol impedire che un soggetto che si trovi in una
posizione tale da compromettere l’imparzialità, acceda all’incarico senza
soluzione di continuità. È necessario un periodo di raffreddamento, utile a
garantire la condizione di imparzialità all’incarico (18.06.2019 -
tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Aumento
orario part-time.
Domanda
Un dipendente del Comune è stato assunto ad aprile 2018 con contratto di
lavoro a tempo indeterminato e part-time (18 ore settimanali).
Le ore di lavoro possono essere aumentate da 18 ore fino a 30 settimanali?
Quali sono le condizioni? C’è bisogno di una modifica del programma del
fabbisogno del personale?
Risposta
L’art. 3, comma 101, della legge n. 244/2008 sancisce che la trasformazione
del rapporto di lavoro da part-time a full time può avvenire nel rispetto e
nelle modalità previste dalle disposizione vigenti in tema di assunzioni.
Le varie sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti hanno da tempo
chiarito che l’aumento del part-time che non determini la trasformazione a
tempo pieno non entra nei vincoli alle assunzioni a tempo indeterminato.
L’inclusione dell’ampliamento dell’orario di lavoro di un dipendente assunto
a part-time nel tetto delle capacità assunzionali è limitata alla vera e
propria trasformazione del rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo
pieno, mentre ne rimane esclusa l’ipotesi dell’incremento delle ore
lavorative.
Un mero aumento orario non integra, infatti, una nuova assunzione, sicché
non fa scattare la soggezione ai limiti e divieti alle stesse, sempre che
ciò non si traduca in una manovra elusiva.
A tal proposito, si ritiene di affermare, sulla base della giurisprudenza
contabile formatasi in materia, che l’aumento orario a n. 35 ore
settimanali, una in meno del full-time, costituirebbe già manovra elusiva (Sez.
Sardegna n. 67/2012).
E’ necessario per effettuare l’ampliamento de quo rispettare il limite
generale della spesa di personale (Sez. Basilicata n. 51/2016 e Sez. Puglia
n. 159/2017) e procedere alla modifica del PTFP (13.06.2019 - tratto
da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Distacco
sindacale e straordinario.
Domanda
Un dipendente dell’Ente è stato collocato dallo scorso 1
novembre in distacco sindacale part-time al 50%.
Per il restante 50% presta regolarmente servizio presso
questo Ente in due giorni settimanali (con orario
giornaliero di 9 ore).
Può svolgere nelle suddette giornate lavoro supplementare di
cui all’articolo 55 del CCNL del 21/05/2018?
Risposta
Occorre in primo luogo chiarire che la nozione di “lavoro
supplementare” utilizzata nel CCNL del Comparto Funzioni
Locali, sottoscritto in data 21.05.2018, attiene al rapporto
di lavoro a tempo parziale e fa riferimento
all’effettuazione di prestazioni di lavoro eccedenti
l’orario ridotto concordato tra le parti ma contenute entro
i limiti dell’orario a tempo pieno. Nell’eventualità di
svolgimento di prestazioni aggiuntive del dipendente che
superino anche la durata dell’orario normale di lavoro
occorre, invece, riferirsi alla nozione di lavoro
straordinario.
Fatta questo doverosa premessa, occorre fare riferimento, ai
fini del corretto inquadramento della situazione
rappresentata, a quanto dettato in materia di flessibilità
dei distacchi sindacali dall’articolo 8 del CCNQ sulle
modalità di utilizzo dei distacchi, aspettative e permessi,
nonché delle altre prerogative sindacali, sottoscritto il
04/12/2017.
Il comma 5 del summenzionato articolo 8 stabilisce che “il
trattamento economico del lavoratore in distacco sindacale
part-time ai sensi del comma 3 è quello previsto all’art.
19, comma 3 (Trattamento economico). Per il diritto alle
ferie e per lo svolgimento del periodo di prova in caso di
vincita di concorso o passaggio di qualifica (purché in tale
ipotesi sia confermato il distacco sindacale con prestazione
lavorativa ridotta) si applicano le norme previste nei
singoli contratti collettivi di lavoro per il rapporto di
lavoro part-time –orizzontale o 10 verticale– secondo le
tipologie del comma 4. Tale ultimo rinvio va inteso solo
come una modalità di fruizione dei distacchi sindacali che,
pertanto, non si configurano come un rapporto di lavoro
part-time – e non incidono sulla determinazione delle
percentuali massime previste, in via generale, per la
costituzione di tali rapporti di lavoro”.
Pertanto, la summenzionata disposizione chiarisce che i
rinvii alle norme in materia di part-time operati
nell’ambito del CCNQ quale riferimento per la disciplina da
applicare alle fattispecie menzionate vanno intesi meramente
come una modalità di fruizione dei distacchi sindacali, non
configurando, pertanto, un rapporto di lavoro part-time ai
sensi del contratto collettivo del comparto.
Ne deriva, quindi, che il caso sottoposto non va considerato
alla stregua di un rapporto di lavoro a tempo parziale e
che, conseguentemente, la nozione di lavoro supplementare
non è appropriata (06.06.2019 - tratto da
e link a www.publika.it). |
maggio 2019 |
 |
PUBBLICO IMPIEGO: Furbetti
cartellino e reato di truffa.
Domanda
La falsa attestazione della presenza in servizio integra il
reato di truffa aggravata anche se il raggiro produce nel
complesso assenze di pochi minuti?
Risposta
La copiosa e recente giurisprudenza che si è occupata dei
furbetti del cartellino non ammette sconti nemmeno nei casi
in cui la falsa attestazione della presenza in servizio
derivi da manomissioni del sistema di rilevazione
dell’orario di presenza che nel complesso producono assenze
di pochi minuti.
Le ragioni delle diverse Cassazioni Penali (Cassazione
Penale, sentenza, n. 20130 del 08.05.2018; Cassazione
Penale, n. 3262 del 23.01.2019; Cassazione Penale n. 9900
del 05.03.2018; Cassazione Penale n. 22972 del 22.05.2018)
si esprimono all’unisono, muovendo dall’assunto che la falsa
attestazione del pubblico dipendente circa la presenza in
ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli
presenza, è condotta fraudolenta, idonea aggettivamente ad
indurre in errore l’amministrazione di appartenenza circa la
presenza sul luogo di lavoro e integra il reato di truffa
aggravata ove il pubblico dipendente si allontani senza far
risultare, mediante timbratura del cartellino, i periodi di
assenza, sempre che siano da considerare economicamente
apprezzabili.
Apprezzabile però, non è sinonimo di rilevante.
Non va tenuto conto solo dell’aspetto economico del danno
patrimoniale, incarnato nell’indebita percezione, da parte
del lavoratore, di un emolumento retributivo in assenza di
prestazione lavorativa resa; l’esiguità dell’aspetto
economico non prevale infatti sul grave tradimento del
rapporto fiduciario esistente tra dipendente e
Amministrazione datrice di lavoro.
Le norme non ammettono una soglia di tolleranza al di sotto
della quale non è integrata la fattispecie di reato: non nel
caso di falsa attestazione della presenza in servizio, in
qualunque modo essa avvenga.
Anche una indebita percezione di poche centinaia di euro
costituisce quindi un danno economicamente apprezzabile per
il datore di lavoro pubblico.
L’esiguità della somma può tutt’al più integrare
l’attenuante della speciale tenuità ma non certo impedire la
configurabilità del reato di truffa aggravata.
In relazione alle situazioni che si palesano come meno gravi
in quanto afferenti ad intervalli temporali esigui e a
corrispondenti valori economici di somme indebitamente
percepite, è stata sollevata questione di legittimità
costituzionale dell’art. 55-quinquies (False attestazioni o
certificazioni) del d.lgs. 165/2001 nella parte in cui non
prevede un’ipotesi attenuata per i casi di minore gravità.
La Corte Costituzionale, con ordinanza n. 184, depositata il
04.10.2018, ha dichiarato la manifesta inammissibilità della
questione di legittimità costituzionale dell’art.
55-quinquies del d.lgs. 165/2001 (30.05.2019 - tratto
da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Sul
danno erariale derivante dal riconoscimento ex post,
da parte del comune, di debiti a titolo di corrispettivi per
lo svolgimento di lavori saltuari e occasionali svolti da
privati cittadini e sulla portata dell'ex "parere di
legittimità", del "parere di regolarità
tecnica" e del "parere di regolarità contabile".
Le delibere di Giunta oggetto del presente giudizio non
hanno valore come riconoscimento di debiti fuori bilancio
per l’incompetenza assoluta dell’organo esecutivo del
Comune.
Infatti, solo il riconoscimento formale da parte del
Consiglio Comunale consente l’imputazione del debito assunto
irregolarmente al bilancio dell’ente.
---------------
Sussiste la piena responsabilità del sindaco
e degli assessori (Giunta
Comunale)
per aver posto in essere una condotta antigiuridica –connotata da
colpa grave- tesa al riconoscimento di debiti da parte di un
organo incompetente a riconoscere i debiti dell’Ente,
soprattutto in assenza dei presupposti normativi per
l’applicabilità dell’art. 191, 3 comma, e/o per il
riconoscimento di cui all’art. 194 del TUEL.
---------------
Parimenti responsabile il geometra responsabile dell’area
tecnica e del personale, per aver apposto il parere di
regolarità tecnica in calce alle delibere di cui è causa
senza verificare la legittimità e regolarità delle procedure
relative alla fase dell’impegno contabile e della spesa,
alla fase contrattuale e di assegnazione dei lavori e alla
fase di verifica della regolare esecuzione degli stessi.
---------------
Altrettanto responsabile il
segretario comunale, per il quale valgono le seguenti
considerazioni.
E’ indubbio che il segretario comunale svolge una specifica
funzione di garante della legalità e di correttezza
amministrativa dell’azione dell’ente locale, di assistenza e
di collaborazione giuridica ed amministrativa proprio in
virtù dell’art. 17, comma 68, della l. 127 del 1997, ma
ancor prima in virtù della l. 142 del 1990.
L’intervenuta soppressione, ai sensi dell’art. 17,
comma 85, della legge citata, del parere di legittimità su
ogni proposta di deliberazione giuntale o consiliare, non
costituisce commodus discessus da ogni responsabilità.
Al contrario, l’evoluzione normativa in
materia, ben lungi dall'evidenziare una sottrazione del
segretario in questione alla responsabilità amministrativa
per il parere eventualmente espresso su atti della Giunta o
del Consiglio, ne ha invece sottolineato le maggiori
responsabilità in ragione della rilevata estensione di
funzioni, di tal che non assume alcun rilievo esimente
l'art. 17, commi 85 e 86, l. n. 127/1997 che ha
espressamente abrogato l'istituto del parere preventivo di
legittimità del segretario comunale.
Sul punto il Collegio ritiene di condividere quanto
affermato da questa Corte, secondo cui
la soppressione del parere di legittimità del segretario su
ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta o al
Consiglio “non esclude che permangano in capo al segretario
tutta una serie di compiti ed adempimenti che, lungi dal
determinare un'area di deresponsabilizzazione del medesimo,
lo impegnano, invece, ad un corretto svolgimento degli
stessi, pena la sua soggezione, in ragione del rapporto di
servizio instaurato con l'Ente locale, all'azione di
responsabilità amministrativa, ove di questa ricorrano gli
specifici presupposti”.
Nel caso di specie, il segretario,
partecipando alla seduta di Giunta, avrebbe dovuto svolgere
la sua funzione di garante del diritto ponendo in evidenza
le gravi violazioni di legge che, con l’approvazione delle
delibere di riconoscimento, si stavano effettuando, e,
nell’ipotesi in cui gli assessori avessero comunque deciso
di deliberare il riconoscimento, avrebbe dovuto esigere la
verbalizzazione della sua opposizione.
---------------
Non appare revocabile in dubbio che nell’ambito del
controllo sulla regolarità e correttezza dell’azione
amministrativa, rientri a pieno titolo il controllo sulla
legittimità della proposta di deliberazione, ovverosia la
verifica del rispetto delle norme che presidiano l’attività
amministrativa nello specifico campo, nonché la legittimità
del fine pubblico perseguito e la correttezza sostanziale
delle soluzioni adottate.
Ne deriva che la lettura combinata
dall’art. 49 e 147-bis, comma 1, del TUEL permette di
individuare, innanzitutto, il contenuto del parere di
regolarità tecnica, che non si limita a verificare
l’attendibilità tecnica della soluzione proposta, ma involge
l’insieme del procedimento amministrativo, coprendo e
inglobando le regole sia tecniche, di un determinato
settore, che quelle generali in ordine alla legittimità
dell’azione amministrativa, ivi compresa la legittimità
della spesa, in considerazione del fatto che ciascun centro
di responsabilità, proponente un qualsiasi atto deliberativo
recante spesa, gestisce autonomamente il piano esecutivo di
gestione assegnato al proprio settore.
Invece, con il “parere di
regolarità contabile” il fine perseguito dal
legislatore è stato quello di assegnare al responsabile del
servizio di ragioneria un ruolo centrale nella tutela degli
equilibri di bilancio dell'ente e, a tal fine,
nell’esprimere tale parere egli dovrà tener conto, in
particolare, delle conseguenze rilevanti in termini di
mantenimento nel tempo degli equilibri finanziari ed
economico-patrimoniali, valutando:
a) la verifica della sussistenza del parere di regolarità
tecnica rilasciato dal soggetto competente;
b) il corretto riferimento (si sottolinea effettuato
dall’organo proponente) della spesa alla previsione di
bilancio annuale, ai programmi e progetti del bilancio
pluriennale e, ove adottato, al piano esecutivo di gestione.
Orbene, secondo il sistema delle
competenze assegnate dal TUEL e ridisegnate dalla riforma
operata con il d.l. n. 174/2012, la verifica della
legittimità delle deliberazioni, sia esse di giunta che di
consiglio, non rientra tra il controlli che il responsabile
del servizio di ragioneria deve effettuare prima
dell’emissione del proprio parere di regolarità contabile.
Da tutto quanto sopra, anche con riferimento a quanto
affermato in ordine alle funzioni e responsabilità del
segretario comunale, si ritiene che il
parere di regolarità contabile non possa che coprire la legittimità
della spesa in senso stretto del termine, cioè la corretta
imputazione al capitolo del bilancio dell’ente, la regolare
copertura finanziaria e il rispetto degli equilibri di
bilancio, esulando dai compiti del responsabile del servizio
di ragioneria ogni valutazione sulla legittimità dell’atto
deliberativo, perché di competenza di altri organi
istituzionali dell’ente.
---------------
La questione all’esame del Collegio riguarda una ipotesi di
danno erariale derivante dal riconoscimento ex post,
da parte del Comune di Santa Domenica Talao, di debiti a
titolo di corrispettivi per lo svolgimento di lavori
saltuari e occasionali svolti da privati cittadini.
Il Procuratore regionale contesta agli odierni convenuti
che, con l’adozione delle diciannove delibere di giunta
sopra citate, siano state violate le disposizioni di cui
agli artt. 191 e seguenti del TUEL che concernono
l’assunzione degli impegni di spesa negli enti locali,
nonché dell’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001 e dell’art. 92
del TUEL relativi all’utilizzo delle forme di lavoro
flessibile.
L’art. 191 del TUEL stabilisce che “Gli enti locali
possono effettuare spese solo se sussiste l'impegno
contabile registrato sul competente programma del bilancio
di previsione e l'attestazione della copertura finanziaria
di cui all’art. 153, comma 5”.
Il successivo comma 3 afferma che “Per i lavori pubblici
di somma urgenza, cagionati dal verificarsi di un evento
eccezionale o imprevedibile, la Giunta, entro venti giorni
dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile
del procedimento, sottopone al Consiglio il provvedimento di
riconoscimento della spesa con le modalità previste
dall'articolo 194, comma 1, lettera e), prevedendo la
relativa copertura finanziaria nei limiti delle accertate
necessità per la rimozione dello stato di pregiudizio alla
pubblica incolumità. Il provvedimento di riconoscimento è
adottato entro 30 giorni dalla data di deliberazione della
proposta da parte della Giunta, e comunque entro il 31
dicembre dell'anno in corso se a tale data non sia scaduto
il predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è
data contestualmente all'adozione della deliberazione
consiliare”.
Orbene, dall’esame delle delibere di
riconoscimento indicate nell’atto di citazione non risulta
che le stesse siano state precedute dalla necessaria
delibera a contrarre con il relativo impegno di spesa sul
relativo capitolo di bilancio con l’attestazione di
copertura finanziaria da parte del responsabile del servizio
economico-finanziario.
Né dalle stesse è rinvenibile, al di là di un’apodittica
affermazione, la giustificazione di ragioni di urgenza o di
eccezionalità e imprevedibilità dell’evento che avrebbero
potuto giustificare il ricorso alla procedura disciplinata
dal terzo comma del medesimo articolo 191 suddetto.
Stante quanto sopra, si sarebbe, allora,
dovuto fare ricorso all’istituto del riconoscimento del
debito fuori bilancio di cui all’art. 194 del TUEL, la cui
competenza viene, però, ascritta al Consiglio comunale e non
all’organo esecutivo dell’ente locale.
Nel caso di specie, pertanto, il rapporto obbligatorio
intercorre tra il privato fornitore e il soggetto
amministratore o funzionario o dipendente dell’ente che ha
consentito la prestazione, ai sensi del già richiamato art.
191, comma 4.
Inoltre, gli artt. 36 del D.Lgs. n 165/2001 e 92 del TUEL,
richiamati dal Procuratore nel suo atto di citazione,
disciplinano la possibilità per le pubbliche amministrazioni
di ricorrere a forme contrattuali di lavoro flessibile con
rapporti di lavoro a tempo parziale e a tempo determinato,
pieno o parziale, sempre, però, nel rispetto della
disciplina vigente in materia e “per comprovate esigenze
di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale,
(sempre) nel rispetto delle condizioni e modalità di
reclutamento (del personale) assicurando la trasparenza ed
escludendo ogni forma di discriminazione".
Orbene, ai fini dell’accertamento della responsabilità dei
convenuti citati, ad avviso del Collegio, nessun rilievo
assume il diverso inquadramento giuridico dei fatti operato
dai difensori.
Infatti, sia che tali interventi vengano inquadrati tra le “borse
lavoro” o tra gli “appalti di servizi”, in
nessuno dei due casi vi è stato un atto propedeutico –quale
ad esempio un bando per l’assegnazione delle borse, o una
delibera di acquisizione dei servizi richiesti- che abbia
concorso a manifestare all’esterno una volontà in tal senso,
da parte dell’amministrazione del Comune di Santa Domenica
Talao.
In tutti i casi, sia l’eventuale assegnazione della borsa o
l’adozione di qualsivoglia forma di lavoro flessibile sia, a
maggior ragione, la stipulazione di un contratto d’appalto
di servizi, necessitano di una forma scritta “ad
substantiam”, nel pieno rispetto di uno dei principi
cardine dell’ordinamento giuridico, quando una delle parti
contrattuali è una Pubblica Amministrazione.
Tale principio è sancito dall’art. 17 della Legge di
contabilità generale dello Stato (R.D. n. 2440 del 1923)
che, ammettendo anche forme più semplificate di stipulazione
contrattuale, prevede per tutte la forma scritta (scrittura
privata; obbligazione stesa ai piedi del capitolato; atto
separato sottoscritto; lettera commerciale).
Tale principio trova la sua giustificazione non solo e non
tanto in ragioni di ordine generale attinenti l’interesse
pubblico perseguito dalla p.a., ma anche nella
considerazione che un’attività estremamente
procedimentalizzata, quale quella in esame, al di là del
nomen juris utilizzato ai fini del suo inquadramento,
non sarebbe concepibile che possa essere conclusa con una
stipulazione orale.
Ciò anche perché la forma scritta rappresenta uno strumento
indefettibile di garanzia del regolare svolgimento
dell'attività negoziale della p.a., nell'interesse sia del
cittadino sia della stessa amministrazione e,
conseguentemente, in assenza della forma scritta il
contratto è nullo (in terminis: Cass, sez. I civile,
sent. n. 5263/2015; n. 7297/2009; sez. III civile, ord. n.
16307/2018).
Per il principio su esposto, prive di pregio, ad avviso del
Collegio, sono le contestazioni che le difese muovono
all’atto di citazione secondo cui nel caso di specie si
verserebbe in una ipotesi di affidamento di un appalto di
servizi sotto soglia.
Infatti, il superamento o meno della “soglia” (art 29
del D.Lgs n. 163/2006 applicabile ratione temporis;
oggi art. 36 del D.Lgs. n. 50/2016) implica esclusivamente
un maggiore o minore rigore nella scelta del contraente, ma
nessuna incidenza può avere in ordine alla necessaria forma
scritta dei contratti della p.a.
Atteso quanto sopra, ritiene il Collegio che nessuna valida
obbligazione sia sorta in capo all’amministrazione del
Comune di Santa Domenica Talao e, pertanto, sussiste la
responsabilità amministrativo-contabile in capo ai
convenuti, in quanto con la loro condotta hanno causato un
indubbio danno erariale consistente nell’erogazione di
corrispettivi non dovuti in quanto conseguenti a
obbligazioni nulle.
A ciò si aggiunga che sono state violate
tutte le norme del TUEL
(prima citate) poste a presidio della
correttezza delle procedure di spesa degli enti locali e,
per quanto già detto,
le delibere di Giunta oggetto del presente giudizio non hanno
nemmeno valore come riconoscimento di debiti fuori bilancio
per l’incompetenza assoluta dell’organo esecutivo del
Comune.
Infatti, solo il riconoscimento formale da parte del
Consiglio Comunale consente l’imputazione del debito assunto
irregolarmente al bilancio dell’ente.
In ordine alle singole condotte il Collegio svolge le
seguenti considerazioni.
Sussiste la piena responsabilità del sindaco
Lu.Al.Gi.
e degli assessori
Es.Fu.Fr., La Gr.Ma.Gi., Fa.Gi., La.Ra.Ma., Le.Fr. e
Pa.An.Sa.
per aver posto in essere una condotta antigiuridica –connotata da
colpa grave- tesa al riconoscimento di debiti da parte di un
organo incompetente a riconoscere i debiti dell’Ente,
soprattutto in assenza dei presupposti normativi per
l’applicabilità dell’art. 191, 3 comma, e/o per il
riconoscimento di cui all’art. 194 del TUEL.
Inoltre, nessuna istruttoria è stata svolta dal sindaco o
dai componenti la giunta ma, soprattutto, nessuna prova
viene fornita in ordine all’eccezionalità e imprevedibilità
dei lavori e alla loro utilità per il Comune.
Parimenti responsabile il geom. Fa.Be., responsabile
dell’area tecnica e del personale, per aver apposto il
parere di regolarità tecnica in calce alle delibere di cui è
causa senza verificare la legittimità e regolarità delle
procedure relative alla fase dell’impegno contabile e della
spesa, alla fase contrattuale e di assegnazione dei lavori e
alla fase di verifica della regolare esecuzione degli
stessi.
In merito nessun valore esimente, ad avviso del Collegio,
può avere la perizia a firma del geom. To.Gr., datata
19.10.2016, in quanto riferentesi a delibere diverse
rispetto a quelle oggetto della citazione in questione.
Altrettanto responsabile il dott. Mo.Ca.An., segretario
comunale, per il quale valgono le seguenti considerazioni.
E’ indubbio che il segretario comunale svolge una specifica
funzione di garante della legalità e di correttezza
amministrativa dell’azione dell’ente locale, di assistenza e
di collaborazione giuridica ed amministrativa proprio in
virtù dell’art. 17, comma 68, della l. 127 del 1997, ma
ancor prima in virtù della l. 142 del 1990.
L’intervenuta soppressione, ai sensi dell’art. 17, comma
85, della legge citata, del parere di legittimità su ogni
proposta di deliberazione giuntale o consiliare, non
costituisce commodus discessus da ogni
responsabilità.
Al contrario, l’evoluzione normativa in
materia, ben lungi dall'evidenziare una sottrazione del
segretario in questione alla responsabilità amministrativa
per il parere eventualmente espresso su atti della Giunta o
del Consiglio, ne ha invece sottolineato le maggiori
responsabilità in ragione della rilevata estensione di
funzioni, di tal che non assume alcun rilievo esimente
l'art. 17, commi 85 e 86, l. n. 127/1997 che ha
espressamente abrogato l'istituto del parere preventivo di
legittimità del segretario comunale.
Sul punto il Collegio ritiene di condividere quanto
affermato da questa Corte, secondo cui la
soppressione del parere di legittimità del segretario su
ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta o al
Consiglio “non esclude che permangano in capo al
segretario tutta una serie di compiti ed adempimenti che,
lungi dal determinare un'area di deresponsabilizzazione del
medesimo, lo impegnano, invece, ad un corretto svolgimento
degli stessi, pena la sua soggezione, in ragione del
rapporto di servizio instaurato con l'Ente locale,
all'azione di responsabilità amministrativa, ove di questa
ricorrano gli specifici presupposti”
(Sez. giur. Toscana, sent. n. 217/2012).
Il segretario Mo., partecipando alla seduta di Giunta,
avrebbe dovuto svolgere la sua funzione di garante del
diritto ponendo in evidenza le gravi violazioni di legge
che, con l’approvazione delle delibere di riconoscimento, si
stavano effettuando, e, nell’ipotesi in cui gli assessori
avessero comunque deciso di deliberare il riconoscimento,
avrebbe dovuto esigere la verbalizzazione della sua
opposizione.
Niente di tutto questo è avvenuto, e pertanto deve
confermarsi la responsabilità del segretario comunale.
Considerazioni contrarie vanno svolte, invece, per la
convenuta De Lu.Ma.Ro., quale responsabile del servizio
economico-finanziario del Comune, che ha emesso i relativi
pareri di “regolarità contabile”.
Il responsabile del servizio economico-finanziario, ai sensi
dell’art. 49 del TUEL, come modificato dall’art. 3, comma 1,
lett. b), del d.l. n. 174/2012, convertito in l. n.
213/2012, su ogni proposta di deliberazione ha l’obbligo di
esprimere un parere di regolarità contabile, qualora la
stessa comporti riflessi diretti o indiretti sulla
situazione economico finanziaria o sul patrimonio dell’ente.
Tale parere, che rientra tra quelli preventivi, è previsto
dall’art. 147 del TUEL, a mente del quale “Gli enti
locali, nell'ambito della loro autonomia normativa e
organizzativa, individuano strumenti e metodologie per
garantire, attraverso il controllo di regolarità
amministrativa e contabile, la legittimità, la regolarità e
la correttezza dell'azione amministrativa”.
Il successivo art. 147-bis afferma che “Il controllo di
regolarità amministrativa e contabile è assicurato, nella
fase preventiva della formazione dell'atto, da ogni
responsabile di servizio ed è esercitato attraverso il
rilascio del parere di regolarità tecnica attestante la
regolarità e la correttezza dell'azione amministrativa. Il
controllo contabile è effettuato dal responsabile del
servizio finanziario ed è esercitato attraverso il rilascio
del parere di regolarità contabile e del visto attestante la
copertura finanziaria”.
Pertanto, il legislatore della novella del 2012, con la
suddetta norma ha inteso differenziare il contenuto del “controllo
di regolarità amministrativa e contabile” (di competenza
del responsabile del servizio o della funzione), che si
esprime attraverso il parere di regolarità tecnica e
riguarda la “regolarità e la correttezza dell’azione
amministrativa”, dal “controllo contabile” che,
esprimendosi attraverso il parere di regolarità contabile
(di competenza del responsabile di ragioneria), ha riguardo
all’aspetto meramente contabile e finanziario del
provvedimento, attraverso, anche, l’apposizione del visto
attestante la copertura finanziaria.
Pertanto, non appare revocabile in dubbio
che nell’ambito del controllo sulla regolarità e correttezza
dell’azione amministrativa, rientri a pieno titolo il
controllo sulla legittimità della proposta di deliberazione,
ovverosia la verifica del rispetto delle norme che
presidiano l’attività amministrativa nello specifico campo,
nonché la legittimità del fine pubblico perseguito e la
correttezza sostanziale delle soluzioni adottate.
Ne deriva che la lettura combinata
dall’art. 49 e 147-bis, comma 1, del TUEL permette di
individuare, innanzitutto, il contenuto del parere di
regolarità tecnica, che non si limita a verificare
l’attendibilità tecnica della soluzione proposta, ma involge
l’insieme del procedimento amministrativo, coprendo e
inglobando le regole sia tecniche, di un determinato
settore, che quelle generali in ordine alla legittimità
dell’azione amministrativa, ivi compresa la legittimità
della spesa, in considerazione del fatto che ciascun centro
di responsabilità, proponente un qualsiasi atto deliberativo
recante spesa, gestisce autonomamente il piano esecutivo di
gestione assegnato al proprio settore.
Invece, con il “parere di regolarità
contabile” il fine perseguito dal legislatore è stato
quello di assegnare al responsabile del servizio di
ragioneria un ruolo centrale nella tutela degli equilibri di
bilancio dell'ente e, a tal fine, nell’esprimere tale parere
egli dovrà tener conto, in particolare, delle conseguenze
rilevanti in termini di mantenimento nel tempo degli
equilibri finanziari ed economico-patrimoniali, valutando:
a) la verifica della sussistenza del parere di regolarità
tecnica rilasciato dal soggetto competente;
b) il corretto riferimento (si sottolinea effettuato
dall’organo proponente) della spesa alla previsione di
bilancio annuale, ai programmi e progetti del bilancio
pluriennale e, ove adottato, al piano esecutivo di gestione.
Orbene, secondo il sistema delle
competenze assegnate dal TUEL e ridisegnate dalla riforma
operata con il d.l. n. 174/2012, la verifica della
legittimità delle deliberazioni, sia esse di giunta che di
consiglio, non rientra tra il controlli che il responsabile
del servizio di ragioneria deve effettuare prima
dell’emissione del proprio parere di regolarità contabile.
Da tutto quanto sopra, anche con riferimento a quanto
affermato in ordine alle funzioni e responsabilità del
segretario comunale, si ritiene che il
parere di regolarità contabile non possa che coprire la
legittimità della spesa in senso stretto del termine, cioè
la corretta imputazione al capitolo del bilancio dell’ente,
la regolare copertura finanziaria e il rispetto degli
equilibri di bilancio, esulando dai compiti del responsabile
del servizio di ragioneria ogni valutazione sulla
legittimità dell’atto deliberativo, perché di competenza di
altri organi istituzionali dell’ente.
Conseguentemente, ritiene il Collegio, di rigettare l’azione
del Procuratore regionale nei confronti di De Lu.Ma.Ro..
Al proscioglimento segue il rimborso delle spese di lite,
poste a carico dell’Amministrazione comunale, che si
liquidano equitativamente in euro 1.500,00.
Riguardo alla quantificazione del danno e alla sua
ripartizione fra i rimanenti convenuti, si condivide
parzialmente quanto indicato in citazione e quindi:
...
P.Q.M.
La Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la regione
Calabria, definitivamente pronunciando, in accoglimento
parziale dell’atto di citazione:
assolve Ma.Ro. De Lu. da ogni addebito e liquida alla
medesima a titolo di spese del giudizio la somma di €
1.500,00 oltre IVA, CPA e spese generali come per legge,
posta a carico dell’Amministrazione di appartenenza;
condanna i sotto elencati convenuti al pagamento in favore
del Comune di Santa Domenica Talao delle somme:
1) Lu.Al.Gi., € 2.294,00 oltre alla rivalutazione monetaria e
agli interessi legali dalla data della presente sentenza e
sino all’effettivo soddisfo.
2) La Gr.Ma.Gi., € 679,00, oltre alla rivalutazione monetaria e
agli interessi legali dalla data della presente sentenza e
sino all’effettivo soddisfo.
3) Es.Fu.Fr., € 369,00, oltre alla rivalutazione monetaria e
agli interessi legali dalla data della presente sentenza e
sino all’effettivo soddisfo.
4) Fa.Gi., € 690,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli
interessi legali dalla data della presente sentenza e sino
all’effettivo soddisfo.
5) La Bo.Ra.Ma., € 1.425,00, oltre alla rivalutazione monetaria
e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e
sino all’effettivo soddisfo.
6) Pa.An.Sa., € 25,00, oltre alla rivalutazione monetaria e
agli interessi legali dalla data della presente sentenza e
sino all’effettivo soddisfo.
7) Le.Fr., € 340,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli
interessi legali dalla data della presente sentenza e sino
all’effettivo soddisfo.
8) Mo.Ca.An., € 2.444,00, oltre alla rivalutazione monetaria e
agli interessi legali dalla data della presente sentenza e
sino all’effettivo soddisfo.
9) Fa.Be., € 2.444,00, oltre alla rivalutazione monetaria e
agli interessi legali dalla data della presente sentenza e
sino all’effettivo soddisfo (Corte dei Conti, sez. giurisdiz,
Calabria,
sentenza 27.05.2019 n. 185). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: REATI
CONTRO LA PA/ Abuso d’ufficio per il sindaco che punisce lo zelo. Punito il
comportamento ritorsivo contro un dipendente diligente.
Abuso d’ufficio
per il sindaco che non rinnova l’incarico e nega l’indennità al responsabile
di area come ritorsione per il suo zelo. E il reato -oltre alla valutabilità
del danno il danno economico e professionale- scatta a prescindere dal
diritto o meno del dipendente alla riconferma.
La colpa del funzionario era di aver agevolato l’accertamento della
responsabilità contabile, poi esclusa, del primo cittadino e della giunta in
merito ad alcune nomine, e nell’aver dato seguito, malgrado sconsigliato in
maniera “pressante”, ad iniziative per presunti illeciti della polizia
locale. Un comportamento virtuoso che gli era costato il rinnovo della
nomina a responsabile dell’area vigilanza e le indennità: in pratica un
demansionamento.
Per la Corte di Cassazione (Sez. VI penale,
sentenza 23.05.2019 n. 22871), che avalla la linea della Corte
d’Appello, il sindaco con le sue azioni ritorsive e discriminatorie, aveva
prima di tutto violato la Costituzione. E, in particolare l’articolo a
tutela del buon andamento e dell’imparzialità della Pa, e l’articolo ,
secondo il quale i cittadini a cui sono affidate funzioni pubbliche devono
adempierle con disciplina e onore.
Una lettura che non era piaciuta al ricorrente, secondo il quale, la Corte
di merito aveva valorizzato la Carta per il reato di abuso d’ufficio
(articolo del Codice penale) anziché norme specifiche. Ad avviso della
difesa, infatti, la Costituzione non ha un contenuto precettivo, mentre per
contestare il reato sarebbe stato necessario individuare la violazione di
una specifica disciplina.
La Cassazione condivide l’impostazione dei giudici di merito che, pur avendo
analizzato le norme sul conferimento degli incarichi e sull’impiego
pubblico, non le hanno messe al centro della loro decisione.
Chiarito che il demansionamento c’era stato perché non erano stati
assecondati i desiderata del sindaco, il reato, e la conseguente
valutabilità dei danni, ci sono, infatti, al di là del diritto al rinnovo
dell’incarico e all’indennità. La Cassazione spiega che l’abuso d’ufficio «fa
riferimento a una condotta che non è genericamente connotata da abuso, ma
deve essere caratterizzata da violazione di norme di legge o di regolamento
ovvero dall’omessa astensione».
Il legislatore ha voluto dunque delimitare con più precisione la sfera
dell’illecito «in modo che non consentisse indebite interferenze
nell’azione amministrativa e implicasse la chiara definizione dei canoni di
riferimento». E non si può affermare che il riferimento alla legge non
includa le fonti sovraordinate: prima fra tutte la Costituzione. In questo
quadro pesa l’articolo , da valutare in sinergia con l’articolo , che impone
di esercitare con disciplina e onore le funzioni pubbliche e ai pubblici
ufficiali di assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’
amministrazione.
Solo in apparenza la Carta introduce canoni di carattere generale, in realtà
le direttive hanno un immediato risvolto applicativo. È chiaro il rilievo
dato all’inosservanza del principio di imparzialità che mette “fuori
legge” ingiustificate preferenze, favoritismi e vessazioni intenzionali
e discriminatorie
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.05.2019).
---------------
La condotta evidenzia discriminazioni e ritorsioni.
Risponde del reato di abuso di ufficio il sindaco che discrimina e fa
ritorsioni nei confronti del responsabile di un settore amministrativo
dell'ente locale, non rinnovandogli l'incarico perché non ha seguito le sue
indicazioni e procurandogli un danno connesso alla mancata corresponsione di
indennità associate alla posizione e a un sostanziale demansionamento.
Così la Corte di Cassazione, Sez.
VI penale, con la
sentenza 23.05.2019 n. 22871.
Il delitto di abuso d'ufficio nella formulazione che risulta dalle modifiche
introdotte dalla legge 234/1997, fa riferimento a una condotta che non è
genericamente connotata da abuso, ma deve essere caratterizzata da
violazione di norme di legge o di regolamento ovvero dall'omessa astensione.
Il legislatore ha voluto in questo modo delimitare con più precisione la
sfera dell'illecito, circoscrivendolo entro un ambito che non consentisse
indebite interferenze nell'azione amministrativa e implicasse la chiara
definizione dei canoni esterni di riferimento.
Nel caso in esame è stato ravvisato il delitto di abuso di ufficio quando «la
condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che
regolano l'esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata
alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale
il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello
sviamento di potere, che integra la violazione di legge, poiché lo stesso
non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima
l'attribuzione».
E nel contempo si comprende che sia stato dato rilievo all'inosservanza del
principio costituzionale dell'imparzialità, che preclude ingiustificate
preferenze o favoritismi ovvero intenzionali vessazioni o discriminazioni.
Ciò significa che l'articolo 323 del codice penale (reato di abuso di
ufficio), pur non essendo di per sé riferibile alla violazione di norme
poste da fonti diverse da quelle menzionate, tuttavia ricomprende la
violazione di quei canoni costituzionali, che assumono precisa valenza e
costituiscono la base stessa dell'esercizio dei pubblici uffici. Ne deriva,
affermano i giudici di legittimità, che il riscontro del carattere
discriminatorio e ritorsivo dell'azione amministrativa non vale solo a
qualificare ab extrinseco il movente, ma rileva sul piano oggettivo,
connotando il contenuto di tale azione e rendendo la condotta penalmente
tipica.
Per la Cassazione è corretto il ragionamento dei giudici di merito, che
hanno ravvisato l'illiceità della condotta del sindaco ricorrente proprio in
ragione del suo contenuto discriminatorio e ritorsivo, contrastante non con
evanescenti principi generali bensì con una precisa direttiva, sottostante
all'azione di qualsiasi pubblico ufficiale, che implica l'osservanza della
causa del potere assegnato e il rifiuto di qualsivoglia pregiudiziale
discriminazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.05.2019).
---------------
MASSIMA
2. Il secondo motivo è infondato.
2.1. Va in effetti rimarcato che la contestazione di cui al capo B), per la
quale è stata pronunciata condanna, nel far riferimento al disposto
dell'art. 97 Cost. e dell'art. 1, comma 1, legge 241 del 1990, intendeva far
leva essenzialmente sul carattere discriminatorio e ritorsivo della condotta
del ricorrente in danno del Sa., indicando in tale quadro alcuni elementi
descrittivi, aventi lo scopo di corroborare tale assunto, costituiti
dall'utilizzo di una motivazione apparente, dalla nomina di altro soggetto
privo di diploma di laurea, in assenza di una procedura comparativa, dal
contributo che era stato fornito dal Sa. per l'accertamento della
responsabilità contabile del Sindaco e della Giunta per i fatti di cui
all'originario capo A), dal fatto che il Sa. aveva contravvenuto alle
espresse richieste del Sindaco di non dar corso ad iniziative per presunti
illeciti commessi da agenti della Polizia locale.
La Corte ha sul punto condiviso l'impostazione del primo Giudice, che
proprio sul carattere discriminatorio e ritorsivo della condotta in danno
del Sa. ha fondato il proprio giudizio, nel quale non ha assunto un rilievo
centrale il riferimento agli artt. 110 d.lgs. 267 del 2000 e 19 d.lgs. 165
del 2001, pur menzionati nel capo di imputazione.
2.2. Ciò posto, le doglianze del ricorrente non possono trovare
accoglimento.
L'art.
323 cod. pen. nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte
dalla legge 234 del 1997, fa riferimento ad una condotta che non è
genericamente connotata da abuso, ma deve essere caratterizzata da
violazione di norme di legge o di regolamento ovvero dall'omessa astensione.
Il legislatore ha voluto in tal modo delimitare con più precisione la sfera
dell'illecito, circoscrivendolo entro un ambito che non consentisse indebite
interferenze nell'azione amministrativa e implicasse la chiara definizione
dei canoni esterni di riferimento.
In tale prospettiva la violazione di legge o di regolamento non può che
essere intesa come rappresentativa del superamento di quei canoni esterni,
posti da fonti ben individuate.
