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81-PERMESSO DI COSTRUIRE (deroga)
82-PERMESSO DI COSTRUIRE (legittimazione richiesta titolo)
83-PERMESSO DI COSTRUIRE (parere commissione edilizia)
84-PERMESSO DI COSTRUIRE (prescrizioni)
85-PERMESSO DI COSTRUIRE (proroga)
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87
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88-
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90-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI (aree a standard)
91-PIF (Piano Indirizzo Forestale)
92-PISCINE
93-PUBBLICO IMPIEGO
94-PUBBLICO IMPIEGO (quota annuale iscrizione ordine professionale)
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96-
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dossier PUBBLICO IMPIEGO
(N.B.: nel presente dossier non sono ricomprese le news pubblicate nel dossier Dipartimento della Funzione Pubblica nonché nel dossier SINDACATI & ARAN)
norme principali di riferimento:

D.P.R. 10.01.1957 n. 3
(Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato)
*

D.Lgs. 30.03.2001 n. 165
(Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche)
*

D.Lgs. 08.04.2013 n. 39
(Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell'articolo 1, commi 49 e 50, della legge 06.11.2012, n. 190)
*

D.P.R. 16.04. 2013 n. 62
(Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’articolo 54 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165)
*
C.C.N.L. 21.05.2018 del comparto FUNZIONI LOCALI (triennio 2016-2018)
Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del comparto FUNZIONI LOCALI - periodo 2016-2018 - Raccolta sistematica delle disposizioni non disapplicate (CGIL-FP di Bergamo, 22.05.2018).
---> per il dossier PUBBLICO IMPIEGO sino al 2018 cliccare qui

---> per il dossier PUBBLICO IMPIEGO sino al 2012 cliccare qui

luglio 2023

PUBBLICO IMPIEGOPer il Consiglio di Stato una «bugia» val bene i buoni rapporti tra colleghi di lavoro. In relazione a un invito extralavorativo e non a circostanze relative alla sfera professionale.
Nelle selezioni del personale i test situazionali servono a valutare abilità e competenze trasversali dei candidati. Mentre i quesiti tecnici si concentrano sulle conoscenze necessarie al profilo professionale richiesto, le competenze trasversali riguardano le abitudini e gli atteggiamenti che si assumono in diverse situazioni all'interno di un ambiente di lavoro.
Nella vicenda trattata dal Consiglio di Stato-Sez. VII (sentenza 07.07.2023 n. 6661) il quesito controverso descriveva di un collaboratore che aveva avuto una bambina ma aveva invitato solo la concorrente alla festa.
La candidata aveva indicato la risposta secondo cui non era opportuno invitare solo lei; mentre la Commissione aveva considerato giusto un rifiuto con scusa. In primo grado il Tar aveva accolto il ricorso: illogico premiare un comportamento poco trasparente.
Di diverso avviso invece il Consiglio di Stato secondo cui nella Pa, nelle relazioni con i colleghi, utilizzare una piccola bugia non è sbagliato quando lo scopo è quello di evitare futuri attriti e l'apparenza di rapporti interpersonali privilegiati.
Nel caso di specie il quesito censurato mirava a valutare le abilità relazionali del candidato e quindi la comprensione interpersonale, la capacità di lavoro di squadra e di esercitare un impatto o un'influenza sugli altri; la consapevolezza organizzativa e, cioè, le capacità di gestire criticità emergenti in relazione ad una determinata situazione e posizione lavorativa.
Nella prospettiva delineata, in relazione a un invito extralavorativo e non a circostanze relative alla sfera professionale, utilizzare una bugia non presenta caratteri di irragionevolezza o illogicità in quanto il fine è quello di non mettere in imbarazzo il collaboratore e le sue buone relazioni lavorative interpersonali.
Sotto il profilo ora enunciato, quindi, l'operato della Commissione d'esame non era stato caratterizzato da incomprensibilità o irragionevolezza.
Esso per il Consiglio di Stato risulta all'opposto conforme ai canoni di coerenza con gli approdi della disciplina specialistica applicabile e di più generale saggezza operativa, che nel loro complesso presiedono allo svolgimento di ogni attività tecnico-discrezionale dell'amministrazione pubblica (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 14.07.2023).
---------------
SENTENZA
1. Con il motivo di appello l’amministrazione deduce l’erroneità della sentenza impugnata, per superamento dei limiti del sindacato giudiziale sui quesiti c.d. “situazionali”.
Evidenzia che la pronuncia impugnata era errata in quanto il Giudice di primo grado si era spinto a censurare le valutazioni dell’Amministrazione, statuendo l’erroneità del quesito situazionale oggetto di ricorso e della relativa attribuzione del punteggio eccedendo i limiti del proprio sindacato in una materia connotata da amplissima discrezionalità.
2. Le censure svolte con l’appello sono da accogliere, laddove con esse si deduce la correttezza dell’esercizio della discrezionalità dell’amministrazione nella fissazione dei contenuti delle prove di concorso e l’ingiustificato sconfinamento del sindacato svolto dal Tar. Come si deduce nell’appello, la sentenza ha infatti considerato errata la risposta considerata come la più efficace dall’amministrazione in assenza di elementi tratti dalla «scienza specialistica di settore» sulla cui base è stato formulato il quesito contestato.
3. Deve premettersi che i c.d. “test situazionali” sono quesiti il cui scopo è valutare le abilità e competenze trasversali (cd. soft skills), richieste per coprire la determinata posizione lavorativa indagando se un candidato è in grado di intraprendere le azioni più appropriate in un determinato scenario ipotizzabile nella sua specifica situazione lavorativa.
Mentre i quesiti tecnici si concentrano sulle conoscenze necessarie al profilo professionale richiesto, le competenze trasversali riguardano le abitudini e gli atteggiamenti che si assumono in diverse situazioni all’interno di un ambiente di lavoro.
Per effettuare correttamente la valutazione richiesta, il quesito proposto dalla pubblica amministrazione deve indicare tutti i dettagli rilevanti per consentire ai candidati di analizzare lo scenario di contesto e maturare una capacità di giudizio che, tra le tante azioni possibili, individui quella maggiormente efficace sicché, all’evidenza, non esiste una risposta astrattamente sbagliata, ma la risposta più o meno efficace nella situazione descritta.
In tale contesto l’ambito di discrezionalità dell’amministrazione è particolarmente ampio e la scelta delle domande da somministrare ai candidati come la successiva valutazione delle risposte fornite sono sindacabili dal giudice amministrativo a condizione che risulti evidente l’assoluta incomprensibilità del quiz o la irragionevolezza della risposta prescelta come più efficace oppure che sia fornita la prova o quanto meno un principio di prova per contestare la correttezza della soluzione proposta dall’amministrazione.
4. Tutto ciò precisato, nel caso di specie il quesito censurato mirava a valutare le abilità relazionali del candidato e quindi la comprensione interpersonale, la capacità di lavoro di squadra e di esercitare un impatto o un’influenza sugli altri, la consapevolezza organizzativa e, cioè, le inerenti capacità di gestire criticità emergenti in relazione ad una determinata situazione e posizione lavorativa.
Nella prospettiva delineata, l’appello pone fondatamente in rilievo la maggiore rispondenza alle abilità in questione di un rifiuto ad un comportamento contrario a regole di buona creanza non espresso, ma celato da una scusa atta a prevenire una possibile situazione di conflittualità.
Infatti, in relazione a un invito extralavorativo e non a circostanze relative alla sfera professionale, utilizzare una scusa non presenta caratteri di irragionevolezza o illogicità in quanto lo scopo è quello, da un lato, di non mettere in imbarazzo il collaboratore o di creare comunque motivi di futuro attrito con un espresso rimprovero circa l’inopportunità di un invito ad personam e, dall’altro, di non creare, agli occhi degli altri collaboratori, l’apparenza di rapporti personali privilegiati.
Sotto il profilo ora enunciato, quindi, l’operato dell’amministrazione non è certo caratterizzato da una evidente incomprensibilità o irragionevolezza. Esso risulta invece conforme ai canoni di coerenza con gli approdi della disciplina specialistica applicabile e di più generale ragionevolezza, che nel loro complesso presiedono allo svolgimento di un’attività tecnico-discrezionale dell’amministrazione.
5. La ricorrente di primo grado non ha per contro fornito una prova o un principio di prova a supporto della propria tesi, e dunque non ha assolto all’onere probatorio su di essa gravante, ai sensi degli artt. 63, comma 1, e 64, comma 1, cod. proc. amm. (cfr., sul punto, di recente: Cons. Stato, IV, 08.05.2023, n. 4596; 02.12.2022, n. 10592; V, 27.07.2022, n. 6605; VI, 24.03.2023, n. 3023; 10.10.2022, n. 8653; 21.06.2022, n. 5090; 05.04.2022, n. 2523; 31.03.2022, n. 2360).
Parimenti la sentenza ha sovrapposto la propria personale valutazione a quella dell’amministrazione senza la previa acquisizione di un adeguato supporto scientifico specialistico. In contrapposizione alla scelta amministrativa contestata nel presente giudizio, fondata sugli elementi di carattere specialistico sopra richiamati, a base della sentenza di accoglimento si pone nello specifico una valutazione di tipo soggettivo sulla maggiore efficacia della risposta al quesito, erroneamente fondata su considerazioni di carattere etico.
Ciò è reso manifesto dal richiamo ai principi di lealtà e trasparenza enunciati dal codice di comportamento dei dipendenti pubblici di cui al DPR 16.04.2013, n. 62, con specifico riguardo alla figura dei dirigenti (art. 13, comma 4), quando invece nel caso di specie il quesito era diretto a valutare un comportamento extrafunzionale ma comunque avente un potenziale impatto sul contesto lavorativo.
6. In mancanza di elementi forniti dalla parte ricorrente in grado di confutare quelli tratti dalla scienza specialistica utilizzati dall’amministrazione per la formulazione del quesito non vi sono infine i presupposti per svolgere in via ufficiosa un approfondimento istruttorio.
7. In accoglimento dell’appello ed in riforma della sentenza di primo grado il ricorso e i motivi aggiunti devono quindi essere respinti.

PUBBLICO IMPIEGO: Assolta la dipendente che risponde al capo.
Altro che diffamazione: il fatto non sussiste. È definitivamente assolta la funzionaria che risponde contrattaccando alla reprimenda del dirigente nella mail letta in copia dei vertici aziendali: la lavoratrice, infatti, esercita un legittimo di diritto di critica così come è legittima l'iniziativa del capo che ritiene di rimetterla in riga.
La replica, d'altronde, ha toni contenuti e comunque non si risolve in un'aggressione gratuita al superiore, anzi rientra in «una fisiologica interlocuzione in ambito lavorativo». Condannare la lavoratrice equivarrebbe invece ad azzerare «il diritto al dissenso in ambito professionale».

Così la Corte di Cassazione, sentenza 04.07.2023 n. 28771 della V Sez. penale.
Il ricorso della dipendente è accolto dopo una doppia sconfitta in sede di merito: la condanna è annullata senza rinvio, mentre il sostituto procuratore generale concludeva per la mancanza di una valida condizione di procedibilità. Non vale, in effetti, la querela spedita via Pec con la carta d'identità di chi la sporge ma senza firma autenticata.
Ma il punto è che «evidente» l'insussistenza del reato ex articolo 595 Cp. Teatro dei fatti è l'Università, materia del contendere il regolamento per le attività autogestite degli studenti: la funzionaria responsabile dell'ufficio riceve la mail del direttore generale che la invita a non esprimere valutazioni estranee alla sua competenza e a rispettare la gerarchia nelle comunicazioni amministrative; leggono in copia la segreteria del rettore e altri interni all'Ateneo.
La funzionaria risponde a tutti gli indirizzi ripercorrendo il proprio operato con alcune pregresse vicende. E definisce «incomprensibile il contenuto e il tono» della mail del dg, «del tutto in linea, spiace dire, con la condotta e le azioni perpetrate a mio danno -chiosa- dalla Sua persona nell'ultimo periodo».
Non si capisce, osservano gli “ermellini”, in che senso possa ritenersi diffamatorio il riferimento alle precedenti condotte del direttore: la funzionaria esercita il diritto di critica senza ricorrere a espressioni aspre, che sarebbero comunque legittime purché compatibili con il principio della continenza verbale (articolo ItaliaOggi del 07.07.2023).
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SENTENZA
Il ricorso di Gi.Ca. è fondato.
Come si evince dalla sentenza impugnata, la ricorrente, funzionario amministrativo dell'Università di Macerata, responsabile dell'Ufficio didattica, orientamento e servizi agli studenti, a seguito della redazione di uno schema di regolamento, funzionale a disciplinare le attività autogestite dagli studenti, aveva ricevuto una comunicazione via mail dal dott. Ma.Gi., Direttore generale dell'Ateneo, con cui veniva invitata a non esprimere valutazioni non di sua competenza ed a seguire le vie gerarchiche per le comunicazioni amministrative; tale mail era indirizzata anche alla segreteria del Rettore e ad altri destinatari interni all'Ateneo.
In risposta a tale mail, la Ca. aveva inviato al Gi., ed agli altri destinatari, una mail di risposta in cui -ripercorrendo il proprio operato ed altresì alcune pregresse vicende amministrative- inseriva la frase incriminata, secondo quanto risulta dal capo di imputazione, ritenuta a contenuto diffamatorio: ".... e pertanto risulta incomprensibile il contenuto ed il tono della Sua comunicazione, del tutto in linea, spiace dire, con la condotta e le azioni perpetrate a mio danno dalla Sua persona nell'ultimo periodo."
Quanto al primo motivo di ricorso, va osservato che -all'esito della consultazione degli atti processuali, cui il Collegio può accedere, trattandosi di questione processuale relativa alla condizione di procedibilità del reato- la querela risulta spedita a mezzo pec istituzionale ...@pec.unimc.it in data 24/04/2019 con allegata carta di identità del querelante, la cui firma, tuttavia, non è autenticata.
Ne discende che, senza alcun dubbio, la querela non risulta soddisfare i requisiti richiesti, posto che l'art. 337, comma 1, cod. proc. pen., richiede che quando la querela sia recapitata da un incaricato o spedita per posta, la sottoscrizione del querelante sia autenticata, il che implica il rispetto delle forme previste dall'art. 2703 cod. civ., secondo cui l'autenticazione consiste nell'attestazione da parte del pubblico ufficiale -notaio o altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato- che la sottoscrizione sia stata apposta in sua presenza, previo accertamento dell'identità della persona che sottoscrive.
A norma del d.p.r. 513/1997 -"Regolamento per la formazione, l'archiviazione e la trasmissione di documenti con strumenti informatici e telematici"- anche la firma digitale può essere autenticata da un notaio o altro pubblico ufficiale competente, con effetto pari al riconoscimento ai sensi dell'art. 2702 cod. civ. in tema di scrittura privata; tale possibilità è stata poi ribadita dal d.lgs. 07.03.2005, n. 82 -"
Codice dell'amministrazione digitale"-, che ha stabilito come il pubblico ufficiale attesti che l'apposizione della firma digitale delle parti sia avvenuta in sua presenza e conclude l'autenticazione apponendo anche la sua firma digitale, sempre in riferimento all'efficacia della scrittura privata, ai sensi del predetto art. 2702 cod. civ. (sulla necessità di sottoscrizione autenticata in
calce alla querela: Sez. U, n. 26268 del 28/03/2013, Cavalli, Rv. 255583; Sez. 6, n. 13813 del 26/03/2015, P.G. in proc. Recce, Rv. 262966; Sez. 5, n. 39049 del 09/10/2007, P.M. in proc. Delmonte Rv. 238192).
Nel caso in esame, quindi, certamente non può essere confusa la modalità di trasmissione della querela con la formalità della stessa in riferimento all'autenticazione della sottoscrizione.
La posta elettronica certificata, senza alcun dubbio, costituisce un veicolo di trasmissione, alla stregua della mail e, prima ancora, del fax, che ha affiancato la modalità di spedizione a mezzo posta; essa è stata di recente utilizzata diffusamente per la trasmissione degli atti giudiziari, in occasione della disciplina emergenziale da Covid-19, per assumere, poi, il crisma di "ordinaria" modalità di veicolazione degli atti stessi, nei casi e con la modalità disciplinate dalle legge.
Tale impiego, quindi, non può essere in alcun modo confuso con il piano, del tutto diverso, relativo alle formalità dell'atto da trasmettere; in tal senso, ad esempio, Sez. 1, n. 32123 del 16/10/2020, Aspillaga Pere2: Ronald Guillermo, Rv. 279894, ha affermato, in un caso in cui la nomina del difensore era contenuta su una copia trasmessa tramite posta elettronica certificata da imputato detenuto all'estero, ed il difensore aveva successivamente autenticato la relativa sottoscrizione, che tale sottoscrizione poteva essere anche autenticata dal difensore, benché non effettuata in sua presenza e apposta su di una copia inviatagli, anziché sull'originale dell'atto, in quanto con la consegna o la spedizione dell'atto all'autorità giudiziaria procedente il difensore si assume la
piena responsabilità della provenienza della dichiarazione e della relativa sottoscrizione.
Per quanto, nel caso, in esame, si verta in tema di querela e non di sottoscrizione di mandato difensivo, il principio che emerge palese da tale pronuncia -applicabile anche al caso in esame- riguarda la posta elettronica certificata come semplice mezzo di spedizione dell'atto, che, come tale, non può in alcun modo incidere sulle modalità di autenticazione richieste dalla normativa per la validità dell'atto stesso.
Pur a fronte di una querela non validamente proposta, tuttavia, nel caso in esame, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio, perché il fatto non sussiste, ai sensi dell'art. 129, comma 2, cod. proc. pen., risultando evidente l'insussistenza del reato di diffamazione.
La motivazione della sentenza impugnata non solo si limita ad una elencazione delle pronunce di questa Corte -di cui peraltro omette di fare corretta applicazione- ma risulta, in realtà, priva di qualsiasi seria analisi della vicenda in esame.
In ogni caso, attraverso un percorso motivazione che denota un disagio concettuale in riferimento alle categorie giuridiche di riferimento, la sentenza impugnata giunge ad un azzeramento non solo del diritto di critica, ma anche del diritto al dissenso in ambito professionale e lavorativo.
In coerenza con il principio secondo cui, in materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l'offensività delle frasi che si assumono lesive della altrui reputazione, in quanto è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie (Sez. 5, n. 2473 del 10/10/2019, dep. 22/01/2020, Fabi Miriam, Rv. 278145; Sez. 5, n. 832 del 21/06/2005, dep. 12/01/2006, Travaglio, Rv. 233749), non può non rilevarsi come, in maniera percettivamente chiara ed evidente, la frase ascritta alla Ca. si inserisca in una fisiologica interlocuzione in ambito lavorativo, derivante da una diversa, lecita e fisiologica interpretazione
dei compiti svolti dalla funzionaria.
Così come la persona offesa ha legittimamente ritenuto di dolersi per il ruolo -a suo giudizio improprio- che la Ca. aveva svolto, manifestando tale opinione in ambito lavorativo, in coerenza con il suo ruolo, altrettanto legittimamente, e nel contesto della medesima interlocuzione, la Ca. poteva dolersi -peraltro in maniera estremamente contenuta e per nulla aggressiva, né irrispettosa o inutilmente virulenta o acrimoniosa- del comportamento del Gi..
Né si comprende in che senso possa ritenersi diffamatorio l'aver evocato, in quel contesto, le precedenti condotte della persona offesa, ritenute dalla Ca. non giustificate, posto che con l'affermazione in oggetto la ricorrente si è limitata ad esercitare il proprio diritto di critica, peraltro senza fare neanche ricorso ad espressioni aspre, che, in ogni caso, sarebbero risultate del tutto legittime, purché compatibili con il principio della continenza verbale.
Non si comprende, infatti, in che senso, nel caso di specie, l'esercizio del diritto di critica si sia risolto in un pretesto ed in uno strumento illecito di aggressione all'altrui reputazione, non funzionale alla denuncia di un fatto vero o ragionevolmente supposto tale.
Ne discende, pertanto, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, perché il fatto non sussiste, con revoca delle statuizioni civili.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ferie monetizzabili solo se la mancata fruizione non è dipesa dalla volontà del lavoratore. Il dipendente che non ne abbia fatto espressa richiesta non ha diritto al compenso sostitutivo.
Il diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute spetta solo quando sia certo che la loro mancata fruizione non sia stata determinata dalla volontà del lavoratore e non gli sia comunque imputabile.

Lo afferma la I Sez. del Consiglio di Stato con il parere 03.07.2023 n. 982.
Il fatto
Il Consiglio di Stato si pronuncia su un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto per l'annullamento del provvedimento di rigetto di una istanza volta a ottenere la monetizzazione di ferie non fruite da parte di un carabiniere, il quale ha eccepito che la mancata fruizione era stata dovuta al fatto di non avere potuto fruirne per esigenze di servizio, essendo impegnato nella guida della stazione in vista dell'avvicendamento con il nuovo comandante.
La censura viene ritenuta infondata in quanto il provvedimento impugnato contiene l'esplicitazione chiara e univoca della ragione posta a fondamento del diniego di monetizzazione delle ferie, ossia la riconducibilità della loro mancata fruizione non ad esigenze di servizio ma a una libera scelta del ricorrente, il quale non ha presentato l'istanza per il loro godimento, nonostante l'amministrazione l'abbia a tanto invitato.
Il principio
Ricordano i giudici di Palazzo Spada che, per consolidata giurisprudenza, il diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute spetta quando sia certo che la loro mancata fruizione non sia stata determinata dalla volontà del lavoratore e non sia ad esso comunque imputabile.
Nel caso di specie, osservano, il dipendente ha avuto la possibilità di fruire delle ferie e per questo si applica il divieto ancora vigente di monetizzazione di cui all'articolo 5, comma 8, del Dl 95/2012, che si applica per il solo fatto che il dipendente non ne abbia fatto espressa richiesta.
È solo con la formalizzazione della richiesta di ferie che il dipendente può invocare a posteriori le esigenze di servizio, dal momento che spetta solo all'amministrazione formalizzare il provvedimento di diniego (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 19.07.2023).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sulla impossibilità di monetizzare le ferie non godute per causa imputabile al lavoratore.
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Carabinieri e Corpo forestale – Ferie – Omessa presentazione istanza - Monetizzazione – Esclusione.
Il diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute spetta solo quando sia certo che la loro mancata fruizione non sia stata determinata dalla volontà del lavoratore e non sia ad esso comunque imputabile (1).
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   (1) Cons. Stato, sez. IV, 30.03.2022, n. 2349, sez. IV, 13.03.2018, n. 1580, sez. III, 17.05.2018, n. 2956.
        Difformi: non risultano precedenti difformi.
Nel caso di specie, un carabiniere in congedo aveva impugnato, con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, il provvedimento con cui la p.a. gli aveva negato la monetizzazione delle ferie non godute.
Il Consiglio di Stato ha espresso il parere nel senso dell’infondatezza del ricorso, atteso che era incontestata la circostanza in forza della quale la p.a. aveva invitato il ricorrente a presentare la domanda di ferie, e che il ricorrente non aveva a tanto provveduto: “La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato –in linea con la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 95 del 2016) e quella della Corte di giustizia (prima sezione, sentenza 25.06.2020, C-762/18 e C-37/19)– è ormai consolidata nel senso di ritenere che il diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute spetta quando sia certo che la loro mancata fruizione non sia stata determinata dalla volontà del lavoratore e non sia ad esso comunque imputabile (Consiglio di Stato, sezione seconda, sentenza 30.03.2022, n. 2349, sezione quarta, sentenza 13.03.2018, n. 1580, sezione terza, sentenze 17.05.2018, n. 2956, e 21.03.2016, n. 1138).
Ove invece il dipendente abbia avuto la possibilità di fruire delle ferie (e quindi in assenza di una indicazione di senso contrario proveniente dal datore di lavoro), vige il divieto di monetizzazione di cui all’art. 5, comma 8, del decreto-legge 06.07.2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini), convertito, con modificazioni, nella legge 07.08.2012, n. 135, che pertanto opera laddove il dipendente medesimo non abbia fatto espressa richiesta delle ferie medesime (Consiglio di Stato, sezione seconda, sentenza 30.03.2022, n. 2349, sezione quarta, sentenze 12.10.2020, n. 6047, e 02.03.2020, n. 1490)”
(Consiglio di Stato, Sez. I, parere 03.07.2023 n. 982 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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PARERE
   Premesso.
1.- Con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, presentato direttamente a questo Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 11, comma 2, del d.P.R. 24.11.1971, n. 1199 (Semplificazione dei procedimenti in materia di ricorsi amministrativi), il luogotenente in congedo -OMISSIS-, già comandante della stazione dei Carabinieri di -OMISSIS-, ha impugnato il provvedimento in epigrafe meglio indicato, con cui gli è stata negata la monetizzazione di 42 giorni di ferie non godute negli anni 2016 e 2017 (39 dei quali relativi all’anno 2016).
Il provvedimento impugnato è stato adottato sul rilievo di fondo che «la mancata fruizione del residuo della licenza ordinaria di cui si richiede la monetizzazione appare imputabile ad una volontaria e consapevole scelta» del ricorrente, posto che:
   a) quest’ultimo è stato «destinatari[o] di reiterati inviti da parte del Comandante di Compagnia affinché osservasse le norme che regolano la fruizione della licenza ordinaria»;
   b) «agli atti d’ufficio non risulta si siano verificati impedimenti […] di natura sanitaria, cause di forza maggiore e/o eventi eccezionali e non prevedibili che abbiano impedito la fruizione della licenza non fruita»;
   c) «non risulta alcun diniego da parte del Comandante pro tempore della Compagnia di -OMISSIS- alla fruizione di periodi di licenza sopra menzionati»;
   d) «non risulta che le esigenze di servizio invocate dall’istante, all’epoca Comandante della Stazione di -OMISSIS-, fossero di tale natura da richiedere l’obbligatoria presenza del titolare delle funzioni di Comando e, nel contempo, condivise con il Superiore diretto».
Con una prima censura (rubricata «violazione del d.P.R. n. 395 del 1995, del d.P.R. n. 254 del 1999, del d.l. 06.07.2012, n. 95 e dell’art. 36 della Costituzione. Errata interpretazione della normativa di riferimento»), il ricorrente contesta il menzionato assunto di fondo, sostenendo, in sostanza, di non avere potuto fruire delle ferie per esigenze di servizio, essendo impegnato nella guida della stazione in vista dell’avvicendamento con il nuovo comandante.
Con una seconda censura (rubricata «violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990»), il ricorrente lamenta il difetto di motivazione, non essendo chiaro, da un lato, perché l’Amministrazione abbia affermato, nel provvedimento impugnato, che le esigenze di servizio invocate dall’istante «non fossero di tale natura da richiedere l’obbligatoria presenza del titolare delle funzioni di Comando», e, dall’altro, risolvendosi in una probatio diabolica a suo carico la dimostrazione della presenza di una valida causa di servizio.
2.- Nella relazione con cui ha chiesto il parere di questo Consiglio di Stato, il Ministero della difesa ha espresso l’avviso che il ricorso sia infondato, poiché la mancata fruizione delle ferie non sarebbe riconducibile ad esigenze di servizio ma ad una scelta dell’interessato, avendo peraltro l’Amministrazione invitato formalmente il medesimo a godere delle ferie (con note del 27.08.2016 e del 30.01.2017).
3.- Con memoria fatta pervenire al Ministero della difesa, il ricorrente ha replicato alla relazione ministeriale, ulteriormente illustrando i motivi posti a sostegno dell’atto introduttivo.
   Considerato.
4.- La censura di difetto di motivazione è infondata, poiché il provvedimento impugnato contiene l’esplicitazione chiara e univoca della ragione posta a fondamento del diniego di monetizzazione delle ferie, ossia la riconducibilità della loro mancata fruizione non ad esigenze di servizio ma ad una libera scelta dell’odierno ricorrente, il quale non ha presentato l’istanza per il loro godimento, nonostante l’Amministrazione l’abbia a tanto invitato.
Tale assunto è contestato dal ricorrente con la prima censura, anch’essa, tuttavia, infondata.
La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato –in linea con la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 95 del 2016) e quella della Corte di giustizia (prima sezione, sentenza 25.06.2020, C-762/18 e C-37/19)– è ormai consolidata nel senso di ritenere che il diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute spetta quando sia certo che la loro mancata fruizione non sia stata determinata dalla volontà del lavoratore e non sia ad esso comunque imputabile (Consiglio di Stato, sezione seconda, sentenza 30.03.2022, n. 2349, sezione quarta, sentenza 13.03.2018, n. 1580, sezione terza, sentenze 17.05.2018, n. 2956, e 21.03.2016, n. 1138).
Ove invece il dipendente abbia avuto la possibilità di fruire delle ferie (e quindi in assenza di una indicazione di senso contrario proveniente dal datore di lavoro), vige il divieto di monetizzazione di cui all’art. 5, comma 8, del decreto-legge 06.07.2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini), convertito, con modificazioni, nella legge 07.08.2012, n. 135, che pertanto opera laddove il dipendente medesimo non abbia fatto espressa richiesta delle ferie medesime (Consiglio di Stato, sezione seconda, sentenza 30.03.2022, n. 2349, sezione quarta, sentenze 12.10.2020, n. 6047, e 02.03.2020, n. 1490).
Nel caso di specie, è pacifico che il ricorrente non abbia mai formulato istanza di godimento delle ferie e che, a fronte di tale inerzia, l’Amministrazione, pur non essendo a ciò tenuta, lo abbia anche invitato, in due distinte occasioni, al godimento medesimo.
Deve dunque ritenersi che, a fronte della mancata presentazione della cennata istanza, il ricorrente non possa invocare ex post presunte esigenze di servizio, dal momento che spetta solo all’Amministrazione, datrice di lavoro, ravvisarle e formalizzarle in un provvedimento di diniego.
5.- Alla luce delle considerazioni che precedono, deve ritenersi che il ricorso sia infondato (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 03.07.2023 n. 982 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

giugno 2023

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMonetizzate le ferie non godute. Se il lavoratore non è invitato per tempo a fruirne.
Alla fine del rapporto il dipendente monetizza le ferie non godute se il datore non l'ha invitato per tempo a fruirne, avvisandolo che altrimenti le avrebbe perse. Di più. In giudizio l'azienda deve provare di aver utilizzato tutta la diligenza necessaria affinché il lavoratore fosse effettivamente in condizione di godere dei periodi annuali retribuiti cui ha diritto per il riposo e il relax.
E va disatteso l'orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui la prescrizione del diritto in capo al lavoratore opererebbe anche in costanza di rapporto: si tratta di un'interpretazione del diritto interno che si pone in contrasto con quello eurounitario.

È quanto emerge dall'ordinanza 20.06.2023 n. 17643, pubblicata dalla Sez. lavoro della Corte di Cassazione, che rimanda alla copiosa giurisprudenza della Corte di giustizia europea in materia.
Tempo utile
Bocciato il ricorso proposto dall'ente pubblico (ma il principio affermato dagli “ermellini” vale anche per il lavoro privato).
Diventa definitiva la condanna a carico dell'amministrazione: il datore pagherà alla lavoratrice che ha operato per quarant'anni al suo servizio l'indennità sostitutiva per quasi 250 giorni di ferie. È l'articolo 7, paragrafo 2, della direttiva europea 2003/88 a riconoscere al lavoratore il diritto a un'indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali e i riposi settimanali non goduti.
Compete al datore dimostrare che il lavoratore ha perso il diritto a monetizzare perché non ha goduto dei periodi di relax nonostante l'invito a usufruirne; invito che deve essere formulato in modo accurato e soprattutto in tempo utile a garantire che ferie e riposi siano ancora in grado di garantire il riposo e il relax cui sono finalizzati.
Il datore, inoltre, deve avvisare in modo esplicito il dipendente che in caso di mancato godimento le ferie e i riposi andranno persi alla fine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato.
Parte debole
Per la giurisprudenza eurounitaria, infatti, il lavoratore è la parte debole del rapporto e bisogna impedire al datore di disporre della facoltà di imporre al dipendente una restrizione dei diritti.
L'azienda deve assicurarsi in concreto e in piena trasparenza che il prestatore sia effettivamente in grado di fruire delle ferie annuali retribuite (articolo ItaliaOggi del 11.07.2023).
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MASSIMA
  
La prescrizione del diritto del lavoratore all’indennità sostitutiva delle ferie e dei riposi settimanali non goduti decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro, salvo che il datore di lavoro non dimostri che il diritto alle ferie ed ai riposi settimanali è stato perso dal medesimo lavoratore perché egli non ne ha goduto nonostante l’invito ad usufruirne; siffatto invito deve essere formulato in modo accurato ed in tempo utile a garantire che le ferie ed i riposi siano ancora idonei ad apportare all’interessato il riposo ed il relax cui sono finalizzati, e deve contenere l’avviso che, in ipotesi di mancato godimento, tali ferie e riposi andranno persi al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato.
  
La Suprema Corte ha chiarito che:
   A)
le ferie annuali retribuite costituiscono un diritto fondamentale ed irrinunciabile del lavoratore e correlativamente un obbligo del datore di lavoro; il diritto alla indennità finanziaria sostitutiva delle ferie non godute al termine del rapporto di lavoro è intrinsecamente collegato al diritto alle ferie annuali retribuite;
   B)
è il datore di lavoro il soggetto tenuto a provare di avere adempiuto al suo obbligo di concedere le ferie annuali retribuite;
   C)
la perdita del diritto alle ferie ed alla corrispondente indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro può verificarsi soltanto nel caso in cui il datore di lavoro offra la prova:
      -
di avere invitato il lavoratore a godere delle ferie, se necessario formalmente;
      -
di averlo nel contempo avvisato -in modo accurato ed in tempo utile a garantire che le ferie siano ancora idonee ad apportare all’interessato il riposo ed il relax cui esse sono volte a contribuire- del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato.
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1) Con il primo motivo l’INPS lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 2109 e 2946 c.c. per il mancato rispetto dell’art. 111, comma 7, Cost., letti alla luce dell’art. 6 CEDU.
Parte ricorrente sostiene che, diversamente da quanto affermato dalla corte territoriale, il diritto all’indennità sostitutiva delle ferie si sarebbe prescritto in dieci anni anche in corso di rapporto di lavoro.
La doglianza è infondata.
Al riguardo, si osserva che, quando il rapporto di lavoro è cessato, la fruizione effettiva delle ferie annuali retribuite cui il lavoratore ha diritto non è più possibile.
Per evitare che, a causa di detta impossibilità, il lavoratore non riesca in alcun modo a beneficiare di tale diritto, neppure in forma pecuniaria, l’art. 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88, riconosce al lavoratore il diritto a un’indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali non goduti (sentenza del 12.06.2014, Bollacke, C-118/13, EU:C:2014:1755, punto 17 e giurisprudenza ivi citata).
L’art. 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88 non assoggetta il diritto a un’indennità finanziaria ad alcuna condizione diversa da quella relativa, da un lato, alla cessazione del rapporto di lavoro e, dall’altro, al mancato godimento da parte del lavoratore di tutte le ferie annuali cui aveva diritto alla data in cui detto rapporto è cessato (sentenza del 20.07.2016, Maschek, C-341/15, EU:C:2016:576, punto 27 e giurisprudenza ivi citata).
A questo proposito, dalla giurisprudenza della Corte di giustizia UE emerge che la menzionata normativa osta a disposizioni o pratiche nazionali le quali prevedano che, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, non sia versata alcuna indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute al lavoratore che non sia stato in grado di fruire di tutti le ferie annuali cui aveva diritto prima della cessazione di tale rapporto di lavoro, in particolare perché era in congedo per malattia per l’intera durata o per una parte del periodo di riferimento e/o di un periodo di riporto (sentenze del 20.01.2009, SchultzHoff e a., C-350/06 e C-520/06, EU:C:2009:18, punto 62; del 20.07.2016, Maschek, C-341/15, EU:C:2016:576, punto 31, nonché del 29.11.2017, King, C-214/16, EU:C:2017:914, punto 65).
La Corte di giustizia UE ha dichiarato, inoltre, che l’art. 7 della direttiva 2003/88 non può essere interpretato nel senso che il diritto alle ferie annuali retribuite e, pertanto, quello all’indennità finanziaria ex paragrafo 2 di detto articolo possano estinguersi a causa del decesso del lavoratore. Ha pure precisato che, se l’obbligo di pagamento di una simile indennità dovesse estinguersi a causa della fine del rapporto di lavoro dovuta a decesso del lavoratore, tale circostanza avrebbe la conseguenza che un avvenimento fortuito comporterebbe retroattivamente la perdita totale dello stesso diritto alle ferie annuali retribuite (sentenza del 12.06.2014, Bollacke, C-118/13, EU:C:2014:1755, punti 25, 26 e 30).
Ciò perché l’estinzione del diritto maturato da un lavoratore alle ferie annuali retribuite o del suo correlato diritto al pagamento di un’indennità per le ferie non godute in caso di cessazione del rapporto di lavoro, senza che l’interessato abbia effettivamente avuto la possibilità di esercitare detto diritto alle ferie annuali retribuite, arrecherebbe pregiudizio alla sostanza stessa del diritto medesimo (sentenza del 19.09.2013, Riesame Commissione/Strack, C-579/12 RXII, EU:C:2013:570, punto 32).
La Corte di giustizia UE ha ricordato, altresì, che il pagamento delle ferie prescritto al paragrafo 1 dell’art. 7 menzionato è volto a consentire al lavoratore di fruire effettivamente delle ferie cui ha diritto (sentenza del 16.03.2006, Robinson-Steele e a., C-131/04 e C-257/04, EU:C:2006:177, punto 49).
Inoltre, secondo giurisprudenza costante della Corte di giustizia UE, il diritto alle ferie annuali, sancito dall’art. 7 della direttiva 2003/88, è volto a consentire al lavoratore, da un lato, di riposarsi rispetto all’esecuzione dei compiti attribuitigli in forza del suo contratto di lavoro e, dall’altro, di beneficiare di un periodo di relax e svago (sentenza del 20.07.2016, Maschek, C-341/15, EU:C:2016:576, punto 34 e giurisprudenza ivi citata).
Del resto, prevedendo che il periodo minimo di ferie annuali retribuite non possa essere sostituito da un’indennità finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto di lavoro, l’art. 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88 mira anche a garantire che il lavoratore possa beneficiare di un riposo effettivo, per assicurare una tutela efficace della sua sicurezza e della sua salute (sentenza del 16.03.2006, Robinson-Steele e a., C-131/04 e C-257/04, EU:C:2006:177, punto 60, e giurisprudenza ivi citata).
In particolare, la Corte di giustizia UE ha chiarito che l’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88 non osta, in linea di principio, a una normativa nazionale recante modalità di esercizio del diritto alle ferie annuali retribuite espressamente accordato da detta direttiva, che comprenda anche la perdita del diritto in questione allo scadere del periodo di riferimento o di un periodo di riporto, purché, però, il lavoratore che ha perso il diritto alle ferie annuali retribuite abbia effettivamente avuto la possibilità di esercitare questo diritto che tale direttiva gli conferisce (sentenza del 20.01.2009, Schultz-Hoff e a., C350/06 e C-520/06, EU:C:2009:18, punto 43).
Peraltro, ha affermato che è necessario assicurarsi che l’applicazione di simili norme nazionali non possa comportare l’estinzione dei diritti alle ferie annuali retribuite maturati dal lavoratore, laddove quest’ultimo non abbia effettivamente avuto la possibilità di esercitare tali diritti.
Il lavoratore deve essere considerato, infatti, la parte debole nel rapporto di lavoro, sicché è necessario impedire al datore di lavoro di disporre della facoltà di imporgli una restrizione dei suoi diritti. Tenuto conto di tale situazione di debolezza, un simile lavoratore può essere dissuaso dal fare valere espressamente i suoi diritti nei confronti del suo datore di lavoro, dal momento, in particolare, che la loro rivendicazione potrebbe esporlo a misure adottate da quest’ultimo in grado di incidere sul rapporto di lavoro in danno di detto lavoratore (sentenza del 25.11.2010, Fuß, C-429/09, EU:C:2010:717, punti 80 e 81, e giurisprudenza ivi citata).
Ne deriva che il datore di lavoro è tenuto, in considerazione del carattere imperativo del diritto alle ferie annuali retribuite e al fine di assicurare l’effetto utile dell’art. 7 della direttiva 2003/88, ad assicurarsi concretamente e in piena trasparenza che il lavoratore sia effettivamente in grado di fruire delle ferie annuali retribuite, invitandolo, se necessario formalmente, a farlo, e nel contempo informandolo -in modo accurato e in tempo utile a garantire che tali ferie siano ancora idonee ad apportare all’interessato il riposo e il relax cui esse sono volte a contribuire- del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato.
Inoltre, l’onere della prova, in proposito, incombe al datore di lavoro e, ove quest’ultimo non sia in grado di dimostrare di avere esercitato tutta la diligenza necessaria affinché il lavoratore sia effettivamente in condizione di fruire delle ferie annuali retribuite alle quali aveva diritto, si deve ritenere che l’estinzione del diritto a tali ferie alla fine del periodo di riferimento o di riporto autorizzato e, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, il correlato mancato versamento di un’indennità finanziaria per le ferie annuali non godute violino, rispettivamente, l’art. 7, paragrafo 1, e l’art. 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88 (sentenza Grande Camera, 06.11.2018, causa C-684/16, MaxPlanck-Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaften eV; per analogia, le sentenze emesse sempre dalla grande sezione il 6 novembre 2018, cause riunite C-569 e C-570/2016, Stadt Wuppertal, e causa C-619/2016, Sebastian W. Kreuziger; sentenza del 16.03.2006, Robinson-Steele e a., C-131/04 e C257/04, EU:C:2006:177, punto 68; sul punto, per il diritto interno, soprattutto in motivazione, Cass., Sez. L, n. 21780 dell’08.07.2022, per la quale la perdita del diritto alle ferie, ed alla corrispondente indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro, può verificarsi soltanto qualora il datore di lavoro offra la prova di avere invitato il lavoratore a godere delle ferie -se necessario formalmente- e di averlo nel contempo avvisato -in modo accurato ed in tempo utile a garantire che le ferie siano ancora idonee ad apportare all’interessato il riposo ed il relax cui esse sono volte a contribuire- che, in caso di mancata fruizione, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato).
Nella specie, la corte territoriale ha specificamente accertato che l’INPS non aveva adempiuto all’onere probatorio su di esso incombente, ossia non aveva provato di avere operato con la massima diligenza in modo da consentire al lavoratore di godere delle ferie maturate.
Ne consegue che, non avendo il dipendente perso il diritto al godimento del congedo, al momento della cessazione del rapporto di lavoro egli doveva percepire l’indennità in esame nella sua interezza, la prescrizione del detto diritto non potendo decorrere anteriormente a tale cessazione.
Non ignora questo Collegio l’esistenza di una risalente giurisprudenza di legittimità per la quale, sulla base della natura anche risarcitoria dell’indennità de qua, la prescrizione del diritto in questione opera pure in costanza di rapporto (Cass., Sez. L, n. 10341 dell’11.05.2011).
A tale proposito, occorre ricordare, però, che, secondo costante giurisprudenza eurounitaria, nell’applicare il diritto interno, i giudici nazionali sono tenuti a interpretarlo per quanto possibile alla luce del testo e dello scopo del diritto unionale vigente, così da conseguire il risultato perseguito da quest’ultimo e conformarsi pertanto all’art. 288, comma 3, TFUE (sentenza del 24.01.2012, Dominguez, C-282/10, EU:C:2012:33, punto 24 e giurisprudenza ivi citata).
Il principio di interpretazione conforme esige che i giudici nazionali si adoperino al meglio nei limiti del loro potere, prendendo in considerazione il diritto interno nel suo insieme e applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, al fine di garantire la piena efficacia della direttiva di cui trattasi e di pervenire a una soluzione conforme allo scopo perseguito da quest’ultima (sentenza del 24.01.2012, Dominguez, C-282/10, EU:C:2012:33, punto 27 e giurisprudenza ivi citata).
Come altresì dichiarato dalla Corte di giustizia UE, l’esigenza di un’interpretazione conforme siffatta include, in particolare, l’obbligo, per i giudici nazionali, di modificare, se del caso, una giurisprudenza consolidata se questa si basa su un’interpretazione del diritto nazionale incompatibile con gli scopi di una direttiva.
Pertanto, un giudice nazionale non può ritenere di trovarsi nell’impossibilità di interpretare una disposizione nazionale conformemente al diritto dell’Unione per il solo fatto che detta disposizione è stata costantemente interpretata in un senso che è incompatibile con tale diritto (sentenza del 17.04.2018, Egenberger, C-414/16, EU:C:2018:257, punti 72 e 73 e giurisprudenza ivi citata).
Nella presente controversia, l’interpretazione del diritto interno proposta dall’INPS si porrebbe in netto contrasto con quello unionale, con la conseguenza che il motivo deve essere respinto.
2) Con il secondo motivo l’INPS denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 ss. c.c., anche con riferimento all’art. 18, nn. 9, 15 e 16 CCNL 1994-1997 enti pubblici non economici, e dell’art. 10 d.lgs. n. 87 del 2003, in relazione all’art. 111, comma 7, Cost., letto alla luce dell’art. 6 CEDU.
Sostiene parte ricorrente che l’art. 10 del d.lgs. n. 66 del 2003 avrebbe rinviato, in tema di godimento delle ferie, alla contrattazione collettiva e che questa avrebbe ricollegato il diritto all’indennità oggetto del contendere alla mancata fruizione di dette ferie “per esigenze di servizio”.
Siffatte “esigenze di servizio” avrebbero dovuto essere provate, però, dal lavoratore, essendo egli il soggetto che agiva in giudizio.
La doglianza è infondata.
La decisione della S.C., Sez. L., sentenza 08.07.2022 n. 21780, alla motivazione della quale si rinvia integralmente, ha chiarito che, dalla interpretazione del diritto interno in senso conforme al diritto dell’Unione, in particolare delle sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea della grande sezione del 06.11.2018, rese in cause riunite C-569 e C-570/2016, Stadt Wuppertal, in causa C-619/2016, Sebastian W. Kreuziger ed in causa C-684/2016, Max Planck, nonché dell’art. 7 delle direttive 2003/88 e 93/104 e dell’art. 31 della Carta dei diritti fondamentali della Unione europea, deriva che:
   A)
le ferie annuali retribuite costituiscono un diritto fondamentale ed irrinunciabile del lavoratore e correlativamente un obbligo del datore di lavoro; il diritto alla indennità finanziaria sostitutiva delle ferie non godute al termine del rapporto di lavoro è intrinsecamente collegato al diritto alle ferie annuali retribuite;
   B)
è il datore di lavoro il soggetto tenuto a provare di avere adempiuto al suo obbligo di concedere le ferie annuali retribuite, dovendo sul punto darsi continuità al principio da ultimo affermato da Cass., Sez. L, sentenza 14.06.2018 n. 15652;
   C)
la perdita del diritto alle ferie ed alla corrispondente indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro può verificarsi soltanto nel caso in cui il datore di lavoro offra la prova:
      -
di avere invitato il lavoratore a godere delle ferie, se necessario formalmente;
      -
di averlo nel contempo avvisato -in modo accurato ed in tempo utile a garantire che le ferie siano ancora idonee ad apportare all’interessato il riposo ed il relax cui esse sono volte a contribuire- del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato.
Inoltre, si osserva che l’art. 10, d.lgs. n. 66 del 2003, nel testo anteriore al d.lgs. n. 213 del 2004, richiamato dall’INPS a sostegno della propria tesi, prescrive, al primo comma, dopo avere stabilito che, fermo restando quanto previsto dall’art. 2109 c.c., il prestatore di lavoro ha diritto a un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane, che “I contratti collettivi di lavoro possono stabilire condizioni di miglior favore”.
Pertanto, la contrattazione collettiva non può essere letta in maniera da introdurre un trattamento deteriore per la controricorrente. Deve trovare applicazione, nella specie, quindi, il principio per il quale è il datore di lavoro, convenuto dal dipendente per ottenere il pagamento dell’indennità finanziaria sostitutiva delle ferie non godute al termine del rapporto di lavoro, il soggetto tenuto a provare di avere adempiuto al suo obbligo di concederle.
...
4) Il ricorso principale è rigettato, in applicazione del seguente principio di diritto:
La prescrizione del diritto del lavoratore all’indennità sostitutiva delle ferie e dei riposi settimanali non goduti decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro, salvo che il datore di lavoro non dimostri che il diritto alle ferie ed ai riposi settimanali è stato perso dal medesimo lavoratore perché egli non ne ha goduto nonostante l’invito ad usufruirne; siffatto invito deve essere formulato in modo accurato ed in tempo utile a garantire che le ferie ed i riposi siano ancora idonei ad apportare all’interessato il riposo ed il relax cui sono finalizzati, e deve contenere l’avviso che, in ipotesi di mancato godimento, tali ferie e riposi andranno persi al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato”.

maggio 2023

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Concorsi pubblici: il criterio della media dei voti conseguiti nelle prove scritte o pratiche o teorico-pratiche, stabilito dall'art. 7, comma 3, d.P.R. 487/1994, non è inderogabile.
Anche tenuto conto dell’orientamento prevalso in giurisprudenza secondo cui il criterio della media previsto dall’art. 7, comma 3, d.p.r. cit. previsto per i concorsi per soli esami è applicabile, quale regola di carattere generale, anche ai concorsi per titoli ed esami, va rilevato che la detta regola non può essere definita come un “principio che precluda di per sé l'introduzione di una regola diversa” dal momento che l’art. 70, comma 13, d.lgs. 30.03.2001 n. 165, prevede che: “in materia di reclutamento, le pubbliche amministrazioni applicano la disciplina prevista dal d.p.r. 09.05.1994 n. 487, e successive modificazioni ed integrazioni, per le parti non incompatibili con quanto previsto dagli articoli 35 e 36, salvo che la materia venga regolata, in coerenza con i princìpi ivi previsti, nell'ambito dei rispettivi ordinamenti.
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RITENUTO
   che può prescindersi dalla disamina delle eccezioni in rito stante l’infondatezza nel merito del ricorso;
   che ai sensi dell’art. 12 del bando la votazione complessiva dei candidati andava calcolata sommando il voto conseguito nella valutazione dei titoli (secondo i criteri di cui all’art. 8 che demandava a sua volta al regolamento comunale approvato con delibera di Giunta n. 12/2010) al voto complessivo riportato nelle prove d’esame, ove il punteggio massimo per i titoli era fissato in 10, il punteggio minimo per ciascuna prova scritta, pratica ed orale era fissato in un minimo di 21 ed un massimo di 30, con la precisazione che l’ammissione a ciascuna prova richiedeva il conseguimento del punteggio minimo di 21;
   che, analogamente, secondo l’articolo 9 del bando, la graduatoria andava formata secondo l’ordine decrescente del punteggio totale espresso in centesimi determinato “sommando il voto riportato nella valutazione dei titoli (max 10 punti) con il voto complessivo riportato nelle prove d’esame (max 90 punti)”;
   che, all’evidenza, in alcun modo la lex specialis legittimava l’interpretazione del bando fornita in ricorso secondo cui il punteggio andava calcolato attraverso la somma della “media” dei voti conseguiti nelle prove scritte o pratiche o teorico-pratiche e della votazione conseguita nel colloquio orale;
   che difatti la norma del bando era chiara nel prevedere l’espressione del punteggio in centesimi, e che il punteggio massimo era dato dalla somma aritmetica pari a 90 del voto di 30 riportato in ciascuna delle tre prove “scritta”, “pratica” ed “orale” e della massima valutazione di 10 attribuibile per i titoli;
   che diversamente il criterio di computo della media tra il voto della prova scritta e quello della prova pratica invocato dal ricorrente non consentirebbe l’espressione del voto finale in centesimi come desumibile peraltro dai calcoli riportati in ricorso;
   che nemmeno può profilarsi la prospettata illegittimità del bando gravato in parte qua per violazione dell’articolo 7, comma 3, del d.p.r. n. 487/1994, relativo ai concorsi per soli esami, nella parte in cui richiama il comma 4 dell’art. 8 d.p.r. cit., relativo ai concorsi per titoli ed esami, a tenore del quale, il punteggio complessivo è costituito dalla somma del punteggio conseguito per la valutazione dei titoli, della media del punteggio realizzato nelle prove scritte o pratiche o teorico-pratiche e del punteggio attribuito alla prova orale;
   che sul punto anche tenuto conto dell’orientamento prevalso in giurisprudenza secondo cui il criterio della media previsto dall’art. 7, comma 3, d.p.r. cit. previsto per i concorsi per soli esami è applicabile, quale regola di carattere generale, anche ai concorsi per titoli ed esami (cfr Tar Lazio sez. II 08/07/2015 n. 9159), va rilevato che la detta regola non può essere definita come un “principio che precluda di per sé l'introduzione di una regola diversa” dal momento che l’art. 70, comma 13, d.lgs. 30.03.2001 n. 165, prevede che: “in materia di reclutamento, le pubbliche amministrazioni applicano la disciplina prevista dal d.p.r. 09.05.1994 n. 487, e successive modificazioni ed integrazioni, per le parti non incompatibili con quanto previsto dagli articoli 35 e 36, salvo che la materia venga regolata, in coerenza con i princìpi ivi previsti, nell'ambito dei rispettivi ordinamenti”; (cfr. in caso analogo Cons. St. sez. VI 13.03.2013 n. 1520);
   che nella specie le parti intimate hanno dedotto che il bando risponde all’ordinamento proprio dell’amministrazione intimata in quanto emanato in conformità alla disciplina regolamentare adottata dal Comune con delibera G.C. n. 12/2020 non oggetto di contestazione in parte qua;
   che tra i principi di cui al comma 3 dell’art. 35 d.lgs. n. 165/2001, cui devono uniformarsi le procedure di reclutamento delle pubbliche amministrazioni, alla lettera b) è indicata l’adozione di meccanismi oggettivi e trasparenti, idonei a verificare il possesso dei requisiti attitudinali e professionali richiesti in relazione alla posizione da ricoprire, tra i quali non è richiamato il metodo di calcolo dei punteggi di cui all’art. 7, comma 4, del d.p.r. n. 487 cit.;
   che comunque non può ritenersi arbitraria o discriminatoria, né contraria al disposto normativo invocato dal ricorrente, o alla norma di principio di cui all’art. 35, comma 3, del d.lgs. n. 165 cit., la volontà dell’amministrazione intimata, resa palese sin dall’emanazione del bando, di attribuire nella fattispecie alla prova pratica lo stesso peso ponderale previsto per la prova scritta (in luogo della media tra prova scritta e prova pratica), tenuto conto della natura tecnica e operativa del posto messo a concorso, e della difformità ontologica tra le due prove, scritta e pratica, volte a verificare attitudini e capacità diverse;
   che pertanto alla luce di quanto sopra il ricorso va respinto siccome infondato e, vista la natura delle questioni trattate, ricorrono giusti motivi per compensare tra le parti le spese di giudizio (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 08.05.2023 n. 167 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

luglio 2022

PUBBLICO IMPIEGO: L. Di Donna, Illegittima la revoca anticipata dell’incarico di PO non ancorata esplicitamente a un mutamento dell'assetto organizzativo (17.08.2022 - tratto da e link a www.neopa.it).
Con l’ordinanza 22.07.2022 n. 22926, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha rammentato che
la revoca anticipata dell'incarico di posizione organizzativa incontra i limiti legislativamente e pattiziamente stabiliti.
In particolare, ricorda la Corte, l'art. 9 del CCNL del comparto Regioni ed autonomie locali del 31.03.1999 (si v. oggi l’art. 14, comma 3, del CCNL del comparto Funzioni locali), integrando la disciplina normativa, stabilisce, al comma 3: «Gli incarichi possono essere revocati prima della scadenza con atto scritto e motivato, in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di risultati negativi».
La suddetta disciplina prevede, dunque, che la revoca di un incarico possa scaturire o da un procedimento disciplinare o dal mancato raggiungimento degli obiettivi o da esigenze riorganizzative adeguatamente motivate; quanto, in particolare alle ragioni riorganizzative, la revoca anticipata dell'incarico dirigenziale per tali esigenze, pur prevista dalla contrattazione collettiva, deve essere adottata però con un atto formale e richiede una motivazione esplicita, fondata su ragioni attinenti al settore cui è preposto il dirigente (cfr. Cass. 06.10.2020, n. 21482; Cass. 03.02.2017, n. 2972).
Non può pertanto ritenersi legittimamente disposta una revoca anticipata dell’incarico indirettamente scaturita dal conferimento dello stesso al segretario comunale per ragioni non riconducibili ad un mutamento dell'assetto organizzativo (nel caso di specie la revoca è stata motivata dall'esigenza generica di «assicurare la continuazione della gestione coordinata del settore "segreteria-affari legali-innovazioni tecnologiche e sistemi informatici" e del settore "affari istituzionali-personale e interventi economici"
»).
Invero, precisa l’ordinanza, con riguardo all'istituto della revoca anticipata di cui all'art. 9 del CCNL 31.03.1999, ai fini della salvaguardia dei principi costituzionali di buon andamento e imparzialità dell'Amministrazione, la revoca deve essere adottata con un atto formale, deve essere motivata in modo esplicito e le ragioni organizzative, per costituire legittimo fondamento della revoca anticipata dell'incarico dirigenziale, devono attenere allo specifico settore cui è preposto il dirigente (Cass. n. 2972/2017, cit.; Cass. 02.09.2010, n. 19009).

PUBBLICO IMPIEGOLa revoca anticipata dell'incarico di P.O. incontra i limiti legislativamente e pattiziamente stabiliti.
Muovendo dall'esame della normativa di riferimento, va ricordato che l'art. 109 del d.lgs. n. 267 del 2000, rubricato «Conferimento di incarichi dirigenziali», prevede, al primo comma: «Gli incarichi dirigenziali sono conferiti a tempo determinato [...] con provvedimento motivato e con le modalità fissate dal regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza professionale, in relazione agli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o del presidente della provincia e sono revocati in caso di inosservanza delle direttive del sindaco o del presidente della provincia, della giunta o dell'assessore di riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al termine di ciascun anno finanziario degli obiettivi assegnati nel piano esecutivo di gestione [..] o per responsabilità particolarmente grave o reiterata e negli altri casi disciplinati dai contratti collettivi di lavoro. L'attribuzione degli incarichi può prescindere dalla precedente assegnazione di funzioni di direzione a seguito di concorsi»; mentre l'art. 9 del CCNL 31.03.1999, Enti locali, integrando la disciplina normativa, stabilisce, al comma 3: «Gli incarichi possono essere revocati prima della scadenza con atto scritto e motivato, in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di risultati negativi».
Ebbene, la suddetta disciplina prevede, dunque, che la revoca di un incarico possa scaturire o da un procedimento disciplinare o dal mancato raggiungimento degli obiettivi o da esigenze riorganizzative adeguatamente motivate; quanto, in particolare alle ragioni riorganizzative, la revoca anticipata dell'incarico dirigenziale per tali esigenze, pur prevista dalla contrattazione collettiva, deve essere adottata però con un atto formale e richiede una motivazione esplicita, fondata su ragioni attinenti al settore cui è preposto il dirigente
.
Invero, con riguardo all'istituto della revoca anticipata di cui all'art. 9 del CCNL 31.03.1999, ai fini della salvaguardia dei principi costituzionali di buon andamento e imparzialità dell'Amministrazione, la revoca deve essere adottata con un atto formale, deve essere motivata in modo esplicito e le ragioni organizzative, per costituire legittimo fondamento della revoca anticipata dell'incarico dirigenziale, devono attenere allo specifico settore cui è preposto il dirigente.
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Rilevato che:
   1. con sentenza n. 1091/2015, pubblicata in data 17.11.2015, la Corte d'appello di Salerno confermava le due statuizioni del Tribunale di Vallo della Lucania che avevano respinto le domande proposte (con distinti ricorsi) da Ge.Br. nei confronti del Comune di Aiscea, la prima intesa a ottenere, previa declaratoria di illegittimità del decreto del Sindaco di Ascea del 01.10.2015, l'affermazione del suo diritto a dirigere il settore Affari Istituzionali-Personale-Cultura-Turismo ed Interventi economici, con reintegra in tale incarico, e, la seconda, diretta ad accertare che, dopo la revoca dell'incarico di posizione organizzativa, gli erano state assegnate, con una serie di atti volti a emarginarlo e isolarlo, mansioni inferiori, donde il diritto al ristoro del danno, patrimoniale e non patrimoniale, patito;
   il Br., in servizio presso l'ente locale con inquadramento D, posizione giuridica D6, premesso di essere stato nominato responsabile del settore predetto con disposizione n. 72 del 23.05.2003 e che, dopo l'insediamento del nuovo Sindaco, avvenuto a giugno 2004, gli era stato conferito, in data 04.03.2005, un incarico di posizione organizzativa ai sensi dell'art. 8 e ss. del CCNL 1999 e dell'art. 44 del Regolamento degli uffici e dei servizi del Comune di Ascea, con termine di scadenza trimestrale, poi prorogato, aveva dedotto che, nonostante lo scrutinio d'efficienza del Nucleo di valutazione, il Sindaco aveva illegittimamente conferito, in data 01.10.2005, la relativa delega al segretario comunale;
   aveva soggiunto che, dopo l'entrata in carica della nuova Giunta, l'ufficio da lui diretto era stato privato di un'unità di personale ed egli era stato estromesso, con plurime condotte mobbizzanti, dalle decisioni amministrative programmatiche che coinvolgevano il suo settore, con indebita attribuzione di mansioni prettamente esecutive e conseguente insorgenza, per effetto dell'illecita condotta dell'amministrazione, di una sindrome ansioso-depressiva nonché di patologie ipertensive e ulcerose;
   la Corte territoriale, adita dagli eredi del Br. con distinti gravami, poi riuniti, respingeva i ricorsi ex art. 434 cod. proc. civ.;
   osservava in particolare che la revoca dell'incarico di posizione organizzativa, legittimamente disposta ai sensi dell'art. 9 CCNL 31.03.1999, era dovuta non a insufficiente rendimento, ma a mutamento dell'assetto organizzativo dell'ente, e di ciò dava atto il provvedimento del 01.10.2005, il quale, nel conferire l'incarico in parola al segretario comunale, evidenziava la necessità di «assicurare la continuazione della gestione coordinata del settore "segreteria-affari legaliinnovazioni tecnologiche e sistemi informatici" e del settore "affari istituzionalipersonale e interventi economici"»;
   sulla scorta delle testimonianze assunte in prime cure, la Corte di merito, in sintonia con le argomentazioni del primo giudice, escludeva l'esistenza di un comportamento mobbizzante o comunque di violazioni dell'art. 2103 cod. civ., le quali non potevano dirsi integrate per il sol fatto della revoca dell'incarico direttivo, stante la non configurabilità di un diritto soggettivo a conservarlo;
   rilevava infine la Corte territoriale che, dopo la revoca dell'incarico, vissuta dal Br. come un sostanziale «declassamento», era insorta «aspra polemica con i vertici politici» culminata nel rifiuto di accettare pratiche che provenivano dal segretario comunale e indi nella vicenda del disposto trasferimento interno (impugnato in via cautelare) al terzo piano, ove il Br. alfine si sistemò «in una posizione priva di poteri effettivi ma in sostanza, e per così dire, autoindotta»;
   2. avverso tale sentenza gli eredi di Br.Ge. hanno proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi;
   3. il Comune di Ascea ha resistito con controricorso illustrato con memoria ex art. 378 cod. proc. civ., mentre l'Unione Italiana Lavoro-Federazione Poteri Locali (UIL-FPL) è rimasta intimata.
Considerato che:
   1. con il primo motivo i ricorrenti denunciano, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 5 del d.lgs. 30.03.2001 n. 165 e dell'art. 9 CCNL 1999 del Comparto Enti Locali; sostengono che i mutamenti organizzativi cui farebbe riferimento l'art. 9, cit., si riferirebbero agli atti di macro-organizzazione incidenti sull'assetto organizzativo e strutturale dell'ente, previsti dall'art. 2 d.lgs. n. 165, cit., mentre nella specie «l'incarico conferito al segretario comunale, allo stesso modo dell'incarico conferito al Br., è atto di tipo datoriale, adottato con i poteri del privato datore di lavoro», di qui l'illegittimità della revoca non consentita per gli atti di «microorganizzazione » di cui all'art. 5, d.lgs. n. 165„ cit.;
   2. con il secondo motivo i ricorrenti denunciano, ex art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., la violazione degli artt. 7 e 32 del Regolamento Uffici e Servizi del Comune di Ascea approvato con delibera di Giunta comunale n. 72/03, degli artt. 89, 97, 107 e 109 del TUEL (d.lgs. 18.08.2000 n. 267), dell'art. 9 CCNL del 1999 e dell'art. 15 CCNL 2002 Comparto Enti Locali, dell'art. 52 d.lgs. n. 165/2001, dell'art. 2103 cod. civ.; assumono che, ove manchino figure dirigenziali, gli uffici sono affidati alla responsabilità dei dipendenti di cat. D e che al segretario comunale non potrebbero essere affidati compiti di gestione «se non in via transitoria, per motivi eccezionali», compiti che sarebbero invece spettati esclusivamente al Br., siccome titolare di una posizione apicale all'interno dell'ente, pena, in difetto, il suo inevitabile demansionamento;
   3. il primo ed il secondo motivo, trattati unitariamente, sono fondati nei sensi qui di seguito esposti. Denunciano, in sostanza, i ricorrenti l'insussistenza dei presupposti della revoca dell'incarico di posizione organizzativa e l'illegittimità del contestuale conferimento dello stesso al segretario comunale.
   In ragione della funzione del giudizio di legittimità di garantire l'osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, nonché per omologia con quanto prevede la norma di cui al secondo comma dell'art. 384 cod. proc. civ., deve ritenersi che, nell'esercizio del potere di qualificazione in diritto dei fatti, la Corte di cassazione può ritenere fondata la questione, sollevata dal ricorso, per una ragione giuridica diversa da quella specificamente indicata dalla parte e individuata d'ufficio, con il solo limite che tale individuazione deve avvenire sulla base dei fatti per come accertati nelle fasi di merito ed esposti nel ricorso per cassazione e nella stessa sentenza impugnata, senza cioè che sia necessario l'esperimento di ulteriori indagini di fatto, fermo restando, peraltro, che l'esercizio del potere di qualificazione non deve inoltre confliggere con il principio del monopolio della parte nell'esercizio della domanda e delle eccezioni in senso stretto, con la conseguenza che resta escluso che la Corte possa rilevare l'efficacia giuridica di un fatto se ciò comporta la modifica della domanda per come definita nelle fasi di merito o l'integrazione di una eccezione in senso stretto (Cass. 28.07.2017, n. 18775; Cass. 14.02.2014, n. 3437; 22.03.2007, n. 6935).
   3.1 Ciò detto, è pacifico tra le parti che l'incarico del Br. quale dirigente del settore Affari Istituzionali-Personale-Cultura-Turismo e Interventi economici fosse stato, da ultimo, confermato in data 25/07/2003 e che fosse altresì intervenuto un giudizio positivo del Nucleo di valutazione; era stato poi emesso il decreto sindacale del 01.10.2005, con il quale il Sindaco del Comune di Ascea aveva conferito l'incarico in parola al segretario comunale;
   la Corte territoriale, nell'assumere l'irrilevanza della durata (trimestrale) dell'incarico, ha vagliato le determinazioni dell'Ente in relazione alla sussistenza dei presupposti normativi per la revoca del conferimento della posizione organizzativa («è irrilevante che l'incarico dovesse avere la durata individuata dall'art. 19 del d.lgs. n. 165/2001 o dall'art. 44 del regolamento comunale, ciò che conta è che la revoca sia stata legittimamente disposta»: così a pag. 6 della sentenza impugnata);
   sennonché, la revoca anticipata dell'incarico incontra i limiti legislativamente e pattiziamente stabiliti;
   muovendo dall'esame della normativa di riferimento, va ricordato che l'art. 109 del d.lgs. n. 267 del 2000, rubricato «Conferimento di incarichi dirigenziali», prevede, al primo comma: «Gli incarichi dirigenziali sono conferiti a tempo determinato [...] con provvedimento motivato e con le modalità fissate dal regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza professionale, in relazione agli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o del presidente della provincia e sono revocati in caso di inosservanza delle direttive del sindaco o del presidente della provincia, della giunta o dell'assessore di riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al termine di ciascun anno finanziario degli obiettivi assegnati nel piano esecutivo di gestione [..] o per responsabilità particolarmente grave o reiterata e negli altri casi disciplinati dai contratti collettivi di lavoro. L'attribuzione degli incarichi può prescindere dalla precedente assegnazione di funzioni di direzione a seguito di concorsi»; mentre l'art. 9 del CCNL 31.03.1999, Enti locali, integrando la disciplina normativa, stabilisce, al comma 3: «Gli incarichi possono essere revocati prima della scadenza con atto scritto e motivato, in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di risultati negativi»;
   ebbene, la suddetta disciplina prevede, dunque, che la revoca di un incarico possa scaturire o da un procedimento disciplinare o dal mancato raggiungimento degli obiettivi o da esigenze riorganizzative adeguatamente motivate; quanto, in particolare alle ragioni riorganizzative, la revoca anticipata dell'incarico dirigenziale per tali esigenze, pur prevista dalla contrattazione collettiva, deve essere adottata però con un atto formale e richiede una motivazione esplicita, fondata su ragioni attinenti al settore cui è preposto il dirigente (cfr. Cass. ordinanza 06.10.2020 n. 21482; Cass. sentenza 03.02.2017 n. 2972);
   3.2 nel caso di specie, invece, come è pacifico tra le parti, la revoca era indirettamente scaturita dal conferimento dello stesso incarico al segretario comunale, per effetto del quale il Br. era privato dei compiti precedentemente assegnati; ma tale determinazione implicita, motivata dall'esigenza generica di «assicurare la continuazione della gestione coordinata del settore "segreteria-affari legali-innovazioni tecnologiche e sistemi informatici" e del settore "affari istituzionali-personale e interventi economici"
», non ancorata esplicitamente a un mutamento dell'assetto organizzativo, non integra quella «riorganizzazione» richiesta dalla disciplina pattizia per la revoca anticipata dell'incarico dirigenziale.
   Invero, con riguardo all'istituto della revoca anticipata di cui all'art. 9 del CCNL 31.03.1999, ai fini della salvaguardia dei principi costituzionali di buon andamento e imparzialità dell'Amministrazione, la revoca deve essere adottata con un atto formale, deve essere motivata in modo esplicito e le ragioni organizzative, per costituire legittimo fondamento della revoca anticipata dell'incarico dirigenziale, devono attenere allo specifico settore cui è preposto il dirigente (Cass.
sentenza 03.02.2017 n. 2972, cit.; Cass. 02.09.2010, n. 19009).
   Pertanto, alla stregua (e nei limiti) dei rilievi suesposti, i primi due motivi di ricorso devono essere accolti, dovendo la Corte d'appello in sede di rinvio fare applicazione del principio di diritto dianzi enunciato (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 22.07.2022 n. 22926).
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Si legga al riguardo anche:
  
● L. Oliveri, Cassazione: illegittima la revoca di incarico di posizione organizzativa per “esigenze organizzative” fittizie. Non ammissibile incaricare il segretario comunale senza una effettiva e motivata modifica della macrostruttura dell’ente, ma in base a decisione ad personam penalizzando il precedente incaricato (17.08.2022 - link a https://leautonomie.asmel.eu).
...
No alle revoche di incarichi di preposizione ai vertici delle strutture giustificati da “riorganizzazioni” solo fittizie, ma nella realtà volti semplicemente ad incidere sull’incaricato che finisce per essere esautorato a vantaggio di altri.
L’ordinanza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 22.07.2022, n. 22926 interviene opportunamente per stigmatizzare una prassi illegittima ma molto diffusa nelle amministrazioni locali e non solo: l’abitudine, cioè, di incidere negativamente sugli incarichi di dirigenti o posizioni organizzative, destituendo soggetti “non graditi” o non “in linea”, sulla base di riorganizzazioni che non riorganizzano nulla, ma semplicemente si limitano a sostituire il precedente incaricato con un altro, senza rispettare alcuna delle disposizioni appositamente previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva proprio per evitare revoche ad nutum. (...continua).

PUBBLICO IMPIEGOL’ipotesi di sopravvenuti mutamenti organizzativi non ha attinenza con la procedura di valutazione annuale né con la ratio, di partecipazione e di garanzia del dipendente, sottesa all’obbligo del contraddittorio, sicché la previsione del previo contraddittorio con l’interessato (ex art. 9, comma 4, del CCNL 31.03.1999 Regioni ed Autonome Locali) riguarda la sola ipotesi di revoca anticipata dell’incarico di posizione organizzativa in conseguenza dello specifico accertamento di risultati negativi e non anche in caso di revoca per intervenuti mutamenti organizzativi.
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RILEVATO CHE
1. Con sentenza del 15.04.2016 la Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale di Tivoli, rigettava la domanda proposta da LU.FI., dipendente del Comune di GUIDONIA MONTECELIO (in prosieguo: il COMUNE):
   - per l’accertamento della illegittimità della revoca anticipata della posizione organizzativa conferitale presso l’Area VII del Comune a seguito del trasferimento, con atto del 13.07.2010, dall’area VII all’area III, per la dichiarazione di illegittimità dello stesso trasferimento ed il risarcimento del danno patrimoniale;
   - per l’accertamento di una fattispecie di mobbing e per il risarcimento del conseguente danno non patrimoniale.
2. La Corte territoriale osservava che l’articolo 9 CCNL del Comparto REGIONI ED AUTONOMIE LOCALI del 31.03.1999 prevedeva due ipotesi di revoca anticipata della posizione organizzativa, rispettivamente per esigenze organizzative sopravvenute e per l’accertamento di risultati negativi.
3. Soltanto in questa seconda ipotesi era previsto il previo contraddittorio con il dipendente interessato e non in caso di revoca per ragioni organizzative, come confermato anche dalle disposizioni regolamentari.
4. Nella fattispecie di causa, il provvedimento di riassegnazione della FI., che non configurava trasferimento, era adeguatamente motivato per relationem; dalla riorganizzazione disposta dal Comune, di cui dava atto la stessa dipendente, derivava la necessità di garantire all’area III una dirigenza tecnica ed un funzionario amministrativo (professionalità posseduta dalla FI.).
5. Dalla legittimità degli atti impugnati derivava l’accoglimento dell’appello incidentale del COMUNE e l’assorbimento dell’appello principale della FI..
6. Ha proposto ricorso per cassazione della sentenza LU.FI., articolato in sei ragioni di censura ed illustrato con memoria, cui ha resistito il COMUNE con controricorso.
CONSIDERATO CHE
...
27. Con il quinto motivo la ricorrente ha lamentato ―ai sensi dell’articolo 360 nr. 3 e nr. 5 cod. proc. civ.― la violazione e falsa applicazione degli articoli 8 e 9 CCNL 31.03.1999 e dell’articolo 9 del regolamento delle posizioni organizzative nonché l’omessa motivazione, censurando la statuizione secondo cui l’obbligo del previo contraddittorio con il dipendente riguarderebbe soltanto la revoca della posizione organizzativa in conseguenza dell’ accertamento di risultati negativi e non anche il caso di revoca per mutamenti organizzativi.
28. Si evidenzia che l’articolo 9 del CCNL REGIONI ED AUTONOMIE LOCALI del 31.03.1999 prevede la procedura in contraddittorio, al comma quattro, «per la revoca anticipata di cui al comma 3», comma comprendente entrambe le ipotesi di revoca.
29. Si deduce, altresì, la carenza di motivazione della revoca, in quanto la sentenza impugnata avrebbe avallato la tesi della revoca della posizione organizzativa implicita nell’atto di trasferimento ad altra struttura, laddove l’articolo 9 del regolamento delle posizioni organizzative richiede la motivazione in ogni caso di revoca della posizione organizzativa.
30. La censura è inammissibile nella parte in cui deduce in via diretta la violazione del regolamento comunale sulle posizioni organizzative, in quanto esso non costituisce norma di diritto, ma disposizione adottata dal datore di lavoro pubblico con i poteri privatistici di gestione del rapporto di lavoro.
31. La deduzione della violazione dell’obbligo di motivazione della revoca anticipata della posizione organizzativa ―obbligo previsto dall’articolo 9, comma tre, CCNL REGIONI ED AUTONOMIE LOCALI 31.03.1999― non si confronta con la ratio decidendi della sentenza impugnata, che ha ritenuto assolto l’obbligo di motivazione, in quanto detta motivazione era contenuta nello stesso atto di riassegnazione della Fi. ad altra area (pagina 5 della sentenza impugnata, capoverso 4 e capoverso 5).
32. Il motivo è infondato quanto all’assunta necessità del contraddittorio con il dipendente interessato in caso di revoca della posizione organizzativa dovuta a «mutamenti organizzativi».
33. Vero è che l’articolo 9, comma quattro, del CCNL REGIONI ED AUTONOMIE LOCALI del 31.03.1999 prevede la procedura in contraddittorio per la revoca anticipata dell’incarico «di cui al comma 3» e che il predetto comma tre si riferisce congiuntamente alla revoca anticipata «in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di risultati negativi».
34. Tuttavia, la disposizione contenuta nell’ultima parte del comma quattro va letta congiuntamente alle precedenti proposizioni dello stesso comma, relative alla valutazione annuale dei risultati dell’ attività svolta dai dipendenti cui sia attribuito un incarico di posizione organizzativa.
35. In particolare, il comma quattro dispone che la valutazione dei risultati, regolata da criteri e procedure predeterminati dall’ente, se positiva, dà titolo anche alla corresponsione della retribuzione di risultato; se non positiva deve essere preceduta dal contraddittorio con il dipendente interessato. L’ultima parte della stessa disposizione si riferisce chiaramente ad una terza eventualità― ovvero l’accertamento «specifico» di risultati negativi― che, a norma del precedente comma tre, determina anche la revoca anticipata della posizione organizzativa e si limita a prevedere che anche in questo caso la valutazione deve essere preceduta dal contraddittorio con il dipendente interessato.
36. Resta invece fuori dalla previsione del comma quattro l’ipotesi di sopravvenuti mutamenti organizzativi, che non ha alcuna attinenza con la procedura di valutazione annuale né con la ratio, di partecipazione e di garanzia del dipendente, sottesa all’obbligo del contraddittorio.
37. In conclusione, l’articolo 9, comma quattro, del CCNL 31.03.1999 REGIONI ED AUTONOMIE LOCALI prevede l’obbligo del previo contraddittorio con l’interessato per la sola ipotesi di revoca anticipata dell’incarico di posizione organizzativa in conseguenza dello specifico accertamento di risultati negativi e non anche in caso di revoca per intervenuti mutamenti organizzativi, come correttamente affermato nella sentenza impugnata (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 11.07.2022 n. 21930).

maggio 2022

PUBBLICO IMPIEGOIncarichi dirigenziali esterni, «sì» alla clausola risolutiva del contratto in caso di soppressione della struttura.
In sede di incarico dirigenziale conferito dalla Pa a un soggetto esterno è legittima la clausola che prevede una condizione risolutiva al contratto di lavoro, con riferimento al caso di sopravvenuta soppressione della struttura o di sostanziale modifica delle competenze alla stessa assegnate.
Tale condizione risolutiva non incorre nella fattispecie di nullità sancita dall'articolo 1418 del codice civile per le clausole negoziali di risoluzione automatica del contratto di lavoro subordinato, né dà luogo a un'ipotesi di licenziamento o di revoca dell'incarico dirigenziale in violazione del sistema ordinamentale.
Al contrario, la clausola costituisce la previsione anticipata di un effetto risolutivo che si produrrebbe comunque secondo l'articolo 1463 del codice civile (impossibilità totale nel contratto con prestazioni corrispettive).

Con queste motivazioni la Corte di Cassazione (Sezione Lavoro, sentenza 10.05.2022 n. 14758) ha accolto il ricorso proposto dalla Regione Marche contro la decisione n. 286/2015 della Corte d'Appello di Ancona, che:
   • aveva dichiarato l'illegittimità della delibera regionale di risoluzione del contratto di lavoro stipulato nel 2011, avente a oggetto l'affidamento di un incarico per la dirigenza della struttura «Dipartimento per la salute e per i servizi sociali»;
   • aveva condannato la Regione Marche al ripristino del rapporto di lavoro con il dirigente interessato e al risarcimento del danno.
La clausola risolutiva del contratto era stata applicata dopo il varo della legge regionale 45/2012 che disponeva la soppressione del «Dipartimento per la salute e per i servizi sociali» e la sostituzione di detta struttura con due nuovi servizi, cioè il «Servizio sanità» e il «Servizio politiche sociali», sempre incardinati nell'organizzazione regionale del settore. Di qui la risoluzione del rapporto con il dirigente del disciolto Dipartimento e l'avvio del contenzioso giunto poi all'esame della Suprema Corte.
La cassazione ha sostenuto che il divieto di clausole negoziali di risoluzione automatica del contratto non può essere automaticamente trasposto, nel pubblico impiego, al rapporto di lavoro subordinato a termine per lo svolgimento di un incarico dirigenziale.
Questo perché secondo il testo unico in materia negli incarichi dirigenziali si distinguono due momenti, ossia il conferimento dell'incarico, che ha luogo per atto unilaterale della Pa, e la fissazione del trattamento economico, che viene disciplinato con contratto (articolo 19 del Dlgs 165/2001).
In tale contesto, la revoca ante tempus è consentita dall'articolo 21 del decreto nella sola ipotesi di responsabilità dirigenziale, mentre nel caso di motivate esigenze organizzative il sistema ha codificato la facoltà della Pa di disporre il passaggio dei dirigenti ante tempus ad altro incarico.
Nel caso di specie, la clausola apposta al contratto dirigenziale si riferiva all'ipotesi di una soppressione della struttura o di una modifica delle sue competenze «effettuate nelle stesse forme previste dalla vigente normativa per la sua istituzione», facendo rinvio a un evento non solo futuro e incerto, ma anche indipendente dalla volontà delle parti.
Tutto ciò ha indotto la Suprema Corte a concludere che la sentenza impugnata ha operato un'indebita sovrapposizione della disciplina del licenziamento a quella della risoluzione dell'incarico dirigenziale per la sopravvenuta modifica della struttura organizzativa della Pa (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 23.05.2022).

PUBBLICO IMPIEGO: In caso di soppressione della struttura è legittima la clausola risolutiva del contratto di lavoro del dirigente esterno.
In caso di sopravvenuta soppressione della struttura o di sostanziale modifica delle competenze assegnate alla stessa è legittima la clausola che preveda una condizione risolutiva del contratto di lavoro relativo ad un incarico dirigenziale conferito dalla P.A. ad un soggetto esterno.
Tanto, ai sensi dell’art. 1463 c.c. per impossibilità sopravvenuta nel contratto con prestazioni corrispettive, non ricorrendo né la fattispecie della nullità ex art. 1418 c.c. per le clausole negoziali di risoluzione automatica del contratto di lavoro subordinato, né un'ipotesi di licenziamento o di revoca dell'incarico dirigenziale in violazione del sistema ordinamentale.

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7. Il ricorso, i cui motivi possono essere trattati congiuntamente per la loro connessione, è fondato.
8. Giova premettere che il RU. venne incaricato dalla REGIONE MARCHE, con il contratto del 14.01.2011, quale soggetto esterno, di dirigere il ««DIPARTIMENTO PER LA SALUTE E PER I SERVIZI SOCIALI»; tale dipartimento era stato istituito con la Legge Regionale Marche 22.11.2010 nr. 17, articolo 4, nell'ambito delle strutture organizzative della Giunta Regionale.
9. Secondo l'articolo 9 del contratto di lavoro, il rapporto si sarebbe risolto di diritto «in caso di soppressione della struttura o di sostanziale modifica delle competenze alla stessa assegnate, effettuate nelle stesse forme previste dalla vigente normativa per la sua istituzione».
La L.R. MARCHE 27.12.2012 nr. 45, articolo 19, sostituì al «DIPARTIMENTO PER LA SALUTE E PER I SERVIZI SOCIALI» due servizi, il SERVIZIO SANITA' ed il SERVIZIO POLITICHE SOCIALI, sempre incardinati nell'ambito delle strutture organizzative della Giunta Regionale. Di qui il rilievo del suddetto articolo 9 del contratto di lavoro.
10. La Corte di merito ha ritenuto nulla tale previsione contrattuale applicando un principio— la nullità ex articolo 1418 cod. civ. delle clausole negoziali di risoluzione automatica del contratto di lavoro subordinato— enunciato da questa Corte (ex aliis, Cass. sez. un. 07.08.1998 n. 7755; Cassazione civile sez. lav., 04/06/1999, n. 5501) in riferimento ai rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato di diritto privato; si è, infatti, affermato che ammettere fattispecie di estinzione del rapporto di lavoro non sottoposte ai limiti generali del sistema dei licenziamenti significherebbe ridurre arbitrariamente l'ambito di operatività del sistema stesso.
11. Tale principio, per quanto di seguito verrà illustrato, non può essere automaticamente trasposto, nel pubblico impiego privatizzato, al rapporto di lavoro subordinato a termine che si instaura per lo svolgimento di un incarico dirigenziale.
12. Va, infatti, ricordato che —secondo la generale disciplina dell'articolo 19 D.Lgs. 165/2001—nel conferimento degli incarichi dirigenziali si distinguono due momenti: il conferimento dell'incarico, per atto unilaterale della amministrazione e la fissazione del trattamento economico, in via contrattuale. Nel caso in cui l'incarico venga conferito ad un soggetto esterno all'amministrazione, con il contratto si costituisce anche un rapporto di lavoro, autonomo (si pensi alle cariche di vertice delle Aziende Sanitarie Locali) o dipendente, comunque a termine, in quanto collegato alla durata, ex lege temporanea, dell'incarico; nella specie, per quanto è pacifico in causa, il rapporto di lavoro era di natura subordinata.
13. Alla unilateralità del conferimento dell'incarico dirigenziale non corrisponde una generale discrezionalità di revoca da parte della pubblica amministrazione: la revoca ante tempus è consentita dal D.Lgs. nr. 165/2001, articolo 21, nell'ipotesi di responsabilità dirigenziale. La contrattazione collettiva— (per i dirigenti dell'Area II- Regioni ed autonomie locali, articolo 22 CCNL 1994/1997 ed articolo 13 CCNL 1998/2001)— ha disciplinato, invece, una revoca per ragioni organizzative di natura oggettiva, che ha trovato poi riconoscimento a livello legislativo nell'articolo 1, comma diciotto, D.L. nr. 138/2011, conv. in L. nr. 148/2011.
La norma ha codificato la facoltà delle amministrazioni pubbliche di disporre il passaggio dei dirigenti ante tempus ad altro incarico per motivate esigenze organizzative.
14. Del resto, la possibilità di revoca dell'incarico dirigenziale per ragioni organizzative, prima ancora di essere prevista dalla contrattazione collettiva e dal legislatore del 2011, derivava dal potere della pubblica amministrazione di determinare le linee fondamentali di organizzazione dei propri uffici (articolo 2, comma uno e articolo 5, comma uno, D.Lgs. nr. 165/2001) e, perciò, eventualmente di sopprimerli, con riflessi indiretti sulle relative posizioni di responsabilità.
15. Nell'ipotesi ordinaria, in cui l'incarico dirigenziale è affidato ad un dirigente di ruolo della amministrazione che lo conferisce, la cessazione dell'incarico —e del contratto che ad esso accede— non incide sul rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato del dirigente; quando l'incarico è assegnato, invece, ad un soggetto esterno —come nella fattispecie di causa— con la revoca dell'incarico si risolve anche il rapporto di lavoro.
16. Dalla esposizione sin qui svolta risulta che il rapporto di lavoro a termine che si instaura in caso di incarico dirigenziale esterno cessa anticipatamente, in caso di subordinazione, non solo per effetto di licenziamento per giusta causa, ex articolo 2119 cod. civ. (nelle ipotesi di responsabilità disciplinare) ma anche per revoca dell'incarico, all'esito dell'accertamento della responsabilità dirigenziale (responsabilità, quest'ultima, distinta da quella disciplinare) ovvero per ragioni organizzative.
17. Nelle ipotesi di revoca dell'incarico esterno, la cessazione del rapporto di lavoro dirigenziale a termine è effetto della dipendenza di tale rapporto dall'incarico conferito.
18. Un meccanismo analogo si verifica nelle ipotesi in cui la soppressione di una struttura amministrativa si verifichi— invece che per atto di riorganizzazione della stessa amministrazione— in forza di una disposizione di legge.
19. In detta eventualità, come già chiarito da questa Corte nell'arresto del 07.09.2021 nr. 24079, la risoluzione del rapporto di lavoro si verifica secondo lo schema civilistico della impossibilità sopravvenuta della prestazione, ex articolo 1463 cod. civ. (il caso esaminato nella pronuncia citata riguardava la risoluzione del rapporto di lavoro del direttore generale di una ASL a seguito della riorganizzazione del servizio sanitario per legge regionale, con soppressione della Azienda sanitaria). Si è, in particolare, evidenziato che il conferimento dell'incarico dirigenziale dà luogo ad un rapporto sinallagmatico in cui la prestazione di ciascuna celle parti trova la sua causa nella prestazione dell'altra ed operano i principi generali per cui la sopravvenuta impossibilità assoluta della prestazione importa, con il venir meno della causa del contratto, la risoluzione dello stesso e, di conseguenza, la risoluzione del rapporto.
20. Nella fattispecie di causa, l'ipotesi della soppressione dell'ufficio dirigenziale è stata anticipatamente regolata dalle parti a livello negoziale, con la previsione della automatica risoluzione del rapporto di lavoro.
Trattandosi di ufficio istituito per legge regionale, l'ipotesi della sua soppressione o della modifica delle sue competenze «effettuate nelle stesse forme previste dalla vigente normativa per la sua istituzione», rinviava al verificarsi di un fatto sopravvenuto oggettivo ed indipendente dalla volontà delle parti, incerto nell'an e nel quando. La clausola, dunque, apponeva una condizione risolutiva al contratto di lavoro.
21. Detta condizione non è illecita, in quanto non prevede una ipotesi di licenziamento o di revoca dell'incarico dirigenziale in deroga al sistema ordinamentale, ma costituisce la anticipata previsione di un effetto che, in assenza della clausola accessoria, si sarebbe comunque prodotto secondo la previsione dell'articolo 1463 cod. civ. (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 10.05.2022 n. 14758).

aprile 2022

PUBBLICO IMPIEGOSvolgimento di attività incompatibile con il pubblico impiego.
La Corte dei Conti, sezione giurisdizionale Lazio, nella sentenza 26.04.2022 n. 329, ha concluso che il pubblico dipendente che usufruisca dei permessi ex legge 104/1992 per assistere un famigliare disabile grave risponde del danno erariale, conseguente alla non prestazione dell'assistenza e contestualmente alla mancanza di prestazione lavorativa, solo quando tale fruizione illegittima risulti provata.
Ne consegue che una pronuncia di assoluzione in sede penale, per assenza di dimostrazione dei fatti, ha effetto inibitorio del risarcimento del danno patrimoniale, dal momento che resta nel campo della mera probabilità quanto supposto in sede istruttoria, in ordine allo "sviamento" dell'utilizzo dei predetti permessi.
Analogamente, la violazione del principio di esclusività del rapporto di pubblico impiego (articolo 53 del Dlgs 165/2001) per svolgimento di attività incompatibile, quale l'esercizio di impresa –fatta salva la rilevanza disciplinare– effettuata nei giorni in cui il dipendente fruiva dei permessi sopra citati (per i quali sia risultata assente la dimostrazione dell'assistenza al congiunto), non comporta un danno patrimoniale per la pubblica amministrazione (anche in questo caso quando non sia data dimostrazione del contrario), ma unicamente un pregiudizio alle suddette finalità tutelate dalla norma in questione (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 26.05.2022).
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SENTENZA
La domanda della Procura attrice non può trovare, ad avviso del Collegio, accoglimento.
Per quanto attiene alla prima posta di danno azionato, relativa all’illecita percezione della retribuzione connessa ai permessi di cui alla l. n. 104/1992, in misura pari a euro 2.819,80, come emerso anche nella discussione nell’odierna udienza, appare dirimente quanto accertato, in modo divenuto irrevocabile, dal Tribunale penale di Roma, con sentenza n. 3076/2021.
Nella richiamata pronuncia, infatti, nell’assolvere l’odierno convenuto con la formula “perché il fatto non sussiste” in riferimento ai medesimi fatti su cui si fonda la citazione in esame, si è statuito che “non è stato dimostrato che il Pa. nei trenta giorni (contestati nel capo d’imputazione) per i quali ha ottenuto il permesso ex L. 104/1992 non abbia prestato assistenza al suocero”, rimanendo, dunque, nel campo della mera probabilità quanto supposto in sede istruttoria, in ordine allo ‘sviamento’ dell’utilizzo dei predetti permessi.
Nella medesima sentenza, vi è, altresì, una seconda statuizione che riveste rilievo anche in questo giudizio. Nel valutare la necessità o meno di trasmettere gli atti al p.m. penale per procedere per il reato di truffa, in riferimento alla violazione del divieto di svolgimento di altre professioni o impieghi previsto per i pubblici impiegati dall'art. 53 d.lgs. 165/2001, si afferma, infatti, che “nel caso di specie non è provato che tale violazione -impregiudicata la sua valenza a fini disciplinari- abbia comportato un danno economico per l'amministrazione, rilevante, come tale, ai fini dell'art. 640 c.p. Invero, è emerso che il Pa. si è assentato dall'ufficio per recarsi presso la sede della Ce.Of. s.n.c. di Pa. & co. solo nelle giornate in cui aveva ottenuto il permesso ex L. 104/1992: pertanto, in quei giorni legittimamente il prevenuto non si è recato a lavorare (non essendo stato dimostrato, come detto, che non abbia prestato assistenza al suocero), cosicché la violazione dell’art. 53 d.lgs. 165/2001 non avrebbe comportato un danno patrimoniale per la p.a. (o almeno non è stato dimostrato il contrario), ma unicamente un pregiudizio alle suddette finalità tutelate dalla norma in questione”.
Venendo, dunque, alla correlata posta di danno azionata dalla Procura erariale nel presente giudizio, nella citazione nulla si aggiunge in ordine a tale profilo rispetto agli elementi di fatto già analizzati dal Giudice penale, limitandosi ad osservare che “le energie lavorative da destinare in via esclusiva al lavoro pubblico sono state dirottate all’espletamento di un’attività di impresa vietata al dipendente pubblico”.
La ricostruzione svolta da parte attrice in ordine alla configurabilità di una responsabilità risarcitoria scaturente ex se dallo svolgimento di attività assolutamente incompatibile non appare condivisibile dal Collegio, alla luce dell’orientamento già più volte ribadito da questa Sezione (ex plurimis sentenza n. 663/2020).
E’ stato, infatti, già rilevato, che “a differenza della meno grave fattispecie avente a oggetto lo svolgimento di incarichi non autorizzati per omessa richiesta, non emerge un’analoga tipizzazione del danno da mancata entrata ex se derivante dallo svolgimento di incarichi incompatibili. Per quest’ultimi, tra i quali sono sussumibili anche quelli oggetto del presente giudizio, dunque, risulta necessario provare che il loro illegittimo esercizio abbia determinato in concreto un danno erariale”.
Tale prova è mancata nell’odierno giudizio, non potendo inferirsi un danno in concreto dalla mera “prova documentale” del solo svolgimento di un’attività incompatibile, ovvero farsi riferimento alla valutazione equitativa ex art. 1226 c.c., presupponendo quest’ultima la preventiva dimostrazione di un nocumento effettivo a carico dell’amministrazione.
Nel caso di specie, peraltro, come sopra già ricordato vi sono elementi, valorizzati nella stessa sentenza penale sopra ricordata, che militano nel senso della mancata dimostrazione da parte del requirente di una prestazione da parte del convenuto qualitativamente o quantitativamente inferiore a quella prevista in favore dell’amministrazione di appartenenza, in conseguenza dello svolgimento dell’ulteriore attività in questione.

PUBBLICO IMPIEGOCassazione, il mancato rinnovo dell'incarico di posizione organizzativa non è demansionamento.
Il conferimento di una posizione organizzativa non assume rilievo in termini di apicalità di mansioni in quanto determina un mutamento non del profilo professionale ma delle sole funzioni -con l'attribuzione di una posizione di responsabilità e correlato beneficio economico- le quali cessano alla naturale scadenza dell'incarico senza che per questo di determini un demansionamento.

Lo afferma la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione con l'ordinanza 08.04.2022 n. 11503.
Il demansionamento
La Corte di appello ha negato la configurabilità di una ipotesi di demansionamento in danno di un lavoratore a cui non era stato rinnovato l'incarico di posizione organizzativa e ha rigettato la richiesta risarcitoria.
Questi ricorre in cassazione per violazione e falsa applicazione dell'articolo 52 del Dlgs 165/2001, deducendo il demansionamento che sarebbe stato operato nei suoi confronti, con riconduzione delle attività attraverso la sottrazione del ruolo di coordinamento fino ad allora gestite.
La suprema corte demolisce questa tesi, considerando che le categorie C e D delineate nell'allegato A al Ccnl del 31.03.1999 sono distinte non per la funzione di coordinamento -che sarebbe rinvenibile nella seconda e non invece nella prima, sicché la sottrazione di detta funzione produrrebbe ineluttabilmente in una ipotesi di demansionamento- quanto per il fatto che la categoria C è connotata da competenze monospecialistiche mentre la D ne ha di plurispecialistiche.
Inoltre la responsabilità dei risultati attiene a diversi processi produttivi e non a uno solo di essi per la categoria D e solo quest'ultima è deputata alla risoluzione di problemi di elevata complessità.
L'equivalenza
A sostegno della propria tesi la Cassazione propone due considerazioni.
La prima è che nel pubblico impiego privatizzato l'articolo 52 del Dlgs 165/2001 assegna rilievo solo al criterio dell'equivalenza delle mansioni, con riferimento alla classificazione prevista dai contratti, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il giudice possa sindacarne la natura equivalente, inapplicabile essendo nel pubblico impiego l'articolo 2103 del codice civile.
La seconda è che il conferimento della posizione organizzativa non assume rilievo in termini di apicalità di mansioni -differenziandosi dalle altre posizioni della categoria, nella specie, proprio la D, non caratterizzata dallo svolgimento di compiti di responsabilità di un servizio, solo sotto il profilo economico- non determinandosi un mutamento di profilo professionale, bensì soltanto di funzioni, comportanti unicamente l'attribuzione di una posizione di responsabilità con correlato beneficio economico, le quali cessano alla naturale scadenza dell'incarico, con la conseguenza che la privazione di esse non costituisce una ipotesi di demansionamento (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 22.04.2022).
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SENTENZA
1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 52 d.lgs. n. 165 del 2001 in relazione all’Allegato A del c.c.n.l. del 31.03.1999.
In estrema sintesi, ci si duole che il lavoratore, ufficiale di Polizia Municipale con il grado di tenente, inquadrato nella cat. D1, avrebbe invece svolto mansioni e compiti propri del mero agente, appartenente alla categoria C.
Si lamenta pertanto l’impossibilità di ricondurre detta ipotesi all’alveo dell’art. 52 d.lgs. n. 165 del 2001 e comunque si contesta che di detta disposizione possa darsi “una interpretazione del tutto formale slegata da un concetto di reale difesa del patrimonio professionale del lavoratore”.
2. Con il secondo mezzo si censura il mancato esame di un fatto decisivo ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.
La questione centrale, riproposta sotto altro profilo, resta quella del dedotto demansionamento che sarebbe stato operato, con riconduzione delle attività del tenente La. a quelle del mero agente di polizia municipale e quindi nell’alveo della categoria C e non D, attraverso la sottrazione del ruolo di coordinamento della viabilità e del comando della Polizia ambientale.
Viene sottolineato che il tratto differenziale tra le due categorie C e D è rappresentato proprio dal coordinamento, venendo meno il quale non vi è alcuna possibilità di distinguere tra le mansioni, le funzioni e i compiti propri delle due sopraindicate categorie.
3. I due motivi possono essere trattati congiuntamente perché entrambi riferiti alla questione del dedotto demansionamento.
Orbene, l’esame dei tratti descrittivi delle due categorie come delineati nel c.c.n.l. del 31.03.1999, all. A -che questa Corte può conoscere indipendentemente dalle allegazioni delle parti, atteso che costituisce principio consolidato (fra le ultimissime si veda, Cass. n. 7641/2022) quello secondo il quale il contratto collettivo nazionale di lavoro del pubblico impiego è conoscibile d’ufficio dal giudice, il quale procede con mezzi propri, secondo il principio “iura novit curia”, al suo reperimento, a prescindere dall’iniziativa di parte- consente di evidenziare l’infondatezza della deduzione secondo cui il segno distintivo tra le due categorie consisterebbe nella funzione di coordinamento rinvenibile nella categoria D e non invece nella C, sicché la sottrazione di detta funzione ridonderebbe ineluttabilmente in una ipotesi di demansionamento.
L’assunto è infondato, perché il discrimine fra le due categorie risiede non già nelle funzioni di coordinamento (potenzialmente attribuibili anche a personale inquadrato in categoria C), ma nel rilievo che la categoria C è connotata da competenze monospecialistiche, mentre plurispecialistiche sono quelle della categoria D; inoltre la responsabilità dei risultati attiene a diversi processi produttivi e non ad uno solo di essi per la categoria D e solo quest’ultima è deputata alla risoluzione di problemi di elevata complessità.
Per il resto, le ulteriori doglianze svolte nei due motivi di ricorso -con le quali si chiede di fatto al giudice di legittimità di rivalutare gli ordini di servizio dai quali la Corte territoriale ha desunto che il lavoratore è sempre stato assegnato a compiti e mansioni conferenti il suo grado e la categoria D di appartenenza- sono inammissibili perché si traducono in una richiesta di rivalutazione del materiale probatorio che non può essere compiuta in questa sede.
Corroborano e consolidano le ragioni del rigetto anche altre due considerazioni.
In primo luogo va data continuità al principio, più volte affermato da questa S.C. (v., ex aliis, Cass. n. 18817/2018), secondo cui in tema di pubblico impiego privatizzato l'art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001 assegna rilievo solo al criterio dell'equivalenza delle mansioni, con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il giudice possa sindacarne la natura equivalente, inapplicabile essendo nel pubblico impiego l'art. 2103 c.c.
In secondo luogo, in disparte quanto si è già innanzi detto in ordine alla funzione di coordinamento ed al rilievo che essa non costituisce connotazione distintiva della categoria D rispetto alla C, si deve aggiungere in termini più generali (si veda, tra le altre, Cass. n. 22405/2020) che il conferimento della posizione organizzativa (ex c.c.n.l. del 31.03.1999) non assume rilievo in termini di apicalità di mansioni, differenziandosi dalle altre posizioni della categoria, nella specie, proprio la D, non caratterizzata dallo svolgimento di compiti di responsabilità di un servizio, solo sotto il profilo economico - non determinandosi un mutamento di profilo professionale, bensì soltanto di funzioni, comportanti unicamente l'attribuzione di una posizione di responsabilità con correlato beneficio economico, le quali cessano alla naturale scadenza dell'incarico, con la conseguenza che la privazione di esse non costituisce una ipotesi di demansionamento.
Ne consegue l’infondatezza del ricorso.

PUBBLICO IMPIEGO:  P.A, demansionamento a maglie strette. CASSAZIONE SULLA MANCATA CONFERMA DELL'INCARICO NELL'AREA DELLE P.O.
La mancata conferma dell'incarico nell'area delle posizioni organizzative non è demansionamento.
E' la Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, a tornare a chiarirlo con ordinanza 08.04.2022 n. 11503, relativa proprio alla vicenda di un dipendente di ente locale vistosi privato dell'incarico e, per questa ragione, indotto a rivolgersi all'autorità giudiziaria.
Gli spunti che offre la sentenza sono diversi. La conclusione che propone appare chiara ed inequivocabile: l'attribuzione ai dipendenti locali dell'incarico nell'area delle posizioni organizzative non implica “un mutamento di profilo professionale, bensì soltanto di funzioni”. Con la conseguenza dell'attribuzione “di una posizione di responsabilità con correlato beneficio economico, le quali cessano alla naturale scadenza dell'incarico, con la conseguenza che la privazione di esse non costituisce una ipotesi di demansionamento”.
La circostanza, cioè, che l'incarico nell'area delle posizioni organizzative sia di per sé precario, a tempo determinato e, comunque, soggetto ad una serie di condizioni (come la valutazione positiva o anche il mantenimento nel dell'assetto organizzativo nel quale la PO è prevista) impedisce di considerarlo come un'acquisizione di status giuridico ed economico definitiva, alla stregua del passaggio ad un inquadramento contrattuale superiore.
E' proprio questo il tratto distintivo tra la disciplina delle Posizioni Organizzative nella pubblica amministrazione e l'area Quadri (alla quale spesso le PO sono gergalmente assimilate) nel privato. L'accesso all'area Quadri, infatti, comporta l'acquisizione definitiva di una qualifica, cosa che non avviene con l'incarico nell'area delle PO. Infatti, proprio per questo la tornata della contrattazione collettiva del triennio 2019-2021 intende istituire la cosiddetta nuova “quarta area”, cioè l'Area delle elevate professionalità, che costituirà, al contrario delle PO, una nuova e qualifica: i dipendenti che saranno inquadrati in tale area, l'acquisiranno definitivamente.
Non convince, invece, la sentenza della Cassazione laddove poco prima afferma che l'incarico come PO “non assume rilievo in termini di apicalità di mansioni, differenziandosi dalle altre posizioni della categoria, nella specie, proprio la D, non caratterizzata dallo svolgimento di compiti di responsabilità di un servizio”.
E' esattamente il contrario. Negli enti locali privi di dirigenti, già l'articolo 11 del Ccnl 31.03.1999 (vigente al momento dell'instaurazione della vertenza) disponeva che gli incarichi in PO potessero essere assegnati “esclusivamente a dipendenti cui sia attribuita la responsabilità degli uffici e dei servizi formalmente individuati secondo il sistema organizzativo autonomamente definito e adottato”, in applicazione della previsione dell'articolo 109, comma 2, del d.lgs 267/2000. Tale previsione nel Ccnl 21.05.2018 è stata confermata ed ulteriormente precisata con un riferimento espresso all'apicalità, nell'articolo 17, comma 1: “Negli enti privi di personale con qualifica dirigenziale, i responsabili delle strutture apicali, secondo l'ordinamento organizzativo dell'ente, sono titolari delle posizioni organizzative disciplinate dall'art. 13”.
Negli enti in cui siano presenti qualifiche dirigenziali soltanto la posizione organizzativa non è connessa ad incarichi apicali, riservati ai dirigenti, ma va comunque riconnessa allo svolgimento di funzioni connesse ad una responsabilità specifica di risultato alla guida di strutture a rilevanza interna.
Le sentenza, infine, fornisce un canone per distinguere la categoria C dalla D. La Cassazione ritiene che il discrimine fra le due categorie risiede non consiste nell'esercizio di funzioni di coordinamento, perché esse sono potenzialmente attribuibili anche a personale inquadrato in categoria C (ovviamente, per coordinare altro personale di pari categoria o inferiore).
Il tratto distintivo, allora, consiste nella circostanza che “la categoria C è connotata da competenze monospecialistiche” e le responsabilità da risultato riguardano un solo specifico processo produttivo. Al contrario, ai dipendenti in categoria D si richiedono competenze plurispecialistiche e “la responsabilità dei risultati attiene a diversi processi produttivi”; per altro, solo la categoria D “è deputata alla risoluzione di problemi di elevata complessità” (articolo ItaliaOggi del 16.04.2022).

marzo 2022

PUBBLICO IMPIEGODecadenza da incarichi dirigenziali, per la PA si tratta di poteri datoriali di gestione paritetica del rapporto di lavoro.
Il TAR Puglia-Bari, Sez. I, con la sentenza 30.03.2022 n. 460, ha chiarito che negli atti di decadenza degli incarichi dirigenziali, l'amministrazione non esercita potestà pubblicistiche in posizione di supremazia speciale, ma attua poteri datoriali di gestione paritetica del rapporto di lavoro, che rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, in quanto non sussiste (articolo 63 del Dlgs 165/2001), la speciale (e residuale) ipotesi di giurisdizione amministrativa.
Il fatto
Il Tar pugliese si è occupato dell'impugnazione di un provvedimento amministrativo, adottato dal segretario comunale in qualità di responsabile per la prevenzione della corruzione e della trasparenza, con cui, applicando i precetti del Dlgs 39/2013, aveva dichiarato la nullità del conferimento dell'incarico dirigenziale, poiché il dirigente era destinatario di una sentenza penale per reati contro la Pa.
La sentenza in esame, pur dichiarando il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo a favore di quello ordinario, pone in evidenza la natura del potere datoriale esercitato nel caso di specie.
La decisione
Il collegio giudicante ha osservato che le causali degli atti di decadenza presuppongono non già l'esercizio di poteri autoritativi discrezionali da parte dell'Amministrazione, ma l'esercizio di un potere basato sull'accertamento di specifici inadempimenti o di fatti specifici, rispetto ai quali la posizione dell'interessato non è certamente qualificabile come interesse legittimo, quanto piuttosto come un vero e proprio diritto soggettivo alla conservazione dell'incarico.
In altri termini, gli atti di decadenza non possono considerarsi espressione di poteri pubblicistici riguardanti la copertura di un ufficio pubblico, rispetto ai quali la correlata posizione del privato è di interesse legittimo. Essi sono stati emanati dall'Amministrazione, in applicazione di norme di legge, sulla scorta della responsabilità fatta gravare sull'ente dal Dlgs 39/2013 sul rispetto delle norme sull'incompatibilità (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 02.05.2022).
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SENTENZA
Come puntualmente premesso in fatto dal Tar Lazio-Roma, con ordinanza declinatoria di competenza -OMISSIS-, con sentenza -OMISSIS- il Tribunale di Frosinone ha condannato l’odierno ricorrente, dirigente presso il Comune di Cerignola, per il reato di associazione per delinquere di cui all'art. 416 c.p. finalizzato alla commissione di più delitti contro la pubblica amministrazione e, in particolare, delitti di cui agli artt. 353, 353-bis, 318, 319, 321 c.p., a tre anni di reclusione con interdizione temporanea dai pubblici uffici per cinque anni, dichiarando contestualmente «il non doversi procedere» nei confronti dello stesso imputato in relazione ad alcuni reati scopo (tra cui quello di corruzione) per intervenuta prescrizione degli stessi.
A seguito di tale pronuncia e dell’intervenuto parere dell’ANAC (per la puntuale indicazione delle interlocuzioni con l’Autorità e delle determinazioni dell’Ente nelle more intervenute si rinvia alla predetta ordinanza che ripercorre puntualmente gli eventi in fatto), il Segretario Generale del Comune di Cerignola, con atto del 09.12.2021, -OMISSIS-, gravato in questa sede –adottato a seguito della necessaria istruttoria e previo contraddittorio con l’interessato– ha, quindi, dichiarato la nullità, ai sensi dell’art. 17, d.lgs. n. 39/2013, dell’atto di «Conferimento incarico dirigenziale di responsabile settore Sicurezza» adottato dal Comune con decreto 30.06.2021, n. -OMISSIS-.
Gravato tale atto e quelli connessi in epigrafe indicati, all’udienza cautelare del 23.03.2022 la causa è stata trattenuta in decisione, previa sottoposizione alle parti, ex art. 73 cpa, di possibili profili di difetto di giurisdizione, per come evidenziati anche nell’ordinanza già citata -OMISSIS-.
Il ricorso è inammissibile per difetto di giurisdizione.
Sul punto la Sezione condivide l’orientamento, puntualmente riportato dalla predetta pronuncia, secondo cui “le causali degli atti di decadenza presuppongono non già l’esercizio di poteri autoritativi discrezionali da parte dell’Amministrazione, ma l’esercizio di un potere basato sull'accertamento di specifici inadempimenti o di fatti specifici, rispetto ai quali la posizione dell'interessato non è certamente qualificabile come interesse legittimo, quanto piuttosto come un vero e proprio diritto soggettivo alla conservazione dell'incarico. In altri termini, gli atti di decadenza in questione non possono considerarsi espressione di poteri pubblicistici riguardanti la copertura di un ufficio pubblico, rispetto ai quali la correlata posizione del privato è di interesse legittimo, come ha affermato il Consiglio di Stato. Essi sono stati emanati dall'Amministrazione, in applicazione di norme di legge, il primo sulla scorta della responsabilità fatta gravare sull’ente dal d.lgs. 08.04.2013, n. 39 in merito al rispetto delle norme sull'incompatibilità etc. e il secondo per il fatto estrinseco rappresentato dall'intervenuto termine di scadenza dell'incarico; pertanto con essi non è stata esercitata alcuna discrezionalità amministrativa” (Cass. Civ., SS.UU., n. 1869/2020).
Inoltre, condivisibile è anche l’assimilazione tra gli atti di decadenza (quale quello in questa sede gravato) e quelli di revoca (od anche conferimento) degli incarichi dirigenziali, per i quali l’amministrazione non esercita potestà pubblicistiche in posizione di supremazia speciale, ma attua poteri datoriali di gestione paritetica del rapporto di lavoro, rientranti nella giurisdizione del G.O., in quanto per essi non sussiste, ai sensi dell’art. 63 d.lgs. n. 165/2001, la speciale (e residuale) ipotesi di giurisdizione amministrativa.
Sulla scorta di tali argomenti, va declinata la giurisdizione di questo Giudice in favore di quello ordinario, dinanzi al quale il ricorso andrà riassunto nei termini di legge.

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOIl Consiglio di Stato disegna il profilo del funzionario in «conflitto d'interessi».
Nel quadro normativo del nostro Paese non esiste una definizione univoca di conflitto d'interessi del pubblico funzionario. I profili di tale condizione si trovano per così dire allo "stato diffuso" in varie leggi e disposizioni di settore; e ciò determina non di rado l'insorgenza di zone d'ombra, incertezze operative, e persino irrazionali rallentamenti dei procedimenti amministrativi.

Con la sentenza 22.03.2022 n. 2069, il Consiglio di Stato -Sez. VI- ha declinato questa definizione generale. E lo ha fatto rievocando le norme operative di riferimento più calzanti. Per il massimo giudice amministrativo tale anomalia si verifica quando lo svolgimento di una attività sia assegnata a chi affidatario della cura dell'interesse generale sia titolare nella vicenda anche di interessi personali, con conseguente "riduzione" del soddisfacimento dell'interesse pubblico. In tale evenienza il funzionario deve astenersi da pratiche e incartamenti, e informare al più presto della situazione i propri superiori gerarchici.
La legge sul procedimento amministrativo del '90 prevede che il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi anche se solo potenziale. Questa regola è espressione del principio costituzionale di imparzialità della Pa il quale impone che le scelte adottate dall'organo vanno compiute nel rispetto della regola della "equidistanza" da tutti coloro che vengano a contatto con il potere pubblico.
Ulteriori lineamenti del divieto in parola sono contenuti nel Codice di comportamento dei dipendenti pubblici del 2013 secondo il quale il dipendente deve astenersi dal partecipare alla adozione di decisioni o attività che possano coinvolgere interessi propri, di suoi parenti, del coniuge ovvero di soggetti con cui sia in una situazione di «grave inimicizia».
Alla medesima esigenza di equidistanza si ispira la disciplina relativa alle incompatibilità presente nel Testo unico del 2001 sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche; nonché quella del 2013 in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico.
Altra importante disciplina di settore è contenuta nel Codice del 2016 in materia di procedure di affidamento dei contratti pubblici.
Secondo il massimo giudice amministrativo, dalla lettura d'insieme della richiamata normativa va dedotto univocamente che la mancata astensione del funzionario pubblico in condizioni di conflitto d'interessi comporta una illegittimità procedimentale che ricade sulla stessa validità dell'atto finale della pubblica amministrazione. Ciò a meno che non venga scrupolosamente dimostrato che la situazione d'incompatibilità del funzionario non ha in alcun modo influenzato il contenuto del provvedimento deviandolo dalla sua meta: l'interesse pubblico (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 05.04.2022).

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SENTENZA
5.‒ Il motivo di appello incentrato sulla situazione di asserita incompatibilità, nella quale avrebbe operato la dottoressa Ma.Gi., è destituito di fondamento.
5.1.‒ L’art. 6-bis della legge n. 241 del 1990 prevede che «il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale».
Tale regola è espressione del principio generale di imparzialità di cui all’art. 97 Cost., il quale impone che «le scelte adottate dall’organo devono essere compiute nel rispetto della regola dell’equidistanza da tutti coloro che vengano a contatto con il potere pubblico» (cfr. Consiglio di Stato, comm. spec., n. 667 del 2019, sullo schema di Linee guida ANAC in materia di conflitti di interesse nell'affidamento dei contratti pubblici).
Una declinazione del principio è contenuta anche nell’art. 7 del decreto del Presidente della Repubblica 16.04.2013, n. 62 (Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell'articolo 54 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165), il quale prevede che: «il dipendente si astiene dal partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente».
Alla medesima esigenza si ispira la disciplina relativa alle incompatibilità nell’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche (art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, nonché il d.lgs. n. 39 del 2013, in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico).
Una specifica disciplina è prevista, in materia di procedure di affidamento dei contratti pubblici, dall’art. 42 del d.lgs. n. 50 del 2016.
Per quanto non esista, all’interno del quadro normativo appena richiamato, una definizione univoca che preveda analiticamente tutte le ipotesi e gli elementi costitutivi di tale fattispecie, il conflitto di interessi può definirsi quella condizione giuridica che si verifica quando, all’interno di una pubblica amministrazione, lo svolgimento di una determinata attività sia affidato ad un funzionario che ha contestualmente titolare di interessi personali o di terzi, la cui eventuale soddisfazione implichi necessariamente una riduzione del soddisfacimento dell’interesse funzionalizzato. Operare in conflitto di interessi significa agire nonostante sussista una situazione del genere e, quindi, sorge l’obbligo del dipendente di informare l'Amministrazione e di astenersi.
La mancata astensione del funzionario comporta una illegittimità procedimentale che refluisce sulla validità dell’atto finale, a meno che non venga rigorosamente dimostrato (dall’Amministrazione procedente) che la situazione d’incompatibilità del funzionario non ha in alcun modo influenzato il contenuto del provvedimento facendolo divergere con il fine di interesse pubblico.
5.2.‒ Nel caso in esame, non è emerso che la dottoressa Gi. fosse portatrice di un interesse personale confliggente con quello all’imparziale finanziamento delle iniziative culturali sul territorio.
In primo luogo, dalla carica di membro del Comitato culturale dell’Associazione Te.Cr., la dottoressa si è dimessa in data 13.06.2019, prima quindi della presentazione in data 27.09.2019 delle due domande di contributo straordinario oggetto del presente ricorso.
Il Comitato culturale di cui si parla, peraltro, è un organo meramente consultivo del Consiglio Direttivo dell’Associazione Te.Cr. che fornisce pareri in merito alla qualità della proposta artistica e dove i componenti non percepiscono nessuna indennità o emolumento di altro genere.
Sotto altro profilo, dalla documentazione prodotta in giudizio si ricava che la dottoressa Gi. non era il titolare dell’organo competente a decidere sull’ammissione dei contributi, spettando tale attribuzione al Direttore di Ripartizione provinciale Cultura italiana (la dottoressa Ma.Gi. rilasciava invece il visto, ai sensi dell’art. 13 della legge della Provincia di Bolzano n. 17 del 1993, sulla responsabilità tecnica, amministrativa e contabile).
Va pure rimarcato che, in ordine ad analoghe accuse sollevate in sede penale, il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bolzano, con provvedimento del 15.03.2021, ha accolto la richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero.
L’ulteriore affermazione, secondo cui la dottoressa Gi. avrebbe ricevuto negli anni abbonamenti gratuiti a tutta la programmazione del Te.Cr., è rimasta poi sfornita di qualsivoglia riscontro.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Danno erariale per l'anticipazione dei contenuti delle prove d'esame ai candidati.
La Corte dei conti, sezione giurisdizionale Umbria, nella sentenza 21.03.2022 n. 12 ha affermato che il Presidente/componente della commissione di concorso, che abbia avuto contatti con alcuni partecipanti al pubblico concorso ai quali abbia anticipato i contenuti delle prove d'esame, risponde di danno erariale. Danno erariale corrispondente alle spese sostenute dall'ente per la procedura nonché per disservizio, valutato in via equitativa.
Siffatto comportamento è in aperto contrasto con i principi generali dell'azione amministrativa (articolo 1 legge 241/1990) nonché con quelli di non discriminazione, trasparenza, correttezza e buona fede, cui si aggiunge una gestione inefficiente, opaca e criminosa della procedura concorsuale.
Accertato il carattere intenzionale della condotta, il danno da disservizio può ritenersi equamente calcolato nel 20 per cento delle retribuzioni percepite nel periodo in cui la stessa è stata posta in essere (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 07.04.2022).

gennaio 2022

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOL’art. 6-bis l. 241/1990 (peraltro ratione temporis inapplicabile alla fattispecie, perché in vigore dal 28.12.2012) impone al responsabile del procedimento ed ai titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale, il dovere di astensione nel caso di conflitto di interessi.
La predetta situazione di conflitto di interessi viene intesa dalla giurisprudenza come coincidente con le ipotesi di incompatibilità di cui all’art. 51 c.p.c. (disposizione questa, considerata da sempre applicabile alla Pubblica Amministrazione: cfr., ex multis, C.d.S., Sez. VI, 11.01.1999, n. 8).
Orbene, tra le ipotesi tassative di incompatibilità in cui sorge in capo al preposto all’organo il dovere di astensione, l’art. 51, primo comma, n. 3, c.p.c. elenca la “grave inimicizia”: sennonché, per giurisprudenza consolidata, la situazione di “grave inimicizia”, rilevante ai sensi dell’art. 51 c.p.c., presuppone la reciprocità, inoltre deve trovare fondamento solo in rapporti personali ed estrinsecarsi in documentate e inequivocabili circostanze di conflittualità.
La giurisprudenza ha quindi escluso che la presentazione di una denuncia o di un atto di impulso idoneo a dare inizio a un procedimento giudiziale possa bastare alla configurazione di una situazione di “grave inimicizia”, dovendo questa riferirsi a ragioni private di rancore o di avversione sorte nell’ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali; né la presentazione di una denuncia è idonea a creare una situazione di causa pendente, attesa la natura oggettiva della giurisdizione penale.
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8.4. In merito, poi, alla pretesa che il menzionato Comandante interregionale si astenesse, in quanto in situazione di conflitto di interessi e difetto di terzietà, perché sottoposto a due procedimenti penali avviati su impulso dell’odierno appellato, osserva il Collegio che la censura non trova conforto negli atti di causa.
8.4.1. L’art. 6-bis l. 241/1990 (peraltro ratione temporis inapplicabile alla fattispecie, perché in vigore dal 28.12.2012) impone al responsabile del procedimento ed ai titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale, il dovere di astensione nel caso di conflitto di interessi. La predetta situazione di conflitto di interessi viene intesa dalla giurisprudenza (cfr. TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 09.06.2021, n. 1152) come coincidente con le ipotesi di incompatibilità di cui all’art. 51 c.p.c. (disposizione questa, considerata da sempre applicabile alla Pubblica Amministrazione: cfr., ex multis, C.d.S., Sez. VI, 11.01.1999, n. 8).
8.4.2. Orbene, tra le ipotesi tassative di incompatibilità in cui sorge in capo al preposto all’organo il dovere di astensione, l’art. 51, primo comma, n. 3, c.p.c. elenca la “grave inimicizia”: sennonché, per giurisprudenza consolidata, la situazione di “grave inimicizia”, rilevante ai sensi dell’art. 51 c.p.c., presuppone la reciprocità (cfr., ex multis, Cass. civ., Sez. II, 31.10.2018, n. 27923; C.d.S., Sez. V, 20.12.2018, n. 7170; Sez. III, 02.04.2014, n. 1577), inoltre deve trovare fondamento solo in rapporti personali ed estrinsecarsi in documentate e inequivocabili circostanze di conflittualità (v. C.d.S., Sez. V, n. 7170/2018, cit., e Sez. III, n. 1577/2014, cit.).
La giurisprudenza ha quindi escluso che la presentazione di una denuncia o di un atto di impulso idoneo a dare inizio a un procedimento giudiziale possa bastare alla configurazione di una situazione di “grave inimicizia”, dovendo questa riferirsi a ragioni private di rancore o di avversione sorte nell’ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali (Cass. civ., Sez. III, 13.04.2005, n. 7683); né la presentazione di una denuncia è idonea a creare una situazione di causa pendente, attesa la natura oggettiva della giurisdizione penale (TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, n. 1152/2021, cit.) (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 31.01.2022 n. 667 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOL'ufficio personale di questa Regione è venuto a conoscenza della situazione di una dipendente risultata positiva al covid-19. La stessa, però non ha presentato alcun certificato medico attestante la sua condizione.
Può lavorare da casa in smart working?

Tra i doveri del prestatore di lavoro sanciti sia dal Testo Unico del Pubblico Impiego (D.Lgs. 30.03.2001, n. 165) sia dalla contrattazione collettiva vi è sicuramente quello di dover informare il datore di lavoro circa il proprio stato di salute qualora questo impedisca il regolare svolgimento della prestazione lavorativa (malattia).
La dipendente, pertanto, aveva il dovere di comunicare tempestivamente il suo stato di positività all'amministrazione e la mancata comunicazione la espone al rischio di una infrazione disciplinare.
La possibilità di prestare la propria attività lavorativa in modalità agile è oggi fortemente legata alle condizioni poste dal DM 08.10.2021 e vanno distinti i casi di quarantena precauzionale e di positività conclamata al Covid-19.
Fermo restando che anche con l'ultima Circ. 05.01.2022 congiunta del Ministero della Funzione Pubblica e del Ministero del lavoro e delle politiche sociali u.s. (rinvenibile qui) i Ministri invitano a "usare al meglio la flessibilità già consentita dalle regole vigenti", con il Msg. 09.10.2020, n. 3653 l'INPS ha chiarito che, nei casi in cui il lavoratore in quarantena o in sorveglianza precauzionale perché soggetto fragile continui a svolgere, in accordo con il proprio datore di lavoro, l'attività lavorativa presso il proprio domicilio, non è possibile ricorrere alla tutela previdenziale della malattia ed in questi casi infatti non ha luogo la sospensione dell'attività lavorativa con la correlata retribuzione.
Di contro, con riferimento agli eventi certificati come malattia conclamata da Covid-19, (art. 26, comma 6, D.L. 17.03.2020, n. 18) le indicazioni ricevute da parte del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali autorizzano il riconoscimento della tutela della malattia secondo l'ordinaria gestione pertanto sembra escluso che il dipendente positivo al Covid-19 possa continuare a rendere la propria prestazione lavorativa in "smart working".
Per ciò che concerne la peculiarità del pubblico impiego evidenziamo come sia altresì da escludere che un dipendente possa essere collocato in modalità agile per consentirgli di espletare la prestazione lavorativa nel caso risulti positivo al COVID-19 in quanto le amministrazioni nel programmare e consentire l'accesso al lavoro agile devono "garantire un'adeguata rotazione del personale che può prestare lavoro in modalità agile, dovendo essere prevalente, per ciascun lavoratore, l'esecuzione della prestazione in presenza".
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Riferimenti normativi e contrattuali
Msg. 09.10.2020, n. 3653 dell’INPS - DM 08.10.2021 della Presidenza del Consiglio dei Ministri Dip. funz. pubbl.
Documenti allegati

Circ. 05.01.2022 del Ministero della Funzione Pubblica e del Ministero del lavoro e delle politiche sociali
(26.01.2022 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMobilità obbligatoria, verifiche a tutto campo.
Dalla sentenza 07.01.2022 n. 29 del TAR Sicilia–Catania si ricavano precise istruzioni in merito all'espletamento della cosiddetta mobilità obbligatoria disciplinata dall'articolo 34-bis del Dlgs 165/2001.
Come noto, la disposizione obbliga tutte le amministrazioni a verificare l'eventuale presenza di dipendenti collocati in esubero da poter inserire nei propri organici prima di procedere con assunzioni dall'esterno. Il mancato adempimento comporta la nullità delle assunzioni. Data la gravità della sanzione è fondamentale muoversi correttamente, tenuto anche conto di una difformità diffusa nei comportamenti a livello territoriale.
La sentenza del Tar in esame spiega nel dettaglio quali sono i passaggi e come è necessario muoversi anche quando sono coinvolti comparti diversi. Viene innanzitutto chiarito che qualsiasi pubblica amministrazione, stante il chiaro tenore letterale dell'articolo 34-bis, comma 2, del Dlgs 165/2001, è tenuta ad effettuare la comunicazione sia al Dipartimento della Funzione Pubblica (articolo 34, comma 2) che alle competenti strutture regionali e provinciali (articolo 34, comma 3).
A tal proposito non c'è alcuna ragione per ritenere che la comunicazione possa essere indirizzata esclusivamente all'ente che forma e gestisce l'elenco a seconda della tipologia di amministrazione (statale o locale). Nel caso degli enti locali, tipicamente, è la struttura regionale preposta che provvede a verificare l'eventuale presenza di soggetti da ricollocare nelle proprie liste, nonché a inoltrare al Dipartimento, per le verifiche di competenza ministeriale, la nota ricevuta dalle amministrazioni.
Infatti, la base di tutta la normativa risiede nella volontà di evitare la cessazione definitiva del rapporto di lavoro e di realizzare, in termini globali, un contenimento della spesa per il personale a carico del sistema pubblico. Questi principi erano già stati affermati in più occasioni sia dalla Corte costituzionale, sentenze 15.12.2004, n. 388, 21.07.2016, n. 2020 e 10.07.2019, n. 170 nonché dal Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza 26.05.2010, n. 3340.
Un altro messaggio importante che si può ricavare dalla sentenza riguarda l'esistenza di soggetti da ricollocare afferenti ad un comparto diverso rispetto all'ente richiedente. A tal proposito, il Collegio ha ricordato che la ricollocazione del personale in disponibilità può avvenire sia nel comparto di provenienza come in uno differente. È quindi priva di base normativa l'interpretazione secondo la quale dalle diverse modalità di redazione e tenuta degli elenchi possa desumersi la conseguenza dell'obbligo di ricollocazione nell'ambito del medesimo comparto; interpretazione, peraltro, smentita dalla circolare dello stesso Dipartimento della Funzione pubblica (Uppa) prot. n. 14115/05/1.2.3.1 dell'11.04.2005.
La gestione separata degli elenchi è pertanto finalizzata esclusivamente alla possibilità di assegnazione da parte del Dipartimento della Funzione pubblica o da parte delle strutture regionali o provinciali, a seconda dell'elenco in cui sia inserito il personale da ricollocare, ma non giustifica un divieto di assegnazione di personale ad un comparto diverso da quello di provenienza (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 14.01.2022).
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SENTENZA
La domanda annullatoria è fondata, secondo quanto a seguire.
Questione dirimente è che sia stato violato l’obbligo di dare la comunicazione di cui al citato art. 34-bis, comma 1, del D.lgs. 165/2001 alle strutture regionali e provinciali di cui all’art. 34, comma 3, dello stesso decreto legislativo.
Dispone sul punto il citato comma 1 dell’art. 34-bis, che le amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2 (fra le quali sono indicate le Istituzioni universitarie), «…prima di avviare le procedure di assunzione di personale, sono tenute a comunicare ai soggetti di cui all'articolo 34, commi 2 e 3, l'area, il livello e la sede di destinazione per i quali si intende bandire il concorso nonché, se necessario, le funzioni e le eventuali specifiche idoneità richieste…».
Ora, una piana lettura consente di poter interpretare in via letterale la norma come comportante l’obbligo di dare comunicazione sia ai soggetti di cui all’art. 34, comma 1, che ai soggetti di cui all’art. 34, comma 2.
L’uso della disgiuntiva “e” nell’ambito della locuzione “commi 2 e 3” comporta infatti che la comunicazione debba essere inviata ad entrambe le tipologie di soggetti; diversamente, avrebbe dovuto essere adoperata la congiunzione avversativa “o”.
Tale interpretazione letterale appare peraltro coerente con il condivisibile orientamento giurisprudenziale che ravvisa la ratio delle norme di cui si tratta nelle coerenti esigenze di evitare la cessazione definitiva del rapporto di lavoro e di realizzare, in termini globali, un contenimento della spesa per il personale a carico del sistema pubblico (Corte cost., sentenze 15.12.2004, n. 388, 21.07.2016, n. 202, e 10.07.2019, n. 170; Cons. Stato, Sez. VI, 26.05.2010, n. 3340).
Né appare condivisibile l’interpretazione delle norme prospettata dalle amministrazioni resistenti, fondata sull’assunto che i soggetti inseriti negli elenchi del personale in disponibilità possano essere ricollocati esclusivamente presso amministrazioni del medesimo comparto, fatta eccezione per i soggetti in disponibilità dipendenti dalle amministrazioni dello Stato e dagli enti pubblici non economici che, ai sensi dell’art. 34, comma 2, d.lgs. 30.03.2001 n. 165, potrebbero essere ricollocati presso amministrazioni di diverso comparto, qualora le strutture regionali e provinciali accertassero l’assenza nei loro elenchi di personale da assegnare.
Tale assunto si fonda a sua volta sulla considerazione che la tenuta di elenchi diversi tenuti dal Dipartimento della funzione pubblica e dalle strutture regionali comporti necessariamente la ricollocazione del personale nell’ambito del comparto di provenienza (fatta salva la citata possibilità di ricollocare presso gli enti territoriali personale proveniente dalle amministrazioni dello Stato e dagli enti pubblici non economici).
Ora, tale considerazione non è sorretta da base normativa ed è inficiata da un salto logico: non si comprende infatti per quale motivo dalle modalità di redazione e tenuta degli elenchi possa desumersi la conseguenza dell’obbligo di ricollocazione nell’ambito del medesimo comparto.
Tale considerazione appare infatti priva di base normativa e smentita dalla citata circolare prot. n. 14115/05/1.2.3.1 del giorno 11.04.2005, che nel passaggio richiamato dalla difesa erariale precisa che la ricollocazione debba avvenire «…mediante assegnazione da parte del Dipartimento della funzione pubblica, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, o delle strutture regionali o provinciali competenti, a seconda che il personale in disponibilità sia proveniente da amministrazioni dello Stato o da enti pubblici nazionali ovvero da altre amministrazioni…».
La tenuta separata degli elenchi, se giustifica quindi la possibilità di assegnazione da parte del Dipartimento della funzione pubblica o da parte delle strutture regionali o provinciali competenti, a seconda dell’elenco in cui sia inserito il personale da ricollocare, non giustifica un divieto di assegnazione di personale ad un comparto diverso da quello di provenienza.
Diversamente, non può essere accolta la domanda risarcitoria.
La giurisprudenza amministrativa ha avuto condivisibilmente modo di affermare che:
   - «…L’annullamento di un atto dal quale consegue una riedizione del potere amministrativo, per vizi che non comportano un giudizio definitivo in ordine alla spettanza o meno del bene da conseguire, comporta l’impossibilità di accogliere la domanda di risarcimento del danno…» (Cons. Stato, Sez. V, 15.07.2016, n. 3152);
   - «…la Giurisprudenza ha, condivisibilmente, affermato che l’illegittimità di un atto amministrativo per vizi che consentono il rinnovato esercizio del potere comporta che la richiesta di risarcimento del danno non possa essere valutata se non all’esito della nuova manifestazione di volontà dell’ente, poiché la facoltà di rideterminazione immanente in capo al soggetto pubblico esclude la cristallizzazione del rapporto, quale necessario presupposto dell’azione risarcitoria (TAR Emilia Romagna, sez. I Bologna, 30/07/2015, n. 696), e che -mancando un accertamento in ordine all’effettiva spettanza del bene della vita richiesto- l’accoglimento dell’impugnazione non può costituire il presupposto per l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno (TAR Lombardia, sez. II Milano, 03/07/2015, n. 1541)…» (TAR Sicilia–Catania, Sez. III, 25.03.2016, n. 891);
   - «…La giurisprudenza, anche di questo TAR, ha avuto modo di affermare più volte che l’annullamento di un atto dal quale consegue una riedizione del potere amministrativo, per vizi che non comportano un giudizio definitivo in ordine alla spettanza o meno del bene da conseguire, ha come conseguenza che la domanda di risarcimento del danno causato da detto illegittimo provvedimento non può essere accolta, ove, come nel caso in esame, persistano in capo alla P.A. significativi spazi di discrezionalità amministrativa, in sede di riesercizio del potere…» (TAR Sicilia–Catania, Sez. I, 19.09.2013, n. 2242).
Nel caso di specie, l’amministrazione dovrà procedere, sulla base dell’effetto conformativo della presente sentenza, ove ciò ritenga ancora necessario, e ricorrendone i presupposti, alla riedizione del potere, attraverso procedimenti che siano emendati dai vizi che hanno condotto all’accoglimento in questa sede della domanda annullatoria.
Né il Collegio ritiene di poter procedere prescindendo dalla riedizione del potere, non essendo certo in questa fase che il ricorrente sarebbe necessariamente stato assunto, potendo essere ricompresi nell’ambito degli elenchi di cui si tratta anche altri soggetti collocati in posizione poziore del ricorrente.

dicembre 2021

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOD.L. 172/2021. Estensione dell’obbligo vaccinale, come introdotto dal D.L. 172/2021, al personale della polizia locale.
L’obbligo vaccinale, come introdotto dalle recenti disposizioni normative, è previsto soltanto per il personale che svolge l’attività lavorativa, con la conseguenza che il predetto obbligo non dovrebbe sussistere in tutte le situazioni di sospensione del  rapporto di lavoro (intervenute prima dell'entrata in vigore del citato obbligo), in cui detta attività non viene svolta (come, ad esempio, nel caso di fruizione del congedo straordinario per assistenza a disabili).
In base all'ordinamento regionale (cfr. l.r. 5/2021), il personale (di categoria B-C o D) che svolge attività amministrative per la polizia locale, non è “personale della polizia locale” in senso stretto, con la conseguenza che allo stesso non si dovrebbe applicare l’obbligo vaccinale introdotto dall’art. 2 del DL 172/2021.

L’Ente chiede alcuni pareri in ordine all’estensione dell’obbligo vaccinale, come introdotto dal d.l. 26.11.2021, n. 172, anche ai dipendenti inseriti nell’area della polizia locale. In particolare, gradirebbe conoscere se l’Amministrazione sia tenuta ad invitare il dipendente, che sta usufruendo di un congedo straordinario per assistenza a familiare con grave disabilità ex art. 42, comma 5, del d.lgs. 151/2001, a produrre la documentazione di cui all’art. 4-ter, comma 3, secondo e terzo periodo, del d.l. 44/2021, ovvero se tale richiesta debba essere inoltrata in occasione del rientro in servizio dello stesso. Inoltre chiede conferma del fatto che l’obbligo vaccinale non sussiste per il personale amministrativo della Polizia Locale, inquadrato in altre categorie (B-C e D).
È doveroso premettere che allo stato attuale non sono state fornite dalle Autorità competenti in materia interpretazioni univoche della normativa in esame; pertanto, in assenza di una maggiore chiarezza e in attesa di un definitivo chiarimento e in via meramente collaborativa, si esprimono le seguenti considerazioni.
Com’è noto, l’art. 2, comma 1, del citato decreto ha inserito, dopo l’articolo 4-bis del decreto legge 01.04.2021, n. 44, convertito, con modificazioni, dalla legge 28.05.2021, n. 76, l’articolo 4-ter.
Detta norma, al comma 1, dispone che, dal 15.12.2021, l’obbligo vaccinale per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 si applica a determinate categorie di lavoratori, nel dettaglio individuate.
La lettera b) del comma in esame prevede espressamente che detto obbligo riguardi il personale del comparto della difesa, sicurezza e soccorso pubblico, nonché il personale della polizia locale.
Il successivo comma 2 stabilisce inoltre che la vaccinazione costituisce requisito essenziale per lo svolgimento delle attività lavorative dei soggetti obbligati ai sensi del comma 1.
Pertanto, stante la formulazione delle richiamate norme, l’obbligo vaccinale è previsto soltanto per il personale che svolge l’attività lavorativa
[1], con la conseguenza che il predetto obbligo non dovrebbe sussistere in tutte le situazioni di sospensione del rapporto di lavoro, in cui detta attività non viene svolta.
Si consideri che in tale posizione rientra sicuramente anche chi usufruisce del congedo per l’assistenza a familiari disabili gravi, come disciplinato dall’art. 42, comma 5, del d.lgs. 151/2001. A mente di quanto disposto anche dall’art. 4, comma 2, della l. 53/2000, infatti, durante il periodo di congedo per gravi e documentati motivi familiari, il dipendente conserva il posto di lavoro, non ha diritto alla retribuzione (ma a un’indennità corrispondente
[2]) e non può svolgere alcun tipo di attività lavorativa.
Si aggiunge che, nelle fattispecie in cui la legge prevede in modo specifico la sospensione del rapporto con diritto a conservare il posto di lavoro e a percepire la retribuzione o (come nel caso del congedo straordinario) un analogo compenso di natura indennitaria, ritenere che l’obbligo di vaccinazione sussista anche durante il periodo di assenza dal servizio, con applicazione delle conseguenti sanzioni in caso di inadempimento
[3], produrrebbe conseguenze irragionevoli, atteso che di fatto risulterebbero vanificate le disposizioni che stabiliscono espressamente ipotesi di sospensione lavorativa legittima con diritto al mantenimento del trattamento retributivo.
Per quanto concerne il secondo quesito formulato, si osserva che l’art. 20, comma 5, della LR 5/2021 recita testualmente: “Al fine di favorire lo svolgimento delle funzioni operative sul territorio, le attività amministrative connesse allo svolgimento dei compiti di polizia locale sono svolte dal personale amministrativo degli enti locali, salvo che, eccezionalmente, ricorra almeno una delle seguenti condizioni:
   a) le attività siano immediatamente correlate alle violazioni accertate;
   b) le attività riguardino l'acquisizione di dotazioni strumentali dello stesso personale di vigilanza finalizzate allo svolgimento del servizio"
.
Pertanto, in base al nostro ordinamento, il personale (di categoria B-C o D) che svolge attività amministrative per la polizia locale, non è “personale della polizia locale”, con la conseguenza che allo stesso non si dovrebbe applicare l’obbligo vaccinale introdotto dall’art. 2 del DL 172/2021.
Un tanto pare confermato anche dal tenore delle vigenti previsioni contrattuali (ad esempio, l’art. 30 del CCRL del 01.08.2002), ove per “personale della polizia locale” si intende propriamente “il personale dipendente appartenente all’area della polizia locale”, articolato nelle tre categorie PLA, PLB e PLC.
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[1] Conferma di un tanto si ricava anche da altre disposizioni contenute nella norma in esame. Ad esempio, al comma 3 dell’art. 2 è previsto che “l’atto di accertamento dell’inadempimento determina l’immediata sospensione dal diritto di svolgere l’attività lavorativa…….; al successivo comma 4 si fa riferimento allo “svolgimento dell’attività lavorativa in violazione dell’obbligo vaccinale…..”.
[2] Ossia sospensione dal lavoro senza retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominati (art. 4-ter, comma 3, DL 44/2021).
[3] L’art. 42, comma 5-ter, del d.lgs. 151/2001 prevede che il dipendente, durante il periodo di congedo, ha diritto a percepire un’indennità corrispondente all’ultima retribuzione, con riferimento alle voci fisse e continuative del trattamento
(28.12.2021 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOConcorsi, niente compensi ai commissari dipendenti, dirigenti o segretari dell'ente locale che bandisce la prova.
I componenti delle commissioni di concorso pubblico che sono dipendenti, dirigenti o segretari nello stesso ente locale che bandisce la prova non possono essere remunerati per questo incarico.
É questa l'indicazione fornita dal parere 02.12.2021 n. 174 della sezione regionale di controllo della Corte dei conti della Puglia, che riprende quanto sostenuto dai giudici contabili della Lombardia nel parere 03.11.2021 n. 253 (si veda NT+ Enti locali & edilizia del 5 novembre).
Posizioni che contraddicono radicalmente il parere 04.06.2021 n. 77558 di prot. del Capo del Dipartimento della Funzione Pubblica, che ha invece sostenuto la spettanza di questi compensi in tutte le Pa, anche ai dirigenti, consentendo ai singoli enti locali, con una propria deliberazione, di recepire la misura stabilita per i componenti delle commissioni di concorso statali.
É evidente la condizione, per lo meno di imbarazzo o difficoltà che questi pareri stanno determinano nelle singole amministrazioni locali e regionali, soprattutto nelle tante che hanno recepito nei propri regolamenti il parere della Funzione Pubblica e che ora si trovano tra l'incudine e il martello di due orientamenti opposti, con il rischio -se negano i compensi- di dovere fronte a contenziosi.
A questo punto si deve sollecitare l'intervento del legislatore, unico modo per dirimere il contrasto. Sicuramente, la limitazione del beneficio ai soli dipendenti e dirigenti delle pubbliche amministrazioni statali, al di là della interpretazione formale della norma, appare quanto mai discutibile e ingiustificato.
Ricostruiamo la vicenda.
La legge 56/2019 ha escluso per tutti i dipendenti pubblici, anche di altre amministrazioni, la remunerazione per lo svolgimento degli incarichi di presidente o di componente delle commissioni di concorso. Tale disposizione è stata abrogata dal Dl 162/2019, articolo 18, comma 1-ter, lettera b, che ha dato mandato alla Funzione pubblica di disciplinare i compensi che spettano per lo svolgimento di tali attività. Successivamente, l'articolo 247, comma 10, del Dl 34/2020 ha stabilito che questi compensi spettano ai componenti le commissioni di concorso che sono state nominate dopo l'entrata in vigore della norma.
Per le sezioni di controllo della magistratura contabile la modifica legislativa, con la connessa deroga al principio della onnicomprensività del trattamento economico accessorio, si applica solamente ai concorsi indetti dalle pubbliche amministrazioni statali. La deroga a tale principio di carattere generale dell'ordinamento in materia di disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici deve essere espressa in modo formale, per cui non si può dare corso a interpretazioni estensive o analogiche.
Il tema non è stato in alcun modo affrontato nel parere della Funzione pubblica, che si è invece concentrato sulla estensione del beneficio ai dirigenti e sulla sua applicazione anche ai dipendenti e dirigenti dell'ente, oltre che a quelli di altre amministrazioni pubbliche, dando per scontata l'applicabilità delle nuove regole a tutti gli enti pubblici e non solo a quelli statali (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 07.12.2021).
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MASSIMA
A seguito delle modifiche apportate dall’art. 18, comma 1-ter, lettere b) e c), del d.l. n. 162/2019, la disciplina prevista dall’art. 3, commi 13 e 14, della legge n. 56/2019 in materia di compensi dovuti per l’attività di presidente o di membro della commissione esaminatrice dei concorsi per l’accesso a un pubblico impiego indetti dalle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, e degli enti pubblici non economici nazionali, non può essere estesa ai concorsi indetti dagli enti locali, trattandosi di disposizioni eccezionali non suscettibili di interpretazione estensiva né analogica.
La deroga al principio di onnicomprensività di cui all'art. 3, comma 14, del d.l. n. 162 del 2019 trova applicazione solo nei confronti delle amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici non economici nazionali e non anche nei confronti degli enti locali.

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Con la nota in epigrafe il sindaco del Comune di Ascoli Satriano (FG) ha formulato a questa Sezione di controllo territoriale la seguente richiesta di parere: “Il Segretario comunale, dal Sindaco nominato presidente di commissione di concorso pubblico per titoli ed esami per l’accesso a posti programmati dal Comune della cui sede di segreteria comunale è titolare, può ricevere un compenso aggiuntivo di cui al D.P.C.M. 24.04.2020 per tale prestazione oppure vige la regola della onnicomprensività della retribuzione di posizione ancorché maggiorata?”.
...
2. La legge n. 56 del 2019, recante “Interventi per la concretezza delle azioni delle pubbliche amministrazioni e la prevenzione dell'assenteismo”, stabilisce all’articolo 6, comma 1, che “Le disposizioni di cui agli articoli 1 e 3 recano norme di diretta attuazione dell'articolo 97 della Costituzione e costituiscono principi generali dell'ordinamento”, quale corollari del buon andamento ed imparzialità dell’amministrazione; in tal modo postulando, per quel che qui occupa, che anche gli incarichi nelle commissioni esaminatrici di pubblici concorsi per l’accesso ad un pubblico impiego, vengano espletati con piena efficienza e speditezza, favorendone la partecipazione.
Si premette che il comma 12 dell’art. 3 della legge 19.06.2019, n. 56, disciplinante il conferimento al dipendente pubblico degli incarichi di presidente, di membro o di segretario di una commissione esaminatrice, è stato abrogato dall’art. 18, comma 1-ter, lett. b) del decreto legge 30.12.2019, n. 162, convertito con modificazioni dalla L. 28.02.2020, n. 8.
L’art. 18, comma 1-ter, del citato decreto legge, alla lett. c), ha poi aggiunto al comma 13 dell’art. 3 della stessa legge 19.06.2019, n. 56 -secondo cui ”Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro per la pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, da adottare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, si provvede all'aggiornamento, anche in deroga all'articolo 6, comma 3, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122, dei compensi da corrispondere al presidente, ai membri e al segretario delle commissioni esaminatrici dei concorsi pubblici per l'accesso a un pubblico impiego indetti dalle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, e dagli enti pubblici non economici nazionali, nonché al personale addetto alla vigilanza delle medesime prove concorsuali, secondo i criteri stabiliti con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23.03.1995, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 134 del 10.06.1995. I compensi stabiliti con il decreto di cui al precedente periodo sono dovuti ai componenti delle commissioni esaminatrici dei concorsi pubblici per l’accesso a un pubblico impiego nominate successivamente alla data di entrata della presente legge. All'attuazione del presente comma si provvede nei limiti delle risorse disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.”- il seguente periodo: ”Tali incarichi si considerano attività di servizio a tutti gli effetti di legge, qualunque sia l'amministrazione che li ha conferiti".
Successivamente, l’art. 247, comma 10, del decreto legge n. 34 del 2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 77 del 2020 ha soppresso le parole “I compensi stabiliti con il decreto di cui al precedente periodo sono dovuti ai componenti delle commissioni esaminatrici dei concorsi pubblici per l’accesso a un pubblico impiego nominate successivamente alla data di entrata della presente legge.“, di cui al comma 13 che precede.
Dalla lettura comparata delle disposizioni previgenti, che avevano legittimato una lettura estensiva della interpretazione normativa alle amministrazioni locali (Sezione regionale di controllo per la Lombardia, parere 18.12.2019 n. 440) e di quelle attualmente in vigore, emerge che il legislatore abbia inteso restringere il campo dei destinatari delle previsioni, limitandolo alle sole amministrazioni nazionali.
Quanto precede trova conferma negli atti parlamentari e, in particolare nel Dossier del 21.02.2020 - schede di lettura D.L. 162/2019 – A.S. 1729 – Volume II), in cui a pag. 137, trovasi: “Le novelle di cui alle lettere b) e c) dello stesso comma 1-ter [art. 18] concernono la natura dell'attività degli incarichi di presidente, di membro e di segretario delle commissioni esaminatrici dei concorsi per il reclutamento di personale nelle pubbliche amministrazioni. Si prevede che tali incarichi, qualora riguardino concorsi indetti dalle amministrazioni dello Stato (anche ad ordinamento autonomo) e dagli enti pubblici (non economici) nazionali, siano considerati a tutti gli effetti di legge attività di servizio, qualunque sia l'amministrazione che li abbia conferiti, e si abroga la disposizione vigente, che pone il medesimo principio in via generale, mentre la nuova norma fa esclusivo riferimento ai concorsi indetti dalle suddette amministrazioni nazionali”.
Pertanto, a seguito dell’entrata in vigore del decreto legge n. 162/2019, la deroga al principio di onnicomprensività di cui all’art. 24, comma 3, del decreto legislativo n. 165/2001, introdotta dall’art. 3, comma 14, della legge n. 56/2019, trova applicazione solo nei confronti delle amministrazioni statali e degli enti pubblici (non economici) nazionali. Tale interpretazione si fonda sul dato letterale delle disposizioni esaminate, siccome novellate nei precitati termini, ed appare pienamente coerente con la lettura sistematica dell’articolo 3 della legge n. 56/2019, volto ad accelerare le assunzioni gestite a livello centrale.
Ed invero, come di recente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte: “un’interpretazione estensiva del citato comma 14, che ne consentisse l’applicabilità anche agli enti locali, non può essere ammissibile in quanto solo la legge può derogare al principio cardine di onnicomprensività della retribuzione dei dipendenti della PA sancito dagli artt. 2, comma 3 e 24, comma 3 del Dlgs. 165/2001” (cfr. Sezione regionale di controllo per la Lombardia, parere 03.11.2021 n. 253).
Ne consegue che, in risposta al quesito in epigrafe,
a seguito delle modifiche apportate dall’art. 18, comma 1-ter, lettere b) e c), del decreto legge n. 162/2019, la disciplina prevista dall’art. 3, commi 13 e 14, della legge n. 56/2019 in materia di compensi dovuti per l’attività di presidente o di membro della commissione esaminatrice dei concorsi per l’accesso a un pubblico impiego indetti dalle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, e degli enti pubblici non economici nazionali, non può essere estesa ai concorsi indetti dagli enti locali, trattandosi di disposizioni eccezionali non suscettibili di interpretazione estensiva né analogica; e che la deroga al principio di onnicomprensività di cui al citato art. 3, comma 14, del decreto legge n. 162 del 2019, trova applicazione solo nei confronti della amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici non economici nazionali (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 02.12.2021 n. 174).

novembre 2021

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOOsserva il Collegio come le cause di incompatibilità abbiano specifica natura tassativa; pertanto, gli obblighi di astensione non operano laddove non ricorrano gli specifici presupposti indicati dal legislatore.
Nel caso di specie, non costituisce ex se causa di incompatibilità l’eventuale difforme avviso espresso dai funzionari comunali rispetto a precedenti pareri. Inoltre, la presunta incompatibilità non è, certamente, dimostrata dalla sola diversità dell’avviso in difetto di indici inferenziali che consentano di ritenere la causa pendente ragione effettiva del mutamento di avviso dedotto.
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Nel caso di specie, non può ritenersi sussistente la condizione di “grave inimicizia” tra l’operatore ed i funzionari pubblici.
Pur prescindendo dal tema della legittimazione a proporre una simile ragione di incompatibilità, il Collegio osserva come la grave inimicizia attenga a “ragioni private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali” e non ricorra qualora il funzionario abbia posto in essere condotte istituzionali che abbiano dato vita a “molteplici provvedimenti pregiudizievoli tali da determinare l'insorgere di diverse controversie giurisdizionali”.
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   H. Sull’incompatibilità dei funzionari (primo motivo del ricorso introduttivo).
15. Prendendo l’abbrivo dal primo motivo si rammenta che, con esso, i ricorrenti deducono l’illegittimità dei provvedimenti impugnati in ragione della pendenza di un giudizio avanti il Tribunale civile di Pavia tra la società Es. e taluni amministratori e funzionari comunali, tra cui anche il responsabile del procedimento e il dirigente dell’ufficio tecnico comunale. Tale giudizio ha ad oggetto una domanda di risarcimento del danno personalmente diretta ai funzionari e agli amministratori per il diniego di approvazione di una precedente istanza di piano attuativo proposta dalla società Es. sulle medesime aree oggetto del presente giudizio. Gli atti impugnati sarebbero, quindi, emessi in violazione degli obblighi di astensione gravanti sui funzionari pubblici.
15.1. Osserva il Collegio che il giudizio al quale fanno riferimento i ricorrenti termina in data anteriore alla presentazione dell’istanza. La sentenza del Tribunale ordinario di Pavia n. 860/2019 è pubblicata in data 16.05.2019 e notificata nella stessa data (doc. n. 24 dell’Amministrazione comunale). La sentenza transita in rem iudicatam in data 15.06.2019, e, quindi, prima della presentazione dell’istanza di piano attuativo di Es., depositata in data 08.07.2019. Pertanto, al momento di approvazione del Piano la causa di incompatibilità consistente nella pendenza di una lite non sussiste.
15.2. I ricorrenti evidenziano, tuttavia, come i due funzionari comunali coinvolti nel giudizio civile redigano un parere preliminare in data 21.12.2018 e che tale parere abbia contenuto difforme dalla posizione assunta nel 2013 e nel 2014 (f. 24 della memoria di merito dei ricorrenti).
15.3. Osserva il Collegio come le cause di incompatibilità abbiano specifica natura tassativa; pertanto, gli obblighi di astensione non operano laddove non ricorrano gli specifici presupposti indicati dal legislatore. Nel caso di specie, non costituisce ex se causa di incompatibilità l’eventuale difforme avviso espresso dai funzionari comunali rispetto a precedenti pareri. Inoltre, la presunta incompatibilità non è, certamente, dimostrata dalla sola diversità dell’avviso in difetto di indici inferenziali che consentano di ritenere la causa pendente ragione effettiva del mutamento di avviso dedotto.
15.4. Inoltre, il parere del 21.12.2018 ha effettivamente carattere preliminare e, come tale, non solo non impegna l’Ente ma neppure costituisce il punto di riferimento istruttorio dei provvedimenti adottati. Infatti, il parere è reso in relazione alla “documentazione presentata in data 24.09.2018, prot. 44078”, e, quindi, su una rappresentazione ancora astratta dell’ipotesi progettuale che si sostanzia nella successiva istanza.
15.4.1. Lo confermano le risposte ai vari quesiti all’attenzione dell’Ufficio.
15.4.2. In relazione al tema della realizzazione delle strutture di vendita il parere conclude: “la proposta di realizzare 13 medie strutture di vendita è ammissibile, sempre che la stessa trovi fondamento, circostanza da dimostrare nel corso del procedimento di approvazione del piano sia con elaborati grafici che descrittivi, nell’attuazione dell’obiettivo affidato all’ambito di trasformazione, quello cioè di realizzare una città mista, attraverso uno sviluppo rispettoso dei principi di tutela e di valorizzazione della salute e dell’ambiente”. Il parere ha, quindi, un esito istruttorio rinviando alle evidenze da acquisire nel procedimento di approvazione del Piano.
15.4.3. In relazione al tema della “autonomia realizzativa e gestionale delle medesime medie strutture di vendita” il parere conclude: “il progetto di piano attuativo che sarà sviluppato dovrà dare piena e concreta dimostrazione di quanto rappresentato nella documentazione in esame, anche per la dimostrazione degli indici e grandezze urbanistiche, nonché dell’indipendenza delle superfici fondiarie e permeabili”. Anche in tal caso vi è, quindi, un rinvio alla necessità di una piena e concreta dimostrazione di quanto rappresentato nell’ambito dello specifico procedimento di approvazione del Piano.
15.4.4. In relazione al tema del “rispetto del principio di contestualità dei procedimenti urbanistico, edilizi e commerciali” il parere chiarisce che “l’istruttoria della richiesta di autorizzazione commerciale verrà sospesa sino alla conclusione del procedimento di adozione/approvazione del piano attuativo, il rilascio dell’autorizzazione potrà avvenire successivamente all’approvazione e/o stipula della convenzione urbanistica”. Il parere ha, quindi, contenuto meramente esplicativo della normativa di riferimento.
15.4.5. In relazione al tema del “rilascio di autorizzazioni commerciali intestate a Es. srl in qualità di proprietario degli immobili o suo eventuale avente titolo” il parere, dopo aver chiarito la normativa di riferimento, espone alcuni aspetti di carattere propriamente urbanistico da approfondire nell’apposito procedimento.
15.5. E’, inoltre, indimostrata la tesi secondo la quale il parere definirebbe la fase istruttoria atteso che il provvedimento impugnato fa espresso riferimento non a tale parere ma alla diversa “relazione” redatta dall’Ufficio e, quindi, ad un atto istruttorio formatosi nel procedimento e in relazione allo specifico progetto concretamente presentato dopo il parere preliminare. Né tale conclusione è suscettibile di smentita in quanto “il parere 21.12.2018 del resto già indica il contenuto del Pa quanto a dimostrazione delle superfici, dell’autonomia e via dicendo” (f. 25 della memoria difensiva dei ricorrenti). Infatti, il parere non è, comunque, sostitutivo dell’istruttoria ed è espresso su uno scenario progettuale la cui conferma nell’apposita istanza non è circostanza che muta la natura preliminare del parere.
15.6. In ultimo, non può ritenersi sussistente la condizione di “grave inimicizia” tra l’operatore ed i funzionari pubblici. Pur prescindendo dal tema della legittimazione a proporre una simile ragione di incompatibilità, il Collegio osserva come la grave inimicizia attenga a “ragioni private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali” (Cassazione civile, Sez. II, 31.10.2018 n. 27923) e non ricorra qualora il funzionario abbia posto in essere condotte istituzionali che abbiano dato vita a “molteplici provvedimenti pregiudizievoli tali da determinare l'insorgere di diverse controversie giurisdizionali” (Consiglio di Stato, Sez. V, 20.12.2018, n. 7170).
15.7. In definitiva il primo motivo di ricorso è infondato e deve, pertanto, respingersi (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 19.11.2021 n. 2570 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOLa giurisprudenza anche della Cassazione ai fini della configurabilità dell'obbligo di astensione (art. 51, n. 3, c.p.c.) in sede disciplinare per "grave inimicizia” richiede, oltre la reciprocità, la riferibilità a ragioni private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali.
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6.- Non miglior sorte merita il terzo motivo di gravame.
A prescindere da ogni altra considerazione il semplice alterco intervenuto tra il ricorrente ed il Comandante di Stazione non appare sufficiente a giustificare la sussistenza a carico di quest’ultimo di un obbligo di astensione, essendo pressoché fisiologica all’interno di ogni ambiente lavorativo l’insorgenza di contrasti verbali tra il personale in merito all’organizzazione ed all’adempimento degli obblighi lavorativi, senza che ciò comporti una “grave inimicizia” tale ai sensi dell’art. 51, n. 3, c.p.c. da imporre l’astensione del superiore gerarchico.
Infatti la giurisprudenza anche della Cassazione ai fini della configurabilità del predetto obbligo di astensione (art. 51, n. 3, c.p.c.) in sede disciplinare per "grave inimicizia” richiede, oltre la reciprocità, la riferibilità a ragioni private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali (Cassazione civile sez. II, 31.10.2018, n. 27923; id. n. 7683/2005) circostanza non rinvenibile nel caso di specie (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 19.11.2021 n. 948 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: Conferire l'incarico all'ex coniuge è in conflitto d'interessi.
Il principio di imparzialità deve permeare l'attività amministrativa in ogni suo svolgimento. Ciò comporta il divieto di qualsiasi forma di favoritismo e l'obbligo di astenersi dal partecipare a quegli atti in cui il dipendente abbia, direttamente o per interposta persona, un interesse. Ecco perché la legge anticorruzione del 2012 ha precisato che il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare pareri, valutazioni, atti, devono astenersi in ogni caso di conflitto di interessi; anche se solo potenziale.

Su queste basi il Consiglio di Stato - Sez. VI (sentenza 16.11.2021 n. 7628) ha chiarito che lo status di coniugi ancorché separati da molto tempo (nella vicenda ben 14 anni) comporta la persistenza di un rapporto di frequentazione per l'esercizio della responsabilità genitoriale che rende abusivo il conferimento di un incarico fiduciario al proprio "ex". Neppure rileva la natura gratuita dell'incarico o la brevità dello stesso poiché da un matrimonio da cui sono nati figli perdurano obblighi congiunti in capo ai due vecchi compagni quantomeno sotto il profilo economico.
La nozione di conflitto di interessi riguarda la tensione del dipendente verso un obiettivo che soddisfi un suo desiderio. La nozione non si riferisce pertanto a comportamenti ma a stati della persona. Tale regola è espressione del principio costituzionale di neutralità dell'azione pubblica il quale impone che le scelte adottate dall'organo debbano essere compiute nel rispetto di effettiva «equidistanza» da tutti coloro che vengano a contatto con il potere pubblico. Dal lato dei cittadini l'interesse è sostanziale perché garantisce la giustizia attraverso la uguaglianza delle posizioni, la parità di trattamento, e la tutela della concorrenza. Dal lato della Pa, oltre ai casi penalmente rilevanti, il tornaconto è anche l'immagine concreta di un potere pubblico al di sopra delle parti.
L'obbligo di astensione figura tra i doveri che il codice di comportamento pone a carico dei dipendenti; la violazione, ferme le ipotesi di responsabilità civile, penale e amministrativa, è fonte di responsabilità disciplinare. In particolare il dipendente deve astenersi da attività che possano coinvolgere interessi non solo propri ma anche del coniuge o di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale; riconoscendosi valore a quelle situazioni suscettibili -anche solo in potenza- di influenzare il procedimento burocratico. L'area applicativa dei richiamati principi va ricondotta alle scelte discrezionali che implicano valutazioni soggettive che ben possono, anche solo in astratto, essere condizionate (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 24.11.2021).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOL’art. 6-bis della legge n. 241 del 1990 prevede che «il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale».
La nozione di “conflitto di interessi” riguarda gli interessi e, dunque, la tensione verso un bene giuridico che soddisfi un bisogno. La nozione non si riferisce, pertanto, a comportamenti ma a stati della persona.
Tale regola è espressione del principio generale di imparzialità di cui all’art. 97 Cost., il quale impone che «le scelte adottate dall’organo devono essere compiute nel rispetto della regola dell’equidistanza da tutti coloro che vengano a contatto con il potere pubblico».
L’interesse è, dal lato dei cittadini, “sostanziale” «perché garantisce la giustizia attraverso la uguaglianza delle posizioni, la parità di trattamento, e la conseguente tutela della concorrenza»; dal lato della pubblica amministrazione “immateriale”, «perché tutela anche l’immagine imparziale del potere pubblico».
La declinazione più specifica delle fattispecie di conflitto di interessi è contenuta nell’art. 7 del dPR 16.04.2013, n. 62, il quale prevede che: «il dipendente si astiene dal partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente».
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8.- Con un secondo motivo si assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui è stata ritenuta sussistente una situazione di conflitto di interessi. In particolare, si è messo in rilievo come la prof.ssa Ma. e il prof. Sc. fossero separati da quattordici anni e l’incarico fosse a titolo gratuito, con la conseguente insussistenza di una situazione di conflitto di interessi rilevante.
Il motivo non è fondato.
L’art. 6-bis della legge n. 241 del 1990 prevede che «il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale».
La nozione di “conflitto di interessi” riguarda gli interessi e, dunque, la tensione verso un bene giuridico che soddisfi un bisogno. La nozione non si riferisce, pertanto, a comportamenti ma a stati della persona (Cons. Stato, comm. spec., 05.03.2019, n. 667).
Tale regola è espressione del principio generale di imparzialità di cui all’art. 97 Cost., il quale impone che «le scelte adottate dall’organo devono essere compiute nel rispetto della regola dell’equidistanza da tutti coloro che vengano a contatto con il potere pubblico» (Cons. Stato, comm. spec., n. 667 del 2019, cit.).
L’interesse è, dal lato dei cittadini, “sostanziale” «perché garantisce la giustizia attraverso la uguaglianza delle posizioni, la parità di trattamento, e la conseguente tutela della concorrenza»; dal lato della pubblica amministrazioneimmateriale”, «perché tutela anche l’immagine imparziale del potere pubblico» (Cons. Stato, comm. spec., n. 667 del 2019, cit.).
La declinazione più specifica delle fattispecie di conflitto di interessi è contenuta nell’art. 7 del decreto del Presidente della Repubblica 16.04.2013, n. 62, il quale prevede che: «il dipendente si astiene dal partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente».
Nella fattispecie in esame, la sussistenza dello status di coniugi separati determina, sulla base di massime di esperienza, l’insorgenza di un rapporto di frequentazione e collaborazione anche per l’esercizio della responsabilità genitoriale, che impone l’obbligo di astensione, che, nella specie, non è stato osservato. Non rileva la natura formalmente gratuita dell’incarico, avendo la parte appellante un evidente interesse all’espletamento dell’incarico stesso (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16.11.2021 n. 7628 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCompensi ai dipendenti nelle commissioni di concorso.
Niente compensi ai dipendenti dell'ente locale impegnati nelle commissioni dei concorsi indetti dal medesimo ente.

E' la Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia a chiarire, col parere 03.11.2021 n. 253, la non spettanza dei compensi.
I compensi ai componenti delle commissioni di concorso sono regolati dall'articolo 3, commi 13 e 14, della legge 56/2019. Secondo i magistrati contabili lombardi, tuttavia, la disciplina normativa introdurrebbe una generalizzata deroga al principio di onnicomprensività e, in secondo luogo, varrebbe solo per i concorsi indetti dalle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento  autonomo, e degli enti pubblici non economici nazionali, sicché non può essere estesa ai concorsi indetti dagli enti locali, trattandosi di disposizioni eccezionali che non possono essere interpretate estensivamente, né in analogia.
A ben vedere, tuttavia, tali affermazioni appaiono in contrasto con le previsioni ordinamentali. Con specifico riferimento all'esclusione degli enti locali dal campo di applicazione della norma, si reperisce proprio dalla lettura del comma 14 dell'articolo 3 della legge 56/2019 un precetto del tutto opposto alla lettura offerta dalla Sezione Lombardia.
Il comma 13 dispone che i compensi siano disciplinati da un decreto ministeriale secondo i «criteri stabiliti con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23.03.1995». Tale ultima norma, tuttavia, all'articolo 8 estende la propria portata anche agli enti locali. Dunque, per affermare che le nuove regole sui compensi ai componenti delle commissioni di concorso non sono efficaci per gli enti locali, occorrerebbe dimostrare l'abolizione anche implicita del dpcm. Il che né appare possibile, né è comunque oggetto del parere della Sezione.
Non appare, comunque, nemmeno corretto sostenere, come si adombra nel parere, che l'effetto dell'articolo 3, commi 13 e 14, della legge 56/2019 consista nell'eliminazione totale del principio di onnicomprensività del rapporto.
La Corte dei conti, come moltissime amministrazioni, si lascia trarre in inganno dall'ultimo periodo del comma 13, ai sensi del quale gli incarichi di commissari e presidente delle commissioni di concorso «si considerano attività di servizio a tutti gli effetti di legge, qualunque sia l'amministrazione che li ha conferiti». L'errore è ritenere che tale norma autorizzi l'ente a retribuire i propri dipendenti componenti delle commissioni. Ma, la funzione di tale precetto è un'altra: quella di favorire la formazione delle commissioni.
Negli anni scorsi, si era constatato una forte difficoltà degli enti a comporre gli organi selettivi, per due cause: i bassi compensi e, soprattutto, la necessità, sia per i dipendenti pubblici incaricati come commissari esterni all'ente, sia per i dipendenti dell'ente medesimo che indice il concorso, di mettersi in ferie o di attivare altre cause giustificative di assenza. La legge 56/2019 ha voluto semplicemente chiarire che la funzione di commissario di concorso è attività di servizio e, come tale, dunque, non richiede la collocazione in ferie o permessi. Il dipendente pubblico commissario esterno non deve fare altro che essere autorizzato anche alla missione.
Così stando le cose, è allora chiaro che i compensi non possono spettare se non ai componenti esterni, ma non certo ai medesimi dipendenti dell'ente. Il presidente, il componente o il segretario della commissione, poiché svolgono una funzione connessa al proprio ufficio, sono da considerare a tutti gli effetti in servizio ed adibiti correttamente ad una prestazione lavorativa, che, per quanto difforme da quella generalmente svolta, può essere liberamente pretesa dal datore di lavoro e comunque potenzialmente attinente sempre alle proprie mansioni.
Di conseguenza, contrariamente alla prassi che era molto in voga tempo addietro presso le pubbliche amministrazioni, il dipendente dell'ente che ha indetto il concorso, non deve essere considerato assente dal servizio e tenuto a timbrare per la durata dell'attività della commissione.
Del resto, come chiarito dal Tar Veneto, Sez. II, con sentenza 08.02.2007 n. 700 (udienza), "la partecipazione alle commissioni giudicatrici per i componenti interni rientra nell'ordinario contenuto del rapporto di impiego con l'Amministrazione che ha indetto il concorso, il quale ben può comprendere anche prestazioni lavorative occasionali (che, proprio per tale loro specifica natura, non sono previste dalla contrattazione collettiva di settore). Ed è evidente come, in tale contesto, quelle prestazioni occasionali non possano che essere remunerate con la normale retribuzione se svolte durante l'orario di servizio, ovvero, al di fuori di esso, con il compenso aggiuntivo previsto per il lavoro straordinario".
Se l'ente attribuisse compensi al proprio dipendente per l'espletamento di un'attività comunque rientrante nei propri doveri, ancorché si tratti di attività svolta solo in occasione di concorsi, si violerebbe senza alcun dubbio il principio di onnicomprensività, operante, ovviamente, solo nel rapporto contrattuale tra ente e proprio dipendente. Dunque, è ammissibile il compenso a dipendenti pubblici non appartenenti alla medesima PA che indice il concorso, ma non ai dipendenti di tale PA (articolo ItaliaOggi del 19.11.2021).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONuovi compensi delle commissioni di concorso: «no» della Corte dei conti agli enti locali.
La complessa vicenda della remunerazione dei componenti delle commissioni di concorso alla luce dell'articolo 3, commi 13 e 14, della legge 56/2019, si arricchisce di nuovi elementi e si allontana ancora da un chiarimento definitivo.

La Corte dei conti per la Lombardia, con la parere 03.11.2021 n. 253, risponde ai quesiti posti da un Comune ritenendo inapplicabile la norma agli enti locali e facendo traballare le timide certezze alimentate dal recente parere 04.06.2021 n. 77558 di prot. del Dipartimento per la Funzione pubblica. Ma andiamo per ordine.
Il Comune ha chiesto di sapere se i compensi per la partecipazione alle commissioni concorsuali di cui alla legge richiamata possano essere erogati anche in favore dei dipendenti della stessa amministrazione che bandisce il concorso; se essi siano da considerarsi trattamento accessorio e quindi debbano transitare per il fondo risorse decentrate e, discendendo da ciò, se siano soggetti al limite 2016; se sia necessaria l'autorizzazione per la loro attività ex articolo 53 del Tupi; infine, come debbano essere remunerati i dipendenti di terze amministrazioni.
La norma in esame ha introdotto alcune novità in tema di partecipazione dei pubblici dipendenti alle commissioni di concorso e loro remunerazione.
Tra gli aspetti salienti l'inquadramento della prestazione dei dipendenti nell'attività di servizio a tutti gli effetti di legge, qualsiasi sia l'amministrazione che bandisce il concorso, nonché l'annuncio di un Dpcm (D.P.C.M. 24.04.2020, ndr) contenente l'aggiornamento dei compensi relativi. La norma, nel frattempo, è stata modificata dal Dl 162/2019, che ha abrogato il comma 12, il quale, tra l'altro, prevedeva la necessità di autorizzazione da parte dell'ente di appartenenza in caso di coinvolgimento di dipendenti altrui.
Proprio partendo dall'esame delle modifiche apportate del Decreto "Milleproroghe", la Corte dei conti lombarda evidenzia come il comma 13, nel ragionare dell'aggiornamento dei compensi, si rivolga solo alle amministrazioni dello Stato, anche a ordinamento autonomo, e agli enti pubblici non economici nazionali. Da ciò, abrogato il comma 12, che invece ragionava in modo soggettivamente più ampio, riferendosi in generale alle "amministrazioni" e all'accesso "al pubblico impiego", i magistrati lombardi ricavano che l'intenzione del legislatore sia stata quella di circoscrivere la portata della norma a quelle specifiche amministrazioni centrali e che pertanto essa non possa essere applicata agli enti locali. Inclusa la deroga al principio di onnicomprensività fissato dall'articolo 24, comma 3, del Dlgs 165/2001.
In sostanza, partendo da una lettura sistematica dell'intero articolo 3 della legge "Concretezza", la norma avrebbe lo scopo «di accelerare le procedure assunzionali gestite a livello centrale». Rafforzativo di questa lettura, rimarcano i giudici, il contenuto degli atti parlamentari del Dl 162/2019.
La sezione respinge gli altri quesiti: stabilire se i compensi (a questo punto si ragionerebbe, per gli enti locali, di quelli applicabili in forza della vecchia normativa) siano trattamento accessorio è competenza dell'Aran. Da ciò discende, ovviamente, l'impossibilità di pronunciarsi sul loro assoggettamento al limite ex articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017. La questione della necessità o meno dell'autorizzazione, infine, non ha rilievo contabile e risulta quindi inammissibile, così come la modalità di remunerazione dei dipendenti di terze amministrazioni, che «non può essere sganciata dalle questioni già affrontate».
Recentemente il Dipartimento per la Funzione Pubblica, rendendo il parere 04.06.2021 n. 77558 di prot. a un Comune, aveva ritenuto la norma applicabile anche ai Comuni, e che i compensi debbano essere riconosciuti, evitando ingiuste sperequazioni tra personale dirigente e no, anche al personale della stessa amministrazione che bandisce il concorso. Il tutto per compiti da svolgersi nell'orario di servizio, aderendo alla lettera della norma che li vuole, come visto, attività di servizio a tutti gli effetti. Il Dfp aveva anche evidenziato come il D.P.C.M. 24.04.2020 attuativo del comma 13, che la Corte conti riferisce alle sole amministrazioni centrali, preveda la possibilità per gli enti locali di recepirne il contenuto.
Gli enti locali restano nel dubbio sia sulla natura dei compensi, sia sulla loro debenza o meno ai propri dipendenti, sia ancor prima, a questo punto, sull'applicabilità della norma al loro caso. Urge un intervento chiarificatore del legislatore (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 05.11.2021).
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MASSIMA
A seguito delle modifiche apportate dall’art. 18, comma 1-ter, lettere b) e c), del d.l. n. 162/2019, la disciplina prevista dall’art. 3, commi 13 e 14, della legge n. 56/2019 in materia di compensi dovuti per l’attività di presidente o di membro della commissione esaminatrice dei concorsi per l’accesso a un pubblico impiego indetti dalle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, e degli enti pubblici non economici nazionali, non può essere estesa ai concorsi indetti dagli enti locali, trattandosi di disposizioni eccezionali che non possono essere interpretate estensivamente, né in analogia.
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Il sindaco del comune di Settala (MI) ha presentato alla Sezione una richiesta di parere sul tema dei compensi spettanti ai componenti delle commissioni di concorso. In particolare, si chiede:
   1. se tali compensi possano essere erogati anche a favore dei dipendenti della Pubblica Amministrazione che bandisce il concorso;
   2. se il compenso, legato ad attività svolta in orario di lavoro, per specifiche disposizioni di legge, sia da considerarsi trattamento economico accessorio e, di conseguenza, rientri nel Fondo risorse decentrate di cui agli articoli 67 e 68 del CCNL Funzioni Locali 2016/2018 sottoscritto in data 21/05/2018 e sia soggetto al limite previsto dall’articolo 23, comma 2, d.lgs. 25/05/2017, n. 75 e s.m.i.;
   3. in caso di risposta affermativa, se l’eventuale assoggettamento al limite previsto dalla predetta norma risulti d’obbligo anche con riferimento ai compensi all’uopo erogati, ai propri dipendenti, da altre Pubbliche Amministrazioni e ciò in considerazione del fatto che, in tal caso, nessun esborso graverebbe direttamente sul bilancio della Pubblica Amministrazione di effettiva appartenenza del dipendente (risorse di provenienza esterna all’Ente, con vincolo di destinazione all’origine: principio di neutralità finanziaria);
   4. se sia necessaria l’autorizzazione ai sensi dell’articolo 53 del d.lgs. 30/03/2001, n. 165 e s.m.i., per i dipendenti di altre Pubbliche Amministrazioni facenti parte delle commissioni concorsuali;
   5. quali siano le modalità per retribuire i dipendenti di altre Pubbliche Amministrazioni facenti parte delle commissioni concorsuali.
Nella richiesta l’Amministrazione comunale richiama il parere 18.12.2019 n. 440 con cui questo Collegio, sulla base di un’interpretazione sistematica della normativa dettata dall’art. 3, commi 12-14, della l. 19.06.2019, n. 56, ha ritenuto che ”ai componenti delle commissioni di concorsi pubblici banditi da un’amministrazione diversa da quella di appartenenza, privi di qualifica dirigenziale, spetti il compenso per l’attività di presidente, di componente o di segretario di concorso”, ammettendo, quindi, che anche nei confronti di tale personale trovi applicazione la deroga al principio di onnicomprensività di cui all’art. 24, comma 3, del d.lgs. n. 165/2001, prevista dall’art. 3, comma 14, l. n. 56/2019.
Il comune di Settala richiama, inoltre, il parere 04.06.2021 n. 77558 di prot. reso dal Dipartimento della funzione pubblica al comune di Lucca secondo il quale “la corresponsione dei compensi previsti dall’art. 3, c. 14, l. n. 56/2019 riguardi tutti i componenti delle commissioni di concorso, a prescindere dall’appartenenza o meno degli stessi ai ruoli dell’amministrazione che bandisce il concorso”.
...
2.1 Deve in primo luogo chiarirsi che il richiamo al parere 18.12.2019 n. 440 di questa Sezione è ininfluente ai fini della risposta al primo dei quesiti formulati dal comune di Settala, diretto a conoscere se tali compensi possano essere erogati anche a favore dei dipendenti della Pubblica Amministrazione che bandisce il concorso, non tanto perché, in quell’occasione, il Collegio si è pronunciato in ordine alla retribuibilità degli incarichi dei componenti delle commissioni di concorso indetto da amministrazione diversa da quella di appartenenza, quanto piuttosto perché, medio tempore, sono intervenute significative novità nel quadro normativo di riferimento.
Ci si riferisce alle modifiche apportate all’art. 3 della legge n. 56/2019 dall’art. 18, comma 1-ter lettere b) e c), del decreto legge 30.12.2019, n. 162 (convertito, con modificazioni, dalla legge 28.02.2020, n. 8), i cui effetti non sono considerati nel parere reso dal Dipartimento della funzione pubblica richiamato dal comune istante.
In particolare, la lett. b) del sopra richiamato art. 18, comma 1-ter, ha abrogato l’art. 3, comma 12, della legge n. 56/2019 che così recitava “Gli incarichi di presidente, di membro o di segretario di una commissione esaminatrice di un concorso pubblico per l'accesso a un pubblico impiego, anche laddove si tratti di concorsi banditi da un'amministrazione diversa da quella di appartenenza e ferma restando in questo caso la necessità dell'autorizzazione di cui all'articolo 53 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, si considerano ad ogni effetto di legge conferiti in ragione dell'ufficio ricoperto dal dipendente pubblico o comunque conferiti dall'amministrazione presso cui presta servizio o su designazione della stessa”.
La lettera c) ha, invece, disposto l’aggiunta di un periodo alla fine del comma 13, il cui testo –al netto delle ulteriori modifiche apportate dall’art. 247, comma 10, del decreto legge 19.05.2020, n. 34 (convertito con modificazioni, dalla legge 17.07.2020, n. 77), non rilevanti ai fini che qui interessano– risulta essere il seguente: “con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro per la pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, da adottare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della predetta legge, si provvede all'aggiornamento, anche in deroga all'art. 6, comma 3, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122, dei compensi da corrispondere al presidente, ai membri e al segretario delle commissioni esaminatrici dei concorsi pubblici per l'accesso a un pubblico impiego indetti dalle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, e dagli enti pubblici non economici nazionali, nonché al personale addetto alla vigilanza delle medesime prove concorsuali, secondo i criteri stabiliti con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23.03.1995, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 134 del 10.06.1995. Tali incarichi si considerano attività di servizio a tutti gli effetti di legge, qualunque sia l'amministrazione che li ha conferiti".
Dalla lettura comparata delle disposizioni previgenti e di quelle attuali emerge chiaramente come il legislatore abbia inteso restringere il campo dei destinatari delle norme in parola, limitandolo alle sole amministrazioni nazionali.
Che questa sia la voluntas legis trova conferma negli atti parlamentari e, in particolare nel “Dossier 21.02.2020 - schede di lettura D.L. 162/2019 – A.S. 1729)” dove si legge che: “Le novelle di cui alle lettere b) e c) dello stesso comma 1-ter concernono la natura dell'attività degli incarichi di presidente, di membro e di segretario delle commissioni esaminatrici dei concorsi per il reclutamento di personale nelle pubbliche amministrazioni. Si prevede che tali incarichi, qualora riguardino concorsi indetti dalle amministrazioni dello Stato (anche ad ordinamento autonomo) e dagli enti pubblici (non economici) nazionali, siano considerati a tutti gli effetti di legge attività di servizio, qualunque sia l'amministrazione che li abbia conferiti, e si abroga la disposizione vigente, che pone il medesimo principio in via generale, mentre la nuova norma fa esclusivo riferimento ai concorsi indetti dalle suddette amministrazioni nazionali”.
Sulla scorta di quanto evidenziato, ne consegue che a seguito dell’entrata in vigore del decreto legge n. 162/2019, la deroga al principio di onnicomprensività di cui all’art. 24, comma 3, del decreto legislativo n. 165/2001, introdotta dall’art. 3, comma 14, della legge n. 56/2019, trova applicazione solo nei confronti delle amministrazioni statali e degli enti pubblici (non economici) nazionali. Tale interpretazione, fondata sul dato letterale delle disposizioni esaminate, fra di loro intrinsecamente connesse, appare funzionale anche all’obiettivo del legislatore, emergente da una lettura sistematica di tutto l’articolo 3 della legge n. 56/2019, di accelerare le procedure assunzionali gestite a livello centrale.
Ciò posto, questa Sezione ritiene che un’interpretazione estensiva del citato comma 14, che ne consentisse l’applicabilità anche agli enti locali, non può essere ammissibile in quanto solo la legge può derogare al principio cardine di onnicomprensività della retribuzione dei dipendenti della PA sancito dagli artt. 2, comma 3, e 24, comma 3, del Dlgs. 165/2001.
Come ben chiarito dalla Sezione regionale per il Veneto (cfr. parere 05.01.2018 n. 1) “In virtù di tale principio, nulla è dovuto, oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che rientra nei suoi doveri d’ufficio (cfr. Corte dei Conti Puglia, Sezione giurisdizionale, sentenze nn. 464, 475 e 487 del 2010).
Il principio si coniuga con quello, previsto parimenti dalle norme citate, della riserva alla contrattazione collettiva in tema di determinazione del corrispettivo delle prestazioni dei dipendenti: ne consegue, da un lato, che solo il contratto collettivo nazionale, può fissare onnicomprensivamente il trattamento economico, mentre quello decentrato assume rilevanza nei limiti di quanto disposto dalle fonti nazionali. In ambo i casi, solo la legge può derogare a tale sistema, prevedendo talora ulteriori specifici compensi (Sez. Autonomie
deliberazione 15.04.2014 n. 7 e Corte dei conti SS.RR.QM deliberazione 04.10.2011 n. 51) o addirittura la possibilità di una diversa strutturazione del trattamento economico (cfr., ad esempio, gli artt. 24 e 45 del Dlgs. n. 165 del 2001), sia sul piano qualitativo che su quello quantitativo: con la conseguenza che, in quanto tale, esso costituisce un’eccezione di stretta interpretazione, con divieto di analogia (art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile: Sezione Campania, parere 07.05.2008 n. 7/2008, essendo regola generale quella secondo cui il contratto individuale o una determinazione unilaterale dell’ente (ad esempio un regolamento) non possono determinare il corrispettivo e, dall’altro, che tale corrispettivo retribuisce ogni attività che ricade nei doveri d’ufficio (principio di onnicomprensività)”.
2.2 Con il secondo quesito il comune di Settala chiede “se il compenso in parola, legato ad attività svolta in orario di lavoro, per specifiche disposizioni di legge, sia da considerarsi trattamento economico accessorio e, di conseguenza, rientri nel Fondo risorse decentrate di cui agli articoli 67 e 68 del CCNL Funzioni locali 2016/2018”.
Si rileva, al riguardo che, alla luce della costante giurisprudenza della Corte dei conti, tale quesito debba ritenersi inammissibile. Come è noto, infatti, esula dall’ambito di competenza della Corte l’interpretazione, in sede consultiva, delle norme dei Contratti Collettivi Nazionali di lavoro (cfr. Sezioni Riunite in sede di controllo deliberazione n. 56/2011), e, nello specifico, dell’applicazione delle disposizioni contenute in uno di essi per colmare eventuali lacune della legge poiché, come più volte specificato, l'interpretazione delle norme contrattuali rientra nelle funzioni che il legislatore ha attribuito all’ARAN. (cfr., da ultimo, Sezione regionale controllo Lombardia, n. 113/2021).
2.3 Tenuto conto delle soluzioni adottate deve ritenersi superato il terzo quesito, subordinato, dalla stessa amministrazione, all’esito positivo dei precedenti.
2.4 Quanto alla quarta questione posta dal comune di Settala, tesa a conoscere se sia necessaria l’autorizzazione ai sensi dell’articolo 53 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165 e s.m.i., per i dipendenti di altre pubbliche amministrazioni facenti parte delle commissioni concorsuali, il collegio ribadisce che, come affermato dalle Sezioni riunite, la materia del personale per rientrare nella nozione di contabilità pubblica, deve coinvolgere “la previsione legislativa di limiti e divieti idonei a riflettersi, come detto, sulla sana gestione finanziaria degli Enti e sui pertinenti equilibri di bilancio” (Sezioni riunite in sede di controllo, deliberazione n. 54/2010). Poiché, nel caso in esame non si rinviene tale rilievo contabile, il quesito deve dichiararsi inammissibile.
2.5 Con riferimento all’ultimo interrogativo rivolto a questa Sezione regionale dal comune di Settala, diretto a conoscere quali siano le modalità per retribuire i dipendenti di altre Pubbliche Amministrazioni facenti parte delle commissioni concorsuali, il collegio osserva che la tematica non può essere sganciata dalle questioni già affrontate e, pertanto, deve anch’essa essere ritenuta inammissibile.
P.Q.M.
La Corte dei conti –Sezione regionale di controllo per la Lombardia– esprime il seguente principio di diritto sull’unica questione ritenuta ammissibile fra quelle prospettate dal comune di Settala (MI):
A seguito delle modifiche apportate dall’art. 18, comma 1-ter, lett. b) e c), del decreto legge n. 162/2019, la disciplina prevista dall’art. 3, commi 13 e 14, della legge n. 56/2019 in materia di compensi dovuti per l’attività di presidente o di membro della commissione esaminatrice dei concorsi per l’accesso a un pubblico impiego indetti dalle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, e degli enti pubblici non economici nazionali, non può essere estesa ai concorsi indetti dagli enti locali, trattandosi di disposizioni eccezionali che non possono essere interpretate estensivamente, né in analogia (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 03.11.2021 n. 253).

settembre 2021

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: B. Amuro, Pausa caffè: è reato? (06.09.2021 - link a www.filodiritto.com).
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Pausa caffè e sosta in tabaccheria senza timbrare il tesserino per la pausa. Azione fraudolenta o semplice consuetudine tutta italiana?
La
sentenza 29.07.2021 n. 29674 della Sez. III penale della Corte di Cassazione propende la prima e rinvia alla Corte d’appello solo per la valutazione circa l’eventuale non punibilità per particolare tenuità del fatto (articolo 131-bis Codice Penale). (...continua).

luglio 2021

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORischi penali per le pause caffè senza timbrare. Solo episodi singoli possono evitare la maxi-sanzione grazie alla «lieve tenuità».
La «lieve tenuità» può evitare le sanzioni penali, ma le indicazioni offerte dalla sentenza 29.07.2021 n. 29674 della Cassazione (Sole 24 Ore del 26 agosto) dettano principi piuttosto rigidi sull’applicazione delle norme anti-assenteismo. L’allontanamento dall’ufficio per la pausa caffè senza la timbratura dell’uscita integra per i giudici il reato della falsa attestazione della presenza, anche se è stato commesso una volta sola, tranne che si dimostri la particolare tenuità del fatto.
Non è necessaria la presenza di un dolo specifico, quindi è sufficiente che i dipendenti siano a conoscenza dell’esistenza di un vincolo della timbratura; maturano le condizioni per contestare l’aggravante dell’essere pubblico ufficiale, anche se si tratta di una circostanza non strettamente collegata all’esercizio delle attività; la condotta determina la maturazione del danno all’immagine.
La Corte dà inoltre conto del fatto che vi sono letture contrastanti sulla scelta di subordinare la sospensione della condanna al risarcimento del danno, posto che in caso di risposta positiva va dimostrato che il dipendente è nelle condizioni economiche di poter dare corso al risarcimento. La sentenza evidenzia quanto la scelta legislativa sia rigida e figlia della volontà di punire duramente comportamenti che creano disservizi e danneggiano la credibilità delle Pa, ma che il tutto va ricondotto ai principi generali dell’ordinamento penale.
La prima indicazione netta è che non è necessario, per irrogare la sanzione penale della reclusione e della multa prevista dall’articolo 55-quinquies del Dlgs 165/2001 (reclusione da uno a cinque anni e sanzione da 400 a 1.600 euro), dimostrare che la condotta è stata caratterizzata da continuità, abitualità o reiterazione. Anche un singolo episodio integra gli estremi del reato. Che matura per la semplice mancata timbratura dell’uscita e non sono necessari l’alterazione o la manomissione del sistema di rilevazione delle presenze. La mancanza prevista dal legislatore si determina per il fatto che il dipendente non è in ufficio e che la sua assenza non è registrata.
Un’altra indicazione rigida deriva dalla scelta legislativa: è sufficiente a integrare il reato il dolo generico e non serve la dimostrazione di una volontà specifica. I dipendenti vanno sanzionati se conoscono l’esistenza di un vincolo all’uso del badge e non ci sono giustificazioni convincenti.
Dalla rigidità della disposizione scaturisce l’aggravante dell’essere un pubblico ufficiale: la norma non richiede «un nesso funzionale tra tali poteri o doveri e il compimento del reato». Il fatto di essere un dipendente di Pa determina un «maggior disvalore penale del reato».
La sentenza ricorda che la norma prevede il risarcimento da parte del dipendente del danno provocato all’ente, sia di natura patrimoniale per la retribuzione che ha percepito indebitamente, sia all’immagine, con quantificazione della misura minima. In applicazione dei principi di carattere generale e segnatamente dell’articolo 131-bis del Codice penale, matura la non punibilità nel caso di «particolare tenuità del fatto». Il che richiede che la mancanza sia una sola, che abbia determinato effetti di lieve entità e che le modalità della condotta consentano questo giudizio (articolo Il Sole 24 Ore del 06.09.2021).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORischi penali per le pause caffè senza timbrare.
L'allontanamento dall'ufficio per la cosiddetta pausa caffè senza la timbratura dell'uscita integra il reato della falsa attestazione della presenza, anche se è stato commesso una volta sola, tranne che si dimostri la particolare tenuità del fatto.
Non è necessaria la presenza di un dolo specifico, quindi è sufficiente che i dipendenti siano a conoscenza della esistenza di un vincolo della timbratura; maturano le condizioni per contestare l'aggravante dell'essere pubblico ufficiale, anche se si tratta di una circostanza che non è strettamente collegata all'esercizio delle attività; tale condotta determina la maturazione del danno all'immagine.
Sono queste le principali indicazioni contenute nella sentenza 29.07.2021 n. 29674 della III Sez. penale della Corte di Cassazione.
La stessa dà inoltre conto del fatto che ci sono letture contrastanti sulla scelta di subordinare la sospensione della condanna al risarcimento del danno, posto che in caso di risposta positiva sull'utilizzazione di questa possibilità occorre dimostrare che il dipendente è nelle condizioni economiche di potere dare corso al risarcimento. La sentenza evidenzia quanto la scelta legislativa sia rigida e sia figlia della volontà di punire duramente comportamenti che creano disservizi e determinano danni rilevanti alla credibilità delle Pa, ma che il dettato legislativo deve essere comunque ricondotto nel rispetto dei principi di carattere generale dettati dall'ordinamento penale.
La prima indicazione molto netta è che non è necessario, per potere irrogare la sanzione penale della reclusione e della multa prevista dall'articolo 55-quinquies del Dlgs 165/2001 dimostrare che la condotta del dipendente è stata caratterizzata dalla continuità o dalla abitualità o dalla reiterazione. Di conseguenza, anche un singolo episodio integra gli estremi per la maturazione del reato. Intimamente connessa a tale principio è la considerazione che il reato matura per la semplice mancata timbratura della uscita e non sono necessari l'alterazione o la manomissione del sistema di rilevazione delle presenze. La mancanza prevista dal legislatore si determina per il semplice fatto che il dipendente non è in ufficio e che la sua assenza non risulta registrata dal sistema di rilevazione delle presenze.
Un'altra indicazione che possiamo definire come rigida e che deriva direttamente dalla scelta legislativa è la seguente: è sufficiente a integrare il reato il dolo generico e non è necessaria la dimostrazione di una volontà specifica. Quindi, i dipendenti vanno sanzionati se sono a conoscenza della esistenza di un vincolo alla utilizzazione del badge e se non vi sono elementi di giustificazione convincenti.
Dalla rigidità della disposizione scaturisce l'elemento per cui si deve contestare la circostanza aggravante dell'essere il dipendente un pubblico ufficiale: il dettato legislativo non richiede che vi sia «un nesso funzionale tra tali poteri o doveri ed il compimento del reato». In altri termini, il semplice fatto di essere un dipendente di Pa determina un «maggior disvalore penale del reato».
La sentenza ricorda che la disposizione prevede che il dipendente debba risarcire il danno che ha provocato all'ente, sia di natura patrimoniale per la retribuzione che ha percepito indebitamente, sia alla immagine della Pa, con la quantificazione della misura minima.
In applicazione dei principi di carattere generale e segnatamente dell'articolo 131-bis del codice penale, matura la non punibilità nel caso di «particolare tenuità del fatto». Il che richiede che la mancanza sia una sola, che essa abbia determinato degli effetti di lieve entità e che le modalità della condotta consentano la maturazione di tale giudizio (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 06.09.2021).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La Cassazione chiude un occhio sulla fuga per la pausa caffè. Resta reato ma punibile solo se sono provati abitualità e danno rilevante per la Pa. I dipendenti non timbravano il badge e confidavano su prassi e tolleranza.
I futili motivi che inducono i furbetti del cartellino a uscire per la pausa caffè e le sigarette non bastano a escludere la non punibilità, per la particolare tenuità del fatto. Per negare il beneficio, previsto dall’articolo 131-bis del Codice penale serve, infatti, la prova dell’abitualità del comportamento e del danno rilevante per la pubblica amministrazione. Due elementi che la Corte d’appello, disattesa dalla Cassazione (sentenza 29.07.2021 n. 29674), aveva rilevato.
Per la Corte territoriale erano punibili due impiegati del Comune, finiti nelle maglie della giustizia, perché assenti ingiustificati durante un controllo dei Carabinieri. Un’uscita, senza timbrare il badge, per comprare le sigarette e andare al bar. In realtà a metterli davvero nei guai erano state le loro giustificazioni. Il bevitore di caffè aveva parlato di necessità, non essendoci in ufficio un distributore e di prassi seguita in tutti i luoghi di lavoro. Il dipendente che era andato dal tabaccaio, aveva maledetto la cattiva sorte, perché in 36 anni di servizio non gli era mai capitata una cosa del genere.
Frasi che, per la Corte territoriale, provavano l’abitualità dei comportamenti. Dello stesso parere il Pubblico ministero, secondo il quale il beneficio era stato giustamente negato, anche ai fini delle attenuanti generiche, perché era stato violato il principale dovere di un lavoratore: la presenza sul posto di lavoro. Gli imputati avevano agito con noncuranza verso l’utenza tendendo a sminuire l’azione commessa.
Sulla stessa linea sia il Tribunale sia la corte d’Appello, che avevano messo l’accento sulla futilità dei motivi delle uscite, e sulla gravità dell’allontanamento non registrato. Una condotta idonea «ad incrementare un diffuso malumore verso la categoria dei pubblici dipendenti e cagionare un danno all’immagine della casa Comunale». E questo per assecondare «bisogni della vita del tutto accessori».
In più, dalle dichiarazioni degli imputati, risultava che l’allontanamento non era occasionale, anzi , una prassi «una consuetudine mattutina, radicata e addirittura abituale».
Diversa la lettura della Suprema corte, secondo la quale le affermazioni, «incriminate» dai giudici di merito, non provavano affatto l’abitualità. E i giudici di legittimità richiamano alla necessità di stare ai fatti.
I due ricorrenti non avevano timbrato il badge in uscita e dunque, in base all’orario di entrata, potevano essere stati via dai cinque minuti a un’ora. Né è corretta l’affermazione sull’ostacolo al beneficio dato dalla futilità dei motivi.
Una causa ostativa che la Corte di merito ha tratto dal comma 2 dell’articolo 131-bis, in base al quale l’offesa non può essere considerata di particolare tenuità se l’autore ha agito per motivi abietti o futili. Nel caso specifico, però, ad avviso della Cassazione, l’errore non nasce da un istinto criminale, ma da una sorta di affidamento nella prassi o nella tolleranza dei superiori. Detto questo, i giudici di legittimità confermano il reato, previsto dalla cosiddetta legge Brunetta (Dlgs 150/2009, articolo 55-quinquies). Una norma, rivista dal Dlgs 116/2016, secondo la quale la falsa attestazione scatta qualunque modalità venga usata per far risultare in servizio chi è assente.
Viene dunque confermata anche la condanna a risarcire il danno alla Pa. Ma la Corte d’Appello è invitata a rivedere il no alla non punibilità (articolo Il Sole 24 Ore del 26.08.2021).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIAGOIl badge anche per la pausa caffè. Non sufficiente l’autorizzazione orale del capo ufficio. La Corte di cassazione ha confermato il reato di attestazione fraudolenta della presenza.
L'allontanamento dal posto di lavoro, per fruire della pausa caffè, deve essere accertato dal sistema di rilevazione delle presenze, anche in presenza dell'autorizzazione orale del capo ufficio. In questo caso, infatti, il dipendente incorre nel reato falsa attestazione della presenza, essendo sufficiente che, ai fini dell'integrazione del reato, la situazione di fatto (presenza in ufficio) sia diversa da quella reale (allontanamento al bar).
Con queste indicazioni la Corte di Cassazione, Sez. III penale (sentenza 29.07.2021 n. 29674) ha, da un lato, confermato la fattispecie del reato ma, dall'altro lato, ha accolto il ricorso dei ricorrenti sulla possibile applicazione della particolare tenuità del reato, anche in caso di reiterazione, rinviando al giudice di merito la relativa decisione.
La vicenda. Il Tribunale di primo grado e la Corte di appello hanno confermato il reato, di attestazione fraudolenta della presenza, di due dipendenti che, a seguito del riscontro effettuato dalle forze dell'ordine, si erano allontananti dall'ufficio, il primo per una pausa caffè ed il secondo per recarsi al tabaccaio.
Trattandosi di pochi minuti di allontanamento, tra la fase di uscita, in assenza della timbratura al cartellino marcatempo, e quella in entrata, i convenuti hanno, tra l'altro evidenziato la particolare tenuità del fatto. Uno dei ricorrenti ha, inoltre, precisato che l'allontanamento dall'ufficio, per pochi minuti, era stato in ogni caso preventivamente autorizzato dal capo ufficio, in assenza del distributore automatico di bevande.
Le indicazioni della Cassazione. Il delitto di "false attestazioni o certificazioni" si consuma, a dire dei giudici di legittimità, con la realizzazione di qualsiasi comportamento fraudolento che, consista nell'irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze e che, il reato in questione concorre con la truffa aggravata, in tutti i casi nei quali la condotta del dipendente pubblico provoca un danno all'amministrazione (decreto legislativo n. 165/200).
Ricorda la Cassazione che, il nuovo testo dell'art. 55-quater riguardante il licenziamento disciplinare, ha precisato al comma 1-bis, che costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l'amministrazione circa il rispetto dell'orario di lavoro.
Nel caso di specie, il delitto si consuma con la realizzazione, da parte dei pubblici dipendenti, di un comportamento fraudolento consistente nell'irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze, poiché in ragione della funzione autocertificativa che la timbratura del cartellino elettronico assume, qualsiasi condotta manipolativa delle risultanze di quella attestazione, è di per sé idonea a trarre in inganno l'amministrazione presso la quale presta servizio.
Pertanto, nessun rilievo può assumere la circostanza sollevata, in ordine alla "pausa caffè", considerato che la stessa non integra uno stato di necessità neanche in assenza di distributori automatici e qualsiasi pausa o permesso implicano necessariamente che, l'allontanamento non solo deve essere autorizzato, ma deve trovare traccia nell'utilizzo del badge che segna l'uscita del dipendente. È stata, invece, accolta l'eccezione della difesa sulla particolare tenuità del fatto.
Infatti, anche in presenza di ipotesi di reiterazioni, l'applicabilità dell'art. 131 c.p. è stata fondata sulla lieve entità delle singole condotte, isolatamente considerate. Tale soluzione poggia sulla mancata ripetizione, nell'articolo citato, dell'inciso "anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di lieve entità".
In altri termini, tale scelta del legislatore lascerebbe aperta la possibilità, in caso di "reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate", di applicare l'art. 131-bis c.p., all'esito di una valutazione di particolare tenuità delle singole condotte o dei singoli fatti. Spetterà al giudice di appello, cui la causa è rinviata, verificare se gli illeciti non siano espressivi di una tendenza o inclinazione al crimine, dovendo essere soppesata l'incidenza della continuazione in tutti i suoi aspetti, quali gravità del reato, capacità a delinquere, precedenti penali, durata temporale della violazione, numero delle leggi violate, effetti della condotta antecedente, contemporanea o susseguente al reato, interessi lesi o perseguiti dal reo e motivazioni, anche indirette, sottese alla condotta
(articolo ItaliaOggi del 05.08.2021).
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SENTENZA
4. Entrambi i motivi sono infondati.
4.1. In primo luogo, per la soluzione del ricorso in esame, occorre individuare il perimetro in cui è applicabile la fattispecie risultante dall'art. 55-quinquies, D.Lgs. n. 165/2001. La giurisprudenza di legittimità ha delineato, in particolare, l'ambito di applicabilità della norma, tenendo conto, da un lato, dei profili di concorrenza con il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato e, dall'altro, delle conseguenze della condotta nei casi di particolare tenuità, ovvero quando le violazioni non siano state reiterate e ripetute ma limitate. Al riguardo, la norma evidenzia in modo preciso una condotta che sembra essere di per sé punibile e non richiede continuità o abitualità.
In generale, il delitto di "false attestazioni o certificazioni" si consuma con la realizzazione di qualsiasi comportamento fraudolento che consista nell'irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze e che il reato in questione concorre con la truffa aggravata, disciplinata dall'art. 640, co. 2, n. 1, c.p. in tutti i casi nei quali la condotta del dipendente pubblico provoca un danno all'Amministrazione poiché al primo comma del citato art. 55-quinquies è espressamente previsto "fermo quanto previsto dal Codice penale" (Sez. III, n. 45698 del 27/10/ 2015).
Contrariamente a quanto dedotto dai ricorrenti, la Corte di appello ha rigettato le tesi difensive, secondo cui le condotte contestate agli imputati, di essersi allontanati dal luogo di lavoro senza timbrare il badge all'uscita, non sarebbero riconducibili all'art. 55- quinquies citato, non essendovi stata un'alterazione dei sistemi di rilevamento delle presenze e non essendo riconnprese nelle altre modalità fraudolente, che in quanto non sufficientemente tipizzate devono essere interpretate restrittivamente nel senso di altre modalità di alterazione del sistema di registrazione.
Ed infatti, la condotta contemplata dal D.lgs. n. 165 del 2001, art. 55-quinquies non viola il principio di tassatività, poiché sanziona chi attesta falsamente la presenza in servizio, utilizzando svariate modalità fraudolente non a priori predeterminate dal legislatore.  Non sussiste alcun contrasto con il principio di tassatività e determinatezza delle fattispecie penali, previsto all'art. 25 Cost., in quanto l'enunciazione della condotta del reato, pur descritta genericamente, consente al giudice, avuto riguardo anche alla finalità di incriminazione ed al contesto ordinamentale in cui si colloca, di stabilire con precisione il significato delle parole, che isolatamente considerate potrebbero anche apparire non specifiche, ed al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del valore precettivo di essa.
Né è legittimo fare ricorso all'interpretazione analogica con le modalità indicate da ciascun ricorrente, poiché è sufficiente utilizzare il criterio di interpretazione letterale per attribuire alla norma un significato univoco.
4.2. Occorre ricordare inoltre che il nuovo testo dell'art. 55-quater che tratta del licenziamento disciplinare, precisa al comma 1-bis, con una integrazione effettuata con D.lgs. n. 116 del 2016, che costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l'amministrazione circa il rispetto dell'orario di lavoro.
La fattispecie disciplinare di fonte legale si realizza, dunque, non solo nel caso di alterazione/manomissione del sistema, ma in tutti i casi in cui la timbratura, o altro sistema di registrazione della presenza in ufficio, miri a far risultare falsamente che il lavoratore è rimasto in ufficio durante l'intervallo temporale compreso tra le timbrature/registrazioni in entrata ed in uscita.
Sul punto, si è espressa la giurisprudenza di legittimità in sede civile (Sez. lav., n. 24574 del 01/12/2016) precisando che a prescindere dall'intervento riformatore dell'art. 55-quater cit., la ricostruzione innanzi effettuata era, comunque, evincibile dal tenore letterale della disposizione, dal quale non si ricava alcun elemento che consenta di affermare che, invece, nel passato la condotta tipizzata fosse individuabile nei soli casi di alterazione intesa come manomissione del sistema di rilevazione delle presenze (Cass. Civ. n. 17637/2016, 17259/2016; Cass. Civ. Sez. lav., n. 257508 del 14/12/2016).
Pertanto, la formulazione del Dlgs. n. 165 del 2001, art. 55-quater, comma 1, lett. a), ed anche la sua "ratto" (potenziamento del livello di efficienza degli uffici pubblici e di contrastare i fenomeni di scarsa produttività e di assenteismo), inducono ad affermare che la registrazione effettuata attraverso l'utilizzo del sistema di rilevazione della presenza sul luogo di lavoro è corretta e non falsa solo se nell'intervallo compreso tra le timbrature in entrata ed in uscita il lavoratore è effettivamente presente in ufficio, mentre è falsa e fraudolentemente attestata nei casi in cui miri a far emergere, in contrasto con il vero, che il lavoratore è presente in ufficio dal momento della timbratura in entrata a quello della timbratura in uscita.
Ed infatti, secondo consolidata giurisprudenza, il delitto previsto dall'art. 55-quinquies si consuma con la realizzazione da parte dei pubblici dipendenti di un comportamento fraudolento consistente nell'irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze (Sez. III, n. 47043 del 27/10/2015), poiché in ragione della funzione autocertificativa che la timbratura del cartellino elettronico assume, qualsiasi condotta manipolativa delle risultanze di quella attestazione, è di per sé idonea a trarre in inganno l'amministrazione presso la quale presta servizio in merito alle circostanze di fatto che quella attestazione è intesa a dimostrare, ossia la presenza del dipendente sul luogo di lavoro.
4.3. Peraltro, come già correttamente chiarito dal Tribunale, anche se nel caso in esame non è stato contestato dalla Procura della Repubblica il reato di cui all'art. 640 c.p., è configurabile il concorso materiale tra il reato di truffa aggravata e quello di false attestazioni o certificazioni previsto dall'art. 55-quinquies (sul rapporto tra l'art. 640 cpv. c.p. e il D.lgs. n. 165 del 2001, art. 55- quinquies: Sez. III, n. 47043 del 27/10/2015; Id. n. 45696 del 27/10/2015; Id. n. 45698 del 27/10/2015; Id., n. 45947 del 10/10/2019).
In sintesi, è stato sottolineato che l'illecito descritto al D.lgs. n. 165 del 2001, art. 55-quinquies, diversamente dalla truffa, si consuma con la mera falsa attestazione da parte del dipendente pubblico della presenza in servizio attraverso un'alterazione dei sistemi di rilevamento delle presenze. Il fine perseguito dalla norma in esame è evidentemente quello di prevenire o contrastare, nell'interesse della funzionalità dell'ufficio pubblico, le condotte assenteistiche.
Il comma 2 del medesimo articolo disciplina invece la responsabilità amministrativa e civile del pubblico dipendente: egli sarà obbligato a tenere indenne la P.A. dal danno derivante dalla corresponsione della retribuzione per i periodi per i quali sia stata accertata la mancata prestazione, nonché a risarcire anche il danno non patrimoniale (ad es. quello all'immagine subito dall'amministrazione stessa).
Appare evidente come il comportamento fraudolento del dipendente, il quale si sia concretizzato nell'irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze, possa costituire prova della mancata erogazione della prestazione lavorativa. Il legislatore quindi pone l'attenzione sulle modalità esplicative del comportamento illecito, non invece sulle conseguenze da esso in concreto scaturenti, ossia l'induzione in errore della P.A. e/o il profitto ingiusto conseguito dall'agente i quali, pertanto, non possono essere ritenuti elementi costitutivi della fattispecie di cui all'art. 55-quinquies prefato.
...
10. Vanno trattati congiuntamente anche il secondo motivo del Ca. e il secondo motivo del Se., in quanto entrambi afferiscono al tema del mancato riconoscimento della causa di non punibilità ex art. 131-bis c.p., motivi, come anticipato, da ritenersi invece fondati.
10.1. Una recente pronuncia di questa Corte ha affrontato la questione della sussistenza del reato nei casi di lieve entità della violazione.
È stato affermato che la clausola generale di "non punibilità per particolare tenuità del fatto" prevista dall'art. 131-bis c.p. è applicabile solamente nei casi nei quali la condotta di allontanamento fraudolento dal posto di lavoro sia stata del tutto episodica e, comunque, l'offesa sia di particolare tenuità (Sez. II, n. 38997 del 27/08/2018).
In tutti gli altri casi nei quali vi sia abitualità o reiterazione del comportamento, anche se di lieve entità, non è applicabile la clausola di non punibilità.
In sostanza, in presenza di un unico episodio e di effetti limitati è possibile applicare l'esimente mentre nel caso di episodi ripetuti, anche di lieve entità, è configurabile e sanzionabile la condotta con l'applicazione della pena prevista per il delitto di "false attestazioni o certificazioni".
Si rammenta poi che l'art. 131-bis c.p. stabilisce che la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell'art. 133 c.p., comma 1, l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale. Sul punto, deve richiamarsi la giurisprudenza di questa Corte in base alla quale la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto non può essere applicata ai reati necessariamente abituali ed a quelli eventualmente abituali che siano stati posti in essere mediante reiterazione della condotta tipica (Sez. III, n. 30134 del 05/04/2017), in quanto viene a configurarsi una ipotesi di "comportamento abituale" ostativa al riconoscimento del beneficio (Sez. VI, n. 18192 del 20/03/2019).
Tuttavia, in ipotesi di reiterazione non sono mancate decisioni nelle quali l'applicabilità dell'art. 131-bis c.p. è stata fondata sulla lieve entità delle singole condotte, isolatamente considerate.
Tale soluzione poggia sulla mancata ripetizione nell'articolo summenzionato dell'inciso "anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di lieve entità".
In sostanza, tale scelta del legislatore lascerebbe aperta la possibilità, in caso di "reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate", di applicare l'art. 131-bis c.p., all'esito di una valutazione di particolare tenuità delle singole condotte o dei singoli fatti (Sez. III, n. 38849 del 5/04/2017).
Per il reato continuato, similmente, è stato richiesto che gli illeciti non siano espressivi di una tendenza o inclinazione al crimine, dovendo essere soppesata l'incidenza della continuazione in tutti i suoi aspetti, quali gravità del reato, capacità a delinquere, precedenti penali e giudiziari, durata temporale della violazione, numero delle disposizioni di legge violate, effetti della condotta antecedente, contemporanea o susseguente al reato, interessi lesi o perseguiti dal reo e motivazioni, anche indirette, sottese alla condotta (Sez. II, n. 41011 del 6/06/2018).
Si è chiarito, peraltro, che per escludere la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto è da ritenersi adeguata la motivazione che dia conto dell'assenza di uno soltanto dei presupposti richiesti dall'art. 131-bis c.p. ritenuto, evidentemente, decisivo (Sez. III, n. 34151 del 18/06/2018; Sez. VI, n. 55107 del 08/11/2018) secondo cui il giudizio sulla tenuità dell'offesa dev'essere effettuato con riferimento ai criteri di cui all'art. 133 c.p., comma 1, ma non è necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, essendo sufficiente l'indicazione di quelli ritenuti rilevanti (Sez. II, n. 25234 del 14/05/2019).
...
12. Può quindi esaminarsi il residuo motivo di ricorso proposto nell'interesse del Ca..
12.1. Si tratta del terzo motivo, che si appalesa inammissibile.
Quanto alla ritenuta ricorrenza della circostanza aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 9, giova precisare che la condotta del Ca., ovvero l'allontanarsi dal luogo di lavoro omettendo di timbrare il badge all'uscita, integra la violazione dei doveri inerenti al pubblico servizio (Sez. V n. 44689 del 03/06/2005; Sez. II, n. 22972 del 16/02/2018).
Peraltro, in adesione ai principi sanciti dalla citata pronuncia n. 44689/2005, nel momento in cui detto dipendente timbra il cartellino di presenza lavorativa, pur rimanendo parte di un rapporto pubblico di servizio, agisce come privato-lavoratore e fa divenire irrilevante la mansione concretamente esercitata. Tuttavia, si legge in motivazione, la qualità di privato di ciascun dipendente, non ha fatto venir meno l'aggravante dell'art. 61 c.p., n. 9 in quanto, la condotta tenuta (nella specie smarcamento del badge proprio ed altrui con finalità fraudolente per far risultare una presenza del soggetto sul luogo di lavoro in realtà inesistente), ai fini della configurazione del reato in contestazione, risulta essere stata originata e favorita dal contesto lavorativo di appartenenza e in "palese violazione di precise direttive superiori".
La medesima condotta ha comunque integrato la violazione, da parte del lavoratore, di un dovere inerente il pubblico servizio, la cui qualità pubblica rimane immanente alla figura del soggetto-lavoratore indipendentemente dalle funzioni concretamente esercitate dallo stesso.
Del resto, si è affermato che l'aggravante di aver commesso il fatto con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o ad un pubblico servizio è configurabile anche quando il pubblico ufficiale abbia agito al di fuori dell'ambito delle sue funzioni, essendo sufficiente che la sua qualità abbia comunque facilitato la commissione del reato (Sez. V, n. 50586 del 07/11/2013) e non essendo necessaria l'esistenza di un nesso funzionale tra tali poteri o doveri ed il compimento del reato (ex plurimis, Sez. II, n. 20870 del 30/04/2009; Sez. V, n. 50586 del 07/11/2013; Id. n. 13057 del 28/10/2015; Sez. III, n. 24979 del 22/12/2017; Sez. V, n. 9102 del 16/10/2019; Sez. III, n. 17386 del 28/01/2021).
Inoltre, tra le circostanze concernenti le "qualità personali" del colpevole rientra certamente quella dell'aver commesso il fatto con abuso dei poteri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, di cui all'art. 61 c.p., n. 9, che é di natura oggettiva, in quanto non si applica a taluno perché pubblico ufficiale, ma perché ha abusato dei propri poteri, e, quindi, riguarda una modalità dell'azione, con la conseguenza che la stessa si comunica ad eventuali concorrenti, ai sensi dell'art. 118 c.p. (Sez. VI, n. 53687 del 25/11/2014).
12.2. Ciò precisato, il maggior disvalore penale del reato in tal modo commesso attiene al vulnus arrecato alla funzione della quale il pubblico ufficiale ha abusato, ovvero i cui doveri ha violato, con lesione del sottostante rapporto pubblicistico: si tutela, cioè, il corretto svolgimento della pubblica funzione.
In ogni caso, il motivo di impugnazione sollevato dal Caterino non risulta essere stato proposto con i motivi di appello, con la conseguenza che la doglianza, non essendo consentita, non può essere sollevata per la prima volta nel giudizio di legittimità.
...
13.2. La condotta illecita del dipendente, come è noto, presenta anche significativi riflessi patrimoniali.
Tuttavia, oltre al danno patrimoniale riferito alle retribuzioni indebitamente erogate, le assenze ingiustificate, oltretutto poste in essere con condotte fraudolente di alterazione dei mezzi di rilevazione delle presenze, creano all'Amministrazione un ulteriore danno, dato dal discredito conseguente al fatto illecito che investe l'autorevolezza e la credibilità dell'Amministrazione Pubblica, in generale, e dell'Ente interessato. Pertanto, il Legislatore del 2009 ha riconosciuto che l'attestazione falsa di presenza in servizio lede l'immagine dell'Amministrazione ed ha determinato la misura minima del risarcimento che è indipendente dalla gravità o dalla reiterazione della condotta.
La giurisprudenza contabile ha rilevato che l'art. 55-quinquies, D.lgs. n. 165/2001 ha introdotto una peculiare tipologia di danno all'immagine e, parimenti, una specifica tipizzazione del danno patrimoniale diretta a determinare l'importo della lesione erariale, consistente nella condotta del dipendente pubblico che abbia attestato falsamente la propria presenza nel luogo di lavoro o, altrimenti, che abbia occultato l'interruzione della prestazione attraverso il mancato o illecito utilizzo dei sistemi di attestazione della presenza in servizio (Corte dei conti, Sez. giurisd. Basilicata, n. 8 del 06/03/2019; Corte dei conti, Sez. giurisd. Abruzzo, n. 110 del 06/09/2018).
Si è precisato che il legislatore ha inteso prevedere un diverso e più rigoroso trattamento contro il fenomeno dell'assenteismo pubblico, fissando espressamente il principio per cui le condotte cosiddette assenteistiche sono causa di lesione all'immagine" (Corte dei conti, n. 163 del 17/05/2018).
In proposito, la nozione di danno all'immagine deve essere considerata unitaria e, in ogni caso, espressiva di un'effettiva compromissione della reputazione dell'Ente danneggiato, ipotizzabile solo in presenza di una propagazione di notizie da cui sia potuto derivare uno scadimento dell'opinione dei consociati in merito alla correttezza dell'operato delle Pubbliche Amministrazioni.
Ne consegue che la condanna al risarcimento dei danni subiti dalla P.A. in conseguenza della condotta illecita accertata trova proprio fondamento nell'art. 55-quinquies, comma 2 sopra citato, in forza del quale "Nei casi di cui al comma 1, il lavoratore, ferme la responsabilità penale e disciplinare e le relative sanzioni, è obbligato a risarcire il danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto a titolo di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata prestazione, nonché il danno d'immagine di cui all'art. 55-quater, comma 3-quater".
Avendo il ricorrente commesso l'illecito di cui all'art. 55-quinquies, il medesimo è stato legittimamente condannato al risarcimento dei danni cagionati alla P.A., essendo stato accertato che si era allontanato dal luogo del lavoro omettendo di timbrare il badge all'uscita (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.07.2021 n. 29674).