D'altro canto non può in alcun modo affermarsi che il riferimento alla legge
non includa altresì quello a fonti sovraordinate, prima di tutto la Carta
fondamentale, cioè la Costituzione, ove parimenti in grado di definire in
modo preciso i limiti dell'azione amministrativa.
Ed anzi deve al riguardo rimarcarsi come l'intera disciplina di tale azione
debba essere collocata nell'ambito costituzionale, in relazione a precise
direttive che dalla Costituzione possano desumersi sia sul versante della
stretta correlazione tra il potere affidato e la fonte di esso sia su quello
dell'effettivo svolgimento dell'azione amministrativa.
In tale quadro viene in evidenza l'art.
97 Cost., da valutare in sinergia con l'art.
54 Cost.: ed invero si desume da tali norme che
le funzioni pubbliche devono essere esercitate con disciplina ed onore e che
i pubblici uffici devono essere organizzati secondo disposizioni di legge,
in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità
dell'amministrazione.
Solo in apparenza per tale via sono introdotti canoni di carattere generale,
in quanto in realtà siffatte direttive contengono un immediato risvolto
applicativo, imponendo da un lato il rispetto della causa di
attribuzione del potere, in modo che lo stesso non sia esercitato al di
fuori dei suoi presupposti, e dall'altro l'imparzialità dell'azione,
la quale non deve essere contrassegnata da profili di discriminazione e
ingiustizia manifesta, aspetti di per sé contrastanti con l'intero assetto
costituzionale dei poteri amministrativi, come in concreto poi disciplinati
dalla legge.
Ben si comprende su tali basi che sia stato ravvisato il
delitto di abuso di ufficio quando «la condotta del pubblico ufficiale
sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma
anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un
interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito,
realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che
integra la violazione di legge, poiché lo stesso non viene esercitato
secondo lo schema normativo che ne legittima l'attribuzione»
(Cass. Sez. U. n. 155 del 29/09/2011, dep. nel 2012, Rossi, rv. 251498;
Cass. Sez. 6, n. 27816 del 02/04/2015, Di Febo, rv. 263932).
E nel contempo si comprende che sia stato dato rilievo
all'inosservanza del principio costituzionale dell'imparzialità, che
preclude ingiustificate preferenze o favoritismi ovvero intenzionali
vessazioni o discriminazioni
(Cass. Sez. 6, n. 49549 del 12/06/2018, Laimer, rv. 274225; Cass. Sez. 2, n.
46096 del 27/10/2015, Giorgino, rv. 265464).
Ciò significa che l'art.
323 cod. pen., pur non essendo di per sé riferibile alla violazione di
norme poste da fonti diverse da quelle menzionate, tuttavia ricomprende la
violazione di quei canoni costituzionali, che assumono precisa valenza e
costituiscono la base stessa dell'esercizio dei pubblici uffici.
Ne deriva che il riscontro del carattere discriminatorio e
ritorsivo dell'azione amministrativa non vale solo a qualificare ab
extrinseco il movente, ma rileva sul piano oggettivo, connotando il
contenuto di tale azione e rendendo la condotta penalmente tipica.
2.3. Ed allora deve rilevarsi la correttezza del
ragionamento dei Giudici di merito, che hanno ravvisato l'illiceità della
condotta del ricorrente proprio in ragione del suo contenuto discriminatorio
e ritorsivo, contrastante non con evanescenti principi generali bensì con
una precisa direttiva, sottostante all'azione di qualsiasi pubblico
ufficiale, implicante l'osservanza della causa del potere assegnato e il
rifiuto di qualsivoglia pregiudiziale discriminazione.
In particolare, anche sulla scorta di quanto rilevato dal Giudice del lavoro
nel provvedimento del 15/10/2014, è stato osservato:
- che l'apertura del procedimento per il mancato
rinnovo al Sa. dell'incarico di Responsabile dell'Area Vigilanza era stato
caratterizzato da motivazioni (riferite alla necessità di rotazione per
ragioni di prevenzione della corruzione) del tutto pretestuose, prive di
qualsivoglia riscontro e intrinsecamente contraddittorie rispetto a quanto
in diversa occasione rilevato;
- che il Sa. si era per contro distinto nel
propiziare l'accertamento della responsabilità erariale del Sindaco e della
Giunta nella vicenda della nomina di Ci.Ro. (oggetto dell'originario capo A)
e nel contravvenire ai pressanti suggerimenti del Sindaco di non dar corso
ad iniziative riguardanti presunti illeciti addebitabili all'agente Ch.;
- che al momento di procedere alla nomina del
nuovo Responsabile dell'Area Sicurezza, il Sindaco aveva del tutto omesso di
procedere ad una valutazione comparativa, assegnando l'incarico a Qu.Lu.
appena transitato in mobilità nel ruolo del Comune, ma sprovvisto del
diploma di laurea, e ponendo il Sa. in posizione addirittura subordinata a
colui che era stato il suo vice;
- che la richiesta di assegnazione di un'indennità
di coordinamento o di maggiorazione dell'indennità di posizione, era stata
negata senza una sostanziale motivazione, dopo che nel luglio 2013 il
Sindaco, con una mail, aveva mostrato di correlare l'accoglimento della
richiesta al modo in cui il Sa. avrebbe gestito la questione riguardante gli
illeciti addebitati al Ch..
Tali elementi sono stati tutt'altro che arbitrariamente
posti a fondamento del carattere ritorsivo e discriminatorio del trattamento
riservato al Sa., non rilevando la circostanza che il predetto avesse o meno
uno specifico diritto al rinnovo ovvero al riconoscimento dell'indennità, a
fronte del contenuto assunto dall'azione amministrativa e del concreto
sviamento del potere, esercitato con modalità contrastanti con le ragioni
poste a fondamento di esso.
Prive di rilievo risultano in tale prospettiva anche le deduzioni, peraltro
largamente assertive, riguardanti l'interpretazione degli artt. 50, 107, 109
e 110 d.lgs. 267 del 2000, a fronte del carattere assorbente del rilevato
profilo di illiceità, qualificato anche dalla mancata adozione di
un'adeguata valutazione comparativa, tale da costituire specifica
giustificazione della determinazione assunta: va invero
rilevato come tale mancanza costituisca dato sintomaticamente idoneo a
rafforzare il giudizio in ordine al contenuto discriminatorio di tale
determinazione, così come la sostanziale assenza di una specifica
motivazione del mancato riconoscimento dell'indennità, a fronte di quanto
precedentemente prospettato in termini di correlazione con i desiderata del
Sindaco, suffraga la valenza ritorsiva del diniego, quand'anche legato a
valutazione discrezionale (per il
rilievo della motivazione deve del resto richiamarsi Cass. Sez. 6, n. 13341
del 27/10/1999, Stagno D'Alcontres, rv. 215278, nonché la più recente Cass.
Sez. 6, n. 21976 del 05/04/2013, Paiardini, rv. 256549).
E' del tutto inconferente infine la circostanza che la fonte dell'indennità
fosse costituita da una convenzione, non riconducibile né alla legge né al
regolamento: in realtà deve ribadirsi come la valutazione di illiceità
riposi anche in questo caso sulla valenza discriminatoria e ritorsiva del
diniego, nei termini già descritti.
3. E' parimenti infondato il terzo motivo.
3.1. Con riguardo al tema della c.d. doppia ingiustizia, si
rileva in generale che accanto al profilo della violazione di legge o di
regolamento (o della violazione dell'obbligo di astensione) che deve
connotare la condotta, deve individuarsi il profilo dell'ingiustizia del
vantaggio patrimoniale o del danno, che costituiscono, in alternativa,
l'evento consumativo del delitto di abuso di ufficio.
Tale ingiustizia può essere individuata sia in base a
profili autonomi rispetto a quelli che connotano la condotta sia quale
proiezione di quegli stessi profili, ove idonei a qualificare il risultato
prodotto (sul punto Cass. Sez. 6,
n. 48913 del 04/11/2015, Ricci, rv. 265473; Cass. Sez. 6, n. 11394 del
29/01/2015, Strassoldo, rv. 262793).
D'altro canto la nozione di danno ingiusto deve
essere intesa non solo con riguardo a situazioni patrimoniali e a diritti
soggettivi perfetti (Cass. Sez. 6,
n. 39452 del 07/07/2016, Brigandì, rv. 268222), dovendosi
aver riguardo ad ogni tipo di aggressione arrecata a situazioni soggettive
di pertinenza di un soggetto, nel presupposto che la stessa sia
giuridicamente ingiustificata e tale da produrre conseguenze lesive.
Assume infatti rilievo la fattispecie di danno ingiusto
evocata dall'art.
2043 cod. civ., riferibile anche alla lesione di interessi legittimi
(sul punto dopo l'analisi di Cass. Civ. Sez. U., n. 500 del 22/07/1999, rv.,
si rinvia per più recenti puntualizzazioni del tema a Cass. Civ., Sez. 1, n.
16196 del 20/06/2018, rv. 649479; Cass. Sez. L., n. 7043 del 13/04/2004, rv.
572035), ferma restando la concreta valutabilità della «chance»,
particolarmente rilevante nel caso di comparazione di poche posizioni.
3.2. In tale prospettiva è all'evidenza infondata la doglianza incentrata
sulla non configurabilità di un diritto soggettivo del Sa. a vedersi
confermato l'incarico ed a fruire dell'indennità richiesta.
Al contrario deve condividersi l'assunto dei Giudici di merito secondo i
quali la condotta discriminatoria e ritorsiva del
ricorrente, sostenuta altresì da quello specifico animus, si è
proiettata sul Sa., determinando l'intenzionale pregiudizio della sua
posizione, valutabile in termini professionali e patrimoniali, pur a
prescindere dalla sussistenza di un vero e proprio diritto soggettivo, in
quanto ha compromesso in quello specifico momento la possibilità del Sa. di
continuare a svolgere le medesime mansioni, ne ha per contro determinato il
sostanziale demansionamento, con sottoposizione a soggetto precedentemente a
lui sottoposto, ha significato il mancato riconoscimento dell'indennità, che
lo stesso Sindaco aveva mostrato di voler condizionare a comportamenti in
linea con i suoi desiderata.
Tali effetti lesivi della condotta sono stati dunque
correttamente qualificati come di per sé ingiusti, in quanto tali da
pregiudicare la posizione del Sa. e da non trovare alcuna giuridica
giustificazione, avuto riguardo alle illecite determinazioni assunte.
Non rileva in senso contrario che
in prosieguo di tempo, dopo l'annullamento disposto dal Giudice del lavoro,
fosse stato riattivato il procedimento con valutazione comparativa, cui il
Sa. aveva omesso di partecipare, e fosse stata assunta una nuova
determinazione in merito alla spettanza dell'indennità con esito negativo
per lo stesso Sa., avallato questa volta dal Giudice del lavoro, a fronte di
addotti persistenti profili di discriminatorietà.
Va infatti rimarcata in questa sede la lesione già
prodottasi, in conseguenza dell'illecito esercizio delle funzioni
amministrative e del contenuto discriminatorio delle relative
determinazioni, tali da arrecare di per sé, «hic et nunc», un
pregiudizio contra ius, peraltro assistito dall'intenzionalità,
insita nello stesso connotato di ritorsione sotteso all'agire
amministrativo. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nessun
margine per nuove posizioni organizzative dal riallineamento retributivo
negli Enti senza dirigenti.
Il decreto Semplificazioni (Dl 135/2018) ha previsto la possibilità di poter
incrementare le retribuzioni di posizione dei titolari di posizione
organizzativa, nei soli enti privi di dirigenti, in base ai maggiori valori
previsti dal nuovo contratto delle Funzioni locali, ma condizionando questa
maggiore spesa a una equivalente riduzione della spesa per assunzioni a
tempo indeterminato.
I maggiori importi ottenuti, considerati dal legislatore fuori dai tetti del
salario accessorio (articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017), non potranno
essere distratti per il pagamento di nuove posizioni organizzative ma solo
di quelle esistenti. La equivalente riduzione delle assunzioni a tempo
indeterminato richieste dalla normativa non potrà che riferirsi alla
capacità assunzionale disponibile e non alle assunzioni attivate mediante la
mobilità volontaria neutra, stante la loro soggezione ai soli limiti della
spesa media sostenuta nel triennio 2011-2013.
Sono questi i chiarimenti della Corte dei conti della Lombardia nel
parere 23.05.2019 n. 210.
Le disposizioni del decreto Crescita
L'articolo 11-bis, comma 2, del Dl 135/2018 ha previsto che, per i soli
Comuni privi di posizioni dirigenziali, il limite previsto dall'articolo 23,
comma 2, del Dlgs 75/2017 (salario accessorio non superiore a quello
sostenuto nell'anno 2016), non si applica al trattamento accessorio dei
titolari di posizione organizzativa del comparto Funzioni locali «limitatamente
al differenziale tra gli importi delle retribuzioni di posizione e di
risultato già attribuiti alla data di entrata in vigore del predetto CCNL e
l'eventuale maggiore valore delle medesime retribuzioni successivamente
stabilito dagli enti ai sensi dell'articolo 15, commi 2 e 3, del medesimo
CCNL, attribuito a valere sui risparmi conseguenti all'utilizzo parziale
delle risorse che possono essere destinate alle assunzioni di personale a
tempo indeterminato che sono contestualmente ridotte del corrispondente
valore finanziario».
I dubbi di un Comune
La disposizione legislativa ha generato alcuni dubbi in merito
all'utilizzazione del differenziale ottenuto da un possibile riallineamento
al nuovo contratto per i titolari di posizione organizzativa, il cui importo
massimo è passato da 12.911,42 a 16.000,00 euro, da finanziare mediante una
correlata riduzione della spesa per assunzioni a tempo indeterminato.
Il primo dubbio riguarda la possibilità di poter destinare, questo maggior
valore, complessivamente ottenuto su tutte le posizioni organizzative
presenti alla data di entrata in vigore del nuovo contratto delle funzioni
locali (21.05.2018), per finanziare l'acquisizione di una nuova posizione
organizzativa. Il secondo dubbio riguarda il termine di assunzione di
personale a tempo indeterminato, ossia se il riferimento debba essere fatto
alla spesa del personale per assunzioni a tempo indeterminato ivi inclusa la
mobilità volontaria.
Le indicazioni del collegio contabile
In merito al differenziale indicato nel decreto Semplificazioni, per il
giudici contabili lombardi l'importo non potrà che essere riferito ai soli
titolari di posizione organizzativa presenti alla data della stipula del
nuovo contratto, finanziando il maggior importo ottenuto con una equivalente
riduzione delle assunzioni di personale a tempo indeterminato, nel rispetto
del limite della spesa del personale (media spesa sostenuta nel triennio
2011-2013).
Di conseguenza è escluso che questo maggior valore acquisito a seguito del
riallineamento ai valori più alti previsti dal nuovo contratto, possa essere
separato per poter remunerare una nuova posizione organizzativa, essendo la
sua destinazione unicamente vincolata ad aumentare l'importo delle posizioni
organizzative presenti alla data del contratto.
Avuto riguardo, invece, alla riduzione della spesa del personale, questa non
potrà che riferirsi a una riduzione del valore finanziario del turn-over
(ossia alla capacità assunzionale disponibile) mentre la mobilità
volontaria, qualora realizzata da due amministrazioni soggette ai vincoli
del turn-over (e quindi neutra), incontrerà il solo limite della spesa
sostenuta che non potrà in ogni caso superare il valore medio del triennio
2011-2013
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.06.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni
organizzative, aumento della retribuzione solo per incarichi già esistenti.
Negli enti privi di dirigenza, l'esclusione dal computo del tetto del
salario accessorio 2016 degli incrementi del costo per la retribuzione di
posizione e di risultato dei titolari di posizione organizzativa può
avvenire solo per gli incarichi già in essere alla data del 21.05.2018.
Il
maggior importo che deriva da questi incrementi può essere compensato solo
utilizzando la capacità assunzionale a tempo indeterminato e non anche i
risparmi derivanti dalla mancata assunzione mediante l'istituto della
«mobilità neutra».
Possono così essere sintetizzate le conclusioni cui giunge la Corte dei
conti Lombardia con il
parere 23.05.2019 n. 210,
in risposta a un ente locale che ha posto alcuni dubbi applicativi sulla
corretta applicazione dell'articolo 11-bis, comma 2, del decreto
Semplificazioni.
L'esclusione dal tetto del salario accessorio
In primo luogo, l'ente locale ha chiesto se la disposizione di maggior
favore introdotta dal Dl 135/2018, a favore degli enti privi di dirigenza,
debba essere riferita alla singola posizione organizzativa o all'importo
complessivo delle posizioni organizzative dell'ente, con possibilità, ad
esempio, di istituirne una nuova. Per i giudici contabili non ci sono dubbi:
la disposizione consente una deroga al tetto del salario accessorio 2016
solo per la parte relativa alla differenza tra gli importi già riconosciuti
alla data di entrata in vigore del nuovo contratto (21.05.2018) e
l'eventuale maggior valore attribuito successivamente alle posizioni già
esistenti.
Pertanto, solo questo differenziale potrà essere escluso dal computo del
limite stabilito dall'articolo 23, comma 2, del Dl 75/2017. In ogni modo,
viene puntualizzato che l'incremento potrà avvenire solo se viene rispettato
il limite di spesa di personale che per i Comuni oltre mille abitanti è dato
dalla media delle corrispondenti somme del triennio 2011/2013, mentre per i
Comuni fino a mille abitanti dal tetto dell'anno 2008.
Il finanziamento
Altro aspetto posto all'attenzione della Corte riguarda la corretta
interpretazione nell'inciso utilizzato dalla norma in esame nella parte in
cui si stabilisce che i maggiori costi derivanti da questi incrementi sono «a
valere sui risparmi conseguenti all'utilizzo parziale delle risorse che
possono essere destinate alle assunzioni di personale a tempo indeterminato
che sono contestualmente ridotte del corrispondente valore».
La disposizione, viene precisato nella deliberazione, deve essere letta nel
senso che la quota destinata alla maggiorazione dell'indennità di posizione
e di risultato delle posizioni organizzative ha quale effetto quello di
limitare le risorse per le assunzioni di personale a tempo indeterminato a
valere sulle capacità assunzionali, come le assunzioni con concorso o con
scorrimento di graduatorie, e non anche quelle derivanti da assunzioni di
personale mediante l'istituto della mobilità volontaria proveniente da enti
soggetti a vincoli assunzionali (mobilità neutra)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.06.2019).
---------------
PARERE
Il Sindaco del comune di San Vittore Olona (MI) con la nota sopra
indicata ha formulato i seguenti quesiti: “in merito all'applicazione del
comma 2 dell'art. 11-bis del decreto legge 14.12.2018 n. 135 convertito con
legge 11.02.2019, n. 12 per un Comune privo di dirigenza.
In particolare, si chiede:
- se il possibile aumento dell'indennità di posizione riguarda
la singola posizione organizzativa o l'importo complessivo delle posizioni
organizzative dell'ente anche ad esempio costituendone una ulteriore;
- se il "medesimo risparmio sulle assunzioni a tempo
indeterminato" riguarda la capacità assunzionale (assunzioni a mezzo di
concorsi) o anche le mobilità ex art. 30 d.lgs. 165/2001”.
...
I quesiti formulati chiedono di interpretare l’art. 11-bis, comma 2, del
d.l. 135/2018 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 12/2019 che
recita ”Fermo restando quanto previsto dai commi 557-quater e 562
dell'articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296, per i comuni privi di
posizioni dirigenziali, il limite previsto dall'articolo 23, comma 2, del
decreto legislativo 25.05.2017, n. 75, non si applica al trattamento
accessorio dei titolari di posizione organizzativa di cui agli articoli 13 e
seguenti del contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) relativo al
personale del comparto funzioni locali - Triennio 2016-2018, limitatamente
al differenziale tra gli importi delle retribuzioni di posizione e di
risultato già attribuiti alla data di entrata in vigore del predetto CCNL e
l'eventuale maggiore valore delle medesime retribuzioni successivamente
stabilito dagli enti ai sensi dell'articolo 15, commi 2 e 3, del medesimo
CCNL, attribuito a valere sui risparmi conseguenti all'utilizzo parziale
delle risorse che possono essere destinate alle assunzioni di personale a
tempo indeterminato che sono contestualmente ridotte del corrispondente
valore finanziario”.
Come è noto, l’art. 23, comma 2, del decreto legislativo n. 75/2017 dispone
l’invarianza della spesa al 2016 relativa al trattamento accessorio del
personale, comprensiva anche dell’indennità di posizione e di risultato
delle posizioni organizzative.
L’art 11-bis, comma 2, del d.l. n. 135/2018 consente una deroga alla
disposizione appena ricordata, per i comuni privi di dirigenza, disponendo
che l’invarianza della spesa non si applica alle indennità
dei titolari di posizioni organizzative, di cui agli artt. 13 e ss. del CCNL
relativo al comparto funzioni locali, limitatamente alla differenza tra gli
importi già attribuiti alla data di entrata in vigore del contratto
(21.05.2018) e l’eventuale maggior valore attribuito successivamente alle
posizioni già esistenti, ai sensi dell’art. 15 del CCNL in parola.
Il differenziale da escludere dal computo di cui all’art.
23, comma 2, del decreto legislativo n. 75/2017 è soltanto la maggiorazione
delle indennità attribuite alle posizioni organizzative già in servizio al
momento dell’entrata in vigore del contratto collettivo nazionale. Tale
maggiorazione deve, in ogni caso, essere contenuta nei limiti di spesa per
il personale, prevista dai commi 557-quater e 562 dell’art. 1 della legge n.
296/2006.
Per quanto riguarda il secondo quesito, questa Sezione ritiene che la
spesa del personale derivante dall’istituto della mobilità abbia come limite
il rispetto dell’art. 1, comma 557-quater ovvero del comma 562 della legge
n. 296/2006, stante la neutralità della stessa, sempre che l’ente cedente
sia sottoposto a vincoli assunzionali.
Da ultimo, si evidenzia che, una volta che l’ente decida di avvalersi della
possibilità prevista dalla normativa in parola la quota destinata alla
maggiorazione dell’indennità di posizione e di risultato delle posizioni
organizzative negli enti privi di dirigenti ha come effetto di limitare le
risorse per le assunzioni di personale a tempo indeterminato (assunzioni che
non siano quelle attuate con l’istituto della mobilità che incontrano
soltanto il limite sopra richiamato).
Infatti, le suddette risorse ”sono contestualmente ridotte del
corrispondente valore finanziario”, ossia del valore finanziario
corrispondente al valore della maggiorazione in esame, così come disposto
dal predetto art. 11-bis, comma 2, del d.l. n. 135/2018. |
PUBBLICO IMPIEGO: La
formazione obbligatoria in materia di anticorruzione,
trasparenza, privacy e codici di comportamento.
Domanda
La formazione in materia di anticorruzione, trasparenza e
privacy è obbligatoria in ogni anno? È possibile prevederla
ad anni alterni?
Risposta
Gli obblighi di formazione in materia di prevenzione della
corruzione e trasparenza, sono previsti da specifiche
disposizioni, contenute nell’articolo 1, della legge 06.11.2012, n. 190 (cd Legge Severino). In particolare,
meritano l’attenzione degli operatori:
• il comma 5, lettera b);
• il comma 8;
• il comma 10, lettera c);
• il comma 11.
In materia di attività formative è necessario, inoltre,
tenere a mente anche il contenuto dell’articolo 15, comma 5,
del decreto Presidente della Repubblica 16.04.2013, n. 62
[1], che
testualmente recita:
5. Al personale delle pubbliche amministrazioni sono rivolte
attività formative in materia di trasparenza e integrità,
che consentano ai dipendenti di conseguire una piena
conoscenza dei contenuti del codice di comportamento, nonché
un aggiornamento annuale e sistematico sulle misure e sulle
disposizioni applicabili in tali ambiti.
Sull’argomento è intervenuta in più occasioni anche l’ANAC
[2],
ribadendo che la formazione riveste un ruolo strategico
nella prevenzione della corruzione e deve essere rivolta al
personale dipendente, prevedendo due livelli differenziati:
a) livello generale, rivolto a tutti i dipendenti: riguardante
l’aggiornamento delle competenze e le tematiche dell’etica e
della legalità;
b) livello specifico, rivolto al responsabile della prevenzione, ai
referenti, ai componenti degli organismi di controllo, ai
dirigenti e funzionari addetti alle aree di rischio. In
questo caso la formazione dovrà riguardare le politiche, i
programmi e i vari strumenti utilizzati per la prevenzione e
tematiche settoriali, in relazione al ruolo svolto da
ciascun soggetto dell’amministrazione.
Ogni ente, nell’apposito capitolo dedicato alla formazione
del Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione e
Trasparenza (PTPCT), dovrà quantificare le ore/giornate
annue dedicate allo svolgimento dell’attività formativa,
definendo anche le categorie di lavoratori a cui la stessa
viene indirizzata.
Per quanto riguarda il Livello Generale, è possibile
valutare l’opzione di erogare la formazione anche con
cadenza biennale, a tutto il personale, mentre la formazione
di Livello Specifico è necessario che venga prevista per
ogni anno, nei confronti di tutte le figure che intervengono
nell’attuazione delle misure previste in materia di
prevenzione della corruzione e trasparenza.
Le modalità su come si sia svolta l’attività formativa
nell’ente, risultano oggetto di una specifica sezione della
Relazione che deve essere compilata e pubblicata nel sito
web, da parte del Responsabile prevenzione corruzione e
trasparenza (RPCT).
Se si affronta la questione della trasparenza e degli
obblighi di pubblicità, occorre, necessariamente, ragionare
anche di tutela dei dati personali. In particolare ciò è
necessario dopo la piena attuazione del Regolamento (UE) n.
2016/679, che è decorsa dal 25.05.2018.
Così come previsto dall’articolo 32, paragrafo 4, del
medesimo Regolamento, occorre prevedere un obbligo di
formazione per tutte le figure (dipendenti e collaboratori)
presenti nell’organizzazione degli enti.
Sono direttamente interessati alla formazione:
1. i Responsabili del trattamento;
2. i Sub-responsabili del trattamento;
3. gli incaricati del trattamento;
4. il Responsabile Protezione Dati.
Una efficace attività formativa in materia di privacy
costituisce un tassello rilevante del sistema di gestione
della tutela dei dati personali, in grado di dare
concretezza al principio di accontuability, inteso come
capacità di dimostrare di aver adottato misure di sicurezza
idonee ed efficaci.
Le Pubbliche amministrazioni, pertanto, dovranno
organizzarsi per:
• pianificare un percorso di formazione per tutte le figure
coinvolte, inserendolo nel Piano Formativo annuale, tenendo
conto della struttura dell’ente, i profili organizzativi, le
finalità di ciascun corso, la possibilità di associare, con
altri enti, l’attività formativa;
• prevedere idonee risorse in sede di approvazione del bilancio;
• prevedere prove finali di verifica del percorso formativo e
sessioni di aggiornamento sulla base delle modifiche
normative, organizzative e tecniche che interverranno;
• stabilire aree di priorità nell’attività formativa partendo –ad
esempio– dal Responsabile Protezione dei Dati (RPD) e dai
suoi collaboratori; dalle figure apicali presenti nell’ente;
i neo assunti; gli amministratori di sistema e tutto il
personale autorizzato al trattamento.
Negli enti locali, la formazione in materia di privacy deve
essere integrata con la digitalizzazione dei processi, con
la riforma del Codice di Amministrazione digitale, con i
codici di comportamento degli enti e con le ultime recenti
novità normative in materia di trasparenza, prevenzione
della corruzione, Foia e whistleblowing.
La formazione non deve essere considerata un mero
adempimento burocratico, ma un’opportunità per:
• rendere consapevoli gli operatori dei rischi connessi al
trattamento dei dati, delle misure di sicurezza;
• migliorare i processi organizzativi e i servizi erogati;
• evitare danni reputazionali;
• ridurre i rischi di sanzioni amministrative e rendere più
competitiva l’organizzazione.
Riassumendo:
a) la formazione in materia di prevenzione della corruzione,
trasparenza e privacy è obbligatoria per ogni anno e le
eventuali relative spese stanno fuori da tutti i tetti per
la formazione;
b) le ore/giornate annue vanno indicate nel PTPCT;
c) è possibile valutare (indicandolo nel Piano) di somministrare la
formazione di Livello generale ad anni alterni.
Da ultimo si sottolinea che anche l’Aggiornamento al PNA del
2018 [3],
ribadisce che "sarebbe necessario garantire una maggiore
formazione, a tutti i livelli, in materia di prevenzione
della corruzione e della trasparenza”.
---------------
[1] Regolamento recante codice di comportamento dei
dipendenti pubblici, a norma dell’articolo 54 del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165.
[2] Delibera n. 72/2013; Determinazione n. 12 del
28/10/2015, paragrafo 5.
[3] Delibera ANAC n. 1074 del 21.11.2018 (21.05.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pa
responsabile del danno anche quando il dipendente agisce a scopo personale.
Lo Stato o l’ente pubblico rispondono del danno subìto dal terzo per
l’illecito del dipendente, anche quando agisce solo per scopi personali,
estranei ai fini dell’amministrazione. La corresponsabilità scatta purché
l’azione illecita sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le
funzioni svolte dal dipendente infedele. E dunque se questa non sarebbe
stata possibile senza l’esercizio del ruolo, per quanto svolto in modo
illecito.
---------------
A. Inquadramento della fattispecie.
1. La sentenza impugnata ha rigettato la domanda risarcitoria
della vittima del peculato del cancelliere in base all'orientamento della
giurisprudenza di legittimità (richiamando: Cass. 21/11/2006, n.
24744; Cass. 17/09/1997, n. 9260; Cass. 06/12/1996, n. 10896; Cass.
13/12/1995, n. 12786; Cass. 03/12/1991, n. 12960) secondo
cui, affinché ricorra la responsabilità della P.A. per un fatto lesivo
posto in essere dal proprio dipendente, poiché il fondamento di quella
risiede nel rapporto di immedesimazione organica, deve sussistere,
oltre al nesso di causalità fra il comportamento e l'evento dannoso,
anche la riferibilità all'Amministrazione del comportamento stesso, la
quale presuppone che l'attività posta in essere dal dipendente si
manifesti come esplicazione dell'attività dell'ente pubblico e cioè
tenda, pur se con abuso di potere, al conseguimento dei fini
istituzionali di questo nell'ambito delle attribuzioni dell'ufficio o del
servizio cui il dipendente è addetto; tale riferibilità viene meno,
invece, quando il dipendente agisca come un semplice privato per un
fine strettamente personale ed egoistico, che si riveli del tutto
estraneo all'amministrazione o perfino contrario ai fini che essa
persegue ed escluda ogni collegamento con le attribuzioni proprie
dell'agente, atteso che in tale ipotesi cessa il rapporto organico fra
l'attività del dipendente e la P.A. (militando nello stesso senso anche
Cass. 12/04/2011, n. 8306, nonché, in precedenza e tra le altre:
Cass. 08/10/2007, n. 20986; Cass. 18/03/2003, n. 3980).
2. Il ricorrente si affida ad un unitario motivo, con cui denuncia, in
riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione
e falsa applicazione dell'art. 28 Cost. e dell'art. 2049 cod. civ.,
dolendosi dell'esclusione della responsabilità del Ministero; nega che
«ai fini dell'applicazione dell'art. 28 Cost., oltre al nesso di causalità
fra il comportamento del funzionario e l'evento dannoso, debba
necessariamente ricorrere anche l'ulteriore, troncante presupposto
della "riferibilità all'amministrazione di quel comportamento"»;
contesta che debba «ricadere esclusivamente sul danneggiato la
scelta dell'Amministrazione di affidare la direzione di un ufficio a
soggetto rivelatosi privo dei requisiti morali»; chiede che risponda del
«danno ... occasionato dalla mancanza o inefficienza dei controlli».
3. Sostiene, ancora, il Di Be. che il principio secondo cui la
responsabilità dell'Amministrazione, nelle ipotesi previste dall'art. 28
Cost., debba ritenersi esclusa ogni qual volta l'agente, profittando
delle sue precipue funzioni, abbia dolosamente commesso il fatto per
ritrarre egli stesso utilità, non troverebbe giustificazione nel dettato
costituzionale, né in norme di legge, integrando un «disparitario
postulato assolutamente privo di sostrato logico e giuridico, che non
solo svuota di ogni contenuto quella norma di garanzia
(evidentemente posta a tutela dell'amministrato), ma ne sbilancia
smaccatamente gli effetti a tutto favore dell'Amministrazione»; sicché
la Corte di merito avrebbe dovuto piuttosto aderire al diverso
orientamento espresso con la sentenza di questa Corte, VI Sez. Pen.,
n. 13799 del 31.03.2015, secondo cui «è configurabile la
responsabilità civile della P.A. anche per le condotte dei dipendenti
pubblici dirette a perseguire finalità esclusivamente personali
mediante la realizzazione di un reato doloso, quando le stesse sono
poste in essere sfruttando, come premessa necessaria, l'occasione
offerta dall'adempimento di funzioni pubbliche, e costituiscono,
inoltre, non imprevedibile sviluppo dello scorretto esercizio di tali
funzioni, in applicazione di quanto previsto dall'art. 2049 cod. civ.»
(annullato così il rigetto della domanda risarcitoria nei confronti di
imputato che, quale agente di Ufficio notifiche esecuzioni e protesti, si
era appropriato di titoli di credito ed effetti cambiari a lui consegnati per il protesto, commettendo i reati di peculato, falso e truffa).
4. Pertanto, per il ricorrente la responsabilità del Ministero si
fonda sul fatto che, come emerso nelle fasi di merito, lo Sc.
aveva esplicato l'attività criminosa, non imprevedibile in assoluto,
nella qualità di funzionario di cancelleria e che solo grazie a quella
veste istituzionale gli era stato possibile accedere alla cassaforte ove i
libretti vincolati erano custoditi, falsificare i mandati di pagamento e
conseguirne di persona l'incasso.
5. Dal canto suo il Ministero, eccepita la tardività del ricorso,
invoca la giurisprudenza di legittimità sulla necessità, ai fini della
responsabilità diretta dell'Amministrazione, della riferibilità a questa
della condotta del funzionario o del dipendente, come esplicazione
dell'attività di quella in virtù del rapporto organico, ricollegabile ad
attribuzioni proprie di lui: tanto da escludere ogni responsabilità nel
caso, come quello in esame, di condotta sorretta da un fine
strettamente personale ed egoistico del funzionario o dipendente ed
anzi contrario agli scopi istituzionali perseguiti dall'Amministrazione.
6. Con la memoria depositata per l'udienza del 09/04/2019, poi, il
Ministero nega la rilevanza dell'invocata giurisprudenza di legittimità
penale, da un lato perché anch'essa postula i caratteri dell'assoluta
imprevedibilità ed eterogeneità della condotta dell'agente rispetto ai
suoi compiti istituzionali (in modo da non consentire un collegamento
con essi) e dall'altro perché la stessa P.A. avrebbe potuto costituirsi
parte civile nel procedimento penale per peculato contro il suo
funzionario evidentemente infedele, attesa la natura plurioffensiva del
delitto di peculato per il quale quello è stato poi condannato.
7. Il Pubblico Ministero, infine, nella requisitoria scritta con
ampiezza di riferimenti ricostruisce i termini della questione, iniziando
dalla disamina della natura della responsabilità di Stato ed Enti
pubblici per i fatti illeciti commessi dai propri dipendenti e funzionari;
illustra una prima impostazione ermeneutica, propria della prevalente
odierna giurisprudenza civilistica e di quella penalistica più risalente
(ma pure di quella amministrativa), per la quale la responsabilità
dello Stato per il fatto illecito dei propri dipendenti sussiste solo in
applicazione di criteri pubblicistici e quindi esclusivamente in caso di
attività corrispondente ai fini istituzionali e, in virtù del rapporto
organico, allorché quella vada imputata direttamente all'ente (con
orientamento definito consolidato da Cass. n. 15930/2002, seguita poi,
tra le altre, da Cass. nn. 2089 e 27246 del 2008, 8306 e 29727 del 2011,
21408/2014 e 8991/2015); ma ricorda pure una seconda
interpretazione, propria soprattutto della giurisprudenza penalistica
(Cass. pen. nn. 21195/2011, 40613/2013, 13799 e 44760 del 2015) e di
una giurisprudenza civilistica ora più remota e poi superata, ora
minoritaria (Cass. nn. 20928/2015 e 17836/2007), ora riferita a rapporti
di preposizione privatistici (Cass. nn. 2226/1990, 20924/15, 22058/2017,
4298/2019) e quindi non assimilabili al rapporto che lega il pubblico
dipendente allo Stato o all'ente pubblico, la quale riconosce la
responsabilità di questi pure in applicazione di criteri privatistici,
corrispondenti a quelli elaborati per la responsabilità del preponente
ai sensi dell'art. 2049 cod. civ., ammettendola così in ipotesi di nesso
di occasionalità necessaria tra condotta illecita e danno.
8. Nella stessa requisitoria scritta si dubita poi della sussistenza di
un effettivo contrasto: da un lato, per la costanza nella configurazione
di una responsabilità diretta e, dall'altro, per la sussistenza di questa
esclusivamente in caso di condotta del dipendente strumentalmente
connessa con l'attività d'ufficio, benché non esclusa in ipotesi di
condotta dolosa o con abuso di poteri o con violazione di legge o di un
ordine, purché si innesti nell'attività dell'ente e sia anche soltanto
indirettamente collegabile alle sue attribuzioni e non sia connotata dal
carattere dell'imprevedibilità ed eterogeneità rispetto a queste ultime,
sì da escluderne ogni collegamento con le medesime, dovendo
rimettersi il superamento delle discrasie all'apprezzamento di fatto
delle circostanze concrete. Per l'errore di diritto consistente nella
violazione di tale principio si chiede così l'accoglimento del ricorso.
B. L'ordinanza di rimessione.
9. L'ordinanza di rimessione
(05/11/2018, n. 28079), esclusa la
tardività del ricorso in base al testo dell'art. 327 cod. proc. civ.
applicabile in ragione della data di instaurazione del giudizio in primo
grado, identifica come oggetto della controversia la questione della
sussistenza o meno della responsabilità civile della Pubblica
Amministrazione per i danni cagionati dal fatto penalmente illecito del
dipendente quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed
agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee
all'amministrazione di appartenenza; ed individua la ragione della sua
devoluzione a queste Sezioni Unite nella rilevata non univocità, sul
punto, delle conclusioni della giurisprudenza di legittimità.
10. Da un lato, la prevalente giurisprudenza civile di legittimità ha
ravvisato il fondamento della responsabilità di Stato ed enti pubblici
nell'art. 28 della Costituzione -la cui ratio è quella di un più agevole
od ampio conseguimento del risarcimento da parte del danneggiato-
e, basandosi tale norma sul rapporto di immedesimazione organica,
solo in virtù del quale l'attività posta in essere dal funzionario (o
dipendente) è sempre imputabile all'ente di appartenenza, ne ha
desunto la configurazione di una responsabilità diretta o per fatto
proprio, ma soltanto se l'attività dannosa si atteggi come esplicazione
dell'attività dello Stato o dell'ente pubblico e cioè tenda, sia pur con
abuso di potere, al conseguimento dei suoi fini istituzionali,
nell'ambito delle attribuzioni dell'ufficio o del servizio cui il dipendente
è addetto (richiamando: Cass. 12/08/2000, n. 10803; Cass.
30/01/2008, n. 2089; Cass. 17/09/1997, n. 9260).
Ne conseguirebbe
l'esclusione di quella responsabilità in tutti i casi in cui la condotta sia
sorretta da un fine esclusivamente privato od egoistico, o a maggior
ragione se contrario ai fini istituzionali dell'ente (Cass. 12/04/2011, n.
8306; Cass. 8/10/2007, n. 20986, Cass. 21/11/2006, n. 24744;
Cass. 18/03/2003, n. 3980; Cass. 12/08/2000, n. 10803; Cass.
13/12/1995, n. 12786).
11. Dall'altro lato, però, almeno in tempi recenti la giurisprudenza
penale di legittimità configura la responsabilità civile della pubblica
amministrazione pure per le condotte dei pubblici dipendenti dirette a
perseguire finalità esclusivamente personali e mercé la realizzazione
di un reato doloso, ove poste in essere sfruttando l'occasione necessaria
offerta dall'adempimento delle funzioni pubbliche cui essi
sono preposti, nonché integranti il non imprevedibile od eterogeneo
sviluppo di un non corretto esercizio di tali funzioni, in applicazione
del criterio previsto dall'art. 2049 cod. civ. (Cass. pen., 20/01/2015,
n. 13799 -poi richiamata da Cass. pen. 03/04/2017, n. 35588, ma
preceduta da Cass. pen. 11/06/2003, n. 33562- in consapevole
contrasto con l'orientamento precedente, di cui è stata ulteriore
espressione la più recente Cass. pen. 04/06/2015, n. 44760).