ENTI LOCALI - INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE - PUBBLICO IMPIEGOIl trattamento economico negli incentivi per funzioni tecniche.
Alla Corte dei conti dell'Abruzzo sono stati posti alcuni quesiti inerenti gli incentivi per funzioni tecniche, (art. 113 del Dlgs 50/2016).
Nel parere 16.07.2021 n. 280, i magistrati contabili dell'Abruzzo hanno espresso il proprio avviso, ricordando che
la giurisprudenza ha già avuto modo di chiarire in diverse pronunce (Corte dei conti Puglia parere 06.02.2014 n. 33; Corte dei conti Lombardia parere 18.03.2016 n. 98), che per trattamento accessorio di qualunque natura, fissa e variabile, debba intendersi l'importo degli emolumenti per i quali maturi –nell'anno considerato– il diritto alla percezione in base al suddetto trattamento, non rilevando la fase del pagamento (cosiddetto criterio di cassa) e dovendo essere esclusa la quota derivante da altri incentivi per la progettazione.
Deve, poi, precisarsi che «
il limite, essendo rapportato a un'annualità, è apposto non solo alla misura dell'incentivo del singolo incarico, ma anche alla sommatoria degli incentivi relativi agli incarichi eseguiti, anche parzialmente, nel corso dell'anno. […] L'eventuale eccedenza dell'incentivo rispetto al limite normativo costituisce economia acquisita definitivamente al bilancio dell'ente e non redistribuibile al personale destinatario dell'incentivo né, tanto meno, alla medesima unità di personale nell'anno successivo a quello di esecuzione dell'incarico» (Corte dei conti Puglia parere 06.02.2014 n. 33).
Inoltre dalla deliberazione, si ricava
la necessità che non vengano considerati nell'individuazione del parametro del trattamento economico complessivo annuo lordo, da considerare come visto dimidiato, sub specie di trattamento accessorio di qualunque natura, i corrispettivi percepiti a titolo di incentivi per la progettazione, data dal fatto che, altrimenti, «verrebbe meno la funzione di limite di spesa chiaramente e espressamente assegnata allo stesso. Il predetto limite, così calcolato, non sarebbe fisso, ma aumentando nella misura corrispondente agli stessi compensi […] maturati nell'anno di riferimento, risulterebbe di fatto irraggiungibile in aperta e manifesta contraddizione con la lettera e con la finalità della legge che prevede espressamente un tetto retributivo individuale specifico […] in aggiunta al tetto generale legislativamente parametrato, viceversa, alla remunerazione del primo presidente della Corte di cassazione. Ciò in una prospettiva generale di contenimento dei compensi corrisposti ai dipendenti pubblici per l'esercizio di particolari attività in deroga al principio generale dell'onnicomprensività della retribuzione (Corte dei conti Lombardia, deliberazione n. 469/2015/PAR)» (Corte dei conti Lombardia parere 18.03.2016 n. 98) (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 05.08.2021).
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Il Presidente della Provincia di Pescara, dopo aver richiamato la disciplina relativa alla liquidazione degli incentivi per funzioni tecniche di cui all’art. 113, comma 3, del d.lgs. n. 50 del 18.04.2016, nonché i correlati principi interpretativi fissati dalla giurisprudenza di questa Corte, ha posto a questa Sezione i seguenti quesiti:
   1. «Un parere sulla corretta interpretazione da attribuire alle voci rientranti nella nozione di “trattamento accessorio di qualunque natura, fissa e variabile” da prendere a riferimento ai fini della loro corretta individuazione per la successiva erogazione»;
   2. «Un parere circa il criterio temporale di riferimento per il calcolo del limite del 50% del trattamento economico lordo annuo, ossia se debba prendersi a riferimento il principio di competenza o di cassa ai fini della corretta erogazione».
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2. Giova preliminarmente ricordare come l’istituto degli incentivi per funzioni tecniche di cui all’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 18.04.2016 è stato oggetto di precipuo approfondimento da parte della giurisprudenza contabile. Con la recentissima deliberazione 07.06.2021 n. 10, la Sezione delle Autonomie di questa Corte ha avuto modo di evidenziare che:
   - la suddetta norma ha previsto «un fondo non superiore al 2% degli stanziamenti, per incentivare le funzioni tecniche di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, oltre a quelle, già incentivate in passato, del responsabile unico del procedimento, della direzione dei lavori e del collaudo tecnico-amministrativo, abbandonando, di fatto, l’incentivazione della progettazione e dei piani per la sicurezza; inoltre, a seguito della modifica introdotta dall’art. 76 del d.lgs. 19.04.2017, n. 56, il sistema incentivante è stato esteso, poi, oltre il perimetro degli appalti di lavori, comprendendo anche gli appalti di servizi e forniture, per i quali, tuttavia, la normativa risulta applicabile solo nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione»;
   - «la ratio della norma, come già evidenziato dalle Sezioni riunite in sede di controllo della Corte dei conti con
deliberazione 04.10.2011 n. 51 (valutazione ancora attuale) va ricercata nell’esigenza di destinare una quota di risorse pubbliche a favore del personale dipendente, in servizio presso l’Amministrazione pubblica, che svolge prestazioni professionali specialistiche in virtù della particolare qualificazione dello stesso»;
   - gli incentivi tecnici trovano «applicazione, sulla base di un’interpretazione sistematica e letterale della voluntas legis, solo per i contratti che rientrino nel campo di applicazione della parte seconda del Codice: ossia i contratti di appalto, nei quali l’onere finanziario è sostenuto dalla stazione appaltante pubblica (con conseguente assunzione del rischio relativo agli effetti dell’operazione contrattuale), con imputazione della spesa sullo “specifico stanziamento” previsto per il lavoro, fornitura, servizio, sul quale gravano anche gli incentivi tecnici. Trattasi di uno stanziamento, è bene precisare, qualificato e non di un qualsiasi stanziamento con cui far fronte ad alcuni oneri relativi allo schema contrattuale prescelto. … la necessità che lo stanziamento finalizzato al riconoscimento degli incentivi non può che essere quello stanziamento qualificato, destinato a finanziare l’intervento, previsto dall’art. 113 del Codice dei contratti».
2.1. Ciò posto, venendo all’esame del primo quesito formulato dalla Provincia di Pescara, si chiede di chiarire la nozione di “trattamento accessorio di qualunque natura, fissa e variabile”, essendo fissato dalla norma in esame quale tetto per la percepibilità degli incentivi per funzioni tecniche “l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo”, che risulta composto, come noto, dal trattamento fondamentale unitamente al predetto trattamento accessorio.
Si rileva preliminarmente che il quesito può essere trattato congiuntamente al secondo, relativo al criterio temporale di riferimento per il calcolo del limite del 50 per cento del trattamento economico lordo annuo, ossia se debba prendersi a riferimento il principio di competenza o quello di cassa.
2.2. Infatti, in riferimento ad entrambi i quesiti, unitariamente già affrontati in sede consultiva, la giurisprudenza contabile ha avuto modo di chiarire in diverse pronunce (Sez. contr. Puglia parere 06.02.2014 n. 33; Sez. contr. Lombardia parere 18.03.2016 n. 98), adottate su fattispecie analoghe a quella all’odierno esame, che per trattamento accessorio di qualunque natura, fissa e variabile, debba intendersi l’importo degli emolumenti per i quali maturi –nell’anno considerato- il diritto alla percezione in base al suddetto trattamento, non rilevando la fase del pagamento (c.d. criterio di cassa) e dovendo essere esclusa la quota derivante da altri incentivi per la progettazione.
Deve, poi, precisarsi che “il limite, essendo rapportato ad un’annualità, è apposto non solo alla misura dell’incentivo del singolo incarico, ma anche alla sommatoria degli incentivi relativi agli incarichi eseguiti, anche parzialmente, nel corso dell’anno. … L’eventuale eccedenza dell’incentivo rispetto al limite normativo costituisce economia acquisita definitivamente al bilancio dell’ente e non redistribuibile al personale destinatario dell’incentivo né, tanto meno, alla medesima unità di personale nell’anno successivo a quello di esecuzione dell’incarico” (Sez. contr. Puglia parere 06.02.2014 n. 33).
2.3. La necessità che non vengano considerati nell’individuazione del parametro del trattamento economico complessivo annuo lordo, da considerare come visto dimidiato, sub specie di trattamento accessorio di qualunque natura, i corrispettivi percepiti a titolo di incentivi per la progettazione, è data dal fatto che, altrimenti, “verrebbe meno la funzione di limite di spesa chiaramente ed espressamente assegnata allo stesso. Il predetto limite, così calcolato, non sarebbe fisso, ma aumentando nella misura corrispondente agli stessi compensi … maturati nell’anno di riferimento, risulterebbe di fatto irraggiungibile in aperta e manifesta contraddizione con la lettera e con la finalità della legge che prevede espressamente un tetto retributivo individuale specifico … in aggiunta al tetto generale legislativamente parametrato, viceversa, alla remunerazione del Primo Presidente della Corte di Cassazione. Ciò in una prospettiva generale di contenimento dei compensi corrisposti ai dipendenti pubblici per l’esercizio di particolari attività in deroga al principio generale dell’onnicomprensività della retribuzione (Cfr. Sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 469/2015/PAR)” (così Sez. contr. Lombardia parere 18.03.2016 n. 98) (Corte dei Conti, Sez. controllo Abruzzo, parere 16.07.2021 n. 280).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: La relazione di parentela entro il quarto grado tra il responsabile dell’U.T.C. che ha rilasciato il titolo a costruire e il progettista dei lavori –che sono cugini- vale a determinare una situazione generativa di un potenziale conflitto di interessi.
Giova premettere che, come noto, in materia di conflitto di interessi il legislatore è intervenuto a più riprese:
   - con l’art. 1, comma 41, della legge 06.11.2012 n. 190, ha novellato la legge 07.08.1990 n. 241 introducendo nella stessa l’articolo 6-bis (conflitto di interessi);
   - al comma 54 dello stesso articolo 1 ha previsto, altresì, che “il Governo stabilisce un codice di comportamento dei dipendenti delle P.A. al fine di assicurare la qualità dei servizi, la prevenzione dei fenomeni di corruzione, il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo della cura dell’interesse pubblico”;
   - al comma 8 dello stesso articolo 1 ha previsto che l’organo di indirizzo politico adotta entro il 31 gennaio di ogni anno il piano triennale di prevenzione della corruzione;
   - con il DPR 62/2013 ha introdotto il “regolamento recante il codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’art. 54 del d.lgs. 30.03.2001 n. 165”, che all’articolo 7 disciplina l’obbligo di astensione, nei termini in precedenza illustrati.
E’ appena il caso di evidenziare che il dovere di astensione dei pubblici dipendenti e degli amministratori vale a preservare anzitutto la credibilità e la fiducia dell’Amministrazione, scattando, perciò, a fronte di situazioni di mero pericolo e verificandosi in tutti i casi in cui sussistano condizioni che, avuto riguardo al particolare oggetto della decisione da assumere, appaiano anche potenzialmente idonee a porre in pericolo l’assoluta imparzialità e la serenità di giudizio dei titolari dell’ente stesso, a prescindere dai profili o dalle conseguenze penali che possono implicare. La prevenzione del conflitto di interessi è, infatti, ad oggi volta non solo a garantire l’imparzialità della singola decisione pubblica, ma più in generale a tutelare il profilo dell’immagine di imparzialità dell’Amministrazione.
Nel caso di specie, la relazione di parentela entro il quarto grado tra il responsabile dell’U.T.C. che ha rilasciato il titolo a costruire e il progettista dei lavori –che, come si è evidenziato, sono cugini- vale, a parere del Collegio a determinare una situazione generativa di un potenziale conflitto di interessi che avrebbe imposto al funzionario pubblico di astenersi dall’adozione dell’atto in parola.
Non è, infatti, condivisibile l’argomentazione del Comune a mente della quale dal disposto dell’art. 7 del DPR 61/2013 dovrebbe trarsi il rilievo, ai fini dell’attivazione del dovere di astensione, dei soli rapporti di parentela entro il secondo grado.
Una lettura attenta della norma rivela, infatti, che il limite del “
secondo grado” è riferito esclusivamente al rapporto di affinità e non anche al rapporto di parentela, come evidenziato dalla virgola che separa le due espressioni: “Il dipendente si astiene dal partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi…”.
Le conclusioni cui è possibile pervenire secondo un’interpretazione letterale del testo convergono con quelle raggiunte indagando sulla ratio della disposizione: è logico e coerente con il fine perseguito (e cioè escludere ogni lesione, anche potenziale, dell’imparzialità dell’agere amministrativo) introdurre un vincolo più stringente in presenza di un legame più intenso tra i soggetti coinvolti, quale quello di parentela, e limitare invece (fino al secondo grado) il rilievo di un legame che si instaura tra soggetti non consanguinei, quale quello di affinità.
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Con il ricorso in disamina la Sig.ra Bo. ha impugnato il permesso di costruire rilasciato dal Comune di Peschiera del Garda in relazione a un intervento di demolizione e ricostruzione da effettuarsi sull’immobile confinante con quello nella titolarità della ricorrente.
Avverso tale titolo a costruire sono stati articolati i seguenti motivi di gravame:
   1) con il primo motivo si lamenta che sarebbe stata autorizzata l’edificazione (mediante demolizione e ricostruzione ex novo del preesistente edificio) in violazione delle norme poste a tutela della fascia di rispetto stradale e in particolare degli artt. 39, comma 3, lett. F, 84 e 86 delle n.t.a. del P.I.), laddove, si afferma, la costruzione preesistente osservava nei confronti della strada una distanza addirittura superiore a quella di legge;
   2) si contesta, inoltre, la violazione dell’art. 6, n. 50, delle n.t.a. del P.I. comunale, il quale prevede che il “verde profondo” non possa avere una percentuale di superficie inferiore al 35% da calcolarsi su quella fondiaria complessiva del lotto, al netto delle aree riservate a passaggi veicolari e ai parcheggi pertinenziali, laddove dal progetto presentato si ricaverebbe una superficie vincolata a verde di estensione inferiore;
   3) con il terzo motivo si lamenta l’illegittima concessione all’istante di un bonus volumetrico supplementare pari al 5%, in applicazione dell’art. 12 del D.lgs. 28/2011, oltre al bonus del 70% assicurato dall’art. 3 L.R. 14/2009: tale supplemento, tuttavia, non sarebbe previsto per gli interventi di demolizione e ricostruzione; si osserva, inoltre, che la formulazione dell'art. 3 della L.R. 14/2009, come novellato dalla L.R. 32/2013, terrebbe già conto, ai fini della concessione del bonus, delle finalità legate al risparmio energetico;
   4) con il quarto motivo si osserva che non si rinverrebbero, nel progetto e/o delle relative tavole, gli elementi minimi indispensabili per poter beneficiare dello scomputo di parte dello spessore dei solai ai fini della determinazione dell’altezza dell’edificio;
   5) con il quinto motivo si lamenta che la misurazione “a mano” con scalimetro del sedime destinato a parcheggio risulterebbe inferiore rispetto alla superficie indicata nell’elaborato “dimostrazione parcheggi”;
   6) con il sesto motivo si evidenzia che il permesso di costruire risulterebbe firmato dal Responsabile dell’Area tecnica Edilizia Privata e Urbanistica del Comune di Peschiera del Garda, Geom. Ma.Cr., mentre il progetto in generale, gli elaborati e l’istanza di rilascio del titolo sarebbero firmati dall’Arch. Pa.Cr.: tanto in violazione del disposto dell’art. 6-bis L. 241/1990;
   7) con il settimo motivo (indicato in ricorso come I motivo della Parte II dell’atto) si lamenta la carenza di motivazione e il difetto di istruttoria degli atti gravati in punto di valutazione della compatibilità paesaggistico/ambientale dell’intervento;
   8) si contesta, infine, la mancata sottoposizione del progetto all’esame istruttorio preliminare della apposita “Commissione locale per il paesaggio”, secondo quanto previsto dall’art. 16-bis del Regolamento Edilizio adottato in occasione della variante urbanistica approvata con D.G.R. n. 181 del 29.01.2008.
...
1. Con il ricorso in disamina la Sig.ra Bo. ha chiesto l’annullamento del permesso di costruire rilasciato dal Comune di Peschiera del Garda in relazione ad un intervento di demolizione e ricostruzione con ampliamento da effettuarsi ai sensi del cd. Piano Casa su terreno prossimo a quello di proprietà della ricorrente; la Sig.ra Bo. ha chiesto, altresì, l’annullamento dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata in riferimento al medesimo intervento.
...
2. Ciò posto, nel merito il ricorso è fondato sotto il profilo assorbente della violazione dell’art. 6-bis della L. 241/1990 lamentata con il sesto motivo di impugnazione (indicato come settimo nell’atto introduttivo del giudizio).
E’ pacifico tra le parti in causa che il geom. Ma.Cr., Responsabile dell’Area Tecnica Edilizia Privata e Urbanistica del Comune di Peschiera del Garda, che ha firmato il permesso di costruire impugnato è cugino, e dunque parente di quarto grado, del progettista dell’intervento di cui si discute, Arch. Pa.Cr..
Il Comune ha dedotto sul punto che l’art. 6-bis della L. 241/1990 (norma che prevede: “Il responsabile del procedimento ed i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale”) andrebbe letto in combinato disposto con quanto previsto dall’art. 7 del DPR 16.04.2013, n. 62 (Codice di comportamento dei dipendenti pubblici), che stabilisce: “Il dipendente si astiene dal partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente o dirigente. Il dipendente si astiene in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza. Sull'astensione decide il responsabile dell'ufficio di appartenenza”.
Sostiene il Comune che la norma, come formulata, darebbe rilievo ai fini del dovere di astensione ai soli rapporti di parentela entro il secondo grado: in tal senso, si aggiunge, si era del resto espresso il Responsabile Trasparenza e Anticorruzione del Comune in un parere reso in data 21.02.2019 (cfr. doc. 21 della produzione di parte resistente).
Dall’esame di tale parere emerge infatti che il Responsabile, nella premessa dell’avvenuto recepimento dell’art. 7 del DPR 62/2013 nel Piano triennale di prevenzione della corruzione adottato dal Comune con delibera di G.M. n. 19/2019, osservava che la norma in commento “cita il secondo grado”: il Responsabile concludeva, dunque, nel senso di escludere l’esistenza di una situazione generativa del divieto di astensione con riguardo al rapporto di parentela tra il geom. Ma.Cr. e l’Arch. Pa.Cr..
Il Collegio ritiene che l’interpretazione che il Comune propone della norma in commento non sia condivisibile.
Giova premettere che, come noto, in materia di conflitto di interessi il legislatore è intervenuto a più riprese:
   - con l’art. 1, comma 41, della legge 06.11.2012 n. 190, ha novellato la legge 07.08.1990 n. 241 introducendo nella stessa l’articolo 6-bis (conflitto di interessi), il cui testo è stato già riportato;
   - al comma 54 dello stesso articolo 1 ha previsto, altresì, che “il Governo stabilisce un codice di comportamento dei dipendenti delle P.A. al fine di assicurare la qualità dei servizi, la prevenzione dei fenomeni di corruzione, il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo della cura dell’interesse pubblico”;
   - al comma 8 dello stesso articolo 1 ha previsto che l’organo di indirizzo politico adotta entro il 31 gennaio di ogni anno il piano triennale di prevenzione della corruzione;
   - con il DPR 62/2013 ha introdotto il “regolamento recante il codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’art. 54 del d.lgs. 30.03.2001 n. 165”, che all’articolo 7 disciplina l’obbligo di astensione, nei termini in precedenza illustrati.
E’ appena il caso di evidenziare che il dovere di astensione dei pubblici dipendenti e degli amministratori vale a preservare anzitutto la credibilità e la fiducia dell’Amministrazione, scattando, perciò, a fronte di situazioni di mero pericolo e verificandosi in tutti i casi in cui sussistano condizioni che, avuto riguardo al particolare oggetto della decisione da assumere, appaiano anche potenzialmente idonee a porre in pericolo l’assoluta imparzialità e la serenità di giudizio dei titolari dell’ente stesso, a prescindere dai profili o dalle conseguenze penali che possono implicare. La prevenzione del conflitto di interessi è, infatti, ad oggi volta non solo a garantire l’imparzialità della singola decisione pubblica, ma più in generale a tutelare il profilo dell’immagine di imparzialità dell’Amministrazione.
Nel caso di specie, la relazione di parentela entro il quarto grado tra il responsabile dell’U.T.C. che ha rilasciato il titolo a costruire e il progettista dei lavori –che, come si è evidenziato, sono cugini- vale, a parere del Collegio a determinare una situazione generativa di un potenziale conflitto di interessi che avrebbe imposto al funzionario pubblico di astenersi dall’adozione dell’atto in parola.
Non è, infatti, condivisibile l’argomentazione del Comune a mente della quale dal disposto dell’art. 7 del DPR 61/2013 dovrebbe trarsi il rilievo, ai fini dell’attivazione del dovere di astensione, dei soli rapporti di parentela entro il secondo grado.
Una lettura attenta della norma rivela, infatti, che il limite del “secondo grado” è riferito esclusivamente al rapporto di affinità e non anche al rapporto di parentela, come evidenziato dalla virgola che separa le due espressioni: “Il dipendente si astiene dal partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi…”.
Le conclusioni cui è possibile pervenire secondo un’interpretazione letterale del testo convergono con quelle raggiunte indagando sulla ratio della disposizione: è logico e coerente con il fine perseguito (e cioè escludere ogni lesione, anche potenziale, dell’imparzialità dell’agere amministrativo) introdurre un vincolo più stringente in presenza di un legame più intenso tra i soggetti coinvolti, quale quello di parentela, e limitare invece (fino al secondo grado) il rilievo di un legame che si instaura tra soggetti non consanguinei, quale quello di affinità.
La fondatezza del motivo in disamina comporta l’accoglimento del ricorso, e risulta assorbente rispetto alle ulteriori censure proposte avverso il titolo edilizio; quanto ai motivi di gravame svolti in riferimento all’autorizzazione paesaggistica rilasciata in relazione al medesimo intervento edilizio, il Collegio ritiene che l’annullamento del permesso di costruire, in conseguenza di quanto in precedenza osservato, implichi il venir meno dell’interesse alla relativa disamina.
3. Conclusivamente, il ricorso deve trovare accoglimento nei termini indicati: deve, dunque, disporsi l’annullamento del permesso di costruire annullato; il ricorso deve invece essere dichiarato improcedibile nella parte in cui con esso si impugna l’autorizzazione ambientale (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 09.07.2021 n. 908 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

giugno 2021

ENTI LOCALI - INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE - PUBBLICO IMPIEGO: Incentivi ex art. 113 dlgs 50/2016 e spazi assunzionali.
Le spese sostenute per gli incentivi tecnici non costituiscono spesa per il personale, ai fini della determinazione della capacità assunzionale, secondo la normativa di cui all' art. 33, comma 2, del Dl 34/2019.
Indipendentemente dalle modalità di doppia contabilizzazione di cui al principio contabile, infatti, tali incentivi gravano su risorse autonome e predeterminate del bilancio diverse dalle risorse ordinariamente rivolte all'erogazione di compensi accessori al personale.
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Il Sindaco del Comune di Avezzano (AQ), con nota n. 27893 del 13.05.2021, ha chiesto se “i compensi da corrispondere al personale dipendente a titolo di incentivi tecnici di cui all’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 debbano essere considerati spesa del personale ai sensi dell’art. 33, comma 2, del d.l. n. 34/2019 e pertanto influenti nel rapporto spesa del personale ed entrate correnti per la determinazione della capacità assunzionale dell’Ente.
L’art. 33 del d.l. 30.04.2019, n. 34 («Misure urgenti di crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi», c.d. “Decreto crescita”, convertito con modificazioni dalla legge 28.06.2019, n. 58), nel dettare disposizioni in tema di «assunzione di personale nelle regioni a statuto ordinario e nei comuni in base alla sostenibilità finanziaria», ha parametrato le capacità assunzionali a valori soglia puntualmente individuati, differenziati per fasce demografiche e basati sul rapporto tra la spesa per il personale e la media delle entrate correnti relative agli ultimi tre rendiconti approvati. A tale norma è stata data attuazione con l’emanazione del decreto 17.03.2020 della Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della Funzione pubblica, recante “Misure per la definizione delle capacità assunzionali di personale a tempo indeterminato dei comuni”.
Fatte queste premesse d’inquadramento normativo, si rileva che la fattispecie rappresentata dal Comune di Avezzano attiene agli incentivi tecnici, per i quali il comma 5-bis dell’art. 113 del Codice degli appalti stabilisce che “gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”. Nelle forme dettagliate dallo stesso art. 113, gli incentivi tecnici traggono origine dagli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture, nei limiti previsti dal comma 2, e ad essi vanno considerati legati, non sussistendo una specifica spesa per il personale in assenza di appalti e degli stanziamenti ad essi relativi.
Di recente la Sezione regionale di controllo della Lombardia, con parere 07.05.2021 n. 73, si è pronunciata, con motivazioni da ritenersi condivisibili, in merito ad un quesito analogo ed ha evidenziato che l’inserimento del comma 5-bis ad opera dell’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017 è l’elemento importante che è stato oggetto di approfondimento della Sezione delle autonomie che, proprio per la prescrizione specifica, stabilisce nella sua deliberazione 26.04.2018 n. 6una diretta corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche procedure. L’avere correlato normativamente la provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale.”
Al tempo stesso, si rileva che “tali compensi non sono rivolti indiscriminatamente al personale dell’ente, ma mirati a coloro che svolgono particolari funzioni (“tecniche”) nell’ambito di specifici procedimenti e ai loro collaboratori (in senso conforme: SRC Lombardia parere 16.11.2016 n. 333)”.
Al riguardo la Sezione delle autonomie ha rilevato, come evidenziato “dalla Sezione remittente lombarda, che gli incentivi per le funzioni tecniche sono, per loro natura, estremamente variabili nel corso del tempo e, come tali, difficilmente assoggettabili a limiti di finanza pubblica a carattere generale, che hanno come parametro di riferimento un predeterminato anno base (qual è anche l’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017). Il riferimento, infatti, ad un esercizio precedente diviene, in modo del tutto casuale, favorevole o penalizzante per i dipendenti dei vari enti pubblici”.
In senso conforme si erano pronunciate sia la Sezione regionale di controllo per il Friuli-Venezia Giulia (parere 02.02.2018 n. 6), la quale ha ritenuto che dalla novella legislativa “si evince che gli incentivi non fanno carico ai capitoli della spesa del personale ma devono essere ricompresi nel costo complessivo dell’opera”, sia la Sezione regionale di controllo per l’Umbria (
parere 05.02.2018 n. 14), la quale ha affermato che “il legislatore è intervenuto sulla questione della rilevanza degli incentivi tecnici ai fini del rispetto del tetto di spesa per il trattamento accessorio, escludendoli dal computo rilevante ai fini dall'articolo 23, comma 2, d.l.gs n. 75 del 2017. Il legislatore ha voluto, pertanto, chiarire come gli incentivi non confluiscono nel capitolo di spesa relativo al trattamento accessorio (sottostando ai limiti di spesa previsti dalla normativa vigente), ma fanno capo al capitolo di spesa dell’appalto”.
Va segnalata, altresì, la parere 09.04.2019 n. 72 della Sezione di controllo della Regione Veneto che pronunciandosi sulla spesa per il pagamento degli incentivi per lo svolgimento di funzioni tecniche quale rientrante o meno nell'ammontare complessivo della spesa del personale ai sensi dell'art. 1, co. 557, della L. n. 296/2006 ha affermato: “In merito alla questione questa Sezione si è già espressa con parere 25.07.2018 n. 265 e parere 14.11.2018 n. 429, dove, richiamando la deliberazione 26.04.2018 n. 6
della Sezione delle Autonomie, è stato chiarito che l’onere relativo ai compensi incentivanti le funzioni tecniche non transita nell’ambito dei capitoli dedicati alla spesa del personale, e dunque non può essere soggetto ai vincoli posti alla relativa spesa da parte degli enti territoriali (in senso conforme anche Sezione regionale di controllo per il Lazio, parere 06.07.2018 n. 57).”
La conclusione della suddetta deliberazione della Sezione delle autonomie è stata riassunta nel seguente principio di diritto: “Gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
La Sezione regionale di controllo della Lombardia, con il sopra richiamato parere 07.05.2021 n. 73, ha soggiunto che il decreto del Ragioniere generale dello Stato del 01.08.2019, pubblicato in G.U. il 22.08.2019, ha aggiornato gli allegati al d.lgs. n. 118 del 2011, inserendo, al paragrafo 5.2, lett. a), una particolare rappresentazione contabile per gli incentivi tecnici.
Esso recita, infatti, così: “Gli impegni di spesa riguardanti gli incentivi per le funzioni tecniche di cui all’articolo 113 del d.lgs. 50 del 2016, compresi i relativi oneri contributivi ed erariali, sono assunti a carico degli stanziamenti di spesa riguardanti i medesimi lavori, servizi e forniture cui si riferiscono, nel titolo II della spesa ove si tratti di opere o nel titolo I, nel caso di servizi e forniture. L’impegno è registrato, con imputazione all’esercizio in corso di gestione, a seguito della formale destinazione al fondo delle risorse stanziate in bilancio, nel rispetto dell’articolo 113, comma 2 e seguenti, ed è tempestivamente emesso il relativo ordine di pagamento a favore del proprio bilancio, al Titolo terzo delle entrate, tipologia 500 “Rimborsi e altre entrate correnti”, categoria 3059900 “Altre entrate correnti n.a.c.”, voce del piano dei conti finanziario E.3.05.99.02.001 Fondi incentivanti il personale (art. 113 del d.lgs. 50/2016). La spesa riguardante gli incentivi tecnici è impegnata anche tra le spese di personale, negli stanziamenti riguardanti il fondo per la contrattazione integrativa, nel rispetto dei principi contabili previsti per il trattamento accessorio e premiale del personale. La copertura di tale spesa è costituita dall’accertamento di entrata di cui al periodo precedente, che svolge anche la funzione di rettificare il doppio impegno, evitando gli effetti della duplicazione della spesa”.
Indipendentemente dalle modalità di doppia contabilizzazione di cui al principio contabile, Allegato 4/2, paragrafo 5.2, del d.lgs. n. 118 del 2011 nel testo risultante dal decreto ministeriale 01.08.2019, la Sezione regionale di controllo della Lombardia ha indicato la spesa per gli incentivi tecnici in quella risultante dal comma 5-bis dell’art. 113 del codice degli appalti, come chiaramente evidenziato nella richiamata deliberazione 26.04.2018 n. 6 dalla Sezione delle autonomie che ha sottolineato come il legislatore, con norma innovativa contenuta nella legge di bilancio per il 2018, ha stabilito che i predetti incentivi gravano su risorse autonome e predeterminate del bilancio (indicate proprio dal comma 5-bis dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016) diverse dalle risorse ordinariamente rivolte all’erogazione di compensi accessori al personale.
Tale orientamento viene condiviso da questa Sezione ritenendosi, pertanto, che le spese sostenute per gli incentivi tecnici non costituiscono spesa per il personale, ai fini della determinazione della capacità assunzionale, secondo la normativa di cui all’art. 33, comma 2, decreto-legge 30.04.2019, n. 34, convertito con modificazioni dalla legge 28.06.2019, n. 58 (Corte dei Conti, Sez. controllo Abruzzo, parere 21.06.2021 n. 249).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: La giurisprudenza di legittimità, con riferimento al reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, commesso mediante esecuzione di lavori sulla base di permesso di costruire illegittimo, ha precisato che la "macroscopica illegittimità" dello stesso titolo, da un lato, rappresenta un significativo indice sintomatico della sussistenza dell'elemento soggettivo dell'illecito, e, dall'altro, non costituisce nemmeno una condizione essenziale per l'oggettiva configurabilità del reato.
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E'
configurabile il concorso nel reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 a carico del funzionario comunale nominato responsabile del procedimento che, procedendo ad istruire la pratica edilizia, abbia colposamente espresso parere favorevole al rilascio di un titolo abilitativo illegittimo, in tal modo apportando un contributo causale rilevante ai fini della determinazione dell'evento illecito.
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8. Manifestamente infondate, di seguito, sono anche le censure relative alla configurabilità dell'art. 44 in esame sotto il profilo soggettivo, esposte ancora negli atti da ultimo citati, i quali contestano l'affermazione della colpevolezza per l'opinabilità del quadro normativo e la diffusa prassi amministrativa.
8.1. La giurisprudenza di legittimità, con riferimento al reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, commesso mediante esecuzione di lavori sulla base di permesso di costruire illegittimo, ha precisato che la "macroscopica illegittimità" dello stesso titolo, da un lato, rappresenta un significativo indice sintomatico della sussistenza dell'elemento soggettivo dell'illecito, e, dall'altro, non costituisce nemmeno una condizione essenziale per l'oggettiva configurabilità del reato (così Sez. 3, n. 56678 del 21/09/2018, Iodice, Rv. 275565, nonché, in termini sostanzialmente identici, Sez. 3, n. 3979 del 21/09/2018, Cerra s.r.I., Rv. 275850).
8.2. Nella specie, la sentenza impugnata ha ravvisato la sussistenza dei reati edilizio (e paesaggistico) a fronte di una macroscopica violazione della disciplina, realizzata impiegando l'istituto della cessione di cubatura per eludere elementari principi in materia urbanistica e, in particolare, per incrementare la volumetria assentibile, in spregio dei vincoli, in zona di sicuro pregio ambientale (zona dichiarata di notevole interesse pubblico, proprio per le sue caratteristiche).
8.3. Ebbene, si tratta di una conclusione immune da vizi, a maggior ragione se si considera che l'illegittimità del ricorso all'istituto della cessione di cubatura, per difetto del requisito della "reciproca prossimità" tra i fondi, già all'epoca del rilascio del permesso di costruire (2011) era stata a più riprese affermata dalla giurisprudenza amministrativa (si richiamano le decisioni Cons. Stato, Sez. 5, n. 400 del 01/04/1998; Cons. Stato, Sez. 5, n. 1172 del 03/03/2003; Cons. Stato, Sez. 5, n. 6734 del 30/10/2003).
9. Con riguardo, poi, alle posizioni dei singoli ricorrenti, queste conclusioni valgono per certo nei confronti di Ca., Pe. e Ri., tecnici esperti della materia (il primo quale progettista, il secondo come responsabile del procedimento ed il terzo come tecnico comunale che aveva rilasciato il permesso di costruire n. 122/2011).
A questo proposito, peraltro, non possono essere ammesse le doglianze sollevate da Ri. e Pe. con il primo motivo, nel quale sostengono di non aver ricoperto il ruolo di responsabile del procedimento edilizio (Ri.) o paesaggistico (R. e Pe.), così come di non aver rilasciato il permesso di costruire (Ri.), né l'autorizzazione paesaggistica (Ri. e Pe.); queste censure, infatti, si fondano su profili di puro merito, propri della sola fase della cognizione e non proponibili innanzi alla Corte di legittimità, specie in assenza di adeguata allegazione documentale.
Deve ritenersi acquisito, dunque, il dato obiettivo riportato nella sentenza, in forza del quale il permesso di costruire illegittimo -documento cardine per la consumazione delle contravvenzioni ex capi A) e B)- era stato rilasciato dal Pe., all'esito di un procedimento del quale era stato responsabile il Ri.. 
Con riguardo a quest'ultimo, peraltro, non può accogliersi neppure la tesi secondo la quale, quand'anche riscontrata la carica formale, l'istruttoria non avrebbe comunque dimostrato alcun ruolo sostanziale nell'emissione del provvedimento; deve qui ribadirsi, infatti, che è configurabile il concorso nel reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 a carico del funzionario comunale nominato responsabile del procedimento che, procedendo ad istruire la pratica edilizia, abbia colposamente espresso parere favorevole al rilascio di un titolo abilitativo illegittimo, in tal modo apportando un contributo causale rilevante ai fini della determinazione dell'evento illecito (tra le altre, Sez. 3, n. 7765 del 07/11/2013, Benigni, Rv. 258300; Sez. 3, n. 8225 del 18/12/2020, Pettina+altri, non massimata).
E che, nel caso di specie, il responsabile del procedimento Ri. avesse espresso parere favorevole, il 19/10/2010, lo afferma lo stesso ricorso (pag. 5) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.06.2021 n. 22832).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO - URBANISTICA: In primo luogo, occorre evidenziare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, è sicuramente configurabile il concorso del pubblico ufficiale che emette il provvedimento amministrativo illegittimo nel reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001.
In effetti, è controverso se sia ammissibile, nel caso di rilascio di un permesso di costruire illegittimo, una responsabilità ex art. 40 cod. pen. per il reato edilizio di cui all'art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in capo al dirigente o responsabile dell'ufficio urbanistica del Comune, in quanto titolare di una posizione di garanzia e dunque dell'obbligo di impedire l'evento.
Tuttavia, anche le decisioni contrarie alla configurabilità di una responsabilità omissiva del dirigente o responsabile dell'ufficio urbanistica del Comune ritengono giuridicamente corretta l'ipotesi del concorso commissivo del medesimo pubblico ufficiale nella fattispecie di cui all'art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, qualora si accerti che «l'extraneus abbia apportato, nella realizzazione dell'evento, un contributo causale rilevante e consapevole (sotto il profilo del dolo o della colpa)», come accertato nel caso in esame.
In secondo luogo, poi, deve ritenersi corretta anche l'affermazione della permanenza del concorso del pubblico ufficiale nel reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, fino al compimento dell'attività edificatoria.
A tal fine, va premesso che, secondo un principio assolutamente consolidato nella giurisprudenza di legittimità, la permanenza del reato urbanistico cessa con l'ultimazione dei lavori del manufatto, in essa essendo comprese le rifiniture, ovvero al momento della desistenza definitiva dagli stessi, da dimostrare in base a dati obiettivi ed univoci.
Va poi rilevato che il concorrente nel reato permanente, almeno quando dà impulso alla commissione della fattispecie„ risponde dell'intero fatto costituente l'illecito penale, posto che la responsabilità concorsuale, a norma dell'art. 110 cod. pen., è fondata sul principio di causalità. Significativamente, infatti, la Relazione al progetto definitivo del codice penale prevede: «Anche nell'ipotesi che il fatto sia oggetto dell'attività di più persone, l'evento deve essere messo a carico di tutti i concorrenti che con la propria azione contribuirono a determinarlo: il legame, invero, che avvince l'attività dei vari concorrenti, si realizza in una associazione di cause coscienti, alle quali è dovuto l'evento e, perciò, a ciascuno dei compartecipi deve essere attribuita la responsabilità dell'intero».
In questo senso, del resto, è orientata, in linea generale, la giurisprudenza di legittimità, come si evince, paradigmaticamente, dalle soluzioni accolte con riguardo alla fattispecie di lottizzazione abusiva.
Secondo l'indirizzo più rigoroso, il momento consumativo della lottizzazione abusiva "mista" si individua, per tutti coloro che concorrono o cooperano 'nel reato, nel compimento dell'ultimo atto integrante la condotta illecita, che può consistere nella stipulazione di atti di trasferimento, nell'esecuzione di opere di urbanizzazione o nell'ultimazione dei manufatti che compongono l'insediamento; con la conseguenza, per tutti i concorrenti, ai fini del calcolo del tempo necessario per la prescrizione, della irrilevanza del momento in cui è stata tenuta la condotta di partecipazione, e della rilevanza, invece, di quello di consumazione del  reato, pur potendo quest'ultimointervenire anche a notevole distanza di tempo.
Anche secondo la tesi opposta, peraltro, il concorso del venditore lottizzatore permane sino a quando continua l'attività edificatoria eseguita dagli acquirenti nei singoli lotti, siccome lo stesso, avendo dato causa alla condotta edificatoria dei concorrenti, risponde, a norma dell'art. 41 cod. pen., dell'evento, e soltanto per i singoli acquirenti che non hanno dato causa alla lottizzazione la permanenza cessa con la conclusione della attività da ognuno di essi posta in essere sul proprio lotto.
Di conseguenza, ove si ravvisi il concorso commissivo del pubblico ufficiale nel reato edilizio, per aver dato colpevolmente causa all'attività edificatoria con il rilascio di un permesso di costruire illegittimo, è ragionevole affermare che anche nei suoi confronti la consumazione del reato si verificherà alla data dell'ultimazione dei lavori indebitamente assentiti, ovvero al momento della desistenza definitiva dagli stessi.
In terzo luogo, ancora, identiche conclusioni sono da affermare in relazione al concorso del pubblico ufficiale nel reato di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004.
Innanzitutto, non sembra vi siano ostacoli alla configurabilità del concorso del pubblico ufficiale che emette colpevolmente atti amministrativi illegittimi, costituenti antecedente causale della valutazione di conformità paesaggistica nel reato di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004. Anche in questo caso, infatti, quando si accerta che il soggetto, sebbene extraneus rispetto al reato, abbia apportato, nella realizzazione dell'evento, un contributo causale rilevante e consapevole, sotto il profilo del dolo o della colpa, sono applicabili gli ordinari principi in tema di responsabilità concorsuale.
Va poi osservato che anche il reato di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004, secondo l'assolutamente consolidata giurisprudenza di legittimità, ha natura permanente e si consuma con l'esaurimento della condotta, o con il sequestro del bene ovvero, in mancanza, con la sentenza di primo grado, quando la contestazione è di natura "aperta".
Con la conclusione che, anche con riferimento a questa contravvenzione, non vi sono ragioni per derogare al principio generale secondo cui il concorrente nel reato permanente, almeno quando dà impulso alla commissione della fattispecie, risponde dell'intero fatto costituente l'illecito penale.
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13. Manifestamente infondate, di seguito, sono peraltro anche le censure riguardanti il concorso dei pubblici ufficiali nel reato edilizio e nel reato paesaggistico, esposte nei ricorsi Ri. e Pe., che contestano sia la configurabilità della responsabilità concorsuale per detti reati a carico dei soggetti responsabili del rilascio del permesso di costruire, sia l'affermazione della persistenza della condotta illecita dei medesimi anche dopo il momento del rilascio di tale titolo autorizzatorio.
13.1. In primo luogo, occorre evidenziare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, è sicuramente configurabile il concorso del pubblico ufficiale che emette il provvedimento amministrativo illegittimo nel reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001.
13.2. In effetti, è controverso se sia ammissibile, nel caso di rilascio di un permesso di costruire illegittimo, una responsabilità ex art. 40 cod. pen. per il reato edilizio di cui all'art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in capo al dirigente o responsabile dell'ufficio urbanistica del Comune, in quanto titolare di una posizione di garanzia e dunque dell'obbligo di impedire l'evento (cfr., per la soluzione affermativa, Sez. 3, n. 4911 del 14/07/2016, Scarpa, Rv. 269260, e Sez. 3, n. 19566 del 25/03/2004, D'Ascanio, Rv. 228888, nonché, per la tesi opposta, Sez. 3, n. 5439 del 25/10/2016, Colasante, Rv. 269247, e Sez. 3, n. 9281 del 26/01/2011, Bucolo, Rv. 249785).
13.3. Tuttavia, anche le decisioni contrarie alla configurabilità di una responsabilità omissiva del dirigente o responsabile dell'ufficio urbanistica del Comune ritengono giuridicamente corretta l'ipotesi del concorso commissivo del medesimo pubblico ufficiale nella fattispecie di cui all'art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, qualora si accerti che «l'extraneus abbia apportato, nella realizzazione dell'evento, un contributo causale rilevante e consapevole (sotto il profilo del dolo o della colpa)», come accertato nel caso in esame (così, testualmente, sia Sez. 3, n. 5439 del 2017, Colasante, cit., sia Sez. 3, n. 9281 del 2011, Bucolo, cit.; cfr. ancora, nel senso della configurabilità del concorso commissivo del pubblico ufficiale nel reato "proprio" di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001, Sez. 3, n. 42105 del 19/06/2019, D'Alterio, con riferimento ad un componente della commissione edilizia).
13.4. In secondo luogo, poi, deve ritenersi corretta anche l'affermazione della permanenza del concorso del pubblico ufficiale nel reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, fino al compimento dell'attività edificatoria.
A tal fine, va premesso che, secondo un principio assolutamente consolidato nella giurisprudenza di legittimità, la permanenza del reato urbanistico cessa con l'ultimazione dei lavori del manufatto, in essa essendo comprese le rifiniture, ovvero al momento della desistenza definitiva dagli stessi, da dimostrare in base a dati obiettivi ed univoci (così, tra le tante, Sez. 3, n. 13607 del 08/02/2019, Martina, Rv. 275900, e Sez. 3, n. 29974 del 06/05/2014, Sullo, Rv. 260498).
13.5. Va poi rilevato che il concorrente nel reato permanente, almeno quando dà impulso alla commissione della fattispecie„ risponde dell'intero fatto costituente l'illecito penale, posto che la responsabilità concorsuale, a norma dell'art. 110 cod. pen., è fondata sul principio di causalità. Significativamente, infatti, la Relazione al progetto definitivo del codice penale prevede: «Anche nell'ipotesi che il fatto sia oggetto dell'attività di più persone, l'evento deve essere messo a carico di tutti i concorrenti che con la propria azione contribuirono a determinarlo: il legame, invero, che avvince l'attività dei vari concorrenti, si realizza in una associazione di cause coscienti, alle quali è dovuto l'evento e, perciò, a ciascuno dei compartecipi deve essere attribuita la responsabilità dell'intero».
13.6. In questo senso, del resto, è orientata, in linea generale, la giurisprudenza di legittimità, come si evince, paradigmaticamente, dalle soluzioni accolte con riguardo alla fattispecie di lottizzazione abusiva.
Secondo l'indirizzo più rigoroso, il momento consumativo della lottizzazione abusiva "mista" si individua, per tutti coloro che concorrono o cooperano 'nel reato, nel compimento dell'ultimo atto integrante la condotta illecita, che può consistere nella stipulazione di atti di trasferimento, nell'esecuzione di opere di urbanizzazione o nell'ultimazione dei manufatti che compongono l'insediamento; con la conseguenza, per tutti i concorrenti, ai fini del calcolo del tempo necessario per la prescrizione, della irrilevanza del momento in cui è stata tenuta la condotta di partecipazione, e della rilevanza, invece, di quello di consumazione del  reato, pur potendo quest'ultimointervenire anche a notevole distanza di tempo' (Sez. 3, n. 48346 del 20/09/2017, Bortone, Rv. 271330, e Sez. 3, n. 35968 del 14/07/2010, Rusani, Rv. 248483).
Anche secondo la tesi opposta, peraltro, il concorso del venditore lottizzatore permane sino a quando continua l'attività edificatoria eseguita dagli acquirenti nei singoli lotti, siccome lo stesso, avendo dato causa alla condotta edificatoria dei concorrenti, risponde, a norma dell'art. 41 cod. pen., dell'evento, e soltanto per i singoli acquirenti che non hanno dato causa alla lottizzazione la permanenza cessa con la conclusione della attività da ognuno di essi posta in essere sul proprio lotto (cfr. in questo senso, in particolare, Sez. 3, n. 20671 del 20/03/2012, D'Alessandro, Rv. 252914, e Sez. 3, n. 1966 del 05/12/2001, Venuti, Rv. 220853).
Di conseguenza, ove si ravvisi il concorso commissivo del pubblico ufficiale nel reato edilizio, per aver dato colpevolmente causa all'attività edificatoria con il rilascio di un permesso di costruire illegittimo, è ragionevole affermare che anche nei suoi confronti la consumazione del reato si verificherà alla data dell'ultimazione dei lavori indebitamente assentiti, ovvero al momento della desistenza definitiva dagli stessi.
14. In terzo luogo, ancora, identiche conclusioni sono da affermare in relazione al concorso del pubblico ufficiale nel reato di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004.
14.1. Innanzitutto, non sembra vi siano ostacoli alla configurabilità del concorso del pubblico ufficiale che emette colpevolmente atti amministrativi illegittimi, costituenti antecedente causale della valutazione di conformità paesaggistica nel reato di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004. Anche in questo caso, infatti, quando si accerta che il soggetto, sebbene extraneus rispetto al reato, abbia apportato, nella realizzazione dell'evento, un contributo causale rilevante e consapevole, sotto il profilo del dolo o della colpa, sono applicabili gli ordinari principi in tema di responsabilità concorsuale.
14.2. Va poi osservato che anche il reato di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004, secondo l'assolutamente consolidata giurisprudenza di legittimità, ha natura permanente e si consuma con l'esaurimento della condotta, o con il sequestro del bene ovvero, in mancanza, con la sentenza di primo grado, quando la contestazione è di natura "aperta" (cfr., tra le tantissime, Sez. 3, n. 43173 del 05/07/2017, Zanella, Rv. 271336, e Sez. 3, n. 30130 del 30/03/2017, Dinnella, Rv. 270254).
14.3. Con la conclusione che, anche con riferimento a questa contravvenzione, non vi sono ragioni per derogare al principio generale secondo cui il concorrente nel reato permanente, almeno quando dà impulso alla commissione della fattispecie, risponde dell'intero fatto costituente l'illecito penale.
14.4. Facendo applicazione dei canoni indicati, risulta dunque corretta l'affermazione di responsabilità penale di Ri., Pe. e Ca. anche per il reato di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004. Quanto, invece, a Sc., si richiamano le stesse considerazioni già espresse in ordine alla contravvenzione sub A), non riscontrandosi una diversa o più approfondita motivazione sulla diversa fattispecie paesaggistica (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.06.2021 n. 22832).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Provvedimento amministrativo illegittimo – Concorso del pubblico ufficiale nei reati urbanistici, edilizi e paesaggistici – Presupposti – Permanenza e cessazione del reato – Giurisprudenza.
Si configura il reato del pubblico ufficiale nell’ipotesi di concorso commissivo nella fattispecie di cui all’art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, qualora si accerti che l’extraneus abbia apportato, nella realizzazione dell’evento, un contributo causale rilevante e consapevole (sotto il profilo del dolo o della colpa) (si veda, Cass. Sez. 3, n. 42105 del 19/06/2019, D’Alterio, sulla configurabilità del concorso commissivo del pubblico ufficiale nel reato “proprio” di cui all’art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001, con riferimento ad un componente della commissione edilizia).
Di conseguenza, anche la permanenza del concorso del pubblico ufficiale nel reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, fino al compimento dell’attività edificatoria cessa con l’ultimazione dei lavori del manufatto, in essa essendo comprese le rifiniture, ovvero al momento della desistenza definitiva dagli stessi, da dimostrare in base a dati obiettivi ed univoci.

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PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – Reato di falso ideologico – Responsabile dell’ufficio tecnico competente (dirigente o responsabile dell’UTC) – Posizione di garanzia – Obbligo di impedire l’evento – Limiti ai criteri di valutazione ed attività è assolutamente discrezionale – Rilascio di autorizzazione paesaggistica.
Il reato di falso si configura con il rilascio di autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile dell’ufficio tecnico competente, nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal richiedente circa la sussistenza dei presupposti giuridico-fattuali per l’accoglimento della relativa domanda, essendo l’organo competente obbligato a svolgere in qualunque modo, e non necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive verifiche in merito alla sussistenza delle relative condizioni.
Sicché, è configurabile il delitto di falso ideologico nella valutazione tecnica formulata in un contesto implicante l’accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi.
In altri termini, se pure è vero che nel caso in cui il pubblico ufficiale sia libero nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto, tuttavia, se l’atto da compiere fa riferimento, come è nel caso di specie, a previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, con conseguente integrazione della falsità se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.06.2021 n. 22832 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Sul tema della configurazione dei reato di falso, con riguardo ad atti implicanti valutazioni in un contesto nel quale si deve avere riguardo l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi, questa Suprema Corte ha ripetutamente affermato che lo stesso si configura con il rilascio di autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente, nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal richiedente circa la sussistenza dei presupposti giuridico-fattuali per l'accoglimento della relativa domanda, essendo l'organo competente obbligato a svolgere in qualunque modo, e non necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive verifiche in merito alla sussistenza delle relative condizioni.
Su questa linea interpretativa, dunque, si è affermato il principio secondo il quale è configurabile il delitto di falso ideologico nella valutazione tecnica formulata in un contesto implicante l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi.
In altri termini, se pure è vero che nel caso in cui il pubblico ufficiale sia libero nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto, tuttavia, se l'atto da compiere fa riferimento, come è nel caso di specie, a previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, con conseguente integrazione della falsità se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato.
Come peraltro è stato evidenziato in una vicenda del tutto simile, nell'autorizzazione paesaggistica vengono attestate la conformità urbanistica e la compatibilità ambientale delle opere da edificare, esprimendosi, quindi, un giudizio in base alla rispondenza dell'intervento edilizio ad oggettivi e preesistenti criteri normativi, in quanto tale non caratterizzato da mera discrezionalità tecnica quanto, piuttosto, da una verifica oggettiva.
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15. Del tutto infondate, infine, sono le censure che attengono alla configurabilità, sotto il profilo oggettivo, del reato di falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità, di cui all'art. 481 cod. pen., per come riqualificata l'originaria imputazione di cui all'art. 479 cod. pen.
15.1. Il reato di falso ideologico è stato ritenuto sussistente dai Giudici del merito in relazione al permesso a costruire, rilasciato da Ri. e Pe. nei termini richiamati, laddove questi hanno attestato la compatibilità paesaggistica dell'intervento edilizio -descritto nella relazione paesaggistica, allegata all'istanza redatta dal tecnico Ca. (e recepita nel permesso di costruire)- per effetto dell'illegittimo accorpamento di fondi non contigui e, dunque, atti ideologicamente falsi perché fondati su falsi presupposti per la sua emanazione.
15.2. Sul tema della configurazione dei reato di falso, con riguardo ad atti implicanti valutazioni in un contesto nel quale si deve avere riguardo l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi, questa Suprema Corte ha ripetutamente affermato (Sez. 3 n. 46239 del 12/07/2018, Rv. 274207; Sez. 3, n. 38838 del 09/07/2018, Morciano, non mass.; Sez. 3, n. 28713 del 19/04/2017, Colella ed altri, non massimata, Sez. 3, n. 42064 del 30/06/2016, Quaranta e altri, Rv. 268083; Sez. 5, n. 35556 del 26/04/2016, Renna, Rv. 267953), che lo stesso si configura con il rilascio di autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente, nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal richiedente circa la sussistenza dei presupposti giuridico-fattuali per l'accoglimento della relativa domanda, essendo l'organo competente obbligato a svolgere in qualunque modo, e non necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive verifiche in merito alla sussistenza delle relative condizioni.
Su questa linea interpretativa, dunque, si è affermato il principio secondo il quale è configurabile il delitto di falso ideologico nella valutazione tecnica formulata in un contesto implicante l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi (Sez. 3, n. 56085 del 18/10/2017, Morciano e altri, non mass.; Sez. 3, n. 52605 del 04/10/2017, Renna, non mass.; Sez. 3, n. 41373 del 17/07/2014, P.M in proc. Pasteris e altri, Rv. 260968, non massimata sul punto, che a sua volta richiama Sez. 1, n. 45373 del 10/06/2013, Capogrosso e altro, Rv. 257895).
In altri termini, se pure è vero che nel caso in cui il pubblico ufficiale sia libero nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto, tuttavia, se l'atto da compiere fa riferimento, come è nel caso di specie, a previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, con conseguente integrazione della falsità se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato (cfr. anche Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, p.c. in proc. Platamone e altro, Rv. 254305; si vedano anche Sez. 5, n. 39360 del 15/07/2011, Gulino, Rv. 251533; Sez. 5, n. 14486 del 21/02/2011, Marini e altro, Rv. 249858).
Come peraltro è stato evidenziato in una vicenda del tutto simile (Sez. 3, n. 8844 del 18/01/2018, Renna ed altro, non massimata, la quale a sua volta richiama Sez. 3, n. 57108 del 17/05/2017, Renna, cit. e Sez. 3, n. 8852 del 18/01/2018, Dilonardo ed altri, non massimata), nell'autorizzazione paesaggistica vengono attestate la conformità urbanistica e la compatibilità ambientale delle opere da edificare, esprimendosi, quindi, un giudizio in base alla rispondenza dell'intervento edilizio ad oggettivi e preesistenti criteri normativi, in quanto tale non caratterizzato da mera discrezionalità tecnica quanto, piuttosto, da una verifica oggettiva.
15.3. Tanto premesso in generale, la Corte territoriale ha condiviso e seguito l'indirizzo qui riportato, così ritenendo che il provvedimento edilizio rilasciato da Ri. e Pe. fosse fondato su presupposti paesaggistici falsi, contenuti nella relazione redatta dal Ca., come tale anch'essa falsa.
15.4. In particolare, il Giudice di appello ha verificato che gli imputati avevano attestato la compatibilità ambientale di un intervento avente una volumetria superiore a quella sviluppabile dal fondo interessato all'edificazione, senza alcun riferimento alla sussistenza dei presupposti legittimanti l'accorpamento di fondi, sebbene non contigui, anzi avallando esplicitamente la piena legittimità dell'applicazione dell'istituto al fine di conseguire l'aumento geometrico della volumetria assentibile nell'area interessata all'edificazione.
Consegue, sempre secondo la sentenza impugnata, che proprio l'omessa considerazione in tutti gli atti della pratica edilizia, sia riconducibili al tecnico "privato" sia a quello comunale, delle condizioni di legittimità dell'accorpamento ed anzi l'esplicito avallo della legittimità di tale istituto era compatibile esclusivamente con la scelta, preordinata consapevole e condivisa, di realizzare l'opera in zona agricola con l'indicazione di dati ed informazioni apparentemente veridiche ma, in realtà, frutto di mistificazione degli elementi fattuali al fine di esprimere valutazioni conclusiva platealmente false.
15.5. E' dunque evidente che la valutazione di compatibilità ambientale espressa nell'autorizzazione paesaggistica era fondata su presupposti contrastanti con i parametri normativi, giacché si rappresentava un intervento edilizio realizzato, previa cessione di cubatura in favore di un fondo agricolo su fascia costiera, illegittimo non essendo i fondi contigui, parametro che viene in rilievo sia ai fini del rispetto degli strumenti urbanistici che ai fini ambientali e sul giudizio di valorizzazione del sito.
15.6. La maggior volumetria del manufatto da realizzare in zona agricola e di pregio, per effetto dell'illegittimo accorpamento di fondi non confinanti, l'assenza di un intervento volto alla realizzazione di aziende agricole e finalizzato allo sviluppo e al recupero del patrimonio produttivo, la realizzazione di una civile abitazione, costituivano i dati maggiormente significativi sulla scorta dei quali doveva essere formulato il giudizio di compatibilità (anche) paesaggistica, di talché debbono ritenersi falsi i provvedimenti che si esprimono su tali basi in contrasto con i parametri normativi.
Sia l'attestazione paesaggistica che il permesso a costruire erano, così, la diretta conseguenza dei falsi parametri contenuti nella relazione paesaggistica redatta dal Ca., e come tale anch'essa falsa (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.06.2021 n. 22832).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOLa presentazione di denunce, come anche le pubbliche accuse di scorretta amministrazione dell’urbanistica comunale, non possono essere considerate motivo di astensione obbligatoria del funzionario.
Per opinione consolidata, infatti, il conflitto d’interessi, rilevante ai sensi dell’art. 6-bis l. 241/1990, coincide con le ipotesi d’incompatibilità di cui all’art. 51 cod. proc. civ., che rivestono carattere tassativo e sfuggono, di conseguenza, a ogni tentativo di manipolazione analogica.
Pertanto, la presentazione di denuncia in sede penale non costituisce causa di legittima ricusazione perché inidonea a creare una situazione di causa pendente –per la natura oggettiva della giurisdizione penale– o di grave inimicizia –che deve essere reciproca, trovare fondamento esclusivamente in rapporti personali ed estrinsecarsi in documentate e inequivocabili circostanze di conflittualità.

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(III) Con il terzo motivo, i ricorrenti hanno dedotto che il responsabile del procedimento avrebbe dovuto astenersi per incompatibilità (art. 6-bis l. 241/1990), in quanto destinatario –assieme ad altri funzionari del Comune– di una serie di denunce penali presentate da Il.Ma. nel 2020 nonché di pubbliche lamentele effettuate da quest’ultimo in ordine all’illegittimità di alcune lottizzazioni.
...
6. Nel merito, deve essere dapprima analizzato il terzo motivo di ricorso, stante la riconducibilità dell’incompatibilità del funzionario al vizio d’incompetenza. La fondatezza di tale motivo inibirebbe la valutazione delle restanti censure sostanziali, essendo impedito al giudice di pronunciarsi su poteri non ancora esercitati (art. 34, comma 2, cod. proc. amm.), tali dovendosi considerare le valutazioni di spettanza dell’organo competente cui il procedimento dovrebbe essere assegnato in caso di annullamento dell’atto per incompetenza (per tutte, Cons. Stato, Ad. Plen., 27.04.2015, n. 5).
La relativa doglianza è infondata, giacché la presentazione di denunce, come anche le pubbliche accuse di scorretta amministrazione dell’urbanistica comunale, non possono essere considerate motivo di astensione obbligatoria del funzionario.
Per opinione consolidata, infatti, il conflitto d’interessi, rilevante ai sensi dell’art. 6-bis l. 241/1990, coincide con le ipotesi d’incompatibilità di cui all’art. 51 cod. proc. civ., che rivestono carattere tassativo e sfuggono, di conseguenza, a ogni tentativo di manipolazione analogica.
Pertanto, la presentazione di denuncia in sede penale non costituisce causa di legittima ricusazione perché inidonea a creare una situazione di causa pendente –per la natura oggettiva della giurisdizione penale– o di grave inimicizia –che deve essere reciproca, trovare fondamento esclusivamente in rapporti personali ed estrinsecarsi in documentate e inequivocabili circostanze di conflittualità (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 02.04.2014, n. 1577; TAR Ancona, Sez. I, 26.03.2019, n. 175) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 09.06.2021 n. 1152 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Commissione di concorso pubblico – Partecipazione membri interni al Comune – Compenso spettante e deroga principio onnicomprensività retribuzione (parere 04.06.2021 n. 77558 di prot.).
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Si fa riferimento alla nota prot. 42356/2021, con la quale codesto Comune chiede il parere di questo Dipartimento relativamente ai compensi spettanti ai componenti interni delle commissioni di concorso, ai sensi dell’articolo 3 della legge 19.06.2019, n. 56. In particolare, si chiede:
   1. se “i membri interni delle Commissioni di concorso in trattazione, benché dipendenti dall’Ente titolare del concorso, hanno diritto a percepire il compenso, così come stabilito dalla novella del 2019, in deroga al principio di onnicomprensività”;
   2. “ove fosse accertato l’an debeatur, si chiede conferma che il quantum sarebbe dovuto nelle misure previste dal DPCM 24.04.2020, previo recepimento con idonei atti comunali”. (... continua).

maggio 2021

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Godimento delle ferie dipendente da causa non imputabile al lavoratore.
L’istituto della c.d. monetizzazione delle ferie è stato sostanzialmente abolito o quanto meno fortemente ridimensionato per effetto dell’art. 5, co. 8, del d.l. n. 95/2012, convertito con legge n. 135/2012, in forza del quale le ferie, i riposi ed i permessi nel settore del lavoro pubblico sono obbligatoriamente goduti secondo quanto stabilito dai rispettivi ordinamenti, con divieto di corresponsione di «trattamenti economici sostitutivi».
Il carattere tutto sommato eccezionale e residuale della monetizzazione è stato ribadito sia dalla prassi amministrativa sia dalla giurisprudenza ordinaria e da quella costituzionale
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Il gravame non appare fondato, per le ragioni che seguono.
2.1 Il sig. Ve. cessava dal servizio presso la Squadra Mobile di Sondrio a far tempo dal 15.01.2018 (cfr. il doc. 1 del resistente) e già in precedenza depositava una domanda di congedo ordinario per 123 giorni consecutivi, che non era accolta dall’Amministrazione, vista la lunga durata del periodo (cfr. sul punto il doc. 3 del resistente).
In seguito presentava un’istanza di monetizzazione per un numero più ridotto di giorni di congedo ordinario, che era respinta con la già citata nota della Prefettura di Sondrio del 18.04.2019 (si veda il doc. 3 del resistente) che in maniera compiuta esponeva gli argomenti ostativi alla monetizzazione richiesta, vale a dire l’accumulo dei giorni non fruiti in oltre vent’anni di servizio in luogo del graduale smaltimento dei medesimi, la presentazione di una domanda di dimissioni volontarie prima di avere goduto dell’intero congedo ordinario, oltre all’assenza di documentate esigenze di servizio o di altre situazioni straordinarie tali da rendere impossibile la fruizione delle ferie.
2.2 Sulla c.d. monetizzazione delle ferie preme evidenziare che l’istituto è stato sostanzialmente abolito o quanto meno fortemente ridimensionato per effetto dell’art. 5, comma 8, del DL n. 95/2012, convertito con legge n. 135/2012, in forza del quale le ferie, i riposi ed i permessi nel settore del lavoro pubblico sono obbligatoriamente goduti secondo quanto stabilito dai rispettivi ordinamenti, con divieto di corresponsione di «trattamenti economici sostitutivi».
Il carattere tutto sommato eccezionale e residuale della monetizzazione è stato ribadito sia dalla prassi amministrativa (si veda la Circolare del Ministero dell’Intero prot. 333-G/I/Sett. 2°/mco/N°12/10) sia dalla giurisprudenza ordinaria (cfr. Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza n. 15652/2018) e da quella costituzionale (si veda Corte Costituzionale, sentenza n. 95/2016, che ha ritenuto costituzionalmente legittima la previsione del succitato art. 5, comma 8, del DL n. 95/2012, riconoscendo al lavoratore il diritto a un’indennità soltanto in caso di mancato godimento delle ferie per causa a lui non imputabile).
Sul punto sia consentito altresì il richiamo alla recentissima sentenza del TAR Lazio, Roma, Sezione I-quater n. 3426/2021, nella quale si afferma che l’obbligo di legge (ex art. 5, comma 8, del DL n. 95/2012) di godere delle ferie senza alcun trattamento economico sostitutivo «…mira a “reprimere il ricorso incontrollato alla “monetizzazione” delle ferie non godute. Affiancata ad altre misure di contenimento della spesa, la disciplina in questione mira a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie, per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro. In questo contesto si inquadra il divieto rigoroso di corrispondere trattamenti economici sostitutivi, volto a contrastare gli abusi, senza arrecare pregiudizio al lavoratore incolpevole” (Corte cost., n. 95 del 2016)».
2.3 Nel caso di specie il sig. Ve. presentava domanda di dimissioni (cfr. il doc. 1 del resistente), per cui cessava dal servizio volontariamente e non per fatti sopravvenuti ed imprevedibili, tali da impedire la programmazione e l’utilizzo delle ferie residue prima del pensionamento.
Quanto alla richiesta di congedo del 05.06.2017 (cfr. il doc. 3 del ricorrente e il doc. 2 del resistente) la stessa aveva ad oggetto un periodo di ben 123 giorni consecutivi –come già sopra ricordato (cfr. il doc. 6 del ricorrente e il doc. 3 del resistente)– e non poteva certo essere accolta, a fronte di un così lungo e continuativo periodo di assenza.
Inoltre, dall’esame del prospetto delle ferie redatto dalla Questura di Sondrio nel mese di aprile 2020 (cfr. il doc. 4 del resistente), risulta che l’esponente ha potuto godere fra il 2015 ed il 2018 di diversi periodi di ferie, talora di una sola giornata ma anche per tempi più lunghi, per cui non appare dimostrato un presunto atteggiamento ostativo dell’Ufficio, che avrebbe impedito la fruizione del congedo ordinario.
Si badi che le ferie furono concesse anche dopo che, nel mese di giugno 2017, era stata respinta la più volte citata richiesta di un periodo di congedo di 123 giorni, a conferma della volontà dell’Amministrazione di consentire una ordinata fruizione del residuo tempo feriale, nel rispetto degli accordi sindacali di settore (si vedano, ad esempio, l’art. 14 del DPR n. 395/1995 e gli articoli 18 e 55 del DPR n. 254/1999).
Non vi è quindi alcuna prova concreta dell’impossibilità di mancato godimento delle ferie per fatto non imputabile al sig. Verga.
Il ricorso in epigrafe deve quindi interamente rigettarsi (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 13.05.2021 n. 1186 - massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Onere probatorio incombente sul lavoratore vessato.
L’elemento qualificante del mobbing non va ravvisato nella legittimità o illegittimità dei singoli atti, bensì nell’intento persecutorio che li unifica. La relativa prova è a carico di chi assume di avere subito la condotta vessatoria.
Di conseguenza il lavoratore che agisce chiedendo il risarcimento dei danni subiti a causa del mobbing deve provare tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, quindi in primis la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti ove considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio
(TRIBUNALE di Torino, Sez. V, sentenza 10.05.2021 n. 724 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).

ENTI LOCALI - INCENTIVI FUNZIONI TECNICHE - PUBBLICO IMPIEGO: Incentivi tecnici, spesa di personale. La delibera della Corte dei Conti Lombardia non convince.
Gli incentivi per le funzioni tecniche sono certamente spesa di personale e vanno necessariamente considerate nel rapporto con la media triennale delle entrate per determinare le facoltà assunzionali dei comuni.

E' visibilmente erroneo e da non considerare il parere 07.05.2021 n. 73 della Corte dei conti Lombardia (si veda ItaliaOggi dell'11 maggio) secondo cui le spese per incentivi tecnici non sarebbero da considerare come spese di personale. La sezione si fa trarre visibilmente in inganno dall'esclusiva considerazione della spesa per incentivi sulla base della sua natura. Il parere afferma che «la natura della spesa per gli incentivi tecnici sia quella risultante dal comma 5-bis dell'art. 113 del codice degli appalti, come chiaramente evidenziato dalla sezione autonomie nella richiamata deliberazione 26.04.2018 n. 6».
Tale ultima deliberazione ha chiarito che le spese connesse agli incentivi per le funzioni tecniche «erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall'art. 23, comma 2, del dlgs n. 75/2017».
Tuttavia, l'esclusione di una voce di spesa dal computo del tetto complessivo del trattamento accessorio disposto dall'articolo 23, comma 2, del dlgs 75/2017 (norma sulla cui persistente vigenza v'è molto da dubitare, per altro), non ha nulla a che vedere con i conteggi necessari per determinare il rapporto spesa/entrate previsto dall'articolo 33, comma 2, del dl 34/2019, convertito in legge 58/2019.
Sfugge ancora a molti, tra cui anche la magistratura contabile, che nel nuovo sistema di determinazione delle facoltà assunzionali ogni spesa che defluisce verso i dipendenti è spesa di personale senza eccezione ed a prescindere dalla sua natura o dal finanziamento. A meno che, in quest'ultimo caso, non sia il legislatore ad escludere espressamente tali voci, come disposto dall'articolo 57, comma 3-septies, del dl 104/2020, convertito in legge 126/2020, per il caso di assunzioni eterofinanziate.
La circostanza che gli incentivi per le funzioni tecniche sfuggano al tetto di spesa del 2016, (cosa del tutto normale, trattandosi di risorse variabili del fondo della contrattazione decentrata) non sta affatto a significare che non si tratti di spesa di personale. Al contrario: proprio perché gli incentivi per le funzioni tecniche sono componente della parte variabile del fondo contrattuale delle risorse decentrate, essi debbono obbligatoriamente essere qualificati come spesa di personale, influente senz'altro nel rapporto tra questa spesa e la media triennale delle entrate al netto del fondo crediti di dubbia esigibilità.
Le conclusioni della sezione Lombardia per altro porterebbero a conseguenze operative inaccettabili. Ad esempio, un comune non virtuoso, come quello che ha espresso il quesito alla Sezione, potrebbe proprio, tra le altre misure adottabili, fare leva esattamente su risorse variabili del fondo, riducendole, per adempiere al dovere di ridurre annualmente l'incidenza della spesa di personale e quindi riportare il rapporto spesa/entrate ad un livello tale da rientrare nei parametri di virtuosità.
Le indicazioni del parere 07.05.2021 n. 73 della sezione Lombardia, invece, finirebbero per far mancare un margine di manovra utile ed importante. E, comunque, finirebbero per indurre gli enti non virtuosi a ritenere possibile il risultato paradossale perfino di un incremento complessivo della spesa di personale, se determinato dagli incentivi per le funzioni tecniche: ciò in plateale contrasto con l'obbligo normativo di considerare tutta la spesa di personale ai fini della riduzione annuale del rapporto di questa con le entrate (articolo ItaliaOggi del 14.05.2021).

ENTI LOCALI - INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE - PUBBLICO IMPIEGOAssunzioni, incentivi tecnici fuori dai costi di personale.
Secondo la Funzione pubblica e il Mef (che hanno interpretato le nuove regole introdotte dal decreto crescita), ai fini delle assunzioni dei comuni, rientrano tutte le spese del personale, nessuna esclusa.

Per la Corte dei conti della Lombardia (parere 07.05.2021 n. 73) la spesa del personale, collegata agli incentivi tecnici, deve essere esclusa, a seguito dell'inserimento del comma 5-bis all'art. 113 del codice dei contratti secondo cui «gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per singoli lavori, servizi e forniture».
Il dubbio del sindaco
Premette il sindaco che il comune non rientra tra quelli virtuosi, ossia coloro che hanno un rapporto tra spesa del personale e media delle entrate correnti, al netto del fondo crediti di dubbia esigibilità, che li collocano nella tabella 1 per la fascia demografica di appartenenza. Di qui la richiesta volta a capire se le spese per incentivi tecnici rientrino o meno nella spesa del personale.
Secondo la circolare esplicativa del decreto attuativo del 13.05.2020, infatti, la spesa del personale da prendere in considerazione sarebbe quella totale, ossia comprensiva anche delle spese del personale riguardanti gli incentivi tecnici, con l'evidente pericolo, in assenza di assunzioni, di non corrispondere gli importi di tali incentivi tecnici per non superare la spesa del personale.
La risposta della Corte
A prescindere da quanto previsto nella circolare citata dal sindaco e dalla modalità della doppia contabilizzazione, prevista dal dm 01.08.2019 del principio contabile di cui all'allegato 4/2, paragrafo 5.2, gli incentivi tecnici non rientrano nella spesa del personale per due rilevanti motivazioni.
La prima è il richiamo letterale del comma 5-bis, inserito dall'art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, secondo cui «gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture». Infatti, in assenza degli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture, non vi sarebbero incentivi da pagare al personale.
La seconda motivazione è quella indicata dalla sezione delle Autonomie (deliberazione 26.04.2018 n. 6) che ha espresso il principio di diritto secondo cui «gli incentivi disciplinati dall'art. 113 del dlgs n. 50 del 2016 nel testo modificato dall'art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall'art. 23, comma 2, del dlgs n. 75 del 2017».
In conclusione, le spese sostenute per gli incentivi tecnici non costituiscano spesa per il personale ai fini della determinazione della capacità assunzionale, secondo la nuova normativa dell'art. 33, comma 2, del dl 34/2019 (articolo ItaliaOggi dell'11.05.2021).

ENTI LOCALI - INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE - PUBBLICO IMPIEGO: Incentivi funzioni tecniche e spese di personale per margini assunzionali.
Le spese sostenute per gli incentivi tecnici non costituiscano spesa per il personale ai fini della determinazione della capacità assunzionale, secondo la nuova normativa dell'art. 33, comma 2, del Dl 34/2019.
Secondo i principi contabili gli impegni di spesa riguardanti gli incentivi per le funzioni tecniche previsti dall'art. 113 del Dlgs 50/2016, compresi i relativi oneri contributivi ed erariali, sono assunti a carico degli stanziamenti di spesa riguardanti i medesimi lavori, servizi e forniture cui si riferiscono, nel titolo II della spesa ove si tratti di opere o nel titolo I, nel caso di servizi e forniture.
La natura degli incentivi è legata in diretta corrispondenza tra incentivo e attività compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche, nell'ambito dello svolgimento di attività tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche procedure.
L'avere correlato normativamente la provvista delle risorse a ogni singola opera con riferimento all'importo a base di gara commisurato al costo preventivato dell'opera, àncora quindi la contabilizzazione di queste risorse a un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale.
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Il Sindaco del Comune di Samarate (VA) richiama in premessa alcune norme di riferimento per la destinazione di risorse finanziarie ad un fondo per incentivi tecnici, erogabili a favore di dipendenti, anche alla luce della diversa determinazione degli spazi assunzionali degli enti locali, introdotta dall’art. 33, comma 2, del d.l. 30.04.2019, n. 34 con successive modifiche intervenute in sede di conversione e a seguito dell’approvazione della l. 27.12.2019, n. 162 (legge di bilancio 2021).
La richiesta di parere è articolata su due quesiti:
   "1. se, secondo il principio contabile di prevalenza della sostanza sulla forma (Principio contabile n. 18), la spesa riguardante gli incentivi tecnici rientra tra la spesa di personale da considerare nel rapporto tra media delle entrate e spesa di personale per determinare la capacità assunzionale degli enti locali;
   2. se, in caso di risposta affermativa al punto precedente, considerato che, secondo la nuova normativa,
i comuni mediani come quello istante, con un rapporto entrate correnti/spesa di personale compreso fra il valore soglia medio e il valore soglia superiore (o "valore soglia di rientro della maggiore spesa"), devono mantenere sotto controllo e quindi costante detto rapporto, non potendolo incrementare rispetto a quello corrispondente registrato nell'ultimo rendiconto della gestione approvato, sono tenuti a liquidare gli incentivi per le funzioni tecniche anche nel caso in cui questo determinerebbe l'incremento di tale rapporto.”.
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Sulla novella normativa introdotta dal comma 2 dell'art. 33 del decreto-legge n. 34 del 2019 (come modificato dal comma 853, art. 1 della legge del 27.12.2019, n. 160) anche alla luce dell’approvazione (il 17.03.2020, successivamente pubblicato in G.U. il 27.04.2020), del DPCM interministeriale (funzione pubblica, economia e finanze e interno), recante “Misure per la definizione delle capacità assunzionali di personale a tempo indeterminato dei comuni”, questa Sezione si è espressa più volte in tempi recenti (su vari aspetti di rilievo, con le delibere nn. 74/2020/PAR, 93/2020/PAR, 98/2020/PAR, 109/2020/PAR, 125/2020/PAR, 24/2021/PAR, 65/2021/PAR).
La fattispecie prospettata dal Comune di Samarate (VA) riguarda la natura degli incentivi tecnici, per i quali il comma 5-bis dell’art. 113 del Codice degli appalti stabilisce che “(g)li incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
Nelle forme dettagliate dallo stesso articolo 113, gli incentivi tecnici traggono origine dagli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture, nei limiti previsti dal comma 2, e ad essi vanno considerati legati, non sussistendo una specifica spesa per il personale in assenza di appalti e degli stanziamenti ad essi relativi.
L’inserimento del comma 5-bis ad opera dell’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017 è l’elemento importante che è stato oggetto di approfondimento da parte della Sezione delle Autonomie che, proprio per la prescrizione specifica, stabilisce nella sua deliberazione 26.04.2018 n. 6una diretta corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche procedure. L’avere correlato normativamente la provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale.” Al tempo stesso, si rileva che “tali compensi non sono rivolti indiscriminatamente al personale dell’ente, ma mirati a coloro che svolgono particolari funzioni (“tecniche”) nell’ambito di specifici procedimenti e ai loro collaboratori (in senso conforme: SRC Lombardia parere 16.11.2016 n. 333)”.
La conclusione della suddetta deliberazione della Sezione delle Autonomie è riassunta nel seguente principio di diritto: “Gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
Va soggiunto che il decreto del Ragioniere Generale dello Stato del 01.08.2019, pubblicato in G.U. il 22.08.2019, ha aggiornato gli allegati al d.lgs. 118 del 2011, aggiungendo, al paragrafo 5.2, lettera a), una particolare rappresentazione contabile per gli incentivi tecnici. Esso recita, infatti, “Gli impegni di spesa riguardanti gli incentivi per le funzioni tecniche di cui all’articolo 113 del d.lgs. 50 del 2016, compresi i relativi oneri contributivi ed erariali, sono assunti a carico degli stanziamenti di spesa riguardanti i medesimi lavori, servizi e forniture cui si riferiscono, nel titolo II della spesa ove si tratti di opere o nel titolo I, nel caso di servizi e forniture. L’impegno è registrato, con imputazione all’esercizio in corso di gestione, a seguito della formale destinazione al fondo delle risorse stanziate in bilancio, nel rispetto dell’articolo 113, comma 2 e seguenti ed è tempestivamente emesso il relativo ordine di pagamento a favore del proprio bilancio, al Titolo terzo delle entrate, tipologia 500 “Rimborsi e altre entrate correnti”, categoria 3059900 “Altre entrate correnti n.a.c.”, voce del piano dei conti finanziario E.3.05.99.02.001 Fondi incentivanti il personale (art. 113 del d.lgs. 50/2016). La spesa riguardante gli incentivi tecnici è impegnata anche tra le spese di personale, negli stanziamenti riguardanti il fondo per la contrattazione integrativa, nel rispetto dei principi contabili previsti per il trattamento accessorio e premiale del personale. La copertura di tale spesa è costituita dall’accertamento di entrata di cui al periodo precedente, che svolge anche la funzione di rettificare il doppio impegno, evitando gli effetti della duplicazione della spesa.”
Nella richiesta di parere è stata richiamata anche la Circolare sul decreto del Ministro per la pubblica amministrazione, attuativo dell’articolo 33, comma 2, del decreto-legge n. 34 del 2019, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 58 del 2019, in materia di assunzioni di personale da parte dei comuni (13.05.2020, emanata, di concerto, dai Ministri della Funzione Pubblica, dell’Economia e delle Finanze e dell’Interno).
Ebbene, prescindendo dalla suddetta circolare, non rilevante ai fini della determinazione della natura della spesa per incentivi tecnici, e indipendentemente dalle modalità di doppia contabilizzazione di cui al principio contabile, Allegato 4/2, paragrafo 5.2, nel testo risultante dal D.M 01.08.2019, ritiene il Collegio che la natura della spesa per gli incentivi tecnici sia quella risultante dal comma 5-bis dell’art. 113 del codice degli appalti, come chiaramente evidenziato dalla Sezione delle Autonomie nella richiamata deliberazione 26.04.2018 n. 6 (cfr. anche la deliberazione 30.10.2019 n. 26 e il parere 14.12.2020 n. 120 della Sez. Emilia Romagna).
In sintesi, quindi, la Sezione ritiene che si debba dare risposta negativa al primo quesito e che le spese sostenute per gli incentivi tecnici non costituiscano spesa per il personale ai fini della determinazione della capacità assunzionale, secondo la nuova normativa dell’art. 33, c. 2, del d.l. 34/2019 e ss.mm.ii.
Il secondo quesito posto dal Comune di Samarate (VA) risulta assorbito dalla risposta al primo (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 07.05.2021 n. 73).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGONella specie non è configurabile l’ipotesi della «grave inimicizia» dei due componenti del collegio giudicante nei confronti del menzionato difensore, dovendo questa essere reciproca sicché non è sufficiente ad integrarla la mera presentazione di una denuncia o, comunque, di un atto di impulso idoneo a dare inizio ad un procedimento giudiziale o disciplinare, ma la grave inimicizia deve ricondursi a ragioni private di rancore o di avversione sorte nell’ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali e alla realtà processuale, con l’indicazione di correlativi fatti circostanziati, concreti e specifici.
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Ebbene, premesso che s’intendono qui richiamate, per ragioni di sinteticità imposte dall’art. 3 cod. proc. amm., le esposizioni in fatto contenute a pp. 3-9 nella menzionata ordinanza n. 245/2019 del TRGA, reiettiva dell’istanza di ricusazione, si rileva che il TRGA, nel respingere l’istanza –fondata sulle ipotesi di «causa pendente» e di «grave inimicizia» tra due dei magistrati componenti il collegio e uno dei difensori dei ricorrenti, ai sensi degli artt. 18, comma 1, cod. proc., amm. e 51, comma 1, numero 3), cod. proc. civ.–, ha fatto corretta applicazione dei principi giurisprudenziali elaborati da questo Consiglio di Stato in tema di ricusazione, in quanto:
   - l’ipotesi della «causa pendente», con riferimento al processo penale, in applicazione del criterio interpretativo restrittivo e tassativo sopra enunciato, deve ritenersi integrata soltanto con l’esercizio dell’azione penale ai sensi degli artt. 60 e 405 cod. proc. pen.;
   - infatti, la pendenza del giudizio penale presuppone la richiesta del pubblico ministero di rinvio a giudizio a norma dell’art. 416 cod. proc. pen. e con gli altri atti con i quali si chiede al giudice di decidere sulla pretesa punitiva (v., ex plurimis –seppur con riferimento ed fattispecie diverse dalla ricusazione–, Cons. Stato, Sez. VI, 13.03.2019, n. 1666; Cons. Stato, Sez. III, 22.01.2016, n. 206);
   - nel caso di specie il procedimento penale iscritto sub R.G.N.R. n. 813/2018 dinanzi al Tribunale di Bolzano, Sezione penale, a carico del difensore degli originari ricorrenti su denuncia dei giudici ricusati –peraltro, per ragioni che trovano la loro origine in un precedente processo svoltosi dinanzi allo stesso TRGA, e quindi attinenti all’esercizio di attività istituzionali–, non può essere considerato alla stregua di «causa pendente» ai fini di cui al citato art. 51, comma 1, numero 3), cod. proc. civ., poiché tale procedimento all’epoca della decisione di primo grado si trovava nella fase di opposizione alla richiesta di archiviazione ai sensi dell’art. 409 e ss. cod. proc. pen., formulata dai due magistrati ricusati, e l’azione penale non risultava ancora esercitata dal pubblico ministero ai sensi degli artt. 50 e 60 cod. proc. pen. (v., sul punto, Cons. Stato, Sez. IV, 19.06.2003, n. 3658, secondo cui l’opposizione al decreto che abbia disposto l’archiviazione dell’esposto penale, ai sensi del combinato disposto degli artt. 50, comma 1, 405, comma 1, e 409, comma 5, cod. proc. pen., non integra l’avvenuto esercizio dell’azione penale ed inibisce, di conseguenza, che si configuri il presupposto della «causa pendente» ex art. 51 cod. proc. civ., da intendere in senso tecnico-giuridico);
   - anticipare la ‘soglia’ dei procedimenti penali, ai fini di cui all’art. 51, comma 1, numero 3), cod. proc. civ., alla fase anteriore all’esercizio dell’azione penale, comporterebbe, per un verso, il pericolo di impedire e/o aggravare l’esercizio, da parte dell’organo giudicante e/o dei suoi componenti, dei doveri istituzionali di presentare rapporti o esposti ai competenti organi sia giurisdizionali (quali le Procure presso i Tribunali o la Corte dei conti) sia disciplinari (quali i Consigli degli ordini professionali), e, per altro verso, il rischio di una possibile strumentalizzazione delle denunzie o degli esposti ad opera delle parti private in funzione della creazione di situazioni di incompatibilità per eludere il principio della precostituzione del giudice naturale sancito dall’art. 25 Cost.;
   - né nella specie è configurabile l’ipotesi della «grave inimicizia» dei due componenti del collegio giudicante nei confronti del menzionato difensore, dovendo questa essere reciproca sicché non è sufficiente ad integrarla la mera presentazione di una denuncia o, comunque, di un atto di impulso idoneo a dare inizio ad un procedimento giudiziale o disciplinare, ma la grave inimicizia deve ricondursi a ragioni private di rancore o di avversione sorte nell’ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali e alla realtà processuale, con l’indicazione di correlativi fatti circostanziati, concreti e specifici (v. in tal senso, ex plurimis, Cass. civ., 31.10.2018, n. 27923; Cass. civ., ord. 24.09.2015, n. 18976; id., ord. 24.11.2014), nella specie né allegati né tanto meno provati.
Conclusivamente, il motivo all’esame deve essere disatteso (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.05.2021 n. 3556 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

aprile 2021

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOI compensi previsti dall’art. 32, comma 40, della L. n. 326/2003, possono essere erogati, indipendentemente dal tempo trascorso tra la presentazione della pratica di condono, il momento dell’avvenuta istruttoria e il conseguenziale rilascio del titolo edilizio, presupposto legittimante l’erogazione del relativo compenso, fermo restando l’avvenuto introito dei relativi diritti e degli oneri.
Conditio sine qua non per la loro erogazione è che i progetti finalizzati, da svolgere oltre l’orario di lavoro ordinario, presentino i requisiti di cui al vigente CCNL delle “Funzioni locali “(art. 68, comma 2), siano inseriti nel ciclo di gestione della performance e siano ancorati ad un rigido e oggettivo sistema di misurazione e valutazione dei risultati perseguiti

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Il Sindaco del Comune di Pogliano Milanese (MI), con la richiesta sopra citata, chiede un parere in merito alla legittima possibilità di riconoscere un compenso ex art. 32, comma 40, della L. n. 326/2003, ove sia trascorso un notevole lasso di tempo, tra la presentazione della pratica di condono, il momento dell’avvenuta istruttoria e il conseguenziale rilascio del titolo edilizio, presupposto legittimante l’erogazione del relativo compenso.
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Passando alla trattazione nel merito della questione sottoposta all’esame di questo Collegio, occorre, preliminarmente, precisare che con l. n. 662 del 23/12/1996, recante “Misure di razionalizzazione della finanza pubblica”,
   - all’art. 2, c. 48, è stato previsto che “I comuni sono tenuti ad iscrivere nei propri bilanci le somme versate a titolo di oneri concessori per la sanatoria degli abusi edilizi in un apposito capitolo del titolo IV dell’entrata. Le somme relative sono impegnate in un apposito capitolo del titolo II della spesa. I comuni possono utilizzare le relative somme per far fronte ai costi di istruttoria delle domande di concessione o di autorizzazione in sanatoria, per anticipare i costi per interventi di demolizione delle opere (…), per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria, per interventi di demolizione delle opere non soggette a sanatoria entro la data di entrata in vigore della presente legge, nonché per gli interventi di risanamento urbano ed ambientale delle aree interessate dall’abusivismo. (…)”;
   - al c. 49 è, quindi, previsto che “Per l’attività istruttoria connessa al rilascio delle concessioni in sanatoria i comuni possono utilizzare i fondi all’uopo accantonati, per progetti finalizzati da svolgere oltre l’orario di lavoro ordinario, ovvero nell’ambito dei lavori socialmente utili. I comuni possono anche avvalersi di liberi professionisti ( ….)”.
Il legislatore è, successivamente, intervenuto nuovamente in materia, con il D.L. n. 269 del 30/9/2003, recante “Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e la correzione dei conti pubblici”, convertito nella legge n. 326/2003, il quale,
   - all’art. 32, c. 40, dispone che “Alla istruttoria della domanda di sanatoria si applicano i medesimi diritti e oneri previsti per il rilascio dei titoli abilitativi edilizi. Come disciplinati dalle amministrazioni comunali per le medesime fattispecie di opere edilizie. Ai fini dell’istruttoria delle domande di sanatoria edilizia può essere determinato dall’amministrazione comunale un incremento dei predetti diritti ed oneri fino ad un massimo del 10% da utilizzare con le modalità di cui all’articolo 2, comma 46, della legge 23/12/1996, n. 662. Per l’attività istruttoria connessa al rilascio delle concessioni in sanatoria i comuni possono utilizzare i diritti e oneri di cui al precedente periodo, per progetti finalizzati da svolgere oltre l’orario di lavoro ordinario”;
   - il successivo c. 41 dispone, infine, che “Al fine di incentivare la definizione delle domande di sanatoria presentate ai sensi del presente articolo (…), il 50 % delle somme riscosse a titolo di conguaglio dell’oblazione (ai sensi dell’art. 35, c. 14, della l. 47 del 1985) è devoluto al comune interessato. Con decreto interdipartimentale del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e del Ministero dell’economia e delle finanze sono stabilite le modalità di applicazione del presente comma”.
Dal dettato normativo sopra richiamato, a parere di questo Collegio, non si evince un limite temporale entro cui l’attività istruttoria, a pena di decadenza, deve espletarsi e/o avviarsi, ma il legislatore si limita a prevedere il valore massimo di incremento dei diritti e degli oneri di sanatoria (10%), nonché a precisare la tipologia di prestazione lavorativa (progetti finalizzati) che ne legittima, quale conditio sine qua non, l’erogazione.
Proprio in riferimento a tale profilo, cioè la sussistenza di “progetti finalizzati da svolgere oltre l’orario di lavoro”, e non a quello della data di avvio dell’istruttoria, deve valutarsi la compatibilità della predetta previsione normativa, con il vigente ordinamento in tema di compensi erogabili al personale dipendente.
Sotto questo aspetto, il Collegio ritiene compatibile la disposizione normativa de qua, stante che il vigente CCNL delle “Funzioni locali”, sottoscritto il 21.05.2018, all’ art. 68, comma 2, prevede l’erogazione di “premi per la produttività individuale e di gruppo”, costituenti parte variabile del trattamento accessorio del personale, finalizzati a migliorare la produttività, l’efficienza e l’efficacia dei servizi, all’interno dei quali va ricondotto, senza ombra di dubbio, il caso di specie.
Presupposto legittimante l’erogazione, dunque, non è il maggior o minor tempo decorso tra la data di presentazione della domanda di condono e l’attività istruttoria, bensì che tali progetti finalizzati, da svolgere oltre l’orario di lavoro ordinario, presentino i requisiti di cui CCNL sopra richiamato, siano inseriti nel ciclo di gestione della performance e siano ancorati ad un rigido e oggettivo sistema di misurazione e valutazione dei risultati perseguiti.
P.Q.M.
La Corte dei conti –Sezione regionale di controllo per la Lombardia– si pronuncia come segue sulla richiesta di parere della Regione Lombardia:
I compensi previsti dall’art. 32, comma 40, della L. n. 326/2003, possono essere erogati, indipendentemente dal tempo trascorso tra la presentazione della pratica di condono, il momento dell’avvenuta istruttoria e il conseguenziale rilascio del titolo edilizio, presupposto legittimante l’erogazione del relativo compenso, fermo restando l’avvenuto introito dei relativi diritti e degli oneri.
Conditio sine qua non per la loro erogazione è che i progetti finalizzati, da svolgere oltre l’orario di lavoro ordinario, presentino i requisiti di cui al vigente CCNL delle “Funzioni locali “(art. 68, comma 2), siano inseriti nel ciclo di gestione della performance e siano ancorati ad un rigido e oggettivo sistema di misurazione e valutazione dei risultati perseguiti
” (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 12.04.2021 n. 54).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Divieto di monetizzazione delle ferie e cessazione del rapporto di lavoro.
Nel rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, il mero fatto del mancato godimento delle ferie non dà titolo ad un corrispondente ristoro economico: vige, cioè, il divieto di monetizzazione delle ferie maturate e non godute, anche nei casi di cessazione del rapporto di lavoro, con conseguente disapplicazione delle clausole contrattuali più favorevoli per il dipendente (CORTE di Appello di Roma, Sez. I, sentenza 06.04.2021 n. 1383 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ferie, riposi e permessi non fruiti nei termini.
In base all’art. 5, comma 8, della legge 07.08.2012 n. 135 le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi, anche nel caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età.
Il divieto di corresponsione dell’indennità sostitutiva non risulta, infatti, applicabile nell’ipotesi in cui il lavoratore non abbia potuto godere delle ferie per malattia o per altra causa non imputabile
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Il ricorrente, militare transitato nei ruoli civili per ragioni di salute, si duole del fatto che l’Amministrazione intimata abbia negato il suo diritto a percepire l’indennità sostitutiva della licenza ordinaria di cui egli non ha potuto fruire in corso di malattia per gli anni 2013, 2014 e 2015.
A seguito del decesso del Sig. -OMISSIS- il ricorso è stato riassunto dalla Sig.ra -OMISSIS- in proprio e anche in qualità di genitore del figlio minorenne -OMISSIS-, nonché per la Sig.ra -OMISSIS- in qualità di eredi.
Il Ministero fonda la sua decisione sull’art. 5, comma 8, della legge 07.08.2012 n. 135 in base al quale le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi anche nel caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età.
La predetta disposizione, sulla scorta dei pronunciamenti delle corti superiori nazionali e sovranazionali, deve, tuttavia interpretarsi nel senso che il divieto di corresponsione dell’indennità sostitutiva non risulta applicabile tutte le volte che, come accaduto nella specie, il lavoratore non abbia potuto fruire quando il lavoratore non abbia potuto godere delle ferie per malattia o per altra causa non imputabile.
Ciò, in particolare, è quanto, dopo ampia disamina, ha di recente stabilito in sede di ricorso straordinario la I Sezione del Consiglio di Stato con il parere n. 154 del 20/01/2020 che il Collegio condivide soprattutto in merito alla necessità di non porre l’ordinamento nazionale in contrasto con quanto stabilito dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza in causa 341/15 del 20/07/2016 che ha fatto applicazione dell'articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88 in base al quale l’inderogabile diritto alle ferie retribuite è surrogato da una indennità finanziaria tutte le volte che il lavoratore per causa a lui non imputabile non riesca a beneficarne.
Il ricorso deve essere, quindi, accolto con conseguente obbligo del Ministero di erogare l’indennità sostitutiva richiesta (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 06.04.2021 n. 477 - massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

febbraio 2021

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Diritto alla monetizzazione delle ferie non godute.
Il diritto alla monetizzazione del congedo ordinario (non fruito) matura ogni qualvolta il dipendente non ne abbia fruito (ovvero non abbia potuto disporre e godere delle sue ferie) a cagione di obiettive esigenze di servizio e comunque per cause da lui non dipendenti o a lui non imputabili. Quindi, il divieto di monetizzazione delle ferie di cui all’art. 5, comma 8, d.l. 06.07.2012 n. 95 va interpretato nel senso che tale disciplina non pregiudica il diritto alle ferie ove prevede che non si possano corrispondere in nessun caso trattamenti economici sostitutivi, giacché correla il contestato divieto a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentono di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo, sicché la norma in parola va interpretata come diretta a reprimere il ricorso incontrollato alla monetizzazione delle ferie non godute, contrastandone gli abusi, e a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie, per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro, senza arrecare pregiudizio al lavoratore incolpevole.
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Il ricorso è fondato.
La monetizzazione delle ferie non godute è stata, di recente, oggetto di intervento legislativo relativamente recente atto a vietare l’applicazione dell’istituto in avvenire per esigenze di carattere finanziario.
L’art. 5, comma 8, del d.l. 95 del 2012, convertito con modificazioni dalla legge 07.08.2012, n. 135, prevede che “Le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 2, della legge 31.12.2009, n. 196, nonché delle autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob), sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. La presente disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età. Eventuali disposizioni normative e contrattuali più favorevoli cessano di avere applicazione a decorrere dall’entrata in vigore del presente decreto. La violazione della presente disposizione, oltre a comportare il recupero delle somme indebitamente erogate, è fonte di responsabilità disciplinare ed amministrativa per il dirigente responsabile. Il presente comma non si applica al personale docente e amministrativo, tecnico e ausiliario supplente breve e saltuario o docente con contratto fino al termine delle lezioni o delle attività didattiche, limitatamente alla differenza tra i giorni di ferie spettanti e quelli in cui è consentito al personale in questione di fruire delle ferie.“
La giurisprudenza amministrativa ha, tuttavia, inteso la norma sopra citata nel senso che “Il diritto alla monetizzazione del congedo ordinario (non fruito) matura ogni qualvolta il dipendente non ne abbia fruito (ovvero non abbia potuto disporre e di godere delle sue ferie) a cagione di obiettive esigenze di servizio e comunque per cause da lui non dipendenti o a lui non imputabili. Quindi, il divieto di monetizzazione delle ferie di cui all'art. 5, comma 8, d.l. 06.07.2012 n. 95 va interpretato nel senso che tale disciplina non pregiudica il diritto alle ferie ove prevede che non si possano corrispondere in nessun caso trattamenti economici sostitutivi, giacché correla il contestato divieto a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentono di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo, sicché la norma in parola va interpretata come diretta a reprimere il ricorso incontrollato alla monetizzazione delle ferie non godute, contrastandone gli abusi, e a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie, per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro, senza arrecare pregiudizio al lavoratore incolpevole” (TAR Roma, (Lazio) sez. I, 10/02/2020, n. 1712).
Nel caso di specie, il ricorrente, pur avendo manifestato in maniera inequivocabile la volontà di usufruire del residuo periodo di ferie per l’anno 2013, non è stato materialmente posto nella condizione di beneficiarne. Tanto è accaduto perché, in maniera inaspettata, il ricorrente è stato portato a conoscenza, solo in data 10.12.2013, dell’abbassamento delle note caratteristiche, circostanza che ha determinato il suo collocamento obbligatorio in congedo.
La mancata fruizione dei 36 giorni di ferie è pertanto dipesa da un evento non imputabile a colpa del dipendente. In presenza di queste circostanze, il diniego opposto dall’amministrazione alla monetizzazione del congedo ordinario non fruito è connotato da illegittimità non essendosi tenuto conto della non imputabilità della mancata fruizione del congedo ordinario da parte del ricorrente.
Alla stregua delle argomentazioni che precedono, il ricorso è accolto; ne consegue l’annullamento del provvedimento impugnato e l’accertamento del diritto del ricorrente (dei suo eredi) a conseguire la monetizzazione di 36 giorni di ferie non godute relativamente all’anno 2013 (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 24.02.2021 n. 326 - massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: P. L. Portaluri, Pensieri scomposti sugli incarichi dirigenziali (24.02.2021 - tratto da www.federalismi.it).
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Abstract: Il tema degli incarichi dirigenziali si muove su un crinale indeterminato tra pubblico e privato. Nonostante l’orientamento ormai noto e granitico della Cassazione, resta invero irrisolto il problema della loro esclusiva funzionalizzazione alla cura degli interessi pubblici, che ne esclude la loro equiparazione a uffici di diritto comune.
Ciò rileva non solo nell’ambito della nomina e della revoca di questi incarichi, ancora caparbiamente radicate nell’ambito giuslavoristico e invece meglio confacenti al genus degli atti amministrativi, ma anche nell’ambito della responsabilità e del danno erariale. Gli aspetti che legano inestricabilmente la dirigenza agli interessi pubblici rendono pertanto ancor oggi il giudice ordinario poco attrezzato nel tutelare le posizioni giuridiche che si avvicendano nelle controversie concernenti gli incarichi dirigenziali: lo scritto riflette –nel solco di attenta dottrina– sulla opportunità di radicare la giurisdizione innanzi al Giudice amministrativo.
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Sommario: 1. Revoca degli incarichi dirigenziali: i profili dubbi. 2. Riflessi giurisdizionali della privatizzazione del pubblico impiego. 3. L’incarico dirigenziale tra ius commune e ius publicum. 4. Sulla natura pubblica della revoca (e del conferimento) degli incarichi dirigenziali. 5. L’interesse pubblico quale elemento decisivo per la natura giuridica degli incarichi e per le forme di tutela.

gennaio 2021

PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing: presupposti.
L’elemento oggettivo della fattispecie del mobbing è integrato dai ripetuti soprusi legati tra loro dall’intento persecutorio nei confronti della vittima (Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 19.01.2021 n. 591 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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11.1 Lamenta il ricorrente di aver subìto nel tempo atti e comportamenti vessatori, alcuni dei quali concretizzatisi nella dequalificazione delle mansioni, ad opera dei vari Dirigenti o comunque dei superiori gerarchici succedutisi ai vertici del Reparto di appartenenza. In altri termini, nei suoi confronti sarebbe stata portata avanti una strategia complessiva da una pluralità di soggetti, finalizzata a danneggiarlo ed isolarlo dal contesto, integrante gli estremi del cosiddetto mobbing.
12. L'individuazione della cornice definitoria del fenomeno, in assenza di indicazioni normative, è ormai agevolata dai numerosi arresti giurisprudenziali, penali, civili, amministrativi e contabili, sostanzialmente convergenti verso l’enucleazione di principi comuni.
La Sezione ritiene sufficiente qualche cenno al riguardo, onde attualizzare il paradigma giuridico rispetto alla già chiara ricostruzione del Tar, allo scopo di valutare la correttezza della valutazione effettuata di insussistente sovrapponibilità degli accadimenti in esame rispetto allo stesso. Il Giudice amministrativo ha dunque confermato, con considerazioni cui ci si riporta, che “l’elemento oggettivo della fattispecie del mobbing è integrato dai ripetuti soprusi legati tra loro dall'intento persecutorio nei confronti della “vittima”” (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 07.02.2019, n. 910).
La tradizionale distinzione tra c.d. mobbing verticale o bossing, e c.d. mobbing orizzontale, in ragione del soggetto attuatore delle condotte vessatorie (il superiore gerarchico o un collega), nel caso di specie parrebbe non rilevare, venendo in evidenza entrambe le componenti. Il ricorrente, infatti, non si diffonde nella ricerca delle responsabilità soggettive, con ciò accomunando nella narrazione condotte e atti posti in essere da autori diversi per i quali la riconducibilità ad un unitario disegno persecutorio appare tutt’altro che provata.
13. Il Collegio rileva, infatti, come sotto il profilo dell’elemento psicologico si renda necessario che gli accadimenti siano tutti sussumibili sotto l’egida unificante del dolo generico o specifico di danneggiare psicologicamente la personalità del lavoratore, emarginandolo, sulla base di un’unica strategia. Singoli atti riconducibili all’ordinaria dinamica del rapporto di lavoro, perfino se conflittuale a cagione di antipatia, sfiducia, scarsa stima professionale, ove non caratterizzati da tale volontà, non assumono rilievo nella necessaria visione d’insieme del fenomeno. La ricorrenza di un’ipotesi di condotta mobbizzante deve essere pertanto esclusa allorquando la valutazione complessiva dell'insieme di circostanze addotte ed accertate nella loro materialità, pur se idonea a palesare singulatim elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il richiamato carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 15.10.2018, n. 5905).
Nelle premesse, l’appellante ripercorre i profili della vicenda esaminati dal verificatore nel corso del giudizio di prime cure al fine di coglierne pretesi errori, ma l’intento che ispira la parte non può dirsi raggiunto avendo l’istruttoria disposta dal Tar consentito di appurare l’inconsistenza degli episodi enumerati nel ricorso originario al fine di integrare la prospettata condotta mobbizzante. A nulla rileva la circostanza, evidenziata in appello, del mancato compiuto godimento del periodo di congedo straordinario, comunque consentito dall’Ufficio così come non si evince l’effettivo pregiudizio patito dal ricorrente per effetto della mancata iniziativa assunta dall’Ufficio ai fini dell’invio della pratica alla Commissione Medica Ospedaliera (mancanza alla quale ha sopperito lo stesso ricorrente) o al difetto di informazione in ordine alla indizione degli interpelli nel periodo in cui il dipendente era in malattia.
14. Chiarito quanto sopra, il Collegio può passare a vagliare la complessa vicenda sottesa alle deduzioni del ricorrente, avuto riguardo peraltro alla dualità delle richieste avanzate: in primo luogo, il danno da quello da mobbing; indi da mancata adozione delle misure a tutela della salute del lavoratore.
Ora, è noto che l’analisi del mobbing, per la particolare sensibilità della relativa tematica, impone al giudice di evitare di assumere acriticamente l’angolo visuale prospettato dal lavoratore che asserisce di esserne vittima: da un lato, infatti, è possibile che i comportamenti del datore di lavoro (cui siano imputabili in ipotesi le condotte illecite di altri dipendenti) non siano tali da provocare significative sofferenze e disagi, se non in personalità dotate di una sensibilità esasperata o addirittura patologica; dall’altro, che gli atti relativi siano di per sé ragionevoli e giustificati, in quanto indotti da comportamenti reprensibili dello stesso interessato, ovvero da sue carenze sul piano lavorativo, o da difficoltà caratteriali.
In altre parole, non si deve sottovalutare l’ipotesi che l’insorgere di un clima di cattivi rapporti umani e l’insorgere di comportamenti oggettivamente sgraditi derivi, almeno in parte, anche da responsabilità dell’interessato; tale ipotesi può, anzi, essere empiricamente convalidata dalla considerazione che diversamente non si spiegherebbe perché solo un determinato individuo percepisca come ostile una situazione che invece i suoi colleghi trovano normale, pur non essendo tale. Tale cautela di giudizio si impone particolarmente quando l’ambiente di lavoro presenta delle peculiarità, come nel caso delle Amministrazioni militari o gerarchicamente organizzate, quali i Corpi di Polizia, caratterizzate per definizione da una severa disciplina e nelle quali non tutti i rapporti possono essere amichevoli, non tutte le aspirazioni possono essere esaudite, non tutti i compiti possono essere piacevoli e non tutte le carenze possono essere tollerate.
L’appellante, conseguita la qualifica di Assistente Capo in data 28.08.2003, valorizza una serie di episodi asseritamente idonei ad integrare una vera e propria condotta persecutoria ai suoi danni a decorrere dal mese di luglio 2006 per circa un biennio, che tuttavia appaiono slegati fra di loro invece che essere avvinti da quel filo conduttore che consenta di riconfigurarli quali tasselli di una fattispecie complessa. Come rammentato, di recente, dalla Sezione (sentenza 11.03.2020, n. 1746), per costante e condivisa giurisprudenza (ex aliis Cassazione civile, sez. lav., 11.12.2019, n. 32381) “il mobbing lavorativo è configurabile ove ricorrano due elementi: quello oggettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo, integrato dall'intendimento persecutorio del datore medesimo; quest'ultimo richiede che siano posti in essere atti, contro la vittima, in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente dal datore o di un suo preposto o di altri dipendenti, comunque sottoposti al potere gerarchico dei primi due”. E’ proprio tale indefettibile elemento soggettivo che non trova in alcun modo riscontro negli atti di causa.
Per quanto riguarda poi l’asserito demansionamento, questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare (v. da ultimo, Cons. Stato, sez. III, 27.02.2019, n. 1371) che “il prestatore di lavoro, che chiede la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita (lesione idonea a determinare la dequalificazione del dipendente stesso), deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa (ex multis,Cass. Civ. sez. lav., 05.12.2008, n. 28849)”.
A fronte di ciò parte appellante si limita ad affermare che il mancato rispetto dell’assetto mansionistico di riferimento si sarebbe verificato “in svariate occasioni” senza tuttavia esporre un quadro fattuale più dettagliato, anche di tipo probatorio, anzi invocando l’applicazione del “principio di cui all’art. 116 c.p.c.” (cfr. pagina 14 dell’appello). Ora, a prescindere dalla effettiva ricaduta applicativa di tale principio nel processo amministrativo (in tema, Cons. Stato, sez. VI, 27.02. 2018, n. 1160, secondo cui “il principio di “non contestazione” di cui agli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. trova nel processo amministrativo di legittimità un’applicazione temperata dalla particolare struttura di quest’ultimo, che di regola fa seguito ad un procedimento amministrativo, le cui risultanze, tradotte nei relativi atti, vanno tenute per ferme, quanto meno sino a prova contraria”) è fuor di dubbio che, in caso di proposizione di domanda risarcitoria, l’onere della prova incombe sull’istante secondo il principio generale previsto dall’art. 2697 c.c. (Cons. Stato, sez. III, 24.12.2019, n. 8813).
Nel caso di specie, alla luce di quanto innanzi esposto, non risulta integrata la prova della sussistenza del danno, né degli specifici aspetti riconducibili a responsabilità del datore di lavoro pubblico, che avrebbero privato il lavoratore dello svolgimento di uno o più dei profili mansionistici afferenti alla propria qualifica, tali da potersi ricollegare causalmente ad un danno subìto e che, come si è detto, è rimasto non provato. Parte appellante insiste nel ritenere di essere stato indebitamente adibito al servizio di sentinella ancorché esso, all’esito dell’istruttoria, non sia risultato estraneo alle proprie mansioni e comunque non può escludersi che si sia palesata l’esigenza di provvedere, peraltro per un ristretto arco temporale, all’adibizione del ricorrente al suo espletamento.
15. Parte appellante insiste, altresì, per la domanda di risarcimento del danno per la mancata adozione delle misure necessarie alla tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore ai sensi dell’art. 2087 c.c. evidenziando l’alterità di tale istanza rispetto a quella di risarcimento del danno per mobbing.
Per vero, l’art. 2087 c.c. –secondo cui il datore di lavoro è tenuto ad adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro– può trovare applicazione anche al di fuori delle ipotesi di mobbing. Ove il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall'interessato e quindi della configurabilità di una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati —esaminati singolarmente, ma sempre in sequenza causale— pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili (Cons. Stato, sez. VI, 12.03.2015, n. 1282).
Orbene, la domanda risarcitoria postula però la lesione dell’integrità psico-fisica del lavoratore di cui non vi è traccia negli atti di causa. Anche tale domanda va quindi respinta.
16. Va infine disattesa l’istanza di indagine medico legale sull’effettivo stato di salute del dipendente sia perché non viene in considerazione alcun evento potenzialmente traumatico in grado di autonomamente inficiare l’integrità psico-fisica dell’appellante sia perché il giudice non può sopperire al mancato espletamento dell’onere probatorio, come detto, incombente alla parte ricorrente in caso di proposizione di domanda risarcitoria.
11. In conclusione, l’appello è infondato e deve essere respinto.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA – DIRITTO PROCESSUALE – Assenza ingiustificata dal servizio – Falsa attestazione della presenza in servizio di un dipendente della P.A. – Art. 55-quater D.Lgs. 165 del 2001 – Art. 55-quinquies D.Lgs. n. 165 del 2001 – Art. 16, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 75 del 2017 – Effetti della sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p. – Prova di tipo presuntivo – Art. 651 c.p.p.
Al fine di valutare la sussistenza della responsabilità erariale, la giurisprudenza contabile ha ripetutamente affermato che la sentenza di patteggiamento emessa in sede penale ha un valore probatorio qualificato, pur non essendo precluso al giudice contabile l’accertamento e la valutazione dei fatti in modo difforme da quello contenuto nella sentenza resa ai sensi dell’art. 444 c.p.p.; tale valore è, di conseguenza, superabile solo attraverso specifiche prove contrarie.
Va considerato, infatti, che il giudice penale, prima di applicare la pena su richiesta della parte, deve verificare di non dovere pronunciare sentenza di proscioglimento dell’imputato a norma dell’art. 129 c.p.p., ove il fatto non sussista ovvero per altri motivi sussumibili in altre formule assolutorie.
Pertanto, pur non essendo assistita dall’efficacia vincolante che deriva dalle sentenze emesse a seguito di dibattimento ex art. 651 c.p.p., la sentenza ex art. 444 c.p.p. costituisce una prova di tipo presuntivo, la cui eventuale affermazione di irrilevanza obbliga il giudice contabile a dare ampia motivazione sulle ragioni per le quali l’imputato abbia chiesto di essere condannato e il giudice penale non abbia disposto il proscioglimento in assenza della responsabilità penale.
Ciò è confermato dalla costante giurisprudenza della Cassazione, che ha affermato che la sentenza penale di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p. costituisce un indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito.

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DANNO ERARIALE – Danno all’immagine della P.A. – Danno non patrimoniale – Art. 2059 c.c. – Lesione dei principi di imparzialità e di buon andamento della P.A. ex art. 97 Cost. – Quantificazione del danno all’immagine – Art. 155, comma 2, c.p.c. – Art. 2727 c.c.
La lesione del diritto della P.A. all’integrità della propria immagine è causa di danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c. sia sotto il profilo della sua reputazione presso i consociati in genere o presso quei settori con i quali l’Ente interagisce, sia sotto il profilo dell’incidenza negativa che la sminuita considerazione cagiona nell’agire dei suoi organi. La tutela dell’immagine è strettamente connessa al rispetto dei princìpi di imparzialità e di buon andamento della P.A. sanciti dall’art. 97 Cost.
Secondo la giurisprudenza contabile, pertanto, la violazione del diritto alla reputazione della P.A., pur trattandosi di un danno non patrimoniale, può essere oggetto di valutazione economica, concretizzandosi determinando un onere finanziario a carico della collettività.
Per quanto concerne, poi, la quantificazione di tale danno –da compiersi in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c.– i parametri nel giudizio contabili debbono essere forniti dall’attore pubblico. In aggiunta, il giudice può avvalersi anche dei fatti notori (ex art. 115, comma 2, c.p.c.) e delle presunzioni (ex art. 2727 ss. c.c.)
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Sicilia, sentenza 13.01.2021 n. 38 - link a www.ambientediritto.it).

dicembre 2020

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOTroppe pause caffè? È truffa continuata ma il reato è impunito se il danno alla Pa è lieve.
Particolare tenuità del fatto applicabile anche al reato continuato, se il pregiudizio, da calcolare in base allo stipendio, non è rilevante e manca una propensione al crimine da parte degli amanti del break al bar.