12. Ad analoga estensione della responsabilità civile si assiste
nella giurisprudenza civile di legittimità in altri ambiti di preposizione,
meramente privatistici, quali quelli propri dei funzionari di banche o
dei promotori di queste o di società di intermediazione finanziaria, in
ordine ai quali è stata riconosciuta la responsabilità dei preponenti
anche nei casi in cui sussista un nesso di occasionalità necessaria tra
le incombenze attribuite al preposto e il danno arrecato a terzi: nesso
che è presupposto indispensabile della responsabilità del preponente
ex art. 2049 cod. civ. e non viene meno in caso di commissione da
parte del preposto di un illecito penale per finalità di carattere
esclusivamente personale (v. già Cass. 06/03/2008, n. 6033;
successivamente, v.: Cass. 16/04/2009, n. 9027; Cass. 24/07/2009,
n. 17393; Cass. 25/01/2011, n. 1741; Cass. 24/03/2011, n. 6829;
Cass. 13/12/2013, n. 27925; Cass. 04/03/2014, n. 5020; Cass.
10/11/2015, n. 22956).
Di qui il rilievo della non univocità della
giurisprudenza in materia e la rimessione della relativa questione a
queste Sezioni Unite.
C. La normativa applicabile.
13. Pertinenti per la risoluzione
della questione sono:
- l'art. 28 della Costituzione, per il quale, com'è noto: «I
funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono
direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative,
degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la
responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici»;
- l'art. 2049 cod. civ., rubricato «responsabilità dei padroni e dei
committenti», per il quale «i padroni e i committenti sono responsabili
per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi
nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti».
14. Sostanzialmente neutri ai fini che qui interessano, per il rinvio
espresso che operano ai principi ed alle norme vigenti, si rivelano
invece alcuni articoli del t.u. 10.01.1957, n. 3 (Testo unico delle
disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), in
particolare gli artt. 22 e 23, i cui rispettivi primi commi prevedono:
- «l'impiegato che, nell'esercizio delle attribuzioni ad esso conferite
dalle leggi o dai regolamenti, cagioni ad altri un danno ingiusto ai sensi
dell'art. 23 è personalmente obbligato a risarcirlo. L'azione di
risarcimento nei suoi confronti può essere esercitata congiuntamente con
l'azione diretta nei confronti dell'Amministrazione qualora, in base alle
norme ed ai principi vigenti dell'ordinamento giuridico, sussista anche la
responsabilità dello Stato»;
- «è danno ingiusto, agli effetti previsti dall'art. 22, quello derivante
da ogni violazione dei diritti dei terzi che l'impiegato abbia commesso per
dolo o per colpa grave; restano salve le responsabilità più gravi previste
dalle leggi vigenti».
D. La normativa costituzionale.
15. È noto l'ampio dibattito,
soprattutto in dottrina e all'indomani
dell'entrata in vigore della Carta fondamentale, sulla portata dell'art.
28 della Costituzione: superate le prime tesi sulla natura meramente
sussidiaria della responsabilità di Stato od ente pubblico rispetto a
quella dell'agente, è invalso il riconoscimento della natura
concorrente o solidale delle due responsabilità, ricostruita quella dello
Stato od ente pubblico come diretta, in forza dei principi
sull'immedesimazione organica dovendo escludersi che l'attività posta in
essere al di fuori dei compiti istituzionali dal pubblico funzionario o
dipendente potesse imputarsi allo Stato o ente pubblico.
16. Non ha incontrato il favore degli interpreti la ricostruzione
della responsabilità della Pubblica Amministrazione per l'illecito del
suo dipendente quale responsabilità indiretta (o per fatto altrui,
dovendo la Pubblica Amministrazione sopportare i rischi delle
conseguenze dannose degli atti posti in essere da coloro che agiscono
per suo conto), né altra tesi eclettica, che ha prospettato la natura
composita di quella stessa responsabilità, dovendo l'Amministrazione
rispondere in via diretta per i danni causati nello svolgimento
dell'attività provvedimentale (l'unica rispetto alla quale si
configurerebbe un'immedesimazione organica, in quanto esplicazione
della funzione diretta al perseguimento del pubblico interesse e posta
in essere da funzionari dotati del potere rappresentativo -organi in
senso stretto- attraverso cui l'Ente esprime la sua volontà ed agisce
nei rapporti esterni) ed in via indiretta per i danni causati
nell'espletamento di ogni altra attività, tra cui quella materiale.
17. Nella prevalente dottrina pubblicistica la tesi della
responsabilità diretta da rapporto organico in funzione limitativa si
fonda sulla tesi del contenimento dell'innovazione portata dalla norma
costituzionale: questa non starebbe nell'immutazione della natura
della responsabilità dell'Ente, che andrebbe sempre qualificata, come
nel sistema anteriore all'entrata in vigore della Costituzione, in
termini di responsabilità diretta o per fatto proprio; essa invece
starebbe nella previsione, accanto alla responsabilità diretta della
pubblica amministrazione, di una concorrente responsabilità, sempre
diretta, del funzionario o del dipendente, che invece, nel sistema
previgente, poteva essere chiamato a rispondere, in solido con l'Ente
di appartenenza, solo ove tale responsabilità solidale fosse prevista
da specifiche disposizioni di legge; la norma costituzionale avrebbe
cioè disegnato un sistema fondato su due responsabilità concorrenti e
solidali, entrambe dirette, spettando esclusivamente al danneggiato
la scelta se far valere l'una o l'altra od entrambe.
19. La giurisprudenza amministrativa è, poi, ferma nel ritenere
interrotta l'imputazione giuridica dell'attività posta in essere da un
organo della pubblica amministrazione nei casi in cui siano posti in
essere fatti di reato (Cons. Stato, Sez. 6, 14/11/2014, n. 5600), o di
atti adottati in ambienti collusivi penalmente rilevanti (Cons. Stato,
Sez. 5, 04/03/2008, n. 890; TAR Reggio Calabria, Sez. 1, 11.08.2012, n. 536), o comunque allorché il soggetto agente, legato alla
P.A. da un rapporto di immedesimazione organica, abbia posto in
essere il provvedimento amministrativo, frutto del reato contro la
P.A., nell'ambito di un disegno criminoso e quindi perseguendo un
interesse personale del tutto avulso dalle finalità istituzionali dell'Ente
(TAR Sicilia-Catania 25/07/2013, n. 2166, per il quale il venir meno
dell'imputabilità dell'atto all'Amministrazione, per interruzione del
rapporto organico, determina la nullità dell'atto stesso, per mancanza
di uno degli «elementi essenziali» -ex art. 21-septies, l. n. 241 del
1990- individuabile nel soggetto o per mancanza di volontà in capo
alla stessa P.A., escludendosi che l'atto de quo possa dirsi posto in
essere da una P.A. nell'esplicazione di un'attività amministrativa).
20. E la stessa Corte costituzionale ha reiteratamente statuito (tra
le altre: Corte cost. n. 64 del 1992, con richiami a Corte cost. n. 18
del 1989, n. 26 del 1987, n. 148 del 1983, n. 123 del 1972) che l'art.
28 Cost. stabilisce la responsabilità diretta per violazione di diritti
tanto dei dipendenti pubblici per gli atti da essi compiuti, quanto dello
Stato o degli enti pubblici, rimettendone la disciplina dei presupposti
al legislatore ordinario, con la precisazione che (Corte cost. nn. 18 del
1989 e 88 del 1963) la responsabilità dello Stato o dell'ente pubblico
può esser fatta valere anteriormente o contestualmente a quella dei
funzionari e dei dipendenti, non avendo carattere sussidiario.
E. La normativa codicistica.
21. Il codice civile regola la
responsabilità dei padroni e
committenti, mutuandola pedissequamente dalla previsione del Code
civil francese (ed in particolare dal suo originario art. 1384, che oggi
corrisponde all'art. 1242, in forza dell'Ordonnance n. 2016-31 del
10/02/2016, in vigore dal 01/10/2016), a mente del quale «les
maitres et les commettants ... sont solidairement responsables du
dommage causé ... par leurs domestiques et préposés dans les
fonctions auxquelles ils les ont employés»; in tale fattispecie si
conferma, analogamente ad altre ipotesi di responsabilità civile senza
colpa, la deroga al principio ohne Schuld keine Haftung, che permea
sia l'altro ordinamento cardine dei sistemi romanisti (quello tedesco in
punto di Deliktsrecht, benché in via di graduale superamento e solo in
determinati settori, mediante la ricostruzione di obblighi derivanti
direttamente, prima della riforma del 2002, dalla norma sulla buona
fede e, poi, dalla novella del BGB sulla sussistenza di obblighi di
protezione più ampi rispetto a quelli di prestazione, tali da riverberare
i loro effetti anche a favore di chi non è parte del contratto), sia il
sistema originario di common law (in cui la Tort Law presuppone
appunto ed almeno in linea generale un difetto di due diligence).
22. Il concetto di padrone o committente, in origine riferito ad
economie rudimentali e connotate da rapporti assai stretti di
preposizione, è stato via via ampliato in forza di un'interpretazione
evolutiva, per essere esteso a molte figure di soggetti che, per
conseguire i propri fini, si avvalgono dell'opera di altri a loro legati in
forza di vincoli di varia natura (e non necessariamente di dipendenza:
su tale specifico punto, tra le prime, v. Cass. 16/03/2010, n. 6325).
23. Si è, al riguardo, superata l'originaria configurazione della
responsabilità in esame come soggettiva o per fatto proprio, quando
questo si identificava almeno in una colpa in eligendo o in vigilando: il
testo normativo non concede al responsabile alcuna prova liberatoria,
cosicché il ricorso alla fictio della presunzione assoluta di colpa si
risolve nell'introduzione artificiosa nella norma di un presupposto che
le è irrilevante; al contrario (benché in dottrina si parli anche di
responsabilità diretta o per il fatto proprio di essere il preponente), si
è dinanzi ad una responsabilità oggettiva per fatto altrui.
24. Si tratta (per tutte: Cass. 09/06/2016, n. 11816, ove ulteriori
richiami giurisprudenziali; più di recente: Cass. ord. 12/10/2018, n.
25373; Cass. 14/02/2019 n. 4298; quanto al rapporto tra ente
pubblico concedente e concessionario, Cass. 20/02/2018, n. 4026,
espressamente fonda la responsabilità del primo sull'inserimento del
secondo nell'apparato organizzativo della P.A.) di un'applicazione
moderna del principio cuius commoda eius et incommoda, in forza del
quale l'avvalimento, da parte di un soggetto, dell'attività di un altro
per il perseguimento di propri fini comporta l'attribuzione al primo di
quella posta in essere dal secondo nell'ambito dei poteri conferitigli.
25. Ma una tale appropriazione di attività deve comportarne
l'imputazione nel suo complesso e, così, sia degli effetti favorevoli che
di quelli pregiudizievoli: un simile principio risponde ad esigenze
generali dell'ordinamento di riallocazione dei costi delle condotte
dannose in capo a colui cui è riconosciuto di avvalersi dell'operato di
altri (poco importa se per scelta od utilità, come nel caso delle
persone fisiche, o per necessità, come in ogni altro caso, in cui è
indispensabile il coinvolgimento di persone fisiche ulteriori e distinte
per l'imputazione di effetti giuridici ad entità sovraindividuali).
26. Dalla correlazione di tale specifica forma di responsabilità ai
vantaggi che sia lecito per il preponente attendersi dall'avvalimento
dell'altrui operato la giurisprudenza civile di legittimità per i rapporti
privatistici di preposizione e quella più recente penale di legittimità
hanno ricavato la necessità di un nesso di occasionalità necessaria tra
esercizio delle incombenze e danno al terzo (quale ultimo elemento
costitutivo della fattispecie, oltre al rapporto di preposizione ed
all'illiceità del fatto del preposto): nesso che è stato ritenuto
sussistente non solamente se il fatto dannoso derivi dall'esercizio
delle incombenze, ma pure nell'ipotesi in cui tale esercizio si limiti ad
esporre il terzo all'ingerenza dannosa del preposto ed anche se questi
abbia abusato della sua posizione od agito per finalità diverse da
quelle per le quali le incombenze gli erano state affidate.
27. Alla stregua di tale elaborazione, il nesso di occasionalità
necessaria (e la responsabilità del preponente) sussiste nella misura
in cui le funzioni esercitate abbiano determinato, agevolato o reso
possibile la realizzazione del fatto lesivo, nel qual caso è irrilevante
che il dipendente abbia superato i limiti delle mansioni affidategli, od
abbia agito con dolo e per finalità strettamente personali (tra molte:
Cass. 24/09/2015, n. 18860; Cass. 25/03/2013, n. 7403); alla
condizione però che la condotta del preposto costituisca pur sempre il
non imprevedibile sviluppo dello scorretto esercizio delle mansioni,
non potendo il preponente essere chiamato a rispondere di un'attività
del preposto che non corrisponda, neppure quale degenerazione od
eccesso, al normale sviluppo di sequenze di eventi connesse
all'espletamento delle sue incombenze (Cass. 11816/2016, cit.).
28. Non ha infatti giuridico fondamento accollare a chicchessia le
conseguenze dannose di condotte del preposto in alcun modo
collegate alle ragioni, anche economiche, della preposizione, ove cioè
non riconducibili al novero delle normali potenzialità di sviluppo di
queste -anche sotto forma di deviazione dal fine perseguito o di
contrarietà ad esso o di eccesso dall'ambito dei poteri conferiti-
secondo un giudizio oggettivo di probabilità di verificazione.
29. L'appropriazione dei risultati delle altrui condotte deve, in
definitiva, essere correlata (e, corrispondentemente, limitata) alla
normale estrinsecazione delle attività del preponente e di quelle
oggetto della preposizione ad esse collegate, sia pure considerandone
le violazioni o deviazioni oggettivamente probabili: sicché chi si
avvale dell'altrui operato in tanto può essere chiamato a rispondere, per di
più senza eccezioni e la rilevanza del proprio elemento
soggettivo, delle sue conseguenze dannose in quanto egli possa
ragionevolmente raffigurarsi, per prevenirle, le violazioni o deviazioni
dei poteri conferiti o almeno tenerne conto nell'organizzazione dei
propri rischi; e così risponde di quelle identificate in base ad un
giudizio oggettivizzato di normalità statistica, cioè riferita non alle
peculiarità del caso, ma alle ipotesi in astratto definibili come di
verificazione probabile o -secondo i principi di causalità adeguata
elaborati da questa Corte fin da Cass. Sez. U. 11/01/2008, n. 576-
«più probabile che non», in un dato contesto storico.
F. La natura della responsabilità dello Stato e degli enti pubblici.
30. Deve allora constatarsi una
non piena coerenza tra le
impostazioni ermeneutiche di questa Corte di legittimità: una prima,
propria della prevalente odierna giurisprudenza civilistica e di quella
preponderante penalistica più risalente (e, per la verità, anche quella
amministrativa), per la quale la responsabilità dello Stato (o degli enti
pubblici) per il fatto illecito dei propri dipendenti (o funzionari) è
diretta e sussiste, in forza di criteri pubblicistici, esclusivamente in
caso di attività corrispondente ai fini istituzionali, quando cioè, in virtù
del rapporto organico, quella vada imputata direttamente all'ente; una seconda, propria soprattutto della giurisprudenza penalistica più
recente e di parte di quella civilistica (ora più remota e poi superata,
ora minoritaria, ora riferita in prevalenza a rapporti di preposizione
privatistici), in base alla quale sussiste la responsabilità dello Stato o
dell'ente pubblico in applicazione di criteri privatistici, corrispondenti
sostanzialmente a quelli in tema di responsabilità del preponente ai
sensi dell'art. 2049 cod. civ., sol che sussista un nesso di
occasionalità necessaria tra condotta illecita e danno.
31. Ritengono queste Sezioni Unite di comporre la disomogeneità
tra dette impostazioni rilevando che nessuna ragione giustifichi più,
nell'odierno contesto socio-economico, un trattamento differenziato
dell'attività dello Stato o dell'ente pubblico rispetto a quello di ogni
altro privato, quando la prima non sia connotata dall'esercizio di
poteri pubblicistici: e che, così, vada riconsiderato il preponderante
orientamento civilistico dell'esclusione della responsabilità in ipotesi di
condotte contrastanti coi fini istituzionali o sorrette da fini egoistici.
32. In particolare, deve ammettersi la coesistenza dei due sistemi
ricostruttivi, quello della responsabilità diretta soltanto in forza del
rapporto organico e quello della responsabilità indiretta o per fatto
altrui: entrambi sono validi, poiché il primo non esclude il secondo ed
ognuno viene in considerazione a seconda del tipo di attività della
P.A. di volta in volta posta in essere.
33. Infatti, il comportamento della P.A. che può dar luogo, in
violazione dei criteri generali dell'art. 2043 cod. civ., al risarcimento
del danno (secondo la compiuta definizione di Cass. Sez. U.
22/07/1999, n. 500) o si riconduce all'estrinsecazione del potere
pubblicistico e cioè ad un formale provvedimento amministrativo,
emesso nell'ambito e nell'esercizio di poteri autoritativi e discrezionali
ad essa spettanti, oppure si riduce ad una mera attività materiale,
disancorata e non sorretta da atti o provvedimenti amministrativi
formali (sulla distinzione, determinante prima di tutto in materia di
giurisdizione, v. da ultimo Cass. Sez. U. ord. 13/12/2018, n. 32364;
tra le altre più remote, v. Cass. Sez. U. 25/11/1982, n. 6363).
34. Orbene, nel primo caso (attività provvedimentale o, se si
volesse generalizzare, istituzionale in quanto estrinsecazione di
pubblicistiche ed istituzionali potestà), l'immedesimazione organica -di regola- pienamente sussiste e bene è allora ammessa la sola
responsabilità diretta in forza della sicura imputazione della condotta
all'ente; del resto, con l'introduzione dell'art. 21-septies legge n. 241
del 1990 pure la carenza di un elemento essenziale -in genere
esclusa se l'atto integra l'elemento oggettivo di un reato- comporta
la mera nullità e non più l'inesistenza dell'atto, come invece voleva la
dottrina tradizionale (col che potrebbe forse sostenersi l'attribuibilità
all'ente dell'atto nullo poiché delittuoso, sia pure a certe condizioni).
35. Nel secondo caso, di attività estranea a quella istituzionale o
comunque materiale, ove pure vada esclusa l'operatività del criterio
di imputazione pubblicistico fondato sull'attribuzione della condotta
del funzionario o dipendente all'ente (questione non immediatamente
rilevante ai fini che qui interessano e che si lascia impregiudicata),
non può però negarsi l'operatività di un diverso criterio: non vi è
alcun motivo per limitare la responsabilità extracontrattuale dello
Stato o dell'ente pubblico -se correttamente ricostruita, pure ad
evitarne strumentali distorsioni o improprie sconsiderate dilatazioni-
al di fuori dell'esercizio di una pubblica potestà quando ricorrano gli
altri presupposti validi in caso di avvalimento dell'operato di altri.
36. Ogni diversificazione di trattamento, per di più nel senso di
evidente favore, si risolverebbe in un ingiustificato privilegio dello
Stato o dell'ente pubblico, in palese contrasto con il principio di
uguaglianza formale di cui all'art. 3, comma primo, Cost. e col diritto
di difesa tutelato dall'art. 24 Cost. e riconosciuto anche a livello
sovranazionale dall'art. 6 della Convenzione europea dei diritti
dell'Uomo (firmata a Roma il 04/11/1950, ratificata con legge 04.08.1955, n. 848, pubblicata sulla G.U. n. 221 del 24/09/1955 ed
entrata in vigore il 10/10/1955) e dall'art. 47 della Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione europea (adottata a Nizza il 07/12/2000 e
confermata con adattamenti a Strasburgo il 12/12/2007; pubblicata,
in versione consolidata, sulla G.U. dell'U.E. del 30/03/2010, n. C83,
pagg. 389 ss.; efficace dalla data di entrata in vigore del Trattato di
Lisbona -ratificato in Italia con L. 02.08.2008, n. 130- e cioè
01/12/2009): poiché escluderebbe quella più piena tutela risarcitoria,
invece perseguibile con la concorrente responsabilità del preponente.
37. Ed una tale diversificazione neppure potrebbe difendersi in
base a generiche esigenze finanziarie pubbliche, poiché la tutela dei
diritti non può mai a queste essere -se non altro sic et simpliciter o
in linea di principio- sacrificata (come, in campo sovranazionale,
riconosce da sempre, perfino in tema di esecuzione coattiva contro lo
Stato, la Corte di Strasburgo: da ultimo, Corte eur. dir. Uomo
14/11/2017, IV sez., Spahie e aa. c. Bosnia-Erzegovina, in ric. n.
20514/15 e altri) e poiché in ogni caso va garantita, affinché possa
dirsi apprestato un rimedio effettivo, almeno un'adeguata tutela
risarcitoria in caso di violazione dei diritti fondamentali sanciti dalla
Convenzione, incombendo il relativo onere a ciascuno Stato ed ai suoi
organi, primi fra tutti quelli giurisdizionali (per tutte, sui relativi
principi generali: Corte eur. dir. Uomo 11/06/2010, Grande Camera,
GMgen c/ Germania, ric. 22978/05, pp. 115 a 119).
38. In definitiva, non può più accettarsi, perché in insanabile
contrasto con tali principi fondamentali e da superarsi con una
interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, la
conclusione che, quando gli atti illeciti sono posti in essere da chi
dipende dallo Stato o da un ente pubblico (e cioè da chi è legittimo
attendersi una particolare legalità della condotta), la tutela risarcitoria
dei diritti della vittima sia meno effettiva rispetto al caso in cui questi
siano compiuti dai privati per mezzo di loro preposti.
39. Si tratta, riprendendo una tesi non ignota alla stessa dottrina
pubblicistica (sopra, punto 16), della ricostruzione sistematica di un
regime di responsabilità articolato, corrispondente alla composita
natura delle condotte dello Stato e degli enti pubblici: a seconda che
cioè esse siano poste in essere nell'esercizio, pur se eccessivo o
illegittimo, delle funzioni conferite agli agenti ed oggettivamente
finalizzate al perseguimento di scopi pubblicistici, oppure che siano
poste in essere da costoro quali singoli, ma approfittando della
titolarità o dell'esercizio di quelle funzioni (o poteri o attribuzioni),
sia
pur piegandole al perseguimento di fini obiettivamente estranei o
contrari a quelli pubblicistici in vista dei quali erano state conferite.
40. Nel primo caso, l'illecito è riferito direttamente all'Ente e
questi ne risponderà, altrettanto direttamente, in forza del generale
principio dell'art. 2043 cod. civ.; nel secondo caso, con le precisazioni
di cui appresso, la responsabilità civile dell'Ente deve invece dirsi
indiretta, per fatto del proprio dipendente o funzionario, in forza di
principi corrispondenti a quelli elaborati per ogni privato preponente e
desunti dall'art. 2049 cod. civ.
41. Tale conclusione comporta che debba prescindersi in modo
rigoroso da ogni colpa del preponente anche pubblico e lascia intatta
la concorrente e solidale responsabilità del funzionario o dipendente
(salvo eventuali limitazioni espressamente previste indotte dalla
peculiarità di determinate materie, come nel caso del personale
scolastico -ex art. 61 cpv. legge 11.07.1980, n. 312, su cui v.
Corte cost. n. 64 del 1992- o dei magistrati ex lege 113/1987, su cui v.
tra le altre Corte cost. n. 18 del 1989); e ad essa, beninteso, deve
farsi eccezione quando vi sia un'esplicita diversa previsione normativa
che, ad esempio per la peculiarità della specifica materia, mandi
esente da responsabilità l'ente pubblico e mantenga esclusivamente
quella dell'agente o viceversa.
42. Ritengono queste Sezioni Unite che debba allora superarsi la
rigida alternatività, con rapporto di mutua esclusione, fra i criteri di
imputazione pubblicistico o diretto e privatistico o indiretto: l'art. 28
Cost. non preclude l'applicazione della normativa del codice civile,
piuttosto essendo finalizzata all'esclusione dell'immunità dei
funzionari per gli atti di esercizio del potere pubblico ed alla
contemporanea riaffermazione della responsabilità della P.A.; ne
consegue che la concorrente responsabilità della P.A. e del suo
dipendente per i fatti illeciti posti in essere da quest'ultimo al di fuori
delle finalità istituzionali di quella deve seguire, in difetto di deroghe
normative espresse, le regole del diritto comune.
43. Del resto, più non osta all'applicabilità dell'art. 2049 cod. civ.
l'originaria sua ricostruzione come estrinsecazione di una colpa in
eligendo vel in vigilando, la quale sarebbe esclusa in tesi nel rapporto
organico in forza della predeterminazione normativa dei criteri di
selezione e di un sistema pubblicistico di controlli, entrambi
estrinsecazione di poteri discrezionali: infatti, la norma in esame
prescinde, nella sua corrente ricostruzione, da ogni profilo di colpa.
44. Nemmeno l'ontologica differenza tra rapporto di preposizione
institoria e rapporto organico tra Stato od ente pubblico e suo
funzionario o dipendente osta alla generalizzazione del principio
dell'art. 2049 cod. civ., poiché questo è solamente espressione di un
generale criterio di imputazione di tutti gli effetti, non solo favorevoli
ma anche pregiudizievoli, dell'attività non di diritto pubblico dei
soggetti di cui ci si avvale; e che la P.A. possa rivestire la qualità di
parte lesa nel procedimento penale avente ad oggetto la condotta del
dipendente infedele non muta la responsabilità della prima nei
confronti dei terzi, soltanto rilevando nei rapporti interni con quello.
45. Ancora, solo in caso di responsabilità indiretta è pienamente
coerente col sistema generale (se non derogato da discipline speciali)
di imputazione, nei rapporti interni, del carico dell'obbligazione
risarcitoria l'attribuzione (talora normativamente prevista: v. ad es.
l'art. 22, cpv., del richiamato d.P.R. 10.01.1957, n. 3) di questo
per intero al dipendente colpevole (in armonia con il sistema appunto
di cui all'art. 2049 cod. civ.: da ultimo, Cass. 05/07/2017, n. 16512),
salva per quest'ultimo la prova della colpa pure dell'amministrazione.
G. L'occasionalità necessaria.
46. Alla puntualizzazione dell'ambito di operatività del criterio di
imputazione ricondotto ai principi dell'art. 2049 cod. civ. va premesso
un richiamo ai principi in tema di causalità nel diritto civile.
47. A partire dalla fondamentale elaborazione di queste Sezioni
Unite di cui alle sentenze nn. 576 ss. del dì 11/01/2008 (alla cui
esauriente motivazione, tuttora valida e meritevole di piena
condivisione, qui basti un richiamo), ai fini della definizione della
causalità materiale nell'ambito della responsabilità extracontrattuale
va fatta applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41
cod. pen., sicché un evento è da considerare causato da un altro se,
ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in
assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non).
48. Tuttavia, il rigore del principio dell'equivalenza delle cause,
posto dall'art. 41 cod. pen. (per il quale, se la produzione di un evento
dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad
ognuna di esse efficienza causale), trova un temperamento nel
principio di causalità efficiente, desumibile dal capoverso della
medesima disposizione, in base al quale l'evento dannoso deve
essere attribuito esclusivamente all'autore della condotta
sopravvenuta, solo se quest'ultima risulti tale da rendere irrilevanti le
altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle regolari linee di
sviluppo della serie causale già in atto.
49. Al contempo, neppure è sufficiente tale relazione per dar luogo ad una
causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie
causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che appaiano ex
ante idonee a determinare l'evento secondo il principio della c.d. causalità
adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale: quest'ultima, a
sua volta, individua come conseguenza normale imputabile quella che -secondo l'id quod plerumque accidit e così in base alla regolarità
statistica o ad una probabilità apprezzabile ex ante- integra gli estremi
di una sequenza costante dello stato di cose originatosi da un evento
originario (ivi compresa la condotta umana), che ne costituisce
l'antecedente necessario e sufficiente. E, sempre secondo i citati
precedenti di queste Sezioni Unite, la sequenza costante deve essere
prevedibile non da un punto di vista soggettivo, cioè da quello dell'agente,
ma in base alle regole statistiche o scientifiche (se non proprio, in
sostanza, di empiria reiterata e verificata) e quindi per così dire
oggettivizzate, da cui inferire un giudizio di probabilità di verificazione
dell'evento.
50. Il principio della regolarità causale, rapportato ad una valutazione ex
ante, diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e
svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra evento generatore del danno
ed evento dannoso (nesso causale), da ricostruirsi anche sulla base dello
scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei
doveri di avvedutezza comportamentale va più propriamente ad iscriversi
entro l'elemento soggettivo dell'illecito (la colpevolezza), ove questo per
l'ordinamento rilevi; ma non potendo escludersi una loro efficienza
peculiare nel senso dell'elisione, a certe condizioni, del nesso causale tra
l'illecito ed il danno, come precisato dalle sezioni semplici di questa
Corte (su cui vedi, per tutte, Cass. ord. 01/02/2018, nn. 2478, 2480 e
2482).
51. Non è questa la sede per esaminare le differenze tra causa ed occasione
o concausa, né per sanare la contradictio in adiecto della nozione di
occasionalità necessaria: infatti, basta qui rilevare che questa coinvolge
una peculiare specie di relazione di causalità, visto che, nella concreta
elaborazione che finora se ne è operata e con le precisazioni di cui
appresso, una tale occasionalità necessaria si identifica con quella
peculiare relazione tra l'uno e l'altro tale per cui la verificazione del
danno- onseguenza non sarebbe stata possibile senza l'esercizio dei poteri
conferiti da altri, che assurge ad antecedente necessario anche se non
sufficiente; ma qui va affermata la necessità che tale valutazione di
impossibilità sia operata in base ai principi della causalità adeguata
appena riassunti e così ad un giudizio controfattuale, oggettivizzato ex
ante, di regolarità causale atta a determinare l'evento, vale a dire di
normalità -in senso non ancora giuridico, ma naturalistico-statistico-
della sua conseguenza.
52. Ne consegue che il preponente pubblico, con tale espressione potendo
descrittivamente identificarsi lo Stato o l'ente pubblico nella fattispecie
di interesse, risponde del fatto illecito del proprio funzionario o
dipendente ogni qual volta questo non si sarebbe verificato senza
l'esercizio delle funzioni o delle attribuzioni o dei poteri pubblicistici:
e ciò a prescindere dal fine soggettivo dell'agente (non potendo dipendere
il regime di oggettiva responsabilità dalle connotazioni dell'atteggiamento
psicologico dell'autore del fatto), ma in relazione all'oggettiva
destinazione della condotta a fini diversi da quelli istituzionali o -a
maggior ragione- contrari a quelli per i quali le funzioni o le
attribuzioni o i poteri erano stati conferiti.
53. La conseguenza è l'integrale applicazione della disciplina della
responsabilità extracontrattuale, che implica a sua volta un'adeguata
delimitazione di tale conclusione: in primo luogo, valgono i principi e le
regole in tema di accertamento del nesso causale secondo le regole sopra
ricordate; in secondo luogo, vige l'elisione del nesso in ipotesi di fatto
naturale o del terzo o del danneggiato che sia di per sé solo idoneo a
determinare l'evento; in terzo luogo, si applica la regola generale
dell'art. 1227 cod. civ. in tema di concorso del fatto colposo del
danneggiato (su cui v., tra le altre, le già richiamate Cass. ord. nn. 2478,
2480 e 2482 del 2018).
54. Soprattutto, però, è insito nel concetto stesso di causalità adeguata
che la sequenza tra premesse e conseguenze sia rigorosa e riferita a quelle
tra queste che appaiano, con giudizio controfattuale di oggettivizzazione ex
ante della probabilità o di regolarità causale, come sviluppo non anomalo,
anche se implicante violazioni o deviazioni od eccessi in quanto anch'esse
oggettivamente prevenibili, di attività rese possibili solo da quelle
funzioni, attribuzioni o poteri.
55. In tanto può giustificarsi, infatti, la scelta legislativa di far carico
al preponente degli effetti delle attività compiute dai preposti, in quanto
egli possa raffigurarsi ex ante quali questi possano essere e possa
prevenirli o tenerli in adeguata considerazione nell'organizzazione della
propria attività quali componenti potenzialmente pregiudizievoli: e quindi
in quanto possa da lui esigersi di prefigurarsi gli sviluppi che possono
avere le regolari (in quanto non anomale od oggettivamente improbabili)
sequenze causali dell'estrinsecazione dei poteri (o funzioni o attribuzioni)
conferiti al suo preposto, tra i quali rientra la violazione aperta del
dovere di ufficio la cui cura è stata affidata, non per nulla quello essendo
circondato di garanzie o meccanismi di salvaguardia anche interni alla
stessa organizzazione del preponente (come rileva Cass. pen. n. 13799 del
2015 cit.).
56. Ne deriva che quest'ultimo andrà esente dalle conseguenze dannose di
quelle condotte, anche omissive, poste in essere dal preposto in
estrinsecazione dei poteri o funzioni o attribuzioni conferiti, che fosse
inesigibile prevenire o raffigurarsi oggettivamente come sviluppo non
anomalo, secondo un giudizio controfattuale oggettivizzato ex ante, di
quell'estrinsecazione, quand'anche distorta o deviata o vietata: in tanto
assorbita od a tanto ricondotta, almeno quanto alla sola qui rilevante
fattispecie dei danni causati dall'illecito del pubblico funzionario, ogni
altra conclusione sull'occasionalità necessaria, tra cui l'estensione alla
mera agevolazione della commissione del fatto.
H. Sintesi.
57. Per sintetizzare quanto fin qui esposto, occorre dunque postulare una
natura composita della responsabilità dello Stato o dell'ente pubblico per
il fatto illecito del dipendente o funzionario, per applicare i principi
della responsabilità indiretta elaborati per l'art. 2049 cod. civ.
all'attività non provvedimentale (o istituzionale) della pubblica
amministrazione; e, in base ad essi, affermarne la concorrente e solidale
responsabilità per i danni causati da condotte del preposto pubblico
definibili come corrispondenti ad uno sviluppo oggettivamente non
improbabile delle normali condotte di regola inerenti all'espletamento delle
incombenze o funzioni conferite, anche quale violazione o come sviamento o
degenerazione od eccesso, purché anche essi prevenibili perché
oggettivamente non improbabili.
58. Sono pertanto fonte di responsabilità dello Stato o dell'ente pubblico
anche i danni determinati da condotte del funzionario o dipendente, pur se
devianti o contrarie rispetto al fine istituzionale del conferimento del
potere di agire, purché:
- si tratti di condotte a questo legate da un nesso di
occasionalità necessaria, tale intesa la relazione per la quale, in difetto
dell'estrinsecazione di detto potere, la condotta illecita dannosa - e
quindi, quale sua conseguenza, il danno ingiusto - non sarebbe stata
possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base al
giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta; nonché
- si tratti di condotte raffigurabili o prevenibili oggettivamente,
sulla base di analogo giudizio, come sviluppo non anomalo dell'esercizio del
conferito potere di agire, rientrando nella normalità statistica pure che il
potere possa essere impiegato per finalità diverse da quelle istituzionali o
ad esse contrarie e dovendo farsi carico il preponente delle forme, non
oggettivamente improbabili, di inesatta o infedele estrinsecazione dei
poteri conferiti o di violazione dei divieti imposti agli agenti.
59. Infine, adeguata protezione del preponente dal rischio di rispondere del
fatto del proprio ausiliario o preposto al di là dei generali principi in
tema di risarcimento del danno extracontrattuale si ravvisa
nell'applicazione anche in materia di danni da attività non provvedimentale
della P.A. dei principi in tema di elisione del nesso causale in ipotesi di
caso fortuito o di fatto del terzo o della vittima di per sé solo idoneo a
reciderlo e di quelli in tema di riduzione del risarcimento in caso di
concorso del fatto almeno colposo di costoro.
60. La questione sottoposta a queste Sezioni Unite dall'ordinanza
interlocutoria va così risolta alla stregua del seguente principio di
diritto: «lo Stato o l'ente pubblico risponde civilmente
del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del dipendente
anche quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per
finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee a quelle
dell'amministrazione di appartenenza, purché la sua condotta sia legata da
un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che il
dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita
dannosa -e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi- non sarebbe
stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in
base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza
l'esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviato o abusivo od
illecito, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo»
(Corte di Cassazione, Sezz.
unite civili,
sentenza
16.05.2019 n. 13246). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Calcolo
congedo parentale.
Domanda
Come va calcolato il congedo parentale quando vi sono dei giorni festivi nel
periodo di riferimento? E quando invece viene chiesto un solo giorno della
settimana?
Risposta
L’art. 43, comma 5, del CCNL del 21.05.2018, prevede che i periodi di
assenza di congedo parentale, nel caso di fruizione continuativa,
comprendono anche gli eventuali giorni festivi che ricadano all’interno
degli stessi. Tale modalità di computo trova applicazione anche nel caso di
fruizione frazionata, ove i diversi periodi di assenza non siano
intervallati dal ritorno al lavoro del lavoratore o della lavoratrice.
Nel caso in cui la lavoratrice usufruisca per l’intero mese di congedo
parentale, il computo dei giorni di congedo parentale deve tenere conto
delle domeniche nella modalità sopra indicata, mancando la ripresa in
servizio.
Non avendo specificato il mese di riferimento non è possibile confermare il
numero dei giorni. Il conteggio va fatto calendario alla mano.
Nel caso in cui la dipendente usufruisca del congedo tutte le settimane per
il solo giorno lavorativo del sabato, il computo tiene conto dei soli sabati
ricadenti in quel mese, escludendole domeniche, in quanto rinvenibile la
ripresa in servizio tra i sue periodi di congedo parentale richiesti.
In pratica tra un sabato e quello successivo la lavoratrice deve rientrare
in servizio affinché il conteggio tenga conto della sola giornata del
sabato.
Per ogni ulteriore dettaglio si rimanda al messaggio INPS n. 28379 del
25.10.2006.
La frazionabilità va intesa nel senso che tra un periodo (anche solo di un
giorno per volta) e l’altro di congedo parentale deve essere effettuata una
ripresa effettiva del lavoro (a questo fine le ferie non sono utili INPDAP
circ. n. 24 del 29/05/2000, Dipartimento FP circ. n. 14/00 del 16/11/2000,
INPS circ. n. 109 del 06/06/2000) (16.05.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: D.
Pusceddu,
E dopo il 20 maggio come vengono retribuite le Posizioni Organizzative?
(16.05.2019 - link a www.fpcgilbergamo.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
termine del 20 maggio entro il quale incaricare le posizioni organizzative
non è vincolante
(15.05.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Il
datore di lavoro è tenuto a lavare la divisa degli addetti alla manutenzione
e pulitura di parchi e giardini?
Domanda
Il datore di lavoro è tenuto a lavare la divisa degli addetti alla
manutenzione e pulitura di parchi e giardini?
Risposta
La materia non riceve disciplina nella fonte contrattuale, pertanto è
necessario ricorrere alla prevalente giurisprudenza che offre uno strumento
di guida, soprattutto quando si muove uniformemente, come nel caso
specifico.
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 29964/2017
conferma un principio ormai consolidato, secondo il quale il datore di
lavoro dell’Ente Locale non è tenuto a far lavare le tute quando non siano
“dispositivi di protezione individuale” ma servano, semplicemente, ad
evitare l’usura degli abiti civili.
La vicenda ha riguardato gli addetti ai servizi di manutenzione e pulitura
di parchi e giardini di un Comune, convocato in giudizio. La pretesa era
quella di vedersi riconosciuto il diritto all’indennità per il lavaggio
delle tute adoperate per lo svolgimento del lavoro.
Il giudice di primo grado e la Corte d’Appello respingono le richieste in
ragione della natura della divisa, non riconducibile ad un dispositivo di
protezione individuale (Dpi) così come declinato all’art. 74 del d.lgs. n.
81/2008.
La disposizione di legge stabilisce che per “dispositivo di protezione
individuale” debba intendersi qualsiasi attrezzatura destinata ad essere
indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più
rischi suscettibili di minacciare la sicurezza o la salute durante il
lavoro.
La norma esclude espressamente da tale categoria gli indumenti di lavoro
ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la
sicurezza e la salute del lavoratore.
La Corte ha in questo caso escluso l’assimilazione tra le tute fornite dal
Comune ai dipendenti e i Dpi, negando ogni nesso con la tutela della salute
e dell’igiene dei lavoratori.
In definitiva, le tute sono estranee al tema della salute e hanno come unica
funzione quella di preservare gli abiti civili dall’usura dovuta allo
svolgimento dell’attività.
L’obbligo di lavaggio sussiste solo ove finalizzato alla tutela della salute
e sicurezza del lavoratore (09.05.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: M.
T. Desideri,
Mancata
promozione del procedimento disciplinare e responsabilità dirigenziale
(09.05.2019 - link a www.filodirito.com). |
PUBBLICO IMPIEGO: Danno
da disservizio per il dipendente che si allontana senza timbrare.