Lo stipendio basso evita agli impiegati della pubblica amministrazione, habitué della pausa caffè al bar, di essere puniti per truffa continuata. A far scattare, malgrado la continuità, la possibilità di applicare la norma sulla particolare tenuità del fatto (articolo 131-bis del Codice penale) il danno lieve provocato e la scarsa propensione al crimine.
Nel caso esaminato il reato era prescritto, ma la Cassazione (
Sez. II penale, sentenza 31.12.2020 n. 37913) analizza comunque la condotta prendendo le distanze dalla decisione della Corte d’appello che aveva condannato per truffa continuata alcuni impiegati di una prefettura.
Le violazioni ripetute
Ai patiti del coffee break in un bar di fronte al luogo di lavoro, era stata contestata un’assenza di circa 16 ore per un totale di circa 140 euro, calcolati in base alla retribuzione degli impiegati che uscivano senza passare il badge. Per la Suprema corte la sentenza della Corte d’Appello era contraddittoria per più ragioni: gli episodi erano stati contestati come singoli fatti di reato però era stata affermata la continuazione. In più era stata negata la particolare tenuità del fatto perché le condotte, in quanto reiterate, potevano essere definite abituali. Circostanza questa che, ad avviso dei giudici territoriali, avrebbe impedito di riconoscere la non punibilità.
L’apprezzabilità del danno
Per quanto riguarda l’apprezzabilità del danno, da tarare sullo stipendio, la Suprema corte ricorda che la truffa si doveva ritenere consumata al momento della percezione della retribuzione, quindi gli episodi andavano spalmati su più mensilità. Sbagliato anche il presupposto in base al quale era stato negato il beneficio previsto dall’articolo 131-bis. Secondo la giurisprudenza della Suprema corte più recente, infatti, la continuità tra i reati non rappresenta più, in astratto, un ostacolo insormontabile.
Il giudice deve valutare se la condotta sia la manifestazione di una situazione episodica, se la lesione dell’interesse tutelato è minimale, oltre alla gravità del reato e alla capacità delinquenziale di chi lo commette. Considerazioni che giocano a favore dei ricorrenti, la cui ammissibilità del ricorso consente di affermare anche la prescrizione del reato.
Anche nella sua complessità il danno era tenue, malgrado il Pm avesse fissato la soglia massima di “tolleranza” in 50 euro, e certo la caratura criminale dei patiti della moka non era un elemento che li qualificava.
Visto il metro utilizzato per calcolare il danno magari con le pause caffè reiterate qualche rischio in più lo possono correre i dirigenti che hanno un stipendio più pesante (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.01.2021).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: È truffa ai danni dello Stato l’allontanamento arbitrario dal posto di lavoro per la pausa caffè.
Pronunciandosi sul ricorso proposto avverso la sentenza con cui la Corte d’appello, confermando il giudizio di responsabilità penale nei confronti di quattro impiegati di una Prefettura per il reato di truffa ai danni dello Stato, la Corte di Cassazione –nel ritenere non manifestamente infondati i motivi di ricorso proposti dagli imputati- ha dichiarato estinto per prescrizione il reato ascritto a ciascuno degli impiegati, ribadendo che nell'ipotesi di truffa, consistente nella fraudolenta percezione di emolumenti mensili, il reato si consuma all'atto della riscossione e non quando, per effetto della frode, viene illegittimamente a maturazione il diritto alla riscossione.
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2.1.1 Partendo dal ricorso proposto nell'interesse del Fl., va rilevato, in primo luogo, come non possa ritenersi manifestamente infondato il primo motivo con cui il ricorrente ha lamentato violazione di legge e vizio di motivazione sul profilo della "apprezzabilità" del pregiudizio patrimoniale cagionato dalla propria condotta al datore di lavoro; a tal proposito, non diversamente da quanto aveva segnalato con l'atto di appello, la difesa rileva come la contestazione avesse avuto ad oggetto una serie di episodi di allontanamento dal posto di lavoro della durata di pochi minuti ciascuno connessi alla "pausa caffè" da consumare presso il bar antistante la Prefettura e per un tempo stimato complessivamente in 16 ore corrispondenti a 140 Euro di retribuzione; aggiunge che i singoli episodi erano stati contestati come singoli fatti di reato mentre la truffa avrebbe dovuto semmai ritenersi consumata al momento della percezione della retribuzione mensile (comprensiva della quota in ipotesi non dovuta) e, nel caso di specie, corrispondenti alla percezione delle cinque mensilità interessate nell'ambito delle quali i singoli allontanamenti avrebbero dovuto essere sommati; di qui, secondo il ricorrente, la contraddittorietà della motivazione che, da un lato, ha considerato i singoli allontanamenti come singole ipotesi di reato per poi parametrare il danno patrimoniale subito dalla PA in quello complessivamente considerato non tenendo conto, invece, che esso avrebbe dovuto essere stimato in una media mensile di Euro 28,00 mentre ogni singolo allontanamento, sulla scorta della retribuzione oraria percepita, sarebbe stato corrispondente ad un importo di Euro 3,00.
Ebbene, i fatti sono stati considerati effettivamente in termini di truffa "continuata" e, come tali, sanzionati dal Tribunale che aveva operato un doppio aumento avendo ritenuto la continuazione con il diverso reato di cui all'art. 55-quinquies del D.Lg.vo 165 del 2001 ma, anche, la continuazione "interna" tra i singoli episodi.
A fronte dei rilievi difensivi, la Corte di Appello (cfr., pag. 113 della sentenza impugnata) ha sostenuto che la S.C., quando ha parlato della necessaria esistenza di un danno "apprezzabile", non ha in realtà individuato una "soglia" di punibilità né, a suo avviso, tale poteva essere ritenuta la "soglia" utilizzata dal PM per selezionare le posizioni da archiviare e che era stata fissata in 10 Euro; fatta questa premessa, ha chiarito che "... un danno non apprezzabile può essere ritenuto nei casi di assenza francamente limitate al massimo nel complesso ad alcun ore, indicativamente pari ad una retribuzione inferiore ai 50 Euro" (cfr., ivi).
In tal modo, perciò, da un lato ha valutato le assenze contestate come singole ipotesi di reato salvo, poi, quantificare il pregiudizio patrimoniale arrecato alla P.A. "accorpando" e "cumulando" tutte le assenza per ciascuno degli imputati nell'intero arco di tempo vagliato nel corso delle indagini e considerato nella imputazione e, perciò, superiore al limite indicato.
Il motivo di ricorso, pertanto, non può certamente essere considerato "manifestamente infondato" meritando considerazione anche alla luce del richiamato orientamento di questa stessa Corte secondo cui nell'ipotesi di truffa, consistente nella fraudolenta percezione di emolumenti mensili, il reato si consuma all'atto della riscossione e non quando, per effetto della frode, viene illegittimamente a maturazione il diritto alla riscossione (cfr., Cass. Pen., 5, 30.05.1985 n. 8.296, Burolo).
2.1.2 Né, del pari, manifestamente infondato può ritenersi il secondo motivo del ricorso del Fl. con cui la difesa del ricorrente denunzia violazione di legge con riguardo al disposto di cui all'art. 131-bis cod. pen..
Rileva, infatti, come la Corte di Appello abbia respinto la richiesta difensiva ritenendo che si fosse in presenza di condotte reiterate e pertanto abituali e, in particolare, sulla scorta di un precedente non conferente al caso di specie segnalando inoltre, l'esistenza, sul punto, di un contrasto in giurisprudenza sulla possibilità di applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen.
Ebbene, la Corte di Appello, replicando a tutti gli imputati che avevano avanzato richiesta di applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen., ha replicato (cfr., pagg. 138-139 della sentenza impugnata) sostenendo di dover condividere la decisione del Tribunale "poiché in tutti i casi trattati ci si trova di fronte a condotte reiterate che possono ben essere definite abituali (...)".
La motivazione della sentenza si lega, in realtà, alla questione esaminata in precedenza e, in particolare, alla qualificazione dei singoli episodi come singole e specifiche ipotesi di reato tra le quali è stato ravvisato il vincolo della continuazione che, secondo alcune decisioni di questa Corte, non consentirebbe di ritenere la causa di non punibilità in esame per essersi in presenza di una condotta "abituale" (cfr., Cass. Pen., 5, 14.11.2016 n. 4.852, De Marco; Cass. Pen., 2, 15.11.2016 n. 1, Cattaneo; Cass. Pen., 2, 05.04.2017 n. 28341, Modon; Cass. Pen., 5, 15.05.2017 n. 48352, PG in proc. Mogoreanu; Cass. Pen., 1, 24.10.2017 n. 55450, Greco; Cass. Pen., 6, 13.12.2017 n. 3353, Lesmo ed altro).
Quest'ultima affermazione, nella sua assolutezza, è certamente discutibile alla luce del più recente e condivisibile orientamento della Corte secondo cui la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis cod. pen. può ben essere ritenuta anche in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, purché non espressivi di una tendenza o inclinazione al crimine (cfr., Cass. Pen., 2, 06.06.2018 n. 41011, Ba Elhadji, in cui la Corte ha precisato che occorre soppesare l'incidenza della continuazione in tutti i suoi aspetti, quali gravità del reato, capacità a delinquere, precedenti penali e giudiziari, durata temporale della violazione, numero delle disposizioni di legge violate, effetti della condotta antecedente, contemporanea o susseguente al reato, interessi lesi o perseguiti dal reo e motivazioni -anche indirette- sottese alla condotta; conf., Cass. Pen., 2, 07.02.2018 n. 9495, PG in proc. Grasso; Cass. Pen., 5. 26.03.2018 n. 32626, P.; Cass. Pen., 4, 11.12.2018 n. 4649, PG in proc. Xhafa; Cass. Pen., 2, 10.09.2019 n. 42579, D'Ambrosio; Cass. Pen., 4, 13.11.2019 n. 10111, PG in proc. De Angelis; Cass. Pen., 2, 27.01.2020 n. 11591, T.)
In altri termini, si è affermato il principio per cui, di per sé solo, il fatto che il reato per il quale si chieda il riconoscimento della causa di non punibilità sia stato posto in continuazione con altri non osta, in astratto, alla operatività dell'istituto dovendosi tuttavia valutare, anche alla luce del suo inserimento in un contesto più articolato, se la condotta in esame sia espressione di una situazione episodica, se la lesione all'interesse tutelato sia comunque minimale e, in definitiva, se il "fatto" nella sua complessità, sia meritevole di un apprezzamento in termini di speciale tenuità.
Va ricordato che il giudizio sulla tenuità del fatto, quale presupposto per la applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen., richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell'art. 133, primo comma, (quindi sotto il profilo della oggettività della condotta) cod. pen., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell'entità del danno o del pericolo (cfr., Cass. SS.UU., 25.02.2016 n. 13681, Tushaj); per altro verso, si è chiarito che, pur dovendosi far riferimento agli indici di cui all'art. 133 cod. pen., non è necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione ivi previsti, essendo sufficiente l'indicazione di quelli ritenuti rilevanti (cfr., Cass. Pen., 6, 08.11.2018 n. 55107, Milone) e che è da ritenersi adeguata la motivazione che dia conto dell'assenza di uno soltanto dei presupposti richiesti dall'art. 131-bis ritenuto, in quanto giudicato, evidentemente, decisivo (cfr., Cass. Pen., 3, 18.06.2018 n. 34.151, Foglietta).
Da ultimo, si è pure chiarito che la motivazione con la quale si neghi la applicazione della causa di non punibilità può risultare anche implicitamente dall'argomentazione con la quale il giudice d'appello abbia considerato gli indici di gravità oggettiva del reato e il grado di colpevolezza dell'imputato, alla stregua dell'art. 133 cod. pen., per stabilire la congruità del trattamento sanzionatorio irrogato dal giudice di primo grado (cfr., Cass. Pen., 5, 14.12.2018 n. 15658, D.; Cass. Pen., 5, 08.03.2017 n. 24780, Tempera, in cui la Corte ha ritenuto infondato il motivo di ricorso relativo all'assenza di motivazione in ordine alla causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen., ravvisando nel passaggio della motivazione della sentenza della corte di appello relativo alla sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 61, n. 1, cod. pen., che l'appellante chiedeva di escludere, un'implicita esclusione della particolare tenuità del fatto; conf., ancora, Cass. Pen., 3, 11.10.2016 n. 48317, Scopazzo).
Ecco, allora, che la motivazione della Corte di Appello può effettivamente prestarsi a rilievi di inadeguatezza che non possono di certo ritenersi manifestamente infondati (Corte di Cassazione, Sez. II penale, sentenza 31.12.2020 n. 37913).

novembre 2020

PUBBLICO IMPIEGO: Tutela delle condizioni di lavoro.
In tema di comportamenti datoriali discriminatori, l’art. 40 del d.lgs. 11.04.2006, n. 198 –nel fissare un principio applicabile sia nei casi di procedimento speciale antidiscriminatorio che di azione ordinaria, promossi dal lavoratore ovvero dal consigliere di parità– non stabilisce un’inversione dell’onere probatorio, ma solo un’attenuazione del regime probatorio ordinario, prevedendo a carico del soggetto convenuto, in linea con quanto disposto dall’art. 19 della Direttiva CE n. 2006/54, l’onere di fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, ma ciò solo dopo che il ricorrente abbia fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, relativi ai comportamenti discriminatori lamentati, purché idonei a fondare, in termini precisi (ossia determinati nella loro realtà storica) e concordanti (ossia fondati su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto), anche se non gravi, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso (TRIBUNALE di Roma, Sez. I, sentenza 06.11.2020 n. 7274 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).

ottobre 2020

PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing: contenzioso e onere della prova.
In tema di mobbing, spetta al lavoratore, ex art. 2697 c.c., fornire la prova della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro, della molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, dell’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente, del nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore, nonché la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio (TRIBUNALE di Mantova, Sez. lavoro, sentenza 28.10.2020 n. 103 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Non è demansionamento la mancata conferma di un incarico di P.O..
«In tema di lavoro pubblico negli enti locali, il conferimento di una posizione organizzativa non comporta l'inquadramento in una nuova categoria contrattuale ma unicamente l'attribuzione di una posizione di responsabilità, con correlato beneficio economico. Ne consegue, in termini generali, che la revoca di questa posizione non costituisce demansionamento e non rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 2103 del codice civile e del l'art. 52 del Dlgs 165/2001, trovando applicazione il principio di turnazione degli incarichi, in forza del quale alla scadenza il dipendente resta inquadrato nella categoria di appartenenza, con il relativo trattamento economico».
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con l'ordinanza 15.10.2020 n. 22405.
Il conferimento di un incarico di posizione organizzativa è possibile esclusivamente per situazioni tipizzate, descritte nel contratto, può essere concesso solo a termine, è connotato da una specifica retribuzione variabile, in quanto sottoposta alla logica del programma da attuare e del risultato ed è, infine, revocabile.
Pertanto, il rinnovo delle posizioni organizzative costituisce una facoltà del datore di lavoro pubblico, che, se ritiene di provvedere in tal senso, deve parimenti disporlo con atto scritto e motivato; pertanto, mentre l'eventuale revoca dell'incarico prima della scadenza richiede un atto scritto e motivato e può essere disposta soltanto in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di uno specifico accertamento di risultati negativi, la cessazione dell'incarico conferito alla sua naturale scadenza non obbliga l'amministrazione ad una qualsivoglia motivata determinazione (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 29.10.2020).
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SENTENZA
13. Il secondo ed il quarto motivo di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente per la loro connessione, sono fondati, con conseguente assorbimento del terzo motivo, che sostanzialmente prospetta le medesime questioni sotto il profilo del vizio di motivazione.
14. Per il comparto regioni ed autonomi e locali, il CCNL del 31.03.1999, di revisione del sistema di classificazione professionale, introduceva (con l'articolo 3) l'inquadramento del personale non dirigenziale in quattro categorie, progressivamente dalla lettera A alla lettera D, prevedendo per il personale della categoria D la istituzione di un'area delle posizioni organizzative, secondo la disciplina degli articoli 8 e seguenti. Di qui il superamento del sistema delle qualifiche funzionali ed il re-inquadramento del personale in servizio secondo le previsioni di corrispondenza della tabella C allegata al contratto (articolo 7).
15. Ai sensi del richiamato articolo 8, comma 1, le posizioni organizzative costituiscono posizioni di lavoro che richiedono, con assunzione diretta di elevata responsabilità di prodotto e di risultato: lo svolgimento di funzioni di direzione di unità organizzative di particolare complessità (lettera a); lo svolgimento di attività con contenuti di alta professionalità e specializzazione (lettera b); lo svolgimento di attività di staff e/o di studio, ricerca, ispettive, di vigilanza e controllo caratterizzate da elevate autonomia ed esperienza (lettera c).
A tenore del successivo comma due, tali posizioni— che non coincidono necessariamente con quelle già retribuite con l'indennità di cui all'art. 37, comma 4, del CCNL del 06.07.1995— possono essere assegnate esclusivamente a dipendenti classificati nella categoria D, sulla base e per effetto di un incarico a termine conferito in conformità alle regole di cui all'art. 9.
16. Secondo tali regole, gli incarichi relativi all'area delle posizioni organizzative sono conferiti dai dirigenti per un periodo massimo non superiore a 5 anni, con atto scritto e motivato e possono essere rinnovati con le medesime formalità. Gli incarichi possono essere revocati prima della scadenza con atto scritto e motivato, in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di risultati negativi (articolo 9, commi 1 e 3).
17. Alla attribuzione dell'incarico è collegato un trattamento economico accessorio, composto dalla retribuzione di posizione e dalla retribuzione di risultato (articolo 10).
18.11 CCNL del Comparto delle regioni e delle autonomie locali del successivo quadriennio normativo 2002-2005, prevede che: «Gli enti valorizzano le alte professionalità del personale della categoria D mediante il conferimento di incarichi a termine nell'ambito della disciplina dell'art. 8, comma 1, lett., b) e c), CCNL 31.03.1999 e nel rispetto di quanto previsto dagli artt. 9, 10 e 11 del medesimo CCNL» (art. 10, comma 1).
19. Tale disciplina è rimasta in vigore ai sensi dell'articolo 1, comma 5, del CCNL 2006/2009, dell'11.04.2008.
20. Questa Corte ha già precisato, in tema di lavoro pubblico negli enti locali, che il conferimento di una posizione organizzativa non comporta l'inquadramento in una nuova categoria contrattuale ma unicamente l'attribuzione di una posizione di responsabilità, con correlato beneficio economico.
Ne consegue, in termini generali, che la revoca di tale posizione non costituisce demansionamento e non rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 2103 c.c. e del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 52, trovando applicazione il principio di turnazione degli incarichi, in forza del quale alla scadenza il dipendente resta inquadrato nella categoria di appartenenza, con il relativo trattamento economico (Cass. 25.10.2019, n. 27384; Cass. 10.07.2019 nr. 18561; Cass. 30.03.2015, n. 6367).
21. Anche le Sezioni Unite, ai fini del riparto di giurisdizione, hanno affermato che la posizione organizzativa non determina un mutamento di profilo professionale, che rimane invariato né un mutamento di area, ma comporta soltanto un mutamento di funzioni, le quali cessano al cessare dell'incarico; per quanto riguarda il comparto delle autonomie locali, secondo la disciplina degli articoli 8 e 9 del CCNL stipulato il 31.03.1999, il conferimento dell'incarico di posizione organizzativa è possibile esclusivamente per situazioni tipizzate, descritte nel contratto; può essere concesso solo a termine; è connotato da una specifica retribuzione variabile, in quanto sottoposta alla logica del programma da attuare e del risultato; è, infine, revocabile (Cassazione civile sez. un., 14/04/2010, n. 8836).
22. Parimenti è stato chiarito che il rinnovo delle posizioni organizzative costituisce una facoltà del datore di lavoro pubblico, che, se ritiene di provvedere in tal senso, deve parimenti disporlo con atto scritto e motivato; pertanto mentre l'eventuale revoca dell'incarico prima della scadenza richiede un atto scritto e motivato e può essere disposta soltanto in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di uno specifico accertamento di risultati negativi, la cessazione dell'incarico conferito alla sua naturale scadenza non obbliga l'amministrazione ad una qualsivoglia motivata determinazione (Cassazione civile sez. lav., 10/07/2015, n. 14472).
23. Per quanto accertato nella sentenza impugnata, nella fattispecie di causa si è verificato il mancato rinnovo alla CA. dell'incarico di posizione organizzativa dopo la naturale scadenza, nell'aprile 2008, che dunque non richiedeva alcuna determinazione né motivazione.
24. La Corte territoriale si è discostata dai principi sopra esposti, che in questa sede vanno ribaditi, sul rilievo che la originaria ricorrente era inquadrata nella posizione D3- ex ottava qualifica funzionale; ha infatti ritenuto che a tale inquadramento debba corrispondere la responsabilità di un servizio, responsabilità che nello specifico organigramma della Provincia di Oristano corrispondeva alla titolarità di una posizione organizzativa.
25. Tale conclusione si pone in contrasto con il dettato degli articoli 8 e 9 del CCNL del 31.03.2009. Il disposto dei richiamati articoli esclude ogni possibilità di conseguire— o comunque di mantenere— la posizione organizzativa fuori dalle procedure in essi stabilite. In tal senso è chiaro il tenore testuale del comma due dell'articolo 8.
26. La CA., in quanto dipendente inquadrata nella ex VIII qualifica funzionale, ha avuto accesso alla posizione economica D3 secondo la tabella di corrispondenza allegata al CCNL 31.03.1999.
27. Nel nuovo sistema di classificazione, ai sensi dell'articolo 3 del predetto CCNL, ciascuna categoria individua mansioni professionalmente equivalenti e nel suo ambito sono individuate posizioni differenziate unicamente sotto il profilo economico sicché alla posizione D3 non può attribuirsi alcun rilievo di apicalità in termini di mansioni.
28. La categoria D, secondo la declaratoria riportata nell'allegato A al CCNL, non è caratterizzata, contrariamente a quanto assunto in sentenza, dallo svolgimento di compiti di responsabilità di un servizio, potendo avere un contenuto di tipo tecnico, gestionale o direttivo. Di qui l'infondatezza dell'assunto secondo cui nelle ipotesi in cui nell'organigramma dell'ente locale le posizioni organizzative coincidano con la responsabilità dei servizi sussisterebbe un diritto dei funzionari D3 ad ottenerle.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: 1. Giurisdizione e competenza – Riparto di giurisdizione tra G.O. e C.d.C. – Dipendente pubblico – Attività extralavorative retribuite non autorizzate – Obbligo di riversare le somme al datore – Art. 53, co. 7 e 7-bis, d.lgs. n. 165 del 2001 – Giurisdizione ordinaria e contabile – Riparto – Fattispecie anteriori e successive alla legge n. 190 del 2012 – Giurisdizione contabile in ogni caso.
   2. Giurisdizione e competenza – Riparto di giurisdizione tra G.O. e C.d.C. – Danni erariali – Concorso di azione civile del danneggiato ed azione erariale della Procura contabile – Possibilità – Limiti – Ne bis in idem.
   3. Giudizio contabile e amministrativo – Dipendente pubblico – Dovere di esclusiva - Attività extralavorative retribuite non autorizzate o non autorizzabili – Obbligo di riversare le somme al datore – Art. 53, co. 7 e 7-bis, d.lgs. n. 165 del 2001 – Giurisdizione contabile – Tipologia di giudizio – Ordinario e non sanzionatorio ex artt. 133 segg. d.lgs. n. 174 del 2016.
(d.lgs. 26.08.2016 n. 174, artt. 133 segg.; d.lgs. 30.03.2001 n. 165, art. 53).
   4. Giudizio contabile e amministrativo – Dipendente pubblico – Primario ospedaliero e Professore universitario a tempo pieno - Dovere di esclusiva - Attività extramoenia non consentite – Art. 5 d.lgs. n. 517/1999, art. 6, co. 10, l. n. 240 del 2010 ampliativo dell’art. 11, co. 5, d.P.R. n. 382 del 1980 – Comunicazione al Rettore di attività libero-professionali – Irrilevanza in punto di colpevolezza – Ragioni -– Un atto amministrativo non può derogare a divieto di legge.
   5. Giudizio contabile e amministrativo – Dipendente pubblico – Primario ospedaliero e Professore universitario a tempo pieno - Dovere di esclusiva - Attività extramoenia non consentite – Comunicazione al Rettore di attività libero-professionali – Conoscenza datoriale piena – Conseguenze – Decorrenza prescrizione del credito erariale – Corresponsabilità dei vertici per la prescrizione parziale – Danno residuo imputabile anche ai vertici universitari.
   6. Giudizio contabile e amministrativo – Dipendente pubblico – Primario ospedaliero e professore universitario a tempo pieno - Dovere di esclusiva - Attività libero-professionali vietate – Danno erariale ex art. 53, co. 7, d.lgs. n. 165 – Sussiste – Danno ulteriore da differenze stipendiali tra tempo pieno e tempo definito – Cumulabilità - Sussiste.
   7. Giudizio contabile e amministrativo – Dipendente pubblico – Dovere di esclusiva - Attività extralavorative retribuite non autorizzate – Obbligo di riversare le somme al datore – Art. 53, co. 7 e 7-bis, d.lgs. n. 165 del 2001 – Computo al netto e non al lordo – Ragioni – Vi è stato già prelievo fiscale e previdenziale.
   8. Giudizio contabile e amministrativo – Responsabilità amministrativo-contabile – Elemento soggettivo – Riduzione al solo dolo ex art. 21, d.l. n. 76 del 2020 (conv.to in l. n. 120 del 2020) – Natura – Norma sostanziale – Portata applicativa temporale – Inapplicabile a fatti pregressi alla sua entrata in vigore.
   1. In caso di espletamento di attività extralavorative remunerate e non autorizzate dal datore da parte di un pubblico dipendente, qualora costui rifiuti di riversare alla propria amministrazione, in base all’art. 53, co. 7 e 7-bis, d.lgs. 30.03.2001 n. 165, gli importi percepiti, la giurisdizione spetta sempre alla Corte dei Conti anche per gli introiti anteriori alla introduzione del comma 7-bis nell’art. 53 cit. ad opera della legge n. 190 del 2012, essendo norma ricognitiva del pregresso indirizzo giurisprudenziale favorevole alla giurisdizione contabile.
   2. A fronte di un danno cagionato alla P.A. da un pubblico dipendente, è proponibile sia l’azione civile nei suoi confronti da parte della P.A. danneggiata, sia la doverosa e officiosa azione della Procura contabile, ma non può essere adottata una doppia condanna, in ossequio al ne bis in idem.
   3. In caso di espletamento di attività extralavorative remunerate e non autorizzate dal datore da parte di un pubblico dipendente, sull’obbligo di riversare alla propria amministrazione gli importi percepiti in base al novello art. 53, co. 7-bis, d.lgs. 30.03.2001 n. 165, ha giurisdizione la Corte dei Conti secondo il regime dell’ordinario giudizio di cognizione e non di quello sanzionatorio di cui agli artt. 133 segg., d.lgs. 26.08.2016 n. 174.
   4. Ai primari ospedalieri che siano anche professori universitari a tempo pieno, in base all’art. 5 d.lgs. n. 517/1999, all’art. 6, co. 10, l. n. 240 del 2010, più largheggiante rispetto al previgente art. 11, co. 5, d.P.R. n. 382 del 1980, non è consentito l’espletamento di attività libero-professionale, e l’eventuale comunicazione al Rettore ed il suo avallo non rilevano sulla colpa grave, non potendo un atto amministrativo derogare ad un divieto legislativo assoluto.
   5. Qualora un primario ospedaliero e professore universitario a tempo pieno, comunichi al Rettore, ricevendone avallo, l’espletamento di attività extralavorative vietate, la circostanza non esclude la colpa grave, ma implica una conoscenza datoriale che fa decorrere la prescrizione del credito erariale, con conseguente corresponsabilità dei vertici universitari nel danno residuo in caso di parziale prescrizione del credito.
   6. A fronte dell’espletamento da parte di primario ospedaliero e professori universitari a tempo pieno di attività libero-professionali vietate dalla legge Gelmini, oltre al danno erariale previsto dall’art. 53, co. 7, d.lgs. n. 165 del 2001, si configura un ulteriore e cumulativo danno per le maggiorazioni stipendiali percepite quale professore a tempo pieno rispetto a quelle spettanti al professore a tempo definito.
   7. In caso di espletamento di attività extralavorative remunerate e non autorizzate dal datore da parte di un pubblico dipendente, l’obbligo di riversare alla propria amministrazione gli importi percepiti in base all’art. 53, co. 7 e 7-bis, d.lgs. 30.03.2001 n. 165, impone un calcolo al netto e non al lordo delle somme da versare, essendoci già stato un prelievo fiscale a favore della P.A. al momento della erogazione e della dichiarazione dei redditi.
   8. L’art. 21, d.l. n. 76 del 2020 (conv.to in l. n. 120 del 2020), nel limitare attraverso il c.d. scudo erariale la responsabilità amministrativo-contabile al solo dolo (per condotte commissive, ha natura di norma sostanziale ed è quindi inapplicabile a fatti pregressi alla sua entrata in vigore ovvero al 17.07.2020
(massima free tratta da www.giustamm.it - Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia, sentenza 07.10.2020 n. 152).

PUBBLICO IMPIEGO: L. Oliveri, La rotazione degli incarichi dirigenziali non giustifica la loro revoca anticipata.
L’ordinanza 06.10.2020 n. 21482 della Corte di Cassazione, Sez. lavoro, conferma i formidabili pericoli di utilizzo distorto della rotazione degli incarichi dirigenziali, sciaguratamente di fatto “imposta” dall’ANAC come misura ordinaria, senza che l’Autorità si renda conto di quanto esponga la dirigenza a scelte illecite e precarizzanti.
L’ordinanza considera illecita la “rotazione” imposta da un sindaco ad un dirigente, qualificandola come revoca di fatto. La pronuncia è estremamente interessante per le molteplici motivazioni che esprime.
In primo luogo, la Cassazione critica aspramente le decisioni, cassate, della Corte d’Appello. Questa, come si evince dal testo dell’ordinanza, con la propria sentenza aveva ritenuto di escludere la configurabilità di un diritto soggettivo a conservare un determinato incarico, richiamando la sentenza della Cassazione 15.02.2010, n. 3451. Il giudice di secondo grado ha evidenziato che “il conferimento degli incarichi dirigenziali risponde ad esigenze di natura fiduciaria, demandato ad un ampio potere discrezionale dell'Amministrazione, temperato dalla previsione (non obbligatoria, ma opportuna) del criterio di rotazione, dalla fissazione di un termine ai contratti e dalla motivazione del provvedimento”.
Secondo tale giudice di secondo grado, visto che il dirigente ricorrente aveva coperto l’incarico per 11 anni non sarebbe stato affatto, nell'ottica di una riorganizzazione degli uffici, fosse trasferito ad altro settore; pertanto, la sentenza di appello ha escluso che vi fosse stata una revoca in senso tecnico dell'incarico in precedenza conferito, ritenendo invece sussistente un lecito trasferimento ad altro incarico dirigenziale di altro settore dell'organigramma comunale, con la conseguenza che l'Amministrazione non era tenuta a rispettare quelle ipotesi previste solo per la revoca in senso tecnico”.
Una ricostruzione totalmente sbagliata ed inaccettabile. Infatti, la Cassazione senza alcun giro di parole afferma che ha “errato la Corte territoriale a richiamare una giurisprudenza di legittimità riferita a fattispecie di conferimento di incarico laddove nella specie è indubbio che le determinazioni dell'Ente abbiano di fatto comportato una revoca dell'incarico ancora in corso di svolgimento”.
Infatti, la sentenza 15.02.2010, n. 3451 col caso di specie non ha nulla a che vedere. Essa ha trattato una questione connessa all’assegnazione di mansioni diverse da quelle originariamente conferite in seguito a modificazione della pianta organica, una volta scaduto l’incarico dirigenziale precedentemente svolto.
È nella fase di rideterminazione degli incarichi, che dovrebbe essere retta dalla proceduralizzazione disposta dall’articolo 19, commi 1, 1-bis e 2, del d.lgs. 165/2001, che la PA dispone di una ampia capacità di valutazione dell’opportunità di attribuire ai dirigenti qualsiasi degli incarichi dirigenziali disponibili. Ma, questo presuppone che gli incarichi precedenti siano scaduti, per conseguimento del termine e, quindi, sia dato modo di rimetterli in causa.
Nel caso trattato dall’ordinanza in commento, non è avvenuto niente di tutto questo. Semplicemente, il Comune, tre mesi solo dopo la conferma dell’interessato nel suo incarico, lo ha preposto ad uno diverso, coinvolgendo nel “giro” altri due dei molti altri dirigenti in servizio.
In secondo luogo, l’ordinanza fa chiarezza sull’equivoco della “riorganizzazione”. L’art. 109, comma 2, del d.lgs. 267/2000 stabilisce che la revoca dell’incarico dirigenziale consegua ai casi di “inosservanza delle direttive del sindaco o del presidente della provincia, della giunta o dell'assessore di riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al termine di ciascun anno finanziario degli obiettivi assegnati nel piano esecutivo di gestione previsto dall'articolo 169 o per responsabilità particolarmente grave o reiterata e negli altri casi disciplinati dai contratti collettivi di lavoro”. In particolare, l’articolo 13 del CCNL 23.12.1999 stabilisce al comma 3 che “La revoca anticipata dell'incarico rispetto alla scadenza può avvenire solo per motivate ragioni organizzative e produttive o per effetto dell'applicazione del procedimento di valutazione di cui all'articolo 14, comma 2”.
Dal canto suo, l’articolo 21, comma 1, del d.lgs. 165/2001 dispone: “Il mancato raggiungimento degli obiettivi accertato attraverso le risultanze del sistema di valutazione di cui al Titolo II del decreto legislativo di attuazione della legge 04.03.2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni ovvero l'inosservanza delle direttive imputabili al dirigente comportano, previa contestazione e ferma restando l'eventuale responsabilità disciplinare secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo, l'impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale. In relazione alla gravità dei casi, l'amministrazione può inoltre, previa contestazione e nel rispetto del principio del contraddittorio, revocare l'incarico collocando il dirigente a disposizione dei ruoli di cui all'articolo 23 ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo”.
È, dunque, esclusivamente la disciplina contrattuale (a ciò abilitata dall’articolo 109, comma 1, del d.lgs. 267/2000) che attualmente considera la “riorganizzazione” come presupposto per la revoca dell’incarico.
Il fatto è che in moltissimi casi, la “riorganizzazione” dietro la quale si trincerano le amministrazioni comunali è semplicemente fittizia: una simulazione dialettica, posta esclusivamente a giustificare appunto la revoca anticipata di precisi incarichi dirigenziali. Spessissimo, si tratta di vere e proprie “riorganizzazioni ad personam”, attivate non certo alla scopo di modificare l’assetto complessivo dell’ente a fini di miglioramento ed aumento dell’efficienza, ma proprio per demansionare uno specifico dirigente.
Nel caso trattato dall’ordinanza non si è determinata per nulla un’esigenza connessa alla riorganizzazione. La Cassazione ricorda che in quanto alle “ragioni riorganizzative, questa Corte ha affermato che la revoca anticipata dell'incarico dirigenziale per tali esigenze, prevista dalla contrattazione collettiva, deve essere adottata con un atto formale e richiede una motivazione esplicita, fondata su ragioni attinenti al settore cui è preposto il dirigente (v. Cass. 03.02.2017, n. 2972)”.
Occorre, quindi, un provvedimento che formalmente detti la riorganizzazione dell’intero ente (mancante nel caso di specie) e la motivazione chiara che espliciti ragioni connesse non alla persona che ricopre il ruolo di dirigente, ma ad esigenze organizzative della struttura diretta, tali da rendere opportune ed indispensabili sue variazioni, alle quali conseguano come corollario, e non come premessa, modifiche degli incarichi.
Nulla di tutto questo è stato riscontrato nella questione esaminata dall’ordinanza. La presunta “riorganizzazione” era, come nella stragrande maggioranza dei casi, una mera petizione di principio, inesistente e immotivata.
In terzo luogo, la Cassazione evidenzia i problemi connessi all’altro strumento che gli enti stanno utilizzando a mani basse in modo generalmente travisato: la “rotazione” degli incarichi.
I giudici, subito dopo aver comprovato che nel caso di specie non c’è stata alcuna riorganizzazione, sottolineano che “invece, come è pacifico tra le parti, la revoca anticipata era scaturita da una mera rotazione di incarichi (si rileva dallo stesso controricorso del Comune -pag. 8- che vi era stato uno scambio di incarichi a seguito del nuovo mandato elettorale), per effetto della quale al ricorrente era stato assegnato l'incarico di dirigente del settore traffico, trasporti, mobilità urbana e grandi infrastrutture (revocandosi di fatto quello di dirigente del settore urbanistica)”.
L’ordinanza non si dilunga sulla finalizzazione della “rotazione” alla sua correlazione al “nuovo mandato elettorale”, perché giunge alla dichiarazione di illegittimità del provvedimento del sindaco per altra strada, senza doversi soffermare sul punto.
In questa sede di commento, tuttavia, non ci si può esimere dal rilevare che la rotazione, esattamente come la riorganizzazione, sia un cavallo di Troia, affetta sovente da totale ed evidente sviamento della sua funzione.
Scrive l’ANAC nel Piano Nazionale Anticorruzione del 2016: “Per quanto riguarda i dirigenti la rotazione ordinaria è opportuno venga programmata e sia prevista nell’ambito dell’atto generale approvato dall’organo di indirizzo politico, contenente i criteri di conferimento degli incarichi dirigenziali che devono essere chiari e oggettivi. Il PTPC di ogni amministrazione deve fare riferimento a tale atto generale (come, ad esempio, la Direttiva ministeriale che disciplina gli incarichi dirigenziali) ove vengono descritti i criteri e le modalità per la rotazione dirigenziale. Ciò anche per evitare che la rotazione possa essere impiegata in modo poco trasparente, limitando l’indipendenza della dirigenza. Per il personale dirigenziale, la disciplina è applicabile ai dirigenti di prima e di seconda fascia, o equiparati”.
La rotazione, nella visione dell’Autorità, dovrebbe essere uno strumento ordinario di tutela dell’interesse generale ad evitare che la continuativa preposizione di un dirigente al medesimo incarico comporti l’assunzione di un eccessivo potere di influenza, anche all’esterno.
Ma, il PNA non nasconde il rischio serissimo che la rotazione venga utilizzata allo scopo di precarizzare gli incarichi dirigenziali, finendo per limitare l’autonomia dei dirigenti.
Ciò nonostante, le interpretazioni dell’ANAC hanno contribuito a reintrodurre, per via interpretativa (ma non solo, come si vedrà successivamente), la rotazione obbligatoria della dirigenza, un tempo presente nel d.lgs. 29/1993, ma poi eliminata dal testo del d.lgs. 165/2001 (nel quale non se ne parla proprio), per la piena consapevolezza che un tourbillon continuo di dirigenti:
   1. in molti enti non è minimamente ipotizzabile (dato il numero esiguo);
   2. soprattutto, inficia in modo comprensibile il principio di continuità dell’azione amministrativa ed esattamente le qualità in base alle quali i dirigenti si pretende siano valutati ed incaricati: competenza, esperienza, risultati raggiunti.
Secondo l’ANAC “Essendo la rotazione una misura che ha effetti su tutta l’organizzazione di un’amministrazione, progressivamente la rotazione dovrebbe essere applicata anche a quei dirigenti che non operano nelle aree a rischio. Ciò tra l’altro sarebbe funzionale anche ad evitare che nelle aree di rischio ruotino sempre gli stessi dirigenti. La mancata attuazione della rotazione deve essere congruamente motivata da parte del soggetto tenuto all’attuazione della misura”.
È una visione radicale della rotazione, che va molto oltre le disposizioni della legge 190/2012, la quale prevede, invece, la rotazione solo nell’ambito delle aree a rischio, come lascia comprendere la logica, prima ancora che il diritto. Non ha evidentemente alcun senso coinvolgere nella rotazione chi opera in aree non rischiose.
Le indicazioni dell’ANAC, quindi, se da considerare corrette nelle premesse, portano ad una conseguenza della rotazione visibilmente disfunzionale. E finiscono per ammettere in via di fatto proprio quell’abuso della rotazione che la medesima ANAC considera pericoloso per l’autonomia della dirigenza.
I sindaci ci mettono pochissimo a cogliere da indicazioni così contorte e poco meditate come quelle dell’ANAC quella parte a loro uso e consumo, volta a poter giustificare un utilizzo della rotazione distorto e produttivo di evidente sviamento dall’interesse pubblico. Sì, come nel caso di specie, da connettere la rotazione al nuovo mandato elettorale, traducendo quindi un istituto pensato a salvaguardia dalla corruzione, in uno strumento per esercitare lo spoil system!
Si comprende bene, quindi, quanto provvida sia stata la sentenza della Corte Costituzionale 251/2016, che ha fermato l’iter della sciagurata Riforma Madia della dirigenza, largamente basata proprio sull’esasperazione del potere di revoca ad libitum dei dirigenti, anche fondato su una rotazione di fatto connessa a ragioni esclusivamente politiche: quella riforma, infatti, avrebbe eliminato la necessità di motivare le ragioni non solo della revoca, ma addirittura della privazione dell’incarico al dirigente, confinandolo in una disponibilità di pochi mesi, alla quale sarebbe conseguito il licenziamento.
La rotazione, certamente strumento fondamentale, dovrebbe essere, dunque, un’extrema ratio, da adottare quando risultino evidenze di un’azione dirigenziale non perfettamente trasparente o rispondente agli obiettivi di lotta alla corruzione, non una modalità da attivare acriticamente, sempre e comunque.
Torniamo alla sentenza. La Cassazione si è accorta, comunque, che anche la rotazione invocata era fasulla: lo “scambio di incarichi (peraltro, come si rileva sempre dal controricorso -pag. 2- limitata a tre soli settori dell'organigramma comunale: tributi, traffico-trasporti e urbanistica e senza che vi fosse una ragione diversa dall'esigenza di garantire la rotazione degli incarichi e specificamente collegata al settore cui il (OMISSIS) era stato assegnato) non integra, evidentemente, quella riorganizzazione richiesta dalla disciplina pattizia per una revoca anticipata di un incarico dirigenziale”.
Quindi, si è determinata null’altro se non una revoca anticipata, in assoluta assenza della giusta causa che dovrebbe sorreggere, in assenza di effettiva riorganizzazione, la decisione.
Per tornare come indicato prima al problema della rotazione, lo schema di CCNL dell’area dirigenza del comparto Funzioni Locali, per quanto concerne specificamente la dirigenza di Regioni ed Enti locali disapplica l’articolo 13 del CCNL 23.12.2020 e non regola la revoca. Il che significa che essa resta attivabile solo al ricorrere dei casi normativamente previsti, che non contemplano la “riorganizzazione”: un elemento importante, perché si cancella uno strumento utilizzato, come di dimostra, in modo spesso improprio e falsato.
Improvvidamente, tuttavia, il medesimo schema prevede che “Nel conferimento degli incarichi dirigenziali, gli enti si attengono al principio generale della rotazione degli stessi”, ingerendosi in materie che non spettano alla contrattazione e, in ogni caso, esponendo il conferimento degli incarichi all’altro pericolo di utilizzo distorto della rotazione.
In ogni caso, la Cassazione aiuta a comprendere che la rotazione non può essere considerata presupposto o causa della revoca anticipata, operando solo nel momento in cui vengano a scadere gli incarichi e, dunque, nella fase del loro conferimento (04.11.2020 - tratto da e link a www.fedir.it).

PUBBLICO IMPIEGO: La revoca anticipata dell'incarico dirigenziale deve essere adottata con un atto formale e richiede una motivazione esplicita, fondata su ragioni chiare e attinenti alla specifica area in cui è investito il manager in questione.
Mentre per il conferimento (id est la conferma) di un incarico di funzione dirigenziale, rimesso alla discrezionalità del datore di lavoro, si tiene conto, in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente nel rispetto dei criteri generali eventualmente stabiliti dalla pubblica amministrazione (potendo il giudice solo verificare se l'operato dell'amministrazione trovi o meno fondamento nei predetti criteri generali), la revoca dell'incarico, presupponendo l'instaurazione di un rapporto contrattuale, incontra i limiti legislativamente e pattiziamente stabiliti;
La normativa prevede che la revoca di un incarico possa scaturire o da un procedimento disciplinare o dal mancato raggiungimento degli obiettivi o da esigenze riorganizzative adeguatamente motivate;
Quanto, in particolare alle indicate ragioni riorganizzative, questa Corte ha affermato che la revoca anticipata dell'incarico dirigenziale per tali esigenze, prevista dalla contrattazione collettiva, deve essere adottata con un atto formale e richiede una motivazione esplicita, fondata su ragioni attinenti al settore cui è preposto il dirigente.
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   4. con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell'art. 2119 cod. civ. nonché degli artt. 109 e 110 del TUEL, degli artt. 3 e 7 l. n. 241 del 1990 (difetto di motivazione del provvedimento di trasferimento e mancata comunicazione dell'inizio del procedimento), degli artt. 1175, 1373 (regole di correttezza e buona fede), della l. n. 241 del 1990 e dell'art. 97 Cost. (principio di ragionevolezza);
   critica la sentenza impugnata per non aver tenuto conto dell'insegnamento della Suprema Corte (S.0 n. 3677/2009) secondo il quale il conferimento dell'incarico dirigenziale determina (accanto al rapporto fondamentale a tempo indeterminato, secondo il c.d. sistema 'binario') l'instaurazione di contratto a tempo determinato, il quale, ai sensi dell'art. 2119 cod. civ., è passibile di recesso prima della scadenza solo per giusta causa;
   rileva che l'incarico di dirigente del settore urbanistica gli era stato confermato dall'01.07.2009 per l'esercizio 2009 e che, con deliberazione G.M. 364/2009 18.09.2009, gli erano stati anche fissati gli obiettivi, per cui tale incarico scadeva alla fine dell'esercizio 2009 e poteva essere oggetto di recesso solo per 'giusta causa' (art. 2119 cod. civ.);
   sostiene che certamente non poteva essere ritenuta 'giusta causa', tale da non consentire neppure la prosecuzione provvisoria del rapporto, la rotazione tra i settori tecnici, che avrebbe potuto essere disposta solo dopo la scadenza dell'incarico (se motivata adeguatamente);
...
   7. è invece fondato il secondo motivo di ricorso (assorbito il terzo);
   7.1. è pacifico tra le parti che l'incarico del Ci. quale dirigente del settore urbanistica e assetto del territorio dei Comune di Brindisi dal 1998 fosse stato, da ultimo, confermato in data 01/07/2009 fino alla fine dell'esercizio 2009 (e cioè fino al 30.06.2010);
   alla suddetta conferma aveva fatto seguito la fissazione degli obiettivi da raggiungere (v. deliberazione di G.M. n. 364/2009 del 18.09.2009 richiamata e depositata dal ricorrente);
   il decreto sindacale n. 43 del 03.11.2009, con il quale il Sindaco del comune di Brindisi aveva disposto il trasferimento del Ci. alla dirigenza del settore traffico, trasporti, mobilità urbana e grandi infrastrutture era, dunque, intervenuto prima della scadenza dell'incarico confermato in data 01/07/2009;
   ha allora errato la Corte territoriale a richiamare una giurisprudenza di legittimità riferita a fattispecie di conferimento di incarico laddove nella specie è indubbio che le determinazioni dell'Ente abbiano di fatto comportato una revoca dell'incarico ancora in corso di svolgimento;
   7.2. le doglianze del Ci. andavano allora vagliate in rapporto alle ipotesi in cui la revoca dell'incarico dirigenziale è consentita;
   7.3. del resto, mentre per il conferimento (id est la conferma) di un incarico di funzione dirigenziale, rimesso alla discrezionalità del datore di lavoro, si tiene conto, in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente nel rispetto dei criteri generali eventualmente stabiliti dalla pubblica amministrazione (potendo il giudice solo verificare se l'operato dell'amministrazione trovi o meno fondamento nei predetti criteri generali), la revoca dell'incarico, presupponendo l'instaurazione di un rapporto contrattuale, incontra i limiti legislativamente e pattiziamente stabiliti;
   7.4. muovendo dall'esame della normativa di riferimento, va ricordato che l'art. 109 del d.lgs. n. 267 del 2000, rubricato "Conferimento di incarichi dirigenziali" prevede, al primo comma: «Gli incarichi dirigenziali sono conferiti a tempo determinato» (...) «con provvedimento motivato e con le modalità fissate dal regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza professionale, in relazione agli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o del presidente della provincia e sono revocati in caso di inosservanza delle direttive del sindaco o del presidente della provincia, della giunta o dell'assessore di riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al termine di ciascun anno finanziario degli obiettivi assegnati nel piano esecutivo di gestione» (...) «o per responsabilità particolarmente grave o reiterata e negli altri casi disciplinati dai contratti collettivi di lavoro. L'attribuzione degli incarichi può prescindere dalla precedente assegnazione di funzioni di direzione a seguito di concorsi»;
l'art. 13 del c.c.n.l. dirigenza enti locali 1998-2001 del 09.12.1999, rubricato "Affidamento e revoca degli incarichi dirigenziali", integrando la disciplina normativa stabilisce ai commi 1-3: «1. Gli enti attribuiscono ad ogni dirigente uno degli incarichi istituiti secondo la disciplina dell'ordinamento vigente. 2. Gli enti, con gli atti previsti dai rispettivi ordinamenti, adeguano le regole sugli incarichi dirigenziali ai principi stabiliti dall'art. 19, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 29/1993, con particolare riferimento ai criteri per il conferimento e la revoca degli incarichi e per il passaggio ad incarichi diversi nonché per relativa durata che non può essere inferiore a due anni, fatte salve le specificità da indicare nell'atto di affidamento e gli effetti derivanti dalla valutazione annuale dei risultati. 3. La revoca anticipata dell'incarico rispetto alla scadenza può avvenire solo per motivate ragioni organizzative e produttive o per effetto dell'applicazione del procedimento di valutazione di cui all'art. 14, comma 2»;
   7.5. la suddetta normativa prevede, dunque, che la revoca di un incarico possa scaturire o da un procedimento disciplinare o dal mancato raggiungimento degli obiettivi o da esigenze riorganizzative adeguatamente motivate;
   7.6. quanto, in particolare alle indicate ragioni riorganizzative, questa Corte ha affermato che la revoca anticipata dell'incarico dirigenziale per tali esigenze, prevista dalla contrattazione collettiva, deve essere adottata con un atto formale e richiede una motivazione esplicita, fondata su ragioni attinenti al settore cui è preposto il dirigente (v. Cass. 03.02.2017, n. 2972);
   7.7. nel caso di specie, invece, come è pacifico tra le parti, la revoca anticipata era scaturita da una mera rotazione di incarichi (si rileva dallo stesso controricorso del Comune -pag. 8- che vi era stato uno 'scambio' di incarichi a seguito del nuovo mandato elettorale), per effetto della quale al ricorrente era stato assegnato l'incarico di dirigente del settore traffico, trasporti, mobilità urbana e grandi infrastrutture (revocandosi di fatto quello di dirigente del settore urbanistica); ma tale 'scambio' di incarichi (peraltro, come si rileva sempre dal controricorso -pag. 2- limitata a tre soli settori dell'organigramma comunale: tributi, traffico-trasporti e urbanistica e senza che vi fosse una ragione diversa dall'esigenza di garantire la rotazione degli incarichi e specificamente collegata al settore cui il Ci. era stato assegnato) non integra, evidentemente, quella riorganizzazione richiesta dalla disciplina pattizia per una revoca anticipata di un incarico dirigenziale;
   7.8. i principi posti dalla Corte territoriale a sostegno della legittimità del decreto del Sindaco di Brindisi n. 43/2009 (e cioè la turnazione, rotazione degli incarichi) se sono fondatamente invocabili a sostegno di una scelta di affidamento di un determinato incarico non possono avallare -stanti le indicate specifiche disposizioni normativa e pattizia- una revoca di un incarico prima della scadenza naturale dello stesso;
   7.9. si è trattato, pertanto, di revoca anticipata avvenuta al di fuori dei presupposti normativi (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 06.10.2020 n. 21482).

settembre 2020

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Natura di atti amministrativi generali dei piani urbanistici – Esonero dal pagamento degli oneri di costruzione – Abuso di ufficio in atti di ufficio nella disciplina urbanistica – Ultrattività del piano attuativo scaduto – Vantaggio patrimoniale per il privato – Accordo collusivo tra il pubblico ufficiale e i privati – Art. 323 cod. pen. – Artt. 19, 28-bis d.P.R. n. 380/2001.
I piani urbanistici non rientrano nella categoria dei regolamenti, come ritenuto da risalente e superato orientamento giurisprudenziale, che nel mutato quadro normativo escluderebbe la fattispecie di abuso in atti di ufficio, ma in quella degli atti amministrativi generali la cui violazione, in conformità dell’indirizzo ermeneutico consolidato, rappresenta solo il presupposto di fatto della violazione della normativa legale in materia urbanistica (art. 12 e 13 del d.P.R. n. 380 del 2001), normativa a cui deve farsi riferimento, per ritenere concretata la “violazione di legge”, quale dato strutturale della fattispecie delittuosa ex art. 323 cod. pen. anche seguito della modifica normativa.
Da cui la conferma della sussunzione del caso concreto nella fattispecie normativa di cui all’art. 323 cod. pen. ora vigente.
Trattasi senza dubbio di norme specifiche e per le quali non residuano margini di discrezionalità laddove l’art. 12 d.P.R. n. 380/2001 detta i requisiti di legittimità del permesso a costruire, e il successivo art 13 d.P.R. n. 380/2001, detta la disciplina urbanistica che il dirigente del settore è tenuto a rispettare nel rilascio del permesso a costruire.

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Rilascio di permessi edilizi illegittimi – PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Abuso in atti di ufficio – Configurabilità del reato ex art. 323 cod. pen..
La configurazione del reato di abuso in atti di ufficio si integra nel caso di rilascio di permessi edilizi illegittimi, la violazione di legge è integrata dall’inosservanza dell’art. 12 del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo cui il permesso a costruire, quale atto non discrezionale, è rilasciato in conformità alle previsioni urbanistiche, ai regolamenti edilizi e alla disciplina urbanistica che il dirigente del settore è tenuto a rispettare ai sensi del successivo art. 13 d.P.R. n. 380/2001.
Inoltre, il permesso di costruire, per essere legittimo, deve conformarsi –ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 12, comma 1, –“alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico– edilizia vigente”.
Dall’espresso rinvio della norma agli strumenti urbanistici discende che il titolo abilitativo edilizio rilasciato senza rispetto del piano regolatore e degli altri strumenti urbanistici integra, una “violazione di legge”, rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 323 cod. pen.
La clausola di riserva contenuta nell’art. 323 cod. pen., non opera, quando ricorrono i presupposti del concorso materiale del reato di abuso in atti di ufficio e del reato di falso.

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Piano di lottizzazione o altro piano particolareggiato – Termine stabilito per l’esecuzione – Conseguenze della scadenza dell’efficacia.
In materia urbanistica, decorso il termine stabilito per l’esecuzione del piano di lottizzazione o altro piano particolareggiato, questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l’obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso, con la precisazione che da ciò discende che:
   a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata, le medesime previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato e, col decorso del termine (di dieci anni, per il piano particolareggiato di cui si discute), diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del p.r.g. e con le prescrizioni del piano attuativo (anche sugli allineamenti), che solo per questa parte ha efficacia ultrattiva;
   b) il termine di efficacia di 10 anni deve intendersi riferito all’esecuzione delle previste opere di urbanizzazione che devono essere realizzate entro tale termine; viceversa per la realizzazione delle costruzioni dei fabbricati trovano applicazione i termini previsti nei relativi titoli edilizi, fermo restando che poiché, in generale, il termine di efficacia dei piani attuativi, compresi i piani di lottizzazione, è di 10 anni, i titoli edilizi andranno richiesti e ottenuti entro tale termine, dato che, una volta che esso sia decorso, il piano decade per la parte rimasta inattuata rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l’obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso;
   c) le conseguenze della scadenza dell’efficacia del piano di lottizzazione si esauriscono pertanto nell’ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi;
   d) una volta scaduto il termine, l’autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova pianificazione urbanistica di dettaglio

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SENTENZA
5. Venendo al merito, l’ordinanza impugnata poggia su un apparato argomentativo pienamente esaustivo, fondato sulle emergenze processuali e corretto in diritto.
Quanto alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in relazione al reato di abuso in atti di ufficio (capo 1, 4 e 7), in concorso con il pubblico ufficiale Sp., in relazione al rilascio dei tre permessi a costruire, avvenuto in violazione di legge (vedi supra par. 1.1.), l’ordinanza impugnata ha ritenuto dimostrato:
   1) un accordo collusivo tra il pubblico ufficiale e i privati o, quantomeno, una situazione di asservimento del pubblico ufficiale Sp. piegato a garantire gli interessi economici del gruppo Ba., sul rilievo che il pubblico ufficiale si era prodigato per rilasciare, con anomala celerità in quanto l’iter amministrativo non era stato ancora completato, un permesso a costruire, consegnato nelle mani del Ca., per impedire il sequestro dell’area, sulla quale erano in corso lavori in assenza di permesso a costruire, mentre era in corso un sopralluogo della polizia municipale la mattina del 03.04.2017;
   2) la violazione di legge, segnatamente l’art. 12 del d.P.R. n. 380 del 2001, per avere rilasciato, lo Sp., i tre permessi a costruire in assenza di pianificazione urbanistica di attuazione richiesta per gli interventi di completamento dell’interporto, perché il piano particolareggiato, adottato il 02.04.1996, a seguito dell’Accordo di programma n. 14555 del 2006, determinante variante al piano regolatore generale, risultava inefficace dal 2016, per decorso del termine decennale di vigenza e non essendo intervenuta altra pianificazione urbanistica, non potendosi ritenere che la dichiarazione del Commissario Straordinario n. 230 del 2016 avesse natura di provvedimento, avendo la stessa natura di dichiarazione di scienza, sicché la convenzione ex art. 28-bis cit., fondata su tale presupposto, non era valido titolo edilizio. Inoltre era accertata la violazione dell’art. 19 comma 2 cit. atteso l’esonero dal pagamento degli oneri di costruzione di cui all’art. 19 cit., nonché dell’art. 9 comma 2, medesimo decreto, che pone limiti all’edificazione delle c.d. zone bianche interessate dall’assenza di strumenti attuativi;
   3) il vantaggio patrimoniale per il privato Barletta consistito nell’accrescimento della situazione giuridica di questi che si concretizzava nel rilascio dei permessi a costruire, da cui il conseguente profitto economico derivante dalla successiva realizzazione delle opere edilizie e la correlata ingiustizia della condotta in quanto connotata da violazione di legge integranti la c.d. doppia ingiustizia necessaria ai fini dell’integrazione del reato di abuso d’ufficio.
5.2. Ciò premesso, la censura (secondo motivo) svolta dalla difesa dei ricorrenti che si appunta sull’interpretazione della dichiarazione del Commissario Straordinario n. 230 del 2016 sulla scorta della quale, la difesa ha argomentato che i premessi a costruire erano stati rilasciati in presenza di pianificazione particolareggiata, sicché era destituita di fondamento l’impostazione accusatoria di rilascio di permessi a costruire in assenza di programmazione urbanistica, non ha pregio e si rivela infondata.
L’ordinanza impugnata dà atto che dalle stesse dichiarazioni del dott. Re., Commissario straordinario del Comune di Ma., era dimostrata la natura di dichiarazione di scienza della suddetta delibera n. 230 del 2016, evidenziando che si trattava di un mero atto di indirizzo politico che rimetteva la decisione al futuro Consiglio Comunale di Ma. (che poi non l’approvò), non avendo alcuna natura decisoria valevole quale atto di programmazione urbanistica, presupposto per il successivo rilascio dei permessi a costruire (cfr. pag. 13 e ss.). Ogni diversa lettura dell’atto in questione, in presenza di congrua e non illogica motivazione non è sindacabile in questa sede.
5.3. La difesa ha poi percorso la via interpretativa, espressa da una giurisprudenza amministrativa, secondo la quale l’art. 17 della legge n. 1150 del 1942 consentirebbe l’ultrattività del piano particolareggiato scaduto fino all’approvazione di un nuovo strumento urbanistico che disciplini le aree in esso incluse ed ha dedotto la violazione di legge.
Tale interpretazione non è condivisa dal Collegio e dalle più recenti pronunce del giudice amministrativo.
Secondo la più recente giurisprudenza amministrativa (cfr. da ultimo sentenza TAR Lombardia, Milano, Sezione Quarta, n. 2001 del 17.08.2018; TAR Lazio Roma, sez. II, 01/04/2015, n. 4920; Cons. Stato, Sez. V, 30.04.2009, n. 2768; Sez. IV, 27.10.2009, n. 6572), decorso il termine stabilito per l’esecuzione del piano di lottizzazione o altro piano particolareggiato, questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l’obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso, con la precisazione che da ciò discende che:
   a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata, le medesime previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato e, col decorso del termine (di dieci anni, per il piano particolareggiato di cui si discute), diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del p.r.g. e con le prescrizioni del piano attuativo (anche sugli allineamenti), che solo per questa parte ha efficacia ultrattiva (Tar Abruzzo L’Aquila, sez. I, 20/11/2014, n. 810; Cons. Stato, n. 2768 del 2009 e n. 6170 del 2007; Campania, Salerno, n. 522 del 2014);
   b) il termine di efficacia di 10 anni deve intendersi riferito all’esecuzione delle previste opere di urbanizzazione che devono essere realizzate entro tale termine; viceversa per la realizzazione delle costruzioni dei fabbricati trovano applicazione i termini previsti nei relativi titoli edilizi, fermo restando che poiché, in generale, il termine di efficacia dei piani attuativi, compresi i piani di lottizzazione, è di 10 anni, i titoli edilizi andranno richiesti e ottenuti entro tale termine, dato che, una volta che esso sia decorso, il piano decade per la parte rimasta inattuata rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l’obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso (cfr. TAR Lazio Latina, sez. I, 26/04/2018, n. 226;
   c) le conseguenze della scadenza dell’efficacia del piano di lottizzazione si esauriscono pertanto nell’ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi (cfr. in particolare, TAR Lazio Roma, sez. II, 01/04/2015, n. 4920), d) una volta scaduto il termine, l’autorità competente riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova pianificazione urbanistica di dettaglio.
5.4. Con riferimento al caso in esame, l’ordinanza impugnata sul rilievo che era decorso il termine decennale, che l’autorità competente (Comune di Marcianise) non aveva esercitato il potere di dare nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate del P.U.P., che la Delibera del Commissario del 2016 non aveva natura di provvedimento quale “riassunzione di conformità al P.U.P.”, si da costituire presupposto per la conclusione della convenzione ex art. 28-bis cit. e per il rilascio dei permessi a costruire, ha ritenuto, del tutto correttamente, che i tre permessi a costruire erano stati rilasciati in assenza di pianificazione particolareggiata perché quella esistente aveva perso efficacia nel 2016.
Inoltre, nel caso in esame, era violata la disposizione di cui all’art. 9, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001, che pone specifici limiti di edificabilità delle c.d. zone bianche interessate dall’assenza di strumenti attuativi a seguito di perdita di efficacia per decorso del termine decennale, violazione neppure contestata dai ricorrenti.
5.5. Né può essere richiamata la sentenza di questa III Sez. n. 38555 del 2015, citata nel ricorso poiché, in quel caso, l’ultrattività della previsione di una lottizzazione divenuta priva di efficacia per decorso del tempo, era conseguente alla circostanza che le previsioni di questa erano state recepite nello strumento urbanistico del Comune di Arzachena, situazione all’evidenza del tutto diversa dal caso in scrutinio nel quale i provvedimenti autorizzatori erano stati rilasciati in assenza di piano attuativo decaduto e l’autorità amministrativa non aveva esercitato il potere di dare un nuovo assetto il territorio.
5.6. Va poi, per completezza, rilevato che secondo la costante giurisprudenza di legittimità in relazione alla configurazione del reato di abuso in atti di ufficio nel caso di rilascio di permessi edilizi illegittimi, la violazione di legge è integrata dall’inosservanza dell’art. 12 del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo cui il permesso a costruire, quale atto non discrezionale, è rilasciato in conformità alle previsioni urbanistiche, ai regolamenti edilizi e alla disciplina urbanistica che il dirigente del settore è tenuto a rispettare ai sensi del successivo art. 13 cit.
Quanto al delitto di abuso d’ufficio, condivide il Collegio, i principi espressi da Sez. 3, n. 39462 del 2012, secondo cui il permesso di costruire, per essere legittimo, deve conformarsi –ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 12, comma 1,– “alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico–edilizia vigente”.
Dall’espresso rinvio della norma agli strumenti urbanistici discende che il titolo abilitativo edilizio rilasciato senza rispetto del piano regolatore e degli altri strumenti urbanistici integra, una “violazione di legge”, rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 323 cod. pen. (Sez. 3, n. 39462 del 19/06/2012, Rullo, Rv. 254015 – 01, nello stesso senso Sez. 6, n. 11620 del 25/01/2007, Pellegrino, Rv. 236147 – 01).
Mentre, con riguardo altri elementi della fattispecie, deve rilevarsi che i ricorrenti non hanno svolto critiche censorie con riguardo al ritenuto accordo collusivo tra privati e pubblico ufficiale, né sull’esistenza dell’ingiusto profitto.
6. Osserva, infine, il Collegio che non assume rilievo, quanto al caso in esame, la modifica normativa all’art. 323 cod. pen. per effetto dell’art. 23 del d.l. 16.07.2020, n. 76, “Misure Urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale”, conv. con mod. nella legge 11.09.2020, n. 120, secondo cui all’art. 323 comma 1 cod. pen., le parole “di norme di legge o di regolamento,” sono sostituite dalle seguenti: “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.
Ora, la violazione di norme contenute nei regolamenti è esclusa dal perimetro della condotta di abuso, l’abuso potrà, infatti, essere integrato solo dalla violazione di “regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge”, cioè da fonti di rango primario.
Rileva, poi, la sola inosservanza di regole di condotta “specifiche” ed “espressamente previste” dalle citate fonti primarie.
Infine, si è previsto che rilevano solo regole di condotta “dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.
Senza ripercorre l’evoluzione giurisprudenziale che aveva generato un contrasto di giurisprudenza all’indomani della riforma del delitto di abuso in atti di ufficio a seguito della L. 16.07.1997, n. 234, contrasto successivamente appianato, l’orientamento consolidato di legittimità (vedi supra) ha, da tempo, affermato che il requisito della violazione di legge, rilevante ai fini della configurabilità del reato di abuso di ufficio, è integrato dalla conformità alle previsioni urbanistiche, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistica che il dirigente del settore è tenuto a rispettare ai sensi dell’art. 13 del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto il permesso di costruire, per essere legittimo, deve conformarsi –ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 12, comma 1,– “alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico–edilizia vigente”.
Dall’espresso rinvio della norma agli strumenti urbanistici discende che il titolo abilitativo edilizio rilasciato senza rispetto del piano regolatore e degli altri strumenti urbanistici integra, una “violazione di legge”, rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 323 cod. pen.
Ritiene il Collegio che l’interpretazione della nozione di “violazione di legge” come delineata dalla citata giurisprudenza sia pienamente condivisibile anche nel mutato quadro normativo.
Segnatamente, seguendo quell’elaborazione giurisprudenziale che il Collegio condivide, deve ribadirsi che i piani urbanistici non rientrano nella categoria dei regolamenti, come ritenuto da risalente e superato orientamento giurisprudenziale, che nel mutato quadro normativo escluderebbe la fattispecie di abuso in atti di ufficio, ma in quella degli atti amministrativi generali la cui violazione, in conformità dell’indirizzo ermeneutico consolidato, rappresenta solo il presupposto di fatto della violazione della normativa legale in materia urbanistica (art. 12 e 13 del d.P.R. n. 380 del 2001) (Sez. 6, n. 11620 del 25/01/2007, Pellegrino, Rv. 236147 – 01), normativa a cui deve farsi riferimento, per ritenere concretata la “violazione di legge”, quale dato strutturale della fattispecie delittuosa ex art. 323 cod. pen. anche seguito della modifica normativa.
Da cui la conferma della sussunzione del caso concreto nella fattispecie normativa di cui all’art. 323 cod. pen. ora vigente. Trattasi senza dubbio di norme specifiche e per le quali non residuano margini di discrezionalità laddove l’art. 12 cit. detta i requisiti di legittimità del permesso a costruire, e il successivo art 13 cit., detta la disciplina urbanistica che il dirigente del settore è tenuto a rispettare nel rilascio del permesso a costruire.
7. Deve rilevarsi la genericità della censura svolta con riguardo al reato di falso, non contenendo i ricorsi, al di là del generico riferimento dell’intitolazione del motivo, alcuna critica specifica all’ordinanza impugnata, mentre, con riguardo al profilo della ricorrenza della clausola di riserva contenuta nell’art. 323 cod. pen., essa non opera, ricorrendo il concorso materiale del reato di abuso in atti di ufficio e del reato di falso, poiché nel caso in esame sono contestate condotte ulteriori e che non si esauriscono nel reato di falso e segnatamente l’esonero dal pagamento degli oneri di costruzione di cui all’art. 19 del d.p.r. 380 del 2001, dovendosi escludere il concorso formale tra il delitto di abuso in atti di ufficio solo quando la condotta addebitata, quale condotta di abuso in atti di ufficio, si esaurisce nella commissione di un reato di falso (Sez. 6, n. 13849 del 28/02/2017, Rv. 269482 – 01).
In altri termini, la condotta addebitata ai ricorrenti, in concorso con Sp., pubblico ufficiale, a titolo di abuso di ufficio non si esaurisce, nelle sue componenti storico-naturalistiche, nella commissione di un fatto qualificabile come falso in atto pubblico.
Consegue, che non è ravvisabile alcuna violazione del principio del ne bis in idem per evidente diversità del fatto naturalistico (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.09.2020 n. 26834 - link a www.ambientediritto.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPubblicazione dati dirigenti cessati.
Domanda
Nel nostro ente, il 31 agosto, è cessato dall’incarico un dirigente a contratto, ex art. 110, comma 1, del TUEL 267/2000, al quale è stato applicato un nuovo contratto triennale a far data dal 01 settembre.
I dati del dirigente vanno pubblicati nella sotto-sezione Personale > Dirigenti cessati?
Risposta
L’articolo 14, comma 2, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, nella sua ultima versione modificata dal d.lgs. 97/2016, prevede per i dirigenti –posizioni organizzative, negli enti senza dirigenza– e per i titolari di incarichi politici l’obbligo di mantenere pubblicati i rispettivi dati “per i tre anni successivi dalla cessazione del mandato o dell’incarico”.
Nel caso prospettano nel quesito, in realtà, il dipendente assunto a tempo determinato, con la qualifica dirigenziale, in applicazione ad una specifica norma del Testo Unico degli Enti Locali, non cessa dall’incarico che, infatti, prosegue, senza soluzione di continuità, per ulteriori tre anni.
L’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) nei suoi documenti e Linee guida ha sempre sostenuto –si veda ad esempio l’Atto di segnalazione n. 6 del 20.12.2017– che le P.A. debbano attenersi al divieto di duplicazione dei dati riguardanti il medesimo soggetto, che devono trovare allocazione all’interno della sezione Amministrazione trasparente, solamente una volta, secondo le indicazioni contenute, per le pubbliche amministrazioni, nell’allegato “1”, della delibera ANAC n. 1310, del 28.12.2016.
Medesima indicazione si rinviene nei documenti dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali italiana, quali, ad esempio, le “Linee guida in materia di trattamento di dati personali, contenuti anche in atti e documenti amministrativi effettuato per finalità di pubblicità e trasparenza sul web da soggetti pubblici e da altri soggetti obbligati”, contenute nel provvedimento n. 243 del 15.05.2014.

Nel vostro caso, quindi, l’obbligo che si appalesa è quello contenuto nell’articolo 14, commi 1 e 1-bis, del d.lgs. 33/2013. La pubblicazione dei dati del dirigente a contratto devono, pertanto, essere pubblicati su Amministrazione trasparente > Personale > Titolari di incarichi dirigenziali (dirigenti non generali), magari aggiornati –entro tre mesi dall’inizio del nuovo incarico– rispetto a quelli già pubblicati in precedenza, a seguito del primo contratto di lavoro a tempo determinato.
Trascorso il nuovo triennio di incarico, qualora il dipendente cessi effettivamente dall’incarico dirigenziale, i suo dati dovranno essere trasferiti nella sotto-sezione Personale > dirigenti cessati, per la durata di anni tre (15.09.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 10.09.2020 n. 225 "Determinazione dei compensi da corrispondere ai componenti delle commissioni esaminatrici e della Commissione per l’attuazione del progetto di riqualificazione delle pubbliche amministrazioni (RIPAM)" (D.P.C.M. 24.04.2020).
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Il suddetto DPCM è stato adottato in applicazione di quanto dispone l'art. 3, comma 13, della L. 19.06.2019 n. 56 il quale così dispone:
   13. Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro per la pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, da adottare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, si provvede all'aggiornamento, anche in deroga all'articolo 6, comma 3, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122, dei compensi da corrispondere al presidente, ai membri e al segretario delle commissioni esaminatrici dei concorsi pubblici per l'accesso a un pubblico impiego indetti dalle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, e dagli enti pubblici non economici nazionali, nonché al personale addetto alla vigilanza delle medesime prove concorsuali, secondo i criteri stabiliti con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23.03.1995, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 134 del 10.06.1995. PERIODO SOPPRESSO DAL D.L. 19.05.2020, N. 34. All'attuazione del presente comma si provvede nei limiti delle risorse disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Tali incarichi si considerano attività di servizio a tutti gli effetti di legge, qualunque sia l'amministrazione che li ha conferiti.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOTempo determinato oltre 36 mesi.
Domanda
È consentita la stipulazione tra il lavoratore ed il medesimo datore di lavoro di contratti di lavoro a tempo determinato della durata superiore di 36 mesi, a seguito di selezioni concorsuali diverse?
Risposta
In generale, nel caso in cui un Ente decida, motivandolo adeguatamente, di riutilizzare il lavoratore oltre il periodo di 36 mesi previsto dalla legge, il Dipartimento della Funzione Pubblica, con nota n. 37.562/2012, ha evidenziato che il superamento di un nuovo concorso pubblico a tempo determinato consente di azzerare la durata del contratto precedente ai fini del computo del limite massimo dei 36 mesi previsto dal d.lgs. 368/2001 (si veda il primo paragrafo di pagina 4).
L’indicazione può ritenersi applicabile anche dopo l’adozione del D.Lgs. n. 81/2015, che non ha innovato o modificato le regole in materia già vigenti in precedenza.
Non vi sono però norme di legge a supporto di tale interpretazione, né indicazioni specifiche nell’art. 50 del CCNL del comparto “Funzioni Locali” sottoscritto in data 21.05.2018 (10.09.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAggiornamento Codice di comportamento.
Domanda
Il codice di comportamento del nostro comune è stato adottato nel 2014. È necessario predisporre un nuovo codice di comportamento di ente?
Risposta
La legge Severino (legge 06.11.2012, n. 190), all’articolo 1, comma 44, ha sostituito l’intero articolo 54, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 ed ha stabilito, per la prima volta (comma 5), che le previsioni del codice di comportamento nazionale, fossero integrate e specificate dai codici di comportamento adottati dalle singole amministrazioni. Come tutti sappiamo, il nuovo codice di comportamento nazionale venne, poi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica del 16.04.2013, n. 62, il quale, all’articolo 1, comma 2, non poteva che ribadire l’obbligo per le P.A. di dotarsi di un codice di comportamento di ente.
Così è stato fatto –tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014– dalla totalità delle pubbliche amministrazioni italiane ed oggi, il codice nazionale e quello di ente fanno buona mostra di sé, nei siti web di tutte le P.A. nella sezione: Amministrazione trasparente> Disposizioni generali > Atti generali.
Per rendere più cogente l’obbligo, il legislatore nazionale intervenne scrivendo l’articolo 19, comma 5, lett. b), del decreto-legge 90/2014, in cui si stabiliva una sanzione pecuniaria da 1.000 a 10.000 euro per i soggetti che omettevano la redazione del codice di comportamento di ente. L’ANAC –nella sua fase di massimo “splendore creativo”– riuscì, con un regolamento del 09.09.2014, ad allargare le maglie della legge, prevedendo la medesima sanzione, anche per gli enti che avevano adottato un codice di ente meramente riproduttivo del Codice di comportamento emanato con il decreto del Presidente della Repubblica 16.04.2013, n. 62 o l’approvazione di un provvedimento, il cui contenuto riproduca in modo integrale analoghi provvedimenti adottati da altre amministrazioni, privo di misure specifiche introdotte in relazione alle esigenze dell’amministrazione interessata.
Insomma: l’ANAC prometteva multe per tutti. Per chi non provvedeva, ma anche per chi copiava la legge senza integrarla a sufficienza o per chi –complice il web– aveva copiato dal vicino di banco.
Nel Piano Anticorruzione Nazionale (PNA) dell’anno 2019 –delibera n. 1074 del 21.11.2018– l’ANAC ha utilizzato tutto il paragrafo 8 per spiegarci che aveva deciso “di condurre sul tema dei codici di comportamento un notevole sforzo di approfondimento sui punti più rilevanti della nuova disciplina e partendo dalla constatazione della scarsa innovatività dei codici di amministrazione che potremmo chiamare “di prima generazione”, in quanto adottati a valle dell’entrata in vigore del d.P.R. 63/2013 e delle prime Linee Guida ANAC dell’ottobre del 2013. Tali codici, infatti, si sono, nella stragrande maggioranza dei casi, limitati a riprodurre le previsioni del codice nazionale, nonostante il richiamo delle Linee guida ANAC sulla inutilità e non opportunità di una simile scelta”.
Sull’argomento, l’ANAC preannunciava –per i primi mesi del 2019– l’emanazione di apposite (nuove) linee guida generali con le quali “si daranno istruzioni alle amministrazioni quanto ai contenuti dei codici (doveri e modi da seguire per un loro rispetto condiviso), al procedimento per la loro formazione, agli strumenti di controllo sul rispetto dei doveri di comportamento, in primo luogo in sede di responsabilità disciplinare”.
Le Linee guida non hanno visto la luce nel promesso anno 2019 (annus horribilis per l’Autorità), ma in quello successivo, per il tramite della delibera ANAC n. 177 del 19.02.2020, suddivisa in sedici paragrafi, per un totale di 36 pagine.
In soldoni, le nuove linee guida ribadiscono che i codici di comportamento di ente –quelli che sarebbero di “seconda generazione”– devono integrare e specificare i contenuti del codice generale. Che la loro adozione deve essere preceduta da una “procedura aperta alla partecipazione” e che sulla stesura definitiva, occorre il parere obbligatorio (ma non vincolante) dell’OIV o Nucleo di valutazione. Non grandissime novità –potremmo dire– dal momento che si tratta di disposizioni legislative note dal novembre del 2012.
Svolta questa lunga  e forse inutile– premessa, si risponde al quesito nel modo seguente:
   a) Non è obbligatorio rifare il codice di comportamento di ente;
   b) Non c’è una legge che lo preveda o un termine da rispettare;
   c) Non ci sono sanzioni per chi decide di tenersi quello che ha già, se funziona;
   d) Può essere utile e, in alcuni casi necessario –dopo sei anni del “vecchio codice”– prevedere un tagliando anche alla luce delle esperienze maturate nell’ente, dell’applicabilità del vecchio codice, della eventuale necessità di aggiornarlo e renderlo più chiaro ed efficace, soprattutto per ciò che concerne i comportamenti, le dichiarazioni e comunicazioni dei dipendenti (artt. 5, 6 e 13 codice generale) e la loro tempistica;
   e) Se il RPCT decide di metterci le mani –magari perché la misura è stata anche prevista nel PTPCT 2020/2022– occorre fare riferimento alle Linee guida ANAC, prestando una particolare attenzione ai paragrafi:
– 11. Procedura di formazione dei codici;
– 12. Struttura dei codici;
– 15. Formazione sui contenuti dei codici di comportamento;
– 16. Vigilanza sull’applicazione dei codici (08.09.2020 - link a www.publika.it).

agosto 2020

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni nei comuni a rischio, dopo il DM 17.03.2020. Necessario rivederlo, ma non per livellare al ribasso l'indice di virtuosità dei comuni (31.08.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOProcessi evolutivi da smart working e riforma della P.A. (29.08.2020 - link a www.mauriziolucca.com).
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Lo smart working alimenta il dibattito pubblico con vicende che spesso appaiono contradittorie, da una parte, alcune categorie di lavoratori si “rifiutano” di rientrare in servizio (ovvero, manifestano perplessità al rientro forzato non essendo –in grado il datore di lavoro pubblico– di assicurare la sicurezza dal contagio), dall’altra parte, chi vorrebbe rientrare al lavoro (ovvero, far rientrare il personale in servizio, c.d. in presenza), viene chiamato a fornire chiarimenti dalla Funzione Pubblica per la presunta violazione del protocollo quadro “Rientro in sicurezza”, sottoscritto il 24.07.2020 dal Ministro per la P.A. (...continua).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOConcorsi pubblici: sarà poi vero che le prove scritte debbono essere anonime e segrete? L'Anac suggerisce di ribadire nel Ptpc quel che la legge e la giurisprudenza affermano da sempre. Abbundantis abbundantiam... (27.08.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOQuesto Comune, nel corso dell'anno 2020, ha registrato alcune cessazioni di personale riconducibili a diverse fattispecie (dimissioni volontarie, pensionamento e mobilità).
Alla luce del Decreto Interministeriale del 17.03.2020, in attuazione del D.L. 30.04. 2019, n. 34, si chiede un vostro parere sul fatto che l'Ente, a prescindere dai valori soglia e dalla percentuale di assunzioni massima stabilita dallo stesso decreto, possa procedere alla sostituzione del personale cessato?

Per rispondere al quesito proposto segnaliamo come sul tema specifico sia intervenuta la prima pronuncia della Magistratura Contabile con parere della sezione regionale di controllo per la Regione Lombardia n. 93 del 30.07.2020.
La Corte dei Conti lombarda nel ricordare che la nuova normativa introdotta dal legislatore fornisce un nuovo ambito di applicazione della c.d. capacità assunzionale basato sulla "sostenibilità finanziaria" della spesa, ossia sulla sostenibilità del rapporto tra spese di personale ed entrate correnti, rimarca il fatto che la stessa sezione si è già espressa (con deliberazione nella predetta Delib. 74/2020/PAR) anche sull'ambito temporale di estensione nella nuova normativa per cui, secondo il c.d. principio del tempus regit actum, per le assunzioni da effettuare dall'entrata in vigore della nuova normativa, i nuovi spazi assunzionali sono legati alla regola della sostenibilità finanziaria della spesa misurata attraverso i valori soglia per come definiti nella disciplina normativa sopra richiamata.
Secondo la corte, infatti, la peculiarità del nuovo parametro è infatti da ricercarsi nella "flessibilità che in una situazione fisiologica (e dunque al netto di quella contingente, eccezionale e di emergenza) responsabilizza l'ente sul versante della riscossione delle entrate il cui gettito medio nel triennio potrà, se in aumento, offrire anche ulteriori spazi assunzionali" e ne consegue il fatto che, in risposta alla domanda odierna, che, per le procedure effettuate dal 20.04.2020 (termine dettato dalla circolare esplicativa al DM assunzionale), i comuni non possono procedere alla sostituzione del personale cessato nell'anno (per dimissioni volontarie, pensionamento o mobilità), a prescindere dai valori soglia e dalle percentuali assunzionali stabilite dal D.L. 30.04.2019, n. 34 e dalla normativa di attuazione contenuta nel D.M. 17.03.2020 della Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento della funzione pubblica.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.L. 30.04.2019, n. 34, art. 33 D.L. 34/2019 - D.M. 17.03.2020 della Presidenza del Consiglio dei Ministri Dip. funz. pubbl.
Documenti allegati

Circ. 17.03.2020 del Ministero dell'Interno
(26.08.2020 - tratto da
http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Niente rimborso delle spese legali per omicidio colposo durante un viaggio di servizio (25.08.2020 - link a www.mauriziolucca.com).
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La Sez. II del Consiglio di Stato, con la sentenza 24.08.2020 n. 5182 (est. Luttazi), conferma un orientamento che riconosce il rimborso alle spese legali solo sul presupposto che il fatto, o l’atto oggetto del giudizio, sia stato compiuto nell’esercizio delle attribuzioni affidate al dipendente pubblico e vi sia un nesso di strumentalità –tra l’adempimento del dovere e il compimento dell’atto– nel senso che il dipendente non avrebbe eseguito ai suoi compiti se non compiendo quel fatto o quell’atto, oltre, la dovuta assenza del conflitto di interessi. (...continua).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOOrdinanzite, la grave malattia che flagella l'ordinamento giuridico (24.08.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Bilanciamento tra esigenze di pari rango.
Nel rapporto di lavoro pubblico, la limitazione dell’irrinunciabile diritto costituzionale alle ferie con il divieto di pagamento della retribuzione corrispondente alle ferie non godute, può operare solo nei limiti del bilanciamento tra esigenze di pari rango, ossia se la parte datoriale abbia messo il lavoratore in condizione di fruirne; solo in tal caso il legislatore può legittimamente stabilire, per fictio iuris, l’impossibilità sopravvenuta della prestazione perché l’obbligato ha offerto la prestazione ed il creditore è in mora nel riceverla (TRIBUNALE di Piacenza, Sez. lav., sentenza 20.08.2020 n. 6 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nessuna situazione di inconferibilità e incompatibilità (ex d.lgs. n. 39/2013) per la partecipazione ad una procedura concorsuale a dirigente: va accertata all’esito della nomina (19.08.2020 - link a www.mauriziolucca.com).
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In via preliminare, l’art. 60 e ss. del d.P.R. n. 3/1957 individua i casi di incompatibilità (assoluti) a ricoprire un incarico pubblico, mentre gli artt. 28 e ss. del d.lgs. n. 165/2001 indicano i requisiti di accesso alla qualifica di dirigente, l’art. 1 del d.lgs. n. 33/2013 prevede «ai fini del conferimento di incarichi dirigenziali… nelle pubbliche amministrazioni, negli enti pubblici e negli enti di diritto privato in controllo pubblico si osservano le disposizioni contenute nel presente decreto, fermo restando quanto previsto dagli articoli 19 e 23-bis del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, nonché dalle altre disposizioni vigenti in materia di collocamento fuori ruolo o in aspettativa». (...continua).

PUBBLICO IMPIEGO: Congedo per i genitori con figli di età non superiore ai dodici anni, di cui agli artt. 23 e 25 del D.L. 18/2020, convertito dalla L. 27/2020. Effetti sulle ferie.
Poiché le norme disciplinanti lo speciale congedo istituito al fine di consentire ai genitori di provvedere alla cura dei minori di età non superiore ai dodici anni durante il periodo di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole, conseguente all’emergenza epidemiologica da COVID-19, non chiariscono gli effetti sulle ferie della relativa fruizione, nelle more di un auspicabile tempestivo chiarimento da parte dei competenti Uffici e Organismi dello Stato, si ritiene che la questione possa essere risolta estendendo al congedo in esame la disciplina legale dettata dall’art. 34, comma 5, del D.Lgs. 151/2001 per i congedi parentali “ordinari”, in base alla quale i periodi di fruizione dei congedi non sono utili ai fini della maturazione delle ferie.
Il Comune chiede di conoscere se la fruizione del congedo previsto dall’art. 23
[1] del decreto-legge 17.03.2020, n. 18 [2], convertito, con modificazioni, dalla legge 24.04.2020, n. 27, incida sul computo delle ferie spettanti al lavoratore e, in caso affermativo, con quale modalità di calcolo esse vadano rideterminate.
Occorre premettere che il congedo di cui trattasi –fruibile dai dipendenti del settore pubblico nei termini previsti dal successivo art. 25
[3], di cui si dirà in seguito– riveste natura straordinaria e provvisoria, essendo stato istituito al fine di consentire ai genitori di provvedere alla cura dei minori durante il periodo di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole, conseguente all’emergenza epidemiologica da COVID-19.
L’art. 23 del D.L. 18/2020 prevede –per quanto qui rileva– che qualora ricorrano le condizioni ivi stabilite, ciascun genitore lavoratore dipendente del settore privato ha diritto a fruire, per un periodo continuativo o frazionato comunque non superiore a trenta giorni, per la cura dei figli di età non superiore ai dodici anni, fatto salvo quanto previsto al comma 5
[4], di uno «specifico congedo», per il quale è riconosciuta un’indennità pari al cinquanta per cento della retribuzione [5]. La norma chiarisce che «I suddetti periodi sono coperti da contribuzione figurativa» (comma 1).
La disposizione stabilisce, poi, che gli eventuali periodi di congedo parentale, di cui agli artt. 32
[6] e 33 [7] del decreto legislativo 26.03.2001, n. 151 [8], fruiti dai genitori durante il periodo di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole «sono convertiti nel congedo di cui al comma 1 con diritto all’indennità e non computati né indennizzati a titolo di congedo parentale» (comma 2).
L’art. 25, comma 1, del D.L. 18/2020, estendendo la disciplina del congedo in esame ai lavoratori del pubblico impiego:
   1) stabilisce una diversa ampiezza temporale per la sua fruizione
[9], rispetto a quanto previsto per i dipendenti del settore privato [10];
   2) sancisce che i genitori hanno diritto a fruire dello specifico congedo e relativa indennità di cui all’art. 23, commi 1, 2, 4
[11], 5 [12], 6 [13] e 7 [14], tranne qualora «uno o entrambi i lavoratori stiano già fruendo di analoghi benefici».
Il comma 2 del medesimo art. 25 stabilisce, poi, che «L’erogazione dell’indennità, nonché l’indicazione delle modalità di fruizione del congedo sono a cura dell’amministrazione pubblica con la quale intercorre il rapporto di lavoro.».
Ciò posto, si osserva che la disciplina del congedo in argomento non contiene alcuna indicazione circa gli effetti sulle ferie della fruizione dello stesso, né tale questione risulta affrontata nei documenti parlamentari concernenti il D.L. 18/2020 e la relativa legge di conversione e neppure negli atti interpretativi e di indirizzo riguardanti il nuovo istituto
[15].
Considerato che:
   a) gli eventuali periodi di congedo parentale “ordinario”, di cui al già richiamato D.Lgs. 151/2001, fruiti dai genitori durante il periodo di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole sono convertiti ex lege nello speciale congedo oggetto di disamina;
   b) ambedue le tipologie di assenza dal lavoro perseguono il medesimo fine e fanno riferimento ai figli di età non superiore ai dodici anni;
   c) entrambi i congedi prevedono la corresponsione di un’indennità, determinata in base al medesimo parametro
[16] e in misura inferiore [17] rispetto alla retribuzione in godimento;
sembra che i due istituti possano ritenersi assimilabili.
Al riguardo, si segnala la posizione assunta dall’Istituto Nazionale Previdenza Sociale (INPS)
[18] che, pur esprimendosi su questione diversa [19] da quella oggetto di disamina, rileva che il “congedo COVID-19” si ispira alla medesima ratio juris che caratterizza i congedi parentali di cui agli artt. 32 e seguenti del D.Lgs. 151/2001, propendendo apertamente per l’assimilazione dei due istituti e per l’estensione della normativa disciplinante i congedi parentali al “congedo COVID-19”.
Occorre, pertanto, valutare la possibilità di risolvere il quesito posto applicando al “congedo COVID-19” la disciplina dettata per il congedo parentale “ordinario”.
Fermo restando che, trattandosi di norme statali, l’interpretazione delle relative disposizioni compete esclusivamente agli Uffici e agli Organismi dello Stato preposti alla trattazione della materia, nelle more di un auspicabile tempestivo chiarimento da parte degli stessi, si formulano, in via collaborativa, le seguenti considerazioni.
L’art. 34, comma 5, del D.Lgs. 151/2001 stabilisce che «I periodi di congedo parentale sono computati nell’anzianità di servizio, esclusi gli effetti relativi alle ferie e alla tredicesima mensilità o alla gratifica natalizia.».
Come chiarito dall’Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni (ARAN)
[20] la norma deve intendersi nel senso che i periodi di fruizione dei congedi parentali non sono utili ai fini della maturazione delle ferie [21], tranne qualora sia diversamente stabilito da un’eventuale disciplina di maggiore tutela [22], espressamente consentita dall’art. 1, comma 2 [23], del D.Lgs. 151/2001.
Poiché occorre individuare la regola utile a risolvere il quesito posto, si ritiene che essa debba rinvenirsi nell’ordinaria disciplina legale, non potendosi fare riferimento, per via analogica, ad un’eventuale disposizione derogatoria della stessa
[24].
Quanto al quesito volto a stabilire con quale modalità di calcolo vadano rideterminate le ferie, si segnala che l’ARAN
[25] afferma che «relativamente alla particolare problematica della determinazione dei giorni di ferie maturati mensilmente dal dipendente, in presenza nel mese di periodi di assenza dal lavoro non utili a tal fine, come già evidenziato in precedenti orientamenti applicativi, l’avviso della scrivente Agenzia, in generale, è nel senso che, in mancanza di una regola contrattuale espressa, una possibile soluzione, sulla base dei consueti principi di logica e ragionevolezza, potrebbe essere quella di applicare in materia un principio di stretta proporzionalità».
Pertanto, secondo l’ARAN, «si dovrebbe procedere alla individuazione della quantità delle ferie spettanti per mese, tenendo conto dell’incidenza in ciascuno di essi degli eventuali periodi di assenza che non danno luogo a maturazione di ferie».
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[1] «Congedo e indennità per i lavoratori dipendenti del settore privato, i lavoratori iscritti alla Gestione separata di cui all’art. 2, comma 26 della legge 08.08.1995, n. 335, e i lavoratori autonomi, per emergenza COVID-19».
[2] «Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19».
[3] «Congedo e indennità per i lavoratori dipendenti del settore pubblico, nonché bonus per l’acquisto di servizi di baby-sitting per i dipendenti del settore sanitario pubblico e privato accreditato, per emergenza COVID-19».
[4] «Ferma restando l’estensione della durata dei permessi retribuiti di cui all’articolo 24, il limite di età di cui ai commi 1 e 3 non si applica in riferimento ai figli con disabilità in situazione di gravità accertata ai sensi dell’articolo 4, comma 1, della legge 05.02.1992, n. 104, iscritti a scuole di ogni ordine e grado o ospitati in centri diurni a carattere assistenziale.».
[5] Calcolata ai sensi dell’art. 23, eccettuato il comma 2, del D.Lgs. 151/2001.
[6] «Congedo parentale (legge 30.12.1971, n. 1204, articoli 1, comma 4, e 7, commi 1, 2 e 3)».
[7] «Prolungamento del congedo (legge 05.02.1992, n. 104, art. 33, commi 1 e 2; legge 08.03.2000, n. 53, art. 20)».
[8] «Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 08.03.2000, n. 53».
[9] «A decorrere dal 05.03.2020, in conseguenza dei provvedimenti di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado, di cui al Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 04.03.2020, e per tutto il periodo della sospensione ivi prevista […]».
[10] «Per l’anno 2020, a decorrere dal 5 marzo e fino al 31 agosto […]».
[11] «La fruizione del congedo di cui al presente articolo è riconosciuta alternativamente ad entrambi i genitori, per un totale complessivo di trenta giorni, ed è subordinata alla condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa o altro genitore disoccupato o non lavoratore.».
[12] Vedi nota n. 4.
[13] «In aggiunta a quanto previsto nei commi da 1 a 5, i genitori lavoratori dipendenti del settore privato con figli minori di anni 16, a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa o che non vi sia altro genitore non lavoratore, hanno diritto di astenersi dal lavoro per l’intero periodo di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado, senza corresponsione di indennità né riconoscimento di contribuzione figurativa, con divieto di licenziamento e diritto alla conservazione del posto di lavoro.».
[14] «Le disposizioni del presente articolo trovano applicazione anche nei confronti dei genitori affidatari.».
[15] Presidenza del Consiglio dei Ministri – Ministro per la Pubblica Amministrazione, circolare n. 2/2020 del 01.04.2020; Istituto Nazionale Previdenza Sociale: messaggio n. 1281 del 20.03.2020, circolare n. 45 del 25.03.2020, messaggio n. 1621 del 15.04.2020, messaggio n. 1648 del 16.04.2020, circolare n. 81 dell’08.07.2020; messaggio n. 2968 del 27.07.2020.
[16] L’art. 23, comma 1, primo periodo, del D.L. 18/2020 stabilisce che l’indennità è «calcolata secondo quanto previsto dall’articolo 23 del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26.03.2001, n. 151, ad eccezione del comma 2 del medesimo articolo».
[17] Nel congedo “ordinario” l’indennità è pari al 30%, mentre nel congedo “COVID-19” è pari al 50% della retribuzione.
[18] Messaggio n. 2968 del 27.07.2020, cit.
[19] Valutabilità dei periodi di assenza dal lavoro per fruizione del “congedo COVID-19” ai fini delle prestazioni previdenziali di fine servizio (TFS-TFR).
[20] Vedi, in particolare, gli orientamenti applicativi RAL 1950 e RAL 1951 del 06.11.2017.
[21] Si veda, per completezza, anche l’orientamento applicativo ARAN EPNE 146 del 02.08.2012.
[22] Che, in questo contesto territoriale, è recata dall’art. 5, comma 9, della legge regionale 27.11.2006, n. 23, secondo il quale «Per il personale degli enti locali, a decorrere dall’01.12.2005, nell’ambito del periodo di astensione dal lavoro previsto dall’articolo 32 del decreto legislativo 26.03.2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 08.03.2000, n. 53), per le lavoratrici madri o in alternativa per i lavoratori padri, i primi sessanta giorni, computati complessivamente per entrambi i genitori e fruibili anche frazionatamente, non riducono le ferie, sono valutati ai fini dell’anzianità di servizio e sono retribuiti per intero, con esclusione dei compensi per lavoro straordinario e le indennità per prestazioni disagiate, pericolose o dannose per la salute.».
La previsione è stata recepita dall’art. 20, comma 1, del Contratto collettivo regionale di lavoro del personale non dirigente del Comparto unico del pubblico impiego regionale e locale del Friuli Venezia Giulia del 07.12.2006 – Quadriennio normativo (II fase) 2002-2005 e biennio economico 2004-2005.
[23] «Sono fatte salve le condizioni di maggior favore stabilite da leggi, regolamenti, contratti collettivi, e da ogni altra disposizione.».
[24] Un tanto ai sensi dell’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile.
[25] Vedi, in particolare, gli orientamenti applicativi RAL 1871 dell’11.10.2016 e RAL 1889 del 18.11.2016
(17.08.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

PUBBLICO IMPIEGOLegge 104/1992: ora si può restare anche a casa propria.
È legittima l’assistenza a distanza del disabile, rimanendo in attesa di una sua chiamata e pronti a intervenire in caso di necessità: lo afferma la Corte di Cassazione.
Un tuo familiare è disabile grave e per assisterlo usufruisci dei permessi della legge 104, che ti consente di assentarti dal lavoro. Sicuramente sai che questa agevolazione è legata alle necessità della persona da assistere: il congedo straordinario offerto dalla legge 104 deve essere utilizzato proprio ed esclusivamente per gli scopi consentiti e non per altre finalità. Se ne abusi, potresti anche essere licenziato.
Ma cosa succede se quando sei in permesso dal lavoro rimani a casa tua ad aspettare una eventuale chiamata del tuo familiare disabile e nel frattempo ti riposi o ti dedichi alle tue faccende?
La nuovissima ordinanza 12.08.2020 n. 16930 della Corte di Cassazione, Sez. lavoro, fa luce proprio su questo punto e stabilisce che è legittimo prestare assistenza “a distanza”, restando nella propria abitazione a disposizione del disabile che può comunicare le sue richieste di intervento, in modo da recarsi da lui solo in caso di necessità.
Il caso riguardava una lavoratrice che era stata licenziata proprio perché era stato accertato che trascorreva le giornate di permesso quasi sempre a casa sua, andando dal fratello disabile solo per una ventina di minuti. Però per tutto il tempo rimaneva in una posizione di attesa: è stato provato –rileva la sentenza– che la donna «era rimasta l’intera mattinata nell’esclusiva disponibilità del fratello» disabile, «il quale avrebbe potuto in qualsiasi momento richiedere la sua assistenza».
Così la lavoratrice aveva prestato un’«assistenza graduata» che non spezzava il legame con le finalità del permesso e dunque non c’era stato, a giudizio della Corte, nessun abuso. Questo significa che mentre si è in congedo o permesso per legge 104 non è sempre necessario stare in presenza del familiare disabile.
Diversamente sarebbe accaduto –rileva il Collegio– se fosse stato accertato, durante il periodo di congedo per legge 104, «lo svolgimento di attività nell’esclusivo interesse del lavoratore, quali l’essersi recato in vacanza, aver partecipato ad attività di personale interesse o aver adottato condotte similari tali da denotare una violazione del principio di buona fede nei rapporti con il datore di lavoro tale da integrare l’abuso del diritto».
Fermo restando che occorre rimanere a casa a disposizione del disabile in caso di necessità, la Corte però si rende conto che la linea di demarcazione tra uso legittimo del diritto attribuito dalla legge 104 ed abuso in questi casi è molto sottile e si preoccupa di specificare i punti fermi.
Innanzitutto ricorda che l’assistenza al disabile, che legittima l’assenza dal lavoro riconosciuta dalla legge 104, non può intendersi «esclusiva al punto di impedire a chi la offre di dedicare spazi temporali adeguati alle personali esigenze di vita»; rimane dunque un margine, fermo restando che «deve comunque garantire al disabile grave un intervento assistenziale di carattere permanente, continuativo e globale»; dunque dev’essere un’assistenza piena, che non può essere limitata o compromessa dalle esigenze personali del lavoratore.
L’abuso, invece, si verifica quando si spezza questo nesso indispensabile tra l’assenza dal lavoro e l’assistenza al disabile: ciò avviene –spiegano gli Ermellini– quando il lavoratore «approfitta del permesso per attendere ad attività di suo esclusivo interesse».
Questo principio potrebbe rimanere vago, e allora la Cassazione aggiunge che, nei casi concreti da esaminare, «occorre verificare se l’eventuale esercizio di altre attività o, come nel caso che qui occupa, la semplice attesa dell’occorrente assistenza possano integrare un uso legittimo del permesso». E in questo caso la Corte ha accertato che il comportamento della lavoratrice rimasta a casa era stato «sicuramente non profittevole».
La sentenza di oggi raggiunge conclusioni opposte a quelle di una precedente pronuncia dello scorso anno, che aveva detto sì al licenziamento per chi si riposa a casa. Se accostiamo i due casi, scopriamo che in realtà il principio di fondo è il medesimo: quello che conta è che le esigenze del disabile da assistere abbiano il primo posto e il massimo rilievo. Quando invece passano in secondo piano perché colui che dovrebbe prestare assistenza si occupa di altro e non è in grado di intervenire, questa trascuratezza pregiudica l’assistenza e il comportamento di chi “bada ai fatti propri” diventa illegittimo.
Nel caso in cui è stato confermato il licenziamento era emerso che l’assistenza era mancata ed era stata compromessa dal comportamento egoistico del lavoratore che aveva preferito rimanere a casa sua anziché recarsi ad accudire il disabile; invece nel nuovo caso di cui abbiamo parlato si era realizzata una messa a disposizione a distanza e su chiamata in caso di necessità, provata dal fatto che al momento del bisogno la lavoratrice aveva trascorso con la persona disabile il tempo occorrente per provvedere alle sue esigenze (commento tratto da e link a www.laleggepertutti.it).
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SENTENZA
   - con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione degli artt. 2119, 1375, 1175 cod. civ., e 33 L. 104/1992 in relazione all'art. 360, co. 1, n. 3 cod. proc. civ. per avere la Corte d'Appello ritenuto che la prestazione di mera attesa della lavoratrice presso la propria abitazione dovesse considerarsi assistenza graduata alle esigenze via via manifestate dalla persona (il fratello) beneficiaria dell'assistenza medesima e, dunque, la propria assenza dal lavoro legittima e rispettosa dei principi di correttezza e buona fede con conseguente legittimità del licenziamento;
   - il motivo è infondato;
   - la Corte, invero, dopo aver ricostruito la disciplina normativa inerente alla concessione di permessi ai sensi dell'articolo 33 della legge n. 104 del 1992, ha escluso, sulla base delle risultanze probatorie raccolte in primo grado, l'utilizzazione abusiva del permesso per l'assistenza del proprio fratello da parte della ricorrente;
   - in particolare, il Collegio ha evidenziato come già all'esito dell'istruttoria sommaria e, comunque, in entrambi i procedimenti, fosse stato escluso in fatto che nel pomeriggio del 24 dicembre la Ca. avesse trascorso con il fratello soltanto una ventina di minuti ed ha ritenuto che l'esser rimasta la dipendente nella propria abitazione a disposizione del fratello non integrasse quelle ipotesi di abuso di posizione riscontrate dalla giurisprudenza di legittimità in circostanze del tutto diverse, nelle quali era stato accertato lo svolgimento di attività nell'esclusivo interesse del lavoratore, quali l'essersi recato in vacanza, aver partecipato ad attività di personale interesse o aver adottato condotte similari atte a denotare una violazione del principio di buona fede nei rapporti con il datore di lavoro tali da integrare l'abuso del diritto (il richiamo del Collegio è a Cass. n. 4984/2014, Cass. n. 8784/2015; Cass. n. 5574/2016, Cass. n. 5574/2016; Cass. n. 9217/2016, cui si possono aggiungere, fra le altre, Cass. n. 17968/2016 e Cass. n. 19850 del 2019);
   - la Corte ha ritenuto, quindi, infondata la contestazione datoriale per i fatti specifici addebitati ed inoltre dimostrato non solo l'assunto secondo cui la lavoratrice avrebbe dovuto andare a prendere il fratello al lavoro per trascorrere con lui presso la propria abitazione la vigilia di Natale, ma anche che lo stesso l'aveva chiamata alle 11 circa del mattino per avvisarla che non stava bene e che sarebbe uscito anticipatamente dal lavoro, precisando che l'avrebbe chiamata per dirle quando andare a prenderlo;
   - ha ritenuto, quindi, il Collegio, pienamente provata la circostanza che la ricorrente fosse rimasta l'intera mattinata nell'esclusiva disponibilità del fratello, il quale avrebbe potuto in qualsiasi momento richiedere la sua assistenza e, quindi, anche prima delle 13:00, come effettivamente si era verificato per effetto della chiamata di cui era rimasta in attesa, ancorché egli poi avesse preferito recarsi presso la propria abitazione autonomamente, per essere raggiunto dalla sorella;
   - orbene, va premesso che questa Corte ha affermato, in tema di congedo straordinario ex art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, che l'assistenza che legittima il beneficio in favore del lavoratore, pur non potendo intendersi esclusiva al punto da impedire a chi la offre di dedicare spazi temporali adeguati alle personali esigenze di vita, deve comunque garantire al familiare disabile in situazione di gravità di cui all'art. 3, comma 3, della I. n. 104 del 1992 un intervento assistenziale di carattere permanente, continuativo e globale (Cass. n. 19580/2019 cit.);
   - nondimeno, essa ha precisato che soltanto ove venga a mancare del tutto il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile, si è in presenza di un uso improprio o di un abuso del diritto ovvero di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro che dell'ente assicurativo che genera la responsabilità del dipendente (ancora Cass. n. 19580/2019 cit.);
   - la Corte, d'altro canto, nel dar conto della giurisprudenza di legittimità che richiede che i permessi vengano fruiti in coerenza con la loro funzione ed in presenza di un nesso causale con l'attività di assistenza, ha fatto corretta applicazione delle regole di giudizio che presiedono a tale ambito escludendo il difetto di buona fede ed il disvalore sociale connesso all'abusivo esercizio del permesso atteso che, secondo il suo giudizio, l'atteggiamento della ricorrente è stato quello di profittare del permesso per attendere ad attività di proprio esclusivo interesse;
   - deve, d'altro canto, rilevarsi che, nell'osservanza dei principi generali, in taluni casi, in fatto, può rivelarsi sottile il discrimen fra uso corretto del permesso ed esercizio abusivo e, tuttavia, tale valutazione richiede una indagine fattuale, quale quella esperita dalla Corte territoriale nella specie, atteso che occorre verificare in concreto se l'eventuale esercizio di altra attività o, come nel caso che qui ne occupa, la semplice attesa dell'occorrente assistenza possano integrare un uso legittimo del permesso: tale ove, come nella specie circostanziata ed immune da vizi logici, è sottratta al giudizio di legittimità;
   - nel caso di specie, ribadito che attiene alla violazione di legge la deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge, implicando necessariamente una attività interpretativa della stessa, nella specie, la stessa piana lettura delle modalità di formulazione delle censure ed il riferimento ad una diversa valutazione dei mezzi istruttori, di spettanza esclusiva del giudice di merito, induce ad escludere, ictu oculi, la deduzione di una erronea sussunzione nelle disposizioni normative mentovate della fattispecie considerata, apparendo, invece, chiarissima l'istanza volta ad ottenere una inammissibile rivalutazione del merito della vicenda;
   - in ogni caso, la del tutto congrua motivazione e, in particolare, il rispetto dei canoni che presiedono alla fruizione dei permessi come elaborati dall'interpretazione normativa offerta dalla giurisprudenza di legittimità inducono a ritenere che la Corte abbia fatto buon governo dei principi che regolano la materia;
   - con il secondo motivo di ricorso, si deduce la violazione degli articoli 2119, 1175, 1375 del codice civile e 33 legge n. 104/1992 nonché l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio nella parte in cui il giudice del reclamo ha ritenuto che la questione della mancata offerta della prestazione lavorativa sarebbe superata dal fatto che l'opzione giornaliera di fruizione del permesso escludeva "infatti ab origine la possibilità per la lavoratrice di un frazionamento dell'orario medesimo";
   - va preventivamente rilevato, con riguardo all'ancoramento delle censure all'art. 360, co. 1, n. 5, cod. proc. civ., che, in seguito alla riformulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5 del cod. proc. civ., disposto dall'art. 54, co. 1, lett. b), del DL 22.06.2012 n. 83, convertito con modificazioni nella legge 07.08.2012 n. 134 che ha limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di motivazione alla sola ipotesi di "omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti", con la conseguenza che, al di fuori dell'indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto "minimo costituzionale" richiesto dall'art. 111, comma 6, Cost. ed individuato "in negativo" dalla consolidata giurisprudenza della Corte -formatasi in materia di ricorso straordinario- in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell'art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c. e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità (fra le più recenti, Cass. n. 23940 del 2017);
   - ritiene il Collegio che nessun insanabile contrasto come dedotto da parte ricorrente sia ravvisabile nella motivazione della Corte che non presenta alcuno degli indici rivelatori della motivazione apparente, come dedotto dal ricorrente nel corpo del motivo, dal momento che tale violazione può configurarsi soltanto quando la motivazione, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all'interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche, congetture (sul punto, Cass. n. 13977 del 23.05.2019);
   - l'insussistenza dell'insanabile contrasto, d'altro canto, discende piuttosto dalla perfetta congruenza della considerata motivazione, in tutte le sue parti: in particolare, la Corte ha escluso la sussistenza del fatto contestato reputando sicuramente non profittatore l'atteggiamento della ricorrente, ma, inoltre, con riguardo alla possibilità di porre a disposizione della datrice di lavoro le proprie energie lavorative nelle ore che non sarebbero state occupate dall'assistenza, la considerazione della Corte secondo cui l'aver optato per la fruizione dei permessi ex lege 104/1992 "a giorni" e non "a ore" supera ogni argomento circa la mancata offerta della prestazione lavorativa -per le ore dalle 9 alle 12,00 in cui la lavoratrice sapeva di non essere impegnata nell'assistenza- è perfettamente congrua nell'aver ritenuto che l'opzione giornaliera di fruizione del permesso escludeva ab origine la possibilità per la lavoratrice di un frazionamento orario del medesimo;
   - alla luce delle suesposte argomentazioni, quindi, il ricorso va respinto;

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Azione delittuosa di un dipendente pubblico – Danno all’immagine – Quantificazione equitativa – Nozione del danno erariale non patrimoniale – Bene giuridico tutelato – PUBBLICO IMPIEGO – Valutazione della condotta dall’agente – Art. 97 Cost. – Art. 1226 c.c. – Criteri – Fattispecie: art. 319 cp (corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio) – azione di responsabilità amministrativa per il diritto al risarcimento del danno.
Il danno all’immagine della Pubblica Amministrazione fa parte della categoria del cd. danno erariale non patrimoniale, inteso come grave perdita di prestigio a seguito del danno all’immagine e alla personalità pubblica dello Stato derivante dall’azione delittuosa di un suo dipendente.
Il bene giuridico tutelato è –pertanto– il diritto all’immagine del soggetto pubblico, come proiezione verso l’esterno della propria personalità, anche giuridica, nella lettura necessariamente aperta dell’art. 2 Cost.
In secundis, oggetto di tutela sono il prestigio e l’efficienza della Pubblica Amministrazione di cui all’art. 97 Cost., nonché la fiducia che i consociati stessi ripongono verso la sua azione, irreparabilmente compromessa dalla condotta contra legem dei propri dipendenti nell’esercizio delle proprie funzioni, di modo che il ristoro del danno, certo nell’an, non può che avvenire per equivalente economico, in misura equitativa, idonea a risarcire –sia pure per via indiretta– i valori costituzionali compromessi dalla condotta dall’agente.

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PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Danno all’immagine e danno pubblico – Lesione del buon andamento della P.A. – Elemento costitutivo illecito – Condotta illecita dei dipendenti – Lesione della credibilità ed affidabilità all’interno ed all’esterno dell’Amministrazione – Effetti e limiti del clamore mediatico – Giurisprudenza.
Il danno all’immagine si atteggia quale “danno pubblico” in quanto lesione del buon andamento della P.A., la quale perde, con la condotta illecita dei suoi dipendenti, credibilità ed affidabilità all’interno ed all’esterno della propria organizzazione, ingenerando la convinzione che i comportamenti patologici posti in essere dai propri appartenenti siano un connotato usuale dell’azione dell’Amministrazione.
Tuttavia, l’elemento costitutivo dell’illecito, è rappresentato essenzialmente dalla condotta accertata con sentenza penale irrevocabile di condanna.
In ordine al clamore mediatico della notizia (documentata attraverso articoli tratti dal web), si ritiene di regola che la risonanza mediatica e l’amplificazione del fatto operata dai mass-media, non integri la lesione del bene tutelato, indicandone semplicemente la dimensione, considerato che la diffusione mediatica della notizia non può non minare la fiducia dei cittadini nei confronti dell’istituzione
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Calabria, sentenza 07.08.2020 n. 259 - link a www.ambientediritto.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – DANNO ERARIALE – Procedimento di valutazione dell’attività dei dirigenti – Art. 7, comma 2 e art. 18, comma 2, D.Lgs. n. 150/2009 –Indennità di risultato – Erogazione del trattamento stipendiale accessorio – Azione di responsabilità erariale – Dies a quo del termine quinquennale di prescrizione dell’azione – Evento dannoso concreto, attuale e obiettivamente conoscibile – Art. 1, comma 2, L. n. 20/1994 – Art. 2935 c.c. – Responsabilità amministrativo-contabile.
In materia di responsabilità amministrativo-contabile, ai sensi dell’art. 1, comma 2, L. n. 20 del 1994 e s.m.i., il diritto al risarcimento del danno si prescrive in cinque anni decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso, dalla data della sua scoperta.
Per giurisprudenza consolidata della Corte dei conti, ai fini della decorrenza del termine prescrizionale, in ossequio all’art. 1, comma 2, della L. n. 20 del 1994 e in correlazione all’art. 2935 c.c., non è sufficiente il compimento della condotta illecita, ma occorre altresì un evento dannoso avente i caratteri della concretezza, dell’attualità e della conoscibilità obiettiva da parte dell’Amministrazione danneggiata, che può intervenire anche successivamente ad eventuali esborsi finanziari ed a prescindere da occultamenti dolosi del danno erariale.
Il dies a quo della prescrizione, inoltre, non può ragionevolmente farsi decorrere dalla data in cui soltanto i responsabili dell’illecito avevano la titolarità di far valere, in nome e per conto dell’Ente pubblico, l’eventuale credito risarcitorio generato dalla propria condotta, poiché «non v’è dubbio, […] che, fintanto che la vicenda è rimasta confinata nella materiale conoscenza dei soli convenuti […] nessuna possibilità aveva l’Amministrazione di intervenire per far valere la propria pretesa restitutoria. Una prospettazione che individui il dies a quo nella data dell’illecito rimborso avrebbe l’irragionevole effetto di considerare prescritta, a tutto vantaggio degli stessi responsabili, la pretesa restitutoria dell’erario»
(C. conti, sez. giurisd. Lombardia, sent. n. 196 del 2018).
La decorrenza del termine prescrizionale decorrerà, pertanto, dal momento in cui il pregiudizio erariale è stato accertato in sede ispettiva e portato a conoscenza dell’Amministrazione e della Procura contabile
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia, sentenza 04.08.2020 n. 118 - link a www.ambientediritto.it).

luglio 2020

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Danno erariale – Costituzione dell’amministrazione danneggiata come parte civile nel processo penale – Pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento – Autonomia del giudizio contabile.
Il pagamento da parte di un funzionario pubblico di una somma di denaro a titolo di risarcimento per i danni dallo stesso causati ad una Pubblica Amministrazione non esclude un successivo giudizio contabile per responsabilità amministrativo-contabile.
Per consolidata giurisprudenza contabile, infatti, la costituzione dell’Amministrazione danneggiata come parte civile nel processo penale non preclude l’autonomo giudizio di responsabilità amministrativa, dal momento che solamente il giudicato civile di risarcimento del danno in misura superiore a quello stabilito in sede di giudizio contabile esclude il giudizio stesso.

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PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Responsabilità amministrativa – Antigiuridicità della condotta – Sentenza penale irrevocabile di condanna – Art. 651 c.p.p. – Dolo contabile.
L’antigiuridicità della condotta assunta dal dipendente pubblico, ai fini della configurazione della responsabilità amministrativa, può essere accertata tramite sentenza penale irrevocabile di condanna – attesa la qualificazione della condotta resa in tale sede.
Ai sensi dell’art. 651 c.p.p., infatti, «la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata in seguito di dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale.
La stessa efficacia ha la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata a norma dell’art. 442, salvo che vi si opponga la parte civile che non abbia accettato il rito abbreviato»
(cfr., ex multis, C. conti, sez. I centr., n. 9/2020 e, sez. III centr., n. 13/2020).
Sussiste il dolo contabile, inoltre, se la condotta è stata posta in essere con la coscienza e volontà di violare gli obblighi di servizio.

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PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Danno all’immagine – Quantificazione equitativa – Art. 1226 c.c. – Criteri.
Nel caso di accertata sussistenza di un danno all’immagine patito dalla Amministrazione per la quantificazione dello stesso, si può ricorrere alla quantificazione equitativa ai sensi dell’art. 1226 del codice civile seguendo congiuntamente tre criteri:
   a) oggettivo (che considera la gravità dell’illecito in riferimento agli effetti sull’ azione amministrativa),
   b) soggettivo (che tiene conto della posizione che il convenuto rivestiva all’interno dell’ente) e
   c) sociale (relativo al clamore suscitato nell’ opinione pubblica locale dai fatti in questione ed all’impressione che esso ha suscitato nell’opinione pubblica)
: così anche C. conti, Sez. I centr., n. 476/2015.
Il collegio, in adesione alla pacifica giurisprudenza contabile, rileva che la diffusione della notizia (clamor fori) costituisca il modo attraverso cui viene arrecato nocumento alla reputazione ed alla onorabilità dell’ente pubblico in conseguenza dell’effetto perpetrato dal proprio dipendente
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz Toscana, sentenza 31.07.2020 n. 263 - link a www.ambientediritto.it).

COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Ccnl dirigenti locali e potere di avocazione dei segretari comunali: è nullo, come nullo è l'atto di indirizzo del Comitato di settore, sul quale si tenta di fondarne la legittimità (31.07.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOProcedure connesse all’assunzione di incarichi extra istituzionali.
Domanda
Un dipendente comunale ha svolto nei mesi scorsi, per conto di una società privata, alcuni incarichi retribuiti di docenza ed ora si è rivolto all’ufficio personale dell’Amministrazione per poter essere autorizzato, ai sensi dell’art. 53, comma 9, del d.lgs. 165/2001.
L’impiegato si è scusato dicendo di non conoscere la normativa e ha chiesto di poter sanare nel timore di incorrere in sanzioni.
Come si deve regolare l’Amministrazione?
Risposta
In linea generale, i dipendenti delle pubbliche amministrazioni possono svolgere incarichi retribuiti conferiti da altri soggetti, pubblici o privati, solo se autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. L’articolo 53, del decreto legislativo 30.03.2001 n. 165, dispone, al comma 7, che “I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. Ai fini dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi…” e, ai commi 8 e 9, precisa che, dal canto loro, le pubbliche amministrazioni, gli enti pubblici economici e i soggetti privati non possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi.
La tipologia di incarico in questione rientra fortunatamente in una delle deroghe elencate nel comma 6
[1], del medesimo art. 53; ai sensi della lettera f-bis), infatti, per le “attività di formazione diretta ai dipendenti della pubblica amministrazione nonché di docenza e di ricerca scientifica”, non è necessario acquisire l’autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza.
L’occasione è utile tuttavia per ricordare alcuni aspetti della disciplina degli incarichi extraistituzionali e, in particolare, quali siano le conseguenze in caso di violazione del divieto di cui al comma 7 e se sia possibile acquisire la prescritta autorizzazione dopo lo svolgimento dell’incarico.
In caso di inosservanza del divieto, il compenso dovuto per le prestazioni svolte deve essere versato, a cura del soggetto che lo eroga o, in difetto, del dipendente che lo percepisce, all’Amministrazione di appartenenza del dipendente.
L’omissione del versamento delle somme percepite costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti.
Resta ferma, altresì, la responsabilità disciplinare del dipendente che ha svolto attività professionale non autorizzata (nonché, nel caso di conferimento da parte di altra pubblica amministrazione, del funzionario responsabile del procedimento).
Alla domanda se sia possibile, come richiesto dal dipendente del comune, che l’autorizzazione venga rilasciata successivamente allo svolgimento dell’incarico (con la formula: ora per allora), la giurisprudenza risponde negativamente.
L’orientamento dei Tribunali Amministrativi Regionali
[2] era già nel senso che “sarebbe un controsenso autorizzare ex post un incarico in base ad un potenziale conflitto di interessi, se si considera, altresì, che il fondamento della disciplina della norma citata deve rintracciarsi negli articoli 97 e 98 della Costituzione, ovvero nelle garanzie di imparzialità, efficienza e buon andamento dei pubblici impiegati che sono a servizio esclusivo della Nazione. Sussiste in questa materia una presunzione legale di carattere generale in relazione all’incompatibilità degli incarichi esterni con i doveri d’ufficio…”.
Analogamente la Cassazione, in una recente pronuncia
[3] equipara l’autorizzazione “ora per allora” alla “autorizzazione postuma” e nega la possibilità di concedere successivamente e con efficacia sanante l’autorizzazione di cui all’art. 53, comma 7, del d.lgs. 165/2001.
Il Supremo Giudice afferma, infatti, che “Seppure, dunque, il principio di tipicità degli atti amministrativi non impedisce che il momento di esercizio del potere amministrativo possa essere spostato in avanti in tutti i casi in cui sia ancora possibile effettuare le valutazioni che ne sono alla base (come per le autorizzazioni postume in relazione ad attività edilizie ovvero paesaggistiche: Cons. Stato, sez. VI, 30.03.2004, n. 1695), ciò va escluso nell’ambito specifico degli incarichi dei pubblici dipendenti, che consente che il dipendente medesimo, in presenza di una specifica e preventiva autorizzazione rilasciata da parte dell’amministrazione di appartenenza, possa eccezionalmente ricoprire incarichi ulteriori al di fuori di quelli istituzionali. Invero, l’autorizzazione postuma (id est, con riferimento allo specifico caso in esame, l’autorizzazione “ora per allora”) risulta ontologicamente incompatibile con la finalità dell’istituto della previa autorizzazione che, in base al disposto di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 7, è quella (come detto) di verificare, necessariamente ex ante, l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi.“.
In conclusione, non si pongono problemi con riferimento al caso proposto, stante l’esclusione dall’obbligo della previa autorizzazione per gli incarichi di docenza, ai sensi della lettera f-bis) dell’art. 53, comma 6. Tuttavia, la circostanza che il dipendente affermi candidamente di non conoscere la normativa, deve far riflettere l’Amministrazione e, in particolare, il Responsabile della Prevenzione della Corruzione e Trasparenza, in merito all’adeguatezza della strategia di prevenzione della corruzione e del livello della formazione somministrata ai dipendenti.
Il RPCT dovrà probabilmente proporre, ai sensi dell’art. 1, comma 10, della legge 06.11.2012, n. 190, una modifica del Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT), implementando le misure di informazione e formazione, in materia di conflitto di interessi, rivolte ai dipendenti.
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[1] … Gli incarichi retribuiti, di cui ai commi seguenti, sono tutti gli incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, per i quali è previsto, sotto qualsiasi forma, un compenso. Sono esclusi i compensi derivanti:
   a) dalla collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili;
   b) dalla utilizzazione economica da parte dell’autore o inventore di opere dell’ingegno e di invenzioni industriali;
   c) dalla partecipazione a convegni e seminari;
   d) da incarichi per i quali è corrisposto solo il rimborso delle spese documentate;
   e) da incarichi per lo svolgimento dei quali il dipendente è posto in posizione di aspettativa, di comando o di fuori ruolo;
   f) da incarichi conferiti dalle organizzazioni sindacali a dipendenti presso le stesse distaccati o in aspettativa non retribuita;
   f-bis) da attività di formazione diretta ai dipendenti della pubblica amministrazione nonché di docenza e di ricerca scientifica
[2] Tar Emilia Romagna-Parma Sez. I, Sent., 17.07.2017, n. 263; Tar Emilia Romagna-Parma, Sez. I, 05.06.2017, n. 191; Tar  Calabria-Reggio Calabria, sez. I, 14.03.2017, n. 195; Tar Lombardia-Milano, Sez. IV, 07.03.2013, n. 614
[3] Cass. civ. Sez. II, Sent., (ud. 23/01/2020) 18.06.2020, n. 11811
(28.07.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORiduzione orario.
Domanda
Se la richiesta di un dipendente di trasformazione da full-time a part-time non comporta la trasformazione del posto in dotazione organica e non ci sono altre richieste di trasformazione in corso, è sufficiente la determinazione del responsabile del settore oppure l’atto autorizzatorio è in ogni caso competenza della giunta comunale?
Risposta
In relazione al quesito esposto si ricorda che la riforma Madia con il D.Lgs. 25.05.2017, n. 75 ha modificato l’art. 6 del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, introducendo un sistema di dotazione organica flessibile, legata al concetto di spesa massima potenziale (come somma del personale in servizio e di quello di cui è programmata l’assunzione) confermato, altresì, dalle Linee di indirizzo per la predisposizione dei piani dei fabbisogni di personale delle amministrazioni pubbliche pubblicate in Gazzetta Ufficiale il 27.07.2018.
Nella fattispecie concreta l’ente non si trova nella situazione di rivedere il PTFP perché è mutato il proprio fabbisogno quantitativo e qualitativo del personale, posto che le modifiche al PTFP sono consentite in corso d’anno a fronte di situazioni nuove e imprevedibili che richiedono una adeguata motivazione, ma semplicemente nel contesto di dare attuazione alla disciplina contrattuale di comparto in materia, determinata dalla richiesta del dipendente di trasformazione del rapporto di lavoro da full time a part-time.
Pertanto, non sarà necessario alcun atto autorizzatorio della giunta comunale, considerato che la determinazione del responsabile del servizio di appartenenza del dipendente interessato alla trasformazione de qua, rientra tra le funzioni dirigenziali di cui all’art. 107, comma 3, lett. e), del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, espletate previa verifica dei presupposti di cui all’art. 53, comma 2 del CCNL 21/05/2018.
La trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale dovrà avvenire mediante accordo tra le parti risultante da atto scritto.
In tale accordo, le parti, in conformità alla disciplina di cui all’art. 53, comma 12, del CCNL 21/05/2018 possono eventualmente concordare anche un termine di durata per il rapporto di lavoro a tempo parziale che si va a costituire (23.07.2020 - link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGOUn dipendente di questo Ministero ha richiesto di poter usufruire dei permessi ex art. 33, L. 05.02.1992, n. 104 dichiarando che nel medesimo giorno, il coniuge assistito, lavoratore del settore privato, ne usufruisce al fine di sottoporsi a terapie salvavita.
Si chiede se tale possibilità di utilizzo contemporaneo del medesimo istituto sia contemplata dalla normativa vigente e/o dal CCNL Funzioni Centrali.