Pochi minuti di allontanamento dal posto di lavoro, senza autorizzazione,
non sempre comportano il licenziamento ma possono rientrare in una sanzione
disciplinare conservativa, disciplinata dal contratto di lavoro degli enti
locali in caso di violazione dei doveri di servizio. Il danno erariale,
invece, corrisponde sicuramente ai minuti di allontanamento non registrati
cui si aggiunge anche il danno da disservizio, corrispondente alle risorse
inutilmente spese per l'attivazione e la conclusione della procedura
disciplinare, mentre non si configura danno all'immagine previsto dalla
disposizione di legge.
Queste sono le conclusioni cui è giunta la Corte dei Conti, Sez.
giurisdiz. per la Basilicata,
sentenza 08.05.2019 n. 18).
Il caso
La vicenda è quella del dipendente di un ente locale, con funzioni di
autista, che nei periodi nei quali non era impiegato nelle sue funzioni, si
rifiutava di svolgere attività di ufficio dimostrando incapacità di
attendere ai suoi compiti di servizio. Convocato dal responsabile per
chiarire questa continua situazione di inoperatività lavorativa, era
risultato assente dalla sede.
A seguito della ricostruzione delle sue
assenze dal servizio, nei periodi di non impiego come autista, l'ente aveva
attivato una procedura disciplinare dalla quale emergeva che molte delle ore
venivano passate presso il collega al centralino, mentre l'allontanamento
dal servizio, senza autorizzazione, pur ammesso dall'interessato, si
riducevano a soli 23 minuti di omessa timbratura.
L'Ufficio dei procedimento disciplinari non ha, tuttavia, giudicato
sufficienti i minuti di allontanamento dall'ufficio, per irrogare la
sanzione disciplinare espulsiva -sanzione tesa a reprimere la
falsificazione dei dati di presenza in servizio- ritenendo invece congrua
quella conservativa prevista dall'articolo 3, comma 6, lettera d)
(persistente insufficiente rendimento), lettera g) (comportamento di elusione dei sistemi di rilevamento elettronico della presenza) e lettera i)
(comportamenti che cagionino danno grave all'ente) del contratto
Regioni-Enti Locali del 11.04.2008, quale frutto di noncuranza e
trascuratezza dei doveri di ufficio.
A seguito di segnalazione, da parte
dell'Ufficio dei procedimenti disciplinari, alla Procura della Corte dei
conti, in presenza di avvio della procedura disciplinare del licenziamento
con sospensione immediata del dipendente -poi terminata con la sanzione
conservativa della sospensione dal servizio di quattro mesi- il dipendente
è stato rinviato a giudizio per responsabilità erariale.
Il Pm ha quantificato il danno erariale in tre separate poste. La prima
corrispondente alla mancata presenza in servizio, per violazione del sistema
di rilevazione delle presenze, pari al pagamento delle prestazioni non rese.
La seconda posta di danno, qualificata da disservizio, è stata considerata
pari al alla spesa sostenuta per l'impiego dei soggetti coinvolti nel
procedimento disciplinare distolti dai loro compiti di istituto. L'ultima
posta di danno erariale, quantificabile ex lege, qualificabile come danno
all'immagine, è stata quantificata pari a sei mensilità così come previsto
dall'articolo 55-quater del Dlgs 165/2001. Il dipendente ha confutato la
tesi del Pm evidenziando che l'allontanamento per pochi minuti era dovuto a
una dimenticanza.
Le indicazioni del collegio contabile
Il collegio contabile ha osservato che, dalla documentazione i del
procedimento disciplinare, è emerso che lo stesso dipendente abbia ammesso
di aver sbagliato per non avere timbrato l'uscita, ritenendo per questo
motivo configurabile la piena responsabilità del dipendente anche se per
soli 23 minuti, sia pure di natura non fraudolenta, che ha cagionato un
nocumento di lieve entità e tuttavia suscettibile di essere commisurato in
termini risarcitori per una somma pari a 9,50 euro.
Anche l'altra posta di danno erariale da disservizio è applicabile, in
considerazione del procedimento disciplinare che ha impiegato dipendenti
pubblici distogliendoli dai loro compiti istituzionali per causa dei
comportamenti negligenti del dipendente. Mentre l'ultima posta di danno,
qualificata dalla Procura come danno all'immagine, direttamente previsto
dalla normativa, nel caso di specie non risulta applicabile in quanto la
condotta del dipendente non è stata considerata dalla stessa amministrazione
come effettuata in modo fraudolento ma per trascuratezza nell'assolvimento
dei doveri di ufficio
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.05.2019). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Enti
senza dirigenti, incarichi fino a 5 anni.
Incarichi fino a cinque anni per le posizioni organizzative nei comuni senza
dirigenza. Mancano pochi giorni alla data del 20 maggio 2019, entro la quale
occorre riattribuire gli incarichi di posizione organizzativa, a seguito
dell'adeguamento della connessa disciplina alle regole contenute nel Ccnl
21/05/2018. Sulla durata degli incarichi, come anche sui criteri per la loro
assegnazione, proprio il Ccnl induce a un equivoco.
L'articolo 14, comma 1, dispone che «gli incarichi relativi all'area delle
posizioni organizzative sono conferiti dai dirigenti per un periodo massimo
non superiore a tre anni, previa determinazione di criteri generali da parte
degli enti». Questa disposizione induce molti a ritenere conseguentemente
che la durata degli incarichi sia stata ridotta dai 5 anni espressamente
previsti dal precedente Ccnl 31/03/1999, al più breve triennio.
Tuttavia, questa chiave di lettura non appare soddisfacente. L'articolo 14
del Ccnl 21/05/2018 contiene una regolamentazione degli incarichi delle
posizioni organizzative riferita con ogni evidenza agli enti nei quali sono
presenti i dirigenti. Non a caso il comma uno precisa che gli incarichi «sono
conferiti dai dirigenti». Negli enti privi di dirigenza, dunque, la
disciplina non può che essere differente. E la conferma si trova nella
disposizione contenuta nell'articolo 17, comma 1, sempre del Ccnl 21/05/2018:
«negli enti privi di personale con qualifica dirigenziale, i responsabili
delle strutture apicali, secondo l'ordinamento organizzativo dell'ente, sono
titolari delle posizioni organizzative disciplinate dall'art. 13».
Come si nota, mentre negli enti in cui siano presenti qualifiche
dirigenziali l'articolo 14 attribuisce ai dirigenti il compito di conferire
gli incarichi, nel caso di enti senza qualifiche dirigenziali il Ccnl dedica
una previsione speciale e precisa, quella dell'articolo 17, comma 1. Che è
da considerarsi esclusiva; negli enti senza dirigenti, dunque, non si
applicano le previsioni dei primi due commi dell'articolo 14, ma il diverso
meccanismo stabilito dal comma 1 dell'articolo 17.
Si tratta di un automatismo: l'articolo 17, semplificando, dispone che i
funzionari ai quali i sindaci abbiano attribuito le funzioni dirigenziali ai
sensi dell'articolo 109, comma 2, del dlgs 267/2000 e che in conseguenza di
ciò siano stati nominati come responsabili dei servizi ai sensi
dell'articolo 50, comma 10, sempre del dlgs 267/2000, sono necessariamente
posizioni organizzative. Quindi, negli enti privi di dirigenti non occorre
nessun atto di assegnazione dell'incarico nell'area delle posizioni
organizzative, essendo detto incarico connesso al precedente provvedimento
amministrativo di competenza sindacale di nomina come responsabile di
servizio, al vertice di una struttura amministrativa.
Così stando le cose, poiché negli enti privi di dirigenza non si applica
l'articolo 14, comma 1, del Ccnl 21/05/2018, allora non si può considerare
operante nemmeno il limite temporale di tre anni ivi previsto.
A ben vedere, in questa tipologia di enti, l'incarico nell'area delle
posizioni organizzative non può che avere la identica durata dell'incarico
di funzioni dirigenziali e di preposizione al vertice di una struttura
gestionale. Se, quindi, un sindaco incarichi un funzionario di funzioni
dirigenziali ai sensi dell'articolo 109, comma 2, del Tuel e lo preponga ad
una struttura di vertice per una durata anche superiore ai tre anni, non si
può non concludere che il funzionario resta incaricato come posizione
organizzativa per tutta la durata dell'efficacia degli atti adottati dal
sindaco ai sensi degli articoli 109, comma 2, e 50, comma 10, del Tuel:
norme, queste, che per altro non contengono alcun termine specifico di
durata degli incarichi; solo il comma 1 dell'articolo 109, applicabile per
analogia, precisa che detti incarichi debbano essere a tempo determinato.
Una durata massima di 5 anni degli incarichi di funzioni dirigenziali la si
può desumere sempre per analogia, riferendosi alle previsioni dell'articolo
19, comma 2, del dlgs 165/2001
(articolo ItaliaOggi del 03.05.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
conferimento degli incarichi di posizione organizzativa.
Nei giorni scorsi Anci ha diffuso il
proprio quaderno operativo (Istruzioni tecniche, linee guida,
note e modulistica) sul «Regolamento sugli incarichi di posizione
organizzativa. Aggiornamento al CCNL 21/05/2018. Criteri generali di
conferimento e sistema di graduazione della retribuzione di posizione».
L'occasione si presta ad alcune riflessioni.
Il contratto del comparto Funzioni locali per il periodo 2016-2018
introduce, tra le altre, una novità particolarmente significativa: la
possibilità di attribuire alle posizioni organizzative deleghe delle
funzioni dirigenziali che comportino anche la firma di provvedimenti finali
aventi rilevanza esterna. Si viene, così, a delineare una figura intermedia
tra il dirigente e il funzionario, dotata di un elevato grado di autonomia
gestionale e organizzativa o preposta ad attività ad alto contenuto
professionale, comprese quelle per le quali è richiesta l'iscrizione ad un
albo professionale oppure un'elevata competenza specialistica (conseguita
attraverso titoli universitari o pregresse esperienze professionali, in
posizioni di responsabilità o di alta qualificazione professionale). Questa
figura, così ridefinita e innovata rispetto al passato, rappresenta un
importante punto di raccordo tra le decisioni politico-amministrative e la
gestione operativa dell'ente, in quanto finalizzata a garantire e monitorare
direttamente lo svolgimento dei processi esecutivi.
Il nuovo contratto collettivo offre, quindi, ai Comuni, una maggiore
autonomia organizzativa e, nell'esercizio della potestà regolamentare,
permette di incentivare e premiare le posizioni organizzative.
In questa prospettiva vanno lette, quindi, le disposizioni che prevedono la
possibilità di riservare una quota non inferiore al 15% delle risorse
stanziate, a favore di queste figure, per la retribuzione di risultato. È,
inoltre, introdotta la possibilità di conferire incarichi a interim alle
figure che siano già titolari di posizione organizzativa per ricoprire
funzioni di altra posizione organizzativa, prevedendo una ulteriore
incentivazione economica, sempre a titolo di retribuzione di risultato.
Il quadro sulla natura «semi-dirigenziale», che questa figura ha
assunto con la novità contrattuale descritta, si completa con la previsione
secondo cui le risorse per la sua remunerazione sono ricavate dal fondo per
il trattamento economico accessorio del personale del comparto e che sono
stanziate in bilancio.
Per gli enti i tempi sono ormai brevi per adeguarsi a questa nuova realtà
contrattuale. Il contratto impone infatti che i nuovi regolamenti contenenti
la disciplina relativa ai criteri per il conferimento degli incarichi, alla
graduazione della retribuzione di posizione e ai criteri per l'attribuzione
della retribuzione di risultato siano adottati entro il 20 maggio. E gli
incarichi di posizioni organizzative già conferiti sulla base del previgente
contratto? È logico presumere che decadano a tale data.
È quindi in atto una piccola rivoluzione: si tratta, infatti, di figure che
devono perdere il loro carattere di «fiduciarietà». Devono essere
attribuite dal dirigente (dal sindaco solo in quei Comuni in cui non vi sono
dirigenti) a funzionari di categoria D (alla categoria C ove la predetta
categoria sia mancante) secondo criteri oggettivi e trasparenti, oltre che
opportunamente graduati. Su quest'aspetto interviene egregiamente l'Anci che
suggerisce dei «criteri generali per il conferimento degli incarichi di
P.O. e per la graduazione della loro retribuzione», definendo una
metodologia che è in grado di esprimere la coerenza tra la rilevanza del
ruolo assegnato alla posizione e la relativa retribuzione. Nelle note dell'Anci,
il criterio della cosiddetta «trasversalità» è interpretato come
finalizzato a valorizzare la complessità e la misura dei rapporti interni ed
esterni che la posizione organizzativa incaricata dovrà gestire nello
svolgimento dei propri compiti tecnici.
La «complessità operativa e organizzativa» è interpretata con riferimento
non solo alla composizione numerica dell'unità organizzativa, cui è preposta
la figura in esame, ma anche all'inquadramento contrattuale della stessa. In
parole semplici, il livello di complessità si presume maggiore ove l'unità
sia composta da dipendenti di categoria D. Il parametro potrebbe essere
legato anche «alla graduazione della struttura dirigenziale ove la PO è
incardinata, ove, ad esempio, si ritenga non affidabile il solo riferimento
al personale assegnato». Ma si guarda anche al numero e alla difficoltà
(soprattutto in termini di tempistica e di attività istruttoria) dei
passaggi per arrivare al risultato finale del procedimento affidato alla
posizione organizzativa.
Riguardo al «rischio contenzioso», l'Anci non può che rinviare, del
tutto correttamente, al Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione
e della Trasparenza. In particolare, «viene valutata l'intensità e la
rilevanza dell'incidenza del prodotto finale nei confronti del destinatario
in relazione agli interessi coinvolti». Mentre la responsabilità finanziaria
non può che essere rapportata al budget assegnato, «a livello di entrata
e di spesa».
Diversamente graduata è, logicamente, la strategicità a seconda che l'ente
disponga o meno di figure dirigenziali. Nel primo caso, infatti, è valutata
la significatività delle deleghe dirigenziali; nel secondo, invece, a essere
valutato è il peso delle funzioni conferite rispetto all'attuazione del
programma di mandato del Sindaco. La previsione dell'area delle posizioni
organizzative come delineata dal nuovo contratto del comparto funzioni
locali 2016-2018 presuppone, in sostanza, un'equilibrata differenziazione
del peso e quindi anche dei valori economici delle diverse posizioni,
ricercando soluzioni che sfruttino appieno l'ampio ventaglio reso
disponibile dalle nuove previsioni anche al fine di offrire serie
prospettive di miglioramento di carriera e di apprezzamento economico al
personale. Sarà quindi necessaria l'adozione di nuovi regolamenti, tesi allo
sviluppo delle potenzialità organizzative e gestionali dei singoli che
potranno essere premiate mediante il progressivo affidamento di incarichi
sempre più importanti e maggiormente remunerati.
È necessario quindi, a tal fine, adottare un sistema flessibile volto a
privilegiare un'esatta corrispondenza del punteggio agli elementi
qualitativi e quantitativi che caratterizzano la singola posizione
organizzativa, e che tenga conto delle peculiarità organizzative e
gestionali del singolo ente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
02.05.2019). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Utilizzo
graduatorie triennio 2010-2013.
Domanda
È possibile avviare il reclutamento degli idonei che figurano nelle
graduatorie approvate dal 2010 al 2013 pubblicando nel sito web dell’ente un
avviso per manifestazione di interesse rivolto in generale a tutti coloro
che sono collocati in tali graduatorie, per poi trasmettere l’invito a
partecipare ai corsi di formazione previsti dall’art. 1, comma 362, della l.
145/2018 solamente a coloro che avranno manifestato il loro interesse?
Risposta
Come noto, la legge di bilancio per l’anno 2019 ha prorogato fino al
30.09.2019 la validità delle graduatorie approvate dal 01.01.2010 al
31.12.2013, ma ne ha subordinato l’utilizzo ai seguenti adempimenti:
1) frequenza obbligatoria, da parte degli idonei, di corsi di
formazione e aggiornamento organizzati da ciascuna amministrazione, nel
rispetto dei princìpi di trasparenza, pubblicità ed economicità e
utilizzando le risorse disponibili a legislazione vigente;
2) superamento, da parte degli idonei, di un apposito
esame-colloquio diretto a verificarne la perdurante idoneità.
Naturalmente, anche in questi casi devono essere rispettati i principi
generali in materia di graduatorie concorsuali, tra i quali, in particolare,
l’obbligo di interpellare individualmente tutti gli idonei, nell’ordine in
cui sono collocati in graduatoria. Una volta che l’ente, sulla base del
piano dei fabbisogni di personale, abbia deciso di reclutare personale
mediante scorrimento di graduatoria concorsuale, è quindi necessario
procedere come segue:
• in primo luogo deve essere individuata la graduatoria da
scorrere, secondo le consuete regole: coincidenza di categoria, profilo,
requisiti di accesso e articolazione oraria a tempo pieno/parziale dei posti
oggetto del concorso rispetto al posto/ai posti da coprire, precedenza alle
graduatorie efficaci dell’ente, per poi valutare accordi con altri enti
titolari di graduatorie (applicando gli eventuali criteri di scelta che
l’ente si è dato autonomamente), precedenza alle graduatorie più datate
rispetto a quelle più recenti;
• nel caso in cui si tratti di graduatoria di altro ente, dovrà
essere stipulato il relativo accordo/convenzione;
• dopo avere individuato la graduatoria oggetto di scorrimento e
una volta data evidenza pubblica a tale decisione con il provvedimento che
dà avvio alla procedura, l’ente deve sempre interpellare individualmente
tutti gli idonei non ancora chiamati.
Nel caso particolare in cui sia stato deciso lo scorrimento di una
graduatoria approvata dal 2010 al 2013, sarà necessario:
• trasmettere a ciascuno degli idonei (con modalità che consentano
di provarne la ricezione) un invito a manifestare l’interesse
all’assunzione, invito che dovrà anche illustrare le successive fasi della
procedura e le relative modalità di notificazione;
• una volta ricevute le manifestazioni di interesse, organizzare il
corso di formazione e aggiornamento;
• pubblicare, nel sito web dell’ente (Amministrazione Trasparente,
sezione dedicata al personale) un avviso contenente:
• le date, gli orari, i contenuti e le modalità di frequenza al
corso di formazione e aggiornamento;
• la disciplina delle assenze rispetto al calendario del corso:
casistica, modalità di giustificazione, numero di assenze oltre il quale è
prevista la non ammissione all’esame finale;
• le modalità di svolgimento dell’esame-colloquio finale.
• In adempimento agli obblighi di trasparenza, l’invito e l’avviso
dovranno infine riportare:
• le principali informazioni riguardanti l’”offerta assunzionale”:
numero di posti per i quali la graduatoria viene scorsa, unità organizzative
di assegnazione, eventuali altri dettagli sulle figure che si intendono
reclutare (mansioni, sede di prima assegnazione, articolazione prevista
dell’orario di lavoro, ecc.);
• le conseguenze della mancata partecipazione alla procedura per
quanto riguarda la posizione giuridica degli idonei.
Lo scorrimento della graduatoria consisterà nella chiamata di coloro che
avranno regolarmente frequentato il corso di formazione e superato l’esame
finale, nell’ordine in cui figurano nella graduatoria, fino ad esaurimento
dei posti disponibili (o per l’unico posto da coprire).
Se si tratta di graduatoria di altro ente, occorrerà informare l’ente
titolare circa gli esiti dello scorrimento (02.05.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
aprile 2019 |
 |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Dichiarazione
di inconferibilità e incompatibilità.
Domanda
In presenza di affidamento di un incarico, ai sensi
dell’art. 110 del TUEL 267/2000, quando è necessario
acquisire la dichiarazione prevista dal d.lgs. 39/2013?
Risposta
Nell’ambito delle strategie per prevenire la corruzione
nella pubblica amministrazione, uno dei provvedimenti
attuativi della legge Severino (legge 06.11.2012, n. 190) è
il decreto legislativo 08.04.2013, n. 39, recante “Disposizioni
in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi
presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti
privati in controllo pubblico, a norma dell’articolo
1, commi 49 e 50, della legge 06.11.2012, n. 190”.
Per gli enti locali, le disposizioni normative contenute nel
d.lgs. 39/2013 si applicano, solamente, al segretario
comunale e ai dirigenti. Negli enti locali, privi di figure
dirigenziali, la norma si applica anche alle posizioni
organizzative [1]
a cui vengono attribuite le funzioni dirigenziali, a mente
degli articoli 50, comma 10; 107 e 109, comma 2, del TUEL
18.08.2000, n. 267.
Delimitato l’ambito applicativo della norma, va chiarito che
la questione della dichiarazione sull’insussistenza della
cause di inconferibilità e incompatibilità trova la sua
disciplina nell’articolo
20, del d.lgs. 39/2013, laddove si prevede che:
a) all’atto del conferimento dell’incarico
–quindi prima che esso abbia inizio– l’interessato presenta
una dichiarazione sulla insussistenza di una delle cause di
inconferibilità del decreto
(comma
1);
b) nel corso dell’incarico l’interessato presenta
annualmente una dichiarazione sulla insussistenza di una
delle cause di incompatibilità di cui al presente decreto
(comma
2);
c) le dichiarazioni di cui sopra sono pubblicate
nel sito web dell’ente che ha conferito l’incarico
(comma
3),
nella sezione Amministrazione trasparente > Personale;
d) la dichiarazione sulla insussistenza delle
cause di inconferibilità è condizione per l’acquisizione
dell’efficacia dell’incarico
(comma
4).
Per gli incarichi dirigenziali presenti in un ente locale le
situazioni in cui non è possibile conferire l’incarico (inconferibilità,
appunto) sono essenzialmente tre, disciplinate
rispettivamente:
– nell'articolo 3, comma 1;
– nell'articolo 4 comma 1;
– nell'articolo 7, comma 2, del decreto.
Nel primo caso (art.
3, comma 1) si tratta di soggetti condannati, anche
con sentenza non passata in giudicato, per uno dei reati
previsti dal
capo I del titolo II del libro secondo del codice penale,
anche nel caso di applicazione della pena su richiesta ai
sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale (c.d.
patteggiamento).
Nel secondo caso (art.
4, comma 1) riguarda soggetti che, nei due anni
precedenti, abbiano svolto incarichi e ricoperto cariche in
enti di diritto privato regolati o finanziati
dall’amministrazione che conferisce l’incarico, ovvero
abbiano svolto in proprio attività professionali, se queste
sono regolate, finanziate o comunque retribuite
dall’amministrazione o ente che conferisce l’incarico.
L’ultimo caso (art.
7, comma 2), riguarda:
a) i soggetti che nei due anni precedenti siano stati componenti
della Giunta o del Consiglio della provincia, del comune o
della forma associativa tra comuni che conferisce l’incarico
(le inconferibilità di cui al presente articolo non si
applicano ai dipendenti della stessa amministrazione che,
all’atto di assunzione della carica politica, erano titolari
di incarichi);
b) i soggetti che nell’anno precedente abbiano fatto parte della
Giunta o del Consiglio di una provincia, di un comune con
popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma
associativa tra comuni avente la medesima popolazione, nella
stessa regione dell’amministrazione locale che conferisce
l’incarico, nonché a coloro che siano stati presidente o
amministratore delegato di enti di diritto privato in
controllo pubblico da parte di province, comuni e loro forme
associative della stessa regione.
All’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), in virtù dell’art.
16 del decreto, spetta il compito di vigilare sul
rispetto, da parte delle amministrazioni pubbliche delle
disposizioni di cui al d.lgs. 39/2013, anche con l’esercizio
di poteri ispettivi e di accertamento di singole fattispecie
di conferimento degli incarichi. In questi anni l’ANAC, in
più circostanze, ha avuto modo di intervenire, con propri
atti, sulla delicata materia del conferimento di incarichi
in presenza di situazioni conclamate o a rischio di
inconferibilità o incompatibilità.
Le principali disposizioni dell’ANAC –per coloro che
intendessero approfondire la questione– sono:
– Orientamento n. 4/2014;
– Orientamento n. 99/2014;
– Delibera n. 1001 del 21.09.2016;
– Delibera n. 613 del 31.05.2016;
– PNA 2016, approvato con delibera n. 831 del 03.08.2016, paragrafo
3.7;
– Delibera n. 833 del 03.08.2016;
– Delibera n. 925 del 13.09.2017;
– Delibera n. 207 del 13.03.2019.
Premesso quanto sopra, la risposta al quesito è la seguente:
- la dichiarazione prevista dall’art.
20, comma 1, del d.lgs. 39/2013, relativa
all’insussistenza di cause di inconferibilità dell’incarico
di:
– segretario comunale;
– dirigente di ente locale;
– posizione organizzativa, in enti senza la dirigenza;
– incarico ex art. 110 TUEL 267/2000 (enti con o senza dirigenti);
deve essere acquisita prima del conferimento dell’incarico e
pubblicata, in modo tempestivo, nel sito web dell’ente che
conferisce l’incarico.
In assenza della dichiarazione di cui al
comma 1, dell’art. 20, d.lgs. 39/2013, l’atto
di nomina non acquisisce efficacia, con tutte le negative
conseguenza che ne consegue.
---------------
[1] Cfr.
art. 2, comma 2, d.lgs. 39/2013 (23.04.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: I
permessi orari per motivi personali o familiari.
DOMANDA:
La nuova enunciazione dell’art. 32 CCNL 2018, che subordina l'autorizzazione
di permessi retribuiti alla indicazione di particolari motivi personali o
familiari, ha convinto molti dipendenti che tale giustificativo sia di fatto
il riconoscimento di ulteriori tre giorni di ferie.
Pervengono pertanto
richieste di fruizione di tali permessi o con indicazioni generiche “per
motivi personali” o con le più originali motivazioni. L’unico passaggio
previsto nell'art. 32 per negare il permesso è l’inciso “compatibilmente con
le esigenze di servizio” con una formulazione che sembra invertire l’onere
della giustificazione.
Non è il dipendente a dover giustificare l’assenza,
ma il datore di lavoro a dover giustificare quali esigenze di servizio
impediscano il riconoscimento del diritto all'assenza.
Onde evitare
confusione si chiede se sia possibile all’ente disciplinare la materia,
magari dopo un confronto ex art. 5 CCNL con le organizzazioni sindacali,
individuando le fattispecie/motivazioni per le quali verrà autorizzato il
permesso ed escludendo tutte le altre (prevedendo ovviamente qualche margine
di discrezionalità per casi non previsti) sulla base che il riconoscimento
del permesso è comunque subordinato al bilanciamento di interessi ed anche
la semplice presenza in servizio è da considerarsi una "esigenza di
servizio" prevalente su altre motivazioni.
RISPOSTA:
Si riportano, sul punto, le osservazioni formulate dall’Aran con parere
CFL27 del 30 ottobre scorso. La formulazione dell’art. 32 del CCNL Funzioni
Locali 21.05.2018 in materia di permessi retribuiti non prevede più la
necessità di documentare i motivi e le ragioni per le quali viene richiesto
il permesso, anche se la motivazione, che consente di ricondurre tale tutela
alle esigenze personali e familiari dell’interessato, va, comunque, indicata
nella richiesta avanzata dal dipendente, in quanto la stessa resta il
presupposto legittimante per la concessione del permesso.
Ove la suddetta
richiesta non appaia del tutto motivata o adeguatamente giustificata, a
seguito della comparazione degli interessi coinvolti (interesse del
lavoratore evidenziato nella domanda alla fruizione dei permessi e ragioni
organizzative e di servizio), il datore di lavoro potrà far valere la
prevalenza delle esigenze di servizio, negando la concessione del permessi.
L’ente, tuttavia, non è chiamato in alcun modo a valutare nel merito la giustificatezza o meno della ragione addotta, ma solo la sussistenza di
ragioni organizzative od operative che impediscano la concessione del
permesso.
Quello che emerge dal parere dall’Aran è che -anche nell'ambito
della nuova disciplina dell’istituto- il lavoratore non è titolare di un
diritto soggettivo perfetto alla fruizione dei permessi ed il datore di
lavoro pubblico non è in nessun caso obbligato a concedere gli stessi. Quest’ultimo,
ben può, nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede, anche
negarne la fruizione, ma solo in presenza di ragioni organizzative od
operative che ne impediscano la concessione.
Al fine di evitare comportamenti e risposte difformi a fronte di richieste
analoghe, è possibile, e anche opportuno, regolamentare -non le fattispecie
per le quali verrebbe autorizzato il permesso, perché in questo caso si
andrebbe a limitare l’ambito della norma contrattuale- bensì le ragioni
organizzative in cui tale permesso può essere negato
(tratto da e link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Regolamento
incentivi sponsorizzazioni.
Domanda
Chi approva il Regolamento per la disciplina delle sponsorizzazioni, in cui
si prevede anche un incentivo per i dipendenti, così come previsto dall’art.
67, comma 3, lettera a), del CCNL 21/05/2018?
Risposta
Il Testo Unico degli Enti Locali (TUEL), approvato con il decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, fa risalire la competenza esclusiva del
Consiglio comunale nell’approvazione dei regolamenti comunali, così come
previsto all’art. 42, comma 2, lettera a). Il potere regolamentare dei
comuni risulta disciplinato anche nell’art. 7 del medesimo TUEL.
Gli unici regolamenti che sono di competenza della Giunta sono i Regolamenti
per l’Organizzazione Uffici e Servizi (ROUS), così come espressamente
previsto dall’art. 48, comma 3, del TUEL.
Anche in questo caso, tra l’altro, la Giunta deve disciplinare
l’organizzazione degli uffici e servizi, sulla base di criteri generali,
propedeuticamente emanati dal Consiglio (ancora art. 48, co. 3, TUEL). Le
materie che si possono disciplinare all’interno del ROUS sono analiticamente
indicate nell’art. 89, comma 2, del TUEL e, con tutta evidenza, non vi è
prevista la disciplina delle sponsorizzazioni, la cui fonte normativa va
rinvenuta nell’art. 19 del Codice dei contratti (d.lgs. 18.04.2016, n. 50);
nell’articolo 119 del TUEL e, prima ancora, nell’articolo 43, della legge
27.12.1997, n. 449.
All’interno di tali regolamenti, gli enti, possono anche prevedere la
possibilità di riconoscere delle incentivazioni di carattere economico nei
confronti del proprio personale dipendente (dirigenti e non dirigenti), come
previsto nei vari contratti nazionali del comparto.
Il parere dell’ANCI, citato nel quesito, si riferisce ad un comune che,
nell’anno 2007, aveva disciplinato l’“Approvazione dei criteri per la
disciplina e la gestione delle sponsorizzazioni”, con deliberazione di
Giunta.
L’escamatoge [1]
di chiamarli “criteri”, anziché regolamento, a nostro modesto parere,
rientra tra le varie e multiformi “tecniche elusive”, applicate negli
enti per sottrarre alla competenza del Consiglio (massimo organo di
indirizzo e controllo politico-amministrativo), la possibilità di poter
esaminare e votare un regolamento di carattere generale, nel quale sono
previste anche delle ricadute economiche per il personale.
A completamento informativo, si fa presente che gli ispettori del MEF-RGS,
nello loro verifiche amministrative-contabili presso i comuni, verificano
sempre che le somme previste nella parte variabile del fondo, relative ai
proventi delle sponsorizzazioni, siano precedute dall’approvazione di un
regolamento in Consiglio comunale.
---------------
[1] Trovata ingegnosa, trucco, sotterfugio messo in atto con abilità e
astuzia, spesso al limite della disonestà, per risolvere una situazione
compromessa o uscire da una posizione difficile (17.04.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO:
Doppi criteri con dirigenti o senza. La pesatura dei settori
determina la retribuzione aggiuntiva al tabellare.
Regole per conferire e revocare gli incarichi di posizione organizzativa e
criteri per graduare le aree.
Sono questi i due aspetti per i quali l’Anci, nel
nuovo Quaderno sul tema,
propone soluzioni operative per un facile utilizzo da parte degli enti
locali. D’altronde la scadenza è alle porte: entro il 20 maggio vanno
adottati i nuovi sistemi, pena il divieto di confermare, prorogare o
attribuire nuovi incarichi.
Il contratto nazionale 21.05.2018 ha riscritto le regole dell’istituto e
quindi, come anche già contenuto in alcuni recenti pareri dell’Aran sono tre
gli adempimenti urgenti: revisione dell’assetto organizzativo, approvazione
dei criteri di nomina e revoca e definizione dei parametri di graduazione
dei settori.
Il primo aspetto va da sé. Ciascun ente deve individuare dove
sono collocate le posizioni organizzative nella propria struttura, tenendo
conto delle uniche due possibilità di incarichi: di direzione di aree o di
alta professionalità.
Dopo queste precisazioni, l’Anci si concentra sul secondo aspetto. Nella
proposta del regolamento contenuto nel Quaderno, si trovano quindi alcuni
punti essenziali tra cui: la durata (che non può essere superiore ai tre
anni), i requisiti che devono avere i soggetti che verranno nominati e le
procedure di individuazione dei dipendenti più idonei a ricoprire gli
incarichi.
A questo proposito, va ricordata la forte differenza tra enti con
la dirigenza, nei quali sono appunto i dirigenti a nominare le posizioni
organizzative attraverso anche un avviso esplorativo, rispetto a quanto
invece previsto dall’articolo 17, comma 1, del contratto nazionale del 21.05.2018, ovvero che negli enti privi di posizioni dirigenziali i
responsabili delle strutture apicali sono posizioni organizzative.
Terzo elemento chiave: i criteri per graduare le aree. L’azione serve per
pesare i settori anche per corrispondere la retribuzione di posizione che va
dai 5mila ai 16mila euro per i dipendenti di categoria D e dai 3mila ai
9.500 per i dipendenti di categoria C. Su questo aspetto l’Associazione dei
Comuni fornisce esempi concreti sia di graduazione sia di raccordo tra
quanto pesato e retribuzioni.
I criteri che vengono proposti sono la complessità relazione e la
complessità operativa e organizzativa a cui si aggiunge la verifica delle
attività soggette a rischio-contenzioso e la responsabilità finanziaria.
Ulteriore differenza tra piccoli e grandi enti: laddove non c’è la dirigenza
l’Anci propone come ulteriore elemento la strategicità, mentre negli enti
con le posizioni dirigenziali il criterio aggiuntivo, obbligatorio per
contratto nazionale, è quello della delega delle funzioni dirigenziali. Il
Nucleo o l’Oiv, quindi, pesano le varie aree. A questo punto è necessario
correlare i punteggi con le retribuzioni da corrispondere.
Nel Quaderno operativo si trovano interessanti soluzioni che, partendo dal
garantire il minimo previsto contrattualmente (5mila euro), con valori
proporzionali di pesatura quantificano il valore finale della retribuzione
di posizione. La retribuzione di risultato, invece, andrà contrattata
all’interno del decentrato
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.04.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nuovi
incarichi, tempi stretti per le regole di nomina e revoca.
Dall’Anci il Quaderno operativo con le istruzioni e gli schemi di delibera.
Disciplina da approvare entro il 20 maggio dopo il confronto con i
sindacati.
Stringono i tempi per aggiornare le regole sulle nuove posizioni
organizzative. Sul tema arrivano le istruzioni dell’Anci, con un
nuovo
Quaderno operativo pubblicato questa mattina.
Il contratto nazionale del 21.05.2018 ha totalmente rivisto le modalità di
affidamento degli incarichi e le regole per la graduazione delle aree. Lo
strumento dell’Associazione porta con sé, quindi, molto interesse tenuto
conto che le posizioni organizzative in essere verranno meno il 20 maggio
prossimo.
Nel documento si parte proprio da questa scadenza e viene da subito
ricordato che il contratto ha previsto delle precise relazioni sindacali che
devono partire al più presto. Per determinare i criteri di nomina e di
revoca delle posizioni organizzative e quelli per la graduazione delle aree
è infatti necessario avviare il confronto con i sindacati. La procedura
prevede che vi sia un’informazione preventiva alle organizzazioni sindacali
e che queste abbiano cinque giorni di tempo per avviare il confronto. Il
tutto deve però chiudersi entro trenta giorni. Agenda alla mano, quindi, per
essere pronti con tutto al 20 maggio gli enti devono accelerare i tempi
inviando ai sindacati i criteri generali per la costruzione dei sistemi
proprio in questi giorni.
L’Anci ricorda poi che ci sono altri importanti passaggi da fare ai tavoli
con le rappresentanze sindacali. In sede di contrattazione integrativa, ad
esempio, saranno da contrattare i criteri per l’erogazione della
retribuzione di risultato, mentre vengono ulteriormente precisate le
dinamiche sulle risorse stanziate per l’istituto nel delicato rapporto con
il fondo del trattamento accessorio. Infatti, se l’ente stanzia per le
posizioni organizzative somme equivalenti a quelle del 2017 non ci sono
problemi. Se però l’ente dovesse stanziare più somme, e queste comportano la
riduzione del fondo per rispettare il tetto dell’anno 2016 previsto
dall’articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017, si deve per forza passare dalla
contrattazione. Nel caso contrario, invece, cioè stanziando meno risorse per
le posizioni organizzative, si creerebbe la possibilità di aumentare il
fondo; azione che però deve transitare dal confronto.
Gli enti senza la dirigenza hanno però beneficiato di un’ulteriore
possibilità: scomputare dalle capacità assunzionali eventuali incrementi di
valore degli importi dovuti al fatto che il valore massimo della
retribuzione di posizione è salito con il nuovo contratto nazionale a 16mila
euro. La soluzione è prevista all’articolo 11-bis del Dl 135/2018 e l’Anci
si è impegnata di chiedere che la norma diventi applicabile anche negli enti
con la dirigenza.
Il documento dell’Associazione propone quindi due strumenti operativi. Da
una parte si trova una bozza di deliberazione di Giunta per l’approvazione
dei criteri e dall’altra un vero e proprio regolamento, ovviamente
adattabile da parte di ciascun ente, che si suddivide in due ulteriori sotto
sezioni: i criteri per la nomina e la revoca delle posizioni organizzative e
quelli per la graduazione delle aree. Secondo l’Anci, è opportuno porre
quest’ultima azione in capo a un soggetto terzo: il nucleo o l’organismo
indipendente di valutazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.04.2019). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Risoluzione
unilaterale.
Domanda
È obbligatorio procedere alla risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro
al compimento dei 65 anni di età del dipendente, limite ordinamentale per
gli enti pubblici ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. d), della Legge
70/1975?
Risposta
Al compimento dei 65 anni di età occorre appurare l’anzianità contributiva
del dipendente anche tenendo conto delle contribuzioni presenti in altre
casse pensionistiche ed eventualmente non ricongiunte.
Il primo controllo da effettuare è verificare se il dipendente al 31.12.2011
aveva raggiunto requisito a pensione di cui alla Legge 247/2007 (Pre-Fornero):
– anzianità contributiva pari a 40 anni (39 anni, 11 mesi e 16
giorni);
– quota 96 (60 anni e 6 mesi di età con 35 anni e 6 mesi di
contributi).
In caso positivo occorre collocare a riposo d’ufficio il dipendente.
Se il dipendente non ha raggiunto nessuno dei requisiti sopra esposti alla
data del 31.12.2011, l’Amministrazione lo accompagna al primo traguardo
utile che dovrà verificarsi al raggiungimento del diritto a pensione
anticipata oppure pensione di vecchiaia (11.04.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incentivi,
le risorse vanno nella contrattazione decentrata e a preventivo.
La Corte di Appello di Catanzaro, Sez. lavoro, con sentenza 14.02.2019 n. 1972, si è occupata delle conseguenze della
richiesta di liquidazione degli incentivi legati ad un progetto obiettivo in
assenza della copertura finanziaria.
Nel confermare la sentenza di primo grado vengono evidenziate e confermate
alcune regole che presiedono alla corretta attivazione dei progetti
obiettivo, con l’utilizzo delle risorse previste dall’articolo 15 del Ccnl
01.04.1999, che meritano di essere commentate anche alla luce del nuovo Ccnl
delle funzioni locali del 21.05.2018.
La sentenza risulta particolarmente interessante in quanto si occupa, anche
solo incidentalmente, ma in modo efficace, della sostanziale differenza tra
il lavoro straordinario, che è fondamentalmente legato alla quantità della
prestazione lavorativa, e gli incentivi, inclusi quelli connessi ai progetti
obiettivo, che, invece, concernono la qualità della prestazione e sono
inscindibilmente legati al conseguimento dei risultati, preventivamente
definiti attraverso opportuni indicatori.
La pronuncia del Giudice di appello
Il giudice di appello ha constatato che le risorse necessarie per finanziare
lo specifico progetto obiettivo non erano presenti e, comunque, i ricorrenti
non sono riusciti a dimostrarne la loro preventiva definizione attraverso il
fondo risorse accessorie e la contrattazione decentrata e, quindi, il
progetto incentivante non trovava copertura nell’ambito dei principi sanciti
dagli artt. 40 e 45 , Dlgs 165/2001, in base ai quali “gli oneri di tutti i
trattamenti economici accessori del personale devono trovare integrale
copertura nelle generali risorse destinate al finanziamento della
contrattazione integrativa”, anzi proprio consci di tale specifica
situazione interdittiva i ricorrenti azionavano in subordine una richiesta
di indebito arricchimento ex art. 2041 Cc che, comunque, veniva rigettata,
sia perché improponibile -in quanto esisteva una causa connessa ad un
rapporto contrattuale (lo svolgimento del lavoro straordinario) che,
tuttavia, non veniva attivata- sia perché i dipendenti non hanno fornito
prova della perdita patrimoniale subita; relativamente a tale ultimo
aspetto, infatti, risulta insufficiente l’aver dimostrato di aver conseguito
gli obiettivi del progetto e, quindi, aver generato una utilità per l’ente.
Peraltro già il giudice di primo grado aveva eccepito, in tema di
ingiustificato arricchimento, che i ricorrenti non avevano dimostrato
l’attività svolta al di fuori dell’orario di lavoro e la estraneità rispetto
alle mansioni proprie dei ricorrenti (che, evidentemente, l’avrebbero
attratto nella causa del contratto a titolo di prestazione straordinaria
solo nella ipotesi di svolgimento della prestazione lavorativa al di fuori
dell’orario di lavoro); tutto ciò, peraltro, si collega perfettamente alla
vigenza del principio della onnicomprensività del trattamento retributivo
del dipendente pubblico che “lasciano emergere la chiara mancanza dei fatti
costitutivi della domanda”.
L’ente si è opposto dimostrando che la contrattazione decentrata per l’anno
di riferimento (il 2013) non prevedeva, in alcun modo, risorse variabili
destinate a finanziare lo specifico progetto obiettivo, circostanza che i
ricorrenti non sono stati in grado di contestare ed il tentativo di
dimostrare che, comunque, le risorse erano previste nella contrattazione
decentrata relativa all’anno successivo (il 2014) “è del tutto inconferente
perché è pacifico dagli stessi atti a firma del dirigente (…) che si
trattava di un progetto” incentivante sviluppatosi dal mese di aprile al
mese dicembre del 2013.
Inoltre, già il giudice di primo grado aveva ritenuto ininfluente il
riferimento alle indicazioni metodologiche formulate dall’Organismo
Indipendente di Valutazione, al fine di poter correttamente svolgere il
compito di validazione dei risultati, affidatogli dall’ordinamento interno;
l’Oiv, infatti, si era limitato a stabilire che il progetto doveva essere
preventivamente approvato e dovevano essere indicati preventivamente i
risultati ai fini dell’erogazione dell’incentivo; ma tali affermazioni non
inficiano minimamente l’esigenza che le risorse siano preventivamente
individuate in modo certo e nel rispetto dei vincoli finanziari vigenti.
D’altra parte proprio l’Oiv aveva avuto modo di precisare, richiamando un
noto e consolidato orientamento dell’Aran, che comunque al “fine
dell’erogazione delle relative spettanze, l’iter dovrà essere completato con
la verifica, a cura degli uffici competenti, (…) degli aspetti di natura finanziario-contabile, con particolare riferimento ai seguenti elementi:
1. risorse quantificate secondo criteri trasparenti e ragionevoli,
analiticamente illustrati nella relazione da allegare al contratto
decentrato;
2. risorse previste nel bilancio annuale;
3. quantificazione delle spettanze in ragione della verifica dei risultati
del progetto”.
Gli orientamenti Aran
Nel precedente assetto contrattuale, proprio per perimetrare correttamente
tali istituti incentivanti, l’Aran era intervenuto con il parere n. 499-15L
per indicare le condizioni necessarie per la corretta applicazione
dell’istituto ed aveva avuto modo di pronunciarsi su tali tipologie di
progetti e sulle risorse variabili che li finanziano, ex art. 15, comma 5,
del Ccnl 01.04.1999. In particolare venivano evidenziate alcune specificità,
tra le quali:
1. l'incremento delle risorse deve essere comunque correlato ad uno o più
obiettivi di miglioramento della performance organizzativa o di attivazione
di nuovi processi, relativi ad uno o più servizi, individuati dall'ente nel
piano della performance o in altri analoghi strumenti di pianificazione
della gestione;
2. deve trattarsi, comunque, di obiettivi che richiedano il concreto,
diretto e prevalente apporto del personale dell'ente;
3. la quantificazione dell'incremento deve essere correlata alla rilevanza
dei risultati attesi nonché al maggiore impegno richiesto al personale
coinvolto;
4. le risorse possono essere rese disponibili solo a consuntivo e sono
erogate al personale in funzione del grado di effettivo conseguimento degli
obiettivi di performance organizzativa ai quali l'incremento è stato
correlato, come risultante dalla relazione sulla performance o da altro
analogo strumento di rendicontazione adottato dall'ente.
5. quanto sopra detto non vale, tuttavia, ad escludere che gli obiettivi di
performance organizzativa, individuati per giustificare l'incremento,
possano essere anche "obiettivi di mantenimento" di risultati positivi già
conseguiti l'anno precedente, fermo restando, in ogni caso, il rispetto
delle condizioni sopra evidenziate, con particolare riferimento alla
necessità che, anche per il perseguimento dell'obiettivo di mantenimento,
continui ad essere richiesto un maggiore, prevalente e concreto impegno del
personale dell'ente alla cui incentivazione le risorse sono destinate, oltre
ad essere necessario uno specifico apparato motivazionale in grado di
spiegare, in relazione alle condizioni di contesto, le ragioni di misure di
incentivazione allo scopo di mantenere i livelli di servizio già raggiunti.
L’autorizzazione del dirigente
Un ultimo aspetto, di non secondaria importanza, è il fatto che il progetto
sia stato autorizzato dal dirigente dell’unità operativa di appartenenza dei
ricorrenti; a tal proposito l’autorizzazione del dirigente, a parte
eventuali profili di responsabilità non oggetto del giudizio, come quelle di
natura disciplinare o patrimoniale, non può in alcun modo sanare
l’inesistenza della provvista e non è neppure in grado di caratterizzare
come incentivanti attività che, comunque, rientrino nell’ambito delle
prestazioni esigibili dall’amministrazione e per le quali i ricorrenti non
azionavano la richiesta di remunerazione a titolo di lavoro straordinario,
se non in primo grado, ma senza aver dimostrato lo svolgimento della
prestazione al di fuori dell’ordinario orario di lavoro.
Il Ccnl Funzioni locali
Il Ccnl Funzioni locali 21.05.2018, in attesa di nuovi orientamenti dell’Aran,
pone gli enti di fronte al dilemma circa la possibilità di attivare i
cosiddetti “progetti-obiettivo” che nel Ccnl 01.04.1999 potevano essere
finanziati con il ricorso a risorse variabili ex art. 15, comma 5, del
richiamato Ccnl.
Il tema è di estrema attualità ed alcuni aspetti essenziali
di quanto appena esposto tornano utili per definire un corretto
inquadramento nell’ambito del più recente Ccnl delle funzioni locali
sottoscritto il 21.05.2018, nel rispetto delle prerogative
dell’amministrazione in materia di disciplina del sistema di misurazione e
valutazione della performance, prerogative previste dall’art. 7, Dlgs
150/2009, e dei confini di operatività dei due modelli di relazioni
sindacali che, in materia, hanno rilievo: il confronto e la contrattazione
integrativa; di questi aspetti sono certamente di rilievo la connessione con
la performance organizzativa, con il piano della performance e con la
relazione sulla performance; aspetti già trattati in un apposito contributo
sulle pagine di questa rivista.
Infine, è utile segnalare come anche le linee guida n. 1/2017 (“Linee
guida per il Piano della performance”) del Dipartimento della Funzione
Pubblica specificano che, tra le tipologie di unità di riferimento della
rilevazione della performance organizzativa, rientrano anche quelle “iniziative,
che possono essere identificate come progetti e sono caratterizzate da un
inizio e una fine (a differenza delle attività ricorrenti)”, che “promuovono
innovazioni rilevanti, che potranno modificare e migliorare nel tempo il
portafoglio delle attività ricorrenti e ripetute e rivestono, quindi, una
rilevanza strategica”
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.04.2019). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Non
autorizzazione stipula CCDI.
Domanda
Può l’organo di governo non condividere l’ipotesi di Contratto integrativo
e, quindi, non autorizzare il presidente della delegazione trattante di
parte pubblica alla sottoscrizione del contratto definitivo?
Risposta
Il CCNL prevede una precisa procedura per la stipulazione del contratto
decentrato integrativo, che si articola nelle fasi sotto riportate:
• Nomina delegazione di parte pubblica
• Direttive dell’organo politico: spetta al competente organo di
direzione politica (giunta o altro analogo organo, in relazione alla
tipologia degli enti del comparto), necessariamente ed in via preventiva, la
formulazione delle direttive alla delegazione trattante, per definirne gli
obiettivi strategici ed i vincoli anche di ordine finanziario.
• Prima convocazione per l’avvio del negoziato
• Svolgimento delle trattative
• Firma dell’Ipotesi di contratto decentrato integrativo
• Verifica della compatibilità degli oneri finanziari: tale
controllo, di competenza dell’organo di revisione, è finalizzato non solo
alla verifica della compatibilità degli oneri delle clausole del contratto
decentrato con i vincoli posti dal contratto nazionale e dal bilancio
dell’ente, ma anche del rispetto delle disposizioni inderogabili di norme di
legge che incidono sulla misura e sulla corresponsione dei trattamenti
accessori.
• Esame dell’organo di direzione politica: Il presidente della
delegazione di parte pubblica trasmette l’Ipotesi di accordo e le relative
relazioni (illustrativa e tecnico-finanziaria), corredate del parere
positivo dell’organo di controllo, all’organo di direzione politica per la
necessaria verifica, sulla base di una propria e autonoma valutazione di
merito, di alcuni specifici contenuti dell’ipotesi di contratto integrativo:
a) corrispondenza alle indicazioni delle direttive, con particolare
riferimento al raggiungimento dei risultati ed obiettivi ivi espressamente
indicati;
b) conformità dei contenuti contrattuali anche agli obiettivi ed ai
programmi generali dell’ente;
c) convergenza con le linee di politica sindacale e del personale perseguite
dall’ente;
d) utilizzo efficiente, efficace ed economico delle risorse disponibili;
e) adeguamento del contratto integrativo alla soluzione di problemi
organizzativi e funzionali dell’ente;
f) coerenza dei costi del contratto integrativo con le indicazioni di
carattere finanziario contenute nelle direttive e compatibilità degli stessi
con i vincoli di bilancio e con le altre norme contrattuali in materia di
quantificazione delle risorse;
g) rispetto delle disposizioni inderogabili che incidono sulla misura e
sulla corresponsione dei trattamenti accessori;
• Sottoscrizione definitiva del contratto decentrato integrativo
• Adempimenti successivi alla sottoscrizione definitiva: invio del
contratto decentrato sottoscritto definitivamente all’ARAN e al CNEL.
Quindi, di fatto, poiché l’ipotesi prima di diventare “definitiva”
torna all’organo di governo, sarà sempre possibile, da parte di quest’ultimo
indicare di non procedere alla stipula. Ovviamente, dovranno essere
individuate precise motivazioni nel rispetto dei principi di correttezza e
buona fede, più volt invocati dal CCNL 21.05.2018 (04.04.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Danno
erariale al sindaco che dà la posizione organizzativa prima del
pensionamento.
Responsabilità contabile al sindaco che abbia nominato una posizione
organizzativa prima del suo pensionamento. In questo caso il danno erariale
è equivalente al totale delle somme maggiorate, pagate sulla pensione del
dipendente in quiescenza, fino alla data del rinvio a giudizio. Spetterà,
invece, all'Inps attivare le eventuali procedure per la riduzione della
pensione futura, data l'attribuzione della maggiorazione stipendiale
avvenuta in modo illegittimo e illecito.
Queste sono le conclusioni della Corte dei conti, sezione giurisdizionale,
dell'Umbria (sentenza 03.04.2019 n. 21).
La vicenda
In un ente privo di posizioni dirigenziali, il sindaco aveva conferito a una
dipendente la posizione organizzativa e, solo dopo quattro giorni dal
conferimento dell'incarico, aveva ricevuto dalla medesima la domanda di
collocamento a riposo. Il pensionamento veniva successivamente disposto,
grazie ai requisiti posseduti dalla richiedente, anche se a soli undici
giorni dalla sua nomina a responsabile del servizio.
La Procura contabile ha rinviato a giudizio il sindaco per il danno erariale
procurato alla pubblica amministrazione per aver attuato una scelta
arbitraria, mediante assegnazione della posizione organizzativa alla
dipendente, permettendo alla medesima di fruire di un maggior importo del
suo trattamento pensionistico.
L'importo della pensione della dipendente, infatti, è stato calcolato
comprendendo una indennità di posizione parametrata non al periodo di
esercizio effettivo della responsabilità del servizio ma su base annua. In
altri termini il Primo cittadino, con dolo o almeno colpa grave, non avrebbe
fatto gli interessi dell'ente ma esclusivamente procurato un vantaggio alla
dipendente per la maggiore pensione ricevuta.
Il vantaggio pensionistico della dipendente, pari a circa 3mila euro annui,
corrisponde al danno erariale che andrà pertanto moltiplicato per gli anni
di indebita fruizione. Inoltre, in considerazione della certezza dei
pagamenti per gli anni successivi, dalla data del rinvio a giudizio, la
Procura ha anche proceduto alla quantificazione del maggior danno stimato
sulla vita media della pensionata.
Il sindaco si è difeso da una lato in quanto a suo dire la nomina sarebbe
avvenuta a seguito della richiesta di esonero della precedente titolare di
posizione organizzativa per motivi personali, mentre dall'altro lato ha
stigmatizzato la posizione della Procura che non avrebbe tenuto conto delle
responsabilità specifiche del segretario comunale e del responsabile del
personale. Il primo per aver inoltrato al sindaco la richiesta di dimissioni
immediate della precedente titolare di posizione organizzativa, con obbligo
di procedere all'assegnazione della titolarità dell'ufficio ad altra
dipendente con i requisiti previsti dal contratto, essendo all'oscuro della
successiva sua decisione di essere collocata a riposo. Il secondo per aver
predisposto la determinazione di collocamento a riposo della dipendente
senza alcuna informazione preventiva sui requisiti pensionistici posseduti
dalla medesima.
La decisione del collegio contabile
Le eccezioni del sindaco non sono state considerate meritevoli di tutela da
parte del collegio contabile in quanto, negli enti privi di dirigenti, la
nomina dei responsabili dei servizi spetta in via esclusiva al sindaco, cui
è automaticamente associata, per disposizione contrattuale, la posizione
organizzativa con relativa retribuzione di posizione.
In merito alla richiesta di dimissioni presentate dalla precedente titolare
di posizione organizzativa, il sindaco non ha tenuto conto della sua
naturale scadenza che, non per caso, coincideva con la data della successiva
richiesta della dipendente nominata di essere collocata a riposo. In questo
caso, stante il breve periodo di vacanza del posto di responsabile del
servizio, il sindaco avrebbe ben potuto attribuire ad interim le funzioni ad
altra posizione organizzativa.
Sulla quantificazione del danno erariale, oltre al potere riduttivo
spettante alla Corte per la compartecipazione di altri soggetti che hanno
assunto un ruolo passivo nella vicenda, l'ulteriore danno richiesto dalla
Procura, sul calcolo del valore attuale degli esborsi futuri basati sulla
vita media della dipendente, non può trovare accoglimento, non essendosi il
danno ancora prodotto.
Tuttavia, al fine di evitare ulteriori danni alle finanze pubbliche,
l'illegittimità e l'illiceità dell'attribuzione della posizione
organizzativa sarà comunicata all'Inpc che opererà le dovute valutazioni
sulla pensione reale dovuta alla dipendente
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 07.05.2019).
---------------
SENTENZA
3. Nel merito, la responsabilità del convenuto va affermata in relazione
all’adozione, realizzata a propria firma e nella sua qualità di vertice
dell’Amministrazione comunale, dei provvedimenti di sostituzione della
dott.ssa Ru. con la dott.ssa Vo., di cui ai decreti n. 5 e n. 6 del
20.12.2011 (rispettivamente aventi ad oggetto “revoca dell’incarico di
responsabile del servizio UMD 7 e conferimento incarico responsabile del
servizio UMD 7 anno 2011” e “pesatura posizione organizzativa UMD 7”), per
conferire a quest’ultima, per appena otto giorni, la posizione organizzativa
comprensiva della relativa indennità pensionabile da durare per l’intero
periodo di corresponsione del trattamento pensionistico.
La competenza all’adozione di questi atti, concernenti la nomina dei
responsabili dei servizi e degli uffici e all’attribuzione degli incarichi
dirigenziali, è chiaramente attribuita al Sindaco (art. 50, comma 10, del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267-TUEL) e tale disposizione di
legge risulta, peraltro, espressamente richiamata nei due decreti sindacali
(numero 5 e numero 6) citati.
Né possono valere, in contrario avviso, le giustificazioni addotte in ordine
ad una asserita “autorevolezza” e “solennità” della richiesta avanzata per
il tramite del segretario comunale che avrebbe preceduto la decisione finale
di competenza del sindaco Buschi, ovvero le analoghe giustificazioni in
ordine ai successivi passaggi amministrativi conseguenti alle decisioni da
costui assunte.
La questione della legittimità del conferimento avvenuto assume, dunque, un
rilievo del tutto particolare rispetto alla condotta gravemente colposa del
convenuto. Infatti, l’incarico originariamente conferito sarebbe scaduto
naturalmente il 31.12.2011 e non vi era pertanto alcuna reale urgenza
di provvedere alla sostituzione fino a tale data.
Inoltre, come sottolineato dalla Procura, nell’ipotesi dell’asserita urgenza
egli ben avrebbe potuto affidare l’incarico ad interim, per i pochi giorni
restanti fino al 31.12.2011, a uno degli altri soggetti che
ricoprivano posizioni organizzative, senza che si addivenisse all’esborso
dell’ulteriore indennità da parte del Comune di San Giustino.
Viceversa, la condotta del sindaco Bu. si è rivelata essere preordinata
alla costituzione di un trattamento stipendiale più favorevole nei confronti
della dott.ssa Vo., con conseguenze permanenti sul connesso trattamento
pensionistico e con la realizzazione di un danno reale e concreto a carico
dell’INPS, come quantificato nella parte dispositiva della presente
sentenza.
4. Il periodo per il quale calcolare il danno va dall’inizio dell’anno 2013
fino a tutto il novembre 2018, per un importo pari ad € 17.728,53 (2.996,54
moltiplicato per sei anni, meno un mese), che il Collegio ritiene congruo
abbattere del cinquanta per cento, considerando che l’azione del sindaco,
determinante l’attuale e concreto pregiudizio danno patrimoniale ai danni
dell’istituto di previdenza -tuttora protratto nel tempo- sia stata
agevolata nel percorso amministrativo anche dalla mancata attivazione di
altri soggetti facenti parte dell’apparato amministrativo comunale, in fase
di controllo, ovvero esterni ad esso, in fase di esecuzione dei
provvedimenti in questione.
In questi limiti può provvedere il Collegio, non potendo invero disporre
l’estensione del contraddittorio nel presente giudizio, come richiesto dal
convenuto (art. 83 CGC).
5. Con riguardo alla quantificazione del danno va altresì precisato che non
può trovare accoglimento la richiesta –avanzata da parte attrice– della
condanna per il danno relativo alle prestazioni economiche del trattamento
pensionistico che troveranno realizzazione successiva.
Tale richiesta, riguardando la previsione di un danno futuro, esula dalla
competenza di questa Sezione a conoscere della domanda relativa ad un danno
concreto ed attuale. Come risulta dalla giurisprudenza contabile e come
ricordato anche dalla Corte di Cassazione, questa Corte, in sede
giurisdizionale, non ha la titolarità di poteri di prevenzione del danno
erariale: “né d’altra parte alla Corte dei conti in sede giurisdizionale è
affidato il compito di prevenire danni erariali non ancora prodotti” (Cass.,
Sez. Un., 22.12.2009, n. 27092).
Nel respingere tale richiesta, tuttavia questo Collegio ritiene di rimettere
gli atti alla Amministrazione previdenziale interessata, che opererà le
dovute valutazioni.
6. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come
in dispositivo.
P.Q.M.
la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale regionale per l’Umbria,
disattesa ogni contraria istanza, eccezione e deduzione, definitivamente
pronunciando, condanna Bu.Fa. al pagamento della somma di € 8.864,76
(euro ottomilaottocentosessantaquattro,76) in favore dell’INPS, più
rivalutazione monetaria con decorrenza dalle date di pagamento dei singoli
ratei di pensione e, sul totale risultante, interessi dalla data di
pubblicazione della sentenza.
Condanna altresì il convenuto al pagamento delle spese di giudizio, che si
liquidano in € 122,33 (centoventidue/33).
Manda alla Segreteria per la trasmissione della presente sentenza alla
competente sede INPS e per tutti gli ulteriori adempimenti. |
PUBBLICO
IMPIEGO: Danno
erariale per dirigente e funzionario che abbelliscono il conto dei residui
attivi.
Il dirigente finanziario e il funzionario contabile che hanno alterato la
situazione contabile reale attraverso una sovrastima dei residui attivi
mediante opportune «correzioni», per quanto spinti dall'organo di indirizzo
politico, contribuiscono al danno erariale procurato all'ente pubblico.
L'alterazione delle poste di bilancio «corrette» avendo lo scopo di
dissimulare il disavanzo, oltre a indurre in errore l'organo di indirizzo
politico che approva il bilancio, incide sulle scelte gestionali e impedisce
l'adozione di misure di risanamento, ingannando allo stesso tempo i terzi,
creditori, dipendenti, organi di controllo sulla reale situazione
finanziaria dell'ente.
Sono le indicazioni contenute nella
sentenza 02.04.2019 n. 140 della Corte dei conti, Sezione
giurisdizionale Toscana.
La vicenda
A seguito dell'indagine penale che ha condotto il dirigente dell'area
contabile e il funzionario responsabile dell'ufficio del bilancio al
patteggiamento della pena per falso ideologico, la Procura contabile ha
convenuto in giudizio entrambi per dichiarare il danno erariale prodotto
alle casse comunali avendo dissimulato la reale situazione finanziaria
dell'ente. Il Pm contabile ha, infatti, contestato ai convenuti di aver
dolosamente coperto lo stato di deficit finanziario dell'ente attraverso la
correzione contabile dei residui attivi, rispetto alla loro reale
consistenza.
Questo ha permesso di creare un consistente deficit finanziario mediante
l'omesso versamento di contributi previdenziali Inpdap, irregolari
stabilizzazioni di personale a tempo determinato, indebita corresponsione di
somme integrative. Entrambi i convenuti si sono difesi in via principale
denunciando la prescrizione del danno erariale, essendo trascorsi i cinque
anni previsti dalla normativa rispetto all'invito a dedurre.
Si sono ritenuti, inoltre, estranei al danno erariale, in quanto
l'alterazione dei dati contabili era avvenuta a causa delle pressioni
esercitate dall'organo di indirizzo politico nonché del direttore
amministrativo, cui avrebbero dovuto essere addebitate in via esclusiva le
responsabilità contabili, per aver omesso di attivare procedure idonee per
risanare i conti pur conoscendo l'entità del disavanzo finanziario
dissimulato.
Il funzionario, in via subordinata ha chiesto che fosse considerata una
diversa ripartizione del danno erariale, in funzione del diverso ruolo
decisionale.
La conferma del danno erariale
In merito alla prescrizione, il Collegio contabile ha disatteso l'eccezione
in quanto, per giurisprudenza consolidata, in presenza di dolo accertato in
sede penale, la prescrizione decorre solo a partire dalla data di richiesta
di rinvio a giudizio in sede penale e , a quella data, la prescrizione non
era maturata.
La condanna dei convenuti al danno erariale deve essere confermata in quanto
esecutori materiali di un piano ideato e promosso dal rettore e dal
direttore amministrativo, per presentare, a fronte del grave disavanzo, un
bilancio che risultasse in pareggio o in attivo. Le falsificazioni commesse
dai convenuti consistevano nel "correggere" le poste di bilancio,
proprio allo scopo di occultare il grave disavanzo e indurre in errore il
consiglio di amministrazione dell'Università che approvava i bilanci,
confidando nell'esattezza dei dati.
Il collegio contabile ha ricordato che il bilancio è lo strumento per
determinare il reddito dell'esercizio e la situazione patrimoniale e
finanziaria dell'ente, con la conseguenza che la sua non veridicità, oltre a
ingannare i terzi, creditori, dipendenti, organi di controllo eccetera,
incide sulle scelte gestionali e impedisce l'adozione di misure di
risanamento.
Il danno, calcolato in via equitativa, deve tuttavia essere posto in misura
prevalente a carico del dirigente e in minore misura a carico del
funzionario in considerazione del diverso ruolo rivestito
nell'amministrazione e alla posizione di inferiorità gerarchica
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.05.2019).
---------------
SENTENZA
1. In via preliminare deve essere esaminata l’eccezione di prescrizione
sollevata dai convenuti.
L’art. 1, comma 2, L. 20/1994 prevede che la prescrizione decorre dalla data
in cui si è verificato il fatto dannoso “ovvero in caso di occultamento
doloso del danno, dalla data della sua scoperta”. Secondo la giurisprudenza
l’attività intenzionale di occultamento è rinvenibile laddove il
responsabile si sia adoperato per impedire la conoscibilità del fatto
dannoso (sez. II app., 11.10.2018 n. 588; sez. II app., 03.10.2017 n. 655).
Quanto alla nozione di “scoperta”, si è affermato che “non è sufficiente la
conoscenza o conoscibilità ipotetica di un illecito, ma occorre la
conclusione del processo di valutazione istruttoria degli elementi fattuali,
con la qualificazione giuridica degli stessi e l’individuazione dei soggetti
cui le medesime condotte sono causalmente riconducibili” (sez. II app.,
19.10.2018 n. 5979).
La conoscenza del fatto, quindi, si identifica con la conoscibilità
giuridica, non con la mera conoscenza, da parte del soggetto danneggiato,
dell’illecito (sez. I app., 14.04.2016 n. 149).
In conseguenza di tale principio, secondo la giurisprudenza prevalente, i
fatti dannosi aventi rilevanza penale assumono una concreta qualificazione
giuridica, tale da potersi dire “scoperti”, solo al momento della richiesta
di rinvio a giudizio in sede penale (da ultimo: sez. II app., 04.09.2018 n.
523; sez. III app., 06.10.2016 n. 514; sez. III app., 13.06.2016 n. 228; sez.
app. Sicilia, 01.07.2016 n. 85; sez. app. Sicilia, 04.07.2016 n. 94), in quanto
“solo dal momento del rinvio a giudizio è maturata l’esatta conoscenza della
condotta illecita in tutta la sua gravità e articolazione” (sez. III app.,
30.12.2016 n. 1462).
Nella fattispecie, i convenuti sono stati condannati per reati di falso per
avere falsamente attestato delle poste contabili al fine di far apparire in
pareggio o in attivo il bilancio dell’Ateneo. Tale condotta integra senza
ombra di dubbio un occultamento doloso del danno. La data della scoperta dei
fatti, nella loro completezza e nell’accezione fatta propria dalla
giurisprudenza succitata, deve collocarsi nella data della richiesta di
rinvio a giudizio del 29.06.2012.
A questo proposito deve aversi riguardo al fatto che dalle indagini penali è
scaturito un processo, per i reati commessi nell’ambito della gestione
amministrativa dell’Università nel periodo 2003-2008, con 19 capi di
imputazione, nell’ambito del quale sono stati rinviati a giudizio i vertici
amministrativi dell’ente in quel periodo e, in particolare i Rettori, i
Direttori amministrativi, i componenti del Collegio dei Revisori dei conti,
il responsabile dell’Ufficio Economato, oltre ad alcuni soggetti privati,
per un totale di 16 imputati, tra i quali gli odierni convenuti.
La condotta di In. e Sa. si inquadra, così, in un più ampio
fenomeno di mala gestio, con la conseguenza che solo dal momento del
rinvio a giudizio, al termine di complesse indagini penali, si è raggiunto
il corretto inquadramento della fattispecie dannosa e la quantificazione del
danno.
Come si legge nella sentenza del Tribunale di Siena n. 746/2016 che
ha definito in primo grado il processo penale: “Le indagini (prima) ed il
processo (poi) sono stati caratterizzati da una forte eterogeneità del loro
oggetto, potendosi individuare tre diversi “filoni”, assolutamente distinti
tra loro: si tratta sostanzialmente di tre processi autonomi, celebrati in
un simultaneus processus, aspetto questo che, se da un lato ha consentito al
Tribunale di avere un quadro completo della opaca e dissennata gestione
amministrativa di UNISI, dall’altro ha comportato la celebrazione di un
complesso ed articolato dibattimento e di una istruttoria caratterizzata da
una inevitabile frammentarietà e disomogeneità”.
Il completo disvelamento dei fatti, quindi, non può farsi risalire né al
26.09.2008, data di presentazione alla Procura della Repubblica dell’esposto
del Rettore e del Direttore Amministrativo dell’Università in cui si
denunciavano, come si legge nella sentenza penale, i problemi finanziari
dell’Università e falsità di alcune soltanto delle voci di bilancio, né al
07.04.2009, data in cui l’Ateneo ha inviato alla Procura della Repubblica e
alla Procura Regionale della Corte dei conti la relazione finale della
Commissione Ma. “sulla indagine amministrativo-disciplinare circa
l’accertamento della crisi finanziaria dell’Università degli studi di
Siena”.
E’ vero, infatti, che tale relazione contiene la confessione dei convenuti,
come rilevato dalle difese, ma è vero anche che il giudice penale ha
ritenuto non attendibili le dichiarazioni di In. e Sa. per una
serie di ragioni tra le quali il fatto che: “i dichiaranti non hanno
riferito con immediatezza tutti i fatti e le circostanze di cui erano a
conoscenza (tacendo quelli più importanti)”.
Solo al termine di “lunghe e complesse indagini da parte della Procura della
Repubblica”, sono stati accertati il reale passivo dell’Università, le cause
del dissesto finanziario, la falsità dei bilanci, il ruolo assunto dai
diversi imputati, la qualificazione giuridica dei fatti e le
corresponsabilità.
L’eccezione di prescrizione è, quindi, infondata in quanto l’invito a
dedurre è stato notificato nell’agosto del 2017, entro la data di scadenza
del termine quinquennale di prescrizione a decorrere dalla data della
richiesta di rinvio a giudizio.
2. Venendo al merito del giudizio, pacifico il rapporto di servizio in
quanto i convenuti, all’epoca dei fatti, erano, dipendenti in qualità,
rispettivamente, di direttore dell’area contabile e di responsabile
dell’ufficio contabile dell’Amministrazione danneggiata, ritiene il Collegio
che sussista piena prova della condotta illecita di In. e Sa..
Il Tribunale di Siena, Ufficio del G.I.P., con sentenza del n. 103 del
17.05.2013, ha applicato, ai sensi dell’art. 444 e ss. c.p.p., a Interi
Salvatore la pena di diciotto mesi e a Sa.Mo. la pena di
quattordici mesi di reclusione per reati di falso ideologico in atto
pubblico commessi in concorso con il Rettore e il Direttore Amministrativo
dell’Università di Siena.
Più in particolare, i convenuti, quali esecutori materiali di un piano
ideato e promosso dal Rettore e dal Direttore Amministrativo, per
presentare, a fronte del grave disavanzo, un bilancio che risultasse in
pareggio o in attivo, o in leggero disavanzo, attestavano falsamente nei
bilanci consuntivi 2003, 2004, 2005, 2006, 2007 dati contabili non
corrispondenti al vero, facendo risultare residui attivi in parte
inesistenti, attraverso la correzione di poste in bilancio, inducendo così
in errore il Consiglio di Amministrazione che, sul presupposto
dell’esattezza dei dati, approvava il bilancio.
La giurisprudenza ritiene che, ferma restando la potestà del giudice di
procedere all’accertamento dei fatti in modo difforme da quello contenuto
nella pronuncia ex art. 444 c.p.p., la sentenza di patteggiamento assuma un
valore probatorio qualificato, superabile solo attraverso specifiche prove
contrarie (sez. II app., 30.07.2018 n. 471; sez. I app., 05.02.2018 n. 35;
sez. II app. 26.05.2016 n. 574; sez. Veneto, 11.09.2018 n. 140; sez.
Toscana, 25.06.2018 n. 167) che, nella specie, non sono state offerte. In
sede penale, peraltro, i convenuti hanno confessato di avere posto in essere
la condotta illecita e, in questa sede, non hanno mosso contestazioni in
merito.
3. Sussiste anche il nesso causale tra la condotta illecita e il danno.
Secondo i convenuti il danno sarebbe stato causato unicamente dalle scelte
dei vertici dell’Università, che avrebbero omesso di assumere iniziative per
ridurre l’indebitamento e adottato politiche di sperpero delle risorse
pubbliche, e non da In. e Sa. i quali lo avrebbero soltanto
parzialmente coperto. L’eccezione è destituita di fondamento.
Le falsificazioni commesse dai convenuti consistevano nel “correggere” le
poste di bilancio, proprio allo scopo di occultare il grave disavanzo e ad
indurre in errore il Consiglio di Amministrazione dell’Università che
approvava i bilanci, confidando nell’esattezza dei dati. Poiché il bilancio
è lo strumento per determinare il reddito dell’esercizio e la situazione
patrimoniale e finanziaria dell’ente, è evidente che la sua non veridicità,
oltre ad ingannare i terzi, creditori, dipendenti, organi di controllo ecc.,
incide sulle scelte gestionali e impedisce l’adozione di misure di
risanamento. I convenuti, quindi, con la loro condotta hanno contribuito in
maniera diretta a causare l’ingente danno subito dall’Università.
4. La Procura ha chiesto la condanna dei convenuti a risarcire il danno
patrimoniale e il danno di immagine causato all’Università.
La domanda di condanna al risarcimento del danno di immagine è
inammissibile.
L’art. 17, comma 30-ter, d.l. 78/2009, conv. in l. 102/2009 stabilisce che
l’azione per il risarcimento del danno di immagine può essere esercitata
solo nei casi e nei modi previsti dall’art. 7 l. 97/2001, ossia per i
delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione previsti
dal Capo I del Titolo II del Libro secondo del codice penale, accertati con
sentenza penale irrevocabile di condanna.
Le Sezioni Riunite hanno risolto i
contrasti interpretativi sorti nell’ambito della giurisprudenza contabile
affermando che l’art. 17, comma 30-ter, va inteso nel senso che le Procure
della Corte dei conti possono esercitare l’azione per il risarcimento del
danno all’immagine solo per i delitti di cui al Capo I del Titolo II del
Libro secondo del codice penale (SS.RR., 19.03.2015 n. 8/QM). L’art. 1, comma
1-sexies, l. 20/1994, inserito dall’art. 1, comma 62, l. 190/2012, in tema
di quantificazione del danno all’immagine della Pubblica Amministrazione, fa
anch’esso riferimento al danno derivante dalla commissione di un reato
contro la stessa Pubblica Amministrazione accertato con sentenza passata in
giudicato.
In questo quadro normativo è sopraggiunto il D.Lgs. 26.08.2016 n.
174 il quale all’art. 4, comma 1, lett. g) dell’Allegato 3 al Codice di
Giustizia Contabile ha abrogato l’art. 7 l. 97/2001 e all’art. 4, comma 1,
lett. h), il primo periodo dell’art. 17, comma 30-ter, d.l. 78/2009. All’art.
51, comma 7, infine, il Codice di Giustizia Contabile stabilisce che la
sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti
delle Pubbliche Amministrazioni per i delitti commessi ai danni delle
stesse, è comunicata al Procuratore Regionale della Corte dei conti affinché
promuova l’eventuale azione di responsabilità.
Parte della giurisprudenza contabile ha affermato che, a seguito delle
predette abrogazioni e dell’introduzione dell’art. 51, comma 7, C.G.C. i
presupposti dell’azione per danno all’immagine sarebbero stati ridefiniti
con la conseguenza che le condizioni per promuovere l’azione sarebbero che
si tratti di un reato contro la Pubblica Amministrazione, e non più soltanto
dei delitti di cui al Capo I del Titolo II del Libro secondo del codice
penale, oltre che tale reato sia stato accertato con sentenza passata in
giudicato (sez. app. Sicilia, 28.11.2016 n. 183; sez. Emilia Romagna,
05.01.2018 n. 7; sez. Veneto, 12.9.2017 n. 101).
Questa sezione ha ritenuto,
invece, con orientamento dal quale non vi è motivo di discostarsi che, pur a
seguito dell’ingresso in vigore del D.Lgs. 174/2016, siano tuttora vigenti
le limitazioni al perseguimento del risarcimento del danno di immagine già
previste dall’art. 17, comma 30-ter, d.l. 78/2009 e art. 7 l. 97/2001 (sez.
Toscana, 10.07.2018 n. 174, con ampia motivazione cui si rinvia). Nella
specie sono assenti entrambe le condizioni di proponibilità della domanda di
risarcimento del danno di immagine. I convenuti, infatti, sono stati
condannati con sentenza del Tribunale di Siena-ufficio del G.I.P., n. 103
del 17.05.2013 per i delitti di cui all’art. 479 in relazione all’art. 476
comma 2, c.p. i quali non sono ricompresi nel Capo I del Titolo II del Libro
secondo del codice penale. La sentenza prodotta, inoltre, è priva del timbro
di irrevocabilità, cosicché non vi è nemmeno la prova che la stessa sia
irrevocabile.
5. Il danno patrimoniale complessivo subito dall’Università di Siena è stato
quantificato dalla Guardia di Finanza in € 63.857.125,41 (per debiti fiscali
e previdenziali e relativi interessi e sanzioni, irregolari stabilizzazioni
di personale a tempo determinato, indebita corresponsione di somme
integrative ai Collaboratori ed Esperti Linguistici).
La condotta illecita
dei convenuti, come sopra esposto, ha contribuito a causare tale danno e,
visto il ruolo della condotta dei convenuti nel programma delittuoso, il
Collegio reputa equo, ex art. 1226 c.c., quantificare il danno loro
addebitabile in complessivi € 400.000,00, in solido, con ripartizione
interna di € 300.000,00 a carico di In.Sa. e di € 100.000,00 a
carico di Sa.Mo. in considerazione del diverso ruolo rivestito
nell’Amministrazione e alla posizione di inferiorità gerarchica di Sa..
Sull’importo per cui è condanna, già comprensivo di
rivalutazione, dovranno essere corrisposti gli interessi legali dal deposito
della sentenza al soddisfo.
6.Le spese di giudizio, da suddividersi in quote uguali tra i convenuti,
seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
la Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Toscana, in
composizione collegiale, definitivamente pronunciando:
RESPINGE l’eccezione di prescrizione sollevata da entrambi i convenuti;
DICHIARA inammissibile la domanda di condanna al risarcimento del danno all’
immagine dell’Università;
CONDANNA In.Sa. e Sa.Mo. al risarcimento del danno
patrimoniale in favore dell’Università degli studi di Siena della somma di €
400.000,00 in solido, con ripartizione interna di € 300.00,00 a In.Sa. e di € 100.000,00 a Sa.Mo., inclusa rivalutazione
monetaria, oltre interessi legali dal deposito della sentenza al soddisfo;
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano in € 324,66
(Euro trecentoventiquattro/66). |
marzo 2019 |
 |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Comma
557 e limiti lavoro flessibile.
Domanda
Il cosiddetto “scavalco di eccedenza” di cui all’art. 1, comma 557,
della legge 311/2004 è da ricomprendere tra le limitazioni sul lavoro
flessibile?
Risposta
Occorre evidenziare che già la Sezione delle Autonomie con la citata
deliberazione n. 23/2016/QMIG ha chiarito che «se l’Ente decide di
utilizzare autonomamente la prestazione di un dipendente a tempo pieno
presso altro ente locale al di fuori del suo ordinario orario di lavoro, la
prestazione aggiuntiva andrà ad inquadrarsi all’interno di un nuovo rapporto
di lavoro autonomo o subordinato a tempo parziale, i cui oneri dovranno
essere computati ai fini del rispetto dei limiti di spesa imposti dall’art.
9, comma 28, per la quota di costo aggiuntivo».
Quindi l’assunzione de qua, al di fuori dell’ordinario orario di
lavoro del dipendente utilizzato, soggiace al limite di spesa del lavoro
flessibile che ha dei parametri temporali di riferimento ben definiti. Il
riferimento è la spesa sostenuta per le medesime finalità nell’anno 2009 o,
per le amministrazioni che nel 2009 non abbiano sostenuto spese per lavoro
flessibile, il limite è computato con riferimento alla media sostenuta per
la stessa finalità nel triennio 2007–2009.
Il limite di cui al predetto comma 28, dell’art. 9, D.L. n. 78/2010, conv.