Nel quesito proposto dobbiamo innanzitutto distinguere la portata delle due diverse disposizioni normative, che vengono in contatto ma afferenti al medesimo corpo legislativo, ovvero il comma 3 dell'art. 33, L. 05.02.1992, n. 104 per ciò che concerne la situazione del dipendente Ministeriale ed il successivo comma 6 del medesimo art. 33, L. 05.02.1992, n. 104 in riferimento alle terapie salvavita del coniuge assistito.
A tale riguardo, si evidenzia come né la stessa L. 05.02.1992, n. 104 né la contrattazione collettiva per il comparto Funzioni Centrali (CCNL 12.02.2018) prevedono preclusioni a riguardo dell'utilizzazione congiunta dei due distinti istituti sopra elencati che anzi, a nostro parere dovrebbe rappresentare la modalità ordinaria di utilizzo, consentendo al familiare di prestare assistenza nel momento in cui il soggetto lavoratore in situazione di handicap grave si assenta dal lavoro.
Infatti, per ciò che concerne la richiesta del vostro dipendente, il già richiamato comma 3 dell'art. 33, L. 05.02.1992, n. 104 prevede tra i presupposti oggettivi per la fruizione dei permessi in esame l'assenza di "ricovero a tempo pieno" della persona assistita.
A tale riguardo, va richiamata la Circ. 03.12.2010, n. 155 dell'INPS in cui si chiarisce che per "ricovero a tempo pieno" si intende quello, per le intere ventiquattro ore, presso strutture ospedaliere o simili, pubbliche o private, che assicurano assistenza sanitaria continuativa. Nella stessa circolare si chiarisce altresì che tra le eccezioni a tale presupposto vi è l'interruzione del ricovero a tempo pieno per necessità del disabile in situazione di gravità di recarsi al di fuori della struttura che lo ospita per effettuare visite e terapie appositamente certificate.
Riteniamo quindi che se le terapie salvavita non vengono svolte in regime di ricovero a tempo pieno, o se l'interruzione del ricovero avviene secondo quanto sopra specificato, non sussistono ostacoli alla concessione dei permessi come nella situazione prospettata.
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Riferimenti normativi e contrattuali
L. 05.02.1992, n. 104, art. 33 - CCNL 12.02.2018 Funzioni centrali - Circ. 03.12.2010, n. 155 (22.07.2020- tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIÈ illegittima la nomina di un RT diverso dal RPC?
Domanda
Nel nostro comune, il responsabile della trasparenza è figura diversa dal responsabile della prevenzione della corruzione (segretario comunale). A un corso di formazione ci hanno detto che tale situazione è illegittima.
È veramente così?
Risposta
L’articolo 43, comma 1, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, nel testo modificato dall’articolo 34, comma 1, lett. a), del decreto legislativo 25.05.2016, n. 97, prevede testualmente che: 1. All’interno di ogni amministrazione il responsabile per la prevenzione della corruzione, di cui all’articolo 1, comma 7, della legge 06.11.2012, n. 190, svolge, di norma, le funzioni di Responsabile per la trasparenza, di seguito «Responsabile», e il suo nominativo è indicato nel Piano triennale per la prevenzione della corruzione. Il responsabile svolge stabilmente un’attività di controllo sull’adempimento da parte dell’amministrazione degli obblighi di pubblicazione previsti dalla normativa vigente, assicurando la completezza, la chiarezza e l’aggiornamento delle informazioni pubblicate, nonché segnalando all’organo di indirizzo politico, all’Organismo indipendente di valutazione (OIV), all’Autorità nazionale anticorruzione e, nei casi più gravi, all’ufficio di disciplina i casi di mancato o ritardato adempimento degli obblighi di pubblicazione.
Come ben si comprende, l’indicazione del legislatore nazionale –dal 2016– è quella di unificare sotto la stessa persona –negli enti locali “di norma” il segretario comunale– i compiti di responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, utilizzando, appunto, l’acronimo di RPCT.
Analoga posizione è stata poi assunta dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), la quale –nella delibera n. 1310 del 28.12.2016, (di commento del d.lgs. 97/2016)– sostiene che: “Ad avviso dell’Autorità, considerata la nuova indicazione legislativa sulla concentrazione delle due responsabilità, la possibilità di mantenere distinte le figure di RPCT e di RT va intesa in senso restrittivo: è possibile, cioè, laddove esistano obiettive difficoltà organizzative tali da giustificare la distinta attribuzione dei ruoli. Ciò si può verificare, ad esempio, in organizzazioni particolarmente complesse ed estese sul territorio e al solo fine di facilitare l’applicazione effettiva e sostanziale della disciplina sull’anticorruzione e sulla trasparenza. E’ necessario che le amministrazioni chiariscano espressamente le motivazioni di questa eventuale scelta nei provvedimenti di nomina del RPC e RT e garantiscano il coordinamento delle attività svolte dai due responsabili, anche attraverso un adeguato supporto organizzativo”.
Il contenuto letterale della disposizione non prevede affatto, dunque, l’obbligo di avere, in ogni ente e amministrazione, un unico responsabile per la prevenzione della corruzione e trasparenza, quindi l’indicazione del relatore circa la presunta illegittimità della nomina del RT appare non ancorata a nessuna fonte normativa. Resta pertinente, invece, la specificazione dell’ANAC, la quale raccomanda che l’atto di nomina emanato dal sindaco sia debitamente motivato, circa le ragioni (legate a obiettive difficoltà organizzative) del discostamento dal “di norma”.
Se l’ente intende confermare la propria posizione di avere due distinti responsabili (RT e RPC), sarà poi necessario definire nel PTPCT gli ambiti di collaborazione sinergica tra le due figure, tenendo comunque conto che la redazione della proposta del PTPCT, compresa la sezione dello stesso dedicata alla Trasparenza, compete esclusivamente al Responsabile della prevenzione della corruzione, come previsto dall’articolo 1, comma 8, della legge 190/2012. Stessa cosa vale per la relazione annuale recante i risultati dell’attività svolta, prevista dal comma 14, del citato articolo 1, della Legge Severino.
Si ricorda, infine, che i dati relativi al Responsabile della trasparenza e al Responsabile della prevenzione della Corruzione vanno pubblicati su Amministrazione trasparente, all’interno della sotto-sezione: Altri contenuti > Prevenzione della Corruzione (21.07.2020 - link a www.publika.it).

COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: L'illegittimità dell'avocazione degli atti dei dirigenti da parte del segretario accertata dalla Cassazione (20.07.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

PUBBLICO IMPIEGOL’ufficio personale di un ente strumentale della Regione ha ricevuto le dimissioni di un proprio dipendente di ruolo a tempo indeterminato per aver raggiunto i requisiti per il collocamento a riposo con la c.d. "Quota 100".
Le suddette dimissioni sono state presentate in modalità cartacea, ma il dipendente ha avvertito per le vie brevi che avrebbe proceduto all'immissione delle stesse mediante l'applicativo informatico dedicato.
Si chiede se la forma di presentazione cartacea sia ancora valida e se pertanto le dimissioni sono da considerare già efficaci.

Il D.M. 15.12.2015 (Ministro del Lavoro e delle politiche sociali) in attuazione della previsione contenuta nel D.Lgs. 14.09.2015, n. 151, ha previsto, che a partire dal 12.03.2016, le dimissioni volontarie e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro devono essere effettuate in modalità esclusivamente telematiche, tramite una semplice procedura on-line accessibile dal sito Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (c.d. ClicLavoro).
Il successivo D.Lgs. 24.09.2016, n. 185, all'art. 5, comma 6,, in modifica dell'art. 26, D.Lgs. 14.09.2015, n. 151 sopra richiamato, recita che "le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165".
Nel ricordare che il decreto istitutivo del pensionamento anticipato con la c.d. "Quota 100", prevede in capo ai Pubblici Dipendenti l'obbligo di presentare le proprie dimissioni con un preavviso di almeno sei mesi (art. 14, D.L. 28.01.2019, n. 4), l'Ente Regionale rientra evidentemente a pieno titolo tra le Amministrazioni Pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 (Per amministrazioni pubbliche si intendono …….le Regioni, …….e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, ……..tutti gli enti pubblici non economici …... regionali) e pertanto è escluso dall'applicazione della procedura on-line di cui trattasi.
Questo implica che, in riferimento al quesito posto, le dimissioni del dipendente presentate al protocollo dell'Ente in modalità c.d. "cartacea" sono immediatamente efficaci, fermo restando la verifica sui requisiti dichiarati.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 14.09.2015, n. 151 - D.M. 15.12.2015 del Ministro del Lavoro e delle politiche sociali - D.Lgs. 24.09.2016 n. 185 - D.L. 28.01.2019, n. 4
(15.07.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPausa turnisti.
Domanda
Stiamo variando i turni del nostro personale che opera in una struttura sanitaria. La programmazione prevede turni di 7 ore al giorno e turni di 7,5 ore al giorno.
Il dubbio riguarda la legittimità di un turno che supera le 6 ore e l’obbligo della pausa.
Risposta
La disciplina contrattuale contenuta all’art. 26, CCNL 21.05.2018, enuclea la regola generale per cui il personale ha diritto di fruire di una pausa di almeno trenta minuti, quando la prestazione di lavoro giornaliero ecceda le sei ore, purché si tratti di personale non inserito in una organizzazione del lavoro per turni.
La nuova disposizione ha inteso salvaguardare quelle esigenze di continuità nello svolgimento delle attività e di erogazione dei servizi che sono collegati ad organizzazione di lavoro per turni. La deroga è, tuttavia, limitata solo sotto il profilo della durata e consentita solo nelle fattispecie considerate nell’art. 13 del CCNL 09.05.2006.
Ciò significa che l’obbligo di osservare una pausa per i lavoratori turnisti, non può essere dichiarato rinunciabile in ragione della formulazione contrattuale. Ciò che può essere operata è una compressione temporale della durata della pausa che comunque non può valicare il limite minimo fissato dalla fonte legale dei 10 minuti.
Detto in altri termini, l’ente può comprimere la sola durata della pausa obbligatoria per i lavoratori turnisti, in ragione delle esigenze prevalenti di servizio che richiedono di essere soddisfatte, ma non può tollerare il mancato godimento della stessa nella misura minima fissata dalla fonte legale. Non può nemmeno sopprimerla con atto unilaterale per evidente contrasto con la legge e con il contratto collettivo nazionale e tanto meno dichiarala rinunciabile dalla contrattazione integrativa non figurando questo profilo tra le materie ad essa demandate dal contratto nazionale.
Il quadro è coerente con le logiche insite nel rapporto tra fonte legale e fonte contrattuale così come enucleato nel testo unico del pubblico impiego. Dopo il d.lgs. 75/2017, la formulazione dell’art. 2, comma 2, del d.lgs. 165/2001, significa un contratto che può derogare ad una norma di legge a meno che la stessa non lo escluda. Tale possibilità, tuttavia, è limitata esclusivamente alle materie sui cui il legislatore detta disposizioni che si applicano esclusivamente al pubblico impiego, mentre il d.lgs. 66/2003 è una norma che si applica a tutto il pubblico impiego.
È chiaro che nel caso in cui un reparto richieda la presenza minima in servizio di un certo numero di operatori, la pausa obbligatoria va goduta alternativamente e può evidentemente essere goduta anche prima dello scoccare delle 6 ore continuative di servizio, garantendo in questo modo sia il rispetto della norma che il godimento di quanto non si configura come rinunciabile (09.07.2020 - link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALILe dichiarazioni del d.lgs. 39/2013: obblighi e verifiche.
Domanda
Le dichiarazioni in materia di inconferibilità e incompatibilità, previste dall’articolo 20, del d.lgs. 39/2013, vanno presentate ogni anno?
E che obblighi di pubblicazione sono previsti?
Risposta
La materia del quesito è disciplinata dal decreto legislativo 08.04.2013, n. 39, recante “Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell’articolo 1, commi 49 e 50, della legge 06.11.2012, n. 190”.
L’art. 20, comma 1, del d.lgs. 39/2013, prevede che all’atto di conferimento dell’incarico i dirigenti, il segretario comunale e le posizioni organizzative negli enti senza dirigenti (ex art. 2, comma 2, d.lgs. 39/2013), compresi gli incarichi conferiti ai sensi dell’art. 110, del TUEL 267/2000, abbiamo l’obbligo di presentare una dichiarazione sulla insussistenza di una delle cause di inconferibilità del citato decreto legislativo. Come aggiunge il comma 4, del medesimo articolo, la dichiarazione è condizione per l’acquisizione dell’efficacia dell’incarico.
Il comma 2, dell’articolo in trattazione, invece, prevede che i titolari degli incarichi di cui sopra, annualmente debbano presentare una dichiarazione sulla insussistenza di una delle cause di incompatibilità, trattate nel d.lgs. 39/2013.
Le due dichiarazioni (comma 3), vanno pubblicate nel sito web del comune, nella sezione Amministrazione Trasparente > Personale.
Se, come spesso accade nei comuni piccoli e medi, gli incarichi di posizione organizzativa hanno durata annuale, risulta evidente che le due dichiarazioni vanno rese simultaneamente, anche utilizzando un unico modello, come da fac-simile, che si allega alla presente risposta.
All’ente, ricevute le dichiarazioni e pubblicatele nel sito, resta l’obbligo di procedere alla verifica, anche a campione, come previsto dalla delibera ANAC n. 833 del 03.08.2016, recante “Linee guida in materia di accertamento delle inconferibilità e delle incompatibilità degli incarichi amministrativi da parte del responsabile della prevenzione della corruzione. Attività di vigilanza e poteri di accertamento dell’A.N.AC. in caso di incarichi inconferibili e incompatibili”.
Pertanto, è opportuno prevedere nel Piano Triennale Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT) delle idonee misure di verifica sulle dichiarazioni rese dai soggetti che ne sono obbligati. Tra le più semplici ed efficaci è prevista quella di richiedere il certificato penale e carichi pendenti dei soggetti interessati, onde verificare la non presenza di sentenza, anche non passate in giudicato, per uno dei reati previsti dal capo I, del titolo II, del libro secondo del codice penale, anche nel caso di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale (c.d. patteggiamento) (07.07.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Un dipendente di questo Comune ha fatto domanda di andare in pensione anticipata.
E' stata adottata una determinazione del funzionario come atto amministrativo per il riconoscimento dei requisiti per il diritto alla pensione e per il collocamento a riposo.
Si chiede di sapere se l'adozione di tale sia corretta per la gestione del rapporto di lavoro o se, ai sensi dell'art. 5, comma 2, D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 fosse più corretto adottare un atto datoriale.
L'adozione di uno o dell'altro atto sono altresì da ritenersi equivalenti ai fini del riconoscimento della pensione?
Producono, nell'ambito del riconoscimento al diritto della pensione, degli effetti giuridici differenti in termini di ricorso alle vie giurisdizionali?

Si ritiene che la questione vada letta alla luce di un recente pronuncia della Suprema Cass. pen. Sez. IV Sent., 20.04.2018, n. 43829.
Detta pronuncia affronta in via incidentale la questione relativa all'individuazione del datore di lavoro nell'ambito delle pubbliche amministrazioni specie nell'ipotesi di delega di funzioni.
Nella citata sentenza infatti la Corte una volta definito il Datore di lavoro come: "...Il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa" individuando detta definizione sulla scorta di quanto codificato dall'art. 2, lett. b), D.Lgs. 09.04.2008, n. 81, delinea poi gli aspetti specifici che contraddistinguono detta figura all'interno della pubblica amministrazione".
La Corte quindi rileva che: "nelle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall'organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa. In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l'organo di vertice medesimo" precisando, altresì, che "...l'individuazione del dirigente (o del funzionario) cui attribuire la qualifica di datore di lavoro è demandata alla pubblica amministrazione, la quale vi provvede con l'attribuzione della qualità e il conferimento dei relativi poteri di autonomia gestionale, non potendo tale qualifica essere attribuita implicitamente ad un dirigente o funzionario solo perché preposti ad articolazioni della pubblica amministrazione che hanno competenze nel settore specifico." .
Alla luce di quanto delineato dalla Corte quindi viene affermata la necessità di un atto espresso da parte della pubblica amministrazione mediante il quale il dirigente o il funzionario viene individuato nella funzione di datore di lavoro con il conseguente conferimento dei relativi poteri di autonomia gestionale.
In conclusione quindi nel caso che ci occupa l'atto del funzionario può ritenersi legittimo ove quest'ultimo sia stato previamente individuato come soggetto depositario della funzione di Datore di lavoro ovvero, ai sensi dell'art. 17, D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 sia stato delegato dal Dirigente preposto al compimento di specifiche funzioni tra cui quella oggetto del quesito.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 1 - D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 17 - D.Lgs. 09.04.2008, n. 81, art. 2
Riferimenti di giurisprudenza

Cass. pen. Sez. IV Sent., 20.04.2018, n. 43829
(06.07.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAumento ore part-time.
Domanda
Aumento delle ore di un dipendente a part-time o trasformazione a tempo pieno: cosa cambia dal punto di vista delle capacità assunzionali?
Risposta
In base all’art. 3, comma 101, della l. 244/2007 la trasformazione del rapporto di lavoro da part-time a full time può avvenire nel rispetto e nelle modalità previste dalle disposizione vigenti in tema di assunzioni.
Secondo diverse pronunce della Corte dei Conti, un mero aumento orario del rapporto di lavoro a tempo parziale, in assenza di trasformazione del rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno, non integra al contrario una nuova assunzione, sempre che ciò non costituisca una manovra elusiva (ex plurimis, Sez. controllo Lombardia n. 462/2012/PAR; Sez. controllo Campania n. 20/2014/PAR; Sez. controllo Sicilia n. 68/PAR/2017; Sez. controllo Sicilia n. 176/PAR/2017; Sez. controllo Molise n. 40/2017/PAR; Sez. controllo Abruzzo n. 12/2017/PAR).
E’ stato, invece, ritenuto elusivo l’incremento orario del rapporto di lavoro a tempo parziale a 35 ore settimanali (Sez. controllo Sardegna n. 67/2012/PAR; SS.RR. Sicilia, n. 96/2012/PAR; Sez. controllo Lombardia n. 462/2012/PAR).
Quindi, si ritiene che, ad esempio, un incremento da 15 a 20 ore del rapporto di lavoro a tempo determinato di un dipendente, nel rispetto dei vincoli in materia di spesa di personale e di reclutamento con rapporti flessibili, non debba seguire le procedure previste per una nuova assunzione (02.07.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOL'ufficio personale di questo Comune, con riferimento alla previsione di cui all'art. 87, comma 4-bis, D.L. 17.03.2020 n. 18 ed alla possibilità di cessione, tra pubblici dipendenti, delle ferie e dei riposi maturati (c.d. ferie solidali), chiede di chiarire la portata di tale disposizione, con particolare riferimento ai termini di fruizione di tale istituto nonché all'eventuale applicabilità anche alle ferie pregresse derivanti da annualità precedenti.
L'art. 87, comma 4-bis, D.L. 17.03.2020 n. 18 (c.d. Decreto "cura Italia") convertito, con modificazioni dalla L. 24.04.2020 n. 27 ha testualmente disciplinato che "fino al termine stabilito ai sensi del comma 1 (n.b. fino alla cessazione dello stato di emergenza al momento fissato al 31 luglio), e comunque non oltre il 30.09.2020, al fine di fronteggiare le particolari esigenze emergenziali connesse all'epidemia da COVID-19, anche in deroga a quanto stabilito dai contratti collettivi nazionali vigenti, i dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, possono cedere, in tutto o in parte, i riposi e le ferie maturati fino al 31.12.2019 ad altro dipendente della medesima amministrazione di appartenenza, senza distinzione tra le diverse categorie di inquadramento o ai diversi profili posseduti. La cessione avviene in forma scritta ed è comunicata al dirigente del dipendente cedente e a quello del dipendente ricevente, è a titolo gratuito, non può essere sottoposta a condizione o a termine e non è revocabile. Restano fermi i termini temporali previsti per la fruizione delle ferie pregresse dalla disciplina vigente e dalla contrattazione collettiva".
Tale disciplina, pertanto, è andata ad integrare per il periodo di emergenza sanitaria legata alla diffusione del Coronavirus, l'istituto delle c.d. ferie solidali recepito, ad esempio, dall'art. 30 del nuovo CCNL del Comparto delle Funzioni locali per il triennio 2016/2018 (in vigore dal 21.05.2018 ed a seguito dell'introduzione di tale istituto nella normativa giuslavoristica con l'art. 24, D.Lgs. 14.09.2015, n. 151).
Premessa la disciplina normativa dell'istituto di cui trattasi, possiamo procedere a definire la portata applicativa in merito ai quesiti che sono stati posti all'attenzione, evidenziando innanzitutto che non sono stati registrati interventi esplicativi in materia, ad eccezione delle personale della Polizia di Stato per il quale si è espresso il Ministero dell'Interno, Direzione centrale per le risorse umane con una propria nota 27.05.2020 n. 333/A che comunque è possibile parzialmente mutuare quale riferimento. Sulla scorta di quanto innanzi possiamo tranquillamente affermare che tale nuova disposizione amplia in buona sostanza la possibilità di cessione delle ferie ai colleghi ed in particolare:
   - non vi è un limite di giorni cedibili
   - non vi sono causali vincolanti
   - riguarda tutte le ferie ed i riposi maturati alla data del 31.12.2019 e pertanto si estende anche ai riposi per il recupero psicofisico, ai quattro giorni all'anno di festività soppresse, e a quelli compensativi, ad esempio dello straordinario.
I vincoli da rispettare, pertanto, sono unicamente quelli imposti dalla contrattazione collettiva (ai sensi dell'ultimo capoverso dell'articolo in analisi) e dai quali dobbiamo snodare l'analisi per rispondere compiutamente a quanto richiesto e capire quindi quali siano i c.d. "giorni cedibili".
Secondo la disciplina contrattuale, infatti:
   - le ferie non richieste nell'anno di maturazione possono essere fruite entro il 30 aprile di quello successivo, fatte salve eccezionali ragioni organizzative in presenza delle quali la fruizione può essere procrastinata dal datore di lavoro fino al 30 giugno;
   - i riposi compensativi dello straordinario confluito in banca ore sono utilizzabili entro l'anno successivo a quello di maturazione, mentre i riposi compensativi maturati per il lavoro straordinario non retribuito vanno goduti compatibilmente con le esigenze di servizio.
L'interpretazione letterale della norma, pertanto, comporterebbe che possano essere ceduti solo quanto maturato nel 2019.
A tal uopo viene in aiuto all'odierna analisi e partendo dal concetto che le ferie maturate comunque non si perdono (in quanto destinate al recupero psicofisico del lavoratore), l'orientamento applicativo 795-18115 dell'Aran, secondo cui, nelle ipotesi (patologiche) di mancata fruizione delle ferie entro i termini di legge, il dipendente può fruirne anche al di là dei termini fissati ma è l'amministrazione, eventualmente, a fissare i periodi di fruizione, in applicazione dell'art. 2109 c.c. (le ferie sono assegnate dal datore di lavoro tenuto conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del lavoratore).
Per quanto esposto, si ritiene dunque che tale disciplina normativa consenta di cedere a propri colleghi anche le ferie derivanti da annualità precedenti.
Per ciò che concerne invece i termini di fruizione di tale istituto, in assenza come detto di una qualsiasi specificazione da parte degli organi competenti, non possiamo che rifarci alla letteralità della norma ove è previsto che "….entro il 30 settembre….i dipendenti….possono cedere…".
Tale termine del 30 settembre, pertanto, non può che riferirsi alla data limite entro la quale debba essere quantomeno manifestata l'intenzione (o ancor meglio concluso il procedimento con l'accettazione della controparte) di cedere i propri giorni di riposo maturati e non già quella entro la quale gli stessi debbano essere fruiti (anche per via del fatto che la norma recita che la cessione non può essere sottoposta a termine o condizione).
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 14.09.2015, n. 151, art. 24 - CCNL del Comparto delle Funzioni locali per il triennio 2016/2018, art. 30 - D.L. 17.03.2020 n. 18, art. 87 - L. 24.04.2020 n. 27 - Nota 27.05.2020 n. 333/A del Ministero dell'Interno
Documenti allegati

Orientamento applicativo n. 795-18115 dell'ARAN
(01.07.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

giugno 2020

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Congedo dei padri.
Domanda
Spettano anche nel 2020 i giorni di congedo obbligatorio e congedo facoltativo dei papà? Sono congedi utilizzabili anche dai neopapà dipendenti pubblici?
Risposta
La Legge di Bilancio 2020, all’art. 1, comma 342, si è occupata di modificare la Legge di disciplina dei congedi oggetto del quesito, prorogando e ampliando i congedi obbligatori in giorni 7 per l’anno 2020 e confermando in 1 giorno, il congedo facoltativo.
La legge di prima introduzione dei congedi è la Legge Fornero n. 92 del 28.06.2012 la quale ha inteso dare attuazione alla Direttiva 18/UE del Consiglio dell’Unione Europea dell’8 marzo 2010.
La Direttiva 2010/18 è stata abrogata e sostituita dalla Direttiva 2019/1158 del 20.06.2019, nella quale si invitano gli stati membri, entro il 2022, in relazione ai congedi di paternità, di adottare le misure necessarie a garantire al padre (secondo genitore) un congedo di paternità di 10 giorni lavorativi da fruire in occasione della nascita di un figlio.
Sin dal 2012, tuttavia, detti congedi non possono essere goduti dai neo papà lavoratori pubblici.
Il Dipartimento della Funzione Pubblica, con nota del 20.02.2013, ha chiarito infatti che la disciplina non è direttamente applicabile ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni e nessuna novità è intervenuta nel merito.
Questo a significare evidentemente che l’elemento di discriminazione tra lavoro femminile e maschile, quando riferito alla maternità, appare maggiormente tutelato nel pubblico impiego rispetto al modo privato.
L’obbligo di fruire di un congedo obbligatorio da parte del padre, entro i primi 5 mesi di vita del bambino, si prefigura infatti di contenere un diverso e discriminante trattamento nel rapporto di lavoro tra uomini e donne.
Il dettaglio della disciplina rispetto alle corrette modalità di utilizzo dei congedi è contenuto nel decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, del 22.12.2012.
Nel 2020, quindi, i neo papà lavoratori privati, avranno diritto:
   • 7 giorni di congedo obbligatorio
   • 1 giorno di congedo facoltativo
Le interferenze con il pubblico impiego riguardano la sola ipotesi in cui il padre goda del congedo facoltativo, in quanto, mentre il congedo obbligatorio si rappresenta come aggiuntivo rispetto ai congedi della madre, il congedo facoltativo è sostituivo e va ad inficiare la durata del periodo di astensione obbligatoria della madre.
L’ipotesi è quella di un padre lavoratore privato, e di una madre (dello stesso figlio) lavoratrice pubblica. Nel caso in cui il padre goda del giorno di congedo facoltativo, la madre lavoratrice pubblica, terminerà il periodo di astensione obbligatoria un giorno prima del previsto.
Il messaggio INPS n. 679 del 21.02.2020 recepisce il contenuto della Legge di bilancio e conferma le istruzioni di compilazione delle domande valevoli per i soggetti privati (25.06.2020 - link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO: L. Di Donna, Conseguenze della mancata conferma dell’incarico dirigenziale (22.06.2020 - tratto da a e link a www.neopa.it).
Questa Corte ha più volte affermato che fanno capo al dirigente due distinte situazioni giuridiche soggettive, perché rispetto alla cessazione anticipata dell'incarico lo stesso è titolare di un diritto soggettivo che, ove ritenuto sussistente, dà titolo alla reintegrazione (se possibile) nella funzione dirigenziale ed al risarcimento del danno, mentre a fronte del mancato conferimento di un nuovo incarico può essere fatto valere un interesse legittimo di diritto privato, che, se ingiustamente mortificato, non legittima il dirigente a richiedere l'attribuzione dell'incarico non conferito ma può essere posto a fondamento della domanda di ristoro dei pregiudizi ingiustamente subiti (v. Cass. 13.11.2018, n. 29169; Cass. 10.12.2017, n. 28879; Cass. 03.02.2017, n. 2972; Cass. 18.06.2014, n. 13867).
Non vanno, dunque, confusi il diritto soggettivo al conferimento dell'incarico e l'interesse legittimo di diritto privato correlato all'obbligo imposto alla pubblica amministrazione di agire nel rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede nonché dei principi di imparzialità, efficienza e buon andamento consacrati nell'art. 97 Cost., sicché il dirigente non può pretendere dal giudice un intervento sostitutivo e chiedere l'attribuzione dell'incarico, ma può agire per il risarcimento del danno, ove il pregiudizio si correli all'inadempimento degli obblighi gravanti sull'amministrazione (v. Cass. 23.09.2013, n. 21700; Cass. 24.09.2015, n. 18972; Cass. 14.04.2015, n. 7495).
Quanto a quest'ultima azione è stato richiamato il principio generale secondo cui, nel lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni (per i dirigenti statali in virtù di espressa previsione dell'art. 19 d.lgs. n. 165/2001), alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e pertanto non è applicabile l'art. 2103 cod. civ., risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico (v. Cass. 22.12.2004, n. 23760; Cass. 15.02.2010, n. 3451; Cass. 22.02.2017, n. 4621; Cass. 20.07.2018, n. 19442).
Anche il sistema normativo del lavoro pubblico dirigenziale negli enti locali (trasfuso, come detto, nel d.lgs. n. 267 del 2000, art. 109) esclude la configurabilità di un diritto soggettivo del dirigente a conservare in ogni caso determinate tipologie di incarico dirigenziale, ancorché corrispondenti all'incarico assunto a seguito di concorso specificatamente indetto per determinati posti di lavoro, pure anteriormente alla cosiddetta '
privatizzazione' (v. Cass. 22.12.2004, n. 23760; Cass. 15.02.2010, n. 3451; Cass. 22.12.2017, n. 4621; Cass. 20.07.2018, n. 19442); lo stesso sistema, peraltro, conferma il principio generale che, nel lavoro pubblico, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e non consente perciò -anche in difetto della espressa previsione di cui all'art. 19 d.lgs. n. 165 del 2001 stabilita per le Amministrazioni statali- di ritenere applicabile l'art. 2103 cod. civ. (e l'art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001), risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico locale, con la sola eccezione della dirigenza tecnica, nel senso che il dirigente tecnico, il cui incarico è soggetto ai principi della temporaneità e della rotazione, deve comunque svolgere mansioni tecniche (v. Cass. n. 23760/2004 cit.; Cass. n. 3451/2010 cit.; Cass. n. 4621/2017 cit.; Cass. n. 19442/2018 cit.).
È quanto affermato dalla Corte di Cassazione (Sez. Lavoro) nella recente ordinanza 18.06.2020 n. 11891.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pubblico impiego - Dipendenti a tempo pieno - Incompatibilità - art. 53 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165 - Incarichi extraistituzionali previa autorizzazione dell’Ente di appartenenza - Autorizzazione preventiva - Autorizzazione successiva.
  
L'art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, nel disciplinare le incompatibilità, vieta ai dipendenti delle P.A. con rapporto di lavoro a tempo pieno l'espletamento di incarichi retribuiti, anche occasionali, non compresi nei compiti e nei doveri d'ufficio, per i quali sia corrisposto, sotto qualunque forma, un compenso, salvo che lo svolgimento dell'incarico sia stato preventivamente autorizzato, ai sensi dell'art. 1, comma 60, della legge n. 662 del 1996, dall'Amministrazione di appartenenza per le specifiche attività consentite dalla legge.
  
Lo scopo dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 è evidentemente quello di garantire l'imparzialità, l'efficienza e il buon andamento della P.A., nel rispetto dei principi sanciti dagli artt. 97 e 98 Cost.; e di evitare che il pubblico dipendente possa svolgere incarichi ulteriori rispetto a quelli che discendono dai propri doveri istituzionali, distogliendolo da essi ovvero creando forme autorizzate di concorrenza soggettiva in capo al medesimo soggetto interessato, e procurandogli un vantaggio economico che non ne giustificherebbe, se stabile e duraturo e quindi dotato dei caratteri della prevalenza e continuità, la permanenza all'interno della pubblica amministrazione, con i conseguenti rilevanti oneri ad essa attribuiti.
  
Il generale divieto di conseguire l'incarico extraistituzionale può essere derogato solo attraverso una autorizzazione adottata prima dell'inizio dello stesso; deve viceversa escludersi che tale autorizzazione possa essere concessa in via successiva con efficacia sanante, stante la specificità del rapporto di pubblico impiego rispetto a situazioni diverse dell'attività amministrativa
(tratto da www.osservatoriouniversita.unimib.it).
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Al riguardo si legga anche:
  
M. Lavatelli, Nota a Cass. Civ., sez. II, 18.06.2020, n. 11811.
Con sentenza del 18.06.2020, n. 11811, la sezione II della Cassazione civile ha chiarito una questione già affrontata dalla giurisprudenza amministrativa.
Nel decidere sull’opposizione a sanzione amministrativa presentata da un docente universitario, destinatario di un’ordinanza di ingiunzione emessa dall'Agenzia delle Entrate
Direzione Provinciale Di Lecce, che gli aveva elevato una sanzione pari a Euro 2.448,00, per la violazione del d.lgs. n. 165 del 2001, art. 53, commi 9 e 11, in ragione del fatto di aver conferito incarico professionale retribuito a un docente, pubblico dipendente della Università del Salento, senza la preventiva autorizzazione dell’ente di appartenenza e per non avere comunicato nei termini i compensi corrisposti alla medesima, la Suprema Corte ha infatti ribadito l’inammissibilità della autorizzazione postuma relativa all’espletamento di incarichi extraistituzionali retribuiti (fra i precedenti conformi, su tutte, si vedano TAR Emilia Romagna, Parma, Sez. I, Sent. 17.07.2017, n. 263; Id. sent., 05.06.2017, n. 191; TAR Calabria, Reggio Calabria, sez. I, 14.03.2017, n. 195; TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 07.03.2013, n. 614).
La Suprema Corte ha quindi avvalorato la lettura più rigorosa dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 che, nel complesso, non vieta in senso assoluto l’espletamento di incarichi extraistituzionali retribuiti, ma subordina tale possibilità al fatto che gli stessi siano conferiti dall'amministrazione di provenienza ovvero da questa “preventivamente autorizzati”, cioè sottoposti a una valutazione della legittimità dell’incarico e della sua compatibilità, soggettiva e oggettiva, con i compiti propri dell’ufficio.
Ha ritenuto invece priva di pregio la censura sollevata dal ricorrente, che riteneva che l’autorizzazione con formula “ora per allora” potesse considerarsi legittima, in quanto equivalente a quella preventiva, con effetti ex tunc, ritenendo che il solo limite della ammissibilità per tale autorizzazione consisterebbe in un espresso divieto di legge al suo rilascio (tale tesi aveva peraltro già trovata avallo in una pronuncia del TAR Puglia, Lecce, n. 2228/2007).
Il giudicante ha quindi ribadito l’orientamento ormai consolidato nella giurisprudenza amministrativa, che ha chiarito come la disposizione in esame configuri un illecito di pericolo presunto o astratto, e come l’aggettivo “previa” qualifichi chiaramente la tipologia di provvedimento autorizzativo, precisando la tempistica della richiesta e collocandola in un ambito precedente lo svolgimento dell’incarico.
Ha quindi rilevato l’incompatibilità tra la specifica finalità dell’autorizzazione ex art. 53, comma 7, che è evidentemente quella di verificare l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi, finalità che, però, sarebbe frustrata in caso di ammissione dell’autorizzazione ex post in relazione a un incarico di cui andrebbe vagliato anche la possibilità “in potenza” di un conflitto di interessi.
Come già precisato nei precedenti conformi, il fondamento della norma si radica negli artt. 97 e 98 Cost., ovvero nelle garanzie di imparzialità, efficienza e buon andamento dei pubblici impiegati che sono a servizio esclusivo della Nazione.
L’orientamento espresso dalla Suprema Corte, che ha quindi concluso per l’ontologica incompatibilità dell’istituto autorizzatorio in esame con un rilascio postumo, è coerente con l’idea che esista una presunzione legale di carattere generale in relazione all’incompatibilità degli incarichi esterni con i doveri d’ufficio, situazione che deve poter essere valutata anche in astratto, sul presupposto che la norma mira anche a salvaguardare le energie lavorative del dipendente al fine del miglior rendimento, indipendentemente dalla circostanza che questi abbia sempre regolarmente svolto la propria attività impiegatizia, tema che, semmai, può dar luogo a materia concernente i procedimenti di natura disciplinare (sul punto, ex multis, cfr., TAR Lazio, sez. II, 26.04.1990, n. 898, Cons. Stato, sez. V, 13.01.1999, n. 29, Cons. Stato n. 3172 del 2015) (link a www.osservatoriouniversita.unimib.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Pubblico impiego – dirigenza – cessazione anticipata incarico – diritto soggettivo alla conservazione di determinate tipologie di incarico dirigenziale - demansionamento – rigetto ricorso.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso proposto da un dirigente che a seguito della mancata riconferma dell’incarico di funzione lamenta di essere stato vittima di demansionamento all’atto di attribuzione del nuovo incarico di dirigente in posizione di staff.
La Corte pronunciandosi riguardo alla cessazione anticipata dell'incarico, ribadisce che fanno capo al dirigente due distinte situazioni giuridiche: rispetto alla cessazione anticipata dell’incarico lo stesso è titolare di un diritto soggettivo che, ove ritenuto sussistente, dà titolo alla reintegrazione (se possibile) nella funzione dirigenziale ed al risarcimento del danno, mentre rispetto al mancato conferimento di un nuovo incarico il dirigente può far valere un interesse legittimo di diritto privato, che, se ingiustamente mortificato, non legittima lo stesso a richiedere l'attribuzione dell'incarico non conferito ma può essere posto a fondamento della domanda di ristoro dei pregiudizi ingiustamente subiti.
La Suprema Corte conferma il principio generale per cui alla qualifica dirigenziale corrisponde esclusivamente l’idoneità professionale all’assunzione degli incarichi dirigenziali di qualunque tipo, senza che sia configurabile un diritto soggettivo a mantenere o a conservare un determinato incarico, la cessazione di un incarico di funzione e la successiva attribuzione di un incarico di studio ai sensi dell'art. 19, comma 10, Dlgs 165/2001 pertanto non determina un demansionamento
(commento tratto da www.aranagenzia.it).
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   4.4. del resto non pare dubitabile, sulla base della stessa motivazione della sentenza impugnata (fondata sull'esame dei provvedimenti del Comune resistente, esame non rivedibile in questa sede), che l'assegnazione alla Ca., dopo la cessazione dell'incarico di direzione del Servizio Supporto alle Scuole, del compito di svolgere funzioni dirigenziali di studio e ricerca (v. pag. 5 della sentenza: "alla Ca., alla scadenza dell'incarico di direzione ... non è stata affidata la titolarità di una struttura ma ... il compito di svolgere funzioni dirigenziali di studio ..."), fosse riconducibile alla previsione di cui all'art. 19, comma 10, d.lgs. n. 165 del 2001, norma di carattere generale che si riferisce anche alle amministrazioni locali e si aggiunge alle previsioni specifiche contenute nel d.lgs. n. 267 del 2000 (Testo unico degli enti locali) e in particolare negli artt. 109 e 110 (si consideri che la vicenda in esame si colloca prima delle modifiche apportate all'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001 dal d.lgs. n. 150 del 2009);
   del tutto impropria è, allora, una lettura della sentenza quale quella offerta dalla ricorrente secondo cui la Corte territoriale avrebbe considerato anche l'incarico in staff quale incarico dirigenziale di struttura (nuova e tutta da creare);
   4.5. questa Corte ha più volte affermato che fanno capo al dirigente due distinte situazioni giuridiche soggettive, perché rispetto alla cessazione anticipata dell'incarico lo stesso è titolare di un diritto soggettivo che, ove ritenuto sussistente, dà titolo alla reintegrazione (se possibile) nella funzione dirigenziale ed al risarcimento del danno, mentre a fronte del mancato conferimento di un nuovo incarico può essere fatto valere un interesse legittimo di diritto privato, che, se ingiustamente mortificato, non legittima il dirigente a richiedere l'attribuzione dell'incarico non conferito ma può essere posto a fondamento della domanda di ristoro dei pregiudizi ingiustamente subiti (v. Cass. 13.11.2018, n. 29169; Cass. 10.12.2017, n. 28879; Cass. 03.02.2017, n. 2972; Cass. 18.06.2014, n. 13867);
   4.6. non vanno, dunque, confusi il diritto soggettivo al conferimento dell'incarico e l'interesse legittimo di diritto privato correlato all'obbligo imposto alla pubblica amministrazione di agire nel rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede nonché dei principi di imparzialità, efficienza e buon andamento consacrati nell'art. 97 Cost., sicché il dirigente non può pretendere dal giudice un intervento sostitutivo e chiedere l'attribuzione dell'incarico, ma può agire per il risarcimento del danno, ove il pregiudizio si correli all'inadempimento degli obblighi gravanti sull'amministrazione (v. Cass. 23.09.2013, n. 21700; Cass. 24.09.2015, n. 18972; Cass. 14.04.2015, n. 7495);
   4.7. quanto a quest'ultima azione è stato richiamato il principio generale secondo cui, nel lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni (per i dirigenti statali in virtù di espressa previsione dell'art. 19 d.lgs. n. 165/2001), alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e pertanto non è applicabile l'art. 2103 cod. civ., risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico (v. Cass. 22.12.2004, n. 23760; Cass. 15.02.2010, n. 3451; Cass. 22.02.2017, n. 4621; Cass. 20.07.2018, n. 19442);
   4.8. anche il sistema normativo del lavoro pubblico dirigenziale negli enti locali (trasfuso, come detto, nel d.lgs. n. 267 del 2000, art. 109) esclude la configurabilità di un diritto soggettivo del dirigente a conservare in ogni caso determinate tipologie di incarico dirigenziale, ancorché corrispondenti all'incarico assunto a seguito di concorso specificatamente indetto per determinati posti di lavoro, pure anteriormente alla cosiddetta 'privatizzazione' (v. Cass. 22.12.2004, n. 23760; Cass. 15.02.2010, n. 3451; Cass. 22.12.2017, n. 4621; Cass. 20.07.2018, n. 19442);
   lo stesso sistema, peraltro, conferma il principio generale che, nel lavoro pubblico, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e non consente perciò -anche in difetto della espressa previsione di cui all'art. 19 d.lgs. n. 165 del 2001 stabilita per le Amministrazioni statali- di ritenere applicabile l'art. 2103 cod. civ. (e l'art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001), risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico locale, con la sola eccezione della dirigenza tecnica, nel senso che il dirigente tecnico, il cui incarico è soggetto ai principi della temporaneità e della rotazione, deve comunque svolgere mansioni tecniche (v. Cass. n. 23760/2004 cit.; Cass. n. 3451/2010 cit.; Cass. n. 4621/2017 cit.; Cass. n. 19442/2018 cit.);
   4.9. tale essendo il sistema, gli incarichi di studio conferiti alla Ca. dopo la cessazione di quello di direzione di struttura non potevano essere letti in termini di dequalificazione;
   ed infatti, come è stato da questa Corte già affermato, proprio sulla base dell'assunto secondo cui, in tema di dirigenza pubblica, la qualifica dirigenziale esprime esclusivamente l'idoneità professionale del dipendente, senza che sia configurabile un diritto soggettivo a mantenere o a conservare un determinato incarico, la cessazione di un incarico di funzione e la successiva attribuzione di un incarico di studio ai sensi dell'art. 19, comma 10, del d.lgs. n. 165 del 2001, non determina un demansionamento (così Cass. 09.04.2018, n. 8674; si veda anche la già citata Cass. n. 19442/2018 riguardante proprio l'assegnazione di un dirigente di Ente locale ad una struttura di staff denominata Ufficio studi e ricerche);
   ed allora non può essere addebitato alla Corte territoriale alcun errore di diritto laddove ha escluso ogni demansionamento nell'attribuzione alla Ca., dopo la cessazione di un incarico di funzione, di incarichi di studio ai sensi dell'art. 19, comma 10, del d.lgs. n. 165 del 2001, attenendo la verifica dell'effettività e pienezza delle mansioni di cui ai nuovi incarichi all'accertamento di merito della Corte territoriale non suscettibile di revisione in questa sede;
   4.10. né fondatamente la ricorrente lamenta, quale pregiudizio, la perdita della retribuzione di posizione e di risultato atteso che, come non integra un demansionamento l'attribuzione di un incarico di studio, non può riconoscersi come danno la perdita (di quota) della retribuzione di posizione e di risultato, non configurandosi, per quanto sopra detto, un diritto del dirigente alla preposizione ad un ufficio di direzione di struttura, alle quali le predette voci siano connesse;
   4.11. quanto, poi, alla ritenuta omessa considerazione dei rilievi concernenti le valutazioni negative della Ca. sotto il profilo dei risultati raggiunti ed in particolare dell'omesso esame di quello che la stessa sentenza impugnata indica come 'terzo motivo di ricorso', le doglianze non meritano accoglimento;
   la Corte territoriale, infatti, dopo aver ritenuto infondato il primo motivo di ricorso ha esaminato congiuntamente, in quanto logicamente connessi, il secondo ed il terzo motivo di ricorso ed ha ritenuto entrambi infondati considerando che la versione dei fatti rappresentata dal Comune di Parma, secondo cui la Ca. aveva dimostrato "scarsa attitudine alle scelte autonome di sua competenza" oltre che manifestato "la propria insoddisfazione per il ruolo assegnatole con frequenti assenze, rigidità di orario e ridotta disponibilità", avesse trovato conferma nell'istruttoria svolta (e ciò sia per quanto atteneva al progetto Europa sia per quanto riguardava i periodi pregressi);
   ciò costituisce un'adeguata risposta ai rilievi di parte appellante secondo la quale, al contrario, per quanto si evince dalla stessa sentenza impugnata, le valutazioni negative effettuate dal datore di lavoro, lungi dall'essere ricollegabili alle attitudini professionali della Ca. erano piuttosto da porsi in relazione alla stessa condotta del Comune di Parma che la aveva posta in condizioni di totale inattività;
   anche con riguardo a tale aspetto la ricorrente pretende, allora, in modo inammissibile, una diversa e personale lettura delle risultanze di causa;
   4.12. quanto, infine alle censure relative all'asserito difetto di motivazione dei provvedimenti attributivi degli incarichi di studio la ricorrente non ha specificato se ed in quali termini la questione fosse stata sottoposta già in sede di ricorso di primo grado, non potendo il suddetto onere ritenersi soddisfatto mediante la trascrizione della sentenza di appello riportante i motivi di gravame (v. pag. 24 del ricorso per cassazione) ovvero mediante il richiamo al passaggio argomentativo di tale sentenza (riportato alla medesima pag. 24 ed alla successiva pag. 25), specie a fronte dell'eccezione di novità della questione formulata in sede di controricorso dal Comune di Parma, per non essere stata la stessa esplicitata nel ricorso di primo grado e per essere state le conclusioni assunte, sul punto, assolutamente generiche;
   peraltro la questione è stata dalla ricorrente posta esclusivamente in relazione alla ritenuta (e qui esclusa) configurazione da parte della Corte territoriale dell'incarico di staff quale incarico dirigenziale ai sensi dell'art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001 laddove, come sopra evidenziato, si era trattato di un incarico di studio ex art. 19, comma 10, del medesimo d.lgs.; (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 18.06.2020 n. 11891).
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MASSIMA
In tema di dirigenza pubblica, la cessazione di un incarico di funzione, e la successiva attribuzione di un incarico di studio ai sensi dell’art. 19, comma 10, del d.lgs. n. 165 del 2001, non determina un demansionamento, in quanto la qualifica dirigenziale esprime esclusivamente l’idoneità professionale del dipendente, senza che sia configurabile un diritto soggettivo a mantenere o a conservare un determinato incarico.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pubblico impiego – incarichi esterni – autorizzazione preventiva.
Non è possibile concedere in via successiva, con efficacia sanante un'autorizzazione per incarichi extra istituzionali.
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La corte di cassazione è stata chiamata a decidere sulla liceità del conferimento da parte di un privato di un incarico professionale retribuito ad un docente universitario senza la preventiva autorizzazione dell’ente di appartenenza.
L’art. 53 d.lgs. 165/2001 disciplina la materia delle incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi secondo cui, in generale, i lavoratori dipendenti delle pubbliche amministrazioni compresi i docenti universitari con rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato non possono intrattenere altri rapporti di lavoro dipendente o autonomo o esercitare attività imprenditoriali se non “preventivamente autorizzati” dall’amministrazione di appartenenza. In caso contrario –afferma la Cassazione- il soggetto che conferisce l'incarico commette un illecito che non può essere sanato dal rilascio di una autorizzazione postuma, pronunciata con la formula “ora per allora” dall'ente pubblico datore di lavoro.
La pronuncia rimette al datore di lavoro la valutazione della legittimità e della compatibilità dell’incarico allo scopo di garantire imparzialità, efficienza e buon andamento della P.A. ed evitare che il dipendente possa essere distolto dai propri doveri istituzionali.
Pertanto la Corte non ravvisa diversità dell’autorizzazione postuma rispetto a quella “ora per allora” in quanto entrambe intervengono dopo l’inizio dello svolgimento dell’incarico, e sono comunque incompatibili con la finalità dell’istituto della previa autorizzazione (art. 53, co 7, d.lgs. 165/2001) che è quella di verificare ex ante l’insussistenza di conflitti di interesse (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 18.06.2020 n. 11811 - tratto da www.aranagenzia.it).
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SENTENZA
4.1. - Il motivo è fondato.
4.2. - L'impugnata sentenza (ricostruito il quadro normativo di riferimento, costituito dalla L. n. 662 del 1996, art. 1,commi 56-65, D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53 e dalla L. n. 240 del 2010, art. 6, commi 9, 10 e 12) si fonda sull'assunto che, quella in questione, non sia una mera "autorizzazione postuma", che potrebbe far pensare a un'autorizzazione successiva al conferimento dell'incarico con efficacia ex nunc, bensì un'autorizzazione con formula "ora per allora" con effetti ex tunc.
Osserva il Tribunale che tale autorizzazione sarebbe equivalente a quella preventiva; sicché la circostanza che, nel momento in cui era stata formulata la richiesta di autorizzazione, l'incarico privato fosse già stato conferito, non ne inficerebbe la validità, proprio in quanto concessa con la formula "ora per allora". Ciò in quanto, per "unanime giurisprudenza cui fa eco la dottrina", il solo limite della ammisssibilità delle autorizzazioni "ora per allora" consisterebbe in un espresso divieto di legge al loro rilascio (TAR Puglia, Lecce, n. 2228 del 2007), che nel caso in esame non sussisterebbe, potendosi conseguentemente attribuire al requisito della "previa" autorizzazione una valenza neutra.
Pertanto, il Tribunale dell'appello rileva come, se è vero che la ratio della autorizzazione consiste nella esigenza di verificare la sussistenza di eventuali situazioni di conflitto fra l'interesse del privato richiedente e quello della P.A., sia evidente che tale accertamento, potendo essere eseguito ex ante, a maggior ragione possa essere effettuato ex post, alla luce dell'attività professionale concretamente svolta dal richiedente e dei compensi effettivamente percepiti.
Consentendo, dunque, il sopravvenuto rilascio della autorizzazione in sanatoria, di escludere l'integrazione dell'illecito di cui è causa in ragione dell'insussistenza dell'elemento oggettivo, costituito dalla mancanza della prescritta autorizzazione.
4.3. - Orbene, sul piano normativo, questo Collegio osserva che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, disciplina le incompatibilità, il cumulo di impieghi e gli incarichi dei dipendenti pubblici; ivi compresi, per quanto qui interessa, anche quelli dei professori universitari "a tempo pieno", regolati anche della L. n. 240 del 2010, art. 6, comma 10, secondo periodo, che conferma che i professori e i ricercatori a tempo pieno possono altresì svolgere, "previa autorizzazione" del rettore, funzioni didattiche e di ricerca, nonché compiti istituzionali e gestionali senza vincolo di subordinazione presso enti pubblici e privati senza scopo di lucro, purché non si determinino situazioni di conflitto di interesse con l'università di appartenenza, a condizione comunque che l'attività non rappresenti detrimento delle attività didattiche, scientifiche e gestionali loro affidate dall'università di appartenenza (peraltro, non rilevando, nella specie, il richiamo al regolamento di Ateneo in questione, che nulla disporrebbe in merito, e che, comunque, quale fonte subordinata al D.Lgs. n. 165 del 2001, non potrebbe derogare alle disposizioni primarie, che prevedono un criterio generale di autorizzabilità in via preventiva degli incarichi).
La normativa, nel suo insieme, non vieta dunque l'espletamento di incarichi extraistituzionali retribuiti, ma li consente solo ove gli stessi siano conferiti dall'amministrazione di provenienza ovvero da questa "preventivamente autorizzati", rimettendo al datore di lavoro pubblico la valutazione della legittimità dell'incarico e della sua compatibilità, soggettiva e oggettiva, con i compiti propri dell'ufficio. In tal senso, questa Corte ha rilevato che, in tema di pubblico impiego, il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 6, in cui è confluito il D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 58, come modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 26, vieta ai dipendenti delle P.A. con rapporto di lavoro a tempo pieno l'espletamento di incarichi retribuiti, anche occasionali, non compresi nei compiti e nei doveri d'ufficio, per i quali sia corrisposto, sotto qualunque forma, un compenso, salvo che lo svolgimento dell'incarico sia stato preventivamente autorizzato, ai sensi della L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 60, dall'amministrazione di appartenenza per le specifiche attività consentite dalla legge (Cass. n. 15098 del 2011).
Lo scopo è evidentemente quello di garantire l'imparzialità, l'efficienza e il buon andamento della pubblica amministrazione nel rispetto dei principi sanciti dagli artt. 97 e 98 Cost.; e di evitare che il pubblico dipendente possa svolgere incarichi ulteriori rispetto a quelli che discendono dai propri doveri istituzionali, distogliendolo da essi ovvero creando forme autorizzate di concorrenza soggettiva in capo al medesimo soggetto interessato, e procurandogli un vantaggio economico che non ne giustificherebbe, se stabile e duraturo e quindi dotato dei caratteri della prevalenza e continuità, la permanenza all'interno della pubblica amministrazione, con i conseguenti rilevanti oneri ad essa attribuiti.
Sicché, quanto all'effetto di rimozione del generale divieto di conseguire l'incarico, se non attraverso una autorizzazione adottata prima dell'inizio dello stesso, questo Collegio non ravvisa una diversità della "autorizzazione postuma" rispetto a quella "ora per allora", in quanto entrambe intervengono dopo l'inizio (ovvero anche la fine) dello svolgimento dell'incarico.
4.4. - Peraltro, la giurisprudenza amministrativa, in particolare, ha escluso che possa essere concessa un'autorizzazione successiva con efficacia sanante (e dunque "ora per allora", stante la specificità del rapporto di pubblico impiego rispetto a situazioni diverse dell'attività amministrativa (ex plurimis, Tar Emilia Romagna Parma Sez. I, Sent., 17.07.2017, n. 263; Tar Emilia Romagna Parma, Sez. I, 05.06.2017, n. 191; Tar Calabria Reggio Calabria, sez. I, 14.03.2017, n. 195; Tar Lombardia Milano, Sez. IV, 07.03.2013, n. 614).
Seppure, dunque, il principio di tipicità degli atti amministrativi non impedisce che il momento di esercizio del potere amministrativo possa essere spostato in avanti in tutti i casi in cui sia ancora possibile effettuare le valutazioni che ne sono alla base (come per le autorizzazioni postume in relazione ad attività edilizie ovvero paesaggistiche: Cons. Stato, sez. VI, 30.03.2004, n. 1695), ciò va escluso nell'ambito specifico degli incarichi dei pubblici dipendenti, che consente che il dipendente medesimo, in presenza di una specifica e preventiva autorizzazione rilasciata da parte dell'amministrazione di appartenenza, possa eccezionalmente ricoprire incarichi ulteriori al di fuori di quelli istituzionali.
Invero, l'autorizzazione postuma (id est, con riferimento allo specifico caso in esame, l'autorizzazione "ora per allora") risulta ontologicamente incompatibile con la finalità dell'istituto della previa autorizzazione che, in base al disposto di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 7, è quella (come detto) di verificare, necessariamente ex ante, l'insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi. Laddove, "il dovere di rispettare la regola per cui -tra gli incarichi non vietati- gli incarichi extraistituzionali consentiti al dipendente (rispetto ai quali quest'ultimo è legittimato a trattenere le relative remunerazioni) sono solo quelli o previamente autorizzati dall'Amministrazione datoriale o quelli dalla stessa direttamente conferiti costituisce interpolativamente (giacché introdotto per legge) null'altro che uno dei diversi doveri del dipendente che rientrano nel fascio dei suoi obblighi dovuti per effetto del rapporto lavorativo dipendente" (Cons. Stato, sez. VI, 02.11.2016, n. 4590).
4.5. - Va, inoltre, rilevato che il disposto dell'art. 53, comma 9 cit., risulta diretto a sanzionare una violazione di carattere "formale", integrata cioè dal semplice fatto di un privato che abbia conferito un incarico a un dipendente pubblico senza avere ottenuto preventivamente l'autorizzazione dell'Amministrazione presso cui il medesimo presti servizio. Detto illecito non può, dunque, essere sanato da un'autorizzazione intervenuta successivamente (con effetti anche "ora per allora") al conferimento dell'incarico.
Tale assunto, risulta confortato tanto dall'inequivoco ed insuperabile significato letterale dell'art. 53, comma 9, che fa esplicito riferimento ad una "previa autorizzazione" dell'incarico medesimo; quanto dalla considerazione, di carattere sistematico, che il potere sanzionatorio è attribuito all'Agenzia delle Entrate (in precedenza al Ministero delle Finanze) e non alla specifica Amministrazione cui appartenga il dipendente investito dell'incarico extra-istituzionale, come invece disposto dello stesso art. 53, precedente comma 7.
La qual cosa indurrebbe a ritenere che il legislatore delegato non abbia previsto le sanzioni in oggetto (comma 9) allo scopo di contrastare "violazioni sostanziali"; non comprendendosi altrimenti, per quale motivo la potestà punitiva sia affidata a un soggetto pubblico diverso da quello preposto a valutare la compatibilità tra l'incarico esterno e le normali funzioni istituzionali, in quanto titolare del potere di rilasciare l'autorizzazione.
4.6. - Non può, pertanto, essere seguito l'assunto del giudice di appello, secondo cui, quella in questione, non sarebbe una mera "autorizzazione postuma", che potrebbe far pensare a un'autorizzazione successiva al conferimento dell'incarico con efficacia ex nunc, bensì un'autorizzazione con formula "ora per allora" con effetti ex tunc equivalente a quella preventiva.
4.7. - Quanto, infine, alla richiesta della parte controricorrente di sollevare la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 9 e del D.L. n. 79 del 1997, art. 6, comma 1 (convertito con modifiche dalla L. n. 140 del 1997), per violazione dell'art. 3 Cost., nonché dei principi di ragionevolezza adeguatezza e proporzionalità, essa risulta allo stato manifestamente inammissibile, sia in quanto (apoditticamente affermate lesioni dei principi costituzionali evocati) non risulta alcuna valutazione né in ordine all'ambito di applicabilità, nella fattispecie concreta, della normativa di cui al D.L. 79 del 1997, art. 6, comma 1, né della praticabilità -a seguito della dichiarazione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 15 (Corte Cost. n. 98 del 2015)- di una interpretazione costituzionalmente conforme della disciplina de qua, come emendata dal giudice delle leggi; sia per irrilevanza, in rapporto alla natura astratta e/o prematura della questione, con riferimento alla sua eventuale riproponibilità nel giudizio di rinvio.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Durata turni.
Domanda
In caso di lavoro articolato in turni, ritenete che un turno di lavoro che va dalle 18.00 alle 23.00 possa essere considerato turno notturno?
In particolare, tenuto conto della durata (5 ore) e della fascia oraria che copre?
Risposta
La disciplina contrattuale contenuta all’art. 23 del CCNL 21.05.2018, individuando i criteri distintivi il lavoro in turno, rinvia a prestabilite articolazioni giornaliere effettuate in orario antimeridiano, pomeridiano e, se previsto, notturno, non precisando alcunché circa la durata minima o massima dei diversi turni di lavoro.
È del tutto evidente che la durata della prestabilita articolazione giornaliera dovrà tenere conto delle primarie esigenze di servizio da soddisfare e di quanto indicato al comma 3 del medesimo articolo di contratto:

3. Per l’adozione dell’orario di lavoro su turni devono essere osservati i seguenti criteri:
   a) la ripartizione del personale nei vari turni deve avvenire sulla base delle professionalità necessarie in ciascun turno;
   b) l’adozione dei turni può anche prevedere una parziale e limitata sovrapposizione tra il personale subentrante e quello del turno precedente, con durata limitata alle esigenze dello scambio delle consegne;
   c) all’interno di ogni periodo di 24 ore deve essere garantito un periodo di riposo di almeno 11 ore consecutive;
   d) i turni diurni, antimeridiani e pomeridiani, possono essere attuati in strutture operative che prevedano un orario di servizio giornaliero di almeno 10 ore;
   e) per turno notturno si intende il periodo lavorativo ricompreso dalle ore 22 alle ore 6 del giorno successivo; per turno notturno-festivo si intende quello che cade nel periodo compreso tra le ore 22 del giorno prefestivo e le ore 6 del giorno festivo e dalle ore 22 del giorno festivo alle ore 6 del giorno successivo.


Alla luce di quanto sopra precisato non si rinviene alcun divieto nel prevedere un turno di lavoro della durata di 5 ore a condizione ovviamente che il debito orario derivante dall’obbligazione contrattuale venga interamente assolto.
Per quanto attiene al secondo quesito, la disciplina delle turnazioni contenuta all’art. 23 del CCNL 21.05.2018 non individua le fasce orarie del turno antimeridiano e pomeridiano, limitandosi a delineare un turno diurno dalle ore 6 alle ore 22 ciò in quanto tale distinzione non assume rilevanza dal punto di vista della quantificazione dell’indennità, dal momento che in entrambi i casi si applica il compenso per il turno diurno stabilito nella maggiorazione oraria del 10%.
L’articolazione dei turni risponde a precise esigenze organizzative e funzionali del servizio da svolgere e l’assegnazione ad essi del personale, in linea con la disciplina contrattuale, dovrà rispondere a criteri di rotazione, equilibrio e avvicendamento.
La norma di legge che perimetria un limite non valicabile è l’art. 7 del d.lgs. 66/2003 dove individua nelle 11 ore di riposo consecutivo ogni 24 ore, un diritto indisponibile non rinunciabile, fatte salve le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati.
Questo significa che il “negativo” del riposo giornaliero si rappresenta in un intervallo temporale di 13 ore (24h – 11h), in linea teorica lavorabili dai dipendenti.
La fonte contrattuale intende e realizza di contenere la durata della prestazione giornaliera all’art. 38 del CCNL 14.09.2000, comma 6, dove dispone che la prestazione individuale di lavoro, a qualunque tritolo resa non può, in ogni caso, superare, di norma, un arco massimo giornaliero di 10 ore.
Premesso quanto sopra, risulta legittimo un turno di lavoro di 10 ore consecutive ma solo a condizione che venga rispettato il disposto dell’art. 26 del CCNL 21.05.2018, ovvero che il lavoratore, dopo 6 ore continuative di servizio, effettui una pausa non inferiore ai 10 minuti.
Pausa indisponibile, non rinunciabile e oggetto di timbratura (18.06.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: E' illegittima l’esclusione da un concorso disposta a cagione dell’avvenuta indicazione di un indirizzo p.e.c. non conforme ai dettami del bando perché intestato ad un familiare, dunque ad un soggetto diverso.
Invero, la comminata esclusione è sanzione sproporzionata ed ultronea laddove invece, anche in conformità a quanto previsto dall’art. 4 D.P.R. n. 487/1994 citato, proporzionata sanzione per l’indicazione di un indirizzo p.e.c. non conforme ai dettami del bando risulta essere l’esonero di responsabilità dell’Amministrazione per l’eventuale dispersione di comunicazioni dipendente dall’inesatta indicazione del recapito da parte del concorrente.
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Ciò posto, osserva il Collegio che lo spiegato ricorso è fondato e va pertanto accolto.
Occorre premettere che l’art. 4, comma 4, D.P.R. 09.05.1994, n. 487, recante il Regolamento contenente le norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi, testualmente prevede che “l'amministrazione non assume responsabilità per la dispersione di comunicazioni dipendente da inesatte indicazioni del recapito da parte del concorrente oppure da mancata o tardiva comunicazione del cambiamento dell'indirizzo indicato nella domanda, né per eventuali disguidi postali o telegrafici o comunque imputabili a fatto di terzi, a caso fortuito o forza maggiore”.
Tanto premesso, e considerato che nella fattispecie che occupa l’esclusione dei ricorrenti è stata disposta a cagione dell’avvenuta indicazione da parte degli stessi di un indirizzo p.e.c. non conforme ai dettami del bando perché intestato ad un familiare, dunque ad un soggetto diverso, a giudizio del Tribunale la comminata esclusione è sanzione sproporzionata ed ultronea laddove invece, anche in conformità a quanto previsto dall’art. 4 D.P.R. n. 487/1994 citato, proporzionata sanzione per l’indicazione di un indirizzo p.e.c. non conforme ai dettami del bando risulta essere l’esonero di responsabilità dell’Amministrazione per l’eventuale dispersione di comunicazioni dipendente dall’inesatta indicazione del recapito da parte del concorrente.
Né sotto questo profilo può assumere in senso contrario dirimente rilievo la previsione di cui all’art. 4.2 del bando di concorso, che espressamente prevede che “il candidato deve indicare una casella di posta elettronica certificata (PEC) personale, dalla quale si evincano, pena esclusione, chiaramente il nome ed il cognome dello stesso (non sono ammesse PEC istituzionali accreditate ad Enti pubblici o privati, etc. … né PEC recanti pseudonimi). Non sono ammesse, altresì, caselle di posta semplice/ordinaria in quanto la stessa sarà utilizzata per l’invio di notifiche e convocazioni al candidato stesso”, come invece sostenuto dall’Amministrazione resistente.
Al riguardo, il Collegio non ignora che secondo la maggioritaria giurisprudenza “il bando di concorso pubblico, in quanto "lex specialis", vincola non solo i candidati, ma la stessa p.a., alla quale non residua alcun margine di discrezionalità in ordine all'applicazione delle sue norme, le quali non possono essere modificate o integrate successivamente alla sua emissione, a pena d'illegittimità del procedimento per violazione del principio di "par condicio" tra i candidati” (cfr. Consiglio di Stato sez. III, 01/03/2017, n. 963) e che “le clausole del bando di concorso per l'accesso al pubblico impiego non possono essere assoggettate a procedimento ermeneutico in funzione integrativa, diretto ad evidenziare in esse pretesi significati impliciti o inespressi, ma vanno interpretate secondo il significato immediatamente evincibile dal tenore letterale delle parole e dalla loro connessione” (cfr. ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza n. 1148/2019).
Nondimeno, atteso che il citato art. 4, comma 4, D.P.R. 09.05.1994, n. 487 già prevede la sanzione conseguente alla mancata indicazione di un indirizzo idoneo da parte del candidato che voglia partecipare ad un pubblico concorso, consistente nell’esonero da parte dell’Amministrazione di qualsivoglia responsabilità in caso di dispersione o tardività della ricezione delle comunicazioni inviate da parte del candidato, in tal caso il Collegio ritiene necessario, anche nell’ottica del più ampio favor partecipationis, armonizzare la previsione del bando di concorso con la previsione normativa, mediante l’annullamento della comminata esclusione dei ricorrenti dal concorso; in tal caso, non si tratta di fare applicazione dell’istituto del soccorso istruttorio che, com’è noto, non può giustificarsi nei casi in cui confligga con il principio generale dell'autoresponsabilità dei concorrenti, in forza del quale ciascuno sopporta le conseguenze di eventuali errori commessi nella presentazione della documentazione (cfr. Consiglio di Stato Sez. IV n. 1148/2019, Consiglio di Stato sez. III, 28/11/2018, n. 6752, TAR Campania, Napoli, sez. III, 02/07/2018, n. 4353, TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 08/06/2017, n. 1515), non potendo essere rimessi i ricorrenti in termini ai fini dell’indicazione di un indirizzo p.e.c. conforme al bando –come peraltro correttamente sostenuto dalla difesa dell’Amministrazione resistente–, bensì di ricondurre la previsione del bando nell’alveo della disciplina normativa testé richiamata, attraverso l’applicazione della più proporzionata e specifica sanzione prevista dalla legge.
Conclusivamente, per le ragioni sopra sinteticamente indicate, lo spiegato ricorso è fondato e va accolto con consequenziale annullamento della comminata esclusione dei ricorrenti dal concorso pubblico (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 16.06.2020 n. 2463 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOIndicizzazione dei dati: quando è vietata.
Domanda
Il nostro Nucleo di Valutazione ci ha fatto notare che nell’attestazione da compilare per la rilevazione di quest’anno sugli obblighi di pubblicazione in Amministrazione Trasparente, c’è una novità riferita alle modalità adottate dall’ente per indicizzare o meno i dati pubblicati.
Cosa riguarda? Cosa dobbiamo fare?
Risposta
Il principale riferimento normativo rispetto a quanto l’Autorità Nazionale Anti Corruzione (ANAC) chiede di dichiarare nel documento di attestazione, a cura degli Organismi Indipendenti di Valutazione –OIV– (o dei Nucleo di Valutazione), in occasione della rilevazione 2020 sulle pubblicazioni di Amministrazione Trasparente, è il cosiddetto decreto Milleproroghe (n. 162 del 30.12.2019), che prevede lo slittamento di una serie di termini legislativi in materia finanziaria, di organizzazione di pubbliche amministrazioni e magistrature.
Tra le varie disposizioni sostanziali, il Milleproroghe, l’articolo 1, comma 7-ter, nel testo introdotto dalle legge di conversione n. 8 del 28.02.2020, stabilisce che “non è comunque consentita l’indicizzazione dei dati e delle informazioni oggetto del regolamento di cui al comma 7”, diversamente da quanto dispone in merito il decreto Trasparenza (d.lgs. 33/2013) che evidenzia, invece, l’obbligo di indicizzazione in due specifiche norme:
   • all’articolo 9, comma 1;
   • articolo 7-bis, introdotto dal decreto legislativo n. 97/2016.
Il regolamento interministeriale citato con riguardo ai dati non indicizzabili, non è ancora stato adottato (lo sarà entro il 31.12.2020, salvo proroghe) e si riferisce, in particolare, ai dati e alle informazioni relativi ai titolari di incarichi politici, di direzione e di governo, oltre ai dirigenti e alle posizioni organizzative con funzioni dirigenziali, così come evidenziati dall’articolo 14, comma 1, del d.lgs. 33/2013, come modificato dal d.lgs. 97/2016. Tale regolamento, avrà lo scopo di individuare con precisione i dati e le informazioni –riguardanti i soggetti citati– che saranno oggetto di pubblicazione nella sezione di Amministrazione Trasparente del sito web istituzionale, sulla base di determinati criteri, secondo il (giusto) principio della “graduazione dell’obbligo”.
Pertanto, possiamo rappresentare il quadro normativo nel modo seguente:
   1. il decreto Trasparenza prevede l’obbligo generale di indicizzare i dati, evitando di disporre filtri o altre soluzioni tecnico–informatiche che impediscono ai motori di ricerca di rintracciare dati e informazioni pubblicate nella sezione del sito web istituzionale di Amministrazione Trasparente, permettendo, quindi, il loro riutilizzo nel rispetto dei principi sul trattamento dei dati personali;
   2. il decreto Milleproroghe introduce una misura di tutela disponendo, invece, che non siano indicizzabili i soli dati relativi ai titolari di incarichi politici, di direzione e di governo, oltre ai dirigenti e alle posizioni organizzative con funzioni dirigenziali.
È importante evidenziare che fino al 31.12.2020 –data ultima in cui il regolamento interministeriale dovrà essere adottato– risultano sospese le sanzioni disposte dal decreto Trasparenza (articoli 46 e 47) per la mancata pubblicazione dei dati e delle informazioni citate sopra al punto 2), nelle more dell’adozione di provvedimenti che chiariscano la questione sollevata dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 20 del 23.01.2020.
Comunque, gli obblighi di pubblicazione di tali dati continuano a permanere! È stata temporaneamente sospesa solamente l’applicazione delle sanzioni.
Tornando a quanto riportato sul documento di attestazione, che deve essere compilato dall’Organismo Indipendente di Valutazione –OIV– (o dal Nucleo di Valutazione) in occasione della rilevazione 2020 sull’adempimento degli obblighi di pubblicazione in Amministrazione Trasparente, l’ente deve dichiarare, quindi, di essersi o meno già allineato alla normativa, comunicando all’OIV (o al Nucleo) se ha o meno adottato filtri e/o altre soluzioni tecniche, allo scopo di impedire ai motori di ricerca web di indicizzare ed effettuare ricerche che abbiano per oggetto i dati e le informazioni che il legislatore ha individuato come non rintracciabili (16.06.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nomina dipendente di altro ente componente commissione concorso.
DOMANDA
Alla luce delle novità introdotte dal decreto legge 30/12/2019, n. 162 (convertito in legge, con modificazioni, dalla Legge 28/02/2020, n. 8) all'art. 3 della Legge 19/06/2019, n. 56, si chiede:
   - quali siano le modalità per nominare un dipendente di altro Ente pubblico come componente esterno di commissione concorsuale;
   - se il compenso debba essere corrisposto direttamente al suddetto componente esterno oppure all'Amministrazione di appartenenza;
   - quale sia il trattamento fiscale e contributivo a cui è soggetto il compenso;
   - nel caso in cui sia l'Amministrazione di appartenenza a riconoscere il compenso (dopo aver ricevuto il relativo importo dall'Amministrazione che ha indetto il concorso), se l'Amministrazione di appartenenza debba sostenere il costo aggiuntivo riguardante Cpdel e Irap a proprio carico oppure se l'importo (pagato dall'Amministrazione che ha indetto il concorso) sia al lordo di tutti gli oneri e quindi non vi sia alcun costo aggiuntivo.
RISPOSTA
Per gli Enti locali una disposizione legislativa cardine è quella contenuta nell'art. 70, comma 13, D.Lgs. n. 165 del 2001 secondo cui "In materia di reclutamento, le pubbliche amministrazioni applicano la disciplina prevista dal D.P.R. 09.05.1994, n. 487, e successive modificazioni ed integrazioni, per le parti non incompatibili con quanto previsto dagli artt. 35 e 36, salvo che la materia venga regolata, in coerenza con i principi ivi previsti, nell'ambito dei rispettivi ordinamenti".
Gli enti territoriali, nell’esercizio della potestà regolamentare degli enti locali in materia di organizzazione dei propri uffici e servizi e del reclutamento del personale attribuita prima dall’art. 6 della legge n. 127/1997 e poi dal nuovo assetto costituzionale introdotto dalla legge costituzionale n. 2/2001, fatto salvo l’obbligo di conformarsi ai meccanismi oggettivi e trasparenti, necessari per la verifica del possesso dei requisiti attitudinali e professionali richiesti in relazione alla posizione da ricoprire, possono disciplinare in modo autonomo l’organizzazione e lo svolgimento dei concorsi rispetto a cui le disposizioni del DPR n. 487/1994 e ss.mm.ii. costituiscono principi generali a cui attenersi.
Infatti, gli Enti pubblici diversi dalle Amministrazioni dello Stato a cui la Costituzione o la legge attribuisce potestà legislativa o anche solo normativa (statutaria o regolamentare) possono adottare proprie fonti che disciplinino le procedure di reclutamento, nel rispetto della L. 241/1990 e del D.lgs. n. 165/2001 e dei principi contenuti nel Regolamento nazionale adottato con DPR 487/1994, recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi.
A tale riguardo l’art. 9 del citato DPR dispone che per gli enti locali territoriali la presidenza delle commissioni di concorsi può essere assunta anche da un dirigente della stessa amministrazione o di altro ente territoriale; b) per i concorsi per la quinta e la sesta qualifica o categoria: da un dirigente o equiparato, con funzioni di presidente, e da due esperti nelle materie oggetto del concorso; le funzioni di segretario sono svolte da un impiegato appartenente alla settima qualifica o categoria; c) per le prove selettive previste dal capo terzo del presente regolamento, relative a quei profili per il cui accesso si fa ricorso all'art. 16 della legge 28.02.1987, n. 56 , e successive modifiche ed integrazioni: da un dirigente con funzioni di presidente e da due esperti nelle materie oggetto della selezione; le funzioni di segretario sono svolte da un impiegato appartenente alla sesta qualifica o categoria.
La preferenza per personale interno, salvi casi di conflitto d’interesse, di incompatibilità, di mancanza di specifica competenza in determinate materie di concorso, è legata al principio di tutela della finanza pubblica in ordine all’utilizzo delle risorse umane di cui la PA dispone atteso che come affermato dalla giurisprudenza (cfr. Tar Veneto, Sezione II, sentenza 700/2007), “la partecipazione alle commissioni giudicatrici per i componenti interni rientra nell’ordinario contenuto del rapporto di impiego con l’Amministrazione che ha indetto il concorso, il quale ben può comprendere anche prestazioni lavorative occasionali (che, proprio per tale loro specifica natura, non sono previste dalla contrattazione collettiva di settore). Ed è evidente come, in tale contesto, quelle prestazioni occasionali non possano che essere remunerate con la normale retribuzione se svolte durante l’orario di servizio, ovvero, al di fuori di esso, con il compenso aggiuntivo previsto per il lavoro straordinario”.
Il quadro normativo anzidetto si è arricchito delle novità introdotte dai commi 11, 12, 13 dell’art. 3 della L. 56/2019, ma con la successiva abrogazione del comma 12 da parte dell’art. 18, comma 1-ter, lett. b), del DL 162/2019 convertito con modificazioni dalla legge 8/2020, per cui è venuta meno la disposizione in base alla quale gli incarichi di presidente, di membro o di segretario di una commissione esaminatrice di un concorso pubblico per l'accesso a un pubblico impiego, anche laddove si tratti di concorsi banditi da un'amministrazione diversa da quella di appartenenza e ferma restando in questo caso la necessità dell'autorizzazione di cui all'art. 53 d.lgs. n. 165/2001, si considerano ad ogni effetto di legge conferiti in ragione dell'ufficio ricoperto dal dipendente pubblico o comunque conferiti dall'amministrazione presso cui presta servizio o su designazione della stessa.
Ciò premesso, si ritiene quanto segue:
   - la nomina di un dipendente di un altro ente dovrebbe avvenire in presenza delle condizioni prima evidenziate (conflitti, incompatibilità, mancanza di competenza per materia di esame, componenti esperto assente nell’ente e simili) attestate dal dirigente che nomina la commissione di concorso, altrimenti si deve ricorrere a personale interno.
A seguito dell’abrogazione della citata disposizione, dovrebbe essere ripristinato il precedente regime di compenso di collaborazione occasionale per attività svolta al di fuori del rapporto di servizio con il proprio ente, compenso soggetto solo a trattenuta irpef; per cui il componente esterno al termine delle proprie attività consegnerà apposita notula di pagamento all’amministrazione presso cui ha operato, fatte salve le autorizzazioni preventive dell’ente di appartenenza e le comunicazioni successive allo stesso dei compensi erogati ai sensi dell’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001 (12.06.2020 - tratto da e link a https://lapostadelsindaco.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOModalità fruizione festività soppresse.
Domanda
La l. 937/1977 ha stabilito che qualora le 4 giornate di festività soppresse non siano fruite, per motivate esigenze inerenti all’organizzazione dei servizi, nel corso dell’anno solare le stesse vengono retribuite.
L’Ente può inserire nel proprio regolamento la modalità di richiesta di queste giornate?
Risposta
In relazione al quesito formulato si evidenzia che sin dall’art. 18 del CCNL del 06.07.1995 la cui disciplina oggi è stata trasfusa nell’art. 28, comma 6, del CCNL 21/05/2018, sono stati contrattualizzati gli effetti della l. 937/1977, stabilendo che il dipendente ha diritto a fruire nel corso dell’anno solare, in aggiunta ai giorni di ferie, anche a ulteriori quattro giorni di riposo, da utilizzare ai sensi ed alle condizioni stabilite nella citata l. 937/1977.
Il predetto comma 6 dispone quanto segue: «6. A tutti i dipendenti sono altresì attribuite quattro giornate di riposo da fruire nell'anno solare ai sensi ed alle condizioni previste dalla menzionata legge n. 937/77. E’ altresì considerato giorno festivo la ricorrenza del Santo patrono della località in cui il dipendente presta servizio, purché ricadente in un giorno lavorativo.»
Il tenore letterale della disposizione in esame consente di affermare che, sulla base della normativa, i giorni di riposo devono essere fruiti esclusivamente nell’anno di riferimento e che, conseguentemente, non è possibile in alcun modo la trasposizione di quelli maturati in un anno nell’anno successivo.
Nel caso di mancata fruizione nell’anno di maturazione, imputabile solo a ragioni di servizio, il lavoratore in passato aveva diritto alla monetizzazione degli stessi, nella misura stabilita dall’art. 52, comma 5, del CCNL del 14.09.2000, come sostituito dall’art. 10 del CCNL del 09.05.2006.
Quanto sopra deve ormai ritenersi superato a seguito dell’entrata in vigore delle disposizioni contenute nell’art. 5, comma 8, della l. 135/2012 (cd. “Spending Review”) che hanno stabilito il divieto della monetizzazione delle ferie non godute dei pubblici dipendenti, incidendo, in modo riduttivo, sulla disciplina prevista in materia dall’allora art. 18, comma 16, del CCNL del 06.07.1995 (oggi art. 28 CCNL 21/05/2018).
Pertanto, l’ente potrà sicuramente disciplinare modalità di fruizione delle quattro giornate de quo, tali da garantirne il godimento entro l’anno solare.
Potrà, ad esempio, disciplinare che i primi giorni di assenza (ad eccezione delle assenze individuate da istituti specifici, ad esempio permesso per motivi personali, concorsi ed esami, ecc.) vengano imputati al godimento delle quattro giornate di festività soppresse.
In tal modo, si garantirà l’effettuazione delle stesse entro l’anno, tutelando sia il dipendente (che altrimenti non usufruendo delle stesse entro l’anno ne perderebbe il diritto al godimento) sia l’amministrazione medesima (per eventuali situazioni di contenzioso) (11.06.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa previsione del bando di concorso, in forza del quale la resistente Amministrazione ha disposto l’esclusione della ricorrente dalla procedura concorsuale de qua, deve ritenersi illegittima, essendo la sanzione dell’esclusione prevista per la mancata indicazione di un indirizzo PEC non nella titolarità dell’istante illogica e sproporzionata rispetto alla finalità di comunicazione cui l’indicazione di un indirizzo PEC risulta preordinata, dovendosi fare applicazione, anche in relazione all’elezione di un domicilio digitale, della previsione dell’art. 4 del DPR n. 487/1994 laddove dispone che “L’amministrazione non assume responsabilità per la dispersione di comunicazioni dipendente da inesatte indicazioni del recapito da parte del concorrente oppure da mancata o tardiva comunicazione del cambiamento dell’indirizzo indicato nella domanda…”, ricadendo pertanto, all’esito dell’elezione di un domicilio digitale da parte del concorrente presso un indirizzo PEC non nella sua titolarità, il rischio della mancata ricezione della comunicazione a carico del concorrente medesimo, con conseguente esonero di responsabilità da parte dell’Amministrazione.
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Secondo l’interpretazione data dalla giurisprudenza all’art. 65 del C.A.D. riferito alle istanze e dichiarazioni presentate alle pubbliche amministrazioni per via telematica (e non dunque alle comunicazioni inviate dall’Amministrazione), l’utilizzo di una PEC nella titolarità dell’istante, e quindi senza dubbio a lui riconducibile, è in grado di supplire anche alla mancata sottoscrizione delle domande di concorso, essendo l’invio della PEC assimilabile all’apposizione della firma.
Invero, “E' illegittimo il bando di selezione che preclude l'ammissibilità delle domande di partecipazione a un concorso pubblico prive di firma (digitale o sulla copia scansionate dei documenti allegati), ancorché presentate da un candidato a mezzo PEC, con casella di posta intestata allo stesso mittente. L'utilizzo di una casella di posta elettronica certificata intestata allo stesso mittente consente di ritenere soddisfatto il requisito della apposizione della firma”; ciò in considerazione del rilievo che “Il D.P.C.M. 06.05.2009, art. 4, comma 4, prevede che le pubbliche amministrazioni accettano le istanze dei cittadini inviate tramite PEC nel rispetto dell'art. 65, comma 1, del D.Lgs. n. 82 del 2005. L'invio tramite PEC costituisce sottoscrizione elettronica ai sensi dell'art. 21, comma 1, dello stesso decreto legislativo. Nel rispetto di quanto previsto dall'art. 4 del D.P.R. n. 487/1994 l'inoltro tramite posta certificata di cui all'art. 16-bis del D.L. n. 185/2008 è già sufficiente a rendere valida l'istanza, a considerare identificato l'autore di essa, a ritenere la stessa regolarmente sottoscritta”.
Per contro laddove, come nell’ipotesi di specie, la domanda di partecipazione al concorso venga inviata non tramite PEC dell’interessato, trova applicazione il disposto dell’art. art. 65, comma 1, lett. c), d.lgs. 07.03.2005, n. 82 (C.A.D.) il quale dispone che, per essere valida, un'istanza presentata per via telematica alle PP.AA. e ai gestori dei servizi pubblici, se non proveniente dalla pec dell'interessato, deve essere non solo accompagnata da un documento di identità dell'interessato medesimo, ma anche da questi sottoscritta.
Inoltre la prescrizione illegittima del bando si pone in contrasto anche con il principio del favor partecipationis a cui devono uniformarsi tanto le procedure concorsuali per l’assunzione a pubblici impieghi che le procedure relative agli appalti.
Infatti nei procedimenti di evidenza e perciò anche nei concorsi e/o procedure selettive tale principio risulta finalizzato a superare inutili formalismi per l’attuazione dei principi di favor partecipationis e di semplificazione, ma deve essere applicato congiuntamente ai principi dell’imparzialità e/o della par condicio tra i candidati ed a quelli di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa...”.
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1. Con atto notificato in data 29.07.2019 e depositato il successivo 9 agosto la ricorrente in epigrafe indicata ha impugnato la deliberazione n. 627 del 19.07.2019 con la quale era stata esclusa dal concorso pubblico per l'assunzione di n. 17 o.s.s., nonché in parte qua l’art. 4 e 4.2 del bando di concorso per l'assunzione a tempo indeterminato di n. 17 o.s.s., indetto in esecuzione della deliberazione n. 637 del 02.10.2018, laddove prevedeva che i candidati a pena di esclusione dovessero indicare nella domanda di partecipazione un indirizzo PEC contenente il nome e cognome del candidato, con conseguente inammissibilità delle domande che recassero, quale indirizzo per le comunicazioni da parte dell’Amministrazione, una PEC nella titolarità di altra persona (sebbene familiare e/o convivente).
1.1 Infatti la ricorrente è stata esclusa dalla procedura de qua per avere indicato nella domanda di concorso, inoltrata telematicamente tramite il collegamento al portale indicato nel bando di concorso, un indirizzo PEC per le comunicazioni non nella propria titolarità (e pertanto non recante il proprio nome e cognome).
...
7. Il ricorso è ammissibile e fondato.
8. La prescrizione del bando oggetto di impugnativa, sebbene prevista a pena di esclusione, ha infatti spiegato la sua portata lesiva al momento dell’esclusione, in quanto non riferita ad un requisito da possedersi a pena di esclusione o ad una modalità onerosa di presentazione della domanda (che, come detto, andava presentata per il tramite del portale dell’Amministrazione), ma al contenuto della domanda di partecipazione, che è stato vagliato al momento della disposta esclusione.
Da ciò la tempestività dell’impugnativa, non potendo rispetto alla fattispecie de qua trovare applicazione il principio stabilito dalle sentenze dell’Adunanza Plenaria nn. 4/2018 e 3/2001, in ordine all’onere di immediata impugnativa delle prescrizioni dei bandi di gara (e di concorso) a carattere escludente.
9. Il ricorso è altresì meritevole di accoglimento, stante la fondatezza del primo motivo di ricorso, da considerarsi assorbente nella stessa prospettazione di parte ricorrente, con conseguente applicazione dei principi stabiliti nel noto arresto di cui alla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 5 del 2015, circa la rimessione al potere dispositivo della parte della graduazione dei motivi di ricorso (ad eccezione delle ipotesi in cui sia ravvisabile una censura di carattere assorbente ex lege come la censura di incompetenza, nelle sue varie configurazioni, quale individuate dalla Plenaria).
9.1. Ed invero, come già evidenziato in fase cautelare, la previsione del bando di concorso, in forza del quale la resistente Amministrazione ha disposto l’esclusione della ricorrente dalla procedura concorsuale de qua, deve ritenersi illegittima, essendo la sanzione dell’esclusione prevista per la mancata indicazione di un indirizzo PEC non nella titolarità dell’istante illogica e sproporzionata rispetto alla finalità di comunicazione cui l’indicazione di un indirizzo PEC risulta preordinata, dovendosi fare applicazione, anche in relazione all’elezione di un domicilio digitale, della previsione dell’art. 4 del DPR n. 487/1994 laddove dispone che “L’amministrazione non assume responsabilità per la dispersione di comunicazioni dipendente da inesatte indicazioni del recapito da parte del concorrente oppure da mancata o tardiva comunicazione del cambiamento dell’indirizzo indicato nella domanda…”, ricadendo pertanto, all’esito dell’elezione di un domicilio digitale da parte del concorrente presso un indirizzo PEC non nella sua titolarità, il rischio della mancata ricezione della comunicazione a carico del concorrente medesimo, con conseguente esonero di responsabilità da parte dell’Amministrazione.
9.2. Pertanto non ragionevole deve intendersi detta previsione del bando di concorso, avuto riguardo al rilievo che per la procedura de qua la domanda di partecipazione doveva essere inviata non via PEC, ma iscrivendosi al portale dell’Amministrazione ed inviando la domanda debitamente sottoscritta (da ciò la certezza della riferibilità della domanda alla parte), mentre l’indicazione dell’indirizzo PEC era richiesta solo ai fini delle comunicazioni da parte dell’Azienda Ospedaliera ai candidati e quindi nell’esclusivo interesse dei candidati medesimi (essendo l’Amministrazione esentata da ogni responsabilità una volta assolta la prova della spedizione della comunicazione alla PEC indicata dall’interessato nella domanda di partecipazione).
Pertanto, come correttamente ritenuto dalla difesa di parte ricorrente, non era necessaria l’indicazione di una PEC nella titolarità dell’interessato.
9.3. Infatti secondo l’interpretazione data dalla giurisprudenza all’art. 65 del C.A.D. riferito alle istanze e dichiarazioni presentate alle pubbliche amministrazioni per via telematica (e non dunque alle comunicazioni inviate dall’Amministrazione), l’utilizzo di una PEC nella titolarità dell’istante, e quindi senza dubbio a lui riconducibile, è in grado di supplire anche alla mancata sottoscrizione delle domande di concorso, essendo l’invio della PEC assimilabile all’apposizione della firma (TAR Sicilia Palermo Sez. I, 18.01.2018, n. 167 secondo cui “E' illegittimo il bando di selezione che preclude l'ammissibilità delle domande di partecipazione a un concorso pubblico prive di firma (digitale o sulla copia scansionate dei documenti allegati), ancorché presentate da un candidato a mezzo PEC, con casella di posta intestata allo stesso mittente. L'utilizzo di una casella di posta elettronica certificata intestata allo stesso mittente consente di ritenere soddisfatto il requisito della apposizione della firma”; ciò in considerazione del rilievo che “Il D.P.C.M. 06.05.2009, art. 4, comma 4, prevede che le pubbliche amministrazioni accettano le istanze dei cittadini inviate tramite PEC nel rispetto dell'art. 65, comma 1, del D.Lgs. n. 82 del 2005. L'invio tramite PEC costituisce sottoscrizione elettronica ai sensi dell'art. 21, comma 1, dello stesso decreto legislativo. Nel rispetto di quanto previsto dall'art. 4 del D.P.R. n. 487/1994 l'inoltro tramite posta certificata di cui all'art. 16-bis del D.L. n. 185/2008 è già sufficiente a rendere valida l'istanza, a considerare identificato l'autore di essa, a ritenere la stessa regolarmente sottoscritta”).
9.4. Per contro laddove, come nell’ipotesi di specie, la domanda di partecipazione al concorso venga inviata non tramite PEC dell’interessato, trova applicazione il disposto dell’art. art. 65, comma 1, lett. c), d.lgs. 07.03.2005, n. 82 (C.A.D.) il quale dispone che, per essere valida, un'istanza presentata per via telematica alle PP.AA. e ai gestori dei servizi pubblici, se non proveniente dalla pec dell'interessato, deve essere non solo accompagnata da un documento di identità dell'interessato medesimo, ma anche da questi sottoscritta (Cons. Stato Sez. IV Sent., 22/09/2017, n. 4413 di Cons. Stato Sez. IV Sent., 22/09/2017, n. 4413 conferma della sentenza del Tar Emilia Romagna, Parma, sez. I, n. 204/2017).
Pertanto è detta prescrizione che andava applicata nell’ipotesi di specie, non essendo previsto per la partecipazione al concorso de quo l’invio della domanda tramite PEC, ma tramite il portale dell’Amministrazione.
10. Inoltre la prescrizione illegittima del bando si pone in contrasto anche con il principio del favor partecipationis a cui devono uniformarsi tanto le procedure concorsuali per l’assunzione a pubblici impieghi che le procedure relative agli appalti.
10.1. Infatti nei procedimenti di evidenza e perciò anche nei concorsi e/o procedure selettive tale principio risulta finalizzato a superare inutili formalismi per l’attuazione dei principi di favor partecipationis e di semplificazione, ma deve essere applicato congiuntamente ai principi dell’imparzialità e/o della par condicio tra i candidati ed a quelli di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa...” (ex plurimis, TAR Basilicata–Potenza, sentenza n. 346/2018; in senso analogo TAR Lazio–Roma, sentenza n. 3307/2019).
11. Il ricorso va dunque accolto sulla base di tali assorbenti rilievi, essendo stata l’esclusione della ricorrente disposta sulla base della previsione di una disposizione del bando di concorso illegittima.
11.1. Pertanto va annullata tanto la previsione del bando che, in via consequenziale, la determina di esclusione della ricorrente (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 10.06.2020 n. 2285 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOQuesto Comune ha avviato due procedure concorsuali a dicembre 2019 ma, a seguito della sospensione per l’emergenza coronavirus, non si sono ancora concluse.
Dopo l’emanazione del Decreto Interministeriale 17.03.2020 è ora possibile procedere alla conclusione delle suddette procedure con l’assunzione dei vincitori sulla scorta della programmazione del fabbisogno di personale 2019-2021?

Il Decreto Interministeriale 17.03.2020, emanato in attuazione dell’art. 33 del decreto-legge 30.04.2019, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 28.06.2019, n. 58 (c.d. Decreto “Crescita”), non ha testualmente previsto alcuna disposizione transitoria per le procedure assunzionali già avviate prima dell’emanazione dello stesso.
Nelle scorse settimane, è divenuta pubblica una “bozza” di circolare esplicativa del Ministero della Funzione Pubblica (che però non è stata mai effettivamente emanata e pubblicata) che faceva salve dall’applicazione dei nuovi calcoli assunzionali tutte le procedure assunzionali per le quali, alla data di pubblicazione del suddetto Decreto Interministeriale in Gazzetta Ufficiale (27.04.2020), era stata avviata la procedura di mobilità obbligatoria ai sensi dell’ art. 34–bis del D.Lgs. 165/2001 ed era stata prenotata in bilancio la relativa spesa.
Nei giorni scorsi, però, in attesa della quanto mai attesa circolare esplicativa del Ministero, è intervenuta, con un proprio parere, la magistratura contabile della Corte dei conti, sezione regionale di controllo della Lombardia (parere 29.05.2020, n. 74) che non può che essere attualmente l’unico riferimento da utilizzare per rispondere al quesito proposto.
Nel suddetto parere, i giudici contabili hanno sottolineato il fatto che, non essendo stata prevista nel decreto alcuna disciplina transitoria per le procedure in essere, l'applicazione delle disposizioni dettate dall'articolo 33, comma 2, del decreto legge n. 34/2019 (cosiddetto decreto Crescita) come attuato dal decreto 17.03.2020 avviene de plano su tutte le assunzioni non ancora concluse alla data di emanazione del decreto stesso.
La conseguenza di tale parere per gli Enti, è sicuramente quella di dover procedere alla riapprovazione dei piani triennali di fabbisogno di personale almeno per quei comuni in cui il decreto interministeriale 17.03.2020 consente minori spazi assunzionali rispetto a quelli previsti dal precedente sistema.
Secondo i giudici lombardi, infatti, il piano triennale del fabbisogno “essendo preliminare e distinto dalla procedura assunzionale, non può segnare con la sua adozione la data per l'individuazione della normativa da applicare a detta procedura, e segnatamente ai criteri di determinazione della relativa spesa, sottoposta, invece, sulla base del principio tempus regit actum, alla normativa vigente al momento delle procedure di reclutamento”.
Pertanto, sulla scorta di quanto detto, la risposta a quesito non può essere che orientata in tal senso: al fine di procedere alla conclusione delle procedure concorsuali in essere l’Ente dovrà innanzitutto calcolare la “propria posizione/capacità assunzionale” sulla base dei nuovi parametri individuati dal Decreto Interministeriale e se tale calcolo posizionasse l’Ente al di sopra delle soglie individuate lo stesso vedrà necessariamente una compressione della propria capacità assunzionale per dover rientrare nei parametri prescritti (entro il 2024) con l’immediata conseguenza di poter procedere alla conclusione delle prove concorsuali e alla conseguente assunzione dei vincitori solamente dopo aver proceduto all’approvazione del nuovo piano triennale del fabbisogno di personale sulla scorta dei nuovi parametri individuati dal Decreto Interministeriale e pertanto ritenendo ormai “superata” la programmazione 2019-2021 sulla scorta della quale le procedure sono state avviate.
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Riferimenti normativi e contrattuali
Decreto Interministeriale 17.03. 2020 - D.L. 30.04.2019, n. 34, art. 33 - D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 34–bis
Documenti allegati

Corte dei Conti Lombardia Sez. contr., Delib. 28.05.2020, n. 74
(10.06.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPubblicazione dati personali dei dipendenti (telefono privato) in emergenza da Covid-19.
Domanda
Nell’ambito del lavoro agile, è consentito al comune di pubblicare le utenze telefoniche personali (telefono cellulare) dei dipendenti, per favorire la prenotazione di appuntamenti da parte dei cittadini e utenti dei servizi?
Risposta
Le vigenti disposizioni normative per il contenimento e la gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 hanno chiaramente stabilito l’obbligo di limitare, quanto più possibile, la presenza del personale dipendente negli uffici pubblici, mediante il ricorso, in via prioritaria, al lavoro agile, così come stabilito all’articolo 87, comma 1, lettera a) del decreto-legge 17.03.2020, n. 18 e relativa legge di conversione 24.04.2020, n. 27.
Più di recente, l’art. 263, comma 1, del decreto-legge 19.05.2020, n. 34 (cd: decreto Rilancio), nel riconfermare le disposizioni del decreto Cura Italia (d.l. 18/2020), ha anche previsto che le pubbliche amministrazione devono adeguare le previgenti disposizioni alle esigenze della progressiva riapertura di tutti gli uffici pubblici e a quelle dei cittadini e delle imprese, connesse al graduale riavvio delle attività produttive e commerciali.
Per tale finalità il lavoro dei dipendenti e l’erogazione dei relativi servizi, devono essere organizzati:
   • introducendo una maggiore flessibilità dell’orario di lavoro;
   • rivedendo l’articolazione giornaliera e settimanale;
   • introducendo modalità di interlocuzione programmata, anche attraverso soluzioni digitali e non in presenza con l’utenza.
La norma si conclude, illustrando che ulteriori modalità organizzative potranno essere individuate tramite appositi decreti del Ministro della pubblica amministrazione.
Alla luce delle disposizioni sopra citate, dunque, è possibile prevedere che le attività di ricevimento o di erogazione diretta dei servizi al pubblico –in questo periodo emergenziale– siano garantite con modalità telematica o comunque con modalità tali da limitare la presenza fisica negli uffici (ad es. appuntamento telefonico o assistenza virtuale), ovvero, predisponendo accessi scaglionati, anche mediante prenotazioni di appuntamenti.
Nel rispetto dei principi di protezione dei dati [articolo 5, Regolamento (UE) 2016/679], la finalità di fornire agli utenti recapiti utili a cui rivolgersi per assistenza o per essere ricevuti presso gli uffici, può essere utilmente perseguita pubblicando i soli recapiti dell’ufficio di riferimento (numero di telefono, e-mail e indirizzo PEC) e non quelli dei singoli funzionari preposti agli uffici. Ciò, anche, in conformità agli obblighi di pubblicazione concernenti l’organizzazione delle pubbliche amministrazioni, previste nell’articolo 13, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, il quale stabilisce l’obbligo di pubblicate l’elenco dei numeri di telefono nonché delle caselle di posta elettronica istituzionali e delle caselle PEC dedicate, cui il cittadino possa rivolgersi per qualsiasi richiesta inerente i compiti istituzionali.
In periodo di smart working e di presenza non continuativa in ufficio dei dipendenti, una soluzione molto utile –largamente praticata e rispettosa delle normative in materia di tutela dei dati personali– risulta essere quella di attivare il servizio di trasferimento di chiamata dal numero fisso dell’ufficio al numero di utenza telefonica mobile (privato) del dipendente. L’operazione richiede il preventivo assenso dell’interessato e la garanzia che l’utente che chiama il numero dell’ufficio non sia in condizione di vedere, né memorizzare il numero dell’utenza mobile che risponde alla chiamata (09.06.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORettifica della graduatoria di un concorso pubblico.
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Concorso – Graduatoria – Rettifica – Natura – Individuazione.
  
Procedimento amministrativo - Comunicazione di avvio – Omissione – Annullamento giurisdizionale – Limite.
  
Il provvedimento di rettifica della graduatoria di un concorso pubblico ha natura di atto di autotutela, qualificabile pertanto come “di secondo grado” in quanto va ad incidere su un sottostante provvedimento; esso si fonda su un errore che non attiene all’accertamento dei presupposti dell’agire dell’amministrazione, all’interpretazione della disciplina applicabile alla fattispecie, ovvero all’esercizio dell’eventuale discrezionalità; consiste invece nella mera errata trasposizione nel provvedimento della volontà dell’amministrazione, per come risultante dallo stesso atto; la sua natura doverosa rende eventuali vizi formali o procedimentali, ivi compreso l’omesso inoltro della comunicazione di avvio del procedimento, irrilevanti ai sensi dell’art. 21-octies, primo alinea, l. n. 241 del 1990 (1).
  
L’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241 del 1990 contempla due distinte ipotesi di salvaguardia del provvedimento affetto da vizi formali; in caso di omessa comunicazione di avvio del procedimento, in particolare, ove l’atto non abbia contenuto necessitato l’Amministrazione è chiamata a dimostrare in giudizio che lo stesso non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato in concreto; tale prova, tuttavia, non ha carattere illimitato, estendendosi a qualsivoglia allegazione e argomentazione che sarebbe potuta provenire dal ricorrente; è infatti il privato che deve portare in giudizio le argomentazioni che avrebbe veicolato nel procedimento, onde consentire all’Amministrazione di dimostrarne l’irrilevanza ai fini degli esiti dello stesso (2).
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   (1) La Sezione ha affrontato il problema della natura delle rettifica di una graduatoria concorsuale, ove effettivamente dipendente dalla necessità di eliminare un errore materiale nell’attribuzione del punteggio dei titoli. La qualifica di atto “di secondo grado”, espressione di autotutela, ne rende doverosa l’adozione, discendendo la stessa dal fondamentale canone di buona fede, cui è informato l’ordinamento giuridico e al quale devono essere improntati i rapporti tra i consociati e la stessa pubblica amministrazione, cui l’art. 97 Cost. impone di agire con imparzialità e in ossequio al principio del buon andamento.
Ciò implica che eventuali violazioni di norme sul procedimento o sulla forma rientrino nella disciplina di cui al primo alinea del comma 2 dell’art. 21, l. n. 241 del 1990, e non di cui al secondo alinea, senza cioè che si renda necessaria una qualche allegazione probatoria aggiuntiva da parte della amministrazione procedente.
Tale affermazione si apprezza ancor più quando l’arco temporale intercorso tra l'approvazione della prima graduatoria e la sua successiva rettifica è ristretto, evidenziandosi l’unicità della procedura, sviluppatasi senza soluzione di continuità. In tali ipotesi, una volta esplicitata l’esistenza dell’errore materiale, non si rende necessaria una motivazione aggiuntiva in ordine alla sussistenza di esigenze di interesse pubblico diverse ed ulteriori rispetto a quella del ripristino della legalità (Cons. St., sez. VI, 27.10.2011, n. 5780; id., sez. IV, 15.05.2000, n. 2733).
   (2) Quando trova applicazione la disciplina di cui al secondo alinea del comma 2 dell’art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, l’Amministrazione deve dimostrare che anche se il privato pretermesso avesse partecipato al procedimento allegando fatti e argomenti, tale partecipazione non sarebbe stata significativa in quanto non avrebbe ragionevolmente condotto ad una decisione diversa.
Non potendosi tuttavia pretendere che essa prevenga qualsivoglia allegazione e argomentazione che sarebbe potuta provenire dal ricorrente per dimostrarne l’irrilevanza, la prova che il provvedimento sarebbe stato diverso non può che essere fornita in relazione ai fatti e agli argomenti che il privato lamenta non essere stati presi in considerazione a causa della sua mancata partecipazione.
In concreto, quindi, è quest’ultimo che deve circoscrivere in qualche modo la valutazione dell’amministrazione, portando in giudizio le argomentazioni che avrebbe veicolato nel procedimento ove gliene fosse stata data l’opportunità, così da consentire alla controparte di dimostrare, ove possibile, la legittimità sostanziale del provvedimento, ragionevole e accettabile nonostante le prospettazioni di parte avversa al punto da comportare da parte del giudice la valutazione in concreto che la riedizione del potere che conseguirebbe all’annullamento dell’atto, pur rispettosa delle omesse garanzie procedurali, si rivelerebbe comunque inutile in quanto porterebbe allo stesso identico risultato (
Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza 04.06.2020 n. 3537 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
6. Il Collegio ritiene l’appello fondato e come tale da accogliere, con conseguente riforma della sentenza impugnata.
Risulta decisiva, al riguardo, la considerazione della natura del provvedimento di rettifica della graduatoria. Il giudice di prime cure, dopo averlo ricondotto alla categoria degli “atti di secondo grado”, ha ritenuto per ciò solo applicabile la disciplina di cui al secondo alinea del comma 2 dell’art. 21-octies della l. 07.08.1990, n. 241, in forza del quale il provvedimento amministrativo non è annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento solo qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il che ad avviso del TAR per la Campania non sarebbe avvenuto nel caso di specie.
7. L’art. 21-octies, introdotto nella l. n. 241/1990 dalla novella attuata con l. 11.02.2005, n. 15, prevede due distinte ipotesi di vizi formali o procedimentali inidonei a determinare l’annullabilità del provvedimento che ne è affetto: quella contemplata nel primo alinea del comma 2, riguarda gli atti a carattere vincolato, per i quali la mancata rispondenza al paradigma legislativo, non avendo alcuna incidenza sul contenuto dispositivo, che non avrebbe potuto comunque essere diverso, non comporta mai l’annullamento; quella dettata invece per lo specifico vizio procedurale rappresentato dalla mancata comunicazione di avvio del procedimento, richiede per la conservazione dell’atto, pure se discrezionale, un onere probatorio aggiuntivo a carico dell’amministrazione procedente circa l’inutilità del potenziale apporto collaborativo dell’interessato.
Non si tratta, evidentemente, di modalità contrapposte di conformazione dell’atto del quale si è chiesta la caducazione, in ossequio a condivisibili esigenze di efficacia ed economia procedimentale.
Il richiamo, cioè, all’omessa comunicazione di avvio del procedimento non costituisce una “specializzazione” alternativa, anche di disciplina, della più generica e generale “violazione di norme sul procedimento”, di cui al periodo precedente del comma in esame: esso ha inteso casomai estendere il principio di conservazione degli atti, pur se discrezionali, per economia generale, laddove in sede processuale si sia sostanzialmente rimediato a quello strappo alle regole partecipative che pure costituiscono un caposaldo della disciplina del procedimento amministrativo.
Una volta, cioè, che l’Amministrazione sia stata costretta a confutare addirittura in giudizio la potenziale incidenza delle ragioni dell’interessato, non può non trovare comunque applicazione il principio riassunto nel noto brocardo utile per inutile non vitiatur.
8. Nel caso di specie, dunque, il giudice di prime cure ha ritenuto l’atto potenzialmente suscettibile di essere modificato sotto il profilo contenutistico dall’apporto collaborativo/informativo del diretto interessato, sostanzialmente collegando al suo innegabile effetto negativo nella sfera giuridica del privato la necessaria applicazione delle previste garanzie partecipative.
Essendo, cioè, la rettifica un atto “di secondo grado” idoneo a incidere «in senso eliminativo, sul vantaggio conseguito dal ricorrente per effetto del provvedimento rettificato», se ne rendeva doverosa la previa comunicazione di adozione al destinatario, salvo dimostrarne in concreto l’inutilità. Il che, rileva la Sezione, implica un’indebita commistione fra effetti e contenuto del provvedimento, laddove al contrario un atto vincolato, sebbene lesivo, non è mai annullabile se il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso.
9. Il provvedimento di rettifica della graduatoria di un concorso pubblico ha natura di atto di autotutela (cfr. TAR Lazio–Roma, 13.12.2010, n. 36323) e dunque ne è corretta la qualificazione come “di secondo grado” in quanto va ad incidere su un sottostante provvedimento.
Esso, tuttavia, si caratterizza per il suo fondarsi su un errore che non attiene all’accertamento dei presupposti dell’agire dell’amministrazione, all’interpretazione della disciplina applicabile alla fattispecie, ovvero all’esercizio dell’eventuale discrezionalità; bensì consiste nella mera errata trasposizione nel provvedimento della volontà dell’amministrazione, per come risultante dallo stesso atto.
Dati per presupposti, infatti, in quanto predeterminati dal bando, i criteri di valutazione dei titoli, l’Agenzia ne ha sbagliato la traduzione in punti, con ciò alterando l’ordine della graduatoria basata esclusivamente su tali conteggi. In presenza dell’allegazione di un errore materiale, nel senso ora indicato, ovvero in caso di sua autonoma individuazione, non poteva dunque esimersi dall’obbligo di accertare nel merito se effettivamente l’errore dedotto fosse riscontrabile ovvero comunque dal correggerlo, una volta rilevato.
Tale obbligo discende, in particolare, dal fondamentale canone di buona fede, cui è informato l’ordinamento giuridico e al quale devono essere improntati non solo i rapporti tra i consociati –tenuti, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, al rispetto dei doveri inderogabili di solidarietà– ma anche e soprattutto la pubblica amministrazione, cui l’art. 97 della Costituzione impone di agire con imparzialità e in ossequio al principio del buon andamento.
D’altro canto, la mera correzione di errori materiali non implica, per sua natura, alcuna ponderazione di interessi, non essendo astrattamente configurabile un’esigenza pubblica alla conservazione di un atto a contenuto errato (sul punto cfr. TAR Lazio, sez. II, 05.03.2020, n. 2990).
I principi in questione sono a tal punto immanenti all’ordinamento giuridico che il legislatore impone persino al giudice di intervenire sui propri provvedimenti in presenza di un’istanza di correzione di errore materiale, senza che ciò determini alcuna violazione del divieto del ne bis in idem (cfr., per il processo amministrativo, l’art. 86 c.p.a.).
Mutuando peraltro le risultanze giurisprudenziali cristallizzatesi proprio in ambito giudiziario, può affermarsi che sussistono gli estremi di un errore materiale quando ci si trovi di fronte ad «una inesattezza o svista accidentale rilevando una discrepanza tra la volontà del giudicante e la sua rappresentazione, chiaramente riconoscibile da chiunque e che è rilevabile dal contesto stesso dell’atto» (Cons. Stato, sez. III, 05.08.2011, n. 4695).
10. Nel caso di specie non è in contestazione tra le parti che l’intervento apportato sulla graduatoria del concorso, limitata in tale fase alla sola valutazione dei titoli, abbia concretizzato un atto di rettifica: non si comprende pertanto quale avrebbe potuto essere il contributo impeditivo o modificativo del ricorrente in primo grado, stante che nel merito egli nulla dice al riguardo, non potendosi neppure dolere del proprio punteggio, rimasto invariato anche dopo la correzione di quelli altrui.
La natura doverosa della rettifica, secondo quanto sopra chiarito, impone peraltro solo che la motivazione dia conto dell'errore di fatto commesso (TAR Calabria, sez. II, 09.05.2014, n. 699): il che è avvenuto con il provvedimento impugnato, laddove, diversamente da quanto argomentato dall’appellato, si dà palesemente atto di aver agito in via necessitata per la sopravvenuta esigenza di «modificare le posizioni di alcuni candidati ai quali era stato attribuito, per mero errore materiale, un punteggio inferiore».
D’altro canto, il ristretto arco temporale intercorso tra l'approvazione della prima graduatoria (21.12.2005) e la sua successiva rettifica consente di apprezzare l’unicità della procedura, sviluppatasi senza soluzione di continuità, rendendo superflua, oltre che ultronea, una motivazione aggiuntiva in ordine alla sussistenza di esigenze di interesse pubblico diverse ed ulteriori rispetto a quella del ripristino della legalità (Cons. Stato, sez. VI, 27.10.2011, n. 5780; sez. IV, 15.05.2000, n. 2733; TAR Campania, 23.07.2003, n. 9659).
11. Inquadrata dunque la rettifica che sia effettivamente tale nell’ambito di quei particolari provvedimenti di secondo grado connotati dall’avere tipicamente ad oggetto l’eliminazione di un errore materiale, gli eventuali vizi formali e/o procedurali dai quali essa risulti affetta non possono che ricadere nel paradigma automaticamente conformativo, anziché caducatorio, declinato nel primo alinea del comma 2 dell’art. 21-octies della l. n. 241/1990, senza che sia richiesta alcuna allegazione aggiuntiva da parte dell’Amministrazione procedente.
La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha al riguardo più volte evidenziato come l’inosservanza dell’obbligo di procedere all’avviso di avvio del procedimento amministrativo non determina l’annullamento dell’atto adottato laddove, secondo quanto previsto dal predetto art. 21-octies, il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato in concreto (ex plurimis, Cons. Stato, VI, 28.03.2019, n. 2064, nonché, con specifico riferimento ad un caso paradigmatico di atto destinato ad incidere negativamente nella sfera giuridica del destinatario, quale l’ordine di demolizione di un abuso edilizio, e tuttavia a contenuto necessitato, sez. IV, 26.05.2020, n. 3330).
12. Ma anche a voler seguire la diversa opzione ermeneutica propugnata dal giudice di prime cure, senza peraltro chiarire come l’Agenzia avrebbe dovuto -rectius, potuto- provare l’inutilità del contributo partecipativo del ricorrente, salvo ribadire tautologicamente la necessità di correggere gli errori materiali riscontrati, non si addiviene comunque ad un diverso risultato di giudizio.
Il compito imposto ad un’amministrazione dall’art. 21-bis, comma 2, della l. n. 241/1990, per salvare dall’annullamento il provvedimento, è dunque quello di dimostrare che anche se il privato pretermesso avesse partecipato al procedimento allegando fatti e argomenti, tale partecipazione non sarebbe stata significativa in quanto non avrebbe ragionevolmente condotto ad una decisione diversa. Non potendosi tuttavia certo pretendere che essa prevenga qualsivoglia allegazione e argomentazione che sarebbe potuta provenire dal ricorrente per dimostrarne l’irrilevanza, la prova che il provvedimento sarebbe stato diverso non può che essere fornita in relazione ai fatti e agli argomenti che il privato lamenta non essere stati presi in considerazione a causa della sua mancata partecipazione.
In concreto, quindi, è quest’ultimo che deve circoscrivere in qualche modo la valutazione dell’amministrazione, portando in giudizio le argomentazioni che avrebbe veicolato nel procedimento ove gliene fosse stata data l’opportunità, così da consentire alla controparte di dimostrare, ove possibile, la legittimità sostanziale del provvedimento, ragionevole e accettabile nonostante le prospettazioni di parte avversa al punto da comportare da parte del giudice la valutazione in concreto che la riedizione del potere che conseguirebbe all’annullamento dell’atto, pur rispettosa delle omesse garanzie procedurali, si rivelerebbe comunque inutile in quanto porterebbe allo stesso identico risultato.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODiritto precedenza disabili.
Domanda
Come si applica nel caso il diritto di precedenza per le assunzioni dei lavoratori disabili?
Si chiede di chiarire quali siano le modalità operative in cui si concreta il diritto di precedenza, ovvero se sia necessario effettuare un concorso per assunzione personale categorie protette all’esito del quale, qualora risultato idoneo, il soggetto avrebbe la precedenza sugli altri in graduatoria, oppure se la precedenza operi nell’ambito dell’assunzione tramite Centro per l’Impiego.
Risposta
Posto che per assunzioni di qualifiche e profili per i quali è richiesto il solo requisito della scuola dell’obbligo, l’Ente procede alle assunzioni mediante avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento, si precisa che, relativamente all’assunzione di personale disabile, la Pubblica Amministrazione, benché non sia prevista la chiamata nominativa, potrebbe procedere attraverso le seguenti modalità:
   1. convenzione di cui all’art. 11 L. 68/1999;
   2. richiesta di avviamento, con precisazione del diritto di precedenza a favore del dipendente.
Sul punto, si precisa infatti che con nota congiunta tra Ministero del Lavoro, Anpal e Dipartimento della funzione pubblica 10.07.2018, n. 7571, in merito a “Comunicazione ex articolo 39-quater d.lgs. 165/2001 – Monitoraggio sull’applicazione della legge 12.03.1999, n. 68”, è stata evidenziata infatti l’utilizzabilità delle convenzioni di cui al citato art. 11, ove consente che siano stabiliti i tempi e le modalità delle assunzioni che il datore di lavoro si impegna ad effettuare.
Tra le modalità che possono essere convenute vi sono anche la facoltà della scelta nominativa, lo svolgimento di tirocini con finalità formative o di orientamento, l’assunzione con contratto di lavoro a termine, lo svolgimento di periodi di prova più ampi di quelli previsti dal contratto collettivo, purché l’esito negativo della prova, qualora sia riferibile alla menomazione da cui è affetto il soggetto, non costituisca motivo di risoluzione del rapporto di lavoro.
Detto strumento permetterebbe pertanto all’Ente di inserire il diritto di precedenza nell’atto convenzionale, specificando altresì il percorso fino ad oggi svolto e prevedendo così la stipula di un contratto a tempo indeterminato fatto salvo l’esito positivo di un breve periodo formativo.
Resta inteso, tuttavia, che anche attraverso la richiesta di avviamento sarà possibile far valere il diritto di precedenza.
Questo poiché il diritto in esame è fattispecie derogatoria rispetto alle disposizioni generale di cui all’art. 8 della L. n. 68/1999 ove prevede che, presso gli uffici competenti sia istituito un elenco, con unica graduatoria, dei disabili che risultino disoccupati e che l’elenco e la graduatoria siano pubblicati e formati sulla base dei criteri indicati nell’atto di indirizzo e coordinamento di cui all’art. 1 comma 4 della su indicata legge (04.06.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale ed Organizzazione.
L'ufficio personale di questo Ente (ente pubblico regionale) deve riprendere le prove concorsuali sospese nel periodo emergenziale.
E' possibile svolgere le prove con la presenza di candidati in sede con il segretario verbalizzante ed i membri della Commissione in collegamento da remoto?