Legge n. 122/2010, è stato più volte confermato dal legislatore (vedasi ad
esempio modifiche art. 11, comma 4-bis, D.L. n. 90/2014) con il precipuo
fine di ridurre il fenomeno del precariato.
Occorre dunque distinguere tale limite, riferito all’utilizzo di forme di
lavoro flessibile con l’imputazione al fondo delle risorse decentrate del
salario accessorio in godimento al soggetto utilizzato parzialmente.
L’Aran, in un parere piuttosto risalente, n. 104-33C1, in risposta alla
domanda rivolta da un ente per sapere se anche la quota dell’indennità di
comparto del personale a tempo determinato debba essere a carico delle
risorse decentrate stabili, o se potesse essere posta a carico del bilancio,
ha chiarito che il personale a tempo determinato è destinatario delle stesse
regole del CCNL previste per il personale a tempo indeterminato. Pertanto
anche in caso di personale utilizzato ai sensi della Legge n. 311/2004 vale
il criterio dell’imputazione del salario accessorio al fondo delle risorse
decentrate (28.03.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mobilità
per interscambio.
Domanda
Come funzione la mobilità per interscambio o compensazione?
Risposta
Il Dipartimento della Funzione Pubblica, con la
nota prot. n. 20506 del 27.03.2015,
al fine di chiarire alcuni dubbi interpretativi in tema di ricollocazione
del personale degli enti di area vasta, ha inserito, tra gli altri
argomenti, anche un paragrafo dedicato alla mobilità per interscambio (o per
compensazione).
Il Dipartimento prevede che la stessa possa essere mutuata dal d.p.c.m.
325/1988 che, all’articolo 7, dispone che è consentita in ogni momento,
nell’ambito delle dotazioni organiche, la mobilità dei singoli dipendenti
presso la stessa o altre pubbliche amministrazioni, anche di diverso
comparto, nei casi di domanda congiunta di compensazione con altri
dipendenti.
Si deve, in ogni caso, trattare di corrispondente categoria e profilo
professionale e l’operazione può concludersi previo nulla osta
dell’amministrazione di provenienza e di quella di destinazione. Ciò che si
realizza è solamente una reciproca sostituzione di dipendenti che ricoprono
un determinato ruolo, sostanzialmente neutra, in quanto non copre fabbisogni
evidenziati nel piano occupazionale, né genera nuovi fabbisogni.
Il contesto normativo che riguarda tale istituto è sicuramente quello della
mobilità volontaria disciplinato dall’art. 30 del TUPI, con la sola
eccezione, puntualizzata anche dal Dipartimento citato, che si possa
prescindere dall’adozione di veri e propri avvisi pubblici di mobilità.
È però indispensabile che le amministrazioni coinvolte accertino che non vi
siano controinteressati al passaggio, nel rispetto dei principi di
imparzialità e trasparenza, eventualmente ricorrendo, a seconda della
dimensione organizzativa e del numero di dipendenti, ad un interpello
interno finalizzato a verificare l’eventuale contestuale interesse alla
mobilità di altri dipendenti da sottoporre a valutazione (può essere
semplicemente un’e-mail destinata ai lavoratori appartenenti alla medesima
categoria e profilo professionale oggetto della mobilità in parola).
Non è necessario che l’ente si doti di apposita regolamentazione in materia,
potendo far riferimento ai comportamenti e/o regole già in uso per la
mobilità, dato che l’esigenza rimane quella di individuare, nell’ambito del
personale delle pubbliche amministrazioni, il soggetto più idoneo per titoli
e competenze possedute (non è mai una graduatoria), alla copertura della
posizione di lavoro interessata, in risposta comunque al criterio di buon
andamento dell’azione amministrativa
(05.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Danno all'immagine della PA, la sanzione al dipendente
assenteista dev'essere proporzionata.
Per contrastare i furbetti del cartellino, la specifica (e rilevante)
normativa sanzionatoria prevede la quantificazione del danno all'immagine
accanto agli aspetti disciplinari della procedura che accelera il
licenziamento. La mancanza di proporzionalità del danno all'immagine è
questione sulla quale la magistratura contabile ha sollevato la questione di
legittimità costituzionale (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 17.10.2018).
La Corte dei conti siciliana, invece, nella
sentenza
27.03.2019
n. 213 ha preferito azzerare il danno all'immagine di un
dipendente per le poche ore di violazione della propria presenza in ufficio,
non essendo stata fornita puntuale dimostrazione del clamore mediatico
necessario per la quantificazione equitativa del danno subito dall'ente.
La vicenda
Essendo stata accertata l'assenza ingiustificata, perché non autorizzata, di
un dipendente comunale, il dirigente avviava la procedura del licenziamento
senza preavviso con invio della documentazione alla competente procura della
Corte dei conti. Il Pm contabile quantificava in 81,54 euro il danno
erariale, corrispondente alle ore indebitamente fruite dal dipendente, e in
circa 10mila euro il danno all'immagine, pari a sei mensilità dello
stipendio del dipendente.
Nelle proprie memorie difensive, non accolte dal Pm, il dipendente ha evidenziato la sproporzione tra il danno delle ore
addebitate e la quantificazione automatica del danno all'immagine,
confutando la mancata dimostrazione del pregiudizio subito dall'ente, anche
in termini di notizie mediatiche del tutto assenti nel caso di specie.
La posizione del Corte
La contestazione riguarda la nuova disposizione dell'articolo 55-quater del
Dllgs n. 165/2001 che ha previsto, nei casi di assenteismo fraudolento «la
denuncia al pubblico ministero e la segnalazione alla competente procura
regionale della Corte dei conti entro 15 giorni dall'avvio del procedimento
disciplinare», precisando, inoltre, che «la procura della Corte dei conti,
quando ne ricorrono i presupposti, emette invito a dedurre per danno
d'immagine entro tre mesi dalla conclusione della procedura di
licenziamento».
La nuova norma ha anche stabilito che «l'ammontare del danno risarcibile è
rimesso alla valutazione equitativa del giudice anche in relazione alla
rilevanza del fatto per i mezzi di informazione e comunque l'eventuale
condanna non può essere inferiore a sei mensilità dell'ultimo stipendio in
godimento, oltre interessi e spese di giustizia».
Il collegio contabile siciliano, tuttavia, contesta la legittimità della
quantificazione automatica elaborata dalla procura, in quanto a fronte di
81,54 euro di danno erariale, corrispondenti alla falsa attestazione della
propria presenza in servizio, il Pm non ha dimostrato il pregiudizio subito
dall'ente, anzi, risulta che la vicenda non ha avuto alcuna diffusione
mediatica.
Per il Collegio contabile, infatti, va accolta un'interpretazione
che ammette una nozione unitaria del danno all'immagine come davvero
compromettente la reputazione dell'ente danneggiato, ipotizzabile solo in
presenza di una propagazione di notizie da cui sia potuto derivare uno
scadimento dell'opinione pubblica sulla correttezza dell'operato delle
amministrazioni, escludendo la presunzione di dannosità intrinseca o in re ipsa.
Ora, se tale non fosse la lettura, la medesima sarebbe censurabile
sotto il profilo dell'esorbitanza dalla delega, dato che la legge 04.03.2009 n. 15 non contiene alcun principio che possa giustificare un simile
intervento da parte del legislatore delegato.
Conclusioni
In conclusione, l'inserimento della quantificazione del danno in sei
mensilità previsto dal legislatore, in conclusione, può solo considerarsi
quale parametro utile alla quantificazione del danno che il legislatore ha
inteso fornire, stante la natura estremamente astratta e intangibile del
bene leso, per assicurare proporzionalità, certezza e omogeneità delle
decisioni.
Il dipendente, pertanto, deve essere condannato per il solo danno erariale
pari alle ore indebitamente percepite, senza addebito per danno all'immagine
non essendo stato provato dalla procura
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.04.2019). |
PUBBLICO
IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: La
presenza del RPCT nel Nucleo di valutazione.
Domanda
Siamo un comune con meno di 15.000 abitanti e dobbiamo rinnovare la
composizione del Nucleo di Valutazione, attraverso una modifica al
Regolamento di Organizzazione degli Uffici e Servizi.
A un corso ci è stato detto che sarebbe bene non prevedere la presenza
Segretario comunale, che è anche RPCT, in tale organismo. Sapete dirci
qualcosa a riguardo?
Risposta
Con le modifiche apportate alla legge Severino (legge 06.11.2012, n. 190),
dall’art. 41, comma 1, lettera h), del d.lgs. 25.05.2016, n. 97, sono state
meglio precisate le funzioni e i compiti dell’Organismo di Valutazione (OIV)
o altra struttura analoga presente negli enti locali (il Nucleo di
valutazione), nell’ambito del più vasto quadro di interventi di prevenzione
della corruzione.
Con le nuove disposizioni compete all’OIV o NdV:
• validare la relazione sulle performance (art. 10, d.lgs.
150/2009), dove sono riportati i risultati raggiunti rispetto a quelli
programmati e alle risorse, anche per gli obiettivi sulla prevenzione della
corruzione e trasparenza;
• verificare la coerenza tra gli obiettivi di trasparenza e quelli
indicati nel Piano della performance;
• attestare l’assolvimento, da parte degli enti, degli obblighi di
trasparenza (griglie annuali);
• verificare che i PTPCT siano coerenti con gli obiettivi di
programmazione strategico-gestionale;
• esaminare la Relazione annuale del RPCT, recante i risultati
dell’attività svolta in materia di prevenzione della corruzione e
trasparenza. Per tale verifica l’OIV può chiedere al RPCT informazioni e
documenti aggiuntivi;
• l’ANAC, nell’ambito della propria attività di vigilanza può
coinvolgere l’OIV, per acquisire ulteriori informazioni sulla trasparenza.
Come si può notare, sono molte le occasioni, durante l’anno, in cui il
Nucleo di valutazione, deve valutare gli atti e i documenti prodotti dal
Responsabile della Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPCT),
tenendo conto che, negli enti locali, di norma, il ruolo di RPCT coincide
con quello di segretario comunale [1].
Proprio per evitare possibili situazioni di conflitto d’interesse è
certamente buona cosa evitare, quanto più possibile, che il segretario
comunale, se è anche RPCT, faccia parte del Nucleo di Valutazione.
Tale precauzione è stata, da ultimo, ribadita dall’ANAC nell’Aggiornamento
2018, del Piano Nazionale Anticorruzione, approvato con delibera n. 1074 del
21.11.2018 (in vigore dal 05.01.2019).
Nella Parte IV della citata delibera, rubricata “Semplificazioni per i
piccoli comuni”, Paragrafo 4 – Le nuove proposte di semplificazione
[2], viene ribadito il
principio che l’ANAC “ritiene non compatibile prevedere nella
composizione del Nucleo di Valutazione, la figura del RPCT, in quanto
verrebbe meno l’indefettibile separazione di ruoli in ambito di prevenzione
del rischio corruzione che la norma riconosce a soggetti distinti ed
autonomi, ognuno con responsabilità e funzioni diverse Il Responsabile si
troverebbe nella veste di controllore e controllato, in quanto, in qualità
di componente del Nucleo di valutazione è tenuto ad attestare l’assolvimento
degli obblighi di pubblicazione, mentre in qualità di Responsabile anche per
la trasparenza è tenuto a svolgere stabilmente un’attività di controllo
proprio sull’adempimento dei suddetti obblighi da parte dell’amministrazione.”
Nello stesso documento l’ANAC, introduce una sorta di deroga per i piccoli
comuni (quelli sotto 5.000 abitanti), prevedendo testualmente: “Tenuto
conto delle difficoltà applicative che i piccoli comuni, in particolare,
possono incontrare nel tenere distinte le funzioni di RPCT e di componente
del nucleo di valutazione, l’Autorità auspica, comunque, che anche i piccoli
comuni, laddove possibile, trovino soluzioni compatibili con l’esigenza di
mantenere separati i due ruoli. Laddove non sia possibile mantenere distinti
i due ruoli, circostanza da evidenziare con apposita motivazione, il ricorso
all’astensione è possibile solo laddove il Nucleo di valutazione abbia
carattere collegiale e il RPCT non ricopra il ruolo di Presidente”.
Premesso quanto sopra e rispondendo allo specifico quesito, alla luce delle
normative sopra meglio richiamate e degli orientamenti dell’Autorità
Anticorruzione, si consiglia di non prevedere la figura del segretario
comunale all’interno del Nucleo di valutazione, considerando valida e
logica, tale indicazione, anche nei piccoli comuni con popolazione sotto i
5.000 abitanti.
---------------
[1] Articolo 1, comma 7, legge 190/2012, come modificato dall’art. 41,
comma 1, lett. f), d.lgs. 97/2016.
[2] Pagina 154 (26.03.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
rotazione straordinaria, tra obbligo normativo e scelta di opportunità.
Domanda
Un dipendente del Comune, responsabile di procedimento nel Settore appalti e
gare, è stato iscritto nel registro delle notizie di reato nell’ambito di un
procedimento penale per corruzione in atti di gara.
Pur non essendo ancora intervenuto il rinvio a giudizio, è obbligatorio per
l’ Amministrazione rimuovere il dipendente dall’incarico svolto, o resta una
scelta di mera opportunità?
Risposta
Il 07.02.2019 è stata pubblicata sul sito dell’Autorità Nazionale
Anticorruzione, per la fase di consultazione e ricezione di osservazioni, la
“bozza di delibera in materia di applicazione della misura della
rotazione straordinaria di cui all’art. 16, comma 1, lettera l-quater, del
d.lgs. n. 165 del 2001”. Le disposizioni ivi contenute, ancorché non
ancora efficaci, offrono interessanti spunti per rispondere al quesito, il
cui tema giuridico sotteso, oltre ad essere disciplinato dal Testo unico per
il pubblico impiego, trova oggi ampia trattazione –come chiaramente
descritto da ANAC– all’interno del Piano Nazionale Anticorruzione 2013 e dei
successivi aggiornamenti 2016, 2017 e 2018.
Ai sensi del predetto articolo, i dirigenti di uffici dirigenziali generali,
comunque denominati, “provvedono al monitoraggio delle attività
nell’ambito delle quali è più elevato il rischio corruzione svolte
nell’ufficio a cui sono preposti, disponendo, con provvedimento motivato, la
rotazione del personale nei casi di avvio di procedimenti penali o
disciplinari per condotte di natura corruttiva.”
E’ previsto, pertanto, l’obbligo per l’amministrazione di assegnare il
personale sospettato di “condotte di natura corruttiva” che abbiano o
meno rilevanza penale, ad altro servizio. Nella logica del sistema
anticorruzione della legge Severino (legge 06.11.2012, n. 190), si tratta di
una misura di natura non sanzionatoria dal carattere cautelare e preventivo,
finalizzata a garantire che, negli ambiti dove si sono verificati i fatti
oggetto del procedimento penale o disciplinare, siano attivate idonee misure
di prevenzione del rischio corruttivo, al fine di tutelare l’immagine di
imparzialità dell’amministrazione.
La rotazione straordinaria della fase di avvio del procedimento penale, è da
tenere ben distinta dall’istituto del “trasferimento ad altro ufficio”
di cui all’art. 3, comma 1 della legge 27.03.2001, n. 97 recante “Norme
sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti
del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle pubbliche
amministrazioni”; la disposizione prevede, infatti, che quando nei
confronti di un dipendente “è disposto il giudizio per alcuni dei delitti
previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter e 320 del
codice penale e dall’articolo 3 della legge 09.12.1941, n. 1383,
l’amministrazione di appartenenza lo trasferisce ad un ufficio diverso da
quello in cui prestava servizio al momento del fatto, con attribuzione di
funzioni corrispondenti, per inquadramento, mansioni e prospettive di
carriera, a quelle svolte in precedenza”.
Pertanto, in caso di formale rinvio a giudizio i dipendenti accusati di una
serie specifica di reati, devono essere trasferiti ad ufficio diverso da
quelli in cui prestavano servizio.
A livello normativo emergono, quindi, due sostanziali differenza tra i
suddetti istituti:
1. la “rotazione straordinaria” è strumento utilizzabile in
prima battuta già al momento della conoscenza dell’iscrizione nel registro
degli indagati, di cui all’art. 335 c.p.p., mentre il “trasferimento a
seguito di rinvio a giudizio” segue, per l’appunto, il formale atto del
giudice per le indagini preliminari;
2. nel caso del “trasferimento a seguito di rinvio a giudizio”,
diversamente da quanto accade per la “rotazione straordinaria” –dove
vi è un generico rinvio a “condotte di tipo corruttivo”– il
legislatore individua, quale presupposto per l’applicazione della misura,
specifiche fattispecie di reato, sebbene in numero ridotto rispetto
all’intera gamma di reati previsti dal Titolo II Capo I del Libro secondo
del Codice Penale.
A ciò aggiungasi, tuttavia, in relazione all’ambito oggettivo di
applicazione della “rotazione straordinaria”, che ANAC nel documento
in consultazione –rivedendo una posizione precedentemente assunta (PNA 2016
e Aggiornamento 2018 al PNA)– ha stabilito che “l’elencazione dei reati
(delitti rilevanti previsti dagli articoli 317, 338, 319, 319-ter,
319-quater, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353 e 353-bis del codice
penale), di cui all’art. 7 della legge n. 69 del 2015, per “fatti di
corruzione” possa essere adottata anche ai fini della individuazione delle
“condotte di natura corruttiva” che impongono la misura della rotazione
straordinaria”.
Ne discende che:
a) per i reati previsti dai richiamati articoli del codice penale
(tra gli altri concussione, corruzione per un atto contrario ai doveri di
ufficio, corruzione in atti giudiziari, induzione indebita a dare o
promettere utilità), è da ritenersi obbligatoria l’adozione di un
provvedimento motivato, con il quale viene valutata la condotta “corruttiva”
del dipendente ed eventualmente disposta la rotazione straordinaria;
b) per gli altri reati contro la pubblica amministrazione, di cui
al Capo I, Titolo II, Libro secondo del Codice Penale (delitti rilevanti nel
d.lgs. 08.04.2013, n. 39 in materia di incompatibilità e inconferibilità e
d.lgs. 31.12.2012, n. 235 in materia di incandidabilità), la rotazione è
solo facoltativa, restando in capo all’amministrazione la valutazione circa
la gravità del delitto.
Alla luce del sopra descritto quadro normativo è possibile fornire risposta
al quesito indicando i passaggi che dovranno essere posti in essere
dall’Amministrazione, tenendo anche conto che a breve diverranno efficaci le
direttive ANAC, ora in consultazione:
1. verificare nello specifico se “la condotta corruttiva”
per cui è stato iscritto nel registro degli indagati il dipendente integri,
in astratto, una delle fattispecie di cui agli artt. 317, 338, 319, 319-ter,
319-quater, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353 e 353-bis del codice
penale;
2. in caso di esito positivo –come pare dedursi nel caso di specie,
avendo il responsabile del procedimento in astratto commesso il reato, ex
art. 319 c.p. “corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio”–
predisporre obbligatoriamente il provvedimento di rotazione straordinaria,
adeguatamente motivato (deve essere stabilito che la condotta corruttiva
imputata può pregiudicare l’immagine di imparzialità dell’amminsitrazione),
con il quale viene individuato il diverso ufficio al quale il dipendente
viene trasferito.
3. trattandosi di provvedimento temporaneo, fissare il termine di
efficacia in massimo cinque anni (come suggerito da ANAC tramite rinvio alla
legge 97/2001) e comunque nell’eventuale rinvio a giudizio del dipendente;
momento in cui l’amministrazione potrà nuovamente disporre il trasferimento,
o limitarsi a confermare quello già disposto (19.03.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Tetto spesa polizia locale.
Domanda
Le assunzioni delle polizia locale avvalendosi della deroga
di cui all’art. 35-bis del d.l. 113/2018, devono comunque
rispettare il “tetto” di spesa di personale in valore
assoluto?
Risposta
Le assunzioni extra di polizia municipale, effettuate ai
sensi dell’articolo 35-bis del decreto sicurezza, non
possono essere fatte in deroga ai vincoli di spesa di
personale contenuti nell’articolo 1, commi 557 e 562, della
legge 296/2006, che, ricordiamo, per i Comuni oltre i mille
abitanti è dato dalla media delle spese di personale del
triennio 2011/2013, mentre per i Comuni fino a mille
abitanti dal “tetto” del 2008.
Questa è la conclusione cui giungono i magistrati contabili
della Lombardia con due diverse, ma identiche nei contenuti,
deliberazioni: la n. 49/2019/PAR (depositata il 13.02.2019)
e la n. 61/2019/PAR (depositata il 26.02.2019).
Il dubbio posto dagli Enti richiedenti il parere nasce
nell’osservare che nella formulazione dell’articolo 35-bis
del decreto legge 113/2018 viene previsto espressamente che
le assunzioni possono essere fatte “… fermo restando il
conseguimento degli equilibri di bilancio …” ma non
anche il rispetto dei vincoli in materia di spesa di
personale contenuti nell’articolo 1, commi 557 e 562, della
legge 296/2006, e, pertanto, si chiede se il valore della
spesa destinata alle assunzioni di personale appartenente
alla polizia municipale possa essere fatta in deroga ai
predetti vincoli di spesa di personale.
Nelle deliberazioni in esame viene chiarito che i vincoli
imposti dal legislatore statale sulla spesa del personale
rappresentano un principio di coordinamento della finanza
pubblica, salvo eventuali deroghe previste dalla legge.
Pertanto, le assunzioni extra di polizia municipale, che i
Comuni intendono effettuare avvalendosi del decreto
sicurezza, devono avvenire nel rispetto dei vincoli di spesa
di personale contenuti nell’articolo 1, commi 557 e 562,
della legge 296/2006.
Il summenzionato principio vale anche nel caso in cui
all’assunzione si provveda tramite l’istituto della mobilità (14.03.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni
organizzative: la durata dell'incarico non deve coincidere con quella del
mandato del sindaco (13.03.2019
- link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing
risarcito in via transattiva, il superiore è responsabile per danno
indiretto.
Vessazioni, denigrazioni e demansionamenti che se protratti costituiscono
mobbing o se occasionali costituiscono straining sono fonte di
responsabilità amministrativo-contabile. Ciò anche quando si addivenga ad
accordo transattivo sul risarcimento da corrispondere alla vittima degli
abusi.
La Corte dei Conti del Piemonte con la
sentenza
05.03.2019 n.
25 si è espressa sul danno indiretto derivante dall'accordo
transattivo tra un Comune e un suo dipendente. In quanto il comportamento
dei superiori gerarchici nei confronti del dipendente hanno comportato un
danno biologico, morale, esistenziale e professionale, risarciti dall'ente
in via transattiva a seguito di sentenza del giudice del lavoro.
Le condotte mobbizzanti
Al dipendente era stata assegnata quale nuova sede di lavoro un angusto
locale sito nel cimitero, che esternamente somigliava a una tomba di
famiglia, ricavato nella parte superiore dell'ossario, ancora in uso, del
cimitero. Il locale aveva le dimensioni di circa tre metri per tre e non era
dotato di collegamento telefonico esterno, né di collegamento alla rete
informatica del Comune, oltre a essere isolato da tutti i restanti uffici
amministrativi dell'ente.
Dagli atti non era emersa alcuna concreta esigenza
organizzativa collegata alla nuova e improvvisa ricollocazione del
dipendente. Presso la sede cimiteriale, il comportamento vessatorio da parte
dei superiori gerarchici era proseguito. Il dipendente era rimasto del tutto
privo di mansioni proprie della categoria di appartenenza, per qualità,
quantità, forma e sostanza.
Le prove del giudizio civile
Mentre il giudice civile giunge a condannare l'amministrazione a risarcire
il privato utilizzando i parametri del danno e della colpa, nella
consecutiva azione di rivalsa per danno indiretto, il giudice contabile deve
indagare la colpa grave del dipendente pubblico che ha agito in nome e per
conto della medesima, valutandone il comportamento dannoso tenuto
nell'esercizio delle funzioni a esso affidate.
La ricostruzione operata dal
Giudice in sede civile, stante aderenza e congruità rispetto alle risultanze
istruttorie acquisite, è stata ritenuta dalla Corte dei conti, persuasiva e
lineare, dunque condivisibile. Da ciò la valutazione della Corte dei conti,
di adeguatezza e ragionevolezza della scelta dell'ente di addivenire a
transazione con il dipendente.
La responsabilità dei superiori
Numerosi elementi hanno fatto ritenere la vicenda direttamente imputabile
alla responsabilità dei superiori gerarchici. In questi casi la
responsabilità sussiste quando una pluralità di atteggiamenti anche se non
singolarmente illeciti, convergono in un intento univoco: perseguitare il
dipendente coinvolto con forme di emarginazione, prevaricazione,
mortificazione, cui consegue il crescente pregiudizio dell'equilibrio
psicofisico del dipendente. Le condizioni di svolgimento del servizio
impongono al datore di lavoro di tutelare oltre che l'integrità fisica,
anche la personalità morale del lavoratore.
La condotta del datore di lavoro nei confronti del dipendente integra in
questi casi mobbing: condotta protratta nel tempo, consistente nel
compimento di una pluralità di atti giuridici o meramente materiali, anche
leciti, tuttavia finalizzati alla segregazione e oppressione del dipendente.
Nondimeno, anche in caso di mancata allegazione di prova di un preciso
intento persecutorio, e posto che lo straining è una forma attenuata di
mobbing perché mancante del carattere di continuità delle condotte
vessatorie, non è preclusa la possibilità di ottenere il risarcimento del
danno con conseguente imputazione di responsabilità
amministrativo-contabile.
Il datore di lavoro deve sempre, in ogni caso, scongiurare condotte che per
gravità e caratteristiche della frustrazione arrecata possono ricondurre a
un danno ingiusto
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.06.2019). |
febbraio 2019 |
 |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Invio
PTFP sindacati.
Domanda
Il Piano triennale dei fabbisogni di un comune va inviato
per informazione preventiva ai sindacati?
Risposta
L’art. 6 del d.lgs. 165/2001 prevede al comma 4 che “nell’adozione
degli atti di cui al presente comma, è assicurata la
preventiva informazione sindacale, ove prevista nei
contratti collettivi nazionali”.
La risposta, quindi, va cercata all’interno del CCNL
21.05.2018 delle Funzioni Locali e a nostro parere non vi è
alcuna indicazione esplicita a tal proposito. Quindi la
risposta al quesito è negativa.
Riteniamo, inoltre, che non sia possibile individuare
eventuali diverse “aperture” nella direzione
dell’obbligo di informazione preventiva in altri contesti
del CCNL citato, ma che l’elenco delle materie oggetto di
informazione, contrattazione o confronto sia tassativo.
Ricordiamo, inoltre, proprio per fare un esempio di un CCNL
che ha previsto una relazione sindacale che nel Comparto
Istruzione e Ricerca all’art. 68 comma 10 vi è scritto: Sono
oggetto di informazione […] “il piano dei fabbisogni di
personale”.
Quindi, in quel contratto è stata voluta la relazione
sindacale, nel CCNL Funzioni Locali, evidentemente no (28.02.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Limite spesa lavoro flessibile.
Domanda
La condizione per poter utilizzare il 100% della spesa
sostenuta nell’anno 2009 per assunzioni flessibili è
l’obbligo di riduzione della spesa previsto dall’art. 1,
comma 557, della l. 296/2006 da intendersi riferito al
rispetto della spesa del triennio 2001/2013 di cui al comma
557-quater?
Risposta
Il comma 557-quater, dell’art. 1, della legge 27.12.2006, n.
296 (legge finanziaria 2007), è stato aggiunto dal comma
5-bis, dell’art. 3, del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito
con modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114 e recita
quanto segue: "1.557-quater. Ai fini dell’applicazione
del comma 557, a decorrere dall’anno 2014 gli enti
assicurano, nell’ambito della programmazione triennale dei
fabbisogni di personale, il contenimento delle spese di
personale con riferimento al valore medio del triennio
precedente alla data di entrata in vigore della presente
disposizione".
Dal momento che la norma è del 2014, il triennio precedente
è quello che comprende gli anni 2011, 2012 e 2013.
La norma che disciplina il “tetto” di spesa per il
lavoro flessibile (pari al 100% della spesa del 2009) è
quella stabilita all’art. 9, comma 28, del decreto-legge n.
78/2010, convertito nella legge 30.07.2010, n. 122 che, per
la parte che ci interessa, dispone: "Le limitazioni
previste dal presente comma non si applicano agli enti
locali in regola con l’obbligo di riduzione delle spese di
personale di cui ai commi 557 e 562 dell’articolo 1 della
legge 27.12.2006, n. 296, e successive modificazioni,
nell’ambito delle risorse disponibili a legislazione vigente".
Pertanto, la risposta al quesito non può che essere
affermativa (21.02.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Relazioni
sindacali e indennità, doppio nodo per gli incarichi di posizione
organizzativa.
Due nodi assai intricati nella
disciplina degli incarichi di posizione organizzativa sono costituiti dalle
relazioni sindacali e dal tetto massimo delle risorse che possono essere
destinate al finanziamento delle indennità di posizione e di risultato.
Relazioni sindacali
Nelle relazioni sindacali sommiamo il confronto, la contrattazione e la
potestà per gli enti di deliberare senza il rispetto di particolari vincoli.
Il confronto deve essere effettuato, previa informazione preventiva e tanto
su richiesta dei soggetti sindacali quanto per iniziativa diretta dell'ente,
sui criteri di conferimento, revoca e graduazione di questi incarichi.
Esso è inoltre necessario per verificare le modalità di implementazione del
fondo per la contrattazione decentrata nel caso in cui l'ente decida di
tagliare le risorse destinate al salario accessorio delle posizioni
organizzative e si ricorda che è questa la forma di relazione sindacale
prevista per i criteri generali di valutazione delle performance, compresa
quella delle posizioni organizzative.
La contrattazione decentrata è necessaria per decidere i criteri generali
per la determinazione della indennità di risultato e per stabilire una
eventuale correlazione tra questa indennità e l'erogazione di incentivi
previsti da specifiche disposizioni di legge, quindi ad esempio per
prevedere una diminuzione dell'indennità nel caso in cui i compensi per i
contenziosi condotti con successo dagli avvocati dell'ente o quelli per le
funzioni tecniche superino soglie prefissate. Spetta invece alle
amministrazioni decidere, senza che siano richieste particolari forme di
relazione sindacale, la quota del fondo da riservare al finanziamento
dell'indennità di risultato, garantendo comunque che essa non scenda al di
sotto del 15%.
Nell'applicazione di questa previsione contrattuale in alcune
amministrazioni si sta scegliendo di abbassare questo compenso rispetto al
25% della indennità di posizione, che sulla base del contratto 31.03.1999,
era la precedente soglia massima, così da potere utilizzare queste risorse
per aumentare la indennità di posizione e/o per aumentare il numero di
questi incarichi.
Il tetto delle risorse
Non meno intricato è il nodo del tetto delle risorse che le amministrazioni
possono destinare al finanziamento delle posizioni organizzative. Il
contratto prende atto che l'articolo 23 del Dlgs 75/2017 stabilisce che le
risorse del salario accessorio non devono superare quelle del 2016, vincolo
che si applica non solo al fondo per la contrattazione decentrata, ma anche
ai compensi per i titolari di posizioni organizzativa.
Per il finanziamento di queste risorse è previsto che negli enti con la
dirigenza lo stesso sia a carico del bilancio dell'ente, come avviene da
sempre negli enti senza la dirigenza, con contestuale taglio di queste somme
dalla parte stabile del fondo. Una disposizione che vuole rendere più
flessibili gli spazi di autonomia organizzativa, consentendo alle
amministrazioni di deliberare senza doversi preoccupare di acquisire il
consenso sindacale per il finanziamento degli eventuali oneri aggiuntivi.
Possibilità che è vanificata dal tetto delle risorse per il salario
accessorio, fatta salva che si arrivi la possibilità –di scuola nella gran
parte delle realtà- che i soggetti sindacali accettino una decurtazione del
fondo per il salario accessorio per finanziare aumenti per le posizioni
organizzative.
Le novità del Dl semplificazioni
Con l'articolo 11-bis, comma 2, del Dl 135/2018, Dl semplificazione, come
risulta dopo la conversione, è consentito ai Comuni senza dirigenti di
aumentare le risorse destinate al salario accessorio delle posizioni
organizzative diminuendo nella stessa misura le capacità assunzionali a
tempo indeterminato, cioè quelle dell'anno e i resti del triennio
precedente, capacità che peraltro molto spesso non sono interamente
utilizzate.
Il testo accoglie in modo assai parziale la richiesta dell'Anci, visto che
questa possibilità è preclusa agli enti con i dirigenti, cioè a quelli che
hanno una dimensione maggiore
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.02.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Posizioni organizzative, si parte dal confronto sindacale ma la
decisione è dell'Ente.
Le amministrazioni devono ridefinire l’assetto delle
posizioni organizzative e devono farlo entro il 20 maggio prossimo, pena
l’impossibilità di procedere al conferimento dei relativi incarichi. Ciò
deve avvenire agendo su due aspetti entrambi oggetto di confronto sindacale:
la definizione dei criteri generali per il conferimento e per la revoca e la
definizione dei criteri per la graduazione ai fini dell’attribuzione della
indennità di posizione.
Si tratta di materie che le amministrazioni possono disciplinare
autonomamente in quanto decorso il termine di 30 giorni dal momento
dell’avvio del confronto sindacale le materie rientrano nella piena
disponibilità delle amministrazioni.
Il confronto, che deve essere richiesto entro 5 giorni dall’informativa o
proposto dall’Ente, non implica che le parti debbano raggiungere un accordo
ma rappresenta una modalità relazionale attraverso la quale le parti
esprimono le proprie valutazioni e consentono loro di partecipare alla
definizione delle misure che l’ente intende adottare; il confronto si
conclude con la redazione di una sintesi delle posizioni emerse che vengono
offerte alle Amministrazioni cui compete la decisione finale.
Istituzioni delle posizioni organizzative
L’istituzione delle posizioni organizzative deve avvenire con riferimento a
posizioni di lavoro che presentino le seguenti caratteristiche:
a) deve trattarsi di funzioni di direzioni di unità organizzative
che presentino particolare complessità;
b) le funzioni di direzioni devono caratterizzarsi per l’elevato
grado di autonomia gestionale e organizzativa.
In alternativa l’istituzione di posizioni organizzative può riguardare
attività ad alto contenuto professionale per le quali è richiesta una
elevata competenza specialistica (maturata o mediante titoli di livello
universitario o attraverso rilevanti e consolidate esperienze professionali,
in posizioni di responsabilità o di alta qualificazione professionale), che
deve essere verificata in sede di conferimento attraverso l’esame del
curriculum.
Non è pertanto possibile prevedere l’istituzione di posizioni organizzative
al di fuori delle caratteristiche sopra enunciate e, quindi, le
amministrazioni non possono limitarsi alla mera individuazione ma devono
specificamene motivare la presenza, rispetto alle posizioni individuate e
indipendentemente dalla persona cui l’incarico verrà conferito, di tali
caratteristiche. L’assenza di un idoneo apparato motivazionale che consenta
di ricondurre le posizioni istituite alla caratteristiche previste dall’art.
13 del Ccnl funzioni locali espone gli atti di macro organizzazione al
rischio di declaratoria di illegittimità.
Criteri generali per il conferimento degli incarichi
L’amministrazione deve, quindi, disciplinare le regole per il conferimento
degli incarichi di posizione organizzativa che, nei comuni con dirigenti
sono conferiti da quest’ultimi, i quali devono attenersi ai criteri generali
definiti dall’Ente.
Il criteri generali devono da un lato dettagliare, per ciascuna posizione
organizzativa istituita, i requisiti culturali, le attitudini, la capacità
professionale e l’esperienza acquisita e dall’altro considerare la natura e
la caratteristica dei programmi da realizzare.
Tra i criteri da utilizzare per il conferimento dell’incarico
l’Amministrazione deve tenere in adeguata considerazione anche gli esiti
delle valutazioni individuali in attuazione dell’art. 3, comma 5, e
dell’art. 25, comma 2, del Dlgs 150/2009.
Nei comuni senza dirigenza le posizioni organizzative sono conferite ai
responsabili delle strutture apicali e le disposizioni contrattuali devono
essere lette unitamente alla previsione di sui all’art. 50, comma 10, Dlgs
267/2000 secondo il quale la nomina dei responsabili degli uffici e dei
servizi è affidata alla competenza del Sindaco e al successivo art. 109,
comma 2, del medesimo Decreto secondo il quale ai responsabili dei servizi
vengono affidate le funzioni tipicamente dirigenziali previste dall’articolo
107, commi 2 e 3.
La graduazione della posizioni
La graduazione delle posizioni è fondamentalmente finalizzata a definire
l’entità della retribuzione di posizione nei limiti minimi e massimi
previsti dall’articolo 15 del Ccnl funzioni locali.
Il valore medio delle retribuzioni di posizione è legato all’entità delle
risorse complessivamente disponibili per retribuzione di posizione e di
risultato che non deve superare l’importo destinato a tale finalità nel 2016
e di questo importo il valore complessivo massimo destinato alla
retribuzione di posizione non può superare l’80%; l’altro elemento che
incide sul valore medio è il numero di posizioni istituite. Il valore
complessivo 2016 può essere superato previa riduzione del fondo risorse
decentrate e solo previa contrattazione decentrata.
Ai fini della graduazione gli aspetti che devono essere considerati sono i
seguenti: a) la complessità organizzativa; b) la rilevanza delle
responsabilità amministrative e gestionali; rispetto questi macrocriteri
l’amministrazione definisce i criteri di dettaglio e le metriche di
valutazione pervenendo ad una graduatoria.
Il valore della retribuzione di posizione dipenderà dal numero di
graduazioni che si intendono attivare e dal numero di posizioni che si
intendono istituire; una eccessiva frammentazione delle graduazioni in
presenza di un numero ridotto di posizioni rischia di rendere poco gestibile
il sistema delle graduazioni. Per cui è corretto che all’aumentare del
posizioni istituite possa aumentare il numero delle graduazioni; il
trade-off tra questi due elementi (numero di posizioni e numero delle
graduazioni) deve essere risolto con criteri di ragionevolezza e tenendo ben
presente l’applicabilità in concreto dei criteri, che devono essere
predeterminati e indipendenti dal dipendente al quale sarà conferito
l’incarico.
A tale proposito i criteri utilizzati per declinare i macro fattori previsti
dal Ccnl devono essere tali da essere concretamente applicabili in relazione
alle caratteristiche e alle responsabilità connesse a ciascuna posizione
istituita. Per esempio, in relazione alla complessità organizzativa possono
essere parametri significativi il numero dei servizi e uffici che rientrano
nella direzione della posizione nonché il numero dei dipendenti. Con
riferimento alla rilevanza può essere utile il riferimento alla
significatività dei processi presidiati e al livello di rischio definito
nell’ambito del Piano triennale di prevenzione delle corruzione.
Occorre prestare attenzione nel valutare la rilevanza all’utilizzo di
criteri di incerta applicazione; a titolo di esempio stabilire come uno dei
criteri per valutare la rilevanza il numero dei pareri può rendere incerta
l’applicazione per quelle posizioni in cui l’entità effettiva dei pareri non
è predeterminabile o comunque dipende da specifiche situazioni di contesto
che possono cambiare da un anno all’altro (mentre la graduazione deve avere
una sua stabilità e robustezza).
Negli enti con dirigenza, nell’ambito dei criteri per la graduazione,
l’articolo 15 del Ccnl richiede di considerare anche l’ampiezza e il
contenuto delle eventuali funzioni delegate con attribuzioni di poteri di
firma di provvedimenti finali a rilevanza esterna; tuttavia tali ultimi
aspetti attengono a misure che dipendono dallo stile organizzativo e
manageriale del dirigente che conferisce gli incarichi e non sono
predeterminabili in quanto ciò significherebbe imporre al dirigente, per
specifiche posizioni organizzative, una sorta di “obbligo” di delega,
quando previsto in sede di graduazione, che nel nostro assetto normativo non
è configurabile e comunque lederebbe l’autonomia organizzativa, gestionale e
manageriale del dirigente medesimo
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.02.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni
organizzative, il tempo stringe per gli Enti Locali alle prese con le
delibere.
Rimangono appena otto o nove settimane alle amministrazioni locali e
regionali per adottare i criteri di istituzione, conferimento, revoca e
graduazione della retribuzione per le posizioni organizzative.
La mancata adozione di queste disposizioni regolamentari entro il 21 maggio,
cioè entro un anno dall'entrata in vigore del contratto del personale delle
funzioni locali per il triennio 2016/2018, stipulato il 21.05.2018,
determina infatti la decadenza delle posizioni organizzative. Come chiarito
dall'Aran, anche se la loro scadenza "naturale" fissata dalle
amministrazioni fosse successiva.
Ma si deve aggiungere che, per non rischiare di superare il termine nelle
more dello svolgimento delle relazioni sindacali, le bozze di deliberazione
devono essere trasmesse ai soggetti sindacali entro la metà del mese di
aprile.
Informazione preventiva dei soggetti sindacali
Cominciamo proprio da questo aspetto: i criteri di conferimento, revoca e
graduazione delle posizioni organizzative, che l'ente adotta con una
deliberazione della giunta avente natura regolamentare, sono oggetto di
informazione preventiva e, a richiesta dei soggetti sindacali, di confronto.
Ricordiamo che il confronto deve essere chiesto dai rappresentanti dei
lavoratori (oltre che potere essere avviato direttamente da parte degli
enti) entro 5 giorni dalla ricezione della informazione e che esso, in
assenza di una intesa, inibisce all'ente la possibilità di deliberare prima
di un mese dal suo avvio: per cui prudenzialmente, salvo che i suoi
contenuti siano stati preventivamente concordati, si deve considerare che si
può arrivare a 40 giorni circa dalla comunicazione iniziale per potere
assumere la deliberazione.
Istituzione
Sulla base del nuovo contratto le amministrazioni devono decidere quali e
quante posizioni organizzative istituire, scegliendo in questo ambito tra
quelle preposte alla direzione di unità organizzative e le alte
professionalità, senza poterne più istituire per gli uffici di staff.
Devono inoltre disciplinare i criteri di conferimento sulla base dei
principi dettati dal nuovo contratto nazionale e che continuano a essere gli
stessi fissati nel 1999: «le funzioni ed attività da svolgere, la natura
e caratteristiche dei programmi da realizzare, i requisiti culturali
posseduti, le attitudini e la capacità professionale».
Criteri che lasciano ampi spazi di discrezionalità ma che non consentono
scelte di tipo esclusivamente fiduciario. In questo ambito occorre anche
disciplinare le procedure -ad esempio se le scelte sono precedute da un
avviso e dalla presentazione di candidature-e la durata –che per gli enti
con dirigenti non può essere superiore a 3 anni.
Revoca
Le amministrazioni devono disciplinare le procedure di revoca, intendendo
come tale solo quella anticipata, essendo possibile la mancata conferma alla
scadenza e il conferimento ad altro dipendente. La revoca in tutti gli enti
può essere disposta sulla base del contratto per mutamenti organizzativi e/o
per una valutazione negativa; si deve aggiungere che, sulla base delle
previsioni della legge 190/2012 (anticorruzione), può essere disposta in
caso di rotazione straordinaria, cioè a seguito di procedimenti penali e
che, sulla scorta del Dlgs 267/2000, ma solamente negli enti senza
dirigenti, può essere motivata dalla inosservanza delle direttive impartite
dall'organo di governo.
Graduazione degli incarichi
Gli enti devono disciplinare i criteri di graduazione degli incarichi di
posizione organizzativa nella forcella compresa tra 5.000 e 16.000 euro.
Occorre chiarire che non è obbligatorio per le amministrazioni fissare la
misura considerando che il tetto debba necessariamente essere fissato in
16.000 euro: questa è la soglia massima, per cui le amministrazioni possono
anche scegliere una cifra più bassa.
Il contratto prevede 2 criteri per tutti gli enti, la rilevanza delle
responsabilità e la complessità; per gli enti con la dirigenza ne viene
aggiunto un terzo: l'ampiezza e il contenuto dei compiti delegati, con la
connessa attribuzione della titolarità ad assumere atti a rilevanza esterna
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.02.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Tassazione pensioni complementari.
Domanda
Le pensioni complementari integrative dei dipendenti
pubblici sono tassate come quelle dei privati?
Risposta
Le regole in materia di previdenza complementare pagano il
conto di quella che dal punto di vista giuridico viene
definita dicotomia delle fonti del diritto.
La riforma Maroni del 2005 ha riscritto e novellato la
previdenza complementare con il d.lgs. 252/2005, tuttavia,
non essendo occorsa l’armonizzazione con il pubblico
impiego, dette regole non sono mai valse per i lavoratori
pubblici, ma soltanto per i lavoratori dipendenti di aziende
private. Questo almeno fino alla Legge di Bilancio del 2018
che ha introdotto dei correttivi e livellato alcune
differenze.
La disparità di trattamento tra lavoratori privati e
pubblici si faceva sentire in diversi ambiti: si pensi alla
diversa libertà di destinazione delle quote di TFR nella
modalità di finanziamento della previdenza complementare,
alle diverse regole di accesso alle prestazioni
pensionistiche (anticipazioni), al diverso limite di
deducibilità fiscale dei contributi versati a previdenza
complementare, e, in particolare, al diverso regime di
tassazione delle prestazioni previdenziali.
In questo ultimo caso, le differenze producevano una
disparità di trattamento al limite della legittimità
costituzionale.
In tema di tassazione delle prestazioni, le regole applicate
ai dipendenti pubblici erano quelle contenute nel d.lgs.
124/1993 che prevedevano l’assoggettamento a tassazione
progressiva (IRPEF a scaglioni).
Le pensioni complementari dei privati sono assoggettate, dal
2005, ad una tassazione a titolo di imposta del 15%, ridotta
di una quota pari allo 0,30% per ogni anno eccedente il 15°
di partecipazione a forme di previdenza complementare, fino
ad un massimo di 6 punti percentuali di riduzione.
La legge di Bilancio del 2018, al comma 156, fa valere anche
per i lavoratori pubblici, le regole in materia di
tassazione delle prestazioni, contenute nel d.lgs. 252/2005.
La riforma non ha coinvolto il passato e i montanti già
accumulati, ma solo il futuro, talché:
• posizione maturata dal 01/2018: assoggettate a una tassazione a
titolo d’imposta del 15% ridotta di una quota pari allo
0,30% per ogni anno eccedente il 15° di partecipazione a
forme di previdenza complementare, con il limite massimo del
6%.
• posizione maturata prima del 01/2018: assoggettate a tassazione
progressiva (14.02.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Procedure
per progressioni verticali e pubblicazione in GU.
Domanda
Le procedure per le progressioni verticali vanno pubblicate in Gazzetta
Ufficiale?
Risposta
In riferimento alle procedura di cui all’art. 22, comma 15, del D.Lgs.
75/2017 si ricorda che gli elementi che caratterizzano questa selezione
sono:
a) limite costituito dalla facoltà assunzionale;
b) procedure selettive;
c) possesso dei titoli di studio richiesti per l’accesso
dall’esterno;
d) riserva limitata al 20% dei posti, per ciascuna categoria,
destinati a nuove assunzioni nel piano dei fabbisogni;
e) prove;
f) valutazione positiva per almeno tre anni, attività svolta e
risultati conseguiti.
Se tali requisiti sono soddisfatti si prescinde, a nostro parere, dalla
pubblicazione del bando nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, in quanto
trattasi di procedura riservate a personale già reclutato nella P.A.
L’obbligo di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
Italiana dei bandi di concorso nel pubblico impiego, previsto dall’articolo
4 del d.p.r. 487/1994, integra la previsione generale dell’art. 35, terzo
comma, del d.lgs. 165/2001 e s.m.i., recante principi in materia di
procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni.
La regola generale, che impone l’obbligo di pubblicazione sulla GURI è
attuativa dell’art. 51, primo comma, e dell’art. 97, comma due e quattro,
della Costituzione, ove vengono garantiti nell’accesso agli uffici pubblici
condizioni di uguaglianza, buon andamento, imparzialità dell’amministrazione
e accesso mediante concorso.
Nella procedura di cui trattasi tali condizioni non devono essere garantite,
ad eccezione della selettività, in quanto la procedura è riservata alle
professionalità interne, già reclutate nella PA.
Per quanto sopra illustrato si ritiene che sia sufficiente la pubblicazione
del bando sul sito dell’ente, nell’area dell’Amministrazione Trasparente,
dedicata al personale (07.02.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Conflitto
d’interessi per presidente commissione di concorso.
Domanda
Il nostro comune ha bandito un concorso per due posti di categoria D, di cui
uno riservato ad un interno, ex art. 24, comma 1, del d.lgs. 150/2009. Tra i
candidati ammessi al concorso c’è un dipendente di categoria C, in possesso
di laurea, in servizio presso il 1° Settore. La Commissione di concorso è
presieduta dal funzionario P.O., responsabile del medesimo settore.
Ci si interroga se il funzionario si trovi in situazione di conflitto
d’interesse, con obbligo di astensione.
Risposta
La questione oggetto del quesito, riguarda una ipotesi di conflitto
d’interessi tra il presidente della Commissione di concorso pubblico e un
candidato, interno, che partecipa alla procedura concorsuale. Non v’è dubbio
che tra i due soggetti, per ragioni di lavoro, siano intercorsi ed
intercorrano tutt’ora dei rapporti professionali, per cui è corretto porsi
l’interrogativo.
Per redimere la vicenda, il primo consiglio da fornire è quello di
verificare le norme, in materia di conflitto d’interessi, rinvenibili negli
atti regolamenti del comune. A tal riguardo può essere utile andare a
rivedere cosa si è previsto:
a) nello Statuto del comune;
b) nel regolamento dei concorsi;
c) nel regolamento di organizzazione degli uffici e servizi (ROUS);
d) nel Codice di comportamento di ente;
e) nel Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione e
Trasparenza.
Per ciò che concerne i riferimenti legislativi nazionali, occorre prendere
in considerazione le disposizioni dell’art. 6-bis, della legge 07.08.1990,
n. 241 e agli articoli 6 e 7, del Codice di comportamento dei dipendenti
delle pubbliche amministrazioni, approvato con DPR 62/2013.
Detto delle regole di tipo “generale” che soprassiedono alla non
semplice questione del conflitto d’interessi, anche di natura potenziale,
nel caso specifico è bene tenere in debita considerazione, anche, le
posizioni assunte, nel tempo, dal giudice amministrativo, il quale ha
provveduto ad identificare alcune ipotesi di concreta applicazione, con
riferimento alla composizione delle commissione di concorso, in ambito
universitario (ma il caso è assimilabile), sostenendo che:
– l’appartenenza allo stesso ufficio del candidato e il legame di
subordinazione o di collaborazione tra i componenti della commissione e il
candidato stesso non rientrano nelle ipotesi di astensione di cui all’art.
51 c.p.c. (Consiglio di Stato, sez. III, 28.04.2016, n. 1628, Consiglio di
Stato, sez. V, 17.11.2014 n. 5618; sez. VI, 27.11. 2012, n. 4858);
– i rapporti personali di colleganza o di collaborazione tra alcuni
componenti della commissione e determinati candidati non sono sufficienti a
configurare un vizio della composizione della commissione stessa, non
potendo le cause di incompatibilità previste dall’art. 51 (tra le quali non
rientra l’appartenenza allo stesso ufficio e il rapporto di colleganza)
essere oggetto di estensione analogica, in assenza di ulteriori e specifici
indicatori di una situazione di particolare intensità e sistematicità, tale
da dar luogo ad un vero e proprio sodalizio professionale (Consiglio di
Stato, sez. VI, 23.09.2014 n. 4789);
– «la conoscenza personale e/o l’instaurazione di rapporti
lavorativi ed accademici non sono di per sé motivi di astensione, a meno che
i rapporti personali o professionali non siano di rilievo ed intensità tali
da far sorgere il sospetto che il candidato sia giudicato non in base al
risultato delle prove, bensì in virtù delle conoscenze personali (Cons.
Stato, VI, n. 4015 del 2013, cit.)» (Consiglio di Stato, VI, 26.1.2015,
n. 327 e da ultimo Consiglio di Stato, sez. III, 28.04.2016, n. 1628);
– «perché i rapporti personali assumano rilievo, deve trattarsi
di rapporti diversi e più saldi di quelli che di regola intercorrono tra
maestro ed allievo o tra soggetti che lavorano nello stesso ufficio, essendo
rilevante e decisiva la circostanza che il rapporto tra commissario e
candidato, trascendendo la dinamica istituzionale delle relazioni
docente/allievo, si sia concretato in un autentico sodalizio professionale,
in quanto tale “connotato dai caratteri della stabilità e della reciprocità
d’interessi di carattere economico” (Cons. Stato, Sez. VI, n. 4015 del
2013), in “un rapporto personale di tale intensità da fare sorgere il
sospetto che il giudizio non sia stato improntato al rispetto del principio
di imparzialità” (Cons. Stato, Sez. VI, 27.04.2015, n. 2119)» (Consiglio
di Stato, sez. III, 28.04.2016, n. 1628);
– «sussiste una causa di incompatibilità –con conseguente
obbligo di astensione– per il componente di una commissione giudicatrice di
concorso universitario ove risulti dimostrato che fra lo stesso e un
candidato esista un rapporto di natura professionale con reciproci interessi
di carattere economico ed una indubbia connotazione fiduciaria» (Cons.
Stato Sez. VI, 31.05.2013, n. 3006, TAR Lazio, Roma, 21.02.2014 n. 2173);
– in sede di pubblico concorso l’incompatibilità tra esaminatore e
concorrente si può realmente ravvisare non già in ogni forma di rapporto
professionale o di collaborazione scientifica, ma soltanto in quei casi in
cui tra i due sussista un concreto sodalizio di interessi economici, di
lavoro o professionali talmente intensi da ingenerare il sospetto che la
valutazione del candidato non sia oggettiva e genuina, ma condizionata da
tale cointeressenza (TAR Lazio, Roma, 21.02.2014 n. 2173, TAR Lazio, Roma
Sez. III-bis, 11.07.2013, n. 6945).
Sempre sul medesimo argomento anche l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC)
è stata chiamata ad esprimersi e lo ha fatto con:
a)
delibera n. 209 del 01.03.2017;
b)
delibera n. 384 del 29.03.2017;
c)
delibera n. 1186 del 19.12.2018.
La condivisibile posizione dell’ANAC, relativamente a una fattispecie simile
a quella prospettata nel quesito, prevede che “ai fini della sussistenza
di un conflitto di interessi fra il Segretario generale valutatore e un
candidato, la collaborazione professionale, per assurgere a causa di
incompatibilità, così come disciplinata dall’art. 51 c.p.c., deve
presupporre una comunione di interessi economici o di vita tra gli stessi di
particolare intensità e tale situazione può ritenersi esistente solo se
detta collaborazione presenti i caratteri della sistematicità, stabilità,
continuità tali da dar luogo ad un vero e proprio sodalizio professionale”.
In conclusione, rispondendo al quesito, è possibile sostenere che –in
assenza di specifiche disposizioni normative comunali, previste in atti
regolamentari e statutari o norme del Piano Anticorruzione– non si ravvisa
un conflitto d’interessi e il conseguente obbligo di astensione, tra il
candidato, dipendente interno, e il presidente della commissione di un
concorso pubblico, a meno che, tra i due soggetti, non sia presente una
comunione di interessi economici o di vita di particolare intensità che
possa dar luogo a un sodalizio professionale (05.02.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Troppo
su Facebook: licenziato. Condotta grave rubare tempo alle attività di
servizio. Sentenza della Cassazione. La notifica
telematica è valida anche con l’invio in Word.
Licenziato il dipendente che sta sempre su Facebook. Decisiva la cronologia
del pc, l’incolpato non può smentire i 4.500 accessi con password al social
in 18 mesi: «condotta contraria all’etica comune». Anche senza il pdf conta
che lo scopo sia raggiunto.
Tempi duri per i dipendenti che
stanno sempre su Facebook dal pc aziendale. Scatta il licenziamento
disciplinare: rubare tempo alle attività di servizio costituisce una
condotta «grave» perché in contrasto con «l'etica comune» e
finisce per incrinare la fiducia del datore. Ancora. È valida la notifica
telematica anche se alcuni documenti sono inviati in Word: conta il
risultato della conoscenza dell'atto.
È quanto emerge dalla
sentenza 01.02.2019 n. 3133 della Sez. lavoro della Corte di
Cassazione.
Condotte estranee
Bocciato il ricorso della segretaria assunta part-time presso lo studio
medico: gran parte della giornata lavorativa risulta trascorsa su Internet
per motivi privati; lo dimostrano i circa 4.500 accessi soltanto sul social
network blu, sui circa 6 mila totali al web, effettuati nel corso di
diciotto mesi dal computer della sua postazione. E risulta «senza dubbio
grave» la condotta addebitata perché la lavoratrice approfitta della
fiducia del datore che non sottopone il pc della dipendente a rigide
verifiche.
A inchiodarla è la semplice cronologia degli accessi alla rete, dunque non
un particolare dispositivo di controllo installato sul pc, ma semplici dati
che sono registrati da qualsiasi computer: risulta esclusa ogni violazione
dell'articolo 4 dello statuto dei lavoratori perché non si configura una
verifica sulla produttività o l'efficienza ma finiscono nel mirino condotte
estranee alla prestazione.
Credenziali e riferibilità
In effetti la dipendente incolpata non contesta la navigazione in rete
durante l'orario di servizio per motivi estranei all'ambito lavorativo:
d'altronde al social creato da Mark Zuckerberg si accede solo con password e
con l'inserimento delle credenziali la lavoratrice non riesce a smentire che
gli accessi contestati siano riferibili a lei.
Inutile dolersi, poi, per la mancata ammissione della consulenza tecnica
d'ufficio richiesta per ricostruire l'assetto del personal computer:
l'istanza è un mezzo puramente esplorativo, al di là dei dubbi che in
assoluto suscita l'ipotesi di identificare chi ha utilizzato il pc con un
esame tecnico postumo. Non può poi essere esaminata la violazione delle
regole della privacy: è una questione che non risulta sollevata nel corso
dei gradi di merito.
Difformità dirimente
Veniamo alla questione processuale. È esclusa la nullità nonostante la
violazione delle regole del processo telematico che impongono di notificare
atti in formato pdf: risulta dirimente che sia comunque raggiunto lo scopo
legale della notificazione. Né rileva che il documento notificato con
estensione doc o docx potrebbe essere modificato, diversamente dal pdf: in
effetti il ricorso di legittimità deve essere depositato in formato cartaceo
e dunque conta soltanto che non vi siano difformità tra quanto notificato in
via telematica e ciò che risulta agli atti della Suprema corte.
Alla lavoratrice non resta che pagare le spese di giudizio e il contributo
unificato aggiuntivo (articolo ItaliaOggi del
02.02.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Posizioni organizzative, aumenti di stipendio fino ai nuovi tetti
contrattuali solo negli Enti senza dirigenti.
Ha resistito alla falcidia degli emendamenti in fase di conversione del
decreto semplificazioni il possibile incremento della remunerazione delle
posizioni organizzative, ma solo per gli enti privi di dirigenza. Il
finanziamento degli aumenti, decisi in via autonoma da questi enti, dovrà
avvenire all'interno delle risorse previste dal contratto nazionale
(articolo 15, commi 2 e 3, del contratto 21.05.2018), ma dovrà essere
coperto, se sussiste la capacità di spesa in bilancio, con una riduzione per
equivalente della capacità assunzionale.
Le indicazioni dell'emendamento approvato
L'emendamento ha accolto la richiesta elaborata dall'Anci, limitandone
l'applicazione ai soli enti privi di dirigenti, in considerazione delle
maggiori responsabilità connesse agli incaricati di posizione organizzativa,
dove il sindaco attribuisce a questo personale anche le funzioni
dirigenziali (articolo 107 del testo unico degli enti locali). Non sono
state, invece, considerate sufficienti le indicazioni strategiche contenute
nel contratto del 21.05.2018 che ha previsto in modo innovativo, ai
titolari di posizione organizzativa negli enti con dirigenza, il possibile
conferimento di deleghe dirigenziali.
I limiti all'incremento economico
La possibilità riconosciuta agli enti privi di dirigenti, tuttavia, rimane
condizionata a una serie di verifiche di neutralità finanziaria della spesa.
Il primo limite è dato dall'obbligatoria, correlata e identica riduzione
delle capacità assunzionali, ossia riducendo il ricorso alle assunzioni
esterne (concorsi, scorrimento di graduatorie, passaggio da tempo parziale a
tempo pieno e mobilità non neutre). Si ricorda che le capacità assunzionali
per l'anno 2019 sono pari al 100% del valore economico delle cessazioni
avvenute nell'anno 2018, alle quali andranno aggiunti gli eventuali resti
assunzionali non utilizzati nel triennio precedente, pari agli importi delle
cessazioni, degli anni 2017, 2016 e 2015, non utilizzate.
Altro limite è rappresentato dalla spesa complessiva del personale che non
potrà essere superiore alla spesa media sostenuta nel triennio 2011-2013
(comma 557-quater dell'articolo 1 della legge 296/2006) ovvero, per gli enti
con popolazione inferiore a 1.000 abitanti, alla spesa sostenuta nell'anno
2008 (comma 562 della legge finanziaria 2007).
La terza e ultima condizione, essendo la maggiore spesa corrente finanziata
dal bilancio, riguarda pur sempre il mantenimento degli equilibri di parte
corrente.
Qualora queste condizioni fossero rispettate, allora i maggiori importi
erogati ai titolari di posizioni organizzative (nel limite massimo di 16.000
euro per il personale di categoria D e 9.500 per quello di categoria C),
rispetto a quelli corrisposti alla data di entrata in vigore della legge di
conversione, non sarà soggetta al limite stabilito dall'articolo 23, comma
2, del Dlgs 75/2017 che prevede di non superare i valori del salario
accessorio stanziati nell'anno 2016 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'01.02.2019). |
gennaio 2019 |
 |
PUBBLICO IMPIEGO: Risarcibile
il danno da mancata assunzione se il bando di concorso è illegittimo.
L'annullamento del bando di concorso per selezionare personale destinato
alla Provincia di Campobasso, ritenuto illegittimo, può determinare la
condanna della pubblica amministrazione al risarcimento per perdita di
chance soprattutto nel caso in cui risulti fondata la possibilità di
accedere (anche per i curricula dei partecipanti) all'assunzione.
Questo, in sintesi, l'importante approdo al quale giunge il TAR Molise con la
sentenza
31.01.2019 n. 46.
La richiesta di risarcimento
Il giudice molisano ha affronta la questione della legittimità della
richiesta di risarcimento danni per mancata assunzione. Nel caso specifico,
i ricorrenti hanno impugnato innanzi al Capo dello Stato un bando di
assunzione a tempo determinato (indetto dalla Provincia di Campobasso)
annullato per la presenza di una clausola (illegittima) che impone il
requisito della residenza in un Comune della Regione.
Successivamente, su ricorso della Provincia, il decreto presidenziale è
stato annullato in primo grado, mentre il Consiglio di Stato (appello
promosso dai ricorrenti) ha ribadito l'illegittimità del bando. Il lungo
decorso dei tempi, però, ha impedito ai ricorrenti di partecipare alle
selezioni e per effetto di quanto, gli stessi, si sono determinati a
chiedere il risarcimento dei danni per mancata assunzione.
La Provincia, chiamata in causa, nelle proprie memorie ha chiesto al giudice
di respingere l'istanza stante il «mancato assolvimento dell’onere della
prova sulla condotta illegittima e sul danno ingiusto» nonché per «mancanza
di una perdita di chance risarcibile, stante la non elevata possibilità dei
ricorrenti di risultare vincitori nella selezione, trattandosi, (…), di una
mera aspettativa di fatto».
La decisione
Il giudice accoglie invece le istanze risarcitorie fondando il proprio
ragionamento sulla circostanza per cui «l’imposizione quale requisito» di
partecipazione alla selezione della «residenza dei concorrenti (…),
censurata perché contraria alla legge e ai principi costituzionali, è
rilevante ai fini dell’invocata tutela e spiega il nesso di causalità tra la
condotta antigiuridica (colposa o dolosa) e il procurato pregiudizio patito
dagli aspiranti che hanno subito l’esclusione dal bando per via della
mancanza del requisito di residenza».
«Tale pregiudizio, si legge in sentenza, deve ritenersi sicuramente
risarcibile ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile norma che impone
il dovere primario di non cagionare danni ingiusti».
L'elemento soggettivo della responsabilità civile, prosegue il giudice, deve
ritenersi «insito nel comportamento colpevole, derivato dalla scelta
inopinata di violare, nella procedura, i fondamentali parametri della
Costituzione e della legge (art. 1 legge n. 241/1990), vale a dire i
principi di uguaglianza, imparzialità, trasparenza, pari opportunità,
proporzionalità, ragionevolezza, adeguatezza, non discriminazione, nonché il
principio di legalità di cui all’articolo 51, comma primo, della
Costituzione, a tenore del quale tutti i cittadini italiani possono accedere
agli uffici pubblici, secondo i requisiti stabiliti dalla legge».
L'utilizzo del requisito della residenza –pur consentito in limitatissime
ipotesi dal decreto legislativo 165/2001– nel caso di specie è stato
utilizzato in maniera fuorviante e non appropriata in quanto non necessario
«all’assolvimento di servizi altrimenti non attuabili o almeno non attuabili
con identico risultato».
Il risarcimento
L'accertata illegittimità dell'azione amministrativa, integra pertanto «ex
se l’illiceità della condotta» (Cassazione civile, sezioni unite n.
500/1999, n. 13164/2005; n. 20358/2005; Cons. Stato n. 3169/2001, n.
1261/2004, n. 5500/2004, n. 478/2005) aprendo al risarcimento per danno
ingiusto.
In questo senso, il danno da perdita di chance «si verifica tutte le volte
in cui il venir meno di un’occasione favorevole, cioè la perdita della
possibilità di conseguire un risultato utile, è determinato e causato
dell’adozione di un atto illegittimo da parte della Pa determinando un
mancato guadagno». Nel caso di specie, in base ai curricula risultava
«provata» l'elevata possibilità di risultare vincitori della selezione.
Il giudice, infine, non condivide però il calcolo del quantum del
risarcimento fondato sulla mancata percezione delle retribuzioni dovendo
questa, caso mai, essere ricalibrata tenendo conto del numero degli
aspiranti che –senza il criterio della residenza– avrebbero potuto essere
più numerosi. Pertanto, conclude il giudice, la determinazione del
risarcimento deve avvenire «secondo una valutazione equitativa, ex articolo
1226 del codice civile, commisurandola ove possibile al grado di probabilità
che quel risultato favorevole avrebbe potuto essere conseguito»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.02.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: Risarcimento
per perdita di chance all'escluso dal concorso per il requisito della
residenza in Regione.
Va risarcito a titolo di perdita di chance il concorrente escluso da una
selezione per mancanza del requisito della residenza in un Comune della
Regione, requisito dichiarato illegittimo a seguito della decisione di
ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
Lo ha stabilito il TAR
Molise con la
sentenza
31.01.2019 n. 46.
Si trattava di bando della Provincia di Campobasso per l'istaurazione di
rapporti di lavoro a tempo determinato per il profilo professionale di
istruttore direttivo - categoria D1.
La prova del danno
Secondo il Tar non vi è necessità di una ulteriore prova della condotta che
ha causato il danno ingiusto (articolo 2043 del codice civile) né sussiste
margine per la scusabilità dell'errore della Pa dal momento che non poteva
giustificabilmente sfuggire all'Amministrazione (e ai suoi funzionari) il
dato palese e inequivocabile dell'illegittimità radicale della clausola di
preclusione territoriale contenuta nel bando.
È evidente e non necessita di
prova il fatto che dal comportamento illegittimo della Provincia sia
derivato un danno patrimoniale, qualificabile in termini di pregiudizio per
la perdita di chance, da parte dei ricorrenti. È palese la sussistenza del
rapporto causale tra il fatto ostativo (l'esclusione dalla selezione) e il
pregiudizio della perdita di una ragionevole probabilità di conseguimento
del risultato atteso dai ricorrenti, di collocarsi, previo superamento della
prova, in una posizione non solo idonea ma utile nello scorrimento di una
delle sei graduatorie di concorso definitivamente approvate.
La perdita di chance
I giudici molisani hanno poi ricordato che il danno da perdita di chance si
verifica tutte le volte in cui il venir meno di un'occasione favorevole,
cioè la perdita della possibilità di conseguire un risultato utile, è
determinato e causato dell'adozione di un atto illegittimo da parte della Pa,
determinando un mancato guadagno. La chance è un bene giuridico autonomo,
integrante il patrimonio del soggetto.
Va così risarcita la perdita di
chance, ove sussista la lesione di un interesse giuridicamente tutelato,
avendo la pretesa di risarcimento a oggetto non un danno futuro e incerto ma
un danno attuale, quale è appunto la perdita dell'occasione favorevole. La
lesione della chance, quindi, comporta un danno valutabile in relazione alla
probabilità perduta, piuttosto che al vantaggio sperato.
No al danno esistenziale
Il Tar ha poi considerato che non può essere, nella fattispecie,
riconosciuta la sussistenza di un danno esistenziale, poiché non vi è prova
alcuna che dall'evento dannoso (l'esclusione dal concorso) sia derivata una
compromissione dell'integrità psico-fisica dei ricorrenti e, non essendo
stato provato alcun danno emergente (quale potrebbe essere stata, ad
esempio, un'eventuale spesa sostenuta da ciascun ricorrente per acquisire la
possibilità di partecipare alla selezione), il Tar ha quindi verificato la
misura del mancato guadagno
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.02.2019). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Malattia e congedo straordinario per assistenza familiare.
Domanda
La malattia interrompe il congedo straordinario retribuito per assistenza a
familiare portare di handicap grave?
Risposta
La fonte del diritto che disciplina il congedo straordinario retribuito è
l’art. 42, comma 5 e seguenti, del d.lgs. 151/2001. Si tratta di uno
strumento rivolto a tutelare il diritto indisponibile della persona disabile
di ricevere assistenza da parte dei soggetti legittimati indicati dalla
norma.
Appare evidente che il presupposto affinché questo possa accadere, siano le
buone condizioni di salute del soggetto che realizza l’intento
assistenziale. Ma cosa accade se durante il congedo retribuito, il
richiedente si ammala?
Va ricordato che la misura del congedo retribuito è pari a due anni (art.
42, comma 5-bis, d.lgs. 151/2001), fruibili continuativamente ma anche in
modo frazionato (a giorni interi, ma non ad ore).
Sono pertanto molto diverse le situazioni di fronte alle quali ci si può
imbattere.
Può accadere che nei due anni di congedo occorra un episodio morboso di
lunga durata, ma può anche accadere che in un periodo frazionato molto breve
di congedo straordinario, occorra un evento morboso che attraversa gli
stessi periodi di congedo in precedenza programmati.
È indubbio che il giustificativo dell’assenza di un dipendente deve essere
riconducibile ad un solo istituto giuridico: malattia o congedo
straordinario?
Il dipartimento della Funzione Pubblica, organo competente in materia, non
offre soluzioni interpretative che invece l’INPS ha fornito nella circolare
n. 64 del 15.03.2001 come segue: “Il verificarsi, per lo stesso soggetto,
durante il “congedo straordinario”, di altri eventi che di per sé potrebbero
giustificare una astensione dal lavoro, non determina interruzione nel
congedo straordinario. In caso di malattia o maternità è però fatta salva
una diversa esplicita volontà da parte del lavoratore o della lavoratrice
volta ad interrompere la fruizione del congedo straordinario, interruzione
che può comportare o meno, secondo le regole consuete, l’erogazione di
indennità a carico dell’INPS; in tal caso la possibilità di godimento, in
momento successivo, del residuo del congedo straordinario suddetto, è
naturalmente subordinata alla presentazione di nuova domanda. A proposito
della indennizzabilità o meno dell’evento di malattia o di maternità che
consente l’interruzione del congedo straordinario si sottolinea in
particolare che, considerato che la fruizione del congedo straordinario
comporta la sospensione del rapporto di lavoro, l’indennità è riconoscibile
solo se non sono trascorsi più di 60 giorni dall’inizio della sospensione
(in linea di massima coincidente, come è noto, con l’ultima prestazione
lavorativa)”.
Le indicazioni fornite dall’Inps valgono sicuramente per le aziende private,
per le quali l’Inps indennizza il congedo straordinario. Diversa è la
condizione della Pubblica Amministrazione, che si fa carico dell’indennità
di congedo straordinario e che può cautamente assumere gli indirizzi forniti
dall’Inps non trascurando la ratio degli istituti e la valenza sociale degli
interessi tutelati (31.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: L'assoluzione
piena del dipendente pubblico non basta da sola per il rimborso delle spese
legali.
La costituzione dell'ente come parte civile e la tipologia di reato
contestato contrario ai doveri d’ufficio possono essere rilevanti per
escludere il rimborso delle spese legali sostenute per la difesa del
dipendente pubblico, perché da sola sufficiente l'assoluzione piena non è
sufficiente.
Queste in sintesi le conclusioni della Corte di Cassazione - Sez. I civile
(ordinanza
29.01.2019 n. 2475).
I fatti
La vicenda riguarda l'assoluzione piena, disposta dal giudice penale, per il
reato di corruzione e con costituzione di parte civile da parte dell'ente.
Pur riguardando un amministratore regionale, la disciplina applicabile, per
espressa previsione delle legge regionale, è quella dei dipendenti delle
amministrazioni statali (articolo 18, comma 1, del Dl 67/1997). La richiesta
di rimborso delle spese legali sostenute da parte dell'amministratore ha
fatto seguito alla piena assoluzione del dipendente ma con rifiuto da parte
dell'ente.
Il Tribunale di primo grado ha confermato la non rimborsabilità delle spese
legali, in considerazione del conflitto di interessi reso evidente dalla
costituzione di parte civile dell'ente. Sulla stessa linea la sentenza della
Corte d’appello che, nonostante la piena formula assolutoria dai reati
ascritti, ha ritenuto che il reato di corruzione non potesse avere alcun
riferimento diretto a un espletamento di un servizio o all'assolvimento di
obblighi istituzionali. Infatti, il reato di corruzione è di per sé
sufficiente a ritenere che si versasse in una condotta contraria ai doveri
d'ufficio, di qui il conflitto di interessi con l'ente di appartenenza che
esclude la rimborsabilità delle spese.
Il ricorso in Cassazione è stato motivato per una non corretta
interpretazione, a dire dell'amministratore regionale, della normativa sul
conflitto di interessi, dove l'assoluzione piena nel giudizio penale ne
cancella sin dall'origine gli effetti, a nulla rilevando la costituzione di
parte civile dell'ente. Se ciò non fosse vero le funzioni del dipendente
verrebbero incise sin dall'inizio a prescindere dall'esito del procedimento
penale.
Le precisazioni della Cassazione
Secondo i giudici di legittimità il rimborso delle spese legali, reclamate
dal dipendente all'ente di appartenenza, devono obbligatoriamente trovare la
loro causa in un interesse della pubblica amministrazione. Questo interesse
si realizza solo qualora sussista un legame inscindibile con l'attività
espletata dal dipendente pubblico e un fine pubblico della funzione svolta.
Questo principio implica, pertanto, che ci sia un nesso di strumentalità tra
l'adempimento del dovere e il compimento dell'atto, nel senso che il
dipendente non avrebbe assolto i suoi compiti se non compiendo quel fatto o
quell'atto.
In conclusione, se l'accusa è quella di aver commesso un reato che contempli
l'ente locale come parte offesa (e, quindi, in oggettiva situazione di
conflitto di interessi), il diritto al rimborso non sorge affatto,
escludendo dunque che esso emerga solo nel momento in cui il dipendente sia
stato, in ipotesi, assolto dall'accusa.
Anche a voler escludere la costituzione di parte civile dell'ente, il
rimborso delle spese è stato negato in quanto l'imputazione penale ha
riguardato fatti di grave violazione dei doveri d'ufficio -delitto di
corruzione- che avrebbero potuto, qualora accertati positivamente,
legittimare l'ente a chiedere il risarcimento dei danni al dipendente.
L'assoluzione piena ha, invece, impedito che l'ente potesse reclamare un
risarcimento, non potendo in questo caso il dipendente chiedere anche il
rimborso delle spese sopportate in presenza di questi interessi contrapposti
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'11.02.2019).
---------------
MASSIMA
I primi due motivi, da esaminare congiuntamente poiché connessi,
sono infondati.
La Corte d'appello ha fatto corretta applicazione dei principi in materia a
tenore dei quali (v. Cass. n. 2366/2016) l'Amministrazione è legittimata a
contribuire alla difesa del suo dipendente imputato in un procedimento
penale sempre che sussista un interesse specifico al riguardo e tale
interesse è ravvisabile qualora sussista l'imputabilità dell'attività
all'Amministrazione stessa e dunque una diretta connessione di tale attività
con il fine pubblico (così anche Cass. n. 5718/2011; n. 24480/2013; Cass. n.
27871/2008; Cass., n. 20561/2018).
La connessione dei fatti con l'espletamento del servizio o con
l'assolvimento di obblighi istituzionali va intesa nel senso che tali atti e
fatti devono essere riconducibili all'attività funzionale del dipendente
stesso in un rapporto di stretta dipendenza con l'adempimento dei propri
obblighi, dovendo trattarsi di attività che necessariamente si ricollegano
all'esercizio diligente della pubblica funzione, nonché occorre che vi sia
un nesso di strumentalità tra l'adempimento del dovere e il compimento
dell'atto, nel senso che il dipendente non avrebbe assolto ai suoi compiti
se non compiendo quel fatto o quell'atto (Consiglio di Stato, 26.02.2013, n.
1190, e 22.12.1993, n. 1392).
Quanto all'ulteriore requisito costituito dall'assenza di un conflitto di
interessi con l'Amministrazione di appartenenza, preme rilevare che questa
Corte ha affermato che il conflitto d'interessi è rilevante
indipendentemente dall'esito del giudizio penale e dalla relativa formula di
assoluzione; ne consegue che al dipendente comunale, assolto
dall'imputazione, non compete il rimborso delle spese legali qualora il
giudice penale abbia evidenziato che i fatti ascrittigli esulavano dalla
funzione svolta e costituivano grave violazione dei doveri d'ufficio (Cass.
n. 2297/2014).
Pertanto, i motivi in esame non hanno fondamento in quanto vertono
esclusivamente sulla censura della decisione impugnata che non avrebbe
tenuto conto dell'assoluzione con la formula "perché il fatto non
sussiste", formula ritenuta erroneamente, di per sé, legittimante il
rimborso delle spese legali della difesa nel processo penale; invece, il
presupposto cui è subordinato tale rimborso consiste nel fatto che la
condotta di reato, come ascritta all'imputato, si ponga in violazione dei
doveri d'ufficio, con conseguente dissoluzione del rapporto
d'immedesimazione organica del dipendente con l'Ente di appartenenza.
In altri termini, ai fini del rimborso richiesto è necessario che il fatto
di reato oggetto dell'imputazione penale non configuri una fattispecie
ontologicamente in conflitto con i doveri d'ufficio che determini ipso facto
la legittimazione dello stesso Ente di costituirsi parte civile.
Da tale argomentazione discende che l'assoluzione, ancorché con la formula "piena",
non legittima il richiesto rimborso; il principio è stato ribadito da questa
Corte, secondo il cui orientamento se l'accusa è quella di aver commesso un
reato che contempli l'ente locale come parte offesa (e, quindi, in oggettiva
situazione di conflitto di interessi), il diritto al rimborso non sorge
affatto, escludendo dunque che esso emerga solo nel momento in cui il
dipendente sia stato, in ipotesi, assolto dall'accusa (Cass., ord. n.
18256/2018; in termini anche Cass. S.U., 04.06.2007 n. 13048). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Congedo papà
anno 2019.
Domanda
Il congedo obbligatorio dei papà è fruibile anche dai lavoratori pubblici o
solo dai privati? E cosa cambia nel 2019?
Risposta
Il congedo obbligatorio dei padri lavoratori nasce nella legge Fornero n. 92
del 26.06.2012 e riceve successiva disciplina nelle diverse Leggi di
Bilancio che hanno di volta in volta prorogato la disciplina sperimentale,
ampliando il congedo di anno in anno.
Si tratta di uno strumento di sostegno alla genitorialità che mira a
promuovere una cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei
figli all’intero della coppia.
Tuttavia, come ha avuto modo di chiarire anche il Dipartimento della
Funzione Pubblica con nota del 20.02.2013, la disciplina che regolamenta
questo istituto non è direttamente applicabile ai rapporti di lavoro dei
dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
Esistono due diversi tipi di congedo dei padri: quello obbligatorio e quello
facoltativo.
La disciplina di dettaglio dell’istituto, contenuta nel decreto del
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 22.12.2012, ha precisato
che, mentre i giorni di congedo obbligatorio sono aggiuntivi rispetto al
congedo di maternità, la fruizione, da parte del padre, del congedo
facoltativo, è invece condizionata alla scelta della madre lavoratrice di
non fruire di altrettanti giorni del proprio congedo di maternità, con
conseguente anticipazione del termine finale del congedo post partum
della madre, di un numero di giorni pari al numero di giorni fruiti dal
padre.
Quindi l’attenzione va rivolta a quei casi in cui un padre lavoratore
dipendente di un’azienda privata, goda del congedo facoltativo, “accorciando”
in questo modo di pari durata, il congedo obbligatorio della mamma
dipendente pubblica.