Per rispondere al quesito posto all'attenzione, occorre in prima battuta rimarcare come il termine del 16 maggio riguardante la conclusione della sospensione dello svolgimento delle procedure concorsuali "in sede" (definito dal D.L. 17.03.2020 n. 18 "Cura Italia" e dalla seguente legge di conversione L. 24.04.2020 n. 27) non è stato ulteriormente reiterato e pertanto è possibile per le Pubbliche Amministrazioni, procedere alla programmazione delle prove concorsuali sospese nel rispetto, evidentemente, delle norme sanitarie di contenimento della diffusione del Coronavirus quali il distanziamento sociale, il divieto di assembramento e la sanificazione dei locali.
Il Decreto Legge c.d. "Rilancio" D.L. 19.05.2020 n. 34, ha poi previsto alcune possibili novità in merito alle modalità di svolgimento delle prove concorsuali, valide de plano per i concorsi unici gestiti dal Ripam (art. 247) ma i cui principi e criteri generali, riguardanti lo svolgimento delle prove in modalità decentrata ed attraverso l'uso della tecnologia digitale, nonché di svolgimento dell'attività delle commissioni esaminatrici e di presentazione della domanda di concorso possono essere adottati da tutte le singole pubbliche amministrazioni (art. 249).
Venendo alla questione posta all'attenzione, in merito alla possibilità di svolgimento dei lavori della commissione esaminatrice (in particolare la presenza alla prova) in videoconferenza (o comunque in collegamento da remoto), il comma 7 del già richiamato art. 247 prevede espressamente che "la commissione esaminatrice e le sottocommissioni possono svolgere i propri lavori in modalità telematica garantendo comunque la sicurezza e la tracciabilità delle comunicazioni".
Tale principio, pertanto, secondo il successivo art. 249 può essere mutuato dalle pubbliche amministrazioni per lo svolgimento delle proprie prove concorsuali (tanto per i concorsi già in essere di cui sia stata svolta "anche una sola delle prove previste", ai sensi della previsione di cui all'art. 248, che dei concorsi futuri nel rispetto comunque del termine ultimo del 31.12.2020).
A ben vedere, la genericità dell'espressione utilizzata dal legislatore nel predetto articolo, conferisce, alle Amministrazioni procedenti, un ampio ventaglio di possibilità in merito all'organizzazione dei lavori delle commissioni esaminatrici fermo restando i principi di sicurezza e tracciabilità delle comunicazioni. Infatti, l'aver usato la locuzione "svolgere i propri lavori in modalità telematica" contiene in sé, tutte le attività di competenza della commissione dal suo insediamento sino alla valutazione conclusiva da rimettere al Responsabile del procedimento (fermo restando eventuali circolari esplicative da parte del Ministero della Funzione Pubblica che al momento non sono state emanate).
Nel caso proposto, si potrebbe tranquillamente dare atto che la sicurezza e la tracciabilità dei lavori della commissione viene garantita tramite collegamento audio/video con l'aula di svolgimento della prova concorsuale.
Consigliamo, però, all'Amministrazione di informare preventivamente i candidati di tale eventuale decisione (che spetta al responsabile del procedimento) con apposito avviso da pubblicarsi nelle modalità di legge (sito istituzionale, albo pretorio ed Amministrazione trasparente - sezione concorsi) unitamente all'avviso che, la sorveglianza sul corretto svolgimento della prova, sarà garantito da apposito personale munito di tesserino identificativo.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.L. 17.03.2020, n. 18, art. 103 - D.L. 19.05.2020 n. 34, art. 247
 (03.06.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

maggio 2020

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIncremento indennità PO.
Domanda
A seguito dell’entrata in vigore del CCNL del 21/05/2018, abbiamo operato una rivalutazione delle indennità di posizione, avvalendoci dell’art. 11-bis del d.l. 135/2018, convertito nella l. 12/2019, senza tuttavia graduarle al livello massimo consentito (di 16.000,00 euro).
Ciò premesso, si chiede se sia possibile effettuare una nuova rivalutazione, nei limiti del comma 557 della l. 296/2006, fino al massimo di 16.000,00 euro, senza computare la spesa nel conteggio del salario accessorio.
Risposta
L’art. 11-bis, comma 2, del d.l. 135/2018, convertito in l. 12/2019, afferma quanto segue: “Fermo restando quanto previsto dai commi 557-quater e 562 dell’articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296, per i comuni privi di posizioni dirigenziali, il limite previsto dall’articolo 23, comma 2, del decreto legislativo 25.05.2017, n. 75, non si applica al trattamento accessorio dei titolari di posizione organizzativa di cui agli articoli 13 e seguenti del contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) relativo al personale del comparto funzioni locali – Triennio 2016-2018, limitatamente al differenziale tra gli importi delle retribuzioni di posizione e di risultato già attribuiti alla data di entrata in vigore del predetto CCNL e l’eventuale maggiore valore delle medesime retribuzioni successivamente stabilito dagli enti ai sensi dell’articolo 15, commi 2 e 3, del medesimo CCNL, attribuito a valere sui risparmi conseguenti all’utilizzo parziale delle risorse che possono essere destinate alle assunzioni di personale a tempo indeterminato che sono contestualmente ridotte del corrispondente valore finanziario.“.
Dal tenore letterale della norma sopra riportata si individua, nel rispetto dei presupposti per l’applicazione (il contenimento delle spese di personale con riferimento al valore medio del triennio 2011-2013 e con riferimento all’anno 2008), per gli enti di piccole dimensioni (privi di personale dirigenziale), la possibilità di aumentare il salario accessorio delle medesime posizioni organizzative, stabilito prima dell’entrata in vigore del CCNL 21/05/2018 (anno riferimento 2017), in deroga al limite di cui all’art. 23, comma 2, del d.lgs. 75/2017, rinunciando, per il differenziale relativo, a quote di facoltà assunzionali.
Tale possibilità è concessa agli enti solo in sede di prima applicazione del nuovo sistema di pesatura delle posizioni organizzative, previsto dal CCNL 21/05/2018, e non, invece, per ogni incremento deciso dall’amministrazione sullo stanziamento a bilancio, riferito alla retribuzione di posizione e risultato delle posizioni organizzative.
Se, quindi, l’amministrazione intende aumentare lo stanziamento a bilancio per la voce de quo dovrà procedere alla riduzione di altre voci del salario accessorio.
In particolare, l’art. 7, comma 4, lett. u), del CCNL 21/05/2018, prevede l’attivazione della contrattazione con le parti sindacali per l’incremento delle risorse di cui all’art. 15, comma 5, destinate alla corresponsione della retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative, ove implicante, ai fini dell’osservanza dei limiti previsti dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. 75/2017, una riduzione delle risorse del fondo di cui all’art. 67 (28.05.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOEmergenza epidemiologica Covid-19: test sierologici sui dipendenti e tutela dei dati personali.
Domanda
In vista della ripresa dell’attività in sede, alcuni dipendenti chiedono che l’Amministrazione effettui test sierologici per il COVID-19. L’amministrazione condivide le preoccupazioni dei dipendenti e vorrebbe rendere obbligatori tali test per tutti i dipendenti, al fine di individuare eventuali casi di contagio e limitarne la diffusione, ritenendo che la tutela della salute sia una priorità.
Si può adottare questa misura o è necessario sempre il consenso degli interessati? La misura va concordata con il medico del lavoro?
Risposta
La posizione che ha assunto il Garante per la protezione dei dati personali, sin dall’inizio dell’emergenza Coronavirus, è stata quella di contemperare il diritto alla privacy con l’esigenza di contenere il contagio. Il diritto alla privacy è un diritto di libertà e, in quanto tale, può essere compresso solo nella misura strettamente necessaria alla tutela del diritto alla salute della collettività.
Altro punto che troviamo nelle indicazioni del Garante è che i dati sanitari devono essere trattati soltanto dai soggetti a ciò istituzionalmente preposti, le istituzioni sanitarie e la protezione civile.
In particolare, con riferimento all’ambito lavorativo, occorre bilanciare l’interesse alla riservatezza dei dati personali dei lavoratori, con l’interesse alla salute e sicurezza sul lavoro. È, dunque, comprensibile che il datore di lavoro (sia esso pubblico o privato) si preoccupi di assicurare che nei propri uffici non si verifichino situazioni di contagio.
Occorre però mettere qualche paletto.
Così il Garante ha chiarito che, anche nell’attuale emergenza sanitaria, resta fermo il ruolo svolto dal medico competente (in coerenza con la disposizione dell’art. 41, del decreto legislativo 09.04.2008, n. 81 in tema di sorveglianza sanitaria) e il datore di lavoro non deve comunicare i nominativi dei contagiati al rappresentate dei lavoratori per la sicurezza. Restano fermi, infatti, i princìpi di proporzionalità e di minimizzazione dei dati, sanciti nell’articolo 5 del Regolamento (UE) 2016/679, in materia di tutela dei dati personali.
Con un comunicato del 02.03.2020 l’Autorità si era pronunciata relativamente alla possibilità o meno, per datori di lavoro pubblici e privati, di acquisire una “autodichiarazione” da parte dei dipendenti in ordine all’assenza di sintomi influenzali, e vicende relative alla sfera privata.
A tal proposito il Garante aveva precisato che i datori di lavoro devono astenersi dal raccogliere, a priori e in modo sistematico e generalizzato, anche attraverso specifiche richieste al singolo lavoratore o indagini non consentite, informazioni sulla presenza di eventuali sintomi influenzali del lavoratore e dei suoi contatti più stretti o comunque rientranti nella sfera extra lavorativa e che la finalità di prevenzione dalla diffusione del Coronavirus deve essere svolta da soggetti che istituzionalmente esercitano queste funzioni in modo qualificato.
Pertanto invitava ad attenersi scrupolosamente alle indicazioni fornite dal Ministero della salute e dalle istituzioni competenti per la prevenzione della diffusione del Coronavirus, senza effettuare iniziative autonome che prevedano la raccolta di dati anche sulla salute di utenti e lavoratori che non siano normativamente previste o disposte dagli organi competenti
A fronte del mutare degli strumenti a disposizione per limitare il contagio, il Garante fornisce ulteriori indicazioni con riferimento proprio alla questione dei test sierologici.
Con il Comunicato del 14 maggio si precisa che:
   • nell’ambito del sistema di prevenzione e sicurezza sui luoghi di lavoro o di protocolli di sicurezza anti-contagio, il datore di lavoro può richiedere ai propri dipendenti di effettuare test sierologici solo se disposto dal medico competente o da altro professionista sanitario in base alle norme relative all’emergenza epidemiologica;
   • le visite e gli accertamenti, anche ai fini della valutazione della riammissione al lavoro del dipendente, devono essere posti in essere dal medico competente o da altro personale sanitario, e, comunque, nel rispetto delle disposizioni generali che vietano al datore di lavoro di effettuare direttamente esami diagnostici sui dipendenti;
   • la partecipazione agli screening sierologici promossi dai Dipartimenti di prevenzione regionali nei confronti di particolari categorie di lavoratori a rischio di contagio, come operatori sanitari e forze dell’ordine, può avvenire solo su base volontaria.
Tale impostazione assicura il rispetto del l’art. 5 dello Statuto dei lavoratori che vieta accertamenti sanitari da parte del datore di lavoro.
Pertanto, con riferimento al quesito proposto, si ritiene che l’Amministrazione non possa procedere autonomamente all’effettuazione di test sierologici a tappeto sui propri dipendenti, tanto meno senza il consenso degli interessati. La misura deve essere disposta dalle autorità competenti e i dati personali possono essere trattati soltanto dalle medesime autorità, per disporre le misure di contenimento epidemiologico previste dalla normativa d’urgenza in vigore (es. isolamento domiciliare).
Si raccomanda invece di attenersi alle disposizioni contenute nel Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro tra Governo e parti sociali del 24.04.2020, recepito nell’Allegato 6, del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 26.04.2020 (26.05.2020 - link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Sul reato penale di falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici.
Si è ricordato, con riferimento al più grave reato di cui all'art. 479 cod. pen., come lo stesso si configuri con il rilascio di autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente, nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal richiedente circa la sussistenza dei presupposti giuridico-fattuali per l'accoglimento della relativa domanda.
Ancora, va ricordato il principio secondo il quale è configurabile il delitto di falso ideologico nella valutazione tecnica formulata in un contesto implicante l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi.
Anche altre decisioni hanno specificato che, se pure è vero che nel caso in cui il pubblico ufficiale sia libero nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto, tuttavia, se l'atto da compiere fa riferimento, anche implicito, a previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, con conseguente integrazione della falsità se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato.
Tali principi sono stati anche recentemente ribaditi. In questi casi, si è conseguentemente ritenuto che i provvedimenti autorizzativi rilasciati fossero fondati su presupposti urbanistici e paesaggistici falsi contenuti anche nella relazione tecnica e, come tale, anch'essa falsa.
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2.5. Sotto altro profilo, debbono disattendersi le doglianze mosse da tutti i ricorrenti circa l'impossibilità di configurare comunque, nel caso di specie, il reato di falso ideologico.
Vanno, di fatti, senz'altro condivisi e richiamati i precedenti di questa Corte ed in particolare la sent. Sez. 3, n. 28713 del 19/04/2017, Colella e aa., non massimata -riguardante una vicenda analoga a quella di specie relativa al comune di Morciano di Leuca- nella quale, richiamate altre decisioni attinenti a procedimenti aventi ad oggetto fatti analoghi (Sez. 3, n. 42064 del 30/06/2016, Quaranta e aa., Rv. 268083; Sez. 5, n. 35556 del 26/04/2016, Renna, Rv. 267953), si è ricordato, con riferimento al più grave reato di cui all'art. 479 cod. pen., in quell'occasione contestato, come lo stesso si configuri con il rilascio di autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente, nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal richiedente circa la sussistenza dei presupposti giuridico-fattuali per l'accoglimento della relativa domanda.
Ancora, va ricordato il principio secondo il quale è configurabile il delitto di falso ideologico nella valutazione tecnica formulata in un contesto implicante l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi (ribadito in Sez. 3, n. 41373 del 17/07/2014, Pasteris e aa., Rv. 260968, non massimata sul punto, che a sua volta richiama Sez. 1, n. 45373 del 10/06/2013, Capogrosso e a., Rv. 257895).
Anche altre decisioni hanno specificato che, se pure è vero che nel caso in cui il pubblico ufficiale sia libero nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto, tuttavia, se l'atto da compiere fa riferimento, anche implicito, a previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, con conseguente integrazione della falsità se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato (Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, Platamone e a., Rv. 254305; si vedano anche Sez. 5, n. 39360 del 15/07/2011, Gulino, Rv. 251533; Sez. 5, n. 14486 del 21/02/2011, Marini e a., Rv. 249858).
Tali principi sono stati anche recentemente ribaditi (Sez. 3, n. 9881 del 08/02/2018, Costantini e aa., non massimata; Sez.3, n. 2281 del 24/11/2017, dep. 2018, Siciliano e aa. V. anche Sez. 3, n. 30040 del 30/01/2018, Strambone, non massimata; Sez. 3, n. 30025 del 04/12/2017, dep. 2018, Scrudato, non massinnata; Sez. 3, n. 57120 del 29/09/2017, Borrello e a., non massimata; Sez. 3, n. 57108 del 17/05/2017, Renna, non massimata. V. anche Sez. 3 n. 18890 del 08/11/2017, dep. 2018, Renna non massimata). In questi casi, si è conseguentemente ritenuto che i provvedimenti autorizzativi rilasciati fossero fondati su presupposti urbanistici e paesaggistici falsi contenuti anche nella relazione tecnica e, come tale, anch'essa falsa.
Le decisioni di questa Corte che, in alcune occasioni, sono giunte a conclusioni diverse, salvo casi isolati, non sembrano porre in discussione i principi dianzi ricordati.
Invero, le difformi decisioni prendono in considerazione il fatto specifico, riconoscendo come corrispondenti al vero i fatti rappresentati negli elaborati progettuali (Sez. 3, n. 4566 del 10/10/2017, dep. 2018, Morciano e a., non massimata) od il difetto dell'elemento soggettivo (v. Sez. 5 n. 37915 del 26/04/2017, Baglivo, non massimata), ovvero sostenendo che la valutazione oggetto di imputazione, essendo correlata alla mera interpretazione della normativa di settore, ma svincolata da qualsiasi riferimento ad elementi fattuali integranti il presupposto dell'atto, è priva di quella funzione informativa in forza della quale l'enunciato può essere predicato di falsità (Sez. 5, n. 19384 del 12/02/2018, De Micheli e aa., non massimata; Sez. 5, n. 7879 del 16/01/2018, Daversa e aa., Rv. 272457).
Si tratta, in tale ultimo caso, di una non convincente qualificazione dei contenuti dell'atto che si assume falso, perché, come si è condivisibilmente affermato in una recente pronuncia (Sez. 3, n. 8844 del 18/01/2018, Renna e a., non massimata, la quale a sua volta richiama Sez. 3, n. 57108 del 17/05/2017, Renna, cit.; negli stessi termini, Sez. 3, n. 8852 del 18/01/2018, Dilonardo e aa., non massimata) nell'autorizzazione paesaggistica -e ancor più nel permesso di costruire- vengono attestate, come detto magari anche solo implicitamente, la conformità urbanistica e la compatibilità ambientale delle opere da edificare, esprimendosi quindi un giudizio in base alla rispondenza dell'intervento edilizio ad oggettivi e preesistenti criteri normativi, in quanto tale non caratterizzato da mera discrezionalità tecnica quanto, piuttosto, da una verifica oggettiva (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.05.2020 n. 15767).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORi-assunzione tempo determinato.
Domanda
Una dipendente a tempo determinato finisce il suo incarico a settembre. Ha ormai fatto 3 anni e anche l’anno aggiuntivo previsto dal Job act. L’amministrazione vorrebbe dare un altro incarico sempre per lo stesso lavoro.
Come potrebbe fare?
Risposta
L’art. 50 del CCNL 21.05.2018 stabilisce che:
   • un contratto a tempo determinato non può durare più di 3 anni;
   • non è possibile superare i 3 anni nemmeno sommando più contratti tra le stesse parti per le stesse mansioni, salva la possibilità di stipulare un ulteriore contratto di 12 mesi nei casi di cui al comma 11;
   • tra un contratto e l’altro ci deve essere un intervallo di tempo da 5 a 20 giorni a seconda dei casi e salve le eccezioni di cui al comma 12.
Dato che ci deve essere uno stacco, prima e dopo il periodo di interruzione si svolgono due distinti rapporti di lavoro, per l’accesso ai quali si devono necessariamente applicare le procedure previste per il reclutamento a tempo determinato nelle pubbliche amministrazioni: ad ogni assunzione si applicano le regole previste per l’accesso al pubblico impiego (principalmente: art. 97, comma 2, della Costituzione, d.lgs. 165/2001, regolamenti dei singoli enti sull’accesso all’impiego), comprese le regole previste dal bando di concorso di cui si tratta e dagli accordi tra gli enti coinvolti circa l’utilizzo condiviso delle graduatorie e circa le modalità del loro scorrimento.
Nel caso in cui, in applicazione di tali regole, venisse individuato lo stesso lavoratore che ha già prestato servizio a tempo determinato per lo stesso ente e per le stesse mansioni, è necessario rispettare l’intervallo di stacco.
Nel caso in cui, in applicazione di tali regole, venisse individuato un lavoratore che non ha già prestato servizio a tempo determinato per lo stesso ente per le stesse mansioni, non ci sono intervalli da rispettare, dato che non si verificano le circostanze con riferimento alle quali il CCNL richiede lo stacco.
Quindi, la riassunzione dello stesso lavoratore dopo lo stacco non è esclusa a priori, ma dipende quale è il canale di reclutamento utilizzato e le regole che lo disciplinano.
Nel caso descritto dal quesito è ipotizzabile anche il ricorso alla somministrazione di lavoro a tempo determinato, nel rispetto della disciplina di legge, contrattuale (art. 52 CCNL 21.05.2018), e contenuta nei regolamenti dell’ente: si vedano in modo particolare i regolamenti dell’ente per quanto riguarda la scelta dell’agenzia di somministrazione e per la scelta del lavoratore tra quelli proposti dall’agenzia (21.05.2020 - link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Conferimento di incarichi dirigenziali nella PA: tra diritto soggettivo e interesse legittimo.
Fanno capo al dirigente due distinte situazioni giuridiche soggettive, perché rispetto alla cessazione anticipata dell'incarico lo stesso è titolare di un diritto soggettivo che, ove ritenuto sussistente, dà titolo alla reintegrazione (se possibile) nella funzione dirigenziale ed al risarcimento del danno, mentre a fronte del mancato conferimento di un nuovo incarico può essere fatto valere un interesse legittimo di diritto privato, che, se ingiustamente mortificato, non legittima il dirigente a richiedere l'attribuzione dell'incarico non conferito ma può essere posto a fondamento della domanda di ristoro dei pregiudizi ingiustamente subiti.
Non vanno, dunque, confusi il diritto soggettivo al conferimento dell'incarico e l'interesse legittimo di diritto privato correlato all'obbligo imposto alla pubblica amministrazione di agire nel rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede nonché dei principi di imparzialità, efficienza e buon andamento consacrati nell'art. 97 Cost., sicché il dirigente non può pretendere dal giudice un intervento sostitutivo e chiedere l'attribuzione dell'incarico, ma può agire per il risarcimento del danno, ove il pregiudizio si correli all'inadempimento degli obblighi gravanti sull'amministrazione.
Quanto a quest'ultima azione è stato richiamato il principio generale secondo cui, nel lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni (per i dirigenti statali in virtù di espressa previsione dell'art. 19 d.lgs. n. 165/2001), alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e pertanto non è applicabile l'art. 2103 cod. civ., risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico.
Anche il sistema normativo del lavoro pubblico dirigenziale negli enti locali (trasfuso nel d.lgs. n. 267/2000, art. 109) esclude la configurabilità di un diritto soggettivo del dirigente a conservare in ogni caso determinate tipologie di incarico dirigenziale, ancorché corrispondenti all'incarico assunto a seguito di concorso specificatamente indetto per determinati posti di lavoro, pure anteriormente alla cosiddetta 'privatizzazione'.
Lo stesso sistema, peraltro, conferma il principio generale che, nel lavoro pubblico, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e non consente perciò -anche in difetto della espressa previsione di cui all'art. 19 d.lgs. n. 165 del 2001 stabilita per le Amministrazioni statali- di ritenere applicabile l'art. 2103 cod. civ., risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico locale, con la sola eccezione della dirigenza tecnica, nel senso che il dirigente tecnico, il cui incarico è soggetto ai principi della temporaneità e della rotazione, deve comunque svolgere mansioni tecniche
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    1. con il primo motivo il ricorrente denuncia error in judicando, in relazione all'art. 360, n. 3, cod. proc. civ., per violazione dell'art. 19 del d.lgs. n. 165/2001, dell'art. 13 del c.c.n.l. enti locali, del c.c.d.i. Comune di Salerno, dell'art. 2103 cod. civ.;
   rileva che la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che il comportamento del Comune non fosse violativo dei criteri di assegnazione degli incarichi dirigenziali;
   insiste nel ritenere che il suo passaggio da Dirigente del Settore a Dirigente del Sevizio avesse integrato un demansionamento;
   sostiene che l'amministrazione fosse tenuta a garantire il livello di professionalità conseguito in virtù dell'incarico in precedenza ricoperto;
   2. il motivo è infondato;
   2.1. questa Corte ha più volte affermato che fanno capo al dirigente due distinte situazioni giuridiche soggettive, perché rispetto alla cessazione anticipata dell'incarico lo stesso è titolare di un diritto soggettivo che, ove ritenuto sussistente, dà titolo alla reintegrazione (se possibile) nella funzione dirigenziale ed al risarcimento del danno, mentre a fronte del mancato conferimento di un nuovo incarico può essere fatto valere un interesse legittimo di diritto privato, che, se ingiustamente mortificato, non legittima il dirigente a richiedere l'attribuzione dell'incarico non conferito ma può essere posto a fondamento della domanda di ristoro dei pregiudizi ingiustamente subiti (v. Cass. 13.11.2018, n. 29169; Cass. 10.12.2017, n. 28879; Cass. 03.02.2017, n. 2972; Cass. 18.06.2014, n. 13867);
   2.2. non vanno, dunque, confusi il diritto soggettivo al conferimento dell'incarico e l'interesse legittimo di diritto privato correlato all'obbligo imposto alla pubblica amministrazione di agire nel rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede nonché dei principi di imparzialità, efficienza e buon andamento consacrati nell'art. 97 Cost., sicché il dirigente non può pretendere dal giudice un intervento sostitutivo e chiedere l'attribuzione dell'incarico, ma può agire per il risarcimento del danno, ove il pregiudizio si correli all'inadempimento degli obblighi gravanti sull'amministrazione (Cass. 23.09.2013, n. 21700; Cass. 24.09.2015, n. 18972; Cass. 14.04.2015, n. 7495);
   2.3. quanto a quest'ultima azione è stato richiamato il principio generale secondo cui, nel lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni (per i dirigenti statali in virtù di espressa previsione dell'art. 19 d.lgs. n. 165/2001), alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e pertanto non è applicabile l'art. 2103 cod. civ., risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico (v. Cass. 22.12.2004; Cass. 15.02.2010, n. 3451; Cass. 22.02.2017, n. 4621; Cass. 20.07.2018, n. 19442);
   2.4. anche il sistema normativo del lavoro pubblico dirigenziale negli enti locali (trasfuso nel d.lgs. n. 267/2000, art. 109) esclude la configurabilità di un diritto soggettivo del dirigente a conservare in ogni caso determinate tipologie di incarico dirigenziale, ancorché corrispondenti all'incarico assunto a seguito di concorso specificatamente indetto per determinati posti di lavoro, pure anteriormente alla cosiddetta 'privatizzazione' (v. Cass 22.02.2017, n. 4621; Cass. 20.07.2018, n. 19442);
   lo stesso sistema, peraltro, conferma il principio generale che, nel lavoro pubblico, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e non consente perciò -anche in difetto della espressa previsione di cui all'art. 19 d.lgs. n. 165 del 2001 stabilita per le Amministrazioni statali- di ritenere applicabile l'art. 2103 cod. civ., risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico locale, con la sola eccezione della dirigenza tecnica, nel senso che il dirigente tecnico, il cui incarico è soggetto ai principi della temporaneità e della rotazione, deve comunque svolgere mansioni tecniche (v. Cass. 22.12.2004, n. 23760; Cass. 15.02.2010, n. 3451 nonché Cass. n. 4621/2017 cit.; Cass. n. 19442/2018 cit.);
   2.5. nella specie, per quello che si evince dalla sentenza impugnata, non è in discussione la legittimità della disposta cessazione ante tempus dell'incarico di direzione del Settore Trasporti e Viabilità già conferito al Pa. (per effetto dello smembramento e trasformazione del Settore in Servizi, Impianti, Viabilità e Manutenzione, costituito da due distinti Servizi) ma il mancato conferimento allo stesso dell'incarico di dirigente di Settore e l'assegnazione della sola dirigenza di uno di detti Servizi;
   non vigendo la regola dell'equivalenza delle mansioni e non essendo in discussione che fosse stata, nello specifico, compromessa la professionalità 'tecnica' (discutendosi solo dell'assegnazione ad un incarico di direzione per il quale, in dipendenza dell'operato smembramento dei servizi del precedente settore e della successiva graduazione delle funzioni in sette distinti gruppi, era stata prevista una diversa, e ridotta, retribuzione di risultato e conseguentemente di posizione) non può sostenersi che la mancata assegnazione di un incarico equivalente a quello in precedenza ricoperto costituisca automaticamente fonte di danno risarcibile (si consideri che, in tema di dirigenza pubblica, è stato ritenuto che non determina un demansionamento la cessazione di un incarico di funzione e la successiva attribuzione di un incarico di studio: v. da ultimo Cass. 09.04.2018, n. 8674);
   2.6. discutendosi di danno da violazione di interesse legittimo di diritto privato alla linearità e congruità delle determinazioni assunte dall'Ente, lo stesso non poteva certo coincidere con quanto sarebbe stato dovuto in forza del contratto non concluso, occorrendo la deduzione e prova di una lesione dannosa di legittimo affidamento rispetto all'incarico al quale il Pa. aspirava (si pensi, ad esempio, al pregiudizio derivato dall'eventuale inadempimento di obblighi gravanti sul Comune in relazione agli atti preliminari, all'assenza di adeguate forme di partecipazione dell'interessato medesimo al processo decisionale, alla omessa esternazione delle ragioni giustificatrici della scelta, alla perdita patrimoniale per le spese inutilmente sostenute in relazione alle trattative, alla mancata possibilità di cogliere altre occasioni professionali presentatesi nel corso della fase preliminare, circostanze, tutte, non prospettate nel caso in esame -v. anche infra-);
   2.7. anche un autonomo danno all'immagine professionale non poteva dirsi conseguenza automatica della supposta illegittimità del conferimento ad altri dell'incarico preteso, ma doveva essere dedotto e provato;
   ed infatti, se è possibile che l'assegnazione ad un nuovo incarico dirigenziale sia realizzata con modalità tali da configurare un inadempimento contrattuale per la compromissione della professionalità del lavoratore, anche nella forma della perdita di chance, ovvero per la lesione della sua dignità professionale (v. Cass. 08.11.2017, n. 26469, in motivazione; più in generale v. Cass. 20.06.2016, n. 12678 del 2016), il danno risarcibile deve essere allegato e provato dal danneggiato secondo i noti principi che presiedono all'accertamento ed alla liquidazione dei danni patrimoniali e non patrimoniali, senza alcun automatismo che faccia ritenere lo stesso sussistente in re ipsa (v. Cass. 07.01.2019, n. 137) e soprattutto senza che lo stesso possa coincidere (come pretenderebbe il ricorrente) con quanto sarebbe stato dovuto in forza del contratto non concluso;
   peraltro, nello specifico, quanto alla professionalità, proprio il ricorrente assume che in punto di fatto nulla o poco fosse cambiato visto che il Comune aveva comunque assegnato al predetto i medesimi plurimi incarichi di prima;
   2.8. il Pa. sostiene, più precisamente, che fosse degradante essere assegnato ad un Servizio di IV gruppo rispetto ad un Settore di I gruppo;
   tale affermazione non risulta, però, supportata da una corrispondente chiara differenziazione di livelli dirigenziali e correlativi complessivi trattamenti retributivi né da circostanze quali ad esempio il venir meno di funzioni apicali e la sottoposizione ad altrui direttive;
   invero a pag. 32 del ricorso il Pa. assume che per effetto dell'assegnazione al IV gruppo gli fosse stata riconosciuta una retribuzione di posizione inferiore a quella prevista per I gruppo ('con conseguenti riflessi sulla retribuzione di risultato');
   tuttavia non integra un demansionamento né non può riconoscersi come danno la perdita (di quota) della retribuzione di posizione e di risultato, non configurandosi, per quanto sopra detto, un diritto del dirigente alla preposizione ad un ufficio di direzione, alle quali le predette voci siano connesse; (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 20.05.2020 n. 9294).

ATTI AMMINISTRATIVI: Adempimenti approvazione PTPCT.
Domanda
È possibile conoscere quali adempimenti dobbiamo svolgere dopo che la Giunta del nostro comune ha approvato il Piano Triennale Anticorruzione? Il Piano va spedito alla Funzione pubblica e all’ANAC?
Risposta
La legge anticorruzione (legge 06.11.2012, n. 190), all’articolo 1, comma 8, prevede che le pubbliche amministrazioni, entro il 31 gennaio di ogni anno, debbano approvare il Piano Triennale Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT) e ne curano la trasmissione all’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC).
L’articolo 10, comma 8, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 (cd: decreto Trasparenza) prevede che ogni amministrazione ha l’obbligo di pubblicare sul proprio sito istituzionale nella sezione: “Amministrazione trasparente”, il Piano Anticorruzione.
L’ANAC, in vari suoi documenti e da ultimo nel Piano Nazionale Anticorruzione 2019, approvato con delibera n. 1064 del 13.11.2019 (Paragrafo 6), ha specificato che nessun piano –contrariamente a quanto previsto nella legge Severino– deve essere inviato all’ANAC.
Per non disattendere completamente la disposizione legislativa, l’Autorità, in collaborazione con due università italiane, ha sviluppato una piattaforma on-line sul sito web istituzionale. La piattaforma è attiva dal 01.07.2019 ed è finalizzata alla rilevazione delle informazioni sulla predisposizione dei PTPCT e sulla loro attuazione.
Al momento, la piattaforma ha carattere sperimentale e, nella prima fase, è stata delimitata l’operatività della stessa unicamente alle amministrazioni pubbliche, di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001 (quindi, anche agli enti locali), agli enti pubblici economici, agli ordini professionali e alle società in controllo pubblico.
Con un comunicato datato 22.04.2020 –pubblicato nel sito web dell’ANAC il 04.05.2020– l’Autorità ha chiarito che l’acquisizione dei dati sui PTPCT, tramite la piattaforma, avviene esclusivamente mediante la compilazione di specifici moduli predisposti dall’Autorità e mai attraverso l’invio o il caricamento di documenti. In aggiunta, viene specificato che i dati sui PTPCT riferiti al triennio 2020-2022, non vanno ancora inseriti sulla piattaforma. L’Autorità fornirà, prossimamente, sul sito istituzionale specifiche informazioni in merito alle modalità di acquisizione di tali dati.
Chiarito il quadro complessivo, si risponde allo specifico quesito, illustrando che:
   a) Il PTPCT 2020/2022 deve essere pubblicato, entro un mese dall’adozione (sostiene l’ANAC, ma non la legge) nel sito web dell’ente, nella sezione Amministrazione trasparente > Altri contenuti > Prevenzione della corruzione. Il Piano va pubblicato anche nella sottosezione Disposizioni generali > Piano Triennale per la prevenzione della corruzione e trasparenza, dove, per evitare inutili duplicazioni, è possibile inserire un link che apra la prima sottosezione;
   b) è opportuno, ma non previsto da alcuna disposizione, che il Piano, approvato con deliberazione della Giunta, venga altresì trasmesso: al Responsabile Anticorruzione dell’ente e ai suoi referenti; ai dirigenti o posizioni organizzative (figure apicali), ai componenti dell’OIV o Nucleo di Valutazione.
Il PTPCT comunale, dunque, NON va trasmesso all’ANAC, né al dipartimento della Funzione pubblica, come previsto, invece, per le (sole) pubbliche amministrazioni centrali (art. 1, comma 5, legge 190/2012). Per il caricamento dei dati riferiti al Piano 2020/2022 nella Piattaforma ANAC occorre attendere le ulteriori disposizioni che l’Autorità emanerà (19.05.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMobilità e scorrimento graduatoria COVID-19.
Domanda
Mobilità e scorrimento graduatorie. Cosa si può fare e cosa è sospeso durante l’emergenza sanitaria?
Risposta
In merito a quanto esposto si ritiene di proporre delle considerazioni generali.
Per quanto riguarda la procedura di mobilità, la stessa non può ritenersi inclusa tra le procedure sospese per effetto dell’emergenza epidemiologica, trattandosi di espressione del dirigente/responsabile quale privato datore di lavoro e quindi la stessa potrebbe essere portata a compimento mediante colloquio telematico con gli aspiranti.
Per l’utilizzo delle graduatorie di un altro ente, tra l’altro da esperirsi mediante una scambio di lettere tra responsabili (no convenzione), si ricorda che è necessario procedere alla richiesta ex art. 34-bis del d.lgs. 165/2001 ed attendere poi i 45 giorni previsti dalla norma, che decorreranno dal 15.05.2020 per effetto della sospensione di cui all’art. 103 del d.l. 18/2020.
Infatti il dipartimento della Funzione Pubblica ha indicato, tra i procedimenti per i quali intende siano sospesi i termini, anche quello legato alla verifica degli esuberi ex articolo 34-bis del TUPI.
Quindi, i 45 giorni che gli enti debbono concedere al Dipartimento per effettuare le verifiche sono attualmente bloccati fino al 15 maggio compreso.
La previsione delle assunzioni in parola, se non già effettuato, dovrà essere inserita nel piano triennale di fabbisogno di personale (14.05.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORilevazione della temperatura corporea dei dipendenti e tutela dei dati personali.
Domanda
Nel nostro comune, al momento dell’entrata in servizio, in assenza di termoscanner, è stato predisposto un foglio con i nomi di tutti i dipendenti in cui è necessario dichiarare di non avere sintomi influenzali e una temperatura corporea inferiore a 37,5°.
La dichiarazione viene completata con la firma del dipendente e i colleghi la possono consultare trattandosi di un documento unico per tutti. Il foglio, con le dichiarazioni, viene ritirato durante la mattinata da un addetto del servizio personale.
Ci si chiede: la procedura rispetta le vigenti disposizioni in materia di privacy?
Risposta
Per fronteggiare l’aggravarsi dello scenario, legato all’emergenza epidemiologica, si sono susseguiti, in modo ravvicinato e, a volte, non sempre coordinato, numerosi interventi normativi e conseguenti atti di indirizzo tutti finalizzati a individuare misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza da Covid-19.
Tra le varie misure previste per i datori di lavoro, la più recente è il Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro tra Governo e parti sociali, sottoscritto –nell’ultima versione– il 24.04.2020. Il Protocollo è stato poi trasfuso nel decreto Presidente Consiglio dei ministri (dpcm) del 26.04.2020, dove ha preso le sembianze dell’Allegato n. 6.
In particolare, il citato Protocollo prevede la rilevazione della temperatura corporea del personale dipendente per l’accesso alla sede aziendale (cfr. Paragrafo 2 del Protocollo rubricato “Modalità di ingresso in azienda”).
Sulla base delle vigenti norme in materia di tutela della privacy, la rilevazione in tempo reale della temperatura corporea –quando è associata all’identità dell’interessato– costituisce un trattamento di dati personali [ex articolo 4, Paragrafo 1, 2) del Regolamento (UE) 2016/679] e, per ciò stesso, non è ammessa la registrazione del dato relativo alla temperatura corporea rilevata o, come nel caso del quesito, dichiarata dal dipendente.
A tal riguardo il Garante Privacy suggerisce:
   1. di rilevare la temperatura e non registrare il dato acquisito. È possibile identificare l’interessato e registrare il superamento della soglia di temperatura solo qualora sia necessario a documentare le ragioni che hanno impedito l’accesso ai locali aziendali;
   2. fornire al dipendente l’informativa (ex art. 13 Regolamento UE) sul trattamento dei dati personali. Si ricorda che l’informativa può omettere le informazioni di cui l’interessato è già in possesso e può essere fornita anche oralmente;
   3. definire le misure di sicurezza e organizzative adeguate a proteggere i dati. In particolare, sotto il profilo organizzativo, occorre individuare i soggetti preposti al trattamento e fornire loro le istruzioni necessarie;
   4. in caso di isolamento momentaneo dovuto al superamento della soglia di temperatura, assicurare modalità tali da garantire la riservatezza e la dignità del lavoratore.
Per tutto quanto sopra e nel rispetto del principio di “minimizzazione”, così come disciplinato nell’articolo 5, paragrafo 1, lettera c), del regolamento UE citato, si ritiene che la procedura adottata nel comune, non risulti conforme alle vigenti disposizioni in materia di tutela dei dati personali e dovrebbe, pertanto, essere sostituita da altra procedura più rispettosa delle norme vigenti.
A completamento informativo, si consiglia di consultare le FAQ pubblicate nel sito web del Garante Privacy italiano al seguente link e applicare le disposizioni del Paragrafo 2, e Nota 1, del Protocollo, riportato nel dpcm del 26.04.2020, allegato 6 (12.05.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il divieto di monetizzazione delle ferie non godute.
Il divieto di monetizzazione delle ferie non godute non può trovare applicazione ove il godimento di dette ferie sia stato impedito da uno stato di malattia o da altra causa oggettivamente non imputabile al lavoratore.
In tal modo, è stato riconosciuto al lavoratore il diritto di beneficiare di un’indennità per le ferie non godute per causa a lui non imputabile, anche quando la normativa settoriale formuli esplicitamente un divieto in tal senso, in questo modo garantendo il diritto alle ferie, come riconosciuto dalla Costituzione e dalle più importanti fonti internazionali ed europee
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Nel merito il ricorso è fondato e va accolto.
Ai sensi dell’art. 36 della Costituzione, recepito dall’art. 2109 c.c., il lavoratore ha diritto a godere di un periodo annuale di ferie retribuite, per reintegrare le energie psicofisiche spese nell’espletamento della prestazione lavorativa.
Si tratta di un diritto irrinunciabile e dunque, in linea generale, non monetizzabile.
In attuazione di tale principio, infatti, l’art. 47, co. 7, del D.P.R. 31.07.1995 n. 395 dispone che “la licenza ordinaria è un diritto irrinunciabile e non è monetizzabile”. L’art. 55 del D.P.R. 16.03.1999 n. 254 prevede altresì, al comma 1, che: “La disciplina dell'articolo 14, comma 14, del decreto del Presidente della Repubblica p. 395 del 1995 è estesa al personale dell'Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di finanza.” e, al successivo comma 2, che: “al pagamento sostitutivo, oltre che nei casi previsti dal comma 1, si procede anche quando la licenza ordinaria non sia stata fruita per decesso o per cessazione dal servizio per infermità”.
Da ultimo è intervenuto l’art. 5, co. 8, del d.l. 06.07.2020 -OMISSIS- n. 95, convertito in legge 07.08.2020 -OMISSIS- n. 135, il quale ha ribadito il divieto assoluto di monetizzazione delle ferie, dei riposi e dei permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale delle P.A., da applicarsi anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite d’età.
Il descritto quadro normativo, con riferimento alla spettanza del compenso sostitutivo della licenza in ipotesi di cessazione dal servizio, è stato effettivamente interpretato da una parte della giurisprudenza più risalente, come richiama l’amministrazione resistente, nel senso che “il diritto al compenso sostitutivo … implica comunque una situazione oggettiva di impossibilità di fruire in altro periodo delle ferie” nel mentre “dirimente in senso ostativo all'accoglimento della domanda del compenso sostitutivo si rivela … il fatto che il richiedente sia stato collocato in quiescenza a domanda, costituendo … la sua libera scelta la causa prima dell'interruzione del rapporto di impiego, scelta che ha impedito all'Amministrazione di consentirgli di fruire in altro periodo delle ferie residue” (TAR Sicilia Catania, Sez. III, 25.05.2016 n. 1399; nello stesso senso TAR Puglia Lecce, Sez. II, 21.05.2018 n. 847).
In tempi più recenti, tuttavia, si è registrata un’evoluzione giurisprudenziale, alla quale il Collegio ritiene di aderire, anche alla luce degli interventi della Corte costituzionale e della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
In particolare, la Corte costituzionale, con sentenza n. 95/2016, ha rilevato che:
   - la prassi amministrativa e la magistratura contabile convergono nell’escludere dall’àmbito applicativo del divieto le vicende estintive del rapporto di lavoro che non chiamino in causa la volontà del lavoratore e la capacità organizzativa del datore di lavoro; questa interpretazione si colloca, peraltro, nel solco tracciato dalle pronunce della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato, che riconoscono al lavoratore il diritto di beneficiare di un’indennità per le ferie non godute per causa a lui non imputabile, anche quando difetti una previsione negoziale esplicita che consacri tale diritto, ovvero quando la normativa settoriale formuli il divieto di “monetizzare” le ferie; così correttamente interpretata, la disciplina impugnata non pregiudica il diritto alle ferie, come garantito dalla Carta fondamentale, dalle fonti internazionali e da quelle europee;
   - il diritto alle ferie, riconosciuto a ogni lavoratore, senza distinzioni di sorta, mira a reintegrare le energie psico-fisiche del lavoratore e a consentirgli lo svolgimento di attività ricreative e culturali, nell’ottica di un equilibrato «contemperamento delle esigenze dell’impresa e degli interessi del lavoratore»; la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea ha rafforzato i connotati di questo diritto fondamentale del lavoratore e ne ha ribadito la natura inderogabile, in quanto finalizzato a «una tutela efficace della sua sicurezza e della sua salute»;
   - la garanzia di un effettivo godimento delle ferie traspare, secondo prospettive convergenti, dalla giurisprudenza costituzionale e da quella europea; tale diritto inderogabile sarebbe violato se la cessazione dal servizio vanificasse, senza alcuna compensazione economica, il godimento delle ferie compromesso dalla malattia o da altra causa non imputabile al lavoratore;
   - non si può ritenere, pertanto, che una normativa settoriale, introdotta al precipuo scopo di arginare un possibile uso distorto della “monetizzazione”, si ponga in antitesi con principi ormai radicati nell’esperienza giuridica italiana ed europea.
In sostanza, la Corte –con una sentenza interpretativa di rigetto– ha ritenuto che il divieto di monetizzazione non può trovare applicazione ove il godimento delle ferie sia stato impedito da uno stato di malattia o da altra causa oggettivamente non imputabile al lavoratore.
In tal modo è stato riconosciuto al lavoratore il diritto di beneficiare di un'indennità per le ferie non godute per causa a lui non imputabile, anche quando la normativa settoriale formuli esplicitamente un divieto in tal senso, in questo modo garantendo il diritto alle ferie, come riconosciuto dalla Costituzione e dalle più importanti fonti internazionali ed europee.
A livello comunitario, la Corte di Giustizia dell'Unione Europea, in ordine all'interpretazione della Direttiva n. 2003/88/CE e al suo recepimento da parte degli Ordinamenti interni, ha rilevato come il legislatore comunitario, nel prevedere comunque l'erogazione dell'indennità dovuta per ferie non godute alla cessazione del rapporto lavorativo, abbia considerato del tutto irrilevante il motivo per cui il rapporto di lavoro si sia risolto (sentenza C-341-15 del 20/07/2016).
In conformità ai riportati principi di diritto, la più recente giurisprudenza di merito ha ritenuto che nel caso in cui il “rapporto di lavoro è cessato a causa della domanda di pensionamento, al lavoratore spetta la relativa indennità per ferie annuali non godute. Ciò perché le ferie sono state maturate ma il lavoratore, per via del collocamento in pensione, non è stato in grado di usufruirne in misura piena prima della fine del rapporto”, con la precisazione che non “può riversarsi sull'interessato l'onere di chiedere la postergazione del già decretato stato di quiescenza. Semmai … avrebbe dovuto essere la stessa Amministrazione a prorogare d'ufficio la decorrenza del collocamento in quiescenza, per consentire al ricorrente di godere del congedo ordinario quale diritto inviolabile del lavoratore” (Tar Calabria Catanzaro, 03.03.2020, n. 511, Tar Bologna, Sez. I, 13.06.2019 n. 535, Tar Sicilia, Palermo, Sez. I, 28.08.2018 n. 1850).
Più di recente, il Consiglio di Stato (Sez. I, parere n. 154 del 20.01.2020) ha anzitutto rilevato che “la circostanza che un lavoratore ponga fine, di sua iniziativa, al proprio rapporto di lavoro, non ha nessuna incidenza sul suo diritto a percepire, se del caso, un’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite di cui non ha potuto usufruire prima della cessazione del rapporto di lavoro”.
Sempre nel medesimo parere è stato osservato che “alla luce dell’evoluzione del quadro interpretativo sopra delineato e, in particolare, dell’orientamento del giudice eurounitario, questa Sezione, con il recente parere n. 86/2018, ha ritenuto che il diritto al congedo ordinario maturato nel periodo di aspettativa per infermità include automaticamente il diritto al compenso sostitutivo, ancorché il dipendente sia cessato dal servizio “a domanda”. Questa interpretazione è stata ribadita con il parere di questa Sezione n. 2424/2018. Tale è anche l’orientamento dei Tribunali amministrativi regionali (TAR Sicilia-Palermo n. 1850/2018; TAR Puglia-Lecce n. 431/2018; TAR Calabria-Reggio Calabria n. 264/2018; TAR Emilia Romagna, Bologna n. 535/2019; TAR Molise n. 3/2020).
Da quanto sopra scaturiscono i presupposti per l’accoglimento del ricorso, con riferimento all’an della spettanza.
In ordine al quantum, in assenza di specifica contestazione sul punto da parte dell’amministrazione resistente ci si riporta al prospetto agli atti, redatto dal comandante del nucleo di polizia tributaria di Vibo Valentia in data 09.10.2020 -OMISSIS- (prot. n. 324082/12), da cui risulta la spettanza di n. 76 giorni di licenza non fruita (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 11.05.2020 n. 4898 - massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl regolamento comunale sull'Ordinamento Generale degli Uffici, adottato dalla Giunta Municipale, prevede che, in presenza di determinate condizioni, i Dirigenti possano delegare al personale appartenente alla carriera direttiva le funzioni dirigenziali per un periodo massimo di sei mesi.
Ciò premesso, si chiede se detta previsione regolamentare possa presentare profili di illegittimità considerato che manca un'esplicita previsione statutaria sull'argomento, nel senso che lo statuto comunale, nel disciplinare la dirigenza, nulla dice sulla possibilità di delegare le funzioni dirigenziali.

Per rispondere al quesito si fa riferimento a quanto disposto dal D.Lgs 18.08.2000, n. 267 (T.U.E.L.) specificamente all'art. 7 che disciplina l'adozione dei regolamenti comunali "nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto".
E' evidente che la mancanza di disposizioni statutarie non è d'ostacolo alla previsione regolamentare della disciplina della delega di funzioni dirigenziali là dove il regolamento sia conforme a legge.
Infatti, l’art. 17, comma 1-bis, D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 rubricato "Funzioni dei dirigenti" stabilisce che "I dirigenti, per specifiche e comprovate ragioni di servizio, possono delegare per un periodo di tempo determinato, con atto scritto e motivato, alcune delle competenze comprese nelle funzioni di cui alle lettere b), d) ed e) del comma 1 a dipendenti che ricoprano le posizioni funzionali più elevate nell'ambito degli uffici ad essi affidati. Non si applica in ogni caso l'articolo 2103 del codice civile".
Pertanto, nei limiti stabiliti dalla norma primaria, e quindi, in presenza di specifiche e comprovate ragioni di servizio, anche in assenza di disposizioni statutarie, deve considerarsi legittima la previsione regolamentare che consenta al dirigente di delegare determinate funzioni a dipendenti apicali, ben potendo quindi il regolamento prevedere il termine di 6 mesi come termine massimo di durata.
Deve poi farsi necessariamente riferimento alla materia delle mansioni superiori ai sensi dell'art. 52, D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 i cui parametri devono essere comunque rispettati per evitare condotte rilevanti sotto il profilo erariale e disciplinare.
Infatti, l'art. 52, co. 2, stabilisce che "2. Per obiettive esigenze di servizio il prestatore di lavoro può essere adibito a mansioni proprie della qualifica immediatamente superiore:
   a) nel caso di vacanza di posto in organico, per non più di sei mesi, prorogabili fino a dodici qualora siano state avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti come previsto al comma 4;
   b) nel caso di sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto, con esclusione dell'assenza per ferie, per la durata dell'assenza. 3. Si considera svolgimento di mansioni superiori, ai fini del presente articolo, soltanto l'attribuzione in modo prevalente, sotto il profilo qualitativo, quantitativo e temporale, dei compiti propri di dette mansioni
".
Evidente pertanto che la delega di funzioni dirigenziali a funzionari apicali deve essere connotata da una quantificazione, sotto il profilo qualitativo e temporale, inferiore alle mansioni proprie della qualifica direttiva che fanno ordinariamente capo al dipendente. In altre parole le funzioni delegate non devono essere quantitativamente superiori a quelle ordinariamente svolte dal dipendente e proprie della sua qualifica.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs 18.08.2000, n. 267, art. 110 - D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 7 - D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 17 - D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 52 (11.05.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSvolgimento colloquio COVID-19.
Domanda
Abbiamo in corso una procedura di mobilità fra enti ex art. 30 del D.L.vo n. 165/2001. La Commissione dovrebbe ascoltare (colloquio) l’unico candidato partecipante ed ammesso.
Come possiamo procedere in questo tempo di emergenza sanitaria?
Risposta
L’art. 87, comma 5, del d.l. 18/2020, disciplina “lo svolgimento delle procedure concorsuali per l’accesso al pubblico impiego”, prevedendo apposite misure di tutela e salvaguardia della salute pubblica. L’art. 4, comma 1, del d.l. 22/2020, ha chiarito che la sospensione (per 60 giorni) riguarda esclusivamente le prove concorsuali e non le procedure concorsuali, intese in senso lato.
Chiarito il quadro normativo in cui ci si muove, si ritiene che il colloquio dell’unico candidato per una procedura di mobilità tra enti (ex art. 30, d.lgs. 165/2001) non rientri nella categoria di “prove concorsuali” per l’accesso al pubblico impiego, trattandosi di una cessione di contratto (trasferimento) di un dipendente che è già all’interno del perimetro della P.A.
Detto ciò, restano, comunque, da rispettare le disposizioni urgenti per la prevenzione del fenomeno epidemiologico da COVID-19, che obbligano i datori di lavoro privati e quelli della P.A. ad adottare idonee misure che non pongano a rischio la salute dei componenti della commissione e dell’unico candidato.
Per garantire tale passaggio, e consentirvi di concludere la procedura di mobilità (che non è un concorso), si individuano due possibili soluzioni:
   a) svolgere il colloquio in una sala ampia, alla presenza della commissione, eventuale segretario verbalizzante e candidato, debitamente distanziati, con uso di mascherine e guanti monouso. Nella sala (ampia) si può prevedere la presenza di eventuale pubblico stabilendo prima il numero massimo (per esempio tre o cinque persone). Lo sede e l’orario di svolgimento del colloquio e il numero dei posti riservati al pubblico dovranno essere comunicati via web in anticipo;
   b) in assenza di luogo idoneo, la commissione può svolgere il colloquio da remoto, con collegamento on-line. In questo caso il candidato può utilizzare un dispositivo (PC, tablet, smartphone) di sua proprietà. Il colloquio può essere registrato e, qualora richiesto da chi ne fosse interessato, può essere resa disponibile la registrazione. Il candidato dovrà essere previamente informato che il colloquio viene registrato. Il giorno e l’ora di svolgimento del colloquio e il fatto che la prova sarà registrata e eventualmente resa pubblica, può essere comunicato con apposito avviso da pubblicarsi nel sito web dell’ente (07.05.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIn un Comune, nella stessa area contabile-amministrativa, vi sono due funzionari con inquadramento D3 e tre D2.
A prescindere dai requisiti soggettivi degli stessi, l'incarico di PO può essere assegnato al dipendente di qualifica D2?

Alla luce di quanto si dirà nel prosieguo della risposta alla domanda del gentile lettore, si ritiene sia possibile attribuire la P.O. ad un dipendente con la qualifica di D2.
Il Quaderno ANCI, dal titolo "Regolamento sugli incarichi di posizione organizzativa - aggiornamento al CCNL 21/05/2018" afferma che "L'istituzione delle posizioni organizzative deve avvenire con riferimento a posizioni di lavoro che presentino le caratteristiche della particolare complessità ed elevato grado di autonomia gestionale e organizzativa. In alternativa, l'istituzione di posizioni organizzative può riguardare attività ad alto contenuto professionale per le quali è richiesta una elevata competenza specialistica (maturata o mediante titoli di livello universitario o attraverso rilevanti e consolidate esperienze professionali, in posizioni di responsabilità o di alta qualificazione professionale), che deve essere verificata in sede di conferimento attraverso l'esame del curriculum.
I criteri generali devono da un lato dettagliare, per ciascuna posizione organizzativa istituita, i requisiti culturali, le attitudini, la capacità professionale e l'esperienza acquisita, e dall'altro considerare la natura e le caratteristiche dei programmi da realizzare. Per il conferimento degli incarichi gli Enti tengono conto:
   - delle funzioni e attività da svolgere;
   - della natura e caratteristiche dei programmi da realizzare;
   - dei requisiti culturali posseduti,
   - delle attitudini e della capacità professionale ed esperienza acquisiti dal personale della categoria D (salva, ove possibile, la possibilità di applicare la disciplina prevista dall'art. 13, comma 2, lett. a), del CCNL);
   - gli esiti delle valutazioni individuali in attuazione del D.Lgs. 27.10.2009, n. 150.
Gli incarichi possono essere revocati prima della scadenza con atto scritto e motivato, in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di valutazione negativa della performance individuale. I risultati delle attività svolte dai dipendenti cui siano stati attribuiti gli incarichi di posizione organizzativa sono soggetti a valutazione annuale in base al sistema a tal fine adottato dall'ente. La valutazione positiva dà anche titolo alla corresponsione della retribuzione di risultato di cui all'art. 15 del nuovo CCNL
".
L'ARAN con la risposta "RAL_1547_Orientamenti Applicativi" alla domanda relativa se ai fini dell'attribuzione dell'incarico di posizione organizzativa, nell'ambito della categoria giuridica D, deve tenersi conto del requisito del più elevato inquadramento economico di un dipendente rispetto ad un altro (D4 in luogo di D2), ha affermato che "Nell'ambito della vigente disciplina contrattuale (art. 8 e ss., CCNL del 31.03.1999), gli incarichi di posizione organizzativa possono essere conferiti solo a personale della categoria D, salvo che non si tratti di enti la cui dotazione non preveda posti di categoria D; solo in tali ultimi enti, l'incarico di posizione organizzativa può essere conferito a personale della categoria C e B, in relazione alla propria grandezza demografica, e nel rispetto delle generali regole in materia (art. 11, comma 3, CCNL 31.03.1999); ad avviso della scrivente Agenzia, tale regola vale anche per gli eventuali incarichi di supplenza.
All'interno della categoria D, data la unitarietà della stessa, gli incarichi di posizione organizzativa possono essere conferiti, indifferentemente, sia a personale di tale categoria in possesso di profili con trattamento stipendiale iniziale corrispondente alla posizione economica D1 sia a quello collocato in profili con trattamento stipendiale iniziale corrispondente alla posizione economica D3. Pertanto, ove nel caso di specie venga in considerazione un dipendente comunque inquadrato nella categoria D, allo stesso potrà essere legittimamente conferito un incarico di posizione organizzativa.
Quello che effettivamente rileva in materia è il rigoroso rispetto da parte dell'Ente dei criteri di conferimento dallo stesso preventivamente adottati nell'osservanza delle previsioni dell'art. 9, comma 2, CCNL 31.03.1999. Tale clausola contrattuale, infatti, espressamente stabilisce "Per il conferimento degli incarichi gli enti tengono conto -rispetto alle funzioni ed attività da svolgere- della natura e caratteristiche dei programmi da svolgere, dei requisiti culturali posseduti, delle attitudini e della capacità professionale ed esperienza acquisiti dal personale della categoria D
".
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Documenti allegati
Quaderno ANCI, Regolamento sugli incarichi di posizione organizzativa - Aggiornamento al CCNL 21.05.2018 - ARAN "RAL_1547_Orientamenti Applicativi"
(07.05.2020 - tratto da
http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

PUBBLICO IMPIEGOOltraggio a Pubblico Ufficiale: quando non è configurabile il reato?
Una recente Sentenza della Cassazione, che farà discutere, ha stabilito i limiti delle casistiche relative al reato di oltraggio a pubblico ufficiale.

Oltraggio a Pubblico Ufficiale: la Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 06.05.2020 n. 13688 ha circoscritto le casistiche relative a questa tipologia di reato.
Il caso giuridico così fa luce su quando ricorrono i presupposti per vedersi contestati i reati di resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale
Ecco cosa ha stabilito la Cassazione.
Oltraggio a Pubblico Ufficiale: quando non sussiste il reato?
Nel caso specifico un uomo di Messina era stato fermato dai carabinieri che gli avevano contestato violazioni delle norme del Codice della strada. Dopo la comunicazione degli agenti del sequestro del motorino come conseguenza alle violazioni, sarebbe stata contestata come reato la seguente frase detta dall’imputato: “mio padre è della Guardia di Finanza, voi non mi potete sequestrare … Ora lo faccio venire e vi faccio vedere io”.
Così secondo gli inquirenti si trattava di reato di resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. Tuttavia, secondo i giudici della Cassazione, in questo caso non ci sarebbero i presupposti per qualificare questa condotta come reato.
Da un lato, infatti, risulta palese la carica intimidatrice che ebbe la frase pronunciata dall’imputato all’indirizzo dei due carabinieri che, nel doveroso esercizio dei compiti di istituto, gli avevano contestato la violazione di norme del Codice della Strada che comportavano il sequestro del motorino su cui viaggiava senza casco.
Dall’altro, tuttavia, è pur sempre necessaria la presenza di almeno due persone, come chiaramente indica la norma citata. Pertanto la pena può essere rideterminata decurtando dalla pena finale di mesi cinque di reclusione, quella inflitta per il reato di oltraggio pari ad un mese.
Infatti solo laddove vi è prova della presenza di più persone e risulti accertata tale circostanza si considera sufficiente far integrare la percezione dell’offesa da parte dei presenti (commento tratto da www.lentepubblica.it).
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SENTENZA
3. Il secondo motivo è infondato.
3.1. Mette conto evidenziare che, se non vi è dubbio che per integrare il reato di resistenza non si richiede che sia in concreto impedita la libertà di azione del pubblico ufficiale, essendo sufficiente che la violenza o minaccia usata dall'agente sia potenzialmente idonea ad impedire o ostacolare il compimento di un atto di ufficio o di servizio, è dato altrettanto incontroverso che il dolo specifico del reato di cui all'art. 337 c.p. debba concretizzarsi nel fine di impedire od ostacolare l'attività propria di un pubblico ufficio o servizio (Sez. 6, n. 17919 del 12/04/2013, Celentano, Rv. 256475).
Costituisce, infatti, ius receptum nella consolidata giurisprudenza di questa Corte il principio per il quale il reato di resistenza a pubblico ufficiale è tipicizzato dal legislatore soltanto sotto il profilo teleologico, come volontà diretta ad impedire la libertà d'azione del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, talché la minaccia o la violenza possono consistere in qualunque mezzo di coazione fisica o psichica diretto idoneamente ed univocamente a raggiungere lo scopo di impedire, turbare, ostacolare l'atto di ufficio o di servizio intrapreso da chi ne aveva facoltà (così, tra le tante: Sez. 6, n. 46 del 15/01/1970, Macrì Rv. 114631).
Alla luce di tale regula iuris, risulta palese la carica intimidatrice che ebbe la frase pronunciata dall'imputato all'indirizzo dei due carabinieri che, nel doveroso esercizio dei compiti di istituto, gli avevano contestato la violazione di norme del Codice della Strada che comportavano il sequestro del motorino su cui viaggiava senza casco: e ciò perché il prevenuto non si limitò a rifiutare la consegna spontanea di quel bene, atteggiamento, questo sì, che avrebbe avuto la valenza di mero atto di disobbedienza, ma si oppose di fatto al sequestro da parte dei pubblici ufficiali operanti con atteggiamento apertamente minaccioso, dato che disse loro che non potevano procedere a sequestro e che se lo avessero fatto avrebbe chiamato il padre che apparteneva alla guardia di Finanza e che "avrebbe fatto vedere loro", frase certamente capace di incutere timore e di coartare la volontà dei destinatari.
Nella vicenda la condotta dell'imputato -come correttamente motivato dai giudici di merito- ha integrato inoppugnabilmente i profili soggettivi ed oggettivi del contestato delitto e le argomentazioni della decisione impugnata, prive di vizi logico-giuridici hanno dato puntualmente conto dell'iter che ha supportato la decisione di condanna, non censurabile, mediante una diversa ed alternativa lettura della scansione degli eventi, attesa la coerenza dell'apparato motivazionale.
4. Il secondo motivo merita accoglimento.
4.1. Occorre evidenziare che, se per la configurabilità del reato di oltraggio a pubblico ufficiale è sufficiente che le espressioni offensive rivolte al pubblico ufficiale possano essere udite dai presenti, poiché già questa potenzialità costituisce un aggravio psicologico che può compromettere la sua prestazione, disturbandolo mentre compie un atto del suo ufficio, facendogli avvertire condizioni avverse, per lui e per la pubblica amministrazione di cui fa parte, e ulteriori rispetto a quelle ordinarie (Sez. 6, n. 15440 del 17/03/2016, Saad, Rv. 266546), è pur sempre necessaria la presenza di almeno due persone, come chiaramente indica la norma citata.
Nel caso in esame, invece, non viene evidenziata la presenza delle stesse.
Infatti, la sentenza di primo grado asserisce apoditticamente che le offese sono state pronunciate alla presenza di più persone. Invece, la Corte di appello evidenzia la presenza di più persone alla finestra ma non precisa su quali basi si potesse ritenere che queste fossero in grado di percepire le espressioni oltraggiose e, pertanto, la sua sentenza deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste. Ai sensi dell'art. 620, lett. 1)., cod. proc. pen. la pena può essere rideterminata decurtando dalla pena finale di mesi cinque di reclusione, quella inflitta per il reato di oltraggio pari ad un mese.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Possibilità di attivazione di specifica polizza sanitaria per emergenza COVID-19 a favore dei dipendenti dell'ente.
L’art. 42, c. 2, D.L. n. 18/2020, dispone che nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro il medico certificatore redige il certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’Inail che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato.
In forza della norma richiamata e come precisato dall’Inail (circolare n. 13/2020), le infezioni da nuovo coronavirus contratte in occasione di lavoro sono dunque coperte dalla tutela assicurativa Inail, per tutti i lavoratori assicurati dall'Istituto stesso, come infortuni di cui l’ente datoriale è tenuto a rispondere.
E ciò –avuto riguardo al datore di lavoro pubblico– corrisponde al principio generale secondo cui la pubblica amministrazione può assicurare con oneri a carico del proprio bilancio quei rischi che rientrino nella sfera della propria responsabilità patrimoniale, trasferendo all'assicuratore il rischio del verificarsi di un danno patrimoniale, mentre è priva di giustificazione e, come tale, causativa di danno erariale l'assicurazione di eventi per i quali l'ente non deve rispondere, che non rappresentano un rischio per l'ente medesimo.
Alla luce di detto principio, la possibilità per il Comune di stipulare una polizza assicurativa per il rischio da nuovo coronavirus, in favore del proprio personale dipendente, ulteriore a quella Inail prevista espressamente dalla legge (art. 42, c. 2, D.L. n. 18/2020), verrebbe a tradursi in una copertura assicurativa per ipotesi di infezioni non occorse in occasione di lavoro e dunque al di fuori degli eventi ricadenti nella responsabilità dell’ente, con ciò superando il limite di liceità della copertura assicurativa per gli eventi di danno riconducibili alla sfera della responsabilità patrimoniale della p.a..

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Il Comune chiede un parere in merito alla possibilità di assicurare il personale dipendente dai rischi derivanti da “Covid-19”, alla luce del fatto che la polizza assicurativa in questione comporterebbe a suo carico spese ulteriori rispetto a quelle relative all’assicurazione obbligatoria per infortuni e malattie professionali e tenuto conto del fatto che l’Ente può assicurarsi solo per eventi che rientrano nella propria responsabilità patrimoniale.
In relazione alla questione posta, sentito il Servizio Funzione pubblica di questa Direzione centrale, si esprimono le seguenti considerazioni.
L’art. 42, c. 2, D.L. n. 18/2020
[1], dispone che “nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’Inail che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato. Le prestazioni Inail nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro […]”.
Con circolare n. 13 del 03.04.2020, l’Inail ha puntualizzato che, secondo l’indirizzo vigente in materia di trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie
[2], l’Istituto tutela i casi di contrazione di malattie infettive e parassitarie negli ambienti di lavoro e/o nell’esercizio delle attività lavorative, i quali sono inquadrabili nella categoria degli infortuni: in questi casi, la causa virulenta è equiparata a quella violenta [3]. Fra tali affezioni morbose rientra anche l’infezione da nuovo coronavirus per tutti i lavoratori assicurati dall’Inail.
In particolare, l’Inail spiega che l’art. 42, c. 2, D.L. n. 18/2020, a conferma dell’indirizzo suddetto, chiarisce che la tutela assicurativa Inail, spettante nei casi di contrazione di malattie infettive e parassitarie negli ambienti di lavoro e/o nell’esercizio delle attività lavorative, opera anche nei casi di infezione da nuovo coronavirus contratta in occasione di lavoro per tutti i lavoratori assicurati all’Inail.
Per quanto concerne le circostanze in cui possa configurarsi un’infezione da nuovo coronavirus “in occasione di lavoro
[4], l’Inail precisa che, nell’attuale situazione pandemica, l’ambito della tutela riguarda innanzitutto gli operatori sanitari esposti a un elevato rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico. Per tali operatori vige, quindi, la presunzione semplice di origine professionale, considerata appunto la elevatissima probabilità che gli operatori sanitari vengano a contatto con il nuovo coronavirus.
A una condizione di elevato rischio di contagio possono essere ricondotte anche altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico/l’utenza.
In via esemplificativa, ma non esaustiva, nella circolare n. 13/2020 si indicano: lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario operante all’interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi, etc. Anche per tali figure vige il principio della presunzione semplice valido per gli operatori sanitari.
Le predette situazioni non esauriscono, però –precisa l’Inail– l’ambito del suo intervento, in quanto residuano quei casi, anch’essi meritevoli di tutela, nei quali manca l’indicazione o la prova di specifici episodi contagianti o comunque di indizi “gravi precisi e concordanti” tali da far scattare ai fini dell’accertamento medico-legale la presunzione semplice.
In base alle istruzioni per la trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie, la tutela assicurativa si estende, infatti, anche alle ipotesi in cui l’identificazione delle precise cause e modalità lavorative del contagio si presenti problematica.
Ne discende –continua l’Istituto- che, ove l’episodio che ha determinato il contagio non sia noto o non possa essere provato dal lavoratore, né si può comunque presumere che il contagio si sia verificato in considerazione delle mansioni/lavorazioni e di ogni altro elemento che in tal senso deponga, l’accertamento medico-legale seguirà l’ordinaria procedura privilegiando essenzialmente i seguenti elementi: epidemiologico, clinico, anamnestico e circostanziale.
In forza della norma di legge di cui all’art. 42, c. 2, D.L. n. 18/2020, le infezioni da nuovo coronavirus sono dunque coperte dalla tutela assicurativa Inail, come infortuni in occasione di lavoro, di cui l’ente datoriale è tenuto a rispondere.
E ciò –avuto riguardo al datore di lavoro pubblico– corrisponde al principio generale secondo cui la pubblica amministrazione può assicurare con oneri a carico del proprio bilancio quei rischi che rientrino nella sfera della propria responsabilità patrimoniale, trasferendo all'assicuratore il rischio del verificarsi di un danno patrimoniale, mentre è priva di giustificazione e, come tale, causativa di danno erariale, l'assicurazione di eventi per i quali l'ente non deve rispondere e che non rappresentano un rischio per l'ente medesimo
[5].
Avuto riguardo a detto limite di liceità della copertura assicurativa per gli eventi di danno riconducibili alla sfera della responsabilità patrimoniale della p.a., la possibilità di una polizza assicurativa per il rischio da nuovo coronavirus, in favore del proprio personale dipendente, ulteriore a quella Inail prevista espressamente dalla legge (art. 42, c. 2, D.L. n. 18/2020), verrebbe a tradursi in una copertura assicurativa per ipotesi di infezioni non occorse in occasione di lavoro e dunque al di fuori degli eventi ricadenti nella responsabilità dell’ente.
In linea con queste considerazioni, paiono anche potersi interpretare le affermazioni della Corte dei conti Emilia Romagna n. 895/2006, secondo cui, poiché per i dipendenti pubblici, siano essi privatizzati od ancora retti da norme di diritto pubblico, l'assicurazione contro i danni subiti per infortuni avvenuti in occasione di lavoro è disciplinata dalle disposizioni in materia di assicurazione obbligatoria per gli infortuni e le malattie professionali (d.p.r. 20.06.1965 n. 1124), la possibilità degli enti di fare ricorso in tale materia a forme ulteriori di assicurazione può ritenersi lecita nei soli limiti in cui si rivolga chiaramente verso rischi non considerati e ricompresi nelle coperture assicurative previste per legge, o comunque siano contratte coperture in favore di soggetti non compresi nelle categorie dei dipendenti considerate dalle norme in materia
[6].
E avuto riguardo a detti parametri, atteso che, come sopra rilevato, la copertura assicurativa del personale dipendente in relazione alle ipotesi di contrazione dell’infezione da Covid-19 in occasione del lavoro è espressamente prevista dall’art. 42, c. 2, D.L. n. 18/2020, che la riconduce alla tutela assicurativa Inail, si ritiene che non sussista la possibilità per il Comune di stipulare ulteriori polizze assicurative.
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[1] D.L. 17.03.2020, n. 18, recante: “Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19”. La disposizione di cui al comma 2 del citato art. 42 è applicabile ai datori di lavoro pubblici e privati.
[2] L’Inail richiama in proposito le Linee-guida per la trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie di cui alla Circolare Inail 23.11.1995, n. 74.
[3] Ai sensi dell’art. 2, D.P.R. n. 1124/1965 (Testo unico delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), “L'assicurazione comprende tutti i casi di infortunio avvenuti per causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia derivata la morte o un'inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale, ovvero un'inabilità temporanea assoluta che importi l'astensione dal lavoro per più di tre giorni” (comma 1).
[4] Sull’espressione “occasione di lavoro”, l’Inail richiama la Corte di Cassazione, sentenza n. 9913 del 13.05.2016, che ha ribadito i principi che devono essere seguiti nel determinare la riconducibilità all’“occasione di lavoro” dell’infortunio occorso al lavoratore. In particolare, secondo la Suprema Corte, affinché l’infortunio sia indennizzabile da parte dell’Inail, non è necessario che sia avvenuto nell’espletamento delle mansioni tipiche disimpegnate dal lavoratore essendo sufficiente, a tal fine, anche che lo stesso sia avvenuto durante lo svolgimento di attività strumentali o accessorie.
Sia la dottrina che la giurisprudenza di legittimità riconoscono il significato normativo estensivo dell’espressione “occasione di lavoro”. Essa comprende tutte le condizioni temporali, topografiche e ambientali in cui l’attività produttiva si svolge e nelle quali è imminente il rischio di danno per il lavoratore, sia che tale danno provenga dallo stesso apparato produttivo e sia che dipenda da situazioni proprie e ineludibili del lavoratore.
[5] Corte dei Conti-Lombardia, sez. contr., deliberazione 21.12.2011, n. 665. La deliberazione esprime l’orientamento costante della Corte dei conti nel senso di esplicitare il limite di assicurabilità della p.a. individuandolo nel divieto di assumere a proprio carico rischi non propri; al riguardo, v. Corte dei conti, Sezioni Riunite, sentenza n. 707-A del 5.4.1991; Corte dei conti Abruzzo, sentenza 27.10.2011, n. 353; Corte dei conti Emilia Romagna, sentenza 01.08.2006, n. 895.
Corollario ed espressione di detto principio è anche il fatto che l’ente pubblico non può assicurare la responsabilità amministrativa di amministratori e dipendenti per condotte contraddistinte da dolo e colpa grave, di cui gli stessi possono essere chiamati a rispondere dinanzi alla Corte dei conti, ai sensi dell’art. 1, L. n. 20/1994 (cfr. Corte dei conti Emilia Romagna n. 895/2006 cit., che richiama l’orientamento costante della magistratura contabile nel senso dell’illegittimità dell’assicurazione per la responsabilità amministrativa di amministratori e dipendenti per i danni cagionati alle pubbliche finanze con dolo o colpa grave nell'esercizio delle loro funzioni).
[6] Corte dei conti Emilia Romagna n. 895/2006 cit., chiamata ad esprimersi, fra l’altro, sulla legittimità di alcune polizze infortuni in favore di amministratori, personale dipendente e soggetti non dipendenti ma collaboranti
(06.05.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOL'assunzione del libero professionista vincitore di concorso.
DOMANDA:
L'Ente è in procinto di assumere alcuni dipendenti a tempo determinato, per due anni, inquadrandoli in cat. D. Uno degli interessati esercita la libera professione di avvocato ed è quindi titolare di partita IVA.
L'avvocato ha posto il problema di poter ricevere alcuni crediti che comunque si manifesteranno non nell'immediato ma in futuro, come, ad esempio, quelli derivanti de sentenze favorevoli oltre a quelli per i quali non ha ancora emesso fattura, pur avendo svolto una ponderosa attività legale. Infatti, anche a voler anticipare la fatturazione per molte cause per cui aveva il mandato, per altre gli è impossibile emettere la relativa nota di addebito a causa dell'attuale indeterminatezza del credito che solo in futuro potrà essere fissato in maniera certa.
A tal fine, l'interessato ha chiesto se possa far rimanere aperta la sua posizione con partita IVA al solo fine di poter emettere le relative fatture quando i crediti saranno esigibili, senza effettuare alcuna attività ulteriore di difesa ma solo per poter estinguere le sue obbligazioni attive. Diversamente, chiede come poter affrontare e risolvere il problema senza che ciò comporti una rinuncia ai crediti maturati.
RISPOSTA:
L’Agenzia delle Entrate ad un quesito analogo a quello di specie, ovvero se sia possibile mantenere aperta la partita IVA per il tempo strettamente necessario alla riscossione dei crediti afferenti alla pregressa attività professionale e maturati prima dell’assunzione, ha risposto che “il professionista che non svolge più l’attività professionale non può cessare la partita IVA in presenza di corrispettivi per prestazioni rese in tale ambito ancora da fatturare ai propri clienti. L’attività del professionista non si può considerare cessata fino all’esaurimento di tutte le operazioni, ulteriori rispetto all’interruzione delle prestazioni professionali, dirette alla definizione dei rapporti giuridici pendenti, ed, in particolare, di quelli aventi ad oggetto crediti strettamente connessi alla fase di svolgimento dell’attività professionale. La cessazione dell’attività per il professionista non coincide, pertanto, con il momento in cui egli si astiene dal porre in essere le prestazioni professionali, bensì con quello, successivo, in cui chiude i rapporti professionali, fatturando tutte le prestazioni svolte e dismettendo i beni strumentali. Fino al momento in cui il professionista, che non intenda anticipare la fatturazione rispetto al momento di incasso del corrispettivo, non realizza la riscossione dei crediti, la cui esazione sia ritenuta ragionevolmente possibile l’attività professionale non può ritenersi cessata” (Agenzia entrate Risposte alle istanze di consulenza giuridica n. 20 del 29/11/2019).
L’Agenzia non si è invece espressa, non avendone la competenza, sull’applicazione della disciplina delle inconferibilità e incompatibilità riguardanti il rapporto di pubblico impiego. In altri termini, nell’evidenziare che, per la riscossione dei crediti, è necessario per il professionista mantenere aperta la P.iva, non si è invece pronunciata sull’aspetto principale del quesito, ossia se mantenendola aperta, sia possibile essere assunto come dipendente pubblico.
La disciplina del pubblico impiego esclude che un pubblico dipendente, a meno che non sia a tempo parziale non superiore al 50%, possa svolgere attività industriali, commerciali e professionali, cioè le attività imprenditoriali di cui all’articolo 2082 cod. civ. e le attività libero professionali per il cui esercizio è necessaria l’iscrizione in appositi albi o registri. Perché, in tali casi, sarebbe violato l’obbligo di esclusiva nei confronti dell’Amministrazione di appartenenza. L’apertura e il mantenimento di una partita iva presuppone invece l’esercizio abituale e prevalente di una qualsiasi attività economica, e quindi è in conflitto con il vincolo di esclusività sancito dall’art. 53 del d.lgs. 165/2001.
Va però evidenziato che, in merito alla possibilità per il professionista di cessare l’attività professionale prima di avere incassato tutti i compensi, nel corso degli anni si sono alternati orientamenti diversi.
A quello sopra richiamato, contenuto già nella circolare n. 11/E del 16.02.2007 e nella risoluzione 232/E/2009 e ribadito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 8059 del 21.04.2016, se ne è contrapposto un secondo, con cui l’Agenzia ha chiarito invece che laddove un contribuente “cessi l’attività quando ancora esistono compensi fatturati e non ancora riscossi……. è rimessa alla scelta del contribuente la possibilità di determinare il reddito relativo all’ultimo anno di attività tenendo conto anche delle operazioni che non hanno avuto in quell’anno manifestazione finanziaria” (circolare 17/E/2012, paragrafo 5.1).
Adottando questa interpretazione, seguita anche nella prassi, appare possibile procedere alla fatturazione di tutti i compensi, compresi quelli ancora non riscossi e, successivamente, cessare l’attività professionale, computando nell’ultima dichiarazione annuale Iva anche le operazioni per le quali si è anticipata l’esigibilità dell’imposta rispetto al momento dell’effettivo incasso. Quest’ultima soluzione -che appare preferibile per gli specialisti del settore- prospetta la possibilità di cessare l’attività professionale “anticipatamente” rispetto alla manifestazione finanziaria delle operazioni in essere ed evita problemi di incompatibilità nell’ambito del pubblico impiego (tratto da e link a www.ancirisponde.ancitel.it).

aprile 2020

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALICompenso vice-segretario.
Domanda
Nel caso in cui un titolare di posizione organizzativa venisse nominato vice segretario, quali sono le possibilità di remunerazione di tale funzione ed i limiti ai quali la stessa retribuzione è sottoposta?
Risposta
Si rileva preliminarmente che l’art. 97 del d.lgs. 267/2000, al comma 5, stabilisce che il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi può prevedere un vice segretario per coadiuvare il segretario o sostituirlo nei casi di vacanza, assenza o impedimento.
L’ente, quindi, nell’ambito delle proprie scelte regolamentari, mediante le quali esercita la propria potestà auto organizzatoria individua, qualora voglia esercitare la facoltà di prevedere la figura del vice segretario, il posto, i requisiti e le relative funzioni.
L’art. 45 del d.lgs. 165/2001 (Testo Unico Pubblico Impiego), come modificato dal d.lgs. 150/2009 stabilisce l’importante principio che Il trattamento economico fondamentale ed accessorio del personale del pubblico impiego è definito dai contratti collettivi.
Tale principio è stato richiamato dall’ARAN in un parere fornito ad un ente (SEG_047), riferito alla possibilità di estendere la maggiorazione relativa alla segreteria convenzionata, di cui all’art. 45 del CCNL segretari comunali e provinciali del 16/05/2001, anche al vice segretario.
L’Agenzia ha chiarito che al vice segretario, non essendo lo stesso dirigente, non si può estendere, per analogia, la disciplina applicabile al personale dirigenziale.
I contratti collettivi vigenti non prevedono compensi aggiuntivi per il dipendente nominato vice segretario al di fuori delle previsioni contenute nell’art. 11 del CCNL 09/05/2006.
Se lo stesso dipendente è titolare di posizione organizzativa allo stesso sarà corrisposta la retribuzione di posizione e risultato con le modalità ed i limiti di cui all’art. 15 del CCNL 21/05/2018 (30.04.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: I dubbi degli Enti sulla corretta applicazione delle norme antipandemiche.
Ancora prosegue la sequenza di dubbi ed incertezze che attanagliano le amministrazioni pubbliche dopo l’intervento dei numerosi provvedimenti di normazione d’urgenza che il Governo ha adottato per arginare la diffusione della pandemia da COVID-19.
I provvedimenti di normazione primaria e secondaria via via varati dal Governo, infatti, hanno determinato una serie di prescrizioni che interessa anche la disciplina del lavoro pubblico, finalizzata a regolare una fase, che si auspica effettivamente transitoria, nella quale si devono conciliare esigenze assai diversificate, che vanno dal normale funzionamento dei servizi istituzionali ed indifferibili degli enti, all’ordinata tenuta degli istituti correlati alla gestione del rapporto di lavoro dei dipendenti del settore pubblico, fino all’esigenza di contrastare e contenere, il più possibile, il fenomeno diffusivo di questa pandemia.
In questo quadro di emergenza assoluta e generale le richieste di aiuto delle amministrazioni non si placano, come dimostrano i quesiti che continuano a pervenire. Di seguito alcuni esempi.

Egregi, vorrei sapere se, in questa fase di emergenza, è possibile liquidare ulteriori buoni pasto (normalmente sono due a settimana) alla polizia municipale ed anche al Comandante (Dirigente della P.L.).
Gli stessi ne hanno fatto già richiesta anche per i giorni in cui, oberati dall'emergenza stanno svolgendo lavoro straordinario per sopperire agli eventi eccezionali.

Con riferimento al quesito posto si ritiene ammissibile che l’amministrazione riconosca buoni pasto agli addetti alla Polizia Municipale impiegati nell’ambito delle attività derivanti dalle misure di contenimento dell’estensione pandemica, ulteriori rispetto a quelli normalmente erogati.
Tale riconoscimento, tuttavia, potrà essere ammissibile esclusivamente laddove sussistano tutte le condizioni prescritte dal vigente quadro normativo, in particolare dall’art. 45, comma 2, del Ccnl 14.09.2000 del comparto Regioni ed Enti Locali, il quale prescrive, in materia che “2. Possono usufruire della mensa i dipendenti che prestino attività lavorativa al mattino con prosecuzione nelle ore pomeridiane, con una pausa non superiore a due ore e non inferiore a trenta minuti. La medesima disciplina si applica anche nei casi di attività per prestazioni di lavoro straordinario o per recupero. Il pasto va consumato al di fuori dell'orario di servizio.”.
Si ricorda, altresì, per quanto attiene all’istituto in parola, la statuizione dettata dall’art. 13 del successivo Ccnl 09.05.2006, a mente della quale "1. Nell’ambito della complessiva disciplina degli artt. 45 e 46 del Ccnl del 14.09.2000, gli enti individuano, in sede di contrattazione decentrata integrativa, quelle particolari e limitate figure professionali che, in considerazione dell’esigenza di garantire il regolare svolgimento delle attività e la continuità dell’erogazione dei servizi e anche dell’impossibilità di introdurre modificazioni nell’organizzazione del lavoro, con specifico riferimento a quelli connessi all’area della protezione civile, all’area della vigilanza e all’area scolastica ed educativa ed alla attività delle biblioteca, fermo restando l’attribuzione del buono pasto, possono fruire di una pausa per la consumazione dei pasti di durata determinata in sede di contrattazione decentrata integrativa, che potrà essere collocata anche all’inizio o alla fine di ciascun turno di lavoro.”.
Si ritiene, inoltre, che tali oneri sostenuti dalle amministrazioni pubbliche -ferma restando, comunque, la sussistenza delle condizioni erogative del buono-pasto- possano essere computati nell’ambito degli appositi fondi stanziati dal Governo ai sensi dell’art. 115, commi 1 e 2, Dl 18/2020, il quale prevede che, per il corrente anno 2020, le risorse destinate al finanziamento delle prestazioni di lavoro straordinario del personale della polizia locale dei comuni, delle province e delle città metropolitane direttamente impegnato per le esigenze conseguenti ai provvedimenti di contenimento del fenomeno epidemiologico da COVID-19 e limitatamente alla durata dell’efficacia delle relative disposizioni attuative, siano finanziate attraverso un apposito fondo costituito presso il Ministero dell’Interno e non siano soggette ai limiti del trattamento accessorio previsti dall'articolo 23, comma 2, Dlgs 75/2017.
Si è dell’avviso, infatti, che, laddove l’erogazione del buono-pasto sia strettamente collegata a prestazioni in orario straordinario rese dal personale della polizia locale per fronteggiare le esigenze di contrasto alla diffusione pandemica, l’onere conseguente a tale riconoscimento possa pienamente rientrare nei previsti trasferimenti statali, trattandosi di adempimento contrattuale strettamente strumentale all’effettuazione di attività in orario straordinario.

Vi indico di seguito le domande che vorrei fare:
   1) durante la prestazione dell'attività lavorativa in modalità "Lavoro agile", le indennità collegate all'effettiva presenza in servizio di cui all'art. 70-bis del Ccnl 21.05.2018 vanno riconosciute?
   2) nel periodo di esenzione previsto dall'art. 87, Dl 17.03.2020 al personale educatore dell'asilo nido comunale va riconosciuta l'indennità di cui all'art 31 Ccnl 14.09.2000, e agli altri dipendenti vanno riconosciute le indennità collegate all'effettiva presenza in servizio di cui all'art. 70-bis del Ccnl 21.05.2018?
   3) con circolare n. 45 del 2020 Inps (messaggio n. 1516 del 07.04.2020) è stata prorogato al 13 aprile la possibilità di fruire del congedo di cui all’articolo 23, Dl 18/2020 per la cura dei figli durante il periodo di sospensione delle attività scolastiche Circolare 45/2020, in favore dei lavoratori dipendenti del settore privato, dei lavoratori iscritti alla Gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 08.08.1995, n. 335, e dei lavoratori autonomi. Detta proroga è valida anche per i dipendenti pubblici?

In relazione ai diversi quesiti formulati si ritiene utile rappresentare quanto segue. La prestazione lavorativa resa mediante la forma del lavoro agile, di cui agli artt. 18-23, legge 81/2017, costituisce una specifica modalità di assolvimento dell’obbligazione contrattuale, da parte del lavoratore, che muta il contesto spaziale e temporale di erogazione prestazionale, potendo incidere, altresì, in taluni casi, anche sui fattori circostanziali di effettuazione della stessa.
Ciò sta a significare che gli emolumenti economici di natura indennitaria riconosciuti, al lavoratore, nel contesto della normale produzione dell’attività lavorativa potrebbero subire modificazioni a seguito della diversa modalità di prestazione resa in lavoro agile. Si pensi, ad esempio, per stare nell’ambito del sistema contrattuale del comparto Funzioni Locali, all’indennità per le specifiche condizioni di lavoro disciplinata dall’art. 70-bis del Ccnl 21.05.2018, la quale, nella sua configurazione giuridica di origine contrattuale, assorbe le “vecchie” indennità di rischio, di disagio e di maneggio valori.
Laddove, infatti, tale emolumento venisse riconosciuto al dipendente in ragione dell’esposizione dello stesso a particolari fattori di rischio e/o di disagio nell’esplicazione della prestazione lavorativa a mezzo della tradizionale forma di presenza sul posto di lavoro, potrebbe essere plausibile, per contro, che tale esposizione, nella diversa formula di esecuzione della stessa prestazione attraverso il lavoro agile, possa venir meno a seguito della variata modalità di fornitura dell'attività lavorativa, determinando, di conseguenza, la sopravvenuta elisione dei presupposti giuridici e fattuali di riconoscimento di tale emolumento.
Per quanto attiene, poi, al periodo di eventuale esenzione dal lavoro di cui all’art. 87, comma 3, Dl 18/2020, si è dell’avviso per il quale non possano essere riconosciuti istituti economici di carattere effettivamente indennitario, ovvero presupponenti l’effettiva prestazione di lavoro, in ragione dell’assenza, nel caso di specie e per tali componenti economiche, dei presupposti giuridici che legittimano detto riconoscimento retributivo.
I compensi che presentano concreta origine indennitaria, infatti, adducono, quale presupposto indefettibile, la necessità della effettiva prestazione di lavoro resa, dal dipendente interessato, in presenza fisica o in lavoro agile, ove permangano i presupposti, in assenza della quale, a qualsiasi motivo dovuta, come anche per l’esenzione dal servizio indicata nel quesito, il regime indennitario non può giuridicamente funzionare per la finalità tipica per la quale è stato normativamente congegnato, con conseguente impossibilità riconoscitiva che, non di meno, in tal caso, solo una norma di legge o contrattuale generale potrebbe espressamente consentire in deroga al funzionamento ontologico di tale istituto.
Infine, per ciò che concerne l’impiego dello speciale congedo disciplinato dall’art. 23 del richiamato Dl 18/2020, il successivo art. 25 del decreto stesso, che ne estende l’applicazione anche ai lavoratori del settore pubblico, prescrive espressamente che, a decorrere dal 5 marzo 2020, in conseguenza dei provvedimenti di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado, di cui al Dpcm 04.03.2020, e per tutto il periodo della sospensione ivi prevista, i genitori lavoratori dipendenti del settore pubblico hanno diritto a fruire del predetto congedo e della relativa indennità.
Tale estensione legislativa è da intendersi, ad oggi, riferita alla sospensione dei servizi educativi e scolastici di ogni ordine e grado disposta dall’art. 1, comma 1, lett. k), del recente Dpcm 10.4.2020, con effetti protratti sino al 3 maggio p.v., secondo le prescrizioni di vigenza dettate dall’art. 8, comma 1, del Dpcm stesso, di talché la fruizione dell’istituto in parola è da ritenersi operante sino a tale termine di sospensione dei servizi in questione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.04.2020).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Amministrazioni in difficoltà nella giungla delle disposizioni emergenziali.
Non è ancora finita: continuano a giungere norme e disposizioni che, nel tentativo di riordinare prescrizioni già in vigore o già superate per disapplicazione o per spirare del termine di efficacia, aggiungono statuizioni su statuizioni, progressivamente stratificando un insieme di norme che, varate nel giro di pochi mesi, non ha un precedente in questo Paese.
Questo la dice lunga sulla situazione di emergenza che stiamo vivendo, come di emergenza oramai si parla per la ridda di previsioni normative, di legge ed amministrative, che tutti gli operatori di sistema sono chiamati ad applicare, non ultimi gli addetti ai servizi del Personale che, in prima linea sull’attuazione delle previsioni legislative e delegificate che regolano questo straordinario momento di lotta al virus COVID-19, si dibattono tra disposizioni normative speciali ed istituti transitori di nuovo conio in grado di mettere a dura prova competenze, preparazione, organizzazione e pervicacia nel tenere la trincea di questa guerra senza quartiere.
La prova di questa encomiabile tenacia e della particolare attenzione che gli enti stanno ponendo nella pratica traduzione delle disposizioni antipandemiche sta tutta nell’incessante flusso di questioni e di quesiti che le amministrazioni pubbliche continuano a porre sul fronte attuativo della normazione emergenziale, di cui offriamo, di seguito, alcuni interessanti spunti.

Pongo un quesito (anzi due) in merito al congedo straordinario di 15 giorni riconosciuto ai genitori dall’art. 25, comma 1, Dl 18/2020.
Per la richiesta di tale congedo ho predisposto un modulo in cui il dipendente dichiara anche tutte le altre condizioni rispetto al coniuge e che non chiederà il voucher baby sitter.
In assenza di altre indicazioni, lo applicherei con le stesse modalità al Dlgs 151/2001: se richiesto per un periodo continuativo, i 15 giorni comprendono anche i giorni non lavorativi; se chiesti frazionatamente, si contano i singoli giorni lavorativi, purché interrotti dalla ripresa (quindi se chiedo il venerdì ed il lunedì, conto anche il sabato e la domenica).
Ora, una collega mi chiede il congedo dal 13 al 27 marzo, precisando però che chiede 11 giorni: secondo me i giorni sono 15. Cosa ne pensate?
Inoltre ho un problema di questo tipo: una collega aveva chiesto congedo parentale a ore per 4 mezze giornate, tra il 9 e il 16 marzo.
Ora l’art. 23, comma 2 del suddetto D.L. 18/2020 dice “Gli eventuali periodi di congedo parentale di cui agli articoli 32 e 33 del citato decreto legislativo 26.03.2001, n. 151, fruiti dai genitori durante il periodo di sospensione di cui al presente articolo, sono convertiti nel congedo di cui al comma 1 con diritto all’indennità e non computati né indennizzati a titolo di congedo parentale”.
Credete che anche tali congedi ad ore siano convertibili? E ritenete quindi possibile chiedere il congedo straordinario indennizzato al 50% ad ore?

In relazione ai quesiti posti, occorre preliminarmente delineare il quadro normativo che regola le fattispecie.
In particolare, le disposizioni che qui interessano attengono all’art. 25, comma 1, Dl 18 del 17.03.2020, il quale testualmente prescrive che "1. A decorrere dal 05.03.2020, in conseguenza dei provvedimenti di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado, di cui al Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 04.03.2020, e per tutto il periodo della sospensione ivi prevista, i genitori lavoratori dipendenti del settore pubblico hanno diritto a fruire dello specifico congedo e relativa indennità di cui all’articolo 23, commi 1, 2, 4, 5, 6 e 7. Il congedo e l’indennità di cui al primo periodo non spetta in tutti i casi in cui uno o entrambi i lavoratori stiano già fruendo di analoghi benefici.”, nonché, per quanto attiene al secondo quesito posto, all’art. 23, comma 2, del ridetto Dl 18/2020, che così statuisce: "2. Gli eventuali periodi di congedo parentale di cui agli articoli 32 e 33 del citato Dlgs 151/2001, fruiti dai genitori durante il periodo di sospensione di cui al presente articolo, sono convertiti nel congedo di cui al comma 1 con diritto all’indennità e non computati né indennizzati a titolo di congedo parentale.”.
Ciò evidenziato, pertanto, per quanto attiene alle modalità di calcolo fruitivo del congedo straordinario e temporaneo di cui al citato art. 25, comma 1, si ritiene che le stesse debbano essere conformi al normale sistema di computo che, generalmente ed in assenza di specifiche disposizioni di segno opposto, presiede tale tipologia di istituto, a differenza del metodo di applicazione relativo al diverso istituto del “permesso”.
Tale regime attuativo del congedo, pertanto, conduce a ritenere che lo stesso operi con riferimento alle giornate calcolate secondo il calendario civile, ovvero ricomprendendo, nell’ambito dei periodi ininterrotti di godimento, anche le giornate non lavorative, di riposto settimanale e di festività infrasettimanali.
Nel caso di specie, pertanto, il periodo di fruizione richiesto attiene ad un intervallo temporale privo di interruzione esteso, dal 13 al 27.03.2020, per il quale, dunque, alla luce di quanto sopra rappresentato, il congedo di che trattasi viene utilizzato per un periodo di quindici giorni e non, invece, per gli undici giorni richiesti dalla dipendente.
Con riferimento al secondo quesito formulato, poi, si premette che, in assenza di un’espressa previsione normativa, il congedo straordinario in parola non possa essere utilizzato ad ore, posto che la norma prevede il temine temporale di fruizione dello stesso calcolato a giornata, non legittimando, pertanto, deroghe di sorta rispetto all’impiego per l’unità di base temporale statuita dalla disposizione.
Relativamente, quindi, alla conversione del diverso regime congedale previsto dagli art. 32 e 33, Dlgs 151/2001 nell’istituto in questione -in disparte la circostanza per la quale tale conversione è da ritenersi ammissibile esclusivamente laddove il regime economico applicato a seguito di tale trasformazione sia maggiormente favorevole al lavoratore rispetto a quello in godimento al momento di utilizzo del congedo parentale- si è dell’avviso che la conversione prospettata nel quesito sia certamente ammissibile, calcolando, infatti, le quattro mezze giornate già fruite a titolo di congedo parentale in due giornate intere computate a titolo di congedo straordinario ex cit. art. 25.

In riferimento alle disposizioni contrattuali sulla cadenza di utilizzo delle ferie maturate al 31.12 e alle previsioni dell’art. 87, Dl 18/2020 ritiene legittimo non assegnare le ferie relative ad anni precedenti in questo momento di emergenza Covid-19 entro il 30.04.2020?
Si fa seguito al quesito posto per evidenziare quanto segue.
Occorre, preliminarmente, osservare, in materia di legittimo utilizzo delle ferie annuali, che le vigenti norme contrattuali nazionali, non dissimili, peraltro, dalle precedenti omologhe prescrizioni negoziali in materia, fondano un principio generale e solo eccezionalmente derogabile, ovvero che il periodo delle ferie maturate in un anno deve necessariamente essere fruito nello stesso anno di maturazione, a tutela delle posizioni giuridiche e di fatto dei lavoratori interessati, in funzione del recupero delle energie psico-fisiche dagli stessi disperse nell’assolvimento annuale dell’attività lavorativa di competenza.
L’art. 28, comma 9, del vigente Ccnl 21.05.2018 del comparto contrattuale Funzioni Locali, infatti, scolpisce tale principio affermando, testualmente, che “9. Le ferie sono un diritto irrinunciabile e non sono monetizzabili. Esse sono fruite, previa autorizzazione, nel corso di ciascun anno solare, in periodi compatibili con le esigenze di servizio, tenuto conto delle richieste del dipendente.”.
Come si vede, dunque, il diritto-dovere del dipendente, prescritto dall’assetto negoziale generale che regola la specifica materia, è rappresentato dalla fruizione, normale ed ordinaria, dei giorni di ferie maturati nell’anno di riferimento nello stesso anno solare, compatibilmente con le esigenze di servizio. Tale principio di carattere generale, poi, trova un tenue temperamento limitatamente a due sole fattispecie, per le quali il termine di godimento dell’istituto può essere legittimamente derogato mediante una proroga temporalmente contenuta del termine finale annuale di fruizione.
E così, infatti, i commi 14 e 15 del richiamato art. 28 prescrivono che “14. In caso di indifferibili esigenze di servizio che non abbiano reso possibile il godimento delle ferie nel corso dell'anno, le ferie dovranno essere fruite entro il primo semestre dell'anno successivo. 15. In caso di motivate esigenze di carattere personale e compatibilmente con le esigenze di servizio, il dipendente dovrà fruire delle ferie residue al 31 dicembre entro il mese di aprile dell'anno successivo a quello di spettanza”.
Appare del tutto evidente, pertanto, come uno spostamento del limite temporale annuale di fruizione dell’istituto in questione sia legittimamente ammissibile esclusivamente con riferimento alle causali tassativamente indicate dal riportato sistema contrattuale nazionale, ovvero, da un lato, le indifferibili esigenze di servizio, per le quali il termine è, comunque, ultimamente indicato nel semestre successivo al periodo annuale di maturazione, e, dall’altro lato, le motivate esigenze di carattere personale, che consentono la proroga del termine conclusivo di fruizione delle ferie al 30 aprile dell’anno successivo a quello di maturazione.
Non vi sono altri termini di legittimo impiego di tale istituto che siano sdoganati dal vigente ordinamento che regola la materia, tanto meno le prescrizioni dettate dal Dlgs 66/2003 recante l'attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, il cui art. 10, comma 1, infatti, nel contesto della disciplina dell’istituto, rimette ai contratti collettivi di lavoro la facoltà, come nel caso di specie, di introdurre clausole migliorative rispetto al generale assetto introdotto dalla norma di derivazione comunitaria.
Alla luce, pertanto, di quanto rappresentato, si ritiene che in nessun caso il lavoratore possa risultare titolare di ferie pregresse relative ad annualità precedenti al 2019 e, per quanto attiene a tale annualità, esclusivamente laddove il maturato non utilizzato consegua rigorosamente alle ipotesi eccezionali e derogatorie sopra richiamate, per cui, con specifico riferimento al quesito posto, si è dell’avviso che le giornate di ferie ancora giacenti e maturate negli anni pregressi debbano necessariamente essere fruite a tutela della posizione del lavoratore interessato (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.04.2020).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCondanna penale e commissione di concorso.
Domanda:
Un dipendente di categoria C, a tempo indeterminato, del nostro comune ha subito una condanna penale, ancora in primo grado, per il reato di truffa (art. 640 c.p.). Può svolgere il compito di segretario di una commissione di concorso? È opportuno che lo faccia?
Risposta
Per rispondere al quesito occorre rifarsi alle disposizioni contenute nell’articolo 35-bis, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, rubricato: “Prevenzione del fenomeno della corruzione nella formazione di commissioni e nelle assegnazioni agli uffici”.
Tale norma, inserita nel Testo Unico del Pubblico Impiego, dall’articolo 1, comma 46, della legge 06.11.2012, n. 190 (cosiddetta: legge Severino, in materia di prevenzione della corruzione), prevede che coloro che sono stati condannati, anche con sentenza non passata in giudicato, per i reati previsti nel capo I, del titolo II, del libro secondo del codice penale non possono fare parte, anche con compiti di segreteria, di commissioni per l’accesso o la selezione a pubblici impieghi.
Il richiamo normativo include nel divieto gli articoli da 314, sino a 335-bis, del codice penale e concerne tutta la casistica dei delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica amministrazione, anche con sentenza di primo o secondo grado.
Tra questi reati ostativi, quindi, NON compare il reato di truffa, per cui il vostro dipendente potrebbe ricoprire l’incarico di segretario della commissione di concorso, non ricorrendo la fattispecie disciplinata nell’art. 35-bis del d.lgs. 165/2001.
Per quanto riguarda l’opportunità di tale nomina non è possibile fornire indicazioni di sorta, trattandosi di questione rimessa alla libera valutazione del dirigente/funzionario che sarà chiamato a nominare la commissione giudicatrice del concorso. A mero titolo di indicazione, si suggerisce di valutare la possibilità di evitare la nomina, in presenza, nell’organico comunale, di altro dipendente in grado di svolgere il medesimo compito.
A completamento informativo, si ricorda che l’articolo 87, comma 5, del decreto-legge 17.03.2020, n. 18 e l’articolo 4 del decreto-legge 08.04.2020, n. 22, hanno stabilito la sospensione delle prove concorsuali per sessanta giorni dalla data del 17.03.2020. La sospensione non riguarda la procedura di nomina della commissione che può essere disposta anche prima del 17.05.2020 (28.04.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCoronavirus: ancora incertezze applicative sulle disposizioni emergenziali in materia di lavoro pubblico.
I quesiti operativi posti dalle amministrazioni continuano a riguardare quelle situazioni limite, non trattate direttamente dalla normazione d’urgenza, che devono essere risolte tenendo conto della disciplina legale e contrattuale dei singoli istituti di cui costituiscono estensione o con il ricorso ai principi generali che governano il rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.
Di seguito una selezione di quesiti riguardanti i concorsi pubblici, l’utilizzo dei congedi parentali, e le assenze per dipendenti in condizioni di disabilità più o meno grave.

Un Ente ha bandito un concorso per il quale le domande di partecipazione scadevano dopo l'entrata in vigore dei provvedimenti che prevedono "la sospensione delle procedure concorsuali " a meno che che.........etc., cosa deve fare l'Ente?
Con riferimento al quesito posto, si ribadisce che l’art. 87, comma 5, Dl 18/2020 sospende per 60 giorni, quindi fino al 16 maggio, tutte le procedure concorsuali per l’accesso al pubblico impiego per le quali devono svolgersi le prove in presenza fisica dei candidati. Se si rientra in questa ipotesi a nulla rileva che l’indizione della procedura concorsuale sia avvenuta prima dell’entrata in vigore del predetto decreto legge.
Le ipotesi in cui le procedure concorsuali possono proseguire sono quelle per le quali si procede alla sola valutazione su basi curriculari, ovvero in modalità telematica, ovvero ancora quelle per le quali risultava già completata la valutazione dei candidati. In estrema sintesi, quindi, le procedure concorsuali attivabili e, se già attivate, effettuabili non devono determinare spostamenti dei soggetti interessati (candidati) sul territorio, quale inibizione dettata dalla prevenzione diffusiva della pandemia in atto.

Buongiorno, chiedo come conciliare il congedo parentale al 30% fruito a mezza giornata con il congedo genitori di cui all'art. 25, Dl 18/2020. Caso: dal 5 marzo al 17 marzo fruizione di 8 mezze giornate di congedo al 30%.
   1) Come converto le suddette giornate pregresse di marzo nel congedo art. 25? Si conteggiano 4 giornate intere, oppure non sono convertibili penalizzando l'interessata?
   2) Dal 18 marzo la collega è in smart working: può fruire del congedo parentale al 30% a mezza giornata? Può fruire del congedo genitori art. 25 a mezza giornata?

Con riferimento ai quesiti posti, si rappresenta quanto segue.
I congedi parentali usufruiti a partire dal 5 marzo devono essere convertiti nello specifico congedo previsto dall’art. 23, comma 1, del decreto legge n. 18/2020 e fino a concorrenza delle 15 giornate ivi previste. Ovviamente tale conversione, essendo dettata nell’interesse del lavoratore, non può operare laddove la fruizione del congedo parentale in atto abbia dato luogo, per espresse previsioni migliorative dettate dalle norme contrattuali di comparto, ad un trattamento economico superiore a quello previsto dalla norma di legge in questione, atteso che, in caso contrario, la disposizione legislativa avrebbe introdotto una previsione pregiudizievole rispetto alla posizione economica del lavoratore e non, invece, maggiormente favorevole a tutela dello stesso.
La richiamata disposizione legislativa, non consente alcun impiego frazionato inferiore alla singola giornata che compone il periodo complessivo di fruizione dell’istituto, tenuto anche conto della specifica ratio dell’istituto e la sua natura eccezionale, che non consente applicazioni analogiche o assimilative di modalità fruitive applicate ad altri diversi istituti legali o contrattuali.
Si deve ritenere, infatti, che la frazionabilità ad ore del congedo non sia possibile in quanto l’unico riferimento contenuto nell’art. 23 prevede la possibilità di utilizzare i 15 giorni in modo continuativo o frazionato, ma tale ultima formulazione non sembra riferirsi alla frazionabilità ad ore del congedo, bensì alla singola giornata che compone il periodo complessivo previsto dalla legge; manca, altresì, un espresso riferimento al Dlgs 151/2001, come, per contro, avviene all’art. 24 per i permessi di cui alla Legge 104/1992, per cui non sembrerebbe trattarsi di una estensione dei congedi parentali ivi previsti, che ne avrebbe, viceversa, consentito la fruibilità ad ore, anche per il richiamo effettuato dall’art. 43 del Ccnl 21.05.2018.
Per quanto riguarda il primo quesito e limitatamente alla fruizione del congedo utilizzato prima dell’entrata in vigore del decreto-legge, si deve ritenere che la conversione possa operare nel senso indicato nel quesito, ovvero calcolando 4 intere giornate; ciò in quanto la previsione dello stesso decreto-legge non può che far salve, ai fini della conversione espressamente prevista, le modalità fruitive legittimamente operate prima della sua entrata in vigore.
Relativamente al secondo quesito si ritiene che la fruizione debba essere calcolata per giornate intere e debba riguardare, fino al raggiungimento delle 15 giornate previste dall’art. 23, comma 1, Dl 18/2020, esclusivamente lo specifico congedo ivi previsto. Si deve osservare, inoltre, come generalmente e fatta salva una diversa previsione normativa, l’istituto del congedo, a differenza di quello del permesso, produce effetti giuridici e viene calcolato secondo il calendario civile, per cui il relativo periodo di fruizione ricomprende, nel computo delle giornate di godimento, anche i giorni di riposo settimanale (normalmente la domenica), i giorni festivi e quelli non lavorativi.
Tale forma di fruizione e di corrispondente calcolo, infatti, costituisce elemento differenziale di tale istituto dal permesso, il quale, normalmente, produce gli effetti che gli sono propri di giustificazione dell’assenza dal lavoro da parte del dipendente, esclusivamente in relazione ai giorni in cui viene effettivamente prestata l’attività lavorativa, cioè alle giornate nelle quali la prestazione deve essere resa, escludendo, quindi, dalla portata applicativa dello stesso, le giornate in cui l’attività lavorativa non viene legittimamente prestata a diverso titolo.
Da tale considerazione, pertanto, consegue che, laddove s'intendesse estendere, all’istituto del congedo, la stessa efficacia giuridica propria del permesso, trattandosi di operatività derogatoria, la norma, legale o contrattuale, che ne dettasse la relativa disciplina dovrebbe necessariamente disporre espressamente in tal senso. L’assenza di tale previsione nel contesto normativo che regola lo specifico istituto, conclusivamente, depone a favore dell’impossibilità applicativa del congedo di che trattasi limitata alle sole giornate in cui viene prestata l’attività lavorativa, dovendosi ritenere, pertanto, che il beneficio, in carenza di specifiche previsioni normative al riguardo, debba essere fruito e calcolato secondo il normale calendario civile, comprensivo, dunque, delle giornate di riposo settimanale, dei giorni festivi e di quelli non lavorativi.

Ai sensi dell'articolo 26, Dl 18/2020, fino al 30 aprile, i dipendenti disabili gravi riconosciuti tali ai sensi dell'art. 3, comma 3, Legge 104/1992, possono assentarsi dal lavoro e tale assenza è equiparata al ricovero ospedaliero. La norma parla di "il periodo di assenza prescritto dalle competenti autorità sanitarie": ciò significa che il dipendente deve farsi redigere un certificato medico di malattia?
Con riferimento al quesito posto la disabilità con connotazioni di gravità ai sensi dell’art. 3, comma 3, Legge 104/1992, deve essere accertata dalle aziende sanitarie locali mediante le commissioni mediche di cui all'art. 1, Legge 295/1990, che sono integrate da un operatore sociale e da un esperto dei casi da esaminare, in servizio presso le aziende sanitarie locali.
Nel caso in cui gli accertamenti riguardino persone in età evolutiva, le commissioni mediche sono composte da un medico legale, che assume le funzioni di presidente, e da due medici, di cui uno specialista in pediatria o in neuropsichiatria infantile e l'altro specialista nella patologia che connota la condizione di salute del soggetto. Tali commissioni sono integrate da un assistente specialistico o da un operatore sociale, o da uno psicologo in servizio presso strutture pubbliche.
Analogamente per i soggetti che presentino “una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione” (art. 3, comma 1, Legge 104/1992), non connotata da particolare gravità, è possibile riconoscere lo stesso beneficio (assenza equiparata a ricovero ospedaliero) qualora vi sia una certificazione rilasciata dai competenti organi medico legali dell’azienda sanitaria di competenza, che attesti una condizione di rischio derivante:
   a) da immunodepressione;
   b) da esiti da patologie oncologiche;
   c) dallo svolgimento di relative terapie salvavita.
Occorre osservare, tuttavia, nel caso di specie, che, da un lato, la ratio normativa sottesa alle prescrizioni dettate dal comma 2, dell’art. 26, Dl 18/2020, che appare chiaramente finalizzata a tutelare, anche negli spostamenti lavorativi, personale svantaggiato ed in particolare situazione di maggiore esposizione al rischio infettivo, e, dall’altro lato, la previsione espressamente dettata dal comma 6 del ridetto art. 26 che fa espresso riferimento al medico curante, la certificazione della condizione di rischio di cui sopra possa essere rilasciata anche dal medico appartenente al servizio sanitario nazionale o con questo convenzionato (medico di base o medico di medicina generale convenzionato) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.04.2020).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODisabili e diritto precedenza.
Domanda
Come funziona il diritto di precedenza per l’assunzione dei lavoratori disabili previsto dall’art. 36, comma 2, del d.lgs. 165/2001?
Risposta
Il posto di ruolo riservato ai lavoratori disabili (in quota d’obbligo) può essere coperto riconoscendo al lavoratore citato il diritto di precedenza se sono rispettati i seguenti presupposti:
   • il lavoratore è disoccupato e iscritto nelle liste dei lavoratori con disabilità che beneficiano del collocamento obbligatorio;
   • il suo precedente rapporto di lavoro con lo stesso ente (comprensivo della proroga, che, a differenza del rinnovo, consiste nel concordare, prima dell’originaria scadenza del rapporto, un posticipo del termine finale del rapporto stesso) ha avuto una durata di almeno 6 mesi e atteneva alle stesse mansioni previste per il posto che si intende coprire in modo stabile;
   • il lavoratore ha dato il suo consenso all’esercizio di questo diritto di precedenza entro 6 mesi dalla cessazione del rapporto a termine;
   • il primo giorno del rapporto di ruolo non è oltre i 12 mesi dall’ultimo giorno del rapporto a termine.
Considerato che si tratta di assunzioni che devono comunque essere svolte in collaborazione con i servizi territoriali per l’impiego e per il collocamento mirato, è necessario che la procedura si attenga alle istruzioni di dettaglio fornite da tali servizi.
In generale, la procedura deve includere i seguenti passaggi.
   1) Il piano triennale dei fabbisogni di personale deve prevedere il fabbisogno stabile dell’unità lavorativa di cui si tratta a partire dall’anno nel quale si intende procedere all’assunzione di ruolo e dare atto che l’ente intende riservare il posto ai lavoratori con disabilità ai fini della copertura della quota d’obbligo prevista dalla legge 68/1999.
   2) È necessario segnalare ai servizi per l’impiego sia la scopertura nelle quote assunzionali d’obbligo riservate ai lavoratori con disabilità, sia le caratteristiche del posto che si intende coprire (in particolare: mansioni e requisiti di accesso), sia tutte le circostanze sopra richiamate che dimostrano la sussistenza dei presupposti per l’esercizio del diritto di precedenza da parte del lavoratore che aveva svolto il rapporto a termine (indicando naturalmente i dati personali di quest’ultimo lavoratore).
   3) A seguito della verifica da parte dei servizi territoriali per l’impiego dei presupposti di cui sopra, andrà stipulata –con gli stessi servizi– un’apposita convenzione che preveda la chiamata diretta del lavoratore beneficiario del diritto di precedenza, ai sensi dell’art. 11 della legge 68/1999.
Per quanto riguarda gli adempimenti per la trasparenza si ricorda che:
   •– il piano triennale dei fabbisogni di personale, comprendente le informazioni sopra citate, deve essere pubblicato nell’ambito di Amministrazione Trasparente – Personale – Dotazione Organica, ed essere trasmesso al Dipartimento della Funzione Pubblica – Mef mediante l’applicativo Sico, entro 30 giorni dalla sua approvazione o aggiornamento (art. 6-ter d.lgs. 165/2001);
   •– vanno pubblicate le informazioni cui fa riferimento il seguente passaggio della stessa direttiva 1/2019:
“In ragione poi di quanto previsto dall’articolo 1 del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, recante “Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni”, secondo cui, in base al comma 1, la trasparenza è intesa come accessibilità totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche, è plausibile ritenere che le amministrazioni debbano pubblicare sul proprio sito istituzionale i dati relativi alla quota d’obbligo e alle procedure attivate per la copertura della stessa, fermo restando quanto previsto dall’articolo 39-quater, comma 2, del d.lgs. 165/2001.
In particolare, le amministrazioni dovranno indicare:
   – la dotazione organica necessariamente distinta per aree o categorie;
   – il numero delle persone con disabilità da assumere in base alle previsioni dell’articolo 3 della legge 68/1999;
   – il numero delle persone con disabilità già reclutati a copertura della quota obbligatoria;
   – le procedure avviate per il collocamento obbligatorio, con indicazione del tipo di avviamento al lavoro, comprese le eventuali convenzioni ai sensi dell’articolo 11 della legge 68/1999, finalizzate al completamento della quota obbligatoria”.
Naturalmente i dati personali del lavoratore non vanno pubblicati (23.04.2020 - link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGOOggetto: Individuazione dell’organo competente all’adozione del provvedimento motivato di “rotazione straordinaria”, ai sensi dell’art. 16, co. 1, lett. l-quater), del d.lgs. 30.03.2001, n. 165, nelle amministrazioni.
Riferimenti normativi:
art. 16, co. 1, lett. l-quater) del d.lgs. 30.03.2001, n. 165 - Artt. 319-quater c.p. e 335 c.p.p. - art. 107 e ss. del d.lgs. 18.08.2000, n. 267
Massima
L’organo competente, nelle amministrazioni centrali, all’adozione del provvedimento motivato di “rotazione straordinaria” di cui all’art. 16, co. 1, lett. l-quater), del d.lgs. 30.03.2001, n. 165 è il dirigente degli uffici dirigenziali generali o, per analogia, il responsabile di uffici “complessi”.
Analogamente, negli enti locali, l’adozione del provvedimento di “rotazione straordinaria” spetta ai dirigenti degli uffici dirigenziali generali, ove presenti, o al Segretario comunale, laddove il Sindaco abbia conferito, con atto di delega, a quest’ultimo dette funzioni in base all’art. 108, d.lgs. 267 del 2000.
Nel caso in cui il provvedimento di rotazione interessi il Direttore generale, è il Sindaco che ha conferito l’incarico a valutare, in relazione ai fatti di natura corruttiva per i quali il procedimento è stato avviato, se confermare o meno il rapporto fiduciario.
Tale valutazione spetta al Sindaco anche nel caso in cui il provvedimento interessi il Segretario comunale
Negli enti di ridotte dimensioni, privi di dirigenti e di direttore generale, le cui funzioni rimangono in capo all’Organo di indirizzo politico, l’adozione del provvedimento di “rotazione straordinaria” spetta a quest’ultimo.
In nessun caso la competenza dell’adozione del provvedimento di “rotazione straordinaria” può essere posta in capo al RPCT.

Parole chiave
“Rotazione straordinaria” – “art. 16, co. 1, lett. l-quater), del d.lgs. 30.03.2001, n. 165” – “reato di induzione indebita” “rinvio a giudizio” “competenza” “adozione del provvedimento motivato” - “amministrazioni centrali” - “enti locali” - Delibera ANAC 215 del 26.03.2019 (delibera 22.04.2020 n. 354 - link a www.anticorruzione.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAncora incertezze applicative sulla normativa emergenziale in materia di lavoro pubblico.
L’utilizzo delle ferie e dei congedi straordinari costituiscono ancora temi sui quali vi sono dubbi interpretativi che, nonostante lo sforzo del Dipartimento della Funzione pubblica con le risposte fornite sul sito istituzionale, meritano ancora la giusta attenzione al fine di fornire un adeguato supporto alla soluzione dei casi concreti che si presentano all’attenzione dei dirigenti chiamati a rispondere alle richieste dei propri collaboratori.
Di seguito vengono fornite risposte ad una ulteriore selezione di quesiti.

Ho lavorato fino a venerdì scorso in un comune. Ho la figlia studentessa universitaria rientrata da U.K. domenica notte, dove hanno chiuso l'università per coronavirus. Ho comunicato all'amministrazione lo stato di quarantena della ragazza ed il mio e della madre, in quanto coabitiamo con la figlia, al medico di base ed al 112.
Ho proceduto a comunicare per iscritto via mail all'amministrazione tale stato di autoquarantena per 14 giorni come da Dpcm ed ordinanze regionali Sardegna. Dall'amministrazione mi comunicano che considereranno l'assenza come ferie. Io credo che non potendo lasciare la residenza per motivi sanitari, non sia così.
Potete darmi una risposta?

Il personale, impedito alla fornitura della prestazione lavorativa dalle norme di contenimento della diffusione del coronavirus di cui ai Dpcm dell’8 marzo u.s., è soggetto alle disposizioni generali che regolano le assenze dal lavoro dei dipendenti pubblici nel presente frangente di eccezionalità determinato dall’emergenza pandemica di cui al COVID-19 in atto.
Ciò premesso, pertanto, la norma di riferimento, allo stato, è da ritenersi individuabile nell’art. 87, comma 3, Dl 17.03.2020, n. 18, il quale dispone letteralmente: "3. Qualora non sia possibile ricorrere al lavoro agile, anche nella forma semplificata di cui al comma 1, lett. b), le amministrazioni utilizzano gli strumenti delle ferie pregresse, del congedo, della banca ore, della rotazione e di altri analoghi istituti, nel rispetto della contrattazione collettiva. Esperite tali possibilità le amministrazioni possono motivatamente esentare il personale dipendente dal servizio. Il periodo di esenzione dal servizio costituisce servizio prestato a tutti gli effetti di legge e l'amministrazione non corrisponde l'indennità sostitutiva di mensa, ove prevista.”.
Come si vede, pertanto, le amministrazioni pubbliche -ove non sia possibile utilizzare il personale dipendente mediante l’impiego del lavoro agile o mediante diversa adibizione di tale personale ai servizi di competenza che sono tenute ad assicurare (diversi da quelli di ordinaria destinazione) e compatibilmente con l’esigibilità delle prestazioni riferite alla categoria giuridica di inquadramento- devono preventivamente utilizzare tutte le forme di istituti, legali o contrattuali, che giustifichino l’assenza dal lavoro con mantenimento della retribuzione, ivi comprese le ferie pregresse, da intendersi sia quella maturate nel corso del 2019 e non ancora fruite, sia quelle maturate nel corso del 2020 sino al momento del collocamento d’ufficio in ferie.
Solamente laddove sia esaurito o fosse oggettivamente impossibile l’impiego di tali istituti e non sia, altresì, possibile destinare diversamente il personale interessato, anche mediante l’utilizzo dello stesso in modalità remota con smart working su altri servizi da garantire, l’amministrazione potrà, eccezionalmente ed in via residuale, con atto adeguatamente motivato (posto che viene erogata la retribuzione in assenza di prestazione), collocare lo stesso in esenzione lavorativa, con mantenimento del trattamento economico in godimento, alla stregua di servizio prestato a tutti gli effetti di legge.
L’art. 19, comma 3, Dl. 9/2020 deve, quindi, ritenersi superato.

Dovendo giustificare le assenze del personale non coinvolto, o solo parzialmente coinvolto in attività da rendere in presenza, né avente possibilità di smart working o permessi particolari, si chiede se, oltre alle ferie ancora spettanti per l'anno 2019 occorra cominciare ad attingere anche a quelle del 2020.
In questa seconda ipotesi, alcuni dipendenti potrebbero non avere più ferie per il periodo estivo.

L’amministrazione può disporre l’utilizzo delle ferie maturate nel corso del 2020 sino al momento del collocamento d’ufficio in ferie. Solamente laddove sia esaurito o fosse oggettivamente impossibile l’impiego di tali istituti e non sia, altresì, possibile destinare diversamente il personale interessato, anche mediante l’utilizzo dello stesso in modalità remota con smart working su altri servizi da garantire, l’amministrazione potrà, eccezionalmente ed in via residuale, con atto adeguatamente motivato (posto che viene erogata la retribuzione in assenza di prestazione), collocare lo stesso in esenzione lavorativa, con mantenimento del trattamento economico in godimento, alla stregua di servizio prestato a tutti gli effetti di legge.
Infatti l’esenzione dal servizio costituisce l’estrema possibilità offerta alle amministrazioni quando tutte le altre possibilità previste dalla normativa non siano utilizzabili. Va, infine, precisato che, se è vero che l’art. 87 fa riferimento alle ferie pregresse, la possibilità di disporre la collocazione in ferie del personale costituisce potere datoriale la cui fonte è rinvenibile nell’art. 2109 del codice civile e, pertanto, riguarda anche le ferie maturate fino alla data in cui ne viene disposta la fruizione.

Una dipendente in congedo di maternità facoltativa, sarebbe intenzionata a richiedere il congedo parentale straordinario previsto dall’art. 25 , Dl 18/2020. Si rappresenta che:
   a) la figlia di mesi cinque e non ha ancora iniziato a frequentare il servizio educativo nido;
   b) l’inserimento al nido era in fase di programmazione ma è stato rimandato,
   c) in situazioni” normali” la dipendente sarebbe rientrata al lavoro.
Richiamato l’art. 25 del decreto legge n. 18/2020 a mente del quale non viene elencato come requisito l’iscrizione ad un istituto scolastico o servizio educativo, si chiede se sia corretto concedere la fruizione del congedo straordinario.

Si deve ritenere che, l’espresso richiamo effettuato dall’art. 23, comma 2, Dl 18/2020 degli artt. 32 e 33, Dlgs 151/2001, consente la conversione del congedo parentale in quello disciplinato in via straordinaria dal comma 1 dell’art. 23.
Per le pubbliche amministrazioni non vi sono dubbi circa l’applicabilità ai propri dipendenti considerato il richiamo espresso effettuato dal successivo art. 25. La formulazione del primo comma dell’art. 23 consente di affermare che i 15 giorni di congedo straordinario sono un diritto, per il cui esercizio è sufficiente avere dei figli di età non superiore ai 12 anni, che non ammette ulteriori condizioni.

Il Comune di … gestisce direttamente un asilo nido, un museo e una biblioteca. Dall’inizio dell’emergenza tutti e tre i servizi sono stati chiusi e il relativo personale è a casa. L’art. 19, c. 3, Dl 02.03.2020, n. 9, considera servizio prestato a tutti gli effetti di legge i periodi di assenza del personale imposti dai provvedimenti di contenimento del fenomeno epidemiologico.
Questa situazione continua a coinvolgere anche il museo e la biblioteca?

Con riferimento al quesito posto, occorre osservare che, ai sensi dell’art. 19, comma 3, del decreto-legge 02.03.2020, n. 9, fuori dei periodi trascorsi in malattia o in quarantena con sorveglianza attiva, o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva, che sono equiparati, dal comma 1 del medesimo art. 19, al periodo di ricovero ospedaliero, i periodi di assenza dal servizio dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, Dlgs 165/2001, imposti dai provvedimenti di contenimento del fenomeno epidemiologico costituiscono servizio prestato a tutti gli effetti di legge.
In applicazione di tale previsione normativa, pertanto, tutte le fattispecie di assenza dal lavoro di dipendenti dell’amministrazione pubblica direttamente imposti dalla normativa emergenziale di contrasto alla diffusione pandemica del coronavirus sono da ritenersi equiparati a servizio effettivamente prestato.
Occorre, tuttavia, sottolineare che tale prescrizione si ritiene applicabile ai soli casi in cui l’interdizione lavorativa sia conseguenza diretta e prescrittiva dell’applicazione di disposizioni normative di lotta all’emergenza epidemiologia e non, invece, alle diverse fattispecie riconducibili alle più generali misure di contrasto affidate alle autonome valutazioni delle singole amministrazioni nell’organizzazione e gestione dei servizi di competenza istituzionale, per le quali valgono, viceversa le misure dettate dall’art. 87 del recente decreto-legge 17.03.2020, n. 18.
Ai presenti fini, poi, necessita fare riferimento alle limitazioni dettate, con effetti sino al 3 aprile p.v., dall’art. 1, comma 1, let. l), Dpcm 08.03.2020, estese, per effetto dell’art. 1, comma 1, Dpcm 09.03.2020, all’intero territorio nazionale e con efficacia prodotta nel periodo dal 10.03.2020 sino, come cennato, alla data del 3 aprile p.v.. Tali statuizioni, in particolare, prescrivono che, per il predetto periodo temporale, sono chiusi i musei e gli altri istituti e luoghi della cultura di cui all'art. 101 del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui Dlgs 42/2004, il quale annovera, nell’ambito delle proprie previsioni, quali istituti e luoghi della cultura, i musei, le biblioteche e gli archivi, le aree e i parchi archeologici, i complessi monumentali.
Ciò evidenziato, pertanto, atteso che l’impedimento lavorativo del personale adibito ai predetti servizi consegue alla diretta attuazione di un'apposita disposizione legislativa riferibile alle misure emergenziali di lotta alla diffusione virale di che trattasi, è da ritenere che i dipendenti dell’amministrazione pubblica adibiti alla gestione di tali servizi siano esentati dalla prestazione lavorativa ai sensi di quanto disposto dal ripetuto art. 19, comma 3.
A parere di chi scrive, tuttavia, tale esclusione della prestazione lavorativa costituisce misura estrema, ancorché non soggetta ad alcuna condizione prescritta per legge, in caso, cioè, d’impossibilità di diversa utilizzazione dei lavoratori destinati ai servizi interessati, pur nell’ambito del ruolo rivestito e del principio di esigibilità di tutte le funzioni ascritte alla categoria giuridica d’inquadramento, atteso che lo status di esentato dal lavoro implica un riconoscimento retributivo di natura integrale a fronte della carenza di fornitura di alcuna attività di lavoro, ciò che, infatti, se non adeguatamente giustificata dall’impossibilità di diverso impiego del lavoratore, ben potrebbe tradursi in un indebito patrimoniale per danno in pregiudizio degli interessi pubblici di cui l’amministrazione è istituzionalmente portatrice (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.04.2020).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOI dubbi delle amministrazioni nell'applicazione delle norme antipandemia.
Nella situazione emergenziale in cui ci troviamo oltre all’applicazione delle norme straordinarie adottate dal governo con i poteri legislativi conferitigli dalla Costituzione, in presenza dei presupposti straordinari di necessità ed urgenza, immediatamente vigenti, in attesa della conversione in legge, si presentano agli operatori problematiche che comunque devono essere affrontate non essendovi alcuna moratoria degli atti di gestione del rapporto di lavoro. Inoltre, in tema di utilizzo delle ferie permangono ancora dubbi da parte delle amministrazioni.
Di seguito vengono affrontate due problematiche molto diverse tra loro ma tutte riconducibili alla gestione del rapporto di lavoro nelle amministrazioni pubbliche.

Un dipendente transitato in Camera di Commercio con mobilità volontaria da ACI PRA (EPNE) ha diritto a mantenere con assegno riassorbibile l'indennità di ente che percepiva presso il PRA, tenuto conto che questa è stata definita dall'ARAN come fissa e ricorrente seppur finanziata con le risorse decentrate?
Vale il divieto di reformatio in peius?

In relazione al quesito posto, si riscontra come segue.
Il sistema di riferimento normativo allo stato vigente depone, inequivocabilmente, per il definitivo superamento, con effetti dal 01.01.2014, del principio del divieto di reformatio in pejus dettato, nell’ambito del pubblico impiego, dal previgente ordinamento che regolava la specifica materia.
L’art. 1, comma 458, legge 147/2013 (legge finanziari per l’anno 2014), infatti, ha espressamente abrogato, dalla data di cui sopra, le disposizioni normative che lo regolavano, statuendo, espressamente e lapidariamente, che l'articolo 202 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10.01.1957, n. 3, e l'articolo 3, commi 57 e 58, della legge 24.12.1993, n. 537, sono abrogati.
Le disposizioni che vengono così elise dall’ordinamento pubblico prescrivevano, a loro volta, che, nel caso di passaggio di carriera presso la stessa o diversa amministrazione, agli impiegati con stipendio superiore a quello spettante nella nuova qualifica è attribuito un assegno personale, utile a pensione, pari alla differenza fra lo stipendio già goduto ed il nuovo, salvo riassorbimento nei successivi aumenti di stipendio per la progressione di carriera, anche se semplicemente economica (cit. art. 202), nonché che, nei casi di passaggio di carriera di cui al predetto art. 202 ed alle altre analoghe disposizioni, al personale con stipendio o retribuzione pensionabile superiore a quello spettante nella nuova posizione è attribuito un assegno personale pensionabile, non riassorbibile e non rivalutabile, pari alla differenza fra lo stipendio o retribuzione pensionabile in godimento all'atto del passaggio e quello spettante nella nuova posizione, fermo restando che tale assegno personale non è cumulabile con indennità fisse e continuative, anche se non pensionabili, spettanti nella nuova posizione, salvo che per la parte eventualmente eccedente.
Come si vede, dunque, il precedente regime era volto a preservare, in capo al dipendente trasferito da una pubblica amministrazione ad altro ente pubblico, il maturato economico conseguito presso l’amministrazione di provenienza, ove più favorevole, considerato in termini di componenti quiescibili, in particolare del trattamento fondamentale (trattamento economico contrattuale tabellare ed altri elementi di composizione del trattamento economico fondamentale, come la R.I.A., il maturato economico differenziale, l’I.I.S. etc.), e di altre componenti che, ancorché riconducibili al trattamento economico accessorio, presentassero le caratteristiche della fissità e continuità erogativa, secondo le diverse previsioni dei sistemi contrattuali nazionali in vigore, alla stregua di elementi retributivi strettamente correlati al ruolo ed alla posizione giuridica ricoperta dal lavoratore interessato, nonché caratterizzanti gli stessi.
A seguito dell’elisione del predetto principio nel lavoro pubblico privatizzato, pertanto, è stato, nel tempo, inaugurato un nuovo e diverso principio regolatore, trasfuso nell’ambito del testo unico sul pubblico impiego mediante la previsione di cui all’art. 30, comma 2-quinquies, Dlgs 165/2001, il quale, introdotto dall'art. 16, comma 1, lett. c), legge 246/2005, ha esplicitamente statuito che, salvo diversa previsione, a seguito dell'iscrizione nel ruolo dell'amministrazione di destinazione, al dipendente trasferito per mobilità si applica esclusivamente il trattamento giuridico ed economico, compreso quello accessorio, previsto nei contratti collettivi vigenti nel comparto della stessa amministrazione.
Tale principio, pertanto, non pare dare adito ad alcun dubbio circa le modalità di riconoscimento economico al dipendente transitato, per cessione contrattuale, alle dipendente di altra amministrazione pubblica, atteso che la norma dispone testualmente che, allo stesso, si applica esclusivamente sia il trattamento economico fondamentale -attraverso l’applicazione delle previsioni dettate dal Dpcm 26.06.2015 in materia di definizione delle tabelle di equiparazione fra i livelli d’inquadramento previsti dai contratti collettivi relativi ai diversi comparti di contrattazione del personale non dirigenziale– che il trattamento economico accessorio disciplinato dai contratti collettivi nazionali ed integrativi di lavoro vigenti nel comparto contrattuale cui è ascritta l’amministrazione di destinazione.
Alla luce di tale criterio applicativo, pertanto, si ritiene che, non potendosi più invocare l’abrogato principio del divieto di reformatio in pejus, al lavoratore pubblico transitato presso altra amministrazione pubblica non possa essere applicato che il regime economico e giuridico prescritto dal sistema contrattuale collettivo complessivamente operante presso l’ente cessionario, non potendosi conservare e riconoscere, dunque, assegni personali finalizzati all’osservanza del superato principio garantista.

Ringraziando anticipatamente, chiedo se, per poter attivare l'esenzione dal lavoro prevista dal Governo, nel conteggio delle ferie pregresse sono comprese anche le giornate maturate da gennaio a marzo 2020.
Con riferimento al quesito posto, la norma di riferimento, ancorché non indicata, si ritiene sia individuabile nell’art. 87, comma 3, Dl 18/2020, il quale testualmente recita: "3. Qualora non sia possibile ricorrere al lavoro agile, anche nella forma semplificata di cui al comma 1, lett. b), le amministrazioni utilizzano gli strumenti delle ferie pregresse, del congedo, della banca ore, della rotazione e di altri analoghi istituti, nel rispetto della contrattazione collettiva. Esperite tali possibilità le amministrazioni possono motivatamente esentare il personale dipendente dal servizio. Il periodo di esenzione dal servizio costituisce servizio prestato a tutti gli effetti di legge e l'amministrazione non corrisponde l'indennità sostitutiva di mensa, ove prevista.”.
Tale prescrizione, com’è evidente, si inserisce nell’ambito delle diverse misure d’urgenza varate dal Governo per contrastare la diffusione pandemica, con la chiara finalità di scongiurare spostamenti, sul territorio, di personale dipendente dell’amministrazione pubblica, in ragione del contenimento del rischio di trasmissione virale scatenata dal COVID-19.
Tenuto conto, pertanto, della logica dispositiva cui è orientata la norma, si è dell’avviso per il quale il ricorso all’esenzione lavorativa dei dipendenti del settore pubblico costituisca estrema ratio successiva all’impossibilità di applicazione degli altri istituti indicati dalla norma, ovvero, nell’ordine richiamato dalla predetta statuizione a titolo non esaustivo, il ricorso al lavoro agile, l’utilizzo delle ferie pregresse, l’applicazione di congedo, l’utilizzo della banca-ore, l’attuazione di processi rotativi e di altri istituti aventi la stessa portata, ovvero consentire, al dipendente, l’assenza giustificata e retribuita dal lavoro.
In tale quadro prescritto, pertanto, la qualificazione di “
pregresse” riferito alle ferie pare assumere un valore meramente ordinatorio, in termini di priorità di fruizione dell’istituto, in modo tale che, prioritariamente, dovranno essere goduti prima i giorni di ferie in giacenza maturati con riferimento all’anno o, in taluni casi, agli anni precedenti, per poi fruire, laddove non sussista la possibilità di utilizzare altri istituti giustificativi e retribuiti di assenza dal lavoro, di eventuali giorni maturati nel corso del corrente anno sino al momento di fruizione degli stessi, prima di far ricorso all’esenzione lavorativa prevista, come visto, dal citato art. 87, comma 3, alla stregua di ultima ipotesi solutiva da impiegare, attesi gli oneri che tale situazione è in grado di generare, posto che, in tale stato, la retribuzione continua ad essere erogata al lavoratore pur in costanza di assenza della controprestazione lavorativa (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.04.2020).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOI problemi della PA nella gestione delle norme emergenziali.
Non si ferma la pioggia di questioni e di problemi che le amministrazioni pubbliche stanno affrontando sulla trincea dell’attuazione pratica delle norme di emergenza che sono state adottate dal Governo dall’inizio della pandemia.
In effetti, l’urgenza di assumere provvedimenti di contrasto alla diffusione virale che ha investito il Paese, ha generato una normazione affastellata su due assetti di gestione, almeno a livello centrale, ovvero i provvedimenti d’urgenza (nella versione del decreto-legge) e le norme attuative (nella forma del Dpcm), cui si aggiungono i provvedimenti dei Presidenti delle Regioni, le ordinanze delle Autorità locali sanitarie, i provvedimenti della Protezione Civile e le circolari, le direttive e gli atti di indirizzo assunte da diversi interlocutori istituzionali.
Il tutto condito da dubbi ed incertezze, come dimostrano le richieste di aiuto che incessantemente pervengono e di cui i seguenti esempi sono rappresentazione emblematica.

L'art. 23 comma 1, Dl 18/2020 stabilisce che "… i genitori lavoratori dipendenti del settore privato hanno diritto a fruire, ai sensi dei commi 9 e 10, per i figli di età non superiore ai 12 anni, fatto salvo quanto previsto al comma 5, di uno specifico congedo, per il quale è riconosciuta una indennità pari al 50 per cento della retribuzione ..."; il comma 6 dello stesso articolo prevede che "... i genitori lavoratori dipendenti del settore privato con figli minori, di età compresa tra i 12 e i 16 anni... hanno diritto di astenersi dal lavoro per il periodo di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado, senza corresponsione di indennità né riconoscimento di contribuzione figurativa ...”; l'art. 25 poi estende tali provvedimenti anche ai pubblici dipendenti.
Chiedo: un genitore con un figlio nato il 18.10.2007, quindi 12 anni e 5 mesi di età, può presentare una richiesta di congedo ai sensi del comma 1?

Con riferimento al quesito posto, la norma di riferimento, costituita dall’art. 23, comma 1, Dl 17.3.2020, la cui previsione è stata estesa, ai lavoratori del settore pubblico, dal successivo art. 25, comma 1, dello stesso Dl. La disposizione esaminata prevede, espressamente, che “1. Per l’anno 2020 a decorrere dal 5 marzo, in conseguenza dei provvedimenti di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado, di cui al Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 4 marzo 2020, e per un periodo continuativo o frazionato comunque non superiore a quindici giorni, i genitori lavoratori dipendenti del settore privato hanno diritto a fruire, ai sensi dei commi 9 e 10, per i figli di età non superiore ai 12 anni, fatto salvo quanto previsto al comma 5, di uno specifico congedo, per il quale è riconosciuta una indennità pari al 50 per cento della retribuzione, (…)”.
Ciò richiamato, pertanto, si può osservare come la disposizione in commento, quale condizione ai fini della legittima fruizione del beneficio in parola, faccia espresso riferimento alla presenza di figli di età non superiore ai 12 anni, per cui, stante il tenore letterale della norma, l’istituto non è applicabile laddove il minore abbia già compiuto il limite di età previsto dalla disposizione di che trattasi al momento della richiesta della relativa fruizione. Tale affermazione discende da un principio generale elaborato dalla giurisprudenza amministrativa, ai sensi della quale quando la legge ricollega il verificarsi di determinati effetti al compimento di una data età, questi effetti decorrono dal giorno successivo a quello del relativo compleanno (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza n. 1353/1995).
Occorre considerare, peraltro, che il principio elaborato dalla Giurisdizione amministrativa ha trovato pieno accoglimento nella pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 21/2011, intervenuta dopo diversi contrasti giurisprudenziali in materia di superamento dei limiti di età nei concorsi pubblici.
Di diverso avviso, infatti, altra giurisprudenza dello stesso Organo giurisdizionale che, a più riprese, ha accolto il diverso principio per il quale, testualmente: "Nella vicenda in esame, il bando non effettua alcun riferimento puntuale al “compimento” del trentaseiesimo anno, ma richiama il diverso concetto dell’età “non superiore a 36 anni”. Ora, posto che non rilevano, in questo contesto, per computare l’età, le frazioni di anni, calcolate in giorni o in mesi, è evidente che, dopo il trentaseiesimo compleanno, l’interessato ha ancora un’età di 36 anni e la conserva fino al momento in cui “compie” 37 anni. Solo a partire da tale data, infatti, l’interessato acquista un’età pari a 37 anni, superiore a quella di 36. Il principio è affermato, fra le tante pronunce cha hanno affrontato specificamente l’argomento, anche da Cassazione civile, sez. lav., 26.05.2004, n. 10169, secondo la quale il decreto legislativo n. 280 del 1997, che prevede la partecipazione ad un progetto di borsa di lavoro per i giovani di età compresa tra i 21 e i 32 anni, requisito che deve essere posseduto alla data del 31.10.1997, non esclude dalla fruibilità del beneficio i soggetti che, a quella data, abbiano già compiuto il trentaduesimo anno di età, purché non abbiano ancora compiuto il trentatreesimo anno, rimanendo trascurabili, ai fini del computo, le frazioni di anno (…)” (Consiglio di Stato, Sez. V, 05.03.2010, n. 1284).
Accedendo all’orientamento assunto dalla richiamata Adunanza Plenaria del Supremo consesso amministrativo, pertanto, nel caso di specie la richiedente non potrà fruire del beneficio concesso dalla previsione normativa in questione per carenza dei relativi presupposti applicativi.

Con riferimento all’emergenza COVID-19, formulo il seguente quesito. Il Comune di … non ha ancora approvato il bilancio di previsione 2020-2022.
È stato approvato il fabbisogno del personale 2020-2022, dove sono previste le sostituzioni di due unità di personale che durante l’anno 2020 cessano dal servizio.
In caso di conclusione positiva delle procedure di mobilità per la copertura dei suddetti posti, anche in assenza del bilancio approvato, è possibile procedere al trasferimento del personale dagli enti di appartenenza, una volta acquisiti i nulla osta definitivi?

Con riferimento al quesito posto, occorre, preliminarmente, inquadrare il contesto giuridico nell’ambito del quale l’amministrazione sta operando. L’ente, secondo quanto rappresentato nel quesito, intende procedere all’acquisizione di personale mediante l’istituto della cessione contrattuale (mobilità esterna) da parte di altra amministrazione (art. 30, Dlgs 165/2001), trovandosi, nel contempo, in regime di esercizio provvisorio, non avendo provveduto, nei termini di legge, all’approvazione del bilancio previsionale.
Tale esercizio, infatti, è stato recentemente assentito con Dm 28.2.2020 del Ministero dell’Interno che ha provveduto a differire ulteriormente il termine di approvazione del bilancio di previsione delle amministrazioni locali per il triennio 2020-2022 dal 31.03.2020 al 30.04.2020.
Trovandosi, pertanto, in esercizio provvisorio, l’amministrazione è tenuta all’osservanza delle disposizioni normative che regolano l’attività della stessa in questo particolare regime, con specifico riferimento, tra le altre, alle prescrizioni di cui all’art. 163, comma 5, Dlgs 267/2000, il quale vincola, espressamente, gli enti locali, nel corso dell’esercizio provvisorio, alla possibilità d’impegno mensile delle spese correnti relative a ciascun programma (oltre a quelle eventualmente correlate ed urgenti), per importi non superiori ad un dodicesimo degli stanziamenti del secondo esercizio del bilancio di previsione deliberato l'anno precedente, unitamente alla quota dei dodicesimi non utilizzata nei mesi precedenti, ridotti delle somme già impegnate negli esercizi precedenti e dell'importo accantonato al fondo pluriennale vincolato, con l'esclusione delle spese: a) spese tassativamente regolate dalla legge; b) spese non suscettibili di pagamento frazionato in dodicesimi e c) spese a carattere continuativo necessarie per garantire il mantenimento del livello qualitativo e quantitativo dei servizi esistenti, impegnate a seguito della scadenza dei relativi contratti.
Come si può desumere dalla chiara prescrizione legislativa, pertanto, non pare che la spesa corrente correlata a nuove acquisizioni di personale, anche mediante il trasferimento dello stesso da altra amministrazione pubblica per cessione di contratto, possa rientrare nelle fattispecie derogatorie indicate dalla richiamata statuizione di legge, non trattandosi, infatti, di spese imposte da norme di legge, ma facoltativamente generate dall’ente, né di spese non frazionabili in dodicesimi, in quanto, proprio per loro natura, certamente scindibili mensilmente, né, infine, di spese finalizzate al mantenimento dei livelli quali-quantitativi dei servizi esistenti, in quanto non destinate all’acquisizione di servizi, bensì impiegate per l’assunzione di personale dipendente.
Si ritiene, pertanto, che, in assenza del bilancio previsionale approvato ed in conseguente regime di esercizio provvisorio, l’amministrazione non possa procedere all’acquisizione di risorse umane nei termini rappresentati nel quesito posto.
Tale posizione, peraltro, pare fatta propria dalla recente espressione di conforme parere, nella specifica materia, reso dalla Corte dei Conti, Sezione regionale di Controllo per La Campania, con la delibera n. 28/2020/PAR del 19.03.2020, della quale, per la rilevanza che attiene al quesito posto, si riportano i passaggi più rilevanti, come di seguito riferiti: “La questione all’esame concerne, come si diceva, la possibilità di procedere alla assunzione di unità di personale in regime di esercizio provvisorio, autorizzato, da ultimo, con Dm 28/02/2020 del Ministero dell'interno che ha ulteriormente differito, rispetto a quanto disposto con il precedente decreto del 13.12.2019, il termine per la deliberazione del bilancio di previsione 2020/2022 degli enti locali dal 31.03.2020 al 30.04.2020.
Va innanzitutto premesso che in un bilancio di tipo finanziario, quale quello degli enti locali, gli stanziamenti di spesa del bilancio di previsione, come è noto, hanno natura autorizzatoria, costituendo un limite agli impegni ed ai pagamenti con la sola esclusione delle previsioni riguardanti i rimborsi delle anticipazioni di tesoreria e i servizi per conto terzi.
Ne discende che, laddove non risulti approvato, entro il 31.12 dell’anno precedente, il bilancio di previsione per l’anno in corso, il legislatore, onde evitare la paralisi dell’ente, ha comunque consentito una gestione “provvisoria” dell’esercizio, ma, proprio in quanto tale, nel rispetto di predeterminati limiti, a garanzia degli equilibri di bilancio dell’ente e riassunti nella disciplina dettata dall’art. 163, Dlgs 267/2000 (d’ora innanzi Tuel) e dall’art. 43 Dlgs 118/2011 e relativi principi contabili. (…) Rileva, viceversa, l’esercizio provvisorio allorquando venga espressamente autorizzato con legge o con decreto del Ministro dell'interno che, ai sensi di quanto previsto dall'art. 151, primo comma, Tuel, differisce il termine di approvazione del bilancio, d'intesa con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza Stato-città ed autonomia locale, in presenza di motivate esigenze. (…)
Nello specifico caso, infatti, dell’“esercizio provvisorio”, cui si riferisce la richiesta di parere all’esame, gli enti possono impegnare solo spese correnti (oltre quelle correlate a partite di giro). Per la spesa in conto capitale, possono essere impegnate solo somme per lavori pubblici di somma urgenza o altri interventi di somma urgenza (cfr. art. 163, comma 3, Tuel). Il comma 5 individua, poi, ulteriori limiti, imponendo che gli enti possano impegnare mensilmente, per ciascun programma riferito alle spese di cui al precedente comma 3, importi non superiori ad un dodicesimo degli stanziamenti del secondo esercizio del bilancio di previsione deliberato l'anno precedente (unitamente alla quota dei dodicesimi non utilizzata nei mesi precedenti), ridotti delle somme già impegnate negli esercizi precedenti e dell'importo accantonato al fondo pluriennale vincolato.
Prevede, poi, alcune eccezioni, tassativamente elencate, al suddetto limite degli impegni per dodicesimi. (…) Nel testo, invece, novellato, in vigore dal 1 gennaio 2015, ha mantenuto ferma la stessa limitazione, nel quadro, però, di una più complessa regolamentazione dell’esercizio e della gestione provvisoria, affidata anche al principio contabile applicato concernente la contabilità finanziaria ed ha, inoltre, implementato i casi che fanno eccezioni al suddetto limite dei dodicesimi, individuandoli nelle spese: a) tassativamente regolate dalla legge; b) non suscettibili di pagamento frazionato in dodicesimi; c) a carattere continuativo necessarie per garantire il mantenimento del livello qualitativo e quantitativo dei servizi esistenti, impegnate a seguito della scadenza dei relativi contratti. (…)
La suddetta disciplina è sostanzialmente confermata anche dal principio contabile applicato n. 8, di cui all’ Allegato n. 4/2 al Dlgs 118/2011, che al punto 8.6, più in particolare, ribadisce: ”nel corso dell'esercizio provvisorio: a) sono impegnate nel limite dei dodicesimi le spese che, per loro natura, possono essere pagate in dodicesimi; b) sono impegnate, al di fuori dei limiti dei dodicesimi, le spese tassativamente regolate dalla legge, quelle che, per loro natura, non possono essere pagate frazionandole in dodicesimi, e le spese a carattere continuativo necessarie per garantire il mantenimento del livello qualitativo e quantitativo dei servizi esistenti, impegnate a seguito della scadenza dei relativi contratti”.
Alla luce di tutto quanto sopra e, soprattutto, della ratio posta a fondamento della disciplina dell’esercizio provvisorio, finalizzata a garantire, in tale “anomala” fase della gestione dell’esercizio, il rispetto degli equilibri finanziari, le eccezioni al prescritto limite dei dodicesimi vanno intese in senso tassativo, con la conseguente impossibilità di estenderle oltre la previsione di legge. (…)
Ne deriva, dunque, la impossibilità di assumere spese, in costanza di esercizio provvisorio, al di là del più volte richiamato limite dei dodicesimi, con la sola eccezione dei casi, tassativi, elencati dal predetto art. 163, comma 5, tra i quali non risulta annoverabile la tipologia di spesa di cui al parere in esame, non essendo la stessa riconducibile: alla eccezione di cui alla lettera a) del comma in esame, spese tassativamente regolate dalla legge, non trattandosi di una assunzione imposta ex lege, ma programmata dall’ente medesimo; alla eccezione di cui alla lettera b), non suscettibili di pagamento frazionato in dodicesimi, attesa la pacifica frazionabilità in dodicesimi delle spese di personale; né, infine, alla eccezione di cui alla lettera c), spese a carattere continuativo necessarie per garantire il mantenimento del livello qualitativo e quantitativo dei servizi esistenti, impegnate a seguito della scadenza dei relativi contratti, riferendosi, siffatta eccezione, al caso di servizi, oggetto di contratti in scadenza, tra i quali non rileva il contratto di lavoro subordinato
.”.
A tal riguardo, poi, si precisa che la Sezione regionale di Controllo della Corte dei Conti della Campania ha recentemente fornito un ulteriore chiarimento sulla posizione così assunta con la riportata delibera n. 28/2020, specificando che eventuali assunzioni di personale, in pendenza di esercizio provvisorio, potranno essere sostenute solo se rientranti nel limite dei dodicesimi, conformemente a quanto si evince a pag. 6 della delibera stessa. Oltre tale limite, conclude la Sezione, possono essere sostenute le sole spese tassativamente elencate dall'art. 163, comma 5, del Tuel, tra le quali non rientrano le spese in questione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.04.2020).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Limite P.O. in caso di convenzione.
Domanda
Come è possibile determinare il “tetto” per le posizioni organizzative in caso di convenzione?
Risposta
Nel caso di gestioni associate, come da orientamento ormai consolidato della giurisprudenza contabile, la quota di retribuzione di posizione e di risultato, “rimborsata” dai comuni, non va calcolata nel “tetto di spesa” dell’ente “A”, mentre invece dovrà essere calcolata dai comuni “utilizzatori” nel proprio tetto, riferito all’anno 2016, per quanto riguarda il calcolo della spesa del salario accessorio, ai fini del rispetto dell’art. 23, comma 2, del d.lgs. 75/2017.
Si specifica, infine, che la quota rimborsata va conteggiata come aggregato di spesa di personale e non va conteggiata come tetto per il lavoro flessibile, ex art. 9, comma 28, d.l. 78/2010.
Occorre guardare quindi il caso concreto e le clausole della convenzione per il riparto delle spese. Se nulla è stato previsto occorre verificare quanto ricompreso dall’altro ente, partecipante alla gestione associata, prima che la Giunta assuma deliberazione ad hoc, in modo da evitare che entrambi gli enti ricomprendano le somme di cui si tratta, alzando in modo fittizio i limiti di contenimento riferiti al salario accessorio, ormai esistenti dal 2010.
In merito all’importo del salario accessorio delle posizioni organizzative da considerare per il rispetto del limite di cui all’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n. 75/2017, è ormai consolidato l’orientamento dei magistrati contabili nel ritenere che per le posizioni organizzative, in enti privi di dirigenza, il limite di spesa del trattamento accessorio per l’anno 2016, deve essere quello rappresentato dall’ammontare delle risorse stanziate in bilancio nel medesimo esercizio finanziario.
Infatti, dopo la posizione iniziale assunta dalla Corte dei conti della Sicilia con la deliberazione n. 172/2018 anche i magistrati della Corte dei conti della Lombardia, con il parere n. 20/2019 hanno ribadito che «il valore della spesa da considerare ai fini del rispetto del tetto per il trattamento accessorio delle posizioni organizzative nei Comuni privi di dirigenza e quello stanziato direttamente in bilancio sempre che il valore della stessa corrisponda al valore complessivo contrattualmente previsto da attribuire ai dipendenti titolari delle posizioni organizzative» (16.04.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAncora quesiti dalle amministrazioni sulle norme emergenziali.
I quesiti di fronte ai quali si trovano le amministrazioni pubbliche, in questa fase emergenziale funzionale ad impedire la proliferazione del virus COVID-19, riguardano aspetti particolari, sia relativi all’utilizzo degli istituti specificamente introdotti dalla normativa emergenziale, sia attinenti alle modalità di utilizzo di istituti già presenti nell’ordinamento legale e contrattuale, ma che dispiegano o continuano a spiegare i loro effetti nell’attuale contesto.
Di seguito alcuni dei quesiti posti dalle amministrazioni rispetto ai quali vengono fornite puntuali ed argomentate risposte.

Con riferimento ai 15 giorni di congedo per i genitori di figli fino a 12 anni introdotto dal Dl 18/2020 si chiede conferma se il richiedente deve attestare per poterne beneficiare che il coniuge, fra le altre cose, non è collocato il lavoro agile e che non è lavoratore autonomo.
Con riferimento al quesito posto, il sistema normativo di riferimento è dato dalle disposizioni recate dagli artt. 23, commi 1 e 4, e 25, comma 1, Dl 17.03.2020, n. 18.
A mente di tali prescrizioni normative, infatti, per l’anno 2020, a decorrere dal 5 marzo, in conseguenza dei provvedimenti di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado, di cui al Dpcm 04.03.2020, e per un periodo continuativo o frazionato comunque non superiore a quindici giorni, i genitori lavoratori dipendenti del settore pubblico, per effetto dell’estensione applicativa operata dall’art. 25, comma 1, dello stesso decreto-legge, hanno diritto a fruire, per i figli di età non superiore ai 12 anni, di uno specifico congedo, per il quale è riconosciuta un'indennità pari al 50 per cento della retribuzione. Per il godimento di tale istituto, poi, il quadro giuridico sopra indicato prevede, quali condizioni di utilizzo, che nel nucleo familiare del lavoratore interessato, non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito, in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa, o altro genitore disoccupato o non lavoratore, ovvero che uno o entrambi i lavoratori non stiano già fruendo di analoghi benefici.
Ciò premesso, pertanto, ai sensi dell’art. 25, comma 2, del ridetto Dl 18/2020, è rimessa alla competenza dell’amministrazione pubblica con la quale intercorre il rapporto di lavoro del lavoratore interessato, l’indicazione delle modalità di fruizione del congedo di che trattasi, la quale, nell’esercizio delle proprie facoltà datoriali correlate alla gestione del rapporto di lavoro, potrà pretendere, ai fini della concessione del beneficio, che il dipendente produca apposita dichiarazione sostitutiva di atto notorio, ai sensi dell’articolo 47, Dpr 445/2000, attraverso la quale attestare la sussistenza delle condizioni imposte dalla legge per il riconoscimento applicativo dell’istituto, in particolare che:
   1) nel proprio nucleo familiare non sia presente altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito, in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa;
   2) nel proprio nucleo familiare non sia presente altro genitore disoccupato o non lavoratore;
   3) uno o entrambi i genitori lavoratori non stiano già fruendo di analoghi benefici.
Dalla lettura piana delle disposizioni non sembra vi siano ostacoli all’utilizzo del congedo nell’ipotesi in cui l’altro genitore continui a lavorare in modalità agile; in quest’ultimo caso, infatti, il lavoratore prosegue il proprio impegno nell’attività lavorativa, sebbene da remoto, non rientrando, quindi, nella nozione legale di “genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa o altro genitore disoccupato o non lavoratore”, uniche ipotesi che impedirebbero l’accesso a tale forma di congedo.
D’altra parte tale posizione pare cogliere, al meglio, anche la ratio normativa che, in vero, appare chiaramente finalizzata ad assicurare un adeguato ed opportuno apporto familiare ai minori che, in conseguenza dei provvedimenti di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado, si trovano a dover permanere, loro malgrado, presso l’abitazione ed ai quali, pertanto, il genitore impegnato al lavoro, ancorché in regime di smart working, non sarebbe in grado di fornire un’adeguata assistenza e cura.

Nel ringraziare della disponibilità, chiedo se il DL n. 18/2020 ha sospeso i procedimenti disciplinari attivati dalle amministrazioni pubbliche e, in tal caso, come vanno applicate queste norme?
Cosa viene esattamente sospeso del procedimento disciplinare? Tutti i termini o solo alcuni di essi? E, in questo caso, quali sono i termini sospesi?

L’art. 103, comma 5, di tale strumento d’urgenza, infatti, statuisce, a chiare lettere, che i termini dei procedimenti disciplinari del personale delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, Dlgs 165/2001, pendenti alla data del 23.02.2020 o iniziati successivamente a tale data, sono sospesi fino alla data del 15.04.2020.
La norma ha un’indubbia rilevanza per l’economia procedimentale correlata alla gestione dei procedimenti disciplinari da parte del datore di lavoro pubblico, atteso che chiarisce, opportunamente, le modalità applicative della sospensione dei termini dettate dall’art. 103 del decreto-legge, che regola tale sospensione temporale per i procedimenti amministrativi, nell’ambito del procedimento disciplinare, il quale, costituendo profilo di gestione del rapporto di lavoro, non presenta il carattere giuridico tipico del procedimento amministrativo, posto che costituisce esercizio di potere datoriale di natura privatistica e non pubblicistico- amministrativa.
La norma sospende i termini dei procedimenti disciplinari pendenti alla data del 23.02.2020 o quelli iniziati successivamente a tale data, ma non i procedimenti da attivare nei termini di sospensione, per cui sembra lasciare immutato il termine decadenziale di trenta giorni per la contestazione dell’addebito; si deve, quindi, ritenere che il procedimento disciplinare, in presenza di un’adeguata segnalazione, debba, comunque, essere avviato, per scongiurare il rischio della decadenza, fermo restando che anche i termini di conclusione, per i procedimenti interessati dalla norma, sono sospesi sino alla stessa data del 15 aprile p.v... Sarebbe stato utile, viceversa, considerata la situazione straordinaria in cui si è venuto a trovare il Paese, prevedere anche la sospensione del temine di decadenza previsto per la contestazione degli addebiti.
Atteso il carattere derogatorio ed eccezionale di tali disposizioni legali, anche in ragione della particolare natura dello strumento straordinario che ne costituisce veicolo normativo, è da ritenersi che le stesse non possano essere estese, in applicazione, utilizzando criteri analogici o assimilativi per attrarre nella loro orbita regolativa fattispecie che non siano espressamente previste dalla legge, per cui è estraneo alla cornice prescrittiva di tale dettato ogni percorso che non possa, giuridicamente, essere ricondotto alla qualificazione di procedimento amministrativo o di procedimento disciplinare ai sensi dell’art. 103 in questione, fatte salve le eccezioni espressamente indicate dal decreto-legge, così come configurate dal comma del ridetto art. 103.
Non rientrano, conseguentemente, nell’orizzonte attuativo della sospensione dei termini disciplinata dal Dl 18/2020, tutti quei processi e quelle serie di azioni che non possano, a rigore, qualificarsi come procedimenti amministrativi, ovvero come sequenza istantanea o fasica di atti univocamente preordinati alla produzione di un atto avente natura pubblicistico-amministrativa, di talché difficilmente potrebbero ricondursi a tale categoria -in disparte le eventuali previsioni derogatorie indicate dal ripetuto comma 4 dell’art. 103, che corrobora la portata del principio generale– tutti gli atti gestionali del rapporto di lavoro, in quanto atti di carattere datoriale che presentano la natura giuridica di atti di diritto comune, non annoverabili, pertanto, nel perimetro dei provvedimenti amministrativi.
In particolare i termini previsti, dall’ordinamento (art. 10, Dlgs 150/2009), per la gestione della filiera delle performance, come i termini di adozione del piano delle performance e quelli di approvazione della corrispondente relazione consuntivante, non sembrano sfiorati dalla previsione normativa sulla sospensione dei termini, anche in ragione della loro evidente origine ordinatoria, fermo restando che potrebbero essere considerate attività differibili e, quindi, da far rientrare in quelle da sospendere, laddove non sia possibile svolgerle in modalità remota.
Non è un caso, infatti, come sopra evidenziato, che correttamente il legislatore abbia espressamente indicato una fattispecie derogatoria nell’ambito della gestione privatistica del rapporto di lavoro, come la disposta sospensione dei termini nell’ambito del procedimento disciplinare.
Tale sospensione, peraltro, alla luce di quanto sopra osservato, incide esclusivamente sui termini perentori del procedimento disciplinare, come normativamente individuati, successivi al termine di contestazione degli addebiti e su quello di conclusione del procedimento disciplinare, non potendo, quindi, produrre effetti espansivi sui termini interni del procedimento disciplinare (infra-procedimentali) che, infatti, presentano dichiarato carattere ordinatorio o sollecitatorio, la cui violazione, quindi, non determina la decadenza del potere di provvedere, ancorché potrebbe produrre effetti di responsabilità per ritardo od omissione.
La sospensione dei termini, poi, non determina una nuova decorrenza integrale degli stessi, effetto proprio dell’interruzione, bensì la ripresa del decorso del termine a conclusione del periodo temporale di sospensione.

Lavoro presso il Comune di … - Servizio "Risorse Umane". Con ordinanza della Regione Lazio del 19.03.2020 il Comune di … è stato dichiarato "zona rossa". Gli uffici comunali, pertanto, sono stati chiusi ed i dipendenti lavorano in modalità smart working.
Quesito: spetta ai dipendenti che lavorano in smart working il riconoscimento dei buoni pasto?

Con riferimento al quesito posto, si ritiene che, nella modalità di esecuzione della prestazione lavorativa mediante il cd. "lavoro agile”, come anche con la diversa forma del “telelavoro”, non sia ammissibile l’erogazione di alcuna indennità sostitutiva della mensa o buono pasto, in quanto, data la particolare forma erogativa della prestazione lavorativa, che non impone la presenza fisica del dipendente sul posto di lavoro, non sussistono le ragioni, né i presupposti per il legittimo riconoscimento di tale istituto il quale, infatti, presuppone, quale condicio sine qua non, che il lavoratore beneficiario sia presente in servizio, operando in modalità di presenza fisica sul luogo di lavoro. Non avrebbe, infatti, alcuna utilità l’erogazione di tale beneficio economico laddove il dipendente, operando presso la propria sede di attività, normalmente il luogo di residenza o di domicilio, potesse agevolmente attendere ai normali processi fisiologici previsti dal ciclo circadiano, tra i quali l'ordinaria consumazione dei pasti (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.04.2020).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAncora incertezze applicative sulla normativa emergenziale per il rapporto di lavoro pubblico.
I quesiti posti dalle amministrazioni pubbliche in materia di gestione del rapporto di lavoro, così come influenzata dalla normativa emergenziale adottata per impedire la diffusione pandemica del virus COVID-19, riguardano anche la corretta perimetrazione della predetta normativa d’emergenza.
Insomma, i dubbi riguardano la possibilità che, in un contesto di difficoltà ad assumere decisioni di riassetto organizzativo, specialmente in quelle realtà che presentavano criticità già prima di questa fase emergenziale, possano non essere applicate alcune disposizioni in materia di incompatibilità o di conflitto di interessi.
Ciò sulla base dell’assunto che non sarebbe possibile assumere decisioni diverse, attesa le situazioni di difficoltà rese ancora più palesi dalla realtà emergenziale in atto. Altri quesiti attengono al corretto utilizzo di alcuni istituti di gestione ordinaria del rapporto di lavoro nell’attuale contesto emergenziale.
Di seguito vengono fornite le risposte ad una selezione di quesiti.

In un comune ci sono 6 posizioni dirigenziali e solo due dirigenti in servizio, tant'è che anche il Segretario è incaricato, in via eccezionale, della responsabilità di alcuni settori. Non ci sono, al momento, altre soluzioni organizzative.
In vista di una rimodulazione degli incarichi, possibile ma non ora, vista la situazione di emergenza, un dirigente può astenersi dallo svolgimento dell’incarico di direzione della esecuzione di contratti con una società in house nei confronti della quale svolge anche il controllo analogo sulla base di una presunta commistione tra controllore e controllato e, comunque, di conflitto in base al DLgs 39/2013.

Preliminarmente non è chiara quale sia la norma che viene invocata per rappresentare la presunta incompatibilità, se non il rinvio ad un generico conflitto tra controllore e controllato e al Dlgs 39/2013. Se il riferimento è l’art. 9, comma 1, del Dlgs 39/2013, la norma fa riferimento ad eventuali incarichi assunti dal dirigente nell’ente di diritto privato nei confronti del quale svolge il controllo analogo.
Nel caso specifico, sia il controllo analogo che la direzione dell’esecuzione del contratto sono espletati nell’interesse dell’amministrazione che conferisce l’incarico dirigenziale, per cui non sembra sia possibile rinvenire, neanche attraverso una interpretazione analogica, una posizione di potenziale conflitto. Qualora fosse presente, invece, un aspetto di incompatibilità in base al quale il dirigente invoca il diritto di astenersi, non sarebbe possibile soprassedere rispetto all'eventuale profilo di incompatibilità; ciò anche qualora si sia in presenza di problemi organizzativi, quali l’assenza di altre posizioni dirigenziali, oppure in considerazione della fase di straordinaria emergenza che stiamo attraversando.
Infatti, le norme emergenziali non introducono deroghe espresse al quadro ordinamentale che regola la materia, per cui tali disposizioni, avendo natura imperativa ed inderogabile, in assenza di norme che fanno eccezione ai relativi principi, sarebbero da intendersi pienamente operanti, non ammettendo deroghe.

Come deve essere giustificata nel portale l'attività del dipendente in modalità agile considerato che ovviamente non può timbrare?
Ciascun dirigente, nel rispetto della disciplina normativa e contrattuale vigente, deve adottare atti datoriali che disciplinino gli aspetti di tipo organizzativo ed i profili attinenti al rapporto di lavoro svolto in modalità agile.
L’esercizio del potere di controllo sulla presenza in servizio del lavoratore agile, quindi, deve essere regolato con riguardo al risultato della prestazione, in termini sia qualitativi, che quantitativi, in relazione alle priorità definite dai dirigenti, i quali eserciteranno il potere di controllo diretto sui dipendenti smart workers ad essi assegnati, organizzando, per essi, una programmazione settimanale-quindicinale delle priorità e, conseguentemente, degli obiettivi lavorativi di breve-medio periodo da perseguire, esercitando, pertanto, il relativo monitoraggio dinamico ed il conseguente controllo sullo stato di realizzazione.
Il lavoro agile determina lo svolgimento della prestazione lavorativa secondo nuove modalità spazio-temporali che non consentono un controllo della presenza del dipendente sul posto di lavoro, secondo le modalità classiche previste per la presenza in ufficio.
Siamo di fronte ad un quadro normativo che richiede, infatti, un cambio culturale e di approccio all’organizzazione del lavoro il quale presuppone, da parte del dirigente, una conoscenza dei processi presidiati e dei risultati che tali processi sono in grado di restituire; solo in questo modo il nuovo paradigma può prevedere una diversa modalità di verifica della prestazione lavorativa, ancora fortemente condizionata dall’orario di lavoro e dalla rilevazione della presenza secondo sistemi automatizzati.
La disciplina datoriale da attivare deve, quindi, spingersi a dare piena legittimità a tali strumenti e presuppone che, chi è posto alla direzione di una struttura, sia in grado di valutare i risultati prodotti dalle risorse umane a disposizione e, per questo, ovviamente occorre che si conoscano i processi che devono essere presidiati. Spesso le incertezze applicative ed i ritardi rappresentano il chiaro sintomo della difficoltà ad individuare ed affidare ai lavoratori obiettivi lavorativi chiari.
Vi sono alcune amministrazioni, d’altronde, che consentono l’accesso da remoto all’applicativo di rilevazione delle presenze al lavoro, attraverso il quale il dipendente è “tenuto” a comunicare che si trova attivo in servizio in modalità remota; questo approccio è utile ai fini delle determinazione della posizione giuridica del lavoratore in ciascuna giornata di lavoro (in servizio, in ferie, in permesso, in congedo, in recupero, etc.) e dei riflessi che la stessa può presentare sotto il profilo economico, ma non potrà spingersi a rilevare l’orario di inizio e di conclusione della prestazione lavorativa, in quanto sarebbe una rilevazione non controllabile come, invece, avverrebbe con la presenza fisica sul luogo di lavoro, né, d’altra parte, coglierebbe lo spirito stesso di tale modalità operativa, finalizzata alla migliore conciliazione dei tempi lavorativi con quelli familiari.

La misura dei congedi parentali COVID-19 per il pubblico impiego è di 15 gg?
L'art 25, Dl 18 del 17.03.2020 dice "...per tutto il periodo della sospensione ivi prevista...": il riferimento è al decreto del PCM del 4 marzo e quello sospendeva l’attività didattica fino al 15 marzo. Comunque, da dove si desume la possibilità di fruirne fino alla riapertura delle scuole?
I congedi possono essere fruiti anche a ore, come per la disciplina ordinaria che ne permette la frazionabilità?

Il richiamo al Dpcm 04.03.2020 deve ritenersi quale riferimento dinamico alle previsioni dei Dpcm che, successivamente a quello del 04.03.2020, hanno prorogato la sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e dell’attività didattica in presenza nelle scuole di ogni ordine e grado.
In particolare, il Dpcm 08.03.2020 ha introdotto la sospensione per le zone “rosse” ivi individuate e il successivo Dpcm 09.03.2020 ha esteso tale sospensione a tutto il territorio nazionale fino al 03.04.2020. Il congedo, cui fa riferimento l’art. 25 del Dl 18/2020, è quello previsto dall’art. 23 dello stesso decreto-legge, in quanto espressamente richiamato (“hanno diritto a fruire dello specifico congedo e relativa indennità di cui all’articolo 23, commi 1, 2, 4, 5, 6 e 7”).
Si tratta, quindi, dell’estensione, ai lavoratori del settore pubblico, di quanto previsto dall’art. 23 del ripetuto Dl 17.03.2020, n. 18, per i lavoratori del settore privato. I 15 giorni di congedo previsti dalla disposizione richiamata possono essere fruiti nel periodo di sospensione previsto dai Dpcm citati, fermo restando che si auspica, in sede di conversione del decreto-legge, un allineamento sia sotto il profilo temporale che in termini del numero di giorni di congedo che, al momento, sono prescritti nel numero massimo di 15.
Sul punto è intervenuto, in un primo momento, l’Inps con messaggio n. 1281 del 20.03.2020 precisando che “si tratta di un congedo straordinario di massimo 15 giorni complessivi fruibili, in modalità alternativa, da uno solo dei genitori per nucleo familiare, per periodi che decorrono dal 5 marzo al 3 aprile”, senza fornire, tuttavia, il supporto normativo alla definizione di tale periodo.
Si deve ritenere che la frazionabilità ad ore del congedo non sia possibile, in quanto l’unico riferimento contenuto nell’art. 23 del ridetto decreto-legge prevede la possibilità di utilizzare i 15 giorni in modo continuativo o frazionato, ma tale ultima formulazione non sembra riferirsi alla frazionabilità ad ore del congedo, bensì alla divisione in singole o plurime giornate del periodo complessivo di 15 giorni previsto dalla norma.
Manca, altresì, un espresso riferimento al Dlgs 151/2001, come, viceversa, avviene all’art. 24, Dl 18/2020 per i permessi di cui all’art. 33, comma 3, legge 104/1992, per cui non sembrerebbe trattarsi di un’estensione dei congedi parentali ivi previsti, che ne avrebbe legittimato la fruibilità ad ore anche per il richiamo effettuato dall’art. 43 del Ccnl 21.05.2018., bensì è più attendibile ritenere che l’istituto presenti una propria autonoma configurazione legale, computata, secondo la norma che lo disciplina, a giornate e non frazionabile ad ore di utilizzo.

Relativamente al congedo parentale straordinario di 15 giorni, introdotto dall'art. 25 del Decreto Cura Italia, si chiede:
   1) i 15 giorni sono fruibili per ogni figlio, oppure sono complessivi? (ad esempio nel caso di 2 figli, il congedo è pari a 30 giorni? oppure è pari a 15 giorni a prescindere dal numero dei figli?)
   2) nel caso in cui il dipendente (che lavora su 5 giorni settimanali - dal lunedì al venerdì) usufruisca di un periodo continuativo di congedo parentale straordinario, senza riprendere servizio, in detto periodo devono essere conteggiati anche il sabato e la domenica?

Relativamente al primo quesito si deve ritenere che trattasi di un periodo complessivo di 15 giorni di congedo straordinario spettante indipendentemente dal numero dei figli di età fino ai 12 anni o di età superiore, se affetti da disabilità in situazione di gravità accertata secondo le disposizioni della legge 104/1992.
Fermo restando che, per espressa previsione dell’art. 23, è consentita la fruibilità frazionata a giornata (e non ad ore), quindi non continuativa, si deve ritenere, in applicazione di una regola generale applicabile a tali tipologie di congedi, che i periodi di assenza, nel caso di fruizione continuativa, comprendono anche gli eventuali giorni festivi o non lavorativi che ricadano all’interno degli stessi.
Tale modalità di computo trova applicazione anche nel caso di fruizione frazionata, ove i diversi periodi di assenza, giornalieri o plurigiornalieri, non siano intervallati dal ritorno al lavoro del lavoratore o della lavoratrice. Ciò si desume anche dalla particolare modalità retributiva di tale periodo di congedo (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.04.2020).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPremio 100 euro per lavoro in sede durante epidemia coronavirus.
Domanda
Come va riproporzionato il premio dei 100 euro secondo l’Agenzia delle Entrate?
Risposta
Le indicazioni fornite dall’Agenzia delle entrate nella circolare 03.04.2020 n. n. 8/E, sono congruenti con il disposto di cui all’art. 63 del decreto cura Italia anche se trascurano dettagli rilevanti.
La previsione di fonte legale dispone che ai titolari di redditi di lavoro dipendente, che possiedono un reddito complessivo da lavoro dipendente dell’anno precedente di importo non superiore a 40.000 euro spetta un premio, per il mese di marzo 2020, pari a 100 euro da rapportare al numero di giorni di lavoro svolti nella propria sede di lavoro nel predetto mese.
La ratio dell’istituto, come confermato dall’Agenzia, è quella di dare ristoro ai dipendenti che hanno continuato a lavorare nel mese di marzo, senza poter adottare, quale misura di prevenzione, quella del lavoro agile da remoto.
È del tutto evidente che della medesima ratio va tenuto conto anche qualora siano intervenute, nel corso del mese di marzo, assenze che di fatto abbiano allontanato il lavoratore dal rischio di contagio.
L’agenzia delle Entrate, nel fornire la formula per il riproporzionamento complica la comprensione con un suggerimento che rischia di essere frainteso se non letto con molta attenzione.
Conferma che l’importo del bonus va determinato in ragione del periodo di lavoro durante il quale il dipendente presta effettivamente l’attività lavorativa presso la propria sede, escludendo quindi le giornate nelle quali, ad esempio, è stato in malattia, ferie o altra aspettativa senza corresponsione di assegni.
L’istruzione è quella di non considerare nel rapporto le giornate di assenza di ferie o malattia, togliendole quindi sia al numeratore che al denominatore.

Esempio
Per esemplificare, immaginiamo che un lavoratore abbia goduto di 6 giorni di ferie nel mese di marzo:
Il rapporto iniziale da cui partire è quello tra i 100 euro mensili e le 26 giornate lavorative (divisore previsto dal CCNL degli Enti Locali). Il rapporto, nel suo risultato, restituisce il valore giornaliero del premio, per ciascuna giornata di servizio resa in presenza (3,85 euro).
Secondo l’Agenzia delle entrate, questo rapporto deve tenere conto di sei giorni di ferie, escludendole, non considerandole, sia dal numeratore che dal denominatore. Il rapporto diventa quindi:

Il risultato al quale conduce questa operazione in relazione alla determinazione dell’importo del premio giornaliero, è uguale a quello che si avrebbe avuto nel caso in cui si fosse moltiplicato il valore giornaliero del premio (3,85 euro) per il numero di giorni di effettiva presenza, ad esclusione ovviamente delle ferie, dove non c’è presenza fisica in sede.
Dove invece l’istruzione risulta essere incompleta e poco precisa è nell’elenco delle assenze che escludono dal diritto di vedersi riconosciuto il valore del premio. L’Agenzia invita a non considerare solo i periodi di malattia, ferie e aspettative non retribuite, dimenticando di fare un cenno a tutti gli istituti che di fatto, retribuiti o meno che siano, giustificano l’assenza dal servizio reso in presenza, dei lavoratori.
Il buon senso e l’analogia interpretativa, nel rispetto della
ratio legis, coprono il vuoto e conducono ad una soluzione facile e condivisa. Ogni assenza fisica dal servizio non dà diritto, per quella giornata, a ricevere il premio, sia essa di origine contrattuale che di fonte legale.
Ragione per cui si ritiene che lo smart working, così come i congedi ex art. 25 d.l. 18/2020, i permessi ex art. 24 d.l. 18/2020 e ogni altro istituto a giustificazione di un’assenza giornaliera, non debbano essere considerati nel rapporto, né al numeratore, né al denominatore.

Esempio
Marzo 2020: 6 gg. ferie + 3 gg. L. 104/1992 + 4 gg. smart working
Pari risultato si sarebbe ottenuto molto più semplicemente con la regola suggerita nel n. 7/2020 di Personale News:
Posto che, come previsto dal CCNL, la retribuzione giornaliera è calcolata su 26 giornate mensili, la quota potrà essere erogata secondo la seguente formula:
100/26*giornate lavorate in sede nel mese di marzo 2020

Nell’esempio fatto poco sopra:

Rimangono perplessità circa l’impossibilita che ne deriva da questo calcolo, di riconoscere per intero il premio dei 100 euro, al lavoratore il cui orario di lavoro sia articolato in 5 giorni settimanali e non 6.
Il divisore mensile dei 26 giorni non garantisce mai il premio intero, nemmeno laddove sia stato lavorato tutto il mese.
Si ritiene pertanto legittimo utilizzare un divisore diverso, nel caso in cui l’articolazione dell’orario di lavoro preveda 5 giorni lavorativi, che corrisponde a 22 giorni mensili. Questo consente di riconoscere per intero il premio come la norma di legge prescrive (09.04.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOI dubbi delle amministrazioni pubbliche sull'applicazione della normativa emergenziale.
La situazione di emergenza nazionale generata dalla diffusione pandemica del virus COVID-19 sta ponendo gli operatori delle amministrazioni pubbliche di fronte a diversi quesiti, anche non strettamente legati alla normativa d’urgenza adottata dal Governo, che, tuttavia, in questa particolare situazione di difficoltà, presentano profili peculiari in ordine all’applicazione degli istituti cui detti quesiti sono riconducibili.
Dalle diverse questioni che vengono segnalate, cui di seguito viene dato riscontro, emerge che il datore di lavoro pubblico, da un lato, si trova a dover affrontare problematiche completamente nuove e, dall’altro lato, si trova a dover gestire tematiche, come la costituzione e l’utilizzo del fondo delle risorse decentrate, sempre attuali ed inalienabili, che la difficile situazione operativa, in cui gli enti si dibattono, non consente di accantonare proprio per la finalizzazione al finanziamento dei trattamenti economici accessori del personale dipendete che, mai come in questa fase, meritano un’oculata ed attenta gestione.

È possibile per il dipendente rifiutarsi di recarsi sul luogo di lavoro in assenza della individuazione dei servizi indifferibili che richiedono la presenza fisica sul luogo di lavoro?
L’articolo 87 del DL 17.03.2020 n. 18 introduce la previsione secondo la quale nelle amministrazioni pubbliche la modalità ordinaria di espletamento della prestazione lavorativa è il lavoro agile.
Da questa disposizione discende che in nessun caso le amministrazioni pubbliche possono tenere sul luogo di lavoro un dipendente per la cui prestazione lavorativa non sia indispensabile la presenza sul luogo di lavoro. Il dipendente pubblico può non recarsi sul luogo di lavoro senza temere sanzioni giacché di fronte all’inadempimento del datore di lavoro del suo obbligo di motivare la ragione della sua presenza fisica (che costituisce una eccezione), può opporre una eccezione di inadempimento ex art. 1460 Cc rifiutandosi di lavorare in una situazione di pericolo riconosciuta dalla legge.
Si ricorda che l’art. 2087 Cc, applicabile a tutti datori di lavoro, pubblici e privati, impone l’adozione delle misure che, “secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Nella straordinaria situazione emergenziale in corso vengono in evidenza non tanto i rischi specifici del singolo luogo di lavoro quanto il rischio generale di diffusione pandemica del virus COVID-19 che incombe su tutta la comunità nazionale e nel contempo riguarda i singoli luoghi di lavoro.
Per cui con l’articolo 87, Dl 18/2020 si è voluto fornire uno strumento per prevenire tali rischi di propagazione, obbligando i datori di lavoro pubblici a non richiedere la presenza fisica, tranne nei casi in cui, motivatamente, si tratti di prestazioni indifferibili che non possono essere svolte in modalità agile; è l’amministrazione che deve, quindi, espressamente motivare le ragioni della presenza fisica sul luogo di lavoro, per cui, in assenza di questo apparato motivazionale, le prestazioni lavorative devono essere svolte in remoto.

In regime di limitazioni da coronavirus, dovendo provvedere, comunque, alla costituzione del fondo per le risorse decentrate per l'anno 2020 chiedevo se era più corretto integrare il fondo di parte variabile dell’1,2% su base annua del monte salari dell’anno 1997, esclusa la quota relativa alla dirigenza, così come richiesto dalle parti sindacali, e successivamente operare la decurtazione di cui all’articolo 23, comma 2, Dlgs 75/2017 per il rispetto del limite 2016, oppure se, in sede di contrattazione, si debba già definire una percentuale inferiore al fine di restare all'interno del tetto 2016 considerando che non è sempre facile da quantificare?
In relazione al quesito posto, si ritiene che sia più corretto integrare il fondo con l’entità di risorse aggiuntive di parte variabile, ai sensi dell’articolo 67, comma 4, del Ccnl 21.05.2018, sino a concorrenza del limite imposto dall’articolo 23, comma 2, Dlgs 75/2017.
Mentre la parte stabile, infatti, mantiene la sua dimensione economica consolidata che viene riportata anno per anno, la parte variabile del fondo risponde ad esigenze di utilizzo ulteriori rispetto all’ordinario impiego delle risorse stabili, assecondando, di fatto e giuridicamente, fabbisogni integrativi di risorse in funzione di fronteggiare esigenze specifiche di funzionamento, anche correlate a particolari obiettivi gestionali che possano consentire, altresì, il mantenimento di servizi e/o di standard erogativi (articolo 67, comma 5, lett. b), dello stesso Ccnl).
Poiché, pertanto, l’aggregazione delle risorse variabili risponde a necessità produttive modificabili nel tempo, a differenza delle risorse stabili, la cui composizione è consolidata ed immutabile nel tempo, se non per le componenti a formazione dinamica (es. lett. c) del comma 2 del medesimo articolo 67), si ritiene non ammissibile che i flussi di composizione di tale parte del fondo prescindano da un’attenta valutazione degli effettivi fabbisogni cui corrispondere in termini di finanziamento, determinando, in tal modo, comportamenti indebiti o elusivi, come un ingiustificato incremento di risorse variabili, pur nel limite massimo previsto dalle vigenti clausole contrattuali, su cui operare, successivamente, una riduzione di livellamento imposta dal ripetuto articolo 23, comma 2, Dlgs. n. 75/2017.
Appare, pertanto, maggiormente coerente con le norme contrattuali e con i principi ordinamentali di finanza pubblica che regolano questi particolari profili gestionali, integrare la parte variabile del fondo mediante l’impiego del fattore compositivo in questione nell’entità concretamente necessaria per arginare le nuove necessità di incremento finanziario del fondo, anche laddove tale valore risulti inferiore al limite massimo di aumento consentito dalle vigenti clausole contrattuali nazionali.

Quale è l'autorità competente (competenti organi medico legali) a rilasciare la certificazione ex articolo 26, co. 2, Dl 18/2020 per i dipendenti pubblici in possesso del riconoscimento di disabilità con connotazione di gravità?
Inoltre l'estensione dei 12 giorni ulteriori di permessi ex lege 104/1992 riguarda soltanto i dipendenti che assistono persone con disabilità grave oppure anche i disabili stessi con connotazione di gravità?

Con riferimento alle questioni poste, si esprime il seguente avviso.
In relazione al primo quesito formulato si ritiene che l’autorità competente ai sensi delle previsioni dettate dall’articolo 26, comma 2, del Dl 17.03.2020, n. 18, sia da individuarsi nelle strutture legali dell’azienda sanitaria locale competente, anche in conformità alle prescrizioni di cui all’articolo 4, Legge 104/1992, la quale, ai fini del riconoscimento della situazione di handicap, testualmente dispone, con espresso riferimento alla connotazione di cui all’articolo 3 della stessa legge, che gli accertamenti relativi alla minorazione, alle difficoltà, alla necessità dell'intervento assistenziale permanente e alla capacità complessiva individuale residua sono effettuati dall'unità sanitaria locale competente mediante l’utilizzo di apposite commissioni mediche costituite ai sensi dell’articolo 1, comma 2, Legge 295/1990, opportunamente integrate da specialisti o esperti individuati, in relazione alle fattispecie da esaminare, tra il personale in servizio presso le stesse unità sanitarie locali.
Con riferimento al secondo quesito posto, inoltre, si ritiene che la fruizione dell’estensione temporale dell’istituto di cui all’articolo 33, comma 3, Legge 104/1992 disposto dall’articolo 24, comma 1, Dl 17.03.2020, n. 18, debba essere riconosciuta in attuazione delle medesime modalità applicative che regolano l’impiego di tale istituto legale, come recate dal richiamato articolo 33, comma 3.
L’intervento delle misure di urgenza operato con il citato articolo 24, comma 1, infatti, determina una mera estensione temporale del possibile godimento del beneficio, non mutandone, pertanto, la configurazione giuridica e la conseguente portata applicativa che, infatti, restano immutate in quanto connesse al medesimo istituto legale.
Da ciò discende, pertanto, che tale ampliamento dell’entità fruibile del permesso in questione non attenga esclusivamente all’assistenza di terzi disabili, come indicati dal comma 3 dell’articolo 33, Legge 104/1992, bensì afferisca anche all’ipotesi in cui il beneficiario, lavoratore dipendente, sia esso stesso il destinatario dell’assistenza fornita, in applicazione delle previsioni recate dal comma 6 del medesimo articolo 33 (cfr.: "6. La persona handicappata maggiorenne in situazione di gravità può usufruire alternativamente dei permessi di cui ai commi 2 e 3 (…)”).
Tale posizione, infatti, appare fatta propria anche dalla recente circolare Inps n. 45 del 25 marzo u.s., con la quale l’Istituto previdenziale, fornendo istruzioni sulla cumulabilità dell’astensione dal lavoro, riconosce espressamente la fruibilità di tale estensione temporale del permesso anche a beneficio dello stesso lavoratore disabile (cfr.: “(…) il lavoratore disabile che assiste altro soggetto disabile, potrà cumulare, per i mesi di marzo e aprile 2020, i permessi a lui complessivamente spettanti (3+3+12) con lo stesso numero di giorni di permesso fruibili per l’assistenza all’altro familiare disabile (3+3+12).”) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'08.04.2020).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Informatizzazione della P.A..
Questo Comune si trova ad avere personale dipendente senza dispositivi elettronici nella propria abitazione. L'Amministrazione dal canto suo non è in grado, per motivi finanziari e tecnici, di dotare tutto il personale di adeguata strumentazione, almeno per il momento. Qualora sia obbligatorio consentire lo "smart working" che tipo di attività potrebbero essere svolte dal personale?
Il D.L. 17.03.2020, n. 18 "Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19" all'art. 87 stabilisce che, fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica (al momento il 31 luglio, salvo anticipazione o proroga) il lavoro agile è la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni.
Tale modalità prescinde dalla tipologia di lavoro svolta dal dipendente (tramite postazione informatica o meno).
Infatti lo stesso decreto stabilisce che la prestazione lavorativa in lavoro agile può (non deve) essere svolta anche attraverso strumenti informatici nella disponibilità del dipendente implicitamente ammettendo, oltre alla ovvia opzione che sia svolta con dotazioni informatiche assegnate dall'ente, che possa svolgersi anche senza alcuna dotazione informatica (o con dotazioni con connesse alla rete internet).
Il Ministro per la pubblica amministrazione ha adottato la Circ. 01.04.2020 n. 2 nella quale ha precisato che "È altresì possibile -anzi è auspicabile che le amministrazioni si attivino in tal senso- promuovere percorsi informativi e formativi in modalità agile che non escludano i lavoratori dal contesto lavorativo e dai processi di gestione dell'emergenza, soprattutto con riferimento a figure professionali la cui attività potrebbe essere difficilmente esercitata in modalità agile e per le quali l'attuale situazione potrebbe costituire un momento utile di qualificazione e aggiornamento professionale". Con ciò invitando a valutare, prima di disporre un eventuale esonero dallo svolgimento di prestazione lavorativa, l'attivazione di percorsi di formazione ed informazione del personale dipendente.
Poi, è stato siglato il protocollo 03.04.2020 tra il ministro per la Pubblica amministrazione e Cgil, Cisl e Uil per la "prevenzione e la sicurezza dei dipendenti pubblici in ordine all'emergenza sanitaria da 'Covid-19'" nel quale si esplicita questo aspetto segnalando come, "in linea con quanto recato dalla richiamata circolare n. 2/2020, qualora non sia possibile ricorrere alle forme di lavoro agile, le amministrazioni, fermo restando l'eventuale ricorso alle ferie pregresse maturate fino al 31.12.2019, ai congedi o ad analoghi istituti qualora previsti dai CCNL vigenti, nonché, ove richiesto dai dipendenti, dei congedi parentali straordinari previsti a garanzia delle cure genitoriali da prestare, possono ricorrere, nelle modalità previste dai vigenti CCNL, al collocamento in attività di formazione in remoto utilizzando pacchetti formativi individuati dal datore di lavoro".
Alla luce di tale contesto e dei chiarimenti indicati qualora la prestazione lavorativa sia attivabile in lavoro agile (secondo una analisi oggettiva che escluda una presenza fisica in ufficio), l'eventuale mancanza (permanente o temporanea) di dotazione informatica non impedisce la relativa attivazione, ma determina un onere in carico al datore di lavoro di definire le modalità operative più idonee per svolgere altre e diverse prestazioni lavorative (sempre proprie della mansione) a cui affiancare attività di informazione e formazione.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.C.M. 22.03.2020, art. 1
Documenti allegati
Circ. 01.04.2020 n. 2 (08.04.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCoronavirus: ancora dubbi ed incertezze degli Enti sull'applicazione di norme ed istituti introdotti dalla legislazione d'urgenza.
Tra le diverse problematiche che si presentano all’attenzione degli operatori, strettamente legate alla straordinaria situazione emergenziale che stiamo vivendo e alle misure adottate dal Governo per farvi fronte e che impattano sulla gestione del rapporto di lavoro, alcune riguardano le misure di sostegno ai lavoratori pubblici per l’impatto sulla gestione e l’organizzazione familiare delle misure di limitazione alla circolazione e altre il comportamento dei datori di lavoro di fronte a sintomi che il lavoratore possa presentare e che richiedono particolare attenzione, sia sotto il profilo della salute dei singoli, che sulla diffusione epidemiologica del COVID-19.
Di seguito vengono fornite le risposte a due tra i più significativi quesiti:

Sono a chiedere quanto segue in merito all'art. 24 (Estensione durata permessi retribuiti ex art. 33, legge 104/1992), recante: 1. Il numero di giorni di permesso retribuito coperto da contribuzione figurativa di cui all’articolo 33, comma 3, della legge 05.02.1992, n. 104, è incrementato di ulteriori complessive dodici giornate usufruibili nei mesi di marzo e aprile 2020.
A tal proposito, UnionCamere ha affermato che si tratta di permessi solo a giorni (non ad ore in mancanza di diversa esplicita indicazione) considerato il dato letterale; sul punto l'Inps afferma che possono essere anche permessi ad ore.
Ad avviso dello scrivente, le ragioni che, in modo sintetico, sono a favore della tesi di UnionCamere sono le seguenti:
   a) il dato letterale del DL 18/2020;
   b) la previsione ad ore non è fatta dalla legge 104/1992 ma dai contratti collettivi nazionali di lavoro;
   c) in occasione del lavoro agile (quale ordinario modo di lavoro nelle pubbliche amministrazioni durante l'emergenza epidemiologica) non è consentita la riduzione oraria del lavoro per chi ha senso la previsione dei permessi a giorni;
   d) anche qualora vi fosse la necessità del lavoro in presenza, la previsione a giorni e non ad ore dell'istituto de quo risponde alla logica di scoraggiare lo "spezzettamento" del tempo tra lavoro e casa, ma intende agevolare l'allontanamento dalla sede di lavoro (quindi intera giornata) favorendo l'isolamento per evitare i contatti interpersonali.
Con riguardo alla questione posta, occorre fare riferimento alla disposizione di cui all’art. 24, Dl 17.03.2020, n. 18, che testualmente recita: ”1. Il numero di giorni di permesso retribuito coperto da contribuzione figurativa di cui all'articolo 33, comma 3, Legge 104/1992, è incrementato di ulteriori complessive dodici giornate usufruibili nei mesi di marzo e aprile 2020”.
La disposizione legislativa d’urgenza, pertanto, ha inteso estendere la portata temporale dell’istituto di cui al richiamato art. 33, comma 3, Legge 104/1992, il quale prevede che "3. A condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno, il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa. Il predetto diritto non può essere riconosciuto a più di un lavoratore dipendente per l’assistenza alla stessa persona con handicap in situazione di gravità. Per l’assistenza allo stesso figlio con handicap in situazione di gravità, il diritto è riconosciuto ad entrambi i genitori, anche adottivi, che possono fruirne alternativamente. Il dipendente ha diritto di prestare assistenza nei confronti di più persone in situazione di handicap grave, a condizione che si tratti del coniuge o di un parente o affine entro il primo grado o entro il secondo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i 65 anni di età oppure siano anch'essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti”.
La configurazione legale dell’istituto, pertanto, si sviluppa sul periodo temporale giornaliero assunto a riferimento per la legittima fruizione dello stesso.
Su tale periodo di godimento, poi, per l’area contrattuale delle Funzioni Locali, nella quale sono annoverate anche le Camere di Commercio, è intervenuto l’articolo 33, comma 1, del recente Ccnl 21.05.2018, il quale ne ha facoltizzato l’impiego anche su periodo orario, frazionando le giornate legalmente prescritte. La clausola contrattuale, infatti, dispone che "1. I dipendenti hanno diritto, ove ne ricorrano le condizioni, a fruire dei tre giorni di permesso di cui all' art. 33, comma 3, della Legge 104/1992. Tali permessi sono utili ai fini delle ferie e della tredicesima mensilità e possono essere utilizzati anche ad ore, nel limite massimo di 18 ore mensili.”.
Definito il quadro giuridico che regola la materia, si ritiene che il combinato delle due disposizioni riportate operi una mera estensione del periodo temporale di fruizione dell’istituto, come legalmente previsto, con conseguente e corrispondente ampliamento delle modalità applicative dell’istituto come delineate nei diversi ambiti di operatività dell’istituto stesso.
In altri termini, dunque, la disposizione d’urgenza varata dal Governo interviene non tanto modificando l’istituto del permesso retribuito o introducendo un nuovo e diverso istituto giuridico dallo stesso distinto e dotato di autonoma regolazione, bensì opera ampliando il periodo temporale di utilizzo dello stesso, integrandone la portata legale di ulteriori 12 giornate complessive per i soli mesi di marzo ed aprile 2020.
Se tant'è, pertanto, non si ravvisa ragione alcuna per non consentirne la fruizione con le stesse modalità che, per singolo comparto di contrattazione, la fonte negoziale ha introdotto, nel caso di specie frazionando il periodo giornaliero ad ore. Infatti, a ben vedere, le motivazioni che si portano a suffragio dell’inapplicabilità frazionata dell’istituto sono così indicate nel quesito:
   a) il dato letterale recato dall’articolo 24 si limita ad estendere la portata legale del permesso, non intervenendo, ma neppure impedendo, la sua fruizione oraria, se consentita da altra fonte normativa;
   b) la circostanza che la fruizione oraria sia stata affidata alla fonte negoziale non vale, certamente, a smentirne l’applicazione riguardo all’estensione temporale del medesimo istituto operata dalla legge;
   c) nell’ambito della modalità di fornitura della prestazione in smart working, la particolare modalità con la quale si sviluppa l’attività lavorativa è compatibile sostanzialmente con tutti gli istituti di assenza giustificata dal lavoro, anche computata ad ore, al pari del lavoro in presenza, a meno che si tratti di un numero di ore talmente limitato da poter essere riassorbito nell’ambito della flessibilità propria della modalità di lavoro agile (cfr., al riguardo, il num. 3.
Aspetti organizzativi, gestione del rapporto di lavoro e relazioni sindacali, lett. D) - Disciplina interna, num. 14, della direttiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri 01.06.2017, n. 3 in materia di regolazione dello smart working e del telelavoro, il quale rimette all’autonomo potere datoriale dell’ente la disciplina di diversi aspetti applicativi dell’istituto, in particolare: “14. fermo restando il divieto di discriminazione, previsione dell’eventuale esclusione, per effetto della distribuzione flessibile del tempo di lavoro, di prestazioni eccedenti l’orario settimanale che diano luogo a riposi compensativi, prestazioni di lavoro straordinario, prestazioni di lavoro in turno notturno, festivo o feriale non lavorativo che determinino maggiorazioni retributive, brevi permessi o altri istituti che comportino la riduzione dell’orario giornaliero di lavoro;”); d) l’estensione temporale di tale particolare permesso retribuito risponde alla chiara ratio di consentire la giustificazione di una maggiore entità temporale di assenza dal lavoro in conseguenza della necessità di accudire il familiare in situazione di gravità conseguente alle significative limitazioni di trasferimento che sono state introdotte dalla legislazione emergenziale, per le quali, infatti, il familiare stesso potrebbe subire una rilevante contrazione di assistenza diretta assicurata da terzi.
In conclusione, pertanto, si ritiene che la fruizione contrattuale ad ore dell’istituto in questione, come introdotta dal detto articolo 33, comma 1, del Ccnl 21.05.2018, sia da estendersi anche all’integrazione temporale dell’istituto stesso, come introdotta dall’articolo 24, comma 1, Dl 18/2010, non risultando sussistenti elementi ostativi alla sua applicazione.

Numerosi colleghi (nel piano in cui operiamo ben oltre la metà) si trovano contemporaneamente in stato di malattia con sintomi comuni quali febbre alta, mal di schiena, in alcuni casi perdita di olfatto e gusto, mal di testa, tosse… alcuni di questi hanno avuto necessità di prolungamento del periodo di congedo oltre le due settimane stante il perdurare dei sintomi.
Ci chiediamo se sia il caso procedere a verifiche sul personale “superstite” al fine di individuare o meglio di escludere la presenza di portatori asintomatici di coronavirus, in caso affermativo a chi e da chi deve essere fatta tale richiesta?

Con riferimento al quesito posto, si ritiene che l’amministrazione, generalmente e fatti salvi casi del tutto eccezionali e marginali, non possa disporre una verifica sulla diagnosi di malattia in cui versi il lavoratore disposta dal medico curante o da altro presidio medico competente.
È, infatti, competenza e responsabilità di quest’ultimo verificare e, conseguentemente, diagnosticare l’eventuale sussistenza di sintomi da COVID-19 manifestati dal lavoratore, attivando, in caso di accertamento positivo, il protocollo medico-sanitario previsto per queste particolari circostanze.
Laddove sussista fondato timore che il dipendente presenti manifestazioni sintomatiche da coronavirus, pertanto, per come rilevabili attraverso l'osservazione esterna o dichiarazioni rese dallo stesso lavoratore e non mediante esame medico, ovviamente interdetto al datore di lavoro, l’amministrazione potrà chiedere l’immediato intervento del medico competente per condurre una prima verifica sulla sussistenza e natura della sintomatologia manifestata e, successivamente, sulla base dell'eventuale positiva diagnosi medica, richiedere, allo stesso medico competente, l’attivazione dell'apposito protocollo sanitario avanti le competenti autorità medico-sanitarie (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.04.2020).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa Corte di giustizia UE precisa a quali condizioni può derogarsi al divieto di affidare incarichi di studio e consulenza a soggetti già collocati in quiescenza.
La Corte di giustizia UE, rispondendo ad una questione pregiudiziale sollevata dal Tar per la Sardegna, precisa a quali condizioni le amministrazioni pubbliche possono assegnare incarichi di studio e di consulenza a persone già collocate in quiescenza (situazione che, nel nostro ordinamento interno, è oggetto dello specifico divieto di cui all’art. 5, comma 9, del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito in legge n. 135 del 2012), alla luce del principio di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro di cui alla direttiva n. 2000/78/CE.
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Amministrazione dello Stato e degli enti pubblici in genere – Riduzione di spesa – Incarichi di consulenza e di studio in favore di lavoratori già collocati in quiescenza – Divieto – Condizioni
La direttiva n. 2000/78/CE del Consiglio, del 27.11.2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, e in particolare l’articolo 2, paragrafo 2, l’articolo 3, paragrafo 1, e l’articolo 6, paragrafo 1, della stessa, dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che vieta alle amministrazioni pubbliche di assegnare incarichi di studio e consulenza a persone collocate in quiescenza purché, da un lato, detta normativa persegua uno scopo legittimo di politica dell’occupazione e del mercato del lavoro e, dall’altro, i mezzi impiegati per conseguire tale obiettivo siano idonei e necessari. Spetta al giudice del rinvio verificare se ciò avvenga effettivamente nella fattispecie di cui al procedimento principale.(1)
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   (1) I. – Con la pronuncia in rassegna, la Corte di giustizia UE si pronuncia sul divieto, imposto alle amministrazioni pubbliche dall’art. 5, comma 9, del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito in legge n. 135 del 2012, di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza.
La questione pregiudiziale era stata rimessa dal Tar per la Sardegna, sezione I, con ordinanza 19.10.2018, n. 881. Il giudice rimettente era chiamato a pronunciarsi sul ricorso, proposto da un dipendente pubblico in pensione, contro l’avviso di manifestazione di interesse, adottato dal Comune di Gesturi, avente ad oggetto l’affidamento di un incarico di studio e di consulenza in materia di igiene.
Tale avviso, in aderenza a quanto previsto dall’art. 5, comma 9, prima parte, del decreto-legge n. 95 del 2012 (a norma del quale “È fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, nonché alle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 2, della legge 31.12.2009, n. 196 nonché alle autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza”), aveva infatti previsto, tra i requisiti di partecipazione, che i soggetti interessati non fossero dipendenti pubblici collocati in quiescenza.
Nell’ordinanza di rimessione veniva sottolineato il possibile contrasto con gli artt. 1 e 2 della direttiva n. 2000/78/CE (“Direttiva del Consiglio che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”), i quali –a giudizio del Tar– “pongono l’obiettivo di combattere ogni forma di discriminazione sia diretta che indiretta (tra cui quella basata sull’età)”, posto che il censurato divieto nazionale “esclude una categoria di persone dalla possibilità di assumere incarichi nell’amministrazione per ragioni essenzialmente correlate all’età (essendo il collocamento in quiescenza determinato dal raggiungimento di una certa anzianità ‘contributiva’ e quindi necessariamente da una proporzionale età anagrafica)”.
Aggiungeva peraltro il Tar che tale discriminazione non poteva nemmeno trovare una adeguata giustificazione ai sensi dell’art. 6 della medesima direttiva (rubricato “Giustificazione delle disparità di trattamento collegate all'età”), non potendosi affermare che la norma nazionale sia diretta ad “assicurare il fisiologico ricambio di personale”: secondo il rimettente, “appare infatti improbabile che un incarico, specialmente se delicato e complesso, che possa essere ben espletato da chi ha per lungo tempo operato nel settore, possa essere conferito ad un soggetto privo della necessaria esperienza”.
In definitiva, quindi, secondo il Tar, la misura del divieto “appare dunque inappropriata rispetto alla scopo” (costituito, evidentemente, dagli obiettivi di risparmio della spesa pubblica, perseguiti dal decreto-legge sulla spending review) “e pertanto inidonea a giustificare la discriminazione”.
   II. – La questione ottiene una risposta parzialmente positiva da parte della Corte di giustizia UE, nel senso che la normativa interna di divieto può considerarsi compatibile con il principio di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro “purché, da un lato, detta normativa persegua uno scopo legittimo di politica dell’occupazione e del mercato del lavoro e, dall’altro, i mezzi impiegati per conseguire tale obiettivo siano idonei e necessari”, spettando peraltro al giudice nazionale verificare, di volta in volta, “se ciò avvenga effettivamente nella fattispecie di cui al procedimento principale”.
Il percorso argomentativo della Corte di Lussemburgo può essere sintetizzato come segue:
      a) in via preliminare, la Corte fuga il dubbio di una (pur prospettata) inammissibilità della questione pregiudiziale, derivante dal fatto che il giudice del rinvio non ha analizzato la questione alla luce del principio della libera prestazione dei servizi; in proposito osserva che:
         a1) una normativa nazionale, applicabile indistintamente ai cittadini tanto italiani quanto degli altri Stati membri, può ricadere, di norma, nella sfera delle disposizioni relative alle libertà fondamentali garantite dal trattato FUE solo in quanto si applichi a situazioni che presentino un collegamento con gli scambi tra gli Stati membri (in tal senso, sono richiamate la sentenza dell’11.06.2015, C-98/14, Berlington Hungary e a., punto 24, in Foro amm., 2015, 1620, solo massime, e l’ordinanza 04.06.2019, Pólus Vegas, C-665/18, punto 17);
         a2) tale situazione non si verifica nel caso di specie, dato che tutti gli elementi della controversia di cui al procedimento principale sono circoscritti all’interno di un solo Stato membro, ossia la Repubblica italiana;
      b) venendo dunque al merito, la Corte anzitutto afferma che il divieto nazionale oggetto della questione pregiudiziale ricade nella sfera di applicazione della direttiva n. 2000/78/CE; ciò, sulla base delle seguenti considerazioni:
         b1) la richiamata direttiva mira a stabilire un quadro generale per garantire a chiunque la parità di trattamento “in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”, assicurando una protezione efficace contro le discriminazioni basate su uno dei motivi indicati nel suo art. 1, tra i quali compare l’età (sono qui richiamate: sentenza 18.06.2009, C-88/08, Hütter, punto 33, in Dir. pubbl. comparato ed europeo, 2009, 1928, con nota di LUBELLO, in Riv. critica dir. lav., 2009, 649, con nota di PERUZZI, ed in Riv. it. dir. lav., 2010, II, 956, con nota di CALAFA`; sentenza 12.10.2010, C-499/08, Ingeniørforeningen i Danmark, punto 19, in Riv. it. dir. lav., 2011, II, 913, con nota di FALSONE, ed in Giur. it., 2011, 2099, con nota di GENTILI);
         b2) l’art. 3, par. 1, lettere a) e c), precisa che la direttiva si applica, nei limiti dei poteri conferiti all’Unione, “a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico”, per quanto attiene, da un lato, “alle condizioni di accesso all’occupazione […] compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione”, e, dall’altro, “all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione” (in tal senso, sentenza Hütter, cit., punto 34, e sentenza 12.01.2010, C-341/08, Petersen, punto 32, in Riv. critica dir. lav., 2009, 931, con nota di BORELLI, in Dir. relazioni ind., 2010, 875, con nota di MONACO, in Riv. giur. lav., 2010, II, 660, con nota di SCHIAVETTI, ed in Dir. mercato lav., 2010, 199, con nota di ALLOCCA);
         b3) qualora una normativa nazionale vieti, in modo generale, alle amministrazioni pubbliche di assegnare incarichi di studio e consulenza alle persone provenienti sia dal settore privato sia dal settore pubblico, per il fatto che esse siano state collocate in quiescenza, essa finisce con l’“escludere dette persone da qualsiasi reclutamento o assunzione”, così incidendo “direttamente sulla formazione del rapporto di lavoro e, a fortiori, sull’esercizio, da parte degli interessati, di determinate attività professionali”; tale normativa nazionale, “pertanto, dev’essere considerata come fonte di norme relative alle condizioni di accesso all’occupazione, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, lett. a), della direttiva 2000/78”;
      c) ciò premesso, la Corte giunge a ritenere che la denunziata normativa nazionale istituisce una differenza di trattamento indirettamente basata sull’età, ai sensi del combinato disposto dell’articolo 1 e dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva n. 2000/78/CE; ciò, sulla base del seguente ragionamento:
         c1) ai sensi dell’art. 2, par. 1, della direttiva, per “principio della parità di trattamento” si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’art. 1 (religione, convinzioni personali, handicap, età, tendenze sessuali), intendendosi per discriminazione diretta la situazione in cui “una persona è trattata in modo meno favorevole di un’altra che si trovi in una situazione analoga” e, per discriminazione indiretta, la situazione in cui “una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone di una particolare età rispetto ad altre persone”;
         c2) nel caso di specie, l’art. 5, comma 9, del decreto-legge n. 95 del 2012, pur non facendo direttamente riferimento ad una determinata età (applicandosi il divieto ivi disposto a qualunque persona collocata in quiescenza, “laddove l’età alla quale queste ultime abbiano potuto godere di un trattamento di quiescenza non è la stessa per tutte queste persone”), vi è, tuttavia, un indiretto riferimento ad un criterio collegato all’età “dal momento che il beneficio di un trattamento di quiescenza è subordinato al compimento di un certo numero di anni di lavoro e alla condizione di aver raggiunto una determinata età”;
         c3) di conseguenza, il divieto di partecipare ad avvisi di manifestazione di interesse per l’assegnazione, da parte delle amministrazioni pubbliche, di incarichi di studio e consulenza “dev’essere considerata come tale da imporre a detti soggetti un trattamento meno favorevole di quello riservato a tutte le persone che esercitino ancora un’attività professionale”, comportando, per l’effetto, “una discriminazione indiretta basata sull’età dell’interessato”; ciò, a differenza della situazione che veniva in rilievo nella sentenza del 21.05.2015, C-262/14, SCMD, punti 28 e 30, in quel caso correlata allo “status o [a]lla categoria socioprofessionale in cui rientrava l’interessato a livello nazionale, vietando il cumulo del trattamento di quiescenza riscosso con un reddito ricavato dall’attività professionale”;
      d) appurato, pertanto, che il divieto de quo comporta una disparità di trattamento indirettamente basata sull’età, la Corte passa a verificare la sussistenza di eventuali giustificazioni ai sensi dell’art. 6 della direttiva n. 2000/78/CE (il quale fa salvi gli “obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale”, ivi compresa “la definizione di condizioni speciali di accesso all’occupazione per i giovani o la fissazione di un’età massima per l’assunzione”, sempre purché “i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari”); al riguardo, la Corte precisa quanto segue:
         d1) la norma italiana “ha lo scopo di garantire il rinnovo del personale mediante l’assunzione di giovani”, perseguendo un duplice obiettivo: “da un lato, realizzare un’effettiva revisione della spesa pubblica mediante la riduzione dei costi di funzionamento dell’amministrazione pubblica, senza danneggiare la sostanza dei servizi forniti ai cittadini, e, dall’altro, facilitare il ringiovanimento del personale delle amministrazioni pubbliche, favorendo l’accesso di persone più giovani alla funzione pubblica”;
         d2) l’indicazione contemporanea di diversi obiettivi, collegati gli uni agli altri oppure classificati per ordine di importanza, non costituisce un ostacolo all’esistenza di una finalità legittima ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva n. 2000/78/CE (in tal senso, sentenza 21.07.2011, C-159 e 160/10, Fuchs e Köhler, punti 44 e 46, in Giurisdiz. amm., 2011, III, 726);
         d3) benché considerazioni di bilancio possano essere alla base delle scelte di politica sociale di uno Stato membro e influire sulla natura o la portata delle misure di tutela dell’occupazione che esso intenda adottare, esse tuttavia non possono costituire di per sé uno scopo perseguito da tale politica (in tal senso, sentenza 20.06.2013, C-20/12, Giersch e a., punto 51, in Dir. pubbl. comparato ed europeo, 2013, 1303, con nota di MONTALDO);
      e) pertanto, pur se quella dettata dall’art. 5, comma 9, del decreto-legge n. 95 del 2012 rientra tra le “misure necessarie per ridurre i deficit eccessivi dell’amministrazione pubblica italiana e mira, per la precisione, a evitare un cumulo di retribuzioni e di trattamenti di quiescenza provenienti da fondi pubblici”, la Corte di Lussemburgo ricorda che “l’obiettivo della riduzione effettiva della spesa pubblica può influire sulla natura e sulla portata delle misure di tutela dell’occupazione ma non può costituire, di per sé, una finalità legittima”; in particolare, quanto all’obiettivo –come visto, perseguito dalla norma nazionale– consistente nel garantire un ringiovanimento del personale in attività, la Corte precisa quanto segue:
         e1) la legittimità di simile obiettivo di interesse generale, rientrante nella politica dell’occupazione, “non può essere ragionevolmente messa in dubbio, dal momento che esso compare tra gli obiettivi espressamente enunciati dall’articolo 6, paragrafo 1, primo comma, della direttiva 2000/78 e che, conformemente all’articolo 3, paragrafo 3, primo comma, TUE, la promozione di un livello di occupazione elevato costituisce una delle finalità perseguite dall’Unione” (in tal senso, è richiamata la sentenza 16.10.2007, C-411/05, Palacios de la Villa, punto 64, in Europa e dir. privato, 2008, 269, con nota di CARINI, ed in Riv. it. dir. lav., 2008, II, 286, con nota di IMBERTI);
         e2) la promozione dell’assunzione, secondo la giurisprudenza euro-unitaria, “costituisce incontestabilmente una finalità legittima di politica sociale o dell’occupazione degli Stati membri, segnatamente quando si tratta di migliorare le opportunità di inserimento nella vita attiva di determinate categorie di lavoratori, e in particolare di favorire l’accesso dei giovani all’esercizio di una professione” (cfr. sentenza Palacios de la Villa, cit., punto 65, nonché sentenza 19.07.2017, C-143/16, Abercrombie & Fitch Italia, punto 37, in Labor, 2017, 551, con nota di ORTIS, in Dir. relazioni ind., 2017, 1241, con nota di INVERSI, in Riv. giur. lav., 2017, II, 545, con nota di BONARDI, in Arg. dir. lav., 2017, 1486, con nota di NUNIN, ed in Riv. it. dir. lav., 2017, II, 878, con nota di MARINELLI);
         e3) in particolare, è giustificato, a titolo di deroga al principio del divieto delle discriminazioni basate sull’età, instaurare disparità di trattamento collegate alle condizioni di accesso all’occupazione, quando l’obiettivo perseguito consiste nello stabilire un equilibrio strutturale in ragione dell’età tra giovani funzionari e funzionari più anziani, al fine di favorire l’assunzione e la promozione dei giovani (cfr. sentenza Fuchs e Köhler, cit., punto 50);
         e4) di conseguenza –conclude, sul punto, la Corte– “gli obiettivi di politica dell’occupazione perseguiti dalla normativa nazionale in discussione nel procedimento principale devono essere considerati, in linea di principio, come tali da poter giustificare obiettivamente e ragionevolmente una disparità di trattamento basata sull’età”;
      f) deve però verificarsi, avverte la Corte, se i mezzi apprestati per conseguire dette finalità siano “appropriati e necessari”, secondo il tenore stesso dell’art. 6, par. 1, primo comma, della direttiva n. 2000/78/CE; al riguardo, occorre nella specie verificare se l’art. 5, comma 9, del decreto-legge n. 95 del 2012 consenta di conseguire gli obiettivi di politica dell’occupazione perseguiti dal legislatore senza con ciò ledere in modo eccessivo gli interessi legittimi delle persone collocate in quiescenza, le quali si trovano, per effetto di tale disposizione, private di un’opportunità di nuova assunzione; ai fini di questa verifica la Corte di Lussemburgo osserva quanto segue:
         f1) gli Stati membri dispongono di un ampio margine discrezionale nella scelta non soltanto di perseguire uno scopo determinato fra altri in materia di politica sociale e di occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzare detto scopo (con richiamo, qui, oltre alla sentenza Palacios de la Villa, cit., punto 68, anche alla sentenza 22.11.2005, C-144/04, Mangold, punto 63, in Foro it., 2006, IV, 133, con nota di V. PICCONE – S. SCIARRA, Principî fondamentali dell’ordinamento comunitario, obbligo di interpretazione conforme, politiche occupazionali, ivi, 341, nonché in Lavoro giur., 2006, 459, con nota di NODARI, in Mass. giur. lav., 2006, 222, con nota di FRANZA, in Riv. giur. lav., 2006, II, 205, con nota di CALAFÀ, in Riv. critica dir. lav., 2006, 387, con nota di GUARISO, in Riv. it. dir. lav., 2006, II, 250, con nota di BONARDI, in Giur. it., 2006, 1811, con nota di CIARONI, in Guida al dir., 2006, 1, 61, con nota di CORRADO, ed in Dir. lav., 2006, II, 3 e 15, con note di VALLEBONA e di RICCOBONO);
         f2) tuttavia –precisa la Corte– “tale margine discrezionale non può avere l’effetto di svuotare della sua sostanza l’attuazione del principio di non discriminazione in ragione dell’età” (cfr. sentenza Ingeniørforeningen i Danmark, cit., punto 33), spettando peraltro alle autorità competenti degli Stati membri il compito di trovare un giusto equilibrio tra i diversi interessi in gioco (cfr. sentenza Palacios de la Villa, cit., punto 71), dovendosi leggere il divieto di discriminazione in base all’età “alla luce del diritto di lavorare riconosciuto dall’articolo 15, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali. Ne risulta che una particolare attenzione dev’essere riservata alla partecipazione dei lavoratori anziani alla vita professionale e, al tempo stesso, alla vita economica, culturale e sociale. Il mantenimento di queste persone nella vita attiva favorisce segnatamente la diversità nell’occupazione. Tuttavia, l’interesse rappresentato dal mantenimento in attività di tali persone dev’essere tenuto in considerazione rispettando altri interessi eventualmente contrastanti” (in tal senso, sentenza Fuchs e Köhler, cit., punti da 62 a 64, nonché sentenza 05.07.2012, C-141/11, Hörnfeldt, punto 37, in Riv. critica dir. lav. privato e pubbl., 2012, 351, con nota di GUARISO, ed in Lavoro giur., 2013, 75, con nota di COSIO);
         f3) l’obiettivo del ringiovanimento della popolazione attiva occupata, pertanto, può ritenersi che, nel caso di specie, “non eccede quanto è necessario, visto che si può ragionevolmente prevedere di negare l’ingaggio o l’assunzione di persone collocate in quiescenza, che hanno completato la loro vita professionale e che percepiscono un trattamento di quiescenza, al fine di promuovere la piena occupazione della popolazione attiva o di favorire l’accesso al mercato del lavoro per i più giovani”; tuttavia, non appare affatto certo che la misura in questione nel procedimento principale, consistente nel vietare alle persone collocate in quiescenza di partecipare alle manifestazioni di interesse per l’assegnazione di incarichi di studio e consulenza, consenta effettivamente di migliorare le opportunità di inserimento nella vita attiva delle persone più giovani: ed infatti, precisa la Corte, “poiché l’esecuzione di incarichi di studio e consulenza può rivelarsi delicata e complessa, una persona più anziana si trova probabilmente in condizioni migliori, tenuto conto dell’esperienza da essa acquisita, per adempiere all’incarico affidatole. Pertanto, la sua assunzione è benefica sia per l’amministrazione pubblica autrice della manifestazione di interessi sia nei confronti dell’interesse generale”;
         f4) insomma, precisa la Corte, “Benché un ringiovanimento del personale in attività possa avvenire nell’ipotesi in cui persone già in possesso di una certa esperienza manifestino il loro interesse per l’esecuzione di incarichi siffatti, consentendo così a lavoratori più giovani, che occuperanno il posto da essi liberato, di accedere al mercato del lavoro, è necessario nondimeno che tali incarichi di studio e consulenza non corrispondano a impieghi isolati, a tempo determinato e che non offrano nessuna possibilità di ulteriore evoluzione professionale”;
         f5) inoltre, “occorrerebbe verificare se il divieto in questione nel procedimento principale non ecceda quanto necessario per conseguire lo scopo perseguito, ledendo in maniera eccessiva le legittime aspettative delle persone collocate in quiescenza, posto che esso si basa unicamente sul criterio dell’età che consente di godere di un trattamento di quiescenza e non prende in considerazione la ragionevolezza o meno del livello di detto trattamento, di cui gli interessati beneficiano al termine della loro carriera professionale”;
      g) in definitiva, secondo la Corte di giustizia UE, occorre fissare, per la soluzione della questione prospettata, le seguenti conclusioni:
         g1) deve essere preso in considerazione il livello del trattamento di quiescenza di cui possono beneficiare gli interessati, “posto che la normativa nazionale in questione nel procedimento principale consente a detti soggetti di ricoprire incarichi dirigenziali o direttivi a tempo determinato e a titolo gratuito, conformemente alle considerazioni di bilancio invocate dal governo italiano parallelamente allo scopo di politica dell’occupazione basato su un ringiovanimento del personale in attività”;
         g2) spetta al giudice nazionale verificare se il divieto imposto alle persone collocate in quiescenza sia idoneo a garantire la realizzazione dell’obiettivo invocato, e soddisfi effettivamente l’intento di conseguirlo in modo coerente e sistematico (in tal senso, sentenza Petersen, cit., punto 53, e sentenza 10.03.2009, C-169/07, Hartlauer, punto 55, in Ragiusan, 2009, 305, 31);
         g3) in tale contesto, il giudice nazionale ha il compito, segnatamente, “di verificare se la facoltà di assegnare incarichi dirigenziali e direttivi occupati a titolo gratuito non costituisca, in realtà, uno scopo di politica di bilancio perseguito dalla normativa in questione nel procedimento principale, che si ponga in contraddizione con lo scopo di politica dell’occupazione basato sul ringiovanimento del personale in attività”.
   III. – Per completezza, si consideri quanto segue:
      h) sul tema della discriminazione indiretta in base all’età, nella giurisprudenza della Corte di giustizia UE, cfr., in particolare:
         h1) la sentenza 11.09.2019, C-397/18, D.W. c. Nobel Plastiques Ibérica SA (in Foro it., 2019, IV, 506), secondo cui “La direttiva 2000/78/Ce del consiglio, del 27.11.2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che lo stato di salute di un lavoratore riconosciuto come particolarmente sensibile ai rischi professionali, ai sensi del diritto nazionale, che non consente a tale lavoratore di occupare taluni posti di lavoro per il motivo che ciò comporterebbe un rischio per la sua stessa salute o per altre persone, rientra nella nozione di ‘handicap’, ai sensi di tale direttiva, solo qualora detto stato determini una limitazione della capacità, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell'interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori; spetta al giudice nazionale verificare se, nel procedimento principale, tali condizioni siano soddisfatte”;
         h2) la sentenza 19.07.2017, Abercrombie & Fitch Italia, cit. (menzionata anche dalla decisione qui in rassegna), secondo cui “L'art. 21 della carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, nonché l'art. 2, par. 1, l'art. 2, par. 2, lett. a), e l'art. 6, par. 1, direttiva 2000/78/Ce del consiglio, 27.11.2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano ad una disposizione, quale quella di cui al procedimento principale, che autorizza un datore di lavoro a concludere un contratto di lavoro intermittente con un lavoratore che abbia meno di venticinque anni, qualunque sia la natura delle prestazioni da eseguire, e a licenziare detto lavoratore al compimento del venticinquesimo anno, giacché tale disposizione persegue una finalità legittima di politica del lavoro e del mercato del lavoro e i mezzi per conseguire tale finalità sono appropriati e necessari”;
in tal caso la Corte di Lussemburgo, pur riconoscendo la disparità di trattamento in ragione dell’età, ne ravvisò a fondamento la legittima finalità di promuovere l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro e riconobbe l’appropriatezza e la necessità dei mezzi allo scopo previsti, in ragione, per un verso, dell’incentivo ad assumere scaturente da contratti più flessibili e, per altro verso, della crisi economica che soffoca l’accesso all’occupazione;
         h3) la sentenza 15.11.2016, C-258/15, Salaberria Sorondo c. Academia Vasca de Policía y Emergencias (in Lavoro giur., 2017, 235, con nota di COSIO), secondo cui “L'art. 2, par. 2, direttiva 2000/78/Ce del consiglio, 27.11.2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, in combinato disposto con l'art. 4, par. 1, stessa direttiva, deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa, come quella controversa nel procedimento principale, la quale prevede che i candidati ad impieghi quali agenti di un corpo di polizia, che svolgono tutte le funzioni operative o esecutive incombenti a quest'ultimo, non debbano aver compiuto trentacinque anni di età”;
         h4) la sentenza 10.11.2016, C-548/15, J.J. de La. contro Staatssecretaris van Financiën (in Foro it., Rep. 2016, voce Unione europea, n. 1973), secondo cui “L'art. 3, par. 1, lett. b), direttiva 2000/78/Ce del Consiglio, del 27.11.2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretato nel senso che un regime impositivo come quello di cui al procedimento principale, che prevede che il trattamento fiscale delle spese di formazione professionale sostenute da una persona sia diverso a seconda dell'età di quest'ultima, rientra nell'ambito di applicazione ratione materiae di tale direttiva, nei limiti in cui mira a favorire l'accesso alla formazione dei giovani”; in tale occasione, nondimeno, la Corte ritenne che tale regime impositivo differenziato per età fosse compatibile con le cause di giustificazione indicate dall’art. 6 della direttiva a condizione che, “da un lato, detto regime sia oggettivamente e ragionevolmente giustificato da una finalità legittima relativa alla politica del lavoro e del mercato del lavoro e, dall’altro, i mezzi per conseguire tale obiettivo siano appropriati e necessari”, aggiungendo (non dissimilmente dalle conclusioni della pronuncia in rassegna) che “spetta al giudice del rinvio verificare se tale ipotesi ricorra nel procedimento principale”;
         h5) la sentenza 13.09.2011, C-447/09, Prigge c. Deutsche Lufthansa AG (in Arg. dir. lav., 2012, 415, con nota di GUADAGNO, in Dir. pubbl. comparato ed europeo, 2012, 242, con nota di MARCHETTI, in Dir. relazioni ind., 2011, 1187, con nota di ZUCARO, in Riv. dir. sicurezza sociale, 2012, 391, con nota di PAPA, ed in Dir. trasporti, 2013, 455, con nota di SACCHI), secondo cui:
- “L'art. 2, n. 5, della dir. del consiglio 27.11.2000, 2000/78/Ce, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretato nel senso che gli stati membri possono, mediante norme di delega, autorizzare le parti sociali ad adottare misure ai sensi di tale art. 2 n. 5, nei settori cui detta disposizione si riferisce rientranti negli accordi collettivi e a condizione che tali norme di delega siano sufficientemente precise per garantire che dette misure rispettino i requisiti enunciati al cit. art. 2 n. 5”;
- “una misura come quella di cui trattasi nella causa principale, che fissa a sessanta anni l'età limite a partire dalla quale i piloti non possono più esercitare la loro attività lavorativa, mentre la normativa nazionale e quella internazionale fissano tale età a sessantacinque anni, non è una misura necessaria alla sicurezza pubblica e alla tutela della salute ai sensi del medesimo art. 2 n. 5”;
- “l'art. 4 n. 1, della dir. 2000/78 deve essere interpretato nel senso che osta a che una clausola di un contratto collettivo, come quella di cui trattasi nella causa principale, fissi a sessanta anni l'età limite a partire dalla quale i piloti sono considerati non più in possesso delle capacità fisiche per esercitare la loro attività lavorativa, mentre la normativa nazionale e quella internazionale fissano tale età a sessantacinque anni; l'art. 6 n. 1, 1º comma, dir. 2000/78 deve essere interpretato nel senso che la sicurezza aerea non costituisce una finalità legittima ai sensi di tale disposizione”;
         h6) la sentenza 19.01.2010, C-555/07, Kücükdeveci (in Foro it., 2011, IV, 150, con note di MILITELLO e di GRASSO, in Dir. mercato lav., 2010, 199, con nota di ALLOCCA, in Giur. cost., 2010, 2729, con nota di RONCHETTI, in Riv. giur. lav., 2011, II, 139, con nota di PERUZZI, in Riv. it. dir. lav., 2010, II, 958, con nota di CALAFÀ e DI FEDERICO, ed in Diritti lavori mercati, 2011, 89, con nota di GUARRIELLO e MINOLFI), secondo cui “Il diritto dell'Unione, in particolare il principio di non discriminazione in base all'età, quale espresso concretamente nella direttiva del consiglio 27.11.2000 n. 2000/78/Ce, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nella causa principale, che prevede che, ai fini del calcolo del termine di preavviso di licenziamento, non sono presi in considerazione i periodi di lavoro compiuti dal dipendente prima del raggiungimento dei venticinque anni di età”;
         h7) la sentenza 12.01.2010, C-229/08, Wolf (in Riv. critica dir. lav., 2009, 930, con nota di BORELLI, in Dir. pubbl. comparato ed europeo, 2010, 387, con nota di COLAPINTO, in Dir. relazioni ind., 2010, 876, con nota di MONACO, in Riv. giur. lav., 2010, II, 660, con nota di SCHIAVETTI, ed in Riv. it. dir. lav., 2010, II, 957, con nota di CALAFA`), secondo cui “L'art. 4, n. 1, direttiva 2000/78/Ce, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro, deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa nazionale che fissa a trent'anni l'età massima di assunzione nel servizio tecnico di medio livello dei vigili del fuoco; l'assunzione di personale in età tropo avanzata comporterebbe infatti che un numero eccessivo di funzionari non potrebbe essere assegnato ai compiti più impegnativi dal punto divista fisico; non sarebbe, d'altra parte, possibile assegnare i neoassunti a detti compiti per una durata sufficientemente lunga; pertanto, la normativa nazionale, che fissa a trent'anni l'età massima per l'assunzione nel servizio tecnico di medio livello dei vigili del fuoco, può essere ritenuta idonea a garantire il carattere operativo e il buon funzionamento del servizio dei vigili del fuoco professionali e non eccedente quando è necessario per il raggiungimento di tale fine”;
         h8) la sentenza 17.03.2009, C-217/08, Mariano c. INAIL (in Foro it., 2009, IV, 446, con nota di RICCI, ed in Guida al dir., 2009, 22, 98, con nota di CASTELLANETA), secondo cui “Il diritto comunitario non contiene un divieto di qualsiasi discriminazione di cui i giudici degli stati membri devono garantire l'applicazione allorché il comportamento eventualmente discriminatorio non presenta alcun nesso con il diritto comunitario, né, in circostanze come quelle di causa, gli art. 12 e 13 Ce creano di per sé un tale nesso; tali articoli non ostano, in dette circostanze, ad una normativa nazionale in forza della quale, in caso di decesso di una persona a seguito di un infortunio, spetti unicamente al coniuge superstite una rendita nella misura del cinquanta per cento della retribuzione percepita da tale persona prima del suo decesso, mentre il figlio minore della persona deceduta percepisce solo una rendita pari al venti per cento di detta retribuzione”;
         h9) la sentenza 11.07.2006, C-13/05, Chacón Navas c. Eurest Colectividades SA (in Riv. ambiente e lav., 2006, 7, 19, con nota di GUARDAVILLA, in Dir. e giustizia, 2006, 34, 102, con nota di EVANGELISTA, in Guida al dir., 2006, 31, 91, con nota di CORRADO, ed in Riv. it. dir. lav., 2007, II, 750, con nota di GIAPPICHELLI), secondo cui “La malattia in quanto tale non può essere considerata un motivo che si aggiunge a quelli in base ai quali la direttiva 2000/78/Ce vieta qualsiasi discriminazione” (in particolare, la Corte di giustizia, nell’occuparsi dell’ambito di applicazione della direttiva n. 2000/78/CE con particolare riferimento al rapporto fra malattia e handicap, ai fini del giudizio sul carattere discriminatorio dell’atto di recesso datoriale intimato al lavoratore che versi per l’appunto in stato di malattia –e pur affermando che, in linea di principio, il licenziamento di un dipendente portatore di handicap contrasta con il divieto di discriminazione ex art. 3, n. 1, della direttiva, a meno che non sia giustificato da ragioni di incompetenza o incapacità a svolgere certe mansioni— è stata qui netta nel ritenere che gli stati di malattia e di handicap integrano situazioni soggettive differenti e non assimilabili: il legislatore comunitario ha infatti inteso tutelare il lavoratore che risulti affetto da “un limite che risulta, in particolare, da lesioni fisiche, mentali o psichiche e che ostacola la partecipazione della persona considerata alla vita professionale”, mentre al contrario la direttiva “non contiene alcuna indicazione che lasci intendere che i lavoratori sono tutelati in base al divieto di discriminazione fondata sull’handicap appena si manifesti una qualunque malattia”; da ciò, quindi, derivandone, ad avviso della Corte, che la malattia non possa essere considerata un fattore di discriminazione ai sensi della direttiva sopra richiamata, né in via diretta né in via analogica);
         h10) la sentenza 22.11.2005, Mangold, cit. (ricordata anche nella decisione in epigrafe), secondo cui “La clausola 8, punto 3, dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18.03.1999 e attuato con la direttiva del consiglio 28.06.1999 n. 1999/70/Ce, relativa all'accordo quadro Ces, Unice e Ceep sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che non osta ad una normativa quale quella controversa nella causa a qua, la quale, per motivi connessi con la necessità di promuovere l'occupazione e indipendentemente dall'applicazione del detto accordo, ha abbassato l'età oltre la quale possono essere stipulati senza restrizioni contratti di lavoro a tempo determinato”, aggiungendo, tuttavia, che “Il diritto comunitario, e in particolare l'art. 6, n. 1, direttiva del consiglio 27.11.2000 n. 2000/78/Ce, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso che ostano ad una normativa nazionale, quale quella controversa nella causa a qua, la quale autorizza, senza restrizioni, salvo che esista uno stretto collegamento con un precedente contratto di lavoro a tempo indeterminato stipulato con lo stesso datore di lavoro, la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato qualora il lavoratore abbia raggiunto l'età di cinquantadue anni” (la controversia si riferiva ad una normativa tedesca, la c.d. legge Hartz, che, nell’intento di promuovere l’occupazione delle persone anziane, aveva modificato la precedente legislazione, abbassando il requisito anagrafico richiesto per la stipula di contratti di lavoro a termine, portandolo da cinquantotto a cinquantadue anni; la Corte, in particolare, ritenne qui di sanzionare l’illegittimità della norma nazionale in contestazione, considerando –per un verso– che la misura adottata costituisse una disparità di trattamento in ragione dell’età “oggettivamente e ragionevolmente giustificata da una finalità legittima”, alla stregua della direttiva comunitaria n. 2000/78/CE, ma che, per altro verso, tale misura fosse “eccedente quanto è appropriato e necessario per realizzare la finalità perseguita”);
         h11) la sentenza 19.03.2002, C-476/99, Lommers (in Lavoro giur., 2002, 833, con nota di NUNIN), secondo cui “L'art. 2, n. 1 e 4, direttiva del consiglio 09.02.1976 n. 76/207/Cee, relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro non si oppone ad una normativa che è introdotta da un ministero al fine di far fronte ad una rilevante sottorappresentazione delle donne nel suo ambito e che, in un contesto caratterizzato da un'insufficienza riconosciuta di strutture di accoglienza adeguate e finanziariamente sostenibili, riserva solo ai dipendenti di sesso femminile posti in asili nido sovvenzionati in numero limitato che esso mette a disposizione dei suoi dipendenti, mentre i dipendenti di sesso maschile possono avervi accesso solo in casi di necessità riconosciuti dal datore di lavoro; questo vale tuttavia solo laddove la deroga così prevista a favore dei dipendenti di sesso maschile sia in particolare interpretata nel senso che essa consente a quelli tra di loro che si assumono da soli la custodia dei loro figli di avere accesso a questo sistema di asili nido alle stesse condizioni dei dipendenti di sesso femminile”;
         h12) la sentenza 12.12.2002, C-442/00, Rodríguez Caballero (in Foro it., 2003, IV, 1, con nota di RICCI), secondo cui “Il giudice nazionale deve disapplicare una normativa interna che escluda -in violazione del principio di uguaglianza- dalla nozione di ‘retribuzione’, ai sensi dell'art. 2, n. 2, della direttiva 80/987/Cee, diritti corrispondenti ai c.d. salarios de tramitación, convenuti in una procedura di conciliazione svoltasi in presenza di un organo giurisdizionale e da questo approvata; esso deve applicare ai componenti del gruppo sfavorito da tale discriminazione il regime in vigore per i lavoratori subordinati i cui diritti dello stesso tipo rientrano, in forza della definizione nazionale della nozione di «retribuzione», nell'ambito di applicazione della suddetta direttiva”;
i) nella giurisprudenza amministrativa, ancora in tema di disparità di trattamento rilevanti ai sensi della direttiva n. 2000/78/CE (la quale è stata recepita in Italia con il d.lgs. n. 216 del 2003), cfr., di recente:
         i1) Cons. Stato, sez. IV, ordinanza 28.11.2019, n. 8154 (in Notariato, 2020, 58, con nota di MANCA, nonché oggetto della News US n. 130 del 10.12.2019, cui si rinvia per ogni approfondimento), riguardante l’accesso alla professione di notaio e la norma di cui all’art. 1, comma 3, lett. b), della legge n. 1365 del 1926, come sostituito dall’art. 13 del d.lgs. n. 166 del 2006 (secondo cui per l’ammissione al concorso da notaio gli aspiranti devono “non aver compiuto gli anni cinquanta alla data del bando di concorso”);
con questa ordinanza il Consiglio di Stato, “Una volta che la Corte di giustizia abbia accertato che la disciplina di accesso all’esercizio della funzione notarile in uno Stato membro debba essere oggetto di armonizzazione tra il diritto nazionale di quello Stato ed il diritto europeo”, ha rimesso alla Corte di giustizia UE la seguente questione pregiudiziale: “se l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, l’art. 10 TFUE e l’art. 6 della Direttiva del Consiglio 20007/8/CE del 27.11.2000, nella parte in cui vietano discriminazioni in base all’età nell’accesso all’occupazione, ostino a che uno Stato membro possa imporre un limite di età all’accesso alla professione di notaio” (la questione risulta tuttora pendente presso la Corte di giustizia UE, con il numero C-914/19);
         i2) C.g.a., sentenza 17.12.2018, n. 1008 (in Foro amm., 2018, 2202, solo massima), secondo cui “L'art. 102 del d.P.R. n. 328/1952, nella parte in cui prevede (art. 1 n. 2) il limite di età non superiore a trentacinque anni per accedere alla professione di pilota del porto, deve essere disapplicato perché in contrasto con la normativa comunitaria (direttiva 2000/78) e la disapplicazione della norma comporta l'illegittimità del bando di concorso nella parte in cui ha recepito tale limite anagrafico”;
      j) per la giurisprudenza della Corte di cassazione cfr., di recente:
         j1) Cass. civ., sez. lavoro, 19.12.2019, n. 34132 (in Ilgiuslavorista.it, 2020, con nota di LANZARA), secondo cui “Ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo di lavoratore divenuto parzialmente inabile allo svolgimento della prestazione di lavoro, il datore di lavoro, in sede di prova dell'impossibilità di repechage ha l'onere di dimostrare l'impossibilità di adottare ‘accomodamenti ragionevoli’ in favore del suddetto prestatore di lavoro, al fine di consentire un proficuo reimpiego dello stesso all'interno dell'azienda, nel rispetto di quanto stabilito dal legislatore Italiano ex art. 3, comma 3-bis, d.lgs. n. 216 del 2003, nonché da quello europeo con la direttiva 78/2000/CE del 27/11/2000, concernente la parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro. L'obbligo di adottare tali accomodamenti ragionevoli, finalizzati a garantire la parità di trattamento a tutti i lavoratori impiegati nell'impresa, trova un limite nella necessità che essi non incidano negativamente sulle condizioni di lavoro dei colleghi dell'invalido e non comportino un onere economico eccessivo e sproporzionato per l'impresa”;
         j2) Cass. civ., sez. lav., 10.07.2018, n. 18176 (in Foro it., 2018, I, 4007, con nota di FRATINI, in Lavoro giur., 2019, 373, con nota di CARVELLO, ed in Riv. giur. lav., 2019, II, 444, con nota di CALDERARA), secondo cui “È illegittimo il licenziamento di un avvocato, dipendente di un Ente pubblico, che abbia redatto e divulgato a terzi un documento con cui criticava, anche duramente, il proprio datore di lavoro per le posizioni assunte da quest'ultimo in relazione al fatto che i legali interni dell'azienda dovessero essere iscritti all'apposito elenco speciale istituito presso l'Albo circondariale e, conseguentemente, subissero delle limitazioni in ordine alla difesa in giudizio della società nelle controversie esterne. Nei suoi confronti, infatti, deve prevalere la scriminante della critica sindacale in ragione della sua adesione, alcuni giorni prima dei fatti contestati, ad una organizzazione sindacale”;
         j3) Cass. civ., sez. lav., 03.12.2015, n. 24648 (in Riv. giur. lav., 2016, II, 177, con nota di GAMBARDELLA), secondo cui “Il divieto di licenziamento discriminatorio, sancito dall'art. 4 l. n. 604 del 1966, dall'art. 15 stat. lav. e dall'art. 3 l. n. 108 del 1990, è suscettibile -in base all'art. 3 Cost. e sulla scorta della giurisprudenza della corte di giustizia in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio, in particolare, nei rapporti di lavoro, a partire dalla introduzione dell'art. 13 nel trattato Ce, da parte del trattato di Amsterdam del 1997- di interpretazione estensiva, sicché l'area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia, che costituisce cioè l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore, quale unica ragione del provvedimento espulsivo, essendo necessario, in tali casi, dimostrare, anche per presunzioni, che il recesso sia stato motivato esclusivamente dall'intento ritorsivo”;
      k) sulle questioni inerenti all’età nei pubblici concorsi, ai criteri di computo, agli aumenti dei limiti massimi ed al correlato diritto euro-unitario (di cui, in specie, proprio alla direttiva n. 2000/78/CE), cfr., da ultimo, Cons. Stato, sezione IV, sentenza 16.05.2019, n. 3157 (in Foro it., 2019, III, 375, con nota di F. BASSETTA), che ha dichiarato illegittimo il bando di concorso pubblico per il reclutamento di allievi agenti del corpo di Polizia penitenziaria, nella parte in cui impedisce che i candidati beneficino dell'aumento del limite di età in relazione al servizio militare prestato, anche nella posizione di volontario in ferma prefissata.
Questa pronuncia, in particolare, nel confermare un orientamento consolidato della giurisprudenza amministrativa circa le condizioni di applicabilità del beneficio dell'aumento del limite di età per la partecipazione a concorsi pubblici (si tratta, in particolare, di un orientamento sviluppato dal Tar per il Lazio, in specie nelle seguenti pronunce: sez. I, 04.02.2019, n. 1352; Id., 03.12.2012, n. 10072, in Foro amm.- TAR, 2012, 3859, solo massima; Id., 20.06.2012, n. 5682; sez. I-quater, 07.05.2012, n. 4037; Id., 04.05.2012, n. 4023; sez. I, 13.02.2012, n. 1413; Id., 30.05.2011, n. 4812; sez. I-quater, 26.11.2008, n. 10766; Id., 30.10.2007, n. 10624; Id., 24.11.2005, n. 6815; sez. I, 10.10.2003, n. 8195, in Foro amm.- TAR, 2003, 2970, solo massima), ha precisato entro quali limiti è possibile derogare al limite d’età ricordando che:
         k1) i limiti di età possono essere derogati in aumento per un tempo (comunque non superiore a tre anni) corrispondente a quello trascorso per l'espletamento del servizio militare, con richiamo, qui, alla norma stabilita dall’art. 2, comma 1, n. 2, lett. d), del d.P.R. n. 487 del 1994; quest’ultima norma è oggi confluita nell’art. 2049 del d.lgs. n. 66 del 2010 (codice dell’ordinamento militare), secondo cui “Per la partecipazione ai pubblici concorsi il limite massimo di età richiesto è elevato di un periodo pari all'effettivo servizio prestato, comunque non superiore a tre anni, per i cittadini che hanno prestato servizio militare”;
         k2) nel concetto di servizio militare utile al computo in aumento, originariamente previsto solo per il periodo obbligatorio di leva, rientra anche quello prestato quale volontario in ferma prefissata (Corte di giustizia UE, Sez. VIII, sentenza 02.04.2020, C-670/18 – C.O. contro Comune di Gesturi - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assenza servizio lavoratori a rischio per coronavirus.
Domanda
L’Ufficio Personale del mio ente ha ricevuto un certificato del medico di famiglia per un dipendente affetto da patologia cronica, ai fini dell’applicazione dell’art. 26, comma 2, del d.l. 18/2020 (Cura Italia). In ogni caso, il lavoratore attualmente non gode del riconoscimento della condizione di cui alla l. 104/1992.
E’ sufficiente la documentazione prodotta per fruire del periodo di assenza previsto dalla norma? E’ sufficiente la certificazione del medico di famiglia o va allegata altra documentazione?
Risposta
L’articolo 26, comma 2, del decreto stabilisce che: ”Fino al 30 aprile ai lavoratori dipendenti pubblici e privati in possesso del riconoscimento di disabilità con connotazione di gravità ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 05.02.1992, n. 104, nonché ai lavoratori in possesso di certificazione rilasciata dai competenti organi medico legali, attestante una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie salvavita, ai sensi dell’articolo 3, comma 1, della medesima legge n. 104 del 1992, il periodo di assenza dal servizio prescritto dalle competenti autorità sanitarie, è equiparato al ricovero ospedaliero di cui all’articolo 19, comma 1, del decreto legge 02.03.2020, n. 9”.
Nel comma sopra riportato si equiparano le assenze dal servizio prescritte dalle competenti autorità sanitarie al ricovero ospedaliero con contestuale applicazione della relativa disciplina delle seguenti categorie di soggetti:
   • disabile in condizione di gravità di cui al comma 3, dell’art. 3, della Legge n. 104/1992 (riconosciuta mediante apposita commissione medico legale);
   • disabile derivante da un quadro clinico a rischio, certificato da organi medico legali, ai sensi dell’art. 3, comma 1, della Legge n. 104/1992.
Il Ministero del Lavoro, nella circolare del 24/03/2020, a proposito dell’articolo 26, comma 2, del D.L. n. 18, si è limitato solo a ricordarne i contenuti senza tuttavia fornire indicazioni operative e senza chiarire soprattutto chi siano i competenti organi medico legali che attestano le condizioni di rischio specificate dalla norma.
Specifici chiarimenti sono stati forniti nei giorni scorsi dalla nota della Presidenza del Consiglio dei Ministri, indirizzata agli organi istituzionalmente competenti.
La nota chiarisce che “sono organi abilitati a certificare la condizione di cui all’art. 26, comma 2, sia i medici preposti ai servizi di medicina generale (c.d. medici di base), che i medici convenzionati con il S.S.N. (ai sensi dell’articolo 30 accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale, ai sensi dell’art. 8 del D.Lgs. n. 502 del 1992), la cui qualificazione giuridica è largamente riconosciuta (a titolo esemplificativo, Cassazione Penale, sentenza n. 29788/2017, secondo cui il medico convenzionato con la ASL è pubblico ufficiale con ambito di competenza anche oltre quella territoriale della ASL, in quanto “svolge l’attività per mezzo i poteri pubblicistici di certificazione, che si estrinsecano nella diagnosi e nella correlativa prescrizione di esami e prestazioni alla cui erogazione il cittadino ha diritto presso strutture pubbliche, ovvero presso strutture private convenzionate”.
Le certificazioni di questi medici sono a tutti gli effetti da considerarsi il prodotto dell’esercizio di funzioni pubbliche, dunque proveniente da “organismi pubblici”.
Di questo avviso è anche il Consiglio di Stato che, con la sentenza n. 4933/2016, ha riconosciuto che la certificazione rilasciata da professionisti autorizzati a eseguire prestazioni nell’interesse del Servizio sanitario nazionale, può considerarsi proveniente da “pubblico organismo”.
A parere di chi scrive è molto interessante e sicuramente condivisibile la spiegazione che il Capo Ufficio della Presidenza del Consiglio dei Ministri fornisce, nel proseguo della nota, circa l’interpretazione di cui sopra: «Del resto, non seguendo tale interpretazione della norma si avrebbero due effetti ugualmente e gravemente negativi. La norma è diretta a tutelare persone che, per la loro condizione fisica di estrema fragilità, sono sottoposte ad altissimo rischio della vita stessa, in caso di contagio. E’ quindi primario interesse collettivo tutelarle e ridurne al massimo l’esposizione, ampliando la possibilità di autoisolamento. Viceversa, una interpretazione che restringa ai soli servizi di medicina legale delle ASL la possibilità di certificare, complicherebbe le modalità e le tempistiche di accesso al beneficio, paradossalmente aumentando la circolazione di queste persone
Pertanto i lavoratori classificati tra le categorie a rischio potranno astenersi dal lavoro, rimanendo all’interno della propria abitazione e questo periodo di «isolamento cautelativo» verrà equiparato alla condizione di ricovero ospedaliero, quindi con uno stato assimilabile alla malattia (senza l’applicazione della decurtazione di cui all’art. 71 del D.L. 25.06.2008, n. 112, convertito in Legge 06.08.2008, n. 133) e come tale retribuito (01.04.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCoronavirus: i dubbi delle amministrazioni sulle norme emergenziali in materia di lavoro pubblico.
Nella pratica operativa continuano a presentarsi dubbi applicativi delle diverse disposizioni adottate a seguito della dichiarazione, con deliberazione del Consiglio dei ministri del 31.01.2020, dello stato di emergenza nazionale.
Proseguono, quindi, le risposte alle innumerevoli incertezze che devono affrontare gli operatori del settore pubblico, sorti nell’applicazione delle diverse disposizioni che, pur presentandosi singolarmente chiare, vanno tra di loro armonizzate e coordinate con le norme in materia di lavoro pubblico, con le disposizioni civilistiche e con i contratti collettivi nazionali.
Ecco alcuni dei dubbi più diffusi manifestati dagli enti:

Il Comune dove lavoro in Sardegna ha pubblicato il 10 marzo un concorso per n. 1 posto di assistente di biblioteca con scadenza del termine di presentazione delle domande a 30 giorni dalla pubblicazione del bando.
Nel frattempo sono intervenute:
   1) la sospensione dei termini delle procedure concorsuali come previsto dall’art. 103, Dl n. 18 del 17.03.2020 e
   2) la proroga dei termini al 31.07.2020 ai sensi dell’articolo 2, comma 4, della Legge di Stabilità approvata dal Consiglio Regionale della Sardegna dell'11.03.2020 che recita testualmente “a seguito dell'emergenza epidemiologica da COVID-19 e in considerazione del blocco dell'attività amministrativa degli uffici della Regione autonoma della Sardegna e di quelli delle amministrazioni locali, i termini di scadenza relativi a qualsiasi bando, procedure concorsuali, avvisi pubblici, presentazione di rendicontazioni da parte di enti pubblici e/o privati cittadini, relativi a qualsiasi fonte di finanziamento sono prorogati al 31.07.2020”.
È stato dichiarato in Sardegna lo stato di emergenza fino al 31.07.2020.
In tale situazione prevale la norma regionale e quindi la scadenza per la presentazione delle domande è il 31.07.2020?

Ai fini di ricostruire il quadro di riferimento giuridico che governa le competenze in materia di adozione di misure normative di contrasto alla pandemia in atto, occorre fare riferimento alle norme recate dal Dl 23.2.2020, n. 6, convertito in legge 05.03.2020, n. 13, con particolare riferimento all’art. 3, commi 1 e 2, del decreto-legge stesso.
Tali disposizioni, infatti, testualmente prescrivono che "1. Le misure di cui agli articoli 1 e 2 sono adottate, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della salute, sentiti il Ministro dell'interno, il Ministro della difesa, il Ministro dell'economia e delle finanze e gli altri Ministri competenti per materia, nonché i Presidenti delle regioni competenti, nel caso in cui riguardino esclusivamente una regione o alcune specifiche regioni, ovvero il Presidente della Conferenza delle regioni e delle province autonome, nel caso in cui riguardino il territorio nazionale. 2. Nelle more dell'adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di cui al comma 1, nei casi di estrema necessità ed urgenza le misure di cui agli articoli 1 e 2 possono essere adottate ai sensi dell'articolo 32, Legge 833/1978, dell'articolo 117, Dlgs 112/1998, e dell'articolo 50 Tuel. Le misure adottate ai sensi del presente comma perdono efficacia se non sono comunicate al Ministro della salute entro ventiquattro ore dalla loro adozione.”.
La norma, infatti, prescrive che le misure normative con carattere di urgenza e di natura generale finalizzate al contrasto diffusivo del coronavirus siano adottate con appositi decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, affidando, ai Presidenti delle Regioni nella sola ipotesi in cui attengano esclusivamente alla Regione di competenza o ad alcune Regioni, nel qual caso la competenza resta, comunque, in capo ai rispettivi orari di vertice.
La disposizione legislativa, poi, prosegue statuendo, al comma 2, che la competenza dei Presidenti delle Regioni, in materia di igiene e sanità pubblica, può essere esercita esclusivamente a due condizioni, ovvero:
   1) nelle more dell’adozione dei provvedimenti d’urgenza ad opera del Presidente del Consiglio dei Ministri e
   2) nelle situazioni di estrema necessità ed urgenza che il fenomeno impone nell’ambito regionale di competenza.
Il richiamo normativo che, infine, viene operato dalla disposizione legislativa alle norme della legge 833/1978 e del Dlgs 112/1990 sta ad indicare, inequivocabilmente, che tali poteri sono esercitabili, dai Presidenti delle Regioni, nei limiti e con efficacia estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio comprendente più comuni e al territorio comunale, nonché che l'adozione dei provvedimenti d’urgenza in materia igienico-sanitaria spetta allo Stato o alle regioni in ragione della dimensione dell'emergenza e dell'eventuale interessamento di più ambiti territoriali regionali.
Stante il quadro normativo sopra delineato, pertanto, la competenza generale e primaria all’adozione di misure urgenti per scongiurare il rischio di contagio diffusivo da COVID-19 spetta prioritariamente al Governo, mentre alle Regioni è affidato un compito di assunzione di adeguate azioni locali di contrasto che, per espressa previsione normativa e per intuibili ragioni di coordinamento degli interventi, hanno carattere recessivo nel momento in cui il Presidente del Consiglio dei Ministri adotti le misure nazionali necessarie.
Tale assetto di competenze e di conseguenti azioni, infatti, appare il più coerente anche con il perimetro definito dalla nostra Carta costituzionale, la quale, all’articolo 117, comma 2, prevede la forma della legislazione concorrente nella materia della salute pubblica, da esercitarsi, da parte delle Regioni, nei limiti dei principi fondamentali dettati dallo Stato, di cui la normazione legislativa sopra richiamata costituisce espressione.
Ciò esaminato, pertanto, si ritiene che, avendo, il Governo, adottato le misure d’urgenza in grado di arginare la diffusione da contagio pandemico contenute nel Dl 17.03.2020, con particolare riferimento alla sospensione disposta, per le procedure concorsuali, dall’articolo 87, comma 5, del predetto Dl, il quale testualmente prescrive che "5. Lo svolgimento delle procedure concorsuali per l'accesso al pubblico impiego, ad esclusione dei casi in cui la valutazione dei candidati sia effettuata esclusivamente su basi curriculari ovvero in modalità telematica, sono sospese per sessanta giorni a decorrere dall'entrata in vigore del presente decreto. Resta ferma la conclusione delle procedure per le quali risulti già ultimata la valutazione dei candidati (…)”.
Trattandosi, pertanto, di misura avente chiara natura di azione di contrasto alla pandemia in atto (vedi il comma 1 dell’art. 3, Dl 6/2020) ed in considerazione di quanto sopra detto in relazione al riparto di attribuzioni tra diversi livelli di governo competenti all’adozione di tali misure, nonché del carattere transitorio e recessivo delle misure adottate dalle Regioni in materia di contrasto alla diffusione del coronavirus, si ritiene che le disposizioni statali abbiano determinato, anche con riguardo alla legislazione delle Regioni a statuto speciale, la ritrazione delle disposizioni adottate dalla Regione Sardegna intervenute nello specifico ambito di regolazione statale.

Il dubbio che nasce nell’utilizzo del personale dei nidi e delle materne è legato al particolare profilo professionale delle dipendenti, in quanto educatrici dell'asilo nido e a quanto stabilito dall'art. 31, comma 5, del Ccnl 14.09.2000.
In relazione a quanto prescritto dall’articolo 31, comma 5, del Ccnl 14.09.2000, è da ritenere che la previsione contrattuale attenga ad una situazione del tutto normale ed ordinaria di funzionamento dei servizi e non ad un evento emergenziale come quello che stiamo attraversando, nell’ambito del quale si deve ritenere che il personale possa essere utilizzato, compatibilmente con i contenuti professionali del ruolo ricoperto, anche in altri servizi dell’amministrazione, tenuto conto che il principio generale accolto dal nostro sistema giuridico è rappresentato dall’equivalenza professionale nel contesto della categoria di ascrizione, per il quale, infatti, tutte le funzioni previste dalla categoria d'inquadramento sono esigibili dal lavoratore.
Tutto ciò, ovviamente, laddove sussista la stretta ed assoluta necessità di mantenere in servizio tale personale alla luce di quanto già detto con riferimento alle prescrizioni dettate dall’articolo 87, Dl 18/2020.

L'Amministrazione comunale può esentare motivatamente dal servizio una dipendente che non opera in alcuno dei servizi essenziali previsti dalle ultime disposizioni per il contenimento del Covid-19 e che non ha ferie pregresse né altri tipi di permessi/congedi etc. essendo stata, tra l'altro, appena assunta?
In caso affermativo tale esonero costituisce servizio prestato a tutti gli effetti di legge?

In base al vigente ordinamento emergenziale, la circostanza che la lavoratrice non operi nell’ambito dei servizi essenziali non appare sufficiente al fine di escludere la prestazione lavorativa. Infatti, l’art. 87, commi 1 e 3, Dl 17.03.2020, n. 18, prescrive espressamente che "1. Fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-2019, (…) il lavoro agile è la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, Dlgs 165/2001, che, conseguentemente: a) limitano la presenza del personale negli uffici per assicurare esclusivamente le attività che ritengono indifferibili e che richiedono necessariamente la presenza sul luogo di lavoro, anche in ragione della gestione dell'emergenza; (…) 3. Qualora non sia possibile ricorrere al lavoro agile, anche nella forma semplificata di cui al comma 1, lett. b), le amministrazioni utilizzano gli strumenti delle ferie pregresse, del congedo, della banca ore, della rotazione e di altri analoghi istituti, nel rispetto della contrattazione collettiva. Esperite tali possibilità le amministrazioni possono motivatamente esentare il personale dipendente dal servizio. Il periodo di esenzione dal servizio costituisce servizio prestato a tutti gli effetti di legge e l'amministrazione non corrisponde l'indennità sostitutiva di mensa, ove prevista. (…).”.
Come si può evincere dalla riportata norma, pertanto, la lavoratrice, laddove vi siano le condizioni prescritte dalla legge, può essere adibita a servizi indifferibili che richiedono la necessaria presenza sul luogo di lavoro, anche in funzione di assicurare servizi essenziali correlati all’emergenza da coronavirus.
Laddove non sia assolutamente necessario mantenere il servizio la dipendente, anche mediante l’impiego dello smart working quale modalità di fornitura della prestazione lavorativa, e non sia oggettivamente possibile impiegare istituti retribuiti o indennizzati, legali e contrattuali, giustificativi dell’assenza dal lavoro, non resterà, come forma del tutto residuale ed eccezionale, che collocare la dipendente in esonero lavorativo ai sensi della predetta disposizione legislativa.
Si evidenzia, tuttavia, che tale collocamento dovrà essere accompagnato dall’adozione di un apposito provvedimento datoriale (di natura civilistica) che riporti le adeguate motivazioni che supportano l’applicazione dell’istituto esonerativo, tenuto conto che tale esenzione determina l’obbligo, per l’amministrazione, di considerare il periodo interessato alla stregua di servizio prestato ad ogni effetto di legge, anche ai fini retributivi, ancorché in assenza della prestazione lavorativa (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'01.04.2020).

marzo 2020

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Equivalenza profili professionali e modifica mansioni.
Domanda
Come funziona l’equivalenza dei profili professionali e la possibilità di cambiare le mansioni dei dipendenti?
Risposta
La concreta possibilità di utile reimpiego in profili professionali equivalenti rappresenta il legittimo esercizio del potere dello jus variandi da parte del datore di lavoro pubblico.
La disciplina delle mansioni nel pubblico impiego si rinviene, in primis, secondo la gerarchia delle fonti, dall’art. 52 del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, il quale, al comma 1, prevede: «Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto delle procedure selettive di cui all’articolo 35, comma 1, lettera a). L’esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell’inquadramento del lavoratore o dell’assegnazione di incarichi di direzione
L’art. 3 del CCNL Regioni-Autonomie Locali del 31.03.1999, non disapplicato dal recente CCNL Funzioni Locali del 21.05.2018, prevede:
   • un sistema di classificazione del personale del comparto enti locali suddiviso in quattro categorie, collegate alle declaratorie di cui all’allegato «A», che descrivono requisiti professionali, competenze richieste, caratteristiche essenziali delle mansioni ascrivibili, nonché una esemplificazione di profili (art. 3, commi 1, 4, 5, 6);
   • che tutte le mansioni ascritte dal contratto all’interno delle singole categorie, in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili, e che l’assegnazione delle mansioni equivalenti costituisce atto di esercizio del potere determinativo dell’oggetto del contratto di lavoro. (art. 3, comma 2).
Sulla base di quanto sopra riportato, nella fattispecie proposta, si ritiene necessario per il datore di lavoro pubblico procedere al mutamento del profilo professionale del dipendente, nel rispetto delle Declatorie- Allegato A del CCNL Regioni Autonomie Locali del 31/03/1999, come confermato da ultimo anche dall’art. 19 del CCNL delle Funzioni Locali del 21/05/2018, che disapplicando l’art. 14 del CCNL Regioni Autonomie Locali dell’06/07/1995, ha elencato tra gli elementi che devono essere indicati nel contratto individuale:
   a) tipologia del rapporto di lavoro;
   b) data di inizio del rapporto di lavoro;
   c) categoria e profilo professionale di inquadramento;
   d) posizione economica iniziale;
   e) durata del periodo di prova;f
   f) sede di lavoro;
   g) termine finale in caso di rapporto di lavoro a tempo determinato.
A conferma di quanto sopra esposto sul legittimo esercizio del potere dello jus variandi del datore di lavoro pubblico, nell’ambito dell’equivalenza delle mansioni, si nota che nell’elencazione sopra riportata non compaiono più le mansioni corrispondenti alla qualifica di assunzione, previsti invece nel disapplicato art. 14 CCNL dell’06/07/1995.
Il rifiuto a sottoscrivere un nuovo contratto di lavoro per il mutamento del profilo professionale comporta la violazione degli obblighi di diligenza, obbedienza e fedeltà che gravano sul prestatore di lavoro pubblico. Gli stessi sono richiamati nel Codice di Comportamento (D.P.R. n. 62/2013) e comunque ricompresi nell’obbligo generico di cui agli artt. 2104 e 2105 del codice civile.
Ciò lo possiamo ricavare dal fatto che è espressamente previsto l’applicazione dell’articolo 2106 del Codice Civile nell’articolo 55, comma 2, del D.Lgs. 165/2001 e tale articolo richiama proprio gli articoli 2104 e 2105 del Codice Civile (26.03.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Eccedenze orarie P.O..
Domanda
Alla luce delle più recenti norme contrattuali vi è una qualche possibilità di riconoscere ai dipendenti incaricati di posizione organizzativa il riposto compensativo per le ore eccedenti alle 36?
Risposta
Per quanto riguarda la problematica della durata delle prestazioni settimanali delle posizioni organizzative si ritiene utile precisare che relativamente all’orario di lavoro, il personale incaricato delle posizioni organizzative, diversamente dai dirigenti, è tenuto ad effettuare prestazioni lavorative settimanali non inferiori a 36 ore, mentre le eventuali prestazioni ulteriori che gli interessati potrebbero aver effettuato, in relazione all’incarico affidato e agli obiettivi da conseguire, non sono retribuite e neppure danno titolo o diritto ad eventuali recuperi compensativi perché non si tratta di ore di lavoro straordinario.
La durata massima non viene determinata dal CCNL perché sarà collegata, genericamente e dinamicamente, alla rilevanza ed alle effettive necessità delle funzioni da svolgere. Il maggiore impegno di tale personale trova ristoro nel riconoscimento delle specifiche voci di trattamento accessorio rappresentate dalla retribuzione di posizione e da quella di risultato (art. 15 c. 1 del CCNL 21/05/2018).
Le prestazioni ulteriori rese dal dipendente PO non possono considerarsi straordinarie o comunque aggiuntive rispetto al minimo delle 36 ore, ma sono ordinario orario di lavoro. Le regole sul riposo sostituivo dello straordinario, che presuppongono una eccedenza rispetto al debito orario settimanale, non sono applicabili ai responsabili di posizione organizzativa in quanto esclusi dalla disciplina dello straordinario.
A tali regole, fa eccezione solo il caso della prestazione lavorativa resa nel giorno del riposo settimanale, in considerazione della tutela costituzionale, legale e contrattuale apprestata per tale riposo; in presenza di questa particolare fattispecie, il titolare di posizione organizzativa avrà diritto comunque a fruire di una giornata di riposo settimanale, che potrà, dunque, essere recuperata secondo modalità da concordare con il dirigente, in modo comunque proporzionato alla durata delle prestazioni rese (19.03.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAlcuni dipendenti di questa amministrazione regionale hanno chiesto l'attivazione del "lavoro agile" in base alla recente normativa emergenziale.
E' possibile concederlo in mancanza di una regolamentazione preventiva, criteri di assegnazione ed in alcuni casi di dotazione informatica necessaria?

Con l'approvazione del DPCM 11.03.2020 si è disposto un mutamento radicale nella definizione delle condizioni e requisiti per lo svolgimento del c.d. "smart working" disponendo che le amministrazioni assicurino "lo svolgimento in via ordinaria delle prestazioni lavorative in forma agile del proprio personale dipendente, anche in deroga agli accordi individuali e agli obblighi informativi di cui agli articoli da 18 a 23 della L. 22.05.2017, n. 81 e individuano le attività indifferibili da rendere in presenza", misura confermata dal D.L. 17.03.2020, n. 18, che, all’art. 87, prevede ulteriori elementi che si possono così sintetizzare:
   - la regola della prestazione lavorativa è il "lavoro agile" per tutta la durata dell'emergenza;
   - tale regola è derogabile esclusivamente per "le attività che ritengono indifferibili e che richiedono necessariamente la presenza sul luogo di lavoro" che dovranno essere espressamente e motivatamente individuate dall'amministrazione;
   - il personale potrà utilizzare la propria dotazione informatica per lo svolgimento della prestazione lavorativa (ricordando che il lavoro agile potrebbe non comportare necessariamente una prestazione per cui si necessita di collegamento telematico);
   - qualora non sia possibile ricorrere al lavoro agile il personale non deve comunque prestare servizio in sede e dovrà fruire di ferie pregresse, congedo, banca ore, rotazione e altri analoghi istituti, nel rispetto della contrattazione collettiva.
Qualora non risulti possibile alcuna delle citate soluzioni, in ogni caso il personale non potrà prestare servizio in sede e dovrà essere esonerato dalla prestazione lavorativa (che costituisce comunque servizio prestato a tutti gli effetti di legge e l'amministrazione non corrisponde l'indennità sostitutiva di mensa, ove prevista).
Ciò detto dunque l'amministrazione qualora non abbia proceduto ancora alla attivazione delle citate misure è situazione di violazione delle misure sanitarie del citato DPCM e potrà essere chiamato in responsabilità in caso di contrazione del virus da parte del personale per quanto attiene alle varie forme di responsabilità diretta.
L'attivazione del lavoro agile non presuppone alcuna preventiva regolamentazione, valutazione delle condizioni personali e/o istanze dell'interessato né l'esistenza di dotazione informatica idonea dell'Ente o dell'interessato.
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Riferimenti normativi e contrattuali
L. 22.05.2017, n. 81 - DPCM 11.03.2020 (18.03.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

PUBBLICO IMPIEGO: Delega funzioni.
Domanda
Il dirigente che ha delegato alcune funzioni alla posizione organizzativa conserva, in ogni caso, il potere di provvedere nell’ambito della materia oggetto della delega, in caso di assenza del delegato?
Risposta
Il ruolo di delegante (l’intrinseca perdurante piena titolarità del potere amministrativo delegato), consente al delegante d’ingerirsi costantemente nel concreto esercizio del potere de quo, anche attraverso la diretta assunzione di provvedimenti esterni, anche durante la presenza in servizio del delegato, a maggior ragione nei periodi di assenza dal servizio (per ferie o altro).
Non è assolutamente necessario un riassetto di qualsiasi genere della delega.
Si ribadisce: il delegante, con la delega, non si spoglia dei propri poteri; si limita ad individuare un’ulteriore modalità di esercizio degli stessi.
Per mere ragioni illustrative e di chiarezza, questa logica può essere esplicitata nel provvedimento di conferimento della delega (12.03.2020 - link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Sulla domanda di risarcimento del danno proposta direttamente nei confronti del funzionario pubblico.
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Risarcimento danni – Pubblico impiego – Azione direttamente posta nei confronti del funzionario – Per l’attività svolta nell’esercizio delle sue funzioni – Inammissibilità.
É inammissibile la domanda di condanna al risarcimento del danno proposta, in sede di giurisdizione amministrativa, direttamente nei confronti del funzionario pubblico per l’attività svolta nell’esercizio delle sue funzioni, alla stregua del consolidato indirizzo delle Sezioni unite della Corte di cassazione (1). 
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   (1) Cass. civ., S.U., ord. 03.10.2016, n. 19677 (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.03.2020 n. 1686 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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6.1. Parimenti inammissibile è, poi, la domanda di condanna al risarcimento del danno proposta, in sede di giurisdizione amministrativa, direttamente nei confronti del funzionario pubblico per l’attività svolta nell’esercizio delle sue funzioni, alla stregua del consolidato indirizzo delle Sezioni unite della Corte di cassazione (cfr., fra le tante, ord. 03.10.2016, n. 19677).
7. Per scrupolo motivazionale, comunque, il Collegio osserva nel merito -nei limiti di quanto evincibile dall’atto di appello- quanto segue.
7.1. Non si è verificata alcuna effettiva e concreta lesione delle prerogative procedimentali del ricorrente, posto che l’Amministrazione lo ha messo in condizione di interloquire, con espressa riserva, all’esito, di un’eventuale modifica del decisum, la cui applicazione, nelle more della rinnovata fase procedimentale, era stata, per di più, unilateralmente sospesa.
7.1.1. Sul punto, il Collegio conviene con l’esegesi sostanzialistica propugnata dal Tribunale.
7.1.2. Invero, la partecipazione al procedimento è un valore sostanziale cui le forme dell’azione amministrativa sono meramente serventi: pertanto, la violazione delle forme attinge la soglia dell’illegittimità solo e nei limiti in cui ne sia conseguito un concreto ed effettivo vulnus alle facoltà di partecipazione dell’interessato.
7.1.3. Nella specie, di contro, il De. è stato messo nella condizione di interloquire con l’Amministrazione, di presentare memorie e documenti e di accedere a quelli in possesso dell’Amministrazione entro un termine prima facie congruo (30 giorni), riservandosi l’Amministrazione, all’esito di tale segmento procedimentale, una nuova valutazione dei fatti.
7.1.4. In tal modo, è stato pienamente assicurato il valore (appunto, sostanziale) della partecipazione procedimentale con un’intensità, un’ampiezza ed una pienezza del tutto analoga a quella che il ricorrente avrebbe ottenuto mediante la riedizione del procedimento.
7.1.5. A fortiori, la violazione di forme del procedimento non determina il radicale vizio della nullità, predicabile solo nei casi eccezionali enucleati nell’art. 21-septies l. n. 241 del 1990 (cfr., ex multis, Cass. civ., Sez. un., 05.03.2018, n. 5097 e 03.10.2016, n. 19682; Cons. Stato, Sez. IV, 24.05.2016, n. 2202).

PUBBLICO IMPIEGO: Permessi giudice popolare.
Domanda
Come vanno giustificate le assenze per l’espletamento delle funzioni di giudice popolare?
Risposta
Come evidenziato dall’Aran in alcuni suoi orientamenti, tanto in riferimento al comparto delle Funzioni Locali quanto ad altri comparti (cfr., tra gli altri, il RAL 1273), la contrattazione collettiva non ha in alcun modo disciplinato le assenze per l’espletamento delle funzioni di giudice popolare.
Esse sono regolate dall’art. 11 della legge n. 278 del 01/04/1951, come sostituito dal D.L. n. 31 del 14/02/1978, convertito nella legge n. 74 del 24/03/1978.
La fonte legale, oltre a stabilire l’obbligatorietà dell’incarico di giudice di popolare, lo equipara a tutti gli effetti all’esercizio delle funzioni pubbliche elettive, il che implica, per gli enti locali, la ricorrenza delle disposizioni in materia introdotte dal d.lgs. 267/2000 (TUEL), ed in particolare l’art. 79 del predetto Testo Unico, che dispone, per tale tipo di assenze, che i dipendenti hanno diritto di assentarsi dal servizio per il tempo strettamente necessario per la partecipazione alle riunioni collegiali o alle sedute degli organi dei quali sono partecipanti, incluso il tempo necessario a raggiungere il luogo di svolgimento della seduta.
Si ritiene, per le ragioni di cui sopra, che analoga considerazione debba farsi pertanto per le assenze del dipendente chiamato a rendere il proprio servizio come giudice popolare.
Il dipendente è tenuto ad avvertire preventivamente l’amministrazione dell’assenza producendo copia del decreto di nomina a giudice popolare; ed al rientro, a giustificazione della stessa, dovrà produrre idonea certificazione rilasciata dalla competente autorità giudiziaria, che varrà a coprire l’assenza per alcune ore o anche per l’intera giornata in funzione di quanto ivi riportato, in relazione alla durata dell’impegno sostenuto (05.03.2020 - link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Trasparenza dei dati relativi a procedimenti disciplinari.
Domanda
Un cittadino, nonché ex dipendente dell’amministrazione, ci chiede ripetutamente di pubblicare gli atti conclusivi dei procedimenti disciplinari a carico di suoi ex colleghi, asserendo che sussista un obbligo ai sensi dell’art. 23, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, trattandosi di provvedimenti amministrativi; in alternativa ne richiede una copia mediante accesso generalizzato.
Il Responsabile della Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPTC), sentito anche il Responsabile della Protezione Dati (RPD), ritiene che entrambe le richieste non possano essere accolte.
È corretto?
Risposta
L’orientamento del RPCT del vostro ente è senz’altro condivisibile.
In primo luogo, il riferimento all’art. 23, del d. lgs. 33/2013, non è assolutamente pertinente poiché, dopo la modifica introdotta dal decreto legislativo 25.05.2016, n. 97 e, in particolare, dopo l’abrogazione del comma 2, la norma richiamata prevede l’obbligo di pubblicazione del solo elenco dei provvedimenti.
Anche ove si proceda alla pubblicazione di singoli provvedimenti, occorre procedere all’oscuramento dei dati personali in essi contenuti. Per pubblicare i dati personali è necessario, infatti, che ci sia una specifica previsione di legge che rappresenti la base giuridica richiesta dal Regolamento (UE) 2016/679 e dall’art. 2-ter del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196, come adeguato al citato Regolamento.
Con riferimento allo specifico quesito proposto è utile anche richiamare una recente pronuncia dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), nella quale si sostiene che il d.lgs. 33/2013 “non dispone per le amministrazioni pubbliche obblighi di pubblicazione di dati riferiti ai procedimenti disciplinari nei confronti dei propri dipendenti, né in forma integrale, né come dato aggregato”.
Ci si riferisce alla delibera n. 1237 del 18.12.2019, con la quale l’ANAC ha fornito indicazioni di portata generale in merito alla trasparenza dei dati relativi ai procedimenti disciplinari, ammettendo soltanto la possibilità di pubblicare i dati relativi al numero dei procedimenti avviati, unitamente alla casistica delle sanzioni disciplinari irrogate, al fine di far conoscere –e dunque prevenire– le tipologie di condotte sanzionabili in cui il dipendente può incorrere.
A ben vedere –come peraltro ricorda l’ANAC– tali dati sono già contenuti nella Relazione annuale del RPCT di cui all’art. 1, comma 14, della legge 06.11.2012, n. 190, che deve essere pubblicata in Amministrazione Trasparente nella sottosezione “Altri contenuti > Prevenzione della corruzione”.
Si vedano le domande contraddistinte con ID 12 – Procedimenti disciplinari e penali, nello schema di file Excel finora utilizzato dagli RPCT, su indicazione dell’ANAC, ovvero la sezione 8 – Monitoraggio procedimenti disciplinari, nella nuova versione della Relazione, generata attraverso la Piattaforma di acquisizione dei Piani Triennali di Prevenzione della Corruzione e Trasparenza.
In merito al diritto di accesso generalizzato (cosiddetto FOIA) il Garante per la protezione dei dati personali, chiamato ad esprimersi dagli RPCT, ai sensi dell’art. 5, come 7, del d.lgs. 33/2013, nell’ambito di procedimenti di riesame per diniego, ha più volte chiarito che non è ammissibile l’accesso generalizzato a tali documenti.
A titolo di esempio, si richiama il parere del 21.11.2018 [doc web 9065404], nel quale, citando precedenti pronunce, il Garante ribadisce che l’ostensione integrale del documento richiesto, unita al particolare regime di pubblicità dei dati oggetto di accesso civico, può arrecare un pregiudizio concreto alla tutela della protezione dei dati personali ai sensi dell’art 5-bis , comma 2, lettera a), del d.lgs. 33/2013.
Resta aperta, dunque, soltanto la possibilità di esercitare l’accesso ai sensi della legge 07.08.1990, n. 241, qualora sussista un interesse qualificato ossia un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso (03.03.2020 - link a www.publika.it).

febbraio 2020

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssenze per provvedimenti Coronavirus.
Domanda
A seguito dell’emissione delle ordinanze ministeriali/regionali recanti “Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-2019“, abbiamo sospeso il servizio dell’asilo nido e della biblioteca civica.
Come devono essere trattate le assenze dal servizio dei questi dipendenti?
Risposta
Le misure urgenti adottate nelle ordinanze di cui al quesito, riguardano interventi volti a contenere la diffusione del COVID-19 più noto come Coronavirus. Allo scopo di evitare il diffondersi del virus è stata disposta la chiusura dei servizi educativi dell’infanzia e delle scuole di ogni ordine e grado, nonché la sospensione dei servizi di apertura al pubblico dei musei e degli altri istituti e luoghi della cultura fino al 1° marzo compreso.
Tale sospensione configura un caso di impossibilità di rendere la prestazione lavorativa non imputabile ad alcuna delle parti del rapporto di lavoro: né al datore di lavoro né al lavoratore.
L’autorità che è intervenuta e ha deciso la sospensione dei servizi non ha infatti agito come datore di lavoro ma come ufficiale di governo.
Peraltro va aggiunto che esistono due diversi tipi di situazioni riconducibili l’una alle ordinanze regionali, le altre alle ordinanze dei sindaci dei comuni sede dei principali focolai del virus.
Le ordinanze regionali sospendono il servizio degli asili nido e delle biblioteche nei rispettivi territori.
Le ordinanze dei sindaci vietano ai residenti nei comuni sedi dei principali focolai, di uscire dal territorio comunale, impedendo quindi al lavoratore di prestare il proprio servizio presso un datore di lavoro al di fuori del territorio comunale oggetto della restrizione.
Non sono rinvenibili nei CCNL vigenti, disposizioni che trattino in modo specifico la complessiva fattispecie e gli effetti che ne possono derivare sul rapporto di lavoro.
Ad oggi, pertanto, possono essere fatte valere le istruzioni fornite dall’ARAN nei casi di eventi calamitosi o eventi atmosferici avversi.
Le indicazioni dell’Agenzia sono quelle di un datore di lavoro che, pur non essendo tenuto a corrispondere la retribuzione per i periodi oggetto di assenza, potrà certamente applicare tutta una serie di istituti e discipline contrattuali che consentono di tutelare la posizione del dipendente.
Le assenze possono pertanto essere giustificate ricorrendo ad istituti contrattuali e di legge come ferie e permessi retribuiti oppure anche concordando con il lavoratore interessato, su un più ampio arco temporale, l’eventuale recupero delle ore non lavorate.
Per quanto riguarda i lavoratori dipendenti degli asili nido e delle biblioteche, agli stessi, potranno essere chieste mansioni da essi esigibili in aree diverse da quelle oggetto di sospensione.
Stessa previsione non è evidentemente applicabile ai lavoratori ai quali sono rivolte le misure restrittive di tipo territoriale.
L’eccezionalità della contingenza in continuo divenire conduce a ritenere che verrà adottata una soluzione per colmare, nell’emergenza, il vuoto normativo che incide negativamente sulla sfera del lavoratore e che si colloca come elemento di differenziazione tra mondo del lavoro privato e pubblico (27.02.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa tutela della privacy nei concorso riservati alle categorie protette.
Domanda
Quali accortezze occorre avere nella gestione di un concorso riservato alle categorie protette, per la parte di pubblicazione dei dati via web?
Risposta
Gli enti che bandiscono procedure concorsuali, riservate alla categorie protette, devono prestare la massima attenzione alla diffusione dei dati dei partecipanti, dal momento che in ballo c’è il trattamento del dato per il quale il legislatore europeo e nazionale hanno previsto il massimo della tutela: lo stato di salute.
La salute, tra tutti i dati sensibili di una persona fisica (il Regolamento UE 2016/679, all’articolo 9, li definisce “particolari”), è certamente quello che deve essere maggiormente protetto, soprattutto nelle comunicazioni via web che l’ente che bandisce il concorso è tenuto a pubblicare, nello svolgimento della selezione.
Qui di seguito, per rispondere al quesito, vengono tracciati una serie di suggerimenti legati alle singole fasi procedimentali del concorso.

Fase 1
Pubblicazione elenco degli ammessi e degli esclusi al concorso.
È possibile convocare i candidati ammessi al concorso (o alla preselezione, se prevista) con un semplice comunicato a firma del presidente della Commissione che recita più o meno così.
AVVISO
Tutti i candidati che hanno presentato domanda di partecipazione al concorso riservato alle categorie protette, per la copertura del posto di ………………. Categoria …………, come da bando pubblicato in data ………….che NON hanno ricevuto lettera di esclusione, sono convocati il giorno……., alle ore…… presso……….. per sostenere la prima prova scritta del concorso.
Sin qui, il problema dei dati, non si pone.


Fase 2
Per la comunicazione dei candidati ammessi alla seconda prova si può procedere con un comunicato del presidente della Commissione, in cui compare solamente l’elenco degli ammessi, con, a fianco, il relativo punteggio. I nominativi dei candidati dovranno essere sostituiti dall’uso delle iniziali o, meglio ancora, da dei codici identificati sostitutivi, attribuiti dalla commissione ad ogni candidato ammesso. Tramite e-mail o telefono, ad ogni candidato verrà comunicato il proprio codice identificativo. Esempio:
Posizione   Candidato                  Punteggio prova scritta
01.            Candidato 014-2020   28/30
02.            Candidato 006-2020   27/30
03.            Candidato 003-2020   26/30


Fase 3
Approvazione graduatoria finale. Anche in questo caso il nominativo del vincitore e dei candidati risultati idonei deve essere sostituito dall’uso di un codice identificativo che sarà lo stesso utilizzato per la comunicazione di ammissione alla seconda prova. Esempio:
Posizione   Candidato                 Punteggio prova scritta   Punteggio prova orale   Punteggio totale   Vincitore / idoneo
01.            Candidato 014-2020   28/30                           27/30                          55                       Vincitore
02.            Candidato 006-2020   27/30                           27/30                          54                       Idoneo
03.            Candidato 003-2020   26/30                           26/30                          52                       Idoneo


Fase 4
Approvazione verbali del concorso e della graduatoria di merito, di norma, con determinazione del responsabile del servizio personale. Anche in questo caso, dovranno essere oscurati tutti i nominativi e sostituiti con dei Codici identificati, già utilizzati in sede concorsuale. Prestare molta attenzione anche al contenuto dei verbali della Commissione che verranno allegati alla determinazione dirigenziale, provvedendo, eventualmente, all’oscuramento di alcuni dati.

Fase 5
Determinazione di assunzione in servizio del vincitore e approvazione schema di contratto individuale.
Nel testo della determinazione e nello schema di contratto individuale, verrà utilizzato il Codice matricola, attribuito preventivamente alla presa in servizio, al neo-dipendente dal servizio personale.

Ricapitolando: sull’argomento occorre prendere a riferimento le seguenti norme:
   • regolamento (UE) 2016/679, in particolare l’articolo 9, Paragrafo 4;
   • decreto legislativo 30.06.2003, n. 196, articolo 2-septies, nel testo inserito dall’art. 2, comma 1, lett. f), del d.lgs. 10.08.2018, n. 101;
   • indicazioni del Garante privacy contenute nel documento del 15.05.2014, recante “Linee guida in materia di trattamento di dati personali, contenuti anche in atti e documenti amministrativi, effettuato per finalità di pubblicità e trasparenza sul web da soggetti pubblici e da altri enti obbligati”, in particolare il Paragrafo 3. rubricato: Fattispecie esemplificative, Parte 3.b – Graduatorie, laddove si specifica che:
Non possono quindi formare oggetto di pubblicazione dati concernenti i recapiti degli interessati (si pensi alle utenze di telefonia fissa o mobile, l’indirizzo di residenza o di posta elettronica, il codice fiscale, l’indicatore ISEE, il numero di figli disabili, i risultati di test psicoattitudinali o i titoli di studio), né quelli concernenti le condizioni di salute degli interessati (cfr. art. 22, comma 8, del Codice), ivi compresi i riferimenti a condizioni di invalidità, disabilità o handicap fisici e/o psichici.

L’insieme di tali disposizioni impedisce, pertanto, agli enti di divulgare i dati sullo stato di salute delle persone fisiche, anche se partecipano a una procedura concorsuale, riservata a soggetti in condizioni di disabilità, compresi i richiami alla legge 12.03.1999, n. 68, recante “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”.
Il divieto risulta ancora più stringente se i dati vengono pubblicati nei siti web, sia nella sezione dedicata all’Albo pretorio on-line che sulla sezione Amministrazione trasparente > Bandi di concorso. La violazione del divieto comporta l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da parte del Garante privacy, come è possibile verificare consultando il seguente link.
Il provvedimento sanzionatorio, nella sua parte narrativa, illustra con precisione le motivazioni che hanno indotto l’Autorità Garante a emanare una ordinanza-ingiunzione, datata 14.03.2019, dell’importo di euro 10mila, nei confronti di un comune del centro Italia, per aver effettuato un trattamento illecito di dati personali mediante la diffusione di dati idonei a rilevare lo stato di salute.
La sanzione –per la quale è stata anche concessa una rateizzazione di 25 rate mensili, da 400 euro ciascuna– rappresenta il minimo edittale previsto, dal momento che la misura della sanzione era stata stabilita (con il “vecchio” Codice privacy) da un minimo di 10.000 a un massimo di 120.000 euro (25.02.2020 - link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Partecipazione impresa famigliare.
Domanda
È possibile per un dipendente pubblico partecipare attivamente alla gestione di un’attività del figlio in qualità di collaboratrice familiare?
Risposta
L’impresa familiare alla quale pare fare riferimento il quesito posto– è disciplinata, nel nostro ordinamento, dall’art. 230 bis del codice civile
[1], ed indica –per definizione– una tipologia di impresa caratterizzata dal lavoro dei familiari nella gestione della stessa, le cui caratteristiche principali sono riconducibili alle seguenti:
   • la presenza di un unico imprenditore;
   • la collaborazione di uno o più familiari nella gestione dell’attività.
I familiari possono lavorare nell’impresa con un contratto di lavoro dipendente, oppure prestare la propria opera in qualità di collaboratori familiari, ed, in tal caso, hanno diritto al mantenimento, alla partecipazione agli utili di impresa, alla gestione dell’attività, limitatamente alla gestione straordinaria, alla destinazione degli utili, alla produzione e alla cessazione dell’impresa. Si tratta, pertanto di una collaborazione attiva alla vita dell’impresa ed anche ai guadagni della stessa.
L’articolo 53, comma 1, del d.lgs. 165/2001, attraverso il richiamo espresso all’articolo 60 del Testo Unico n. 3/1957, sancisce il cosiddetto dovere di esclusività per i pubblici dipendenti, i quali “non possono esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del Ministro competente.”
Tale divieto assoluto risulta mitigato dai successivi commi del citato articolo che prevede che:
   • le pubbliche amministrazioni non possono conferire ai dipendenti incarichi, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, che non siano espressamente previsti o disciplinati da legge o altre fonti normative, o che non siano espressamente autorizzati (comma 2);
   • il conferimento operato direttamente dall’amministrazione, nonché l’autorizzazione all’esercizio di incarichi che provengano da amministrazione pubblica diversa da quella di appartenenza, ovvero da società o persone fisiche, che svolgano attività d’impresa o commerciale, sono disposti dai rispettivi organi competenti secondo criteri oggettivi e predeterminati, che tengano conto della specifica professionalità, tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell’interesse del buon andamento della pubblica amministrazione o situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi, che pregiudichino l’esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente (comma 5).
Al fine di supportare le amministrazioni nell’applicazione della normativa in materia di svolgimento di incarichi da parte dei dipendenti e di orientare le scelte in sede di elaborazione dei propri regolamenti e nella definizione dei “criteri oggettivi e predeterminati”, il tavolo tecnico (a cui hanno partecipato il Dipartimento della funzione pubblica, la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, l’ANCI e l’UPI, avviato ad ottobre 2013, in attuazione di quanto previsto dall’intesa sancita in Conferenza unificata il 24.07.2013) ha formalmente approvato il documento contenente “Criteri generali in materia di incarichi vietati ai pubblici dipendenti”.
In tale documento, è scritto che sono da considerare vietati ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche –con percentuale di tempo superiore al 50%– gli incarichi, sia retribuiti che a titolo gratuito, che presentano la caratteristica della abitualità e professionalità, e si precisa che “l’incarico presenta i caratteri della professionalità laddove si svolga con i caratteri della abitualità, sistematicità/non occasionalità e continuità, senza necessariamente comportare che tale attività sia svolta in modo permanente ed esclusivo.”
D’altra parte, già la Circolare n. 6 del 1997 del Dipartimento della Funzione Pubblica citava il caso partecipazione del dipendente pubblico in società agricole a conduzione familiare, ritenendo che tale attività fosse compatibile solo se l’impegno richiesto è modesto e non abituale o continuato durante l’anno, spettando all’amministrazione di appartenenza –in sede di istruttoria della domanda di autorizzazione– valutare che le modalità di svolgimento siano tali da non interferire sull’attività ordinaria.
Alla luce di quanto sopra esposto, si esclude che la dipendente pubblica di cui al quesito possa partecipare attivamente alla gestione dell’attività di tabaccheria del figlio in qualità di collaboratrice familiare, non rinvenendosi le caratteristiche di saltuarietà ed occasionalità previste per poter legittimamente rilasciare apposita autorizzazione.
---------------
[1] Art. 230-bis Codice Civile: “Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.
Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all’impresa stessa. I familiari partecipanti all’impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la responsabilità genitoriale su di essi.
Il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo
" (20.02.2020 - link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOPubblicazione provvedimenti organi indirizzo e dirigenti.
Domanda
Quali sono i provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo e dai dirigenti, oggetto degli specifici obblighi di pubblicazione, di cui all’art. 23, del d.lgs. n. 33/2013?
Risposta
L’articolo 23, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, nella sua versione iniziale, prevedeva l’obbligo di pubblicare e aggiornare ogni sei mesi, in distinte partizioni della sezione «Amministrazione trasparente», gli elenchi dei provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo politico e dai dirigenti, con particolare riferimento ai provvedimenti finali dei procedimenti di:
   a) autorizzazione o concessione;
   b) scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e servizi, anche con riferimento alla modalità di selezione prescelta ai sensi del codice dei contratti pubblici, relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al d.lgs. n. 163/2006;
   c) concorsi e prove selettive per l’assunzione del personale e progressioni di carriera di cui all’art. 24 del d.lgs. n. 150/2009;
   d) accordi stipulati dall’amministrazione con soggetti privati o con altre amministrazioni pubbliche.
Il successivo comma 2, stabiliva, invece, che per ciascuno dei provvedimenti compresi negli elenchi di cui al comma 1 doveva essere pubblicato:
   • il contenuto;
   • l’oggetto;
   • l’eventuale spesa prevista;
   • gli estremi relativi ai principali documenti contenuti nel fascicolo relativo al procedimento.
La pubblicazione doveva avvenire nella forma di una scheda sintetica, prodotta automaticamente in sede di formazione del documento che contiene l’atto.
La norma originaria –peraltro non cristallina nella sua formulazione, in virtù della presenza della locuzione “con particolare riferimento”– ha subito delle sostanziali modifiche da parte dell’articolo 22, comma 1, del decreto legislativo 25.05.2016, n. 97, che ha abrogato le lettere a) e c), del comma 1 e l’intero comma 2.
Alla luce delle modifiche intervenute, il testo dell’art. 23, del d.lgs. 33/2013, risulta, oggi, così strutturato:
Art. 23 Obblighi di pubblicazione concernenti i provvedimenti amministrativi
   1. Le pubbliche amministrazioni pubblicano e aggiornano ogni sei mesi, in distinte partizioni della sezione «Amministrazione trasparente», gli elenchi dei provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo politico e dai dirigenti, con particolare riferimento ai provvedimenti finali dei procedimenti di:
[a) autorizzazione o concessione;]
b) scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e servizi, anche con riferimento alla modalità di selezione prescelta ai sensi del codice dei contratti pubblici, relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al d.lgs. 18.04.2016, n. 50, fermo restando quanto previsto dall’articolo 9-bis;
[c) concorsi e prove selettive per l’assunzione del personale e progressioni di carriera di cui all’art. 24 del d.lgs. 150/2009;]
d) accordi stipulati dall’amministrazione con soggetti privati o con altre amministrazioni pubbliche, ai sensi degli artt. 11 e 15 della legge 07.08.1990, n. 241.
   [2. Per ciascuno dei provvedimenti compresi negli elenchi di cui al comma 1 sono pubblicati il contenuto, l’oggetto, la eventuale spesa prevista e gli estremi relativi ai principali documenti contenuti nel fascicolo relativo al procedimento. La pubblicazione avviene nella forma di una scheda sintetica, prodotta automaticamente in sede di formazione del documento che contiene l’atto.]
Alla luce di quanto sopra, la risposta al quesito può essere formulata come di seguito riportato:
   – ogni sei mesi e per la durata di anni cinque, occorre pubblicare su Amministrazione trasparente > Provvedimenti, un elenco con i principali provvedimenti degli organi di indirizzo che, nei comuni, sono il Sindaco, la Giunta e il Consiglio comunale
[1], pertanto, andranno pubblicati i seguenti elenchi:
   • deliberazioni di Consiglio comunale;
   • deliberazione di Giunta comunale;
   • ordinanze del sindaco, ex art. 50 del TUEL 267/2000;
   • ordinanze del sindaco, ex art. 54 TUEL 267/2000;
   • decreti del sindaco.
Per ciò che concerne i dirigenti (o posizioni organizzative, in enti senza la dirigenza) occorre pubblicare degli elenchi semestrali di:
   • determinazioni dirigenziali;
   • ordinanze dirigenziali.
La tempistica degli obblighi di pubblicazione può essere indicata nella sezione Trasparenza, del Piano Anticorruzione, prevedendo –ma è solo una nostra indicazione– che gli elenchi del primo semestre dell’anno vengano pubblicati entro il 30 settembre del medesimo anno e gli elenchi del secondo semestre, entro il 31 marzo dell’anno successivo.
Per quanto riguarda, invece, gli atti per la scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e servizi, si ritiene che l’obbligo possa ritenersi già assolto, pubblicando tutti gli atti nella sottosezione Bandi di gara e contratti, come scrupolosamente previsto dall’articolo 37, del d.lgs. 33/2013
[2], mentre per gli accordi con altri soggetti, stipulati ai sensi degli artt. 11 e 15 della legge 241/1990, l’obbligo sarà già assolto con la pubblicazione degli elenchi delle deliberazioni di Giunta e di Consiglio o, in caso di accordi di rilevante impatto sull’organizzazione e sulle funzioni dell’ente, nella sottosezione Disposizioni generali > Atti generali.
L’elenco, in assenza di specifiche indicazioni della legge e dell’ANAC
[3], si ritiene che possa essere formato come da tabella sotto riportata, prestando la massima attenzione e cautela al contenuto dell’oggetto dell’atto, soprattutto alla luce delle vigenti disposizioni in materia di tutela dei dati personali (si pensi, a titolo di esempio per tutti, alle ordinanze sindacali di TSO e ASO [4]).

ATTO                     NUM.   DATA           OGGETTO
Delibera consiliare   01       07.01.2020   Approvazione …


Contrariamente a ciò che si trova pubblicato in alcuni siti web di qualche ente locale, chi scrive, ritiene che non sia più pubblicabile il contenuto (cioè il testo integrale) degli atti adottati dagli amministratori e dai dirigenti. Ciò in virtù dell’introduzione, nella legislazione italiana, proprio dal d.lgs. 97/2016, dell’innovativo (e per certi versi rivoluzionario) istituto dell’accesso civico generalizzato (cosiddetto: FOIA)
[5].
Istituto attraverso il quale, qualsiasi cittadino del mondo, potrà avanzare richiesta di accesso ai dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, in forma totalmente gratuita e senza necessità di motivazione. Una volta consultati gli elenchi e avuto contezza dell’oggetto dell’atto, sarà estremamente agevole presentare istanza di accesso con il FOIA o con la legge 241/1990 (Titolo V, motivando la richiesta ex art. 22, comma 1, lettera b
[6]). I relativi modelli per garantire l’accesso (FOIA o legge 241), dovranno essere pubblicati e resi facilmente scaricabili e compilabili, dagli enti nella sottosezione Altri contenuti > Accesso civico.
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[1] Si veda articolo 36, comma 1, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267;
[2] Si veda Allegato 1, delibera ANAC n. 1310 del 28/12/2016, sottosezione “Provvedimenti”;
[3] Si veda Paragrafo 5.5, della delibera ANAC n. 1310 del 28/12/2016, recante “Prime linee guida recanti indicazioni sull’attuazione degli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni contenute nel d.lgs. 33/2013 come modificato dal d.lgs. 97/2016”;
[4] TSO = Trattamento Sanitario Obbligatorio; ASO = Assistenza Sanitaria Obbligatoria;
[5] Si veda articolo 5, comma 2 e seguenti e articolo 5-bis, d.lgs. 33/2013;
[6] Legge 241/1990, art. 22, co. 1, lettera b): per “interessati”, tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso
(18.02.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Convezione art. 14 per utilizzo P.O..
Domanda
Potreste spiegare meglio come funziona una convenzione tra enti per l’utilizzo congiunto di un dipendente incaricato di posizione organizzativa?
Risposta
L’articolo 14 del CCNL 22/01/2004 ha introdotto la possibilità di utilizzo congiunto di un dipendente tra più enti locali, chiarendo che esso deve essere disciplinato da idoneo accordo tra le amministrazioni interessate, che disponga innanzitutto in merito alla percentuale di ripartizione della prestazione lavorativa del dipendente in favore dell’ente di appartenenza (cui rimane organicamente legato) e in favore dell’ente utilizzatore (dal quale dipenderà funzionalmente per la quota parte ad esso assegnata).
Già tale originaria disposizione pattizia, ripresa nella stessa direzione dall’articolo 17, comma 6, del CCNL 21/05/2018, aveva chiarito che nulla osta a che il dipendente in questione sia titolare di un incarico di posizione organizzativa presso uno o tutti e due gli enti coinvolti: ciascun ente, però, dovrà riproporzionare il valore dell’indennità di posizione attribuita presso di sé e derivante dal processo di pesatura effettuato secondo le proprie regole, in funzione della percentuale di attribuzione della prestazione lavorativa spettante; e ciascun ente si farà carico della propria quota di indennità, dovendo l’ente utilizzatore rimborsare all’ente di provenienza solo le normali voci retributive del dipendente e non certo la quota di indennità di posizione attribuita presso l’altra amministrazione.
Per essere ancora più espliciti, se presso l’ente A (ente di appartenenza), il dipendente è titolare di un incarico di posizione organizzativa cui è attribuita una indennità di posizione di euro 10.000,00/annui, e la convenzione per l’utilizzo congiunto del dipendente prevede una ripartizione della prestazione lavorativa al 50% (18 h/settimanali per ciascun ente), ecco che l’ente di appartenenza dovrà riproporzionare tale indennità al 50%, corrispondendo al dipendente una posizione pari ad euro 5.000,00 annui.
Nulla dovrà l’ente utilizzatore, che chiameremo B, in relazione a tale somma, che resta di esclusiva competenza e interesse dell’ente A.
Ove lo ritenga, e secondo il proprio regolamento in materia, l’ente B potrà certamente attribuire altro incarico di posizione organizzativa allo stesso dipendente, procedendo, quanto alla sua pesatura, esattamente come A, ovvero seguendo il proprio disciplinare in materia e riproporzionandola al 50%.
L’art. 16, comma 6, del CCNL 21/05/2018, all’ultimo capoverso, aggiunge solo che “al fine di compensare la maggiore gravosità della prestazione svolta in diverse sedi di lavoro, i soggetti di cui al precedente alinea possono altresì corrispondere con oneri a proprio carico, una maggiorazione della retribuzione di posizione attribuita ai sensi del precedente alinea, di importo non superiore al 30% della stessa”, intendendo che il solo ente utilizzatore, ovvero B, può riconoscere, se lo ritiene, una maggiorazione della posizione eventualmente attribuita presso di sé (e riproporzionata come illustrato sopra) fino al 30% della stessa. Tale facoltà non è concessa all’ente di provenienza.
Nell’esempio (con cifre puramente indicative) proposto, perciò:
   • Ente A è posizione euro 10.000,00 – utilizzo 50% è nuovo importo posizione euro 5.000,00 (interamente a carico di A)
   • Ente B è posizione euro 9.000,00 – utilizzo 50% è nuovo importo 4.500,00 + (eventualmente) maggiorazione 30% pari a euro 1.350,00, per un totale di euro 5.850,00 (interamente a carico di B) (13.02.2020 - link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: La pretesa risarcitoria nei confronti del funzionario di un ente pubblico, come responsabile del procedimento indicato come fonte del danno, va proposta al giudice ordinario.
Considerato l’articolo 28 Cost. (sulla diretta responsabilità dei funzionari e dipendenti pubblici «per gli atti compiuti in violazione dei diritti») e l’art. 103 della Costituzione (per il quale il giudice amministrativo ha giurisdizione «per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie, indicate dalla legge, dei diritti soggettivi»), si evince che la pretesa risarcitoria nei confronti del funzionario di un ente pubblico, come responsabile del procedimento indicato come fonte del danno, va proposta al giudice ordinario: e non porta a diverse conclusioni la circostanza della avvenuta chiamata in garanzia dell'ente pubblico, perché la connessione non fa derogare alla giurisdizione.
Nemmeno rileva accertare preliminarmente se il funzionario ha agito in veste di organo dell'ente pubblico, cioè nell’ambito del rapporto di immedesimazione organica, ovvero al di fuori del rapporto organico. Nell’uno e nell’altro caso, invero, la domanda risarcitoria è proposta contro la persona del funzionario, che è distinta dall'amministrazione (la quale, al più, è con lui solidamente obbligata).
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4. Va in limine esaminato il terzo motivo di appello, con cui la società Ni.Ga. ha contestato le statuizioni di prime cure nella parte in cui hanno dichiarato inammissibile, perché proposta dinanzi al giudice privo di giurisdizione, la domanda risarcitoria nei confronti dei RUP dell’Amministrazione appellata.
Per l’appellante si verte nella specie in un’ipotesi di giurisdizione amministrativa esclusiva: la domanda risarcitoria è stata, infatti, formulata nei confronti dei funzionari dell’ente pubblico in quanto anch’essi responsabili dell’inadempimento agli obblighi assunti con l’accordo ex art. 11 l. n. 241 del 1990 di cui al verbale di riunione sottoscritto il 01.12.2009. Non sarebbe pertanto in sé dirimente la natura privata del soggetto convenuto.
4.1. Il motivo è infondato.
4.2. Bene la sentenza appellata ha rilevato il difetto di giurisdizione amministrativa in parte qua, ritenendo la giurisdizione ordinaria.
Infatti, considerato l’articolo 28 Cost. (sulla diretta responsabilità dei funzionari e dipendenti pubblici «per gli atti compiuti in violazione dei diritti») e l’art. 103 della Costituzione (per il quale il giudice amministrativo ha giurisdizione «per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie, indicate dalla legge, dei diritti soggettivi»), si evince che la pretesa risarcitoria nei confronti del funzionario di un ente pubblico, come responsabile del procedimento indicato come fonte del danno, va proposta al giudice ordinario: e non porta a diverse conclusioni la circostanza della avvenuta chiamata in garanzia dell'ente pubblico, perché la connessione non fa derogare alla giurisdizione (Cass., SS.UU., 05.03.2008 n. 5914, 17.05.2010, n. 11932 e 08.03.2011 n. 5408).
Nemmeno rileva accertare preliminarmente se il funzionario ha agito in veste di organo dell'ente pubblico, cioè nell’ambito del rapporto di immedesimazione organica, ovvero al di fuori del rapporto organico. Nell’uno e nell’altro caso, invero, la domanda risarcitoria è proposta contro la persona del funzionario, che è distinta dall'amministrazione (la quale, al più, è con lui solidamente obbligata) (Cass., SS.UU., 13.06.2006 n. 13659) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.02.2020 n. 1055 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOQuesta Amministrazione (Azienda partecipata da Enti Locali) si trova a dover bandire alcuni concorsi per l'assunzione di personale di vari profili.
Quali sono i limiti legittimi per la previsione di concorsi non solo per esami ma anche per titoli volendo selezionare per alcuni di questi personale particolarmente qualificato?

Le Amministrazioni pubbliche possono prevedere, nell'ambito della propria autonomia organizzativa e discrezionalità di procedere a bandi di concorso per soli esami o per titoli ed esami. Tale scelta non è sindacabile nel merito dal giudice amministrativo anche se l'individuazione dei titoli valutabili e del peso da attribuire agli stessi incontra qualche limitazione.
Il DPR 09.05.1994, n. 487, art. 8 "Regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi" detta all'art. 8 alcuni vincoli di carattere generale che sono:
   - la valutazione dei titoli va effettuata previa individuazione dei criteri (da inserire nel bando)
   - la valutazione è effettuata dopo le prove scritte e prima che si proceda alla correzione dei relativi elaborati
   - ai titoli non può essere attribuito un punteggio complessivo superiore ad un terzo del massimo (10/30 o equivalente)
   - il bando indica i titoli valutabili ed il punteggio massimo agli stessi attribuibile singolarmente e per categorie di titoli.
   - la votazione complessiva è determinata sommando il voto conseguito nella valutazione dei titoli al voto complessivo riportato nelle prove d'esame.
Entro questi limiti la giurisprudenza consolidata e costante (anche recente) riconosce un ampio potere discrezionale nell'individuazione della tipologia dei titoli richiesti per la partecipazione da esercitare tenendo conto della professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire, suscettibile di sindacato giurisdizionale esclusivamente sotto i profili della illogicità, arbitrarietà e contraddittorietà e ciò sia in fase di predeterminazione (bando) che di valutazione.
Infatti "la Commissione esaminatrice di un pubblico concorso è titolare di ampia discrezionalità nel catalogare i titoli valutabili in seno alle categorie generali predeterminate dal bando, nell'attribuire rilevanza ai titoli e nell'individuare i criteri per attribuire i punteggi ai titoli nell'ambito del punteggio massimo stabilito, senza che l'esercizio di tale discrezionalità possa essere oggetto di censura in sede di giudizio di legittimità, a meno che non venga dedotto l'eccesso di potere per manifesta irragionevolezza e arbitrarietà".
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.R. 09.05.1994, n. 487, art. 8
Riferimenti di giurisprudenza

Cons. Stato Sez. VI, 24.01.2020, n. 590 - TAR Campania-Napoli Sez. II, 07.01.2020, n. 47 - TAR Campania-Salerno Sez. I, 07.01.2020, n. 5 - TAR Basilicata Sez. I, 05.12.2019, n. 879 - TAR Sicilia-Catania Sez. I, 15.11.2019, n. 2737 - Cons. Stato Sez. VI, 14.10.2019, n. 6971 - TAR Lazio-Roma Sez. III-bis, 30.09.2019, n. 11420 - TAR Campania-Napoli Sez. II, 25.09.2019, n. 4571 - TAR Lazio-Roma Sez. III-ter, 24.09.2019, n. 11306 - TAR Sardegna Sez. I, 11.12.2018, n. 1015 - TAR Lazio-Roma Sez. II-quater, 05.06.2018, n. 6227
(12.02.2020 - tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALILa piattaforma ANAC per l’acquisizione dei piani triennali di prevenzione della corruzione.
Domanda
Da una lettura delle disposizioni in merito alla stesura del PTPCT 2020 e agli adempimenti da eseguire, successivamente alla approvazione definitiva, è emersa la necessità di compilare il questionario sul sito di ANAC secondo le modalità indicate nella “Piattaforma di Acquisizione dei Piani Triennali per la Prevenzione della Corruzione e per la Trasparenza – Guida alla compilazione dei questionari per le Pubbliche Amministrazioni”.
Si chiede se tale compilazione sia obbligatoria e se è da effettuarsi entro il termine del 31 gennaio 2020, medesimo termine indicato per la approvazione del PTPCT.
Risposta
L’articolo 1, comma 8, della legge 06.11.2012, n. 190, prevede che, entro il 31 gennaio di ogni anno, l’organo di indirizzo politico, su proposta del Responsabile della Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPCT), adotti il Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT) e lo trasmetta all’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC)
Al comma 14, del medesimo articolo, si prevede che, entro il 15 dicembre di ogni anno, il RPCT trasmetta all’organo di indirizzo politico e all’Organismo Indipendente di Valutazione (OIV) una relazione recante i risultati dell’attività svolta e la pubblichi sul sito web dell’amministrazione.
I due adempimenti (PTPCT e Relazione annuale) sono evidentemente collegati in quanto il nuovo PTPCT dovrà tener conto dei risultati dell’annualità precedente.
Generalmente l’ANAC, prima della scadenza del 15 dicembre, proroga il termine e lo allinea con quello previsto per l’adozione del PTPCT. Anche quest’anno l’ANAC, con il Comunicato del 13.11.2019, ha posticipato il termine per la pubblicazione della relazione annuale del RPCT al 31.01.2020.
Tra i compiti dell’ANAC, vi è quello di verificare e monitorare l’adozione, da parte delle amministrazioni, del PTPCT e l’attuazione della normativa e delle misure di prevenzione della corruzione.
Tale attività si è esplicata non solo attraverso la cosiddetta vigilanza, ma anche attraverso un’attività di monitoraggio, finalizzata a valutare la qualità dei PTPCT e delle misure di prevenzione, la congruità di tali documenti rispetto alle indicazioni fornite dall’Autorità nei Piani Nazionali Anticorruzione (PNA) e l’opportunità di eventuali correttivi.
Dal 2019 è disponibile una Piattaforma, predisposta dall’ANAC, per l’acquisizione e il monitoraggio dei Piani Anticorruzione e per la redazione delle relazioni annuali dei Responsabili. Essa può essere utilizzata anche per il monitoraggio di competenza del RPCT.
Il Presidente ANAC ne ha dato notizia con il Comunicato del 12.06.2019, consentendo di accreditarsi e di inserire i dati relativi al PTPCT 2019-2021.
La piattaforma permette:
a) all’Autorità, di condurre analisi qualitative dei dati grazie alla sistematica e organizzata raccolta delle informazioni e, dunque, di poter rilevare le criticità dei PTPCT e migliorare, di conseguenza, la sua attività di supporto alle amministrazioni;
b) ai RPCT:
   – di avere una migliore conoscenza e consapevolezza dei requisiti metodologici più rilevanti per la costruzione del PTPCT;
   – monitorare nel tempo i progressi del proprio PTPCT;
   – conoscere, in caso di successione nell’incarico di RPCT, gli sviluppi passati del PTPCT;
   – effettuare il monitoraggio sull’attuazione del PTPCT;
   – produrre la relazione annuale.
Il PNA 2019 (delibera ANAC n. 1064 del 13.11.2019) e il citato Comunicato ANAC non esplicitano in maniera chiara se sia obbligatorio procedere alla registrazione e all’inserimento dei dati relativi al PTPCT 2020-2022. Tuttavia, considerato che viene richiamato, quale base giuridica della piattaforma, il comma 8, dell’art. 1, della legge 190/2012, che prevede la trasmissione del PTPCT ad ANAC, si può ritenere che la Piattaforma sia la modalità per adempiere a tale previsione normativa.
A sostegno di tale interpretazione si richiama l’allegato 1, al PNA 2019 nel quale si dice che i RPCT “sono tenuti ora a registrarsi ed accreditarsi” sulla Piattaforma. La precisazione che, per il 2020, la Piattaforma opera in forma sperimentale, sembra relativa esclusivamente all’ambito di operatività, limitato, per ora, alle sole amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165.
L’utilizzo della Piattaforma per il monitoraggio di competenza del RPCT è, invece, facoltativo, come facoltativo è il livello di approfondimento, non obbligando il sistema all’inserimento di tutte le misure specifiche.
Non è, invece, previsto un termine per l’inserimento, che potrà essere effettuato a partire dall’adozione del PTPCT, essendo un adempimento strumentale al monitoraggio, sia dell’ANAC che del RPCT.
La Piattaforma si compone di tre sezioni:
   • Anagrafica: finalizzata all’acquisizione delle informazioni in merito all’amministrazione, al Responsabile della prevenzione della Corruzione e Trasparenza, alla sua formazione e alle sue competenze;
   • questionario Piano Triennale: finalizzato all’acquisizione delle informazioni relative al Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT) e alla programmazione delle misure di prevenzione della corruzione;
   • questionario Monitoraggio attuazione: finalizzato all’acquisizione delle informazioni relative alle misure di prevenzione ed allo stato di avanzamento del PTPCT.
Per ulteriori informazioni si rinvia al box 15, dell’Allegato 1, al PNA 2019 e alle indicazioni disponibili al seguente link.
A completamento informativo, si segnala che con comunicato del 27.11.2019, il Presidente dell’ANAC precisa che l’utilizzo e la compilazione dei dati nella Piattaforma non può essere delegato a soggetti esterni all’Amministrazione, in attuazione del principio secondo cui soggetti terzi non possono predisporre il PTPCT e neppure fornire contributi per la redazione dello stesso. Nel Comunicato si specifica, anche, che non possono far parte della struttura di supporto al RPCT soggetti esterni all’amministrazione.
Per la relazione annuale 2019, l’ANAC prevede che si possa, alternativamente, utilizzare la Scheda in formato Excel, analoga a quella in uso negli anni scorsi (con due sole sezioni aggiuntive concernenti rispettivamente “la rotazione straordinaria” e “il pantouflage”), o generare in modo automatico la relazione attraverso la Piattaforma, dopo aver completato l’inserimento dei dati relativi ai PTPCT e alle misure di attuazione (vedi Comunicato del 13.11.2019).
È prevedibile che, per la relazione 2020, l’ANAC richiederà esclusivamente la seconda modalità.
Tutto ciò premesso, la risposta allo specifico quesito è la seguente:
   a) la compilazione può ritenersi obbligatoria;
   b) il termine per provvedervi non è stato definito, ma non è quello del 31.01.2020.
Per quanto sopra, l’ente interpellante ha come obbligo di pubblicare la relazione riferita all’anno 2019 e il PTPCT 2020/2022, approvato con deliberazione della Giunta comunale, nel proprio sito web nella sezione Amministrazione trasparente > Altri contenuti > Prevenzione della corruzione (11.02.2020 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La cessazione del rapporto di lavoro.
Il divieto di monetizzazione delle ferie non godute, alla luce della sentenza della Corte Cost. 06.05.2016 n. 95, è correlato a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro sia riconducibile ad una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o a eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentano di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore.
Esulano, invece, dall’ambito di applicazione di tale divieto le vicende estintive del rapporto di lavoro non imputabili alla volontà delle parti
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2. Devono essere brevemente tratteggiati il quadro normativo di riferimento e i principi giurisprudenziali elaborati in subjecta materia.
2.1. Le modalità di godimento delle ferie annuali continuano ad essere disciplinate, per il personale di magistratura ordinaria, dalle disposizioni previste dall'art. 36 del D.P.R. 10.01.1957, n. 3, nonché da quelle dell'art. 15 della legge 11.07.1980, n. 312 (la cui applicabilità ai magistrati ordinari discende dalla norma di rinvio contenuta nell'art. 276 dell'Ordinamento Giudiziario) laddove recitano, rispettivamente: "il godimento del congedo entro l'anno può essere rinviato o interrotto per eccezionali esigenze di servizio; in tal caso l'impiegato ha diritto al cumulo dei congedi entro il primo semestre dell'anno successivo" e: "il congedo ordinario è stabilito in trenta giorni lavorativi da fruirsi irrinunciabilmente nel corso dello stesso anno solare in non più di due soluzioni, salvo eventuali motivate esigenze di servizio, nel qual caso l’impiegato ha diritto al cumulo dei congedi entro il primo semestre dell'anno successivo”.
Il Consiglio Superiore della Magistratura, in data 20.12.2001, nel rispondere ad un quesito e con riferimento a precedenti circolari adottate in materia, ha ribadito l'applicabilità ai magistrati dell'art. 15 della L. n. 312/1980 ed ha precisato che "normalmente il congedo ordinario deve essere goduto continuativamente in coincidenza con il periodo feriale" ma che "per ragioni di servizio è tuttavia possibile una diversa distribuzione, da parte dei capi degli uffici, del periodo di congedo durante l'anno come già stabilito da risoluzioni del C.S.M con la possibilità di recupero nel semestre dell'anno successivo".
Inoltre ha affermato che "il termine posto dall'art. 15 della legge n. 312/1980 e dall'art. 36 del D.P.R. n. 3/1957 ‘entro il primo semestre dell'anno successivo’ è da intendersi come perentorio e non superabile e che il magistrato, essendo irrinunciabile il diritto alle ferie, ha il dovere di goderlo entro il detto limite", ammettendo soltanto che, per ragioni di oggettiva impossibilità, il magistrato possa fruire delle ferie immediatamente dopo la cessazione della causa ostativa, eventualmente superando, in via di eccezione, il termine del primo semestre dell'anno successivo.
Riguardo, poi, ai criteri che devono presiedere alla certificazione delle esigenze di servizio, comprovanti la necessità di rinvio della fruizione del congedo ordinario, l'Amministrazione continua a fare sempre riferimento alle disposizioni contenute nelle circolari AG/EC/4014 del 06.08.1998 e AG/EC/3730 del 16.06.2000 a firma del Direttore Generale dell'Organizzazione Giudiziaria e degli Affari Generali, diramate a tutti i Capi degli Uffici, ove, a precisazione delle su citate statuizioni normative, si sottolinea che, per quanto concerne l'attestazione della sussistenza delle esigenze di servizio che comportino il rinvio al congedo ordinario, è necessario che le stesse siano adeguatamente certificate, sia sotto il profilo formale sia sotto quello sostanziale, aggiungendo, altresì, che non sono ritenute adeguate le certificazioni generiche e di stile, richiedendosi invece la documentata indicazione, volta per volta, di puntuali riferimenti a situazioni e circostanze che possano essere idonee allo scopo.
Inoltre, con la seconda circolare citata, l'Amministrazione richiede che i magistrati debbano predisporre, tempestivamente, le singole richieste di ferie, anche in presenza di probabili esigenze di ufficio che ne potrebbero giustificare il diniego e che è compito dei Capi degli Uffici, eventualmente, rigettare la richiesta mediante la redazione di un provvedimento che deve indicare specificatamente e dettagliatamente le ragioni di detto diniego.
Successivamente, nella delibera adottata nella seduta del 14.07.2010 e nelle circolari datate 30.07.2010 e 21.04.2011, quest'ultima modificata mediante risoluzione del 20.04.2016 e relazione introduttiva del 26.03.2015, il Consiglio Superiore della Magistratura è ritornato nuovamente sul tema, e nel ribadire e sintetizzare quanto già in precedenza affermato in tema di godimento delle ferie da parte dei magistrati, afferma nuovamente che, del tutto eccezionalmente, le ferie non godute possono essere recuperate oltre il primo semestre dell'anno successivo rispetto a quello di riferimento, purché sia dimostrata la ricorrenza in concreto di condizioni ostative al rispetto del termine de quo; inoltre, detta una disciplina secondaria in tema di programmazione delle ferie e di piani di recupero delle ferie residue, ma sempre nel rispetto delle disposizioni su citate.
2.2. Nelle more è stato emanato il D.L. 06.07.2012 n. 95 (entrato in vigore il 07.07.2012) convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012 n. 135, il cui art. 5, comma 8, ha disposto che “le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche … sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. La presente disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età. Eventuali disposizioni normative e contrattuali più favorevoli cessano di avere applicazione a decorrere dall'entrata in vigore del presente decreto…”.
2.3. Detta norma è stata oggetto di interpretazione da parte della giurisprudenza nazionale ed europea, nei termini di seguito tratteggiati.
2.3.1. Con sentenza della Sezione X del 20.07.2016 (causa C. 341/15) la Corte di Giustizia ha affermato che l'articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88 deve essere interpretato nel senso che:
   - esso osta a una normativa nazionale che priva del diritto all'indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute il lavoratore il cui rapporto di lavoro sia cessato a seguito della sua domanda di pensionamento e che non sia stato in grado di usufruire di tutte le ferie prima della fine di tale rapporto di lavoro;
   - un lavoratore ha diritto, al momento del pensionamento, all'indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute per il fatto di non aver esercitato le sue funzioni per malattia;
   - un lavoratore il cui rapporto di lavoro sia cessato e che, in forza di un accordo concluso con il suo datore di lavoro, pur continuando a percepire il proprio stipendio, fosse tenuto a non presentarsi sul posto di lavoro per un periodo determinato antecedente il suo pensionamento, non ha diritto all'indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute durante tale periodo, salvo che egli non abbia potuto usufruire di tali ferie a causa di una malattia;
   - spetta, da un lato, agli Stati membri decidere se concedere ai lavoratori ferie retribuite supplementari che si sommano alle ferie annuali retribuite minime di quattro settimane previste dall'articolo 7 della direttiva 2003/88.
In tale ipotesi, gli Stati membri possono prevedere di concedere al lavoratore che, a causa di una malattia, non abbia potuto usufruire di tutte le ferie annuali retribuite supplementari prima della fine del suo rapporto di lavoro, un diritto all'indennità finanziaria corrispondente a tale periodo supplementare. Spetta, dall'altro lato, agli Stati membri stabilire le condizioni di tale concessione.
2.3.2. La Corte Costituzionale con la pronuncia interpretativa di rigetto n. 95 del 06.05.2016, ha escluso l'illegittimità costituzionale della norma in parola, affermando che la stessa va interpretata nel senso che debba esser sempre riconosciuta la "compensazione economica" allorquando il godimento delle ferie sia “compromesso dalla malattia o da altra causa non imputabile al lavoratore".
2.3.3. Sul tema della monetizzazione delle ferie il Consiglio di Stato ha affermato che "il diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute dal pubblico dipendente, anche in mancanza di una norma espressa che preveda la relativa indennità, discende direttamente dallo stesso mancato godimento delle ferie, in armonia con l'art. 36 Cost., quando sia certo che tale vicenda non sia stata determinata dalla volontà del lavoratore e non sia a lui comunque imputabile, e dunque anche in caso di cessazione dal servizio per infermità; ciò in quanto il carattere indisponibile del diritto alle ferie non esclude l'obbligo della stessa Amministrazione di corrispondere il predetto compenso per le prestazioni effettivamente rese, non essendo logico far discendere da una violazione imputabile all'Amministrazione il venir meno del diritto all'equivalente pecuniario della prestazione effettuata; analoga conclusione deve trarsi ove le ferie non siano state fruite per cessazione dal servizio per infermità" (Cons. Stato, Sez. IV, 13.03.2018, n. 1580).
Da tale carattere di indisponibilità e irrinunciabilità discende il diritto al compenso sostitutivo, ogni qual volta la fruibilità del congedo stesso sia oggettivamente esclusa per causa indipendente dalla volontà del lavoratore o per fatto specifico della P.A. datrice di lavoro (in materia, TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 25.06.2015, TAR Sardegna, 13.02.2013 n. 116; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 03.05.2011 n. 598; Cons. Stato, Sez. IV, 24.02.2009 n. 1084).
Il diritto alla monetizzazione del congedo ordinario (non fruito) matura ogniqualvolta il dipendente non ne abbia potuto usufruire (ovvero non abbia potuto disporre e godere delle sue ferie) a cagione di obiettive esigenze di servizio o comunque per cause da lui non dipendenti o a lui non imputabili (Cons. Stato, Sez. III, 21.03.2016 n. 1138).
Quindi il divieto di monetizzazione delle ferie di cui all’art. 5, comma 8, D.L. 06.07.2012 n. 95 va interpretato nel senso che tale disciplina non pregiudica il diritto alle ferie ove prevede che non si possano corrispondere in nessun caso trattamenti economici sostitutivi, giacché correla il contestato divieto a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentono di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo, sicché la norma in parola va interpretata come diretta a reprimere il ricorso incontrollato alla monetizzazione delle ferie non godute, contrastandone gli abusi, e a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie, per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro, senza arrecare pregiudizio al lavoratore incolpevole (TAR Emilia Romagna, Parma, 17.01.2017, n. 14; v. anche TAR Friuli Venezia Giulia, 11.07.2018, n. 247).
2.3.4. E, per il pubblico impiego contrattualizzato, la giurisprudenza del giudice del lavoro è costante nell'affermare che in tema di pubblico impiego e monetizzazione delle ferie non fruite, sussiste il diritto del ricorrente al pagamento delle ferie e dei riposi non goduti, quando lo stesso abbia provato di essere lavoratore in malattia. Difatti, l'art. 5, comma 8, D.L. 95/2012 deve essere interpretato nel senso che il divieto di monetizzazione delle ferie residue non si applica nel caso in cui il dipendente non sia stato nella possibilità di fruire delle stesse a causa di malattia (ex multis: Trib. Taranto sez. lav., 17.10.2019, n. 3418; Trib. La Spezia, sez. lav., 03.11.2018, n. 282; Trib. Torino, sez. lav., 22.12.2016, n. 1861).
3. Alla luce di quanto precede il ricorso non può essere accolto (TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 10.02.2020 n. 1712 - massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOConcorsi tempo determinato e utilizzo graduatorie.
Domanda
Si possono ancora svolgere concorsi a tempo determinato o un ente è obbligato ad utilizzare le graduatorie di altri enti?
Risposta
Riportiamo, innanzitutto, l’articolo 36, comma 2, del d.lgs. 165/2001 che così prevede: “Per prevenire fenomeni di precariato, le amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle disposizioni del presente articolo, sottoscrivono contratti a tempo determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato. È consentita l’applicazione dell’articolo 3, comma 61, terzo periodo, della legge 24.12.2003, n. 350, ferma restando la salvaguardia della posizione occupata nella graduatoria dai vincitori e dagli idonei per le assunzioni a tempo indeterminato”.
Il tenore letterale della norma, evidentemente prevede una possibilità di utilizzare le graduatorie di altri enti e di certo non un obbligo. Anche il Dipartimento della Funzione Pubblica all’interno della Circolare 5/2013 scrive chiaramente che: “In caso di mancanza di graduatorie proprie le amministrazioni possono attingere a graduatorie di altre amministrazioni mediante accordo”.
È quindi evidente che si tratta di una possibilità.
In alternativa, l’ente, potrà quindi procedere con concorsi a tempo determinato. Anche in questo caso, vengono a supporto le parole del Dipartimento della Funzione Pubblica contenute nel paragrafo 2 della predetta Circolare: “Inoltre, pur mancando una disposizione di natura transitoria nel decreto-legge, per ovvie ragioni di tutela delle posizioni dei vincitori di concorso a tempo determinato, le relative graduatorie vigenti possono essere utilizzate solo a favore di tali vincitori, rimanendo precluso lo scorrimento per gli idonei.
Resta fermo che le assunzioni a tempo determinato si svolgono, sotto l’aspetto ordinamentale, tenendo conto della disciplina di cui all’articolo 36 del d.lgs n. 165 del 2001 e sotto l’aspetto finanziario nei limiti di spesa dell’articolo 9, comma 28, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122, fatte salve le deroghe previste dalla legge. Si ricorda che il mancato rispetto dei limiti di cui al citato comma 28 costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale
”.
Quindi, è chiarissimo che un ente può benissimo svolgere procedure concorsuali a tempo determinato. L’unico caso in cui non può procedere è solamente in presenza di proprie graduatorie a tempo indeterminato per le quali l’art. 36 comma 2 prevede invece un obbligo di utilizzo (06.02.2020 - link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGOConferimento di incarico al personale in quiescenza.
Il Consiglio di Stato, Sez. I, con il parere 04.02.2020 n. 309, ha analizzato la questione dell'applicabilità del divieto di conferimento di incarichi al personale in quiescenza.
Gli incarichi, le cariche e le collaborazioni contemplati dal Dl 95/2012 possono essere attribuiti a chi è ancora in servizio anche se, prima della scadenza dell'incarico, andrà a riposo.
In ogni caso, prosegue il parere,
nell'ipotesi in cui venga conferito un incarico a un soggetto ancora in servizio, per evitare elusioni, al momento della collocazione in quiescenza il rapporto deve trasformarsi in un rapporto a titolo gratuito.
E invero, come previsto dall'articolo 5, comma 9, terzo periodo, del Dl 95/2012, gli incarichi, le cariche e le collaborazioni di cui ai periodi precedenti dello stesso comma 9 sono comunque consentiti a titolo gratuito.
Il Collegio ha evidenziato che
la norma di legge si riferisce, in modo chiaro, solo ai soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza, lasciando fuori dal suo campo di applicazione chi, invece, all'atto del conferimento dell'incarico (nelle sue eterogenee forme contemplate dalla legge) non è ancora in quiescenza (commento tratto da http://quotidianoentilocali.ilsole24ore.com).
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PARERE
4. Preliminarmente, occorre prendere in considerazione la ratio dell’articolo 5, comma 9, del decreto-legge, 06.07.2012, n. 95, il quale dispone: «È fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, nonché alle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 2, della legge 31.12.2009, n. 196 nonché alle autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza.
Alle suddette amministrazioni è, altresì, fatto divieto di conferire ai medesimi soggetti incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo delle amministrazioni di cui al primo periodo e degli enti e società da esse controllati, ad eccezione dei componenti delle giunte degli enti territoriali e dei componenti o titolari degli organi elettivi degli enti di cui all'articolo 2, comma 2-bis, del decreto-legge 31.08.2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.10.2013, n. 125. Gli incarichi, le cariche e le collaborazioni di cui ai periodi precedenti sono comunque consentiti a titolo gratuito.
Per i soli incarichi dirigenziali e direttivi, ferma restando la gratuità, la durata non può essere superiore a un anno, non prorogabile né rinnovabile, presso ciascuna amministrazione. Devono essere rendicontati eventuali rimborsi di spese, corrisposti nei limiti fissati dall'organo competente dell'amministrazione interessata. Gli organi costituzionali si adeguano alle disposizioni del presente comma nell'ambito della propria autonomia
».
Il legislatore ha così introdotto limitazioni al conferimento di incarichi di studio, di consulenza, dirigenziali, direttivi o cariche in organi di governo a soggetti, già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza, con l’obiettivo di agevolare il ricambio generazionale (TAR Valle d’Aosta, sentenza 14.06.2016 n. 27; per Cons. St., sez. V, sentenza 15.11.2016 n. 4718 è evidente la ratio “di favorire l’occupazione giovanile”) nelle pubbliche amministrazioni e conseguire risparmi di spesa. Tali incarichi sono consentiti a titolo gratuito con una limitazione temporale per un anno per quelli dirigenziali o direttivi e in tutti gli altri casi senza limiti di tempo.
Tale obiettivo è scolpito nella circolare n. 6/2014 del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, secondo cui le modifiche introdotte con l’art. 6 del D.L. n. 90/2014 “sono volte ad evitare che il conferimento di alcuni tipi di incarico sia utilizzato dalle amministrazioni pubbliche per continuare ad avvalersi di dipendenti collocati in quiescenza o, comunque, per attribuire a soggetti in quiescenza rilevanti responsabilità nelle amministrazioni stesse, aggirando di fatto lo stesso istituto della quiescenza e impedendo che gli organi di vertice siano occupati da dipendenti più giovani. Le nuove disposizioni sono espressive di un indirizzo di politica legislativa volto ad agevolare il ricambio e il ringiovanimento del personale nelle pubbliche amministrazioni”.
La Corte costituzionale, con sentenza n. 124 del 2017, ha affermato che con tale disposizione «si attua un contemperamento non irragionevole dei principi costituzionali e non si sacrifica in maniera indebita il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto». In via generale, infatti, è indiscutibile che può corrispondere ad un rilevante interesse pubblico il ricorso a professionalità particolarmente qualificate che già fruiscono di un trattamento pensionistico. Tuttavia, il carattere limitato delle risorse pubbliche giustifica la necessità di una predeterminazione complessiva –e modellata su un parametro prevedibile e certo– delle risorse che l’amministrazione, intesa nel suo complesso, può corrispondere a titolo di retribuzioni e pensioni.
Tale ratio ispira, le disposizioni dell’art. 5, comma 9, cit. perché il principio di proporzionalità della retribuzione alla quantità e alla qualità del lavoro svolto deve essere valutato in un contesto peculiare che non consente una considerazione parziale della retribuzione e del trattamento pensionistico.
Sulla base di tali considerazioni la Corte costituzionale ha ritenuto, ad esempio, non illegittima la disposizione di legge che pone un tetto alle retribuzioni ancorata a una cifra predeterminata, che corrisponde alla retribuzione del Primo Presidente della Corte di cassazione, perché attua un contemperamento non irragionevole dei princìpi costituzionali e non sacrifica in maniera indebita il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto (Corte cost. 26.05.2017 n. 124).
In sostanza la libertà di lavoro può subire delle limitazioni in una situazione di difficoltà economica e di problemi occupazionali per i giovani. Il principio di libertà di lavoro, va contemperato in concreto con il favore concesso a chi aspira ad entrare nel mondo del lavoro a danno di chi comunque gode di un trattamento di quiescenza e ha raggiunto l’età per il pensionamento.
Reputa la Sezione che, in via generale, possa condividersi –trattandosi di una norma che limita un diritto costituzionalmente garantito, quale quello di esplicare attività lavorative sotto qualunque forma giuridica– l’affermazione per cui non possono essere ammesse interpretazioni estensive o analogiche di siffatta disposizione. La giurisprudenza così ha escluso che tale norma trovi applicazione in relazione alla “attribuzione dei turni vacanti per attività specialistica ambulatoriale e domiciliare” (Cons. St., sez. III, 30.06.2016 n. 2949) o ad “un incarico biennale libero professionale di "medico competente" (C.G.A.R.S., sentenza 27.05.2019 n. 489) o all’incarico di medico del servizio sanitario a tempo determinato (TAR Sicilia–Palermo, sentenza 18.06.2018 n. 1374) mentre altra sentenza ha ritenuto di estenderla all’incarico di difensore civico regionale (Cons. St., sez. V, sentenza 15.11.2016 n. 4718).
...
7. Venendo alla terza e ultima questione, relativa all’applicabilità del comma più volte citato solo a coloro i quali siano già stati collocati a riposo oppure anche a coloro i quali, nominati quando ancora erano in servizio, siano stati successivamente collocati a riposo, per la Sezione il dato letterale depone a favore della prima opzione.
La norma di legge si riferisce, in modo chiaro, solo ai “soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza”, lasciando fuori dal suo campo di applicazione chi, invece, all’atto del conferimento dell’incarico (nelle sue eterogenee forme contemplate dalla legge) non è ancora in quiescenza. Da questo si desume che gli incarichi, le cariche e le collaborazioni contemplati dalla legge in commento possono essere attribuiti a chi è ancora in servizio anche se, prima della scadenza dell’incarico, andrà a riposo.
Tale conclusione trova una prima giustificazione negli ordinari criteri ermeneutici: poiché si tratta di una norma eccezionale che limita la possibilità di conferire incarichi, cariche e collaborazioni è certo che non possa essere oggetto di applicazione analogica (art. 14 Preleggi; si veda pure TAR Sicilia–Palermo, sentenza 18.06.2018 n. 1374).
In tale senso si è espressa anche la giurisprudenza stabilendo che “incarichi vietati, dunque, sono solo quelli espressamente contemplati: incarichi di studio e di consulenza, incarichi dirigenziali o direttivi, cariche di governo nelle amministrazioni e negli enti e società controllati. Il legislatore ha voluto perseguire gli obiettivi sopra ricordati, vietando il conferimento a soggetti in quiescenza di incarichi e cariche che, indipendentemente dalla loro natura formale, consentono di svolgere ruoli rilevanti al vertice delle amministrazioni. Un'interpretazione estensiva dei divieti in esame, non coerente con il fine di evitare che soggetti in quiescenza assumano rilevanti responsabilità nelle amministrazioni potrebbe determinare un'irragionevole compressione dei diritti dei soggetti in quiescenza in violazione dei princìpi enunciati dalla giurisprudenza costituzionale che ammette limitazioni a carico dei soggetti in questione purché imposte in relazione a un apprezzabile interesse pubblico”, Cons. St., sez. III, sentenza 05.09.2017 n. 4195).
La soluzione ora prospettata è, inoltre, avvalorata dai periodi successivi che permettono di attribuire i predetti incarichi, cariche e collaborazioni, a titolo gratuito, ai lavoratori già collocati in quiescenza e, in alcuni casi, per un periodo limitato di tempo. Ed invero, se l’articolo 5, comma 9, cit. si leggesse nel senso che non può essere conferito incarico a chi prima della sua scadenza andrà a riposo, non si comprenderebbe la ragione per cui lo stesso comma prevede poi la possibilità di conferire incarichi, cariche e collaborazioni a titolo gratuito a chi è già a riposo. Detto in altri termini, se l’incarico legittimamente conferito cessa, e non può proseguire neppure a titolo gratuito, la norma non dovrebbe poi prevedere la possibilità di assegnarlo a titolo gratuito.
Le conclusioni ora raggiunte, però, devono essere precisate allo scopo di evitare applicazioni sostanzialmente elusive della legge (sulla necessità di interpretare correttamente la norma per evitare elusioni, ad esempio, attraverso una diversa denominazione dell’incarico conferito, si veda TAR Lazio–Roma, sez. III-bis, sentenza 14.11.2016 n. 11301), in ipotesi, conferendo l’incarico all’interessato poco tempo prima di essere collocato in quiescenza (teoricamente anche un solo giorno prima).
Reputa la Sezione che nell’ipotesi in cui venga conferito incarico ad un soggetto ancora in servizio, per evitare elusioni, al momento della collocazione in quiescenza il rapporto debba trasformarsi in un rapporto a titolo gratuito. Ed invero, ai sensi dell’articolo 5, comma 9, terzo periodo, gli incarichi, le cariche e le collaborazioni di cui ai periodi precedenti dello stesso comma 9 sono comunque consentiti a titolo gratuito.
Occorre infine precisare la durata del rapporto a titolo gratuito dopo la collocazione in quiescenza. Il quarto periodo del più volte citato comma 9 stabilisce che «per i soli incarichi dirigenziali e direttivi, ferma restando la gratuità, la durata non può essere superiore a un anno, non prorogabile né rinnovabile, presso ciascuna amministrazione».
Da tale disposizione si ricava allora che detto rapporto può proseguire per la durata di un anno se rientrante nel quarto periodo –ossia se concernente gli incarichi dirigenziali e direttivi– mentre può proseguire sino alla scadenza se riguardante le altre nomine (incarichi di studio e di consulenza o cariche in organi di governo delle amministrazioni).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMisure organizzative per il rispetto del divieto di pantouflage.
Domanda
Il nuovo Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT) dell’Amministrazione prevede, tra le misure a carico del dirigente dell’Ufficio personale, l’introduzione della clausola di rispetto del divieto di pantouflage nei nuovi contratti di reclutamento del personale.
Vorrei sapere in quali tipologie di contratti va inserita.
Risposta
Il divieto di pantouflage o revolving doors (c.d. porte girevoli) è una delle misure concernenti l’imparzialità dei funzionari pubblici, introdotte dalla legge 06.11.2012, n. 190 (c.d. legge Severino). Si tratta di una sorta di “incompatibilità successiva” che viene a determinarsi quando un dipendente, che ha esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto di una pubblica amministrazione, viene successivamente assunto o inizia a collaborare, a titolo professionale, con il soggetto privato destinatario dei poteri autoritativi o negoziali. Il divieto è volto ad evitare che il dipendente sfrutti la propria posizione nell’intento di precostituirsi situazioni lavorative vantaggiose, pregiudicando, in tal modo, il perseguimento dell’interesse pubblico.
La norma di riferimento è l’art. 1, comma 42, lettera l), della legge 190/2012, che ha introdotto il comma 16-ter nell’art. 53 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165
[1]. La sanzione prevista dal legislatore consiste nella nullità dei contratti conclusi e degli incarichi conferiti in violazione di tale disposizione e nel divieto, per il soggetto privato che ha stipulato i contratti o conferito gli incarichi con l’ex dipendente pubblico, di contrattare con la pubblica amministrazione per un periodo di tre anni.
In sede attuativa il divieto del pantouflage ha avuto un particolare rilevo nell’ambito della contrattualistica pubblica, in quanto gli operatori che partecipano alle gare sono chiamati a rilasciare una dichiarazione di non aver stipulato contratti di lavoro o affidato incarichi in violazione dell’art. 53, comma 16-ter, del d.lgs. 165/2001 e tale dichiarazione deve essere verificata dalla stazione appaltante. Le pronunce giurisprudenziali e la riflessione dottrinale intorno all’ambito di applicazione di tale divieto sono per lo più originati da fattispecie riconducibili a gare d’appalto.
Con l’aggiornamento al Piano Nazionale Anticorruzione (PNA) 2018 si suggerisce una misura ulteriore, consistente nel far sottoscrivere, al dipendente pubblico che cessa dall’incarico, l’impegno al rispetto del divieto di pantouflage.
Nel PNA 2019, si anticipa l’assunzione dell’impegno sin dalla fase di sottoscrizione del contratto, prevedendo che anche gli atti di assunzione del personale contemplino l’impegno a rispettare tale divieto.
A ben vedere, già il Piano Nazionale Anticorruzione (PNA) 2013 prevedeva che nei contratti di assunzione del personale dovesse essere inserita la clausola concernente il divieto di prestare attività lavorativa (a titolo di lavoro subordinato o di lavoro autonomo) per i tre anni successivi alla cessazione del rapporto nei confronti dei destinatari di provvedimenti adottati o di contratti conclusi con l’apporto decisionale del dipendente.
Correttamente, dunque, il PTPCT dell’amministrazione prevede che l’ufficio personale adotti questa misura, che ha anche l’effetto di rendere preventivamente edotti i dipendenti del vincolo discendente dall’esercizio di poteri autoritativi o negoziali.
È ragionevole che l’ufficio personale si ponga il problema di individuare il corretto ambito di applicazione della disposizione, in quanto il divieto comporta una limitazione della libertà di iniziativa economica, costituzionalmente tutelata, e dunque la finalità di prevenzione della corruzione deve essere contemperata con il rispetto di tale libertà.
Occorre esaminare, da un lato, il tipo di rapporto di lavoro che lega il soggetto alla pubblica amministrazione e, dall’altro, il contenuto dell’attività lavorativa, in quanto il divieto discende dall’aver esercitato poteri autoritativi o negoziali.
Sotto il primo profilo, la norma utilizza la definizione “dipendenti” senza distinguere tra rapporti di lavoro a tempo determinato e indeterminato, pertanto è pacifico che si applichi ad entrambe le tipologie di contratti