La disciplina vigente fino al 31.12.2018 è rappresentata in questo modo:
L. n. 92 del 28.06.2012 - Art. 24, comma a)
2013-2014-2015:
1 GIORNO OBBLIGATORIO - 2 GIORNI FACOLTATIVI
L. n. 208 del 28.12.2015 - Art. 1, comma 205
2016:
2 GIORNI OBBLIGATORI - 2 GIORNI FACOLTATIVI
Legge di Bilancio 2017 - Art. 1, comma 354
2017:
2 GIORNI OBBLIGATORI
2018:
4 GIORNI OBBLIGATORI - 1 GIORNO FACOLTATIVO
La legge di Bilancio del 2019, modifica e novella il contenuto del comma
354, art. 1, della Legge di Bilancio 2017, prevedendo per l’anno
2019 quanto segue:
• 5 giorni di congedo obbligatorio per il padre lavoratore
dipendente;
• 1 giorno di congedo facoltativo per il padre lavoratore
dipendente (24.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Assenteisti,
truffa aggravata anche se il danno è lieve.
È configurabile il reato di truffa aggravata per il dipendente che attesti
la sua presenza malgrado si sia allontanato dall'ufficio, anche se il danno
economico causato all'ente sia di per sé poco rilevante dal punto di vista
economico. Difatti, la condotta incide sull'organizzazione dell'ente stesso
e lede gravemente il rapporto fiduciario tra il singolo impiegato e il
datore di lavoro pubblico. In queste ipotesi può, eventualmente,
configurarsi l'attenuante della speciale tenuità del danno.
Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, Sez. II penale, con la
sentenza
23.01.2019 n. 3262.
Il caso
Al centro della vicenda c'è l'ennesimo caso di furbetti del cartellino.
Questa volta il protagonista è un solo dipendente pubblico, indagato per
truffa aggravata perché quasi quotidianamente, aggirando il sistema di
rilevazione dell'orario di presenza, decurtava minuti dalle sue giornate
lavorative. Per questo motivo il Gip aveva disposto la misura interdittiva
della sospensione dall'esercizio dei pubblici uffici per la durata di due
mesi.
Il dipendente pubblico però ha impugnato la decisione ottenendo dal
tribunale del riesame la revoca della misura. Per quest'ultimo, infatti, il
raggiro contestato era sì quasi quotidiano, ma di fatto inconsistente perché
avrebbe prodotto nel complesso assenze di pochi minuti quantificabili in
termini retributivi in poco più di 50 euro, traducendosi perciò in un danno
poco apprezzabile per la pubblica amministrazione.
La decisione
La Cassazione, con una sentenza concisa e ben argomentata, boccia totalmente
la decisione del riesame. Il Tribunale, infatti, ha escluso la
configurabilità della truffa valorizzando elementi che, al più, evidenziano
la sua non particolare gravità ma non ne impediscono la configurabilità. La
Corte ricorda che la falsa attestazione del pubblico dipendente relativa
alla sua presenza in ufficio, in qualunque modo essa avvenga, integra il
reato di truffa aggravata, sempre che i periodi di assenza siano
economicamente apprezzabili.
In quest'ottica, anche una indebita percezione
di poche centinaia di euro costituisce un danno economicamente apprezzabile
per il datore di lavoro pubblico, potendo l'esiguità della somma integrare
l'attenuante della speciale tenuità (articolo 62, comma 4, codice penale)
non certo impedire la configurabilità del reato previsto dall'articolo 640,
comma 2, n. 1, del codice penale.
Il Collegio rincara poi la dose affermando che per valutare l'entità del
danno non basta avere riguardo alla perdita economica ma assume rilievo
anche l'incidenza della condotta delittuosa sull'organizzazione dell'ente
pubblico, il quale potrebbe aver subito un pregiudizio rilevante per effetto
delle pur minime assenze, non tanto sotto un profilo quantitativo, ma sul
piano dell'efficienza degli uffici.
Per i giudici di legittimità, infatti, le singole assenze incidono
sull'organizzazione dell'ufficio «alterando la preordinata dislocazione
delle risorse umane» e «modificando arbitrariamente le prestabilite modalità
di prestazione della propria opera».
In sostanza, chiosa il Collegio, lo svolgimento della quotidiana attività
amministrativa è «messa a repentaglio dalle personali iniziative di quei
dipendenti che mutino a proprio piacimento i prestabiliti orari di presenza
in ufficio» e che forniscono una «prestazione diversa da quella
doverosa»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.01.2019).
----------------
MASSIMA
2. Ciò premesso, come osservato dal P.M. ricorrente, il Tribunale ha
erroneamente escluso la configurabilità della contestata truffa,
valorizzando elementi atti ad evidenziarne la non particolare gravità, ma
che non ne impedivano la configurabilità.
2.1. Questa Corte (Sez. 5, sentenza n. 8426 del 17/12/2013, dep. 2014, Rv.
258987 - 01) ha già osservato che la falsa attestazione del
pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata sui
cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, integra il reato di truffa
aggravata ove il soggetto si allontani senza far risultare, mediante
timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza,
sempre che questi ultimi siano economicamente apprezzabili, osservando che
anche una indebita percezione di poche centinaia di euro, corrispondente
alla porzione di retribuzione conseguita in difetto di prestazione
lavorativa, costituisce un danno economicamente apprezzabile per
l'amministrazione pubblica.
2.2. L'affermazione può essere condivisa, ma con la
precisazione che la speciale tenuità del danno arrecato alla PA potrebbe al
più legittimare il riconoscimento della circostanza attenuante di cui
all'art. 62, comma 1, n. 4, c.p. (tenuto anche conto dell'entità del
profitto percepito), non certo impedire la configurabilità del reato.
2.3. Questa Corte (Sez. 6, sentenza n. 30177 del 04/06/2013, Rv. 256643) ha
già chiarito che, anche ai fini della configurabilità della
circostanza attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità, rilevano,
oltre al valore economico del danno, anche gli ulteriori effetti
pregiudizievoli cagionati alla persona offesa dalla condotta delittuosa
complessivamente valutata (fattispecie relativa ad una truffa commessa in
danno di Poste Italiane S.p.A. attraverso l'utilizzo abusivo dei cartellini
di ingresso e la conseguente alterazione dei dati sulle presenze in ufficio,
in cui è stata esclusa l'attenuante, richiamando la grave lesione del
rapporto fiduciario determinata dalla condotta delittuosa).
2.4. Osserva, in proposito, il collegio che assume all'uopo
rilievo anche l'incidenza dell'accertata condotta delittuosa
sull'organizzazione dell'ente interessato, che ben potrebbe aver subito
pregiudizio rilevante per effetto delle pur minime assenze de quibus,
poiché esse (ed il danno che ne consegue a carico della PA interessata)
vanno valutate non soltanto sotto un profilo quantitativo, in riferimento al
quantum di retribuzione in ipotesi indebitamente percepito dal deceptor,
ma anche in quanto mettano in pericolo l'efficienza degli uffici: le singole
assenze incidono, infatti, sull'organizzazione dell'ufficio, alterando la
preordinata dislocazione delle risorse umane, nella quale il singolo
funzionario non può ingerirsi, modificando arbitrariamente le prestabilite
modalità di prestazione della propria opera quanto agli specifici orari di
presenza.
La dislocazione degli impiegati nei singoli uffici è,
infatti, predisposta dai dirigenti a ciò preposti curando l'utile e
razionale impiego delle risorse disponibili, al fine di assicurare la
proficuità (anche in favore dell'utenza) dello svolgimento della quotidiana
attività amministrativa, certamente messa a repentaglio dalle personali
iniziative di quei dipendenti che mutino a proprio piacimento i prestabiliti
orari di presenza in ufficio (con il rischio di creare nocive scoperture ed
inutili accavallamenti, e comunque fornendo una prestazione diversa da
quella doverosa, non soltanto per durata, ma anche quanto all'orario di
inizio e di fine).
3. Il provvedimento impugnato va, pertanto, annullato, con rinvio per nuovo
esame al Tribunale di Reggio Calabria (Sezione per il riesame delle misure
coercitive), che valuterà nuovamente gli elementi acquisiti, uniformandosi
al seguente principio di diritto: «la falsa attestazione
del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata sui
cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, integra il reato di truffa
aggravata ove il soggetto si allontani senza far risultare, mediante
timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza,
che rilevano di per sé -anche a prescindere dal danno economico cagionato
all'ente truffato fornendo una prestazione nel complesso inferiore a quella
dovuta- in quanto incidono sull'organizzazione dell'ente stesso, modificando
arbitrariamente gli orari prestabiliti di presenza in ufficio, e ledono
gravemente il rapporto fiduciario che deve legare il singolo impiegato
all'ente; di tali ultimi elementi è necessario tenere conto anche ai fini
della valutazione della configurabilità della circostanza attenuante di cui
all'art. 62, comma 1, n. 4 c.p.». |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO:
Progressioni
verticali.
Domanda
Quali sono le modalità per realizzare le progressioni di carriera?
Risposta
A legislazione vigente esistono due normative che ammettono le progressioni
di carriera. La prima è l’art. 24 del d.lgs. 150/2009 (Brunetta):
Art. 24. Progressioni di carriera
“1. Ai sensi dell’articolo 52, comma 1-bis, del decreto legislativo n.
165 del 2001, come introdotto dall’articolo 62 del presente decreto, le
amministrazioni pubbliche, a decorrere dal 1° gennaio 2010, coprono i posti
disponibili nella dotazione organica attraverso concorsi pubblici, con
riserva non superiore al cinquanta per cento a favore del personale interno,
nel rispetto delle disposizioni vigenti in materia di assunzioni.
2. L’attribuzione dei posti riservati al personale interno è finalizzata a
riconoscere e valorizzare le competenze professionali sviluppate dai
dipendenti, in relazione alle specifiche esigenze delle amministrazioni”.
La seconda è l’art. 22, comma 15, del d.lgs. 75/2017 (Madia):
Art. 22, comma 15
“Per il triennio 2018-2020, le pubbliche amministrazioni, al fine di
valorizzare le professionalità interne, possono attivare, nei limiti delle
vigenti facoltà assunzionali, procedure selettive per la progressione tra le
aree riservate al personale di ruolo, fermo restando il possesso dei titoli
di studio richiesti per l’accesso dall’esterno. Il numero di posti per tali
procedure selettive riservate non può superare il 20 per cento di quelli
previsti nei piani dei fabbisogni come nuove assunzioni consentite per la
relativa area o categoria. In ogni caso, l’attivazione di dette procedure
selettive riservate determina, in relazione al numero di posti individuati,
la corrispondente riduzione della percentuale di riserva di posti destinata
al personale interno, utilizzabile da ogni amministrazione ai fini delle
progressioni tra le aree di cui all’articolo 52del decreto legislativo n.
165 del 2001”.
Nel primo caso la norma fa riferimento ai concorsi pubblici e ammette una
riserva non superiore al 50% a favore del personale interno.
In altre parole, l’ente può bandire un concorso per la copertura di due
posti (ad esempio: Istruttore Direttivo Amministrativo, Cat. D), di cui uno
riservato a personale interno che risulta idoneo nella graduatoria. In
questo caso, quindi, la riserva –per forza– deve essere calcolata sui posti
messi a concorso svolgendo prima le procedure di mobilità di cui all’art.
34-bis e all’art. 30 del d.lgs. 165/2001.
Nel secondo caso il riferimento è al 20% dei posti previsti nei piani
triennali dei fabbisogni 2018/2020, ma non si parla di posti messi a
concorso pubblico.
In questo caso, quindi, la riserva del 20% si può applicare sui posti che
l’ente, in base al Piano Triennale del fabbisogni, può assumere nel
triennio. Quindi, se i posti sono CINQUE, uno può essere coperto con una
procedura selettiva riservata al personale interno.
Ne restano quattro. Se di questi 4 posti, uno viene ricoperto con la
mobilità di cui all’art. 30, comma 2-bis, del d.lgs. 165/2001, ciò non
inficia la regolarità della procedura. Il riferimento è all’art. 30, comma
2-bis, perché quella è la procedura di mobilità che è propedeutica
all’indizione del concorso pubblico. Si ricorda, infine, che la norma “Madia”
è valida solo per il triennio 2018/2020 (17.01.2019 - tratto da e
link a www.publika.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Dirigenti,
niente compenso extra per gli incarichi in più.
Gli incarichi aggiuntivi che comportano la reggenza ad interim di altre
unità organizzative diverse da quella di cui il dirigente è titolare non
implicano la duplicazione della retribuzione, trattandosi di funzioni
rientranti nei compiti istituzionali del dirigente pubblico e non di
funzioni diverse ed ulteriori per le quali esista una precisa e specifica
previsione che attribuisca il relativo potere e preveda un compenso
aggiuntivo.
Lo afferma la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con l'ordinanza
15.01.2019 n. 836 .
Il caso
Il caso riguarda il dirigente di una Asl il quale aveva chiesto in sede
giudiziale il riconoscimento, in aggiunta al trattamento retributivo
percepito, dell'indennità di posizione e di risultato per il periodo in cui
aveva ricoperto altri incarichi dirigenziali in aggiunta a quello di cui era
titolare. Richiesta accolta dal Tribunale, secondo cui l’attività non
rientra nei compiti e nelle funzioni proprie del dirigente.
L'appello proposto dall'Asl, che ha invocato l'applicazione del principio di
onnicomprensività della retribuzione dei dirigenti, è stato rigettato dalla
Corte d'appello, la quale ha a sua volta ritenuto che l'attività svolta dal
dirigente non rientrava tra i compiti istituzionali strettamente connessi
all'incarico conferito, per cui non avrebbe potuto trovare applicazione il
principio di onnicomprensività.
L'onnicomprensività
Di tutt'altro avviso la Corte di cassazione, chiamata in causa dalla Asl
secondo cui il contratto ha definito la struttura della retribuzione
prevedendo, oltre allo stipendio tabellare, solo la retribuzione di
posizione e di risultato, per cui anche in relazione al conferimento di
incarichi ad interim deve valere il principio di onnicomprensività.
La Suprema Corte ha richiamato il principio ormai consolidato secondo cui
nel pubblico impiego privatizzato vige il principio di onnicomprensività
della retribuzione dirigenziale, in ragione del quale il trattamento
economico remunera tutte le funzioni e i compiti attribuiti ai dirigenti
secondo il contratto individuale o collettivo, nonché qualsiasi incarico
conferito dall'amministrazione di appartenenza o su designazione della
stessa.
Nel caso specifico, anche se la reggenza ad interim comportasse
contemporaneamente l'assunzione di responsabilità di due distinte unità
operative, secondo i giudici della Cassazione non può spettare la
duplicazione della retribuzione, trattandosi sempre di funzioni rientranti
nei compiti istituzionali del dirigente pubblico e non di funzioni diverse
ed ulteriori per le quali esista una precisa e specifica previsione che
attribuisca il relativo potere e preveda un compenso aggiuntivo.
La posizione dell'Aran
Più aperta la posizione dall'Aran, espressa più volte in sede di
orientamenti applicativi dei contratti della dirigenza. L'Agenzia sostiene
che è da escludere radicalmente che a un dirigente possano essere erogate
due o più retribuzioni di posizione. Tuttavia, sfruttando le clausole
contrattuali che impongono di utilizzare integralmente le risorse destinate
al finanziamento della retribuzione di posizione e destinare quelle
eventualmente residue per la retribuzione di risultato, l'Agenzia ritiene
che sia possibile utilizzare tali risorse per valorizzare il risultato dei
dirigenti incaricati ad interim in modo da tenere conto anche delle
responsabilità connesse alla gravosità della situazione determinatasi per
effetto dell'affidamento di più incarichi contemporaneamente.
La valorizzazione deve essere realizzata tenendo conto dei criteri di
determinazione del valore della retribuzione di risultato adottati dai
singoli enti che tengano conto anche del “peso” dell'incarico ad interim e
del maggiore impegno che complessivamente grava sul dirigente per effetto
del doppio incarico.
La retribuzione di risultato erogata al dirigente dovrà
dunque tenere conto della valutazione complessiva dei risultati conseguiti
dallo stesso nell'espletamento degli incarichi conferiti, secondo le
modalità stabilite dal sistema di valutazione adottato, escludendo che si
possa operare un semplice riproporzionamento del maggiore importo della
retribuzione di risultato stabilito in relazione alla durata temporale
dell'incarico ad interim
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.02.2019).
---------------
MASSIMA
1. Con unico motivo di ricorso la Asl denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt. 2, terzo comma, e 24, terzo comma, e dell'art. 58
d.lgs. 165/2001 in relazione all'art. 360 n. 3 cod. proc. civ. per erronea
applicazione del principio di onnicomprensività della retribuzione dei
dipendenti pubblici.
Sostiene che la pronuncia impugnata si pone in contrasto con l'indirizzo
consolidato sia della giurisprudenza ordinaria che di quella contabile, che
proprio nella specifica materia si è più volte pronunciata in relazione al
profilo del danno erariale conseguente all'illegittima duplicazione della
retribuzione di posizione in favore del dirigente.
In particolare, la contrattazione collettiva dirigenziale del comparto
sanità ha definito la struttura della retribuzione prevedendo, oltre allo
stipendio tabellare, solo la retribuzione di posizione e di risultato, per
cui anche in relazione al conferimento di incarichi ad interim vige il
principio di onnicomprensività. In ogni caso, poi, gli incarichi di
dirigenza ad interim affidati al dott. Sa. mai potrebbero ritenersi
incarichi extraistituzionali, ai sensi e per gli effetti dell'art. 58 d.lgs.
165 del 2001.
2. Il ricorso merita accoglimento.
3. In via generale, va osservato che la giurisprudenza di legittimità
formatasi negli ultimi anni ha affermato il principio -da ritenere ormai
consolidato- secondo cui nel pubblico impiego privatizzato vige il principio
di onnicomprensività della retribuzione dirigenziale, in ragione del quale
il trattamento economico dei dirigenti remunera tutte le funzioni e i
compiti loro attribuiti secondo il contratto individuale o collettivo,
nonché qualsiasi incarico conferito dall'amministrazione di appartenenza o
su designazione della stessa. Così è stato ritenuto che
il dirigente
ministeriale, cui sia stato conferito un incarico aggiuntivo di reggenza
presso un altro ufficio pubblico, non ha diritto ad una maggiore
remunerazione, né, in caso di conferimento illegittimo di tale incarico, può
trovare applicazione l'art. 2126 cod. civ., riferibile alle ipotesi in cui
la prestazione lavorativa sia eseguita in assenza di titolo per la nullità
del rapporto di lavoro e non a quelle in cui i compiti attribuiti, sia pure
sulla base di determinazioni amministrative illegittime, siano comunque
riconducibili alla qualifica posseduta (Cass. n. 3094 del 2018).
3.1. Specificamente, quanto alla dirigenza medica, è stato chiarito che il
principio dì onnicomprensività della retribuzione, affermato dagli artt. 24,
comma 3, e 27, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, nonché dall'art. 60,
comma 3, del c.c.n.l. comparto dirigenza sanitaria dell'08.06.2000, opera
inderogabilmente in tutti i casi in cui l'attività svolta sia riconducibile
a funzioni e poteri connessi all'ufficio ricoperto, ed a mansioni cui il
dirigente è obbligato rientrando nei normali compiti di servizio, salvi i
soli incarichi retribuiti a titolo professionale dall'Amministrazione sulla
base di una norma espressa che gliene attribuisca il potere, sempre che ciò
non costituisca comunque espletamento di compiti di istituto (Cass. n. 8261
del 2017).
4. Poiché nel caso in esame è pacifico che gli incarichi aggiuntivi
concernevano la reggenza ad interim di altre unità operative diverse da
quella di cui il Santoro era titolare, ancorché ciò comportasse
contemporaneamente l'assunzione di (responsabilità di due distinte unità
operative, non può 'spettare la duplicazione della retribuzione, trattandosi
sempre di funzioni rientranti nei compiti istituzionali del dirigente
pubblico e non di funzioni diverse ed ulteriori per le quali esista una
precisa e specifica previsione che attribuisca il relativo potere e preveda
un compenso aggiuntivo.
5. Il ricorso va dunque accolto e la sentenza va cassata. |
PUBBLICO
IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
Responsabile Trasparenza e Responsabile Protezione Dati.
Domanda
Nel nostro comune (sopra 15.000 abitanti) è stato nominato Responsabile
della Prevenzione della Corruzione, il segretario comunale, che è anche
Responsabile della Trasparenza.
Dopo il nuovo Regolamento Europeo sulla privacy, abbiamo nominato anche il
Responsabile per la Protezione dei Dati che è un dipendente dell’ente.
Che rapporto ci deve essere tra le due figure? È possibile nominare RPD il
RPCT?
Risposta
Prima di entrare nel merito specifico del quesito è bene fornire qualche
indicazione di contesto.
Quello appena trascorso, si potrebbe definire come l’anno della privacy, dal
momento che hanno trovato attuazione le seguenti disposizioni legislative:
1. Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio
del 27.04.2016 “relativo alla protezione delle persone fisiche con
riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione
di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (Regolamento generale sulla
protezione dei dati)” pienamente operativo dal 25.05.2018;
2. Decreto legislativo 18.05.2018, n. 51, in vigore dal 08.06.2018,
recante Attuazione della direttiva (UE) 2016/680 del Parlamento europeo e
del Consiglio, del 27.04.2016, relativa alla protezione delle persone
fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle
autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e
perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera
circolazione di tali dati e che abroga la decisione quadro 2008/977/GAI del
Consiglio, (trattamento dei dati giudiziari);
3. Decreto legislativo 10.08.2018, n. 101, in vigore dal
19.09.2018, recante “Disposizioni per l’adeguamento della normativa
nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 27.04.2016, relativo alla protezione delle
persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla
libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE
(regolamento generale sulla protezione dei dati)”.
Per ciò che riguarda il trattamento dei dati personali da parte di soggetti
pubblici, ai fini della trasparenza, così come disciplinata dal d.lgs.
33/2013, è necessario sottolineare che l’art. 2-ter, del d.lgs. 196/2003
–aggiunto dal d.lgs. 101/2018– dispone che la base giuridica per il
trattamento dei dati, effettuato per l’esecuzione di un compito di interesse
pubblico “è costituita esclusivamente da una norma di legge o, nei casi
previsti dalla legge, di regolamento”.
Il regime normativo del trattamento dei dati delle persone fisiche, da parte
dei soggetti pubblici, pertanto, è rimasto sostanzialmente inalterato,
venendo ribadito il principio che il trattamento dei dati risulta consentito
unicamente se ammesso da una norma di legge o di regolamento, dove previsto
da una legge.
Per i comuni, quindi, resta acclarato che, prima di pubblicare nel proprio
sito web (Albo pretorio on-line e/o Amministrazione trasparente) dati e
documenti contenenti dati personali (sia in forma integrale o in estratto,
compresi gli allegati), occorre verificare che la disciplina in materia di
trasparenza contenuta nel d.lgs. n. 33/2013 o in altre normative, anche di
settore, preveda un espresso obbligo di pubblicazione.
A completamento della presente premessa, è bene ricordare, tuttavia, che
l’attività di pubblicazione dei dati sui siti web per finalità di
trasparenza –anche se effettuata in presenza di idoneo presupposto
normativo– deve sempre avvenire nel rispetto di tutti i principi applicabili
al trattamento dei dati personali [1],
quali quelli di liceità, correttezza e trasparenza; minimizzazione dei dati;
esattezza; limitazione della conservazione; integrità e riservatezza tenendo
anche conto del principio di “responsabilizzazione” del titolare del
trattamento.
In particolare, assumono rilievo i principi di adeguatezza, pertinenza e
limitazione a quanto necessario, rispetto alle finalità per le quali i dati
personali sono trattati («minimizzazione dei dati») e quelli di
esattezza e aggiornamento dei dati, con il conseguente dovere di adottare
tutte le misure ragionevoli per cancellare o rettificare tempestivamente i
dati inesatti rispetto alle finalità per le quali sono trattati.
Per ciò che attiene ai rapporti tra Responsabile della Trasparenza e
Responsabile della Protezione dei Dati, alcuni spunti di sicuro interesse
sono rinvenibili nella delibera ANAC n. 1074 del 21/11/2018 (pubblicata
sulla GU n. 296 del 21/12/2018), al Paragrafo 7, rubricato “Trasparenza e
nuova disciplina della tutela dei dati personali (Reg. UE 2016/679)”.
In sintesi, nel documento citato che contiene “Approvazione definitiva
dell’Aggiornamento 2018 al Piano Nazionale Anticorruzione”, l’ANAC
sostiene che:
a) se si tratta di due soggetti interni (si ricorda che il RPD
potrebbe anche essere soggetto esterno all’ente), è bene le due figure non
siano coincidenti nella stessa persona (il Segretario comunale, nei comuni),
dal momento che la sovrapposizione dei due ruoli potrebbe determinare una
limitazione allo svolgimento delle due attività, tenuto conto dei numerosi
compiti e responsabilità che le norme attribuiscono al RPCT e al RPD;
b) Eventuali eccezioni possono essere ammesse solo in enti di
piccoli dimensioni (comuni sotto 5.000 abitanti, per esempio) qualora la
carenza di personale renda, da un punto di vista organizzativo, non
possibile tenere distinte le due funzioni. In tali casi, le amministrazioni,
con motivato e specifico provvedimento (del Sindaco), potranno attribuire
allo stesso soggetto il ruolo di RPCT e RPD;
c) Il RPD, per le questioni di carattere generale riguardanti il
trattamento e la protezione dei dati personali, può certamente rappresentare
una figura di riferimento anche per il RPCT, anche se non potrà mai
sostituirsi ad esso nell’esercizio delle sue specifiche prerogate, stabilite
dalle legge 190/2012 e dalle successive disposizioni. Si pensi, al riguardo,
alla stesura della sezione Trasparenza del Piano Anticorruzione o alla
definizione delle istanze di riesame, nell’ambito dell’accesso civico
generalizzato (cd. FOIA), qualora la decisione del servizio detentore
dell’atto o del documento, riguardi profili attinenti alla protezione dei
dati. In tali casi, infatti, per obbligo di legge, il RPCT deve richiedere
un parere al Garante Privacy italiano ed è tenuto ad attenersi a quanto da
esso stabilito, a prescindere da una eventuale e preventiva consultazione
che l’ufficio, in prima istanza, possa aver intrattenuto con il RPD.
---------------
[1] Vedi art. 5, Regolamento UE 2016/679 (15.01.2019 - tratto
da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Cumulo congedo biennale e permessi l. 104/1992.
Domanda
Un dipendente è stato collocato in congedo straordinario ex art. 42, comma
5, del d.lgs. 151/2001 per il periodo dal 1 gennaio al 28 gennaio.
Lo stesso ha fatto pervenire all’ente una richiesta di permessi ex art. 33
della l. 104/1992 per i giorni 29, 30 e 31 gennaio. È possibile accogliere
la summenzionata richiesta?
Risposta
Occorre in primis rilevare che il d.lgs. 119/2011 ha parzialmente
riordinato la normativa in materia del congedo (parentale e straordinario) e
di permessi per l’assistenza a persone con disabilità grave modificando
l’articolo 42, comma 5, del d.lgs. 151/2001.
Infatti, fino all’entrata in vigore del d.lgs. 119/2011, permessi e congedo
straordinario erano considerati due benefici aventi la medesima finalità,
ragion per cui non era prevista la possibilità di contemporanea fruizione (cumulabilità
invece ammessa esplicitamente per i permessi l. 104/1992 e congedo parentale
ordinario o congedo per la malattia del figlio).
Con l’entrata in vigore del citato d.lgs. 119/2011 il cumulo è invece
possibile.
Possibilità che è stata recepita dal Dipartimento della Funzione Pubblica
con
circolare n. 1 del 03/02/2012.
Si segnala che di recente l’INPS è ritornata sull’argomento con il
messaggio n. 3114 del 07.08.2018, nella quale al punto 4 ha avuto
modo di precisare che “è possibile cumulare nello stesso mese, purché in
giornate diversi, i periodi di congedo straordinario ex art. 42, comma 5,
del d.lgs. n. 151/2001 con i permessi ex art. 33 della legge n. 104/1992 ed
ex art. 33, comma 1, del d.lgs. n. 151/2001 (3 giorni di permesso mensili,
prolungamento del congedo parentale e ore di riposo alternative al
prolungamento del congedo parentale). Si precisa, al riguardo, che i periodi
di congedo straordinario possono essere cumulati con i permessi previsti
dall’articolo 33 della legge n. 104/1992 senza necessità di ripresa
dell’attività lavorativa tra la fruizione delle due tipologie di benefici.
Quanto sopra può accadere anche a capienza di mesi interi e
indipendentemente dalla durata del congedo straordinario” (10.01.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Incarichi
a contratto, niente spoils system nei Comuni.
L'incarico dirigenziale a contratto secondo quanto
previsto dall'articolo 110 del Tuel deve avere durata minima triennale e non
cessa automaticamente alla scadenza del mandato elettivo del sindaco o del
presidente della Provincia.
Lo sostiene il TAR Puglia-Lecce, Sez. III, con l'ordinanza
09.01.2019 n. 14.
La questione
Il ricorrente ha chiesto l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia,
dell'avviso pubblico di selezione indetta dalla Provincia di Taranto per il
conferimento di incarico a tempo determinato di un dirigente secondo
l’articolo 110, comma 1, del Tuel. Sulla materia esistono due riferimenti
normativi:
• quello generale, applicabile a tutte le Pa, espresso
dall'articolo 19 del Dlgs 165/2001, il cui comma 6 dispone che la durata
degli incarichi non può eccedere il termine di tre per quelli di livello
generale anni, di cinque per gli altri;
• e quello speciale per gli enti locali, contenuto all'articolo 110
del Tuel, che al comma 3 lega la durata degli incarichi dirigenziali al
mandato elettivo del sindaco o del presidente della Provincia in carica.
Il termine
Facendo riferimento a un apparato giurisprudenziale espresso dalla sezione
lavoro della Cassazione, il Tar Puglia rammenta che negli enti locali si
deve applicare il Dlgs 165/2001 e non già il Tuel. E questo perché la
disciplina statale integra quella degli enti locali: la prima, con la
predeterminazione della durata minima dell'incarico, è volta a evitare il
conferimento di incarichi troppo brevi e a consentire al dirigente di
esercitare il mandato per un tempo sufficiente a esprimere le sue capacità e
a conseguire i risultati per i quali l'incarico gli è stato affidato; la
seconda ha la funzione di fornire al sindaco/presidente uno strumento per
affidare incarichi di rilievo sulla base dell'intuitus personae, anche al di
fuori di un rapporto di dipendenza stabile e oltre le dotazioni organiche e
di garantire la collaborazione del funzionario incaricato per tutto il
periodo del mandato, fermo restando il rispetto del suddetto termine minimo
nell'ipotesi di cessazione di tale mandato.
Questo è tanto più vero alla luce delle modifiche introdotte all'articolo
110, comma 1, dall'articolo 11, comma 1, lettera a), del Dl 90/2014, in base
al quale gli incarichi a contratto devono essere conferiti previa selezione
pubblica volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di
comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie
oggetto dell' incarico.
Niente spoils system
Sulla base di questa posizione espressa dalla Suprema Corte, i giudici del
Tar Puglia concludono che l'incarico dirigenziale deve avere durata minima
triennale e non può interrompersi automaticamente alla scadenza del mandato
elettivo del presidente della provincia, come diretta applicazione
dell'articolo 19 del Dlgs 165/2001, applicabile agli enti locali anche nel
caso degli incarichi dirigenziali a soggetti esterni in base all’articolo
110.
Rilevano dunque i presupposti per la sospensione dell'efficacia dell'avviso
pubblico di selezione per il conferimento dell'incarico e disapplicano, in
via incidentale e cautelare, il decreto di nomina. Per la sentenza occorrerà
attendere il prossimo 2 ottobre, data fissa dal collegio per la trattazione
di merito del ricorso
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.01.2019).
---------------
MASSIMA
Ritenuto, ad una sommaria delibazione propria della presente fase cautelare
del giudizio:
- che non sembrano fondate le eccezioni preliminari formulate dalla
Provincia di Taranto e che, in particolare, appare sussistere la
giurisdizione del Giudice Amministrativo, in quanto, nella fattispecie
concreta in esame, la gravata determinazione dirigenziale n. 178 del 21.11.2018 (di approvazione dell’avviso pubblico per il conferimento di
incarico a tempo determinato, ex art. 110 del Decreto Legislativo n.
267/2000) e, quindi, il relativo avviso pubblico sono stati adottati in data
successiva e non già antecedente rispetto agli atti impugnati connessi
(decreto del Presidente della Provincia di Taranto n. 99 del 15.11.2018 e atto dirigenziale prot. n. 35837 del 19.11.2018), sicché i
provvedimenti macro-organizzativi in questione, in quanto consequenziali,
non possono configurarsi quali atti presupposti degli atti gestionali di che
trattasi;
- che il ricorso risulta assistito dal necessario fumus boni iuris,
considerato:
- che “In tema di affidamento, negli enti locali, di incarichi
dirigenziali a soggetti esterni all’amministrazione si applica il D.Lgs. n.
165 del 2001, art. 19, nel testo modificato dal D.L. n. 155 del 2005, art.
14-sexies, convertito con modificazioni nella L. n. 168 del 2005, secondo
cui la durata di tali incarichi non può essere inferiore a tre anni né
eccedere il termine di cinque, e non già il D.Lgs. n. 257 del 2000, art.
110, comma 3 (T.U. Enti locali), il quale stabilisce che la incarichi a
contratto non possono avere durata superiore al mandato elettivo del Sindaco
in carica. La disciplina statale integra quella degli enti locali: la prima,
con la predeterminazione della durata minima dell'incarico, è volta ad
evitare il conferimento di incarichi troppo brevi ed a consentire al
dirigente di esercitare il mandato per un tempo sufficiente ad esprimere le
sue capacità ed a conseguire i risultati per i quali l’incarico gli è stato
affidato; la seconda ha la funzione di fornire al Sindaco uno strumento per
affidare incarichi di rilievo sulla base dell’intuitus personae, anche al di
fuori di un rapporto di dipendenza stabile e oltre le dotazioni organiche, e
di garantire la collaborazione del funzionario incaricato per tutto il
periodo del mandato del Sindaco, fermo restando il rispetto del suddetto
termine minimo nell’ipotesi di cessazione di tale mandato” (Cassazione
Civile, Sezione Lavoro, 13.01.2014, n. 478, tuttora e vieppiù
condivisibile alla luce delle modifiche introdotte al testo del citato art.
110 T.U.E.L. dall’art. 11, comma 1, lett. a), del Decreto Legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla Legge 11.08.2014, n.
114 - obbligo di previa selezione pubblica; si veda, anche, per analoghe
considerazioni, Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 05.05.2017, n. 11015);
- che, quindi, appare fondata ed assorbente la prima censura, in
quanto l’incarico dirigenziale del ricorrente (dirigente del Settore
Pianificazione e Ambiente, incarico non apicale, ma di tipo tecnico-professionale, involgente lo svolgimento di funzioni gestionali e di
esecuzione rispetto agli indirizzi politici deliberati dagli Organi di
governo degli Enti di riferimento, pure attribuito all’esito di selezione
pubblica) deve avere durata minima triennale (e, pertanto, con scadenza il
20.11.2020), anziché (automaticamente) alla scadenza del mandato
elettivo del Presidente della Provincia, ai sensi dell’art. 19 del Decreto
Legislativo n. 165/2001 e successive modifiche ed integrazioni, applicabile
agli Enti Locali anche nel caso degli incarichi dirigenziali a soggetti
esterni ex art. 110 del Decreto Legislativo n. 267/2000;
- sussistono, pertanto, i presupposti per la invocata sospensione
dell’efficacia della determinazione dirigenziale n. 178 del 21.11.2018
della Provincia di Taranto e del relativo avviso pubblico di selezione per
il conferimento di incarico a tempo determinato di Dirigente, ex art. 110,
comma 1, del Decreto Legislativo n. 267/2000, con disapplicazione, in via
incidentale e cautelare, ai sensi dell’art. 8, comma 1 del c.p.a., dell’atto
dirigenziale prot. n. 35837 del 19.11.2018 e del Decreto del
Presidente della Provincia di Taranto n. 99 del 15.11.2018, in parte
qua e nei limiti dell’interesse del ricorrente (e, peraltro, con ordinanza
n. 174/2019, il Tribunale Civile di Taranto - Sezione Lavoro ha accolto il
ricorso proposto ex art. 700 c.p.c., ordinando, per l’effetto, in via
provvisoria alla Provincia di Taranto di riconoscere al ricorrente il
diritto a svolgere, fino al 20.11.2020, l’incarico di Dirigente del
Settore Pianificazione e Ambiente, conferitogli ex art. 110 del Decreto
Legislativo n. 267/2000);
Rilevata, altresì, la sussistenza del danno grave ed irreparabile; |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Codice di
comportamento.
Domanda
Il nostro comune ha approvato il codice di comportamento di ente a gennaio
2014, secondo le indicazioni del d.p.r. 62/2013 e la delibera ANAC n. 75 del
24.10.2013. Dobbiamo procedere all’approvazione di un nuovo codice?
Risposta
Tra le numerose misure previste dalla legge Severino (legge 06.11.2012, n.
190) in materia di prevenzione della corruzione, l’adozione del Codice di
comportamento di amministrazione, rappresenta una delle misure più
significative e pregnanti, dal momento che riguarda lo strumento con cui
vengono regolate le condotte dei dirigenti e dei dipendenti, finalizzandole
verso una migliore attenzione per l’interesse pubblico e l’imparzialità
della pubblica amministrazione, prevista dall’art. 97 della costituzione.
La materia risulta, ad oggi, disciplinata dal nuovo articolo 54 del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, rubricato, appunto, “Codice di
comportamento”.
La vigente normativa prevede, infatti:
a) un codice nazionale, definito dal Governo e approvato con
decreto del Presidente della Repubblica (DPR 16.04.2013, n. 62), la cui
violazione è “fonte di responsabilità disciplinare”;
b) un codice per ogni amministrazione pubblica, definito con “procedura
aperta alla partecipazione” e con parere obbligatorio dell’OIV o NdV, la
cui violazione è anch’essa fonte di responsabilità disciplinare.
Entrambi i codici devono essere pubblicati, nel sito web istituzionale,
nella sezione Amministrazione trasparente> Disposizioni generali> Atti
generali.
È bene, inoltre, ricordare (art. 2, DPR 62/2013) che i codici di
comportamento, per quanto compatibili, si applicano anche:
– a tutti i collaboratori e consulenti con qualsiasi tipologia di
contratto o incarico e a qualsiasi titolo;
– ai titolari di organi e di incarichi negli uffici di diretta
collaborazione delle autorità politiche;
– ai collaboratori, a qualsiasi titolo, di imprese fornitrici di
beni o servizi e che realizzano opere in favore dell’amministrazione.
Sulla pratica e concreta applicazione delle norme contenute nei due codici
(nazionale e di ente) devono vigilare i dirigenti o le posizioni
organizzative, negli enti senza la dirigenza, nonché le strutture di
controllo interno (art. 147, TUEL 267/2000) e gli UPD (Uffici Provvedimenti
Disciplinari, art. 55-bis, d.lgs. 165/2001).
Chiarito ciò, rispondendo al quesito, è possibile sostenere che, al momento
attuale, nessuna norma di legge prevede l’obbligo di procedere alla
revisione del codice di comportamento approvato nell’ente, qualche anno fa.
Possiamo aggiungere, però, che la materia è oggetto di specifico studio da
parte dell’ANAC, che sta svolgendo un doveroso approfondimento sui punti più
rilevanti della disciplina, partendo dalla constatazione della scarsa
innovatività dei codici di amministrazione “di prima generazione”,
approvati – come prevedeva la norma – entro sei mesi dall’emanazione del DPR
62/2013.
Secondo l’ANAC, infatti, nella stragrande maggioranza dei casi, il codice di
ente si è limitato a riprodurre le previsioni del codice nazionale,
omettendo di individuare quegli obiettivi di lunga durata, finalizzati alla
riduzione del rischio corruttivo. Per tale ragione l’ANAC (delibera n. 1074
del 21/11/2018, Parte Generale, Paragrafo 8 “I codici di comportamento”),
ha previsto di emanare delle apposite Linee guida sull’adozione dei nuovi
codici di comportamento di amministrazione (definiti “di seconda
generazione”), preannunciando che le suddette Linee guida saranno
emanate nei primi mesi dell’anno 2019.
Alla luce del manifestato intendimento dell’ANAC, è consigliabile procedere
all’approvazione del Piano triennale Anticorruzione e Trasparenza 2019/2012,
secondo la normale scadenza di legge del 31.01.2019, riservandosi di “mettere
mano” al nuovo codice di comportamento di amministrazione –che dovrà
essere approvato sempre previo svolgimento della procedura aperta– appena
saranno applicabili le Linee guida dell’ANAC sulla specifica materia (08.01.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
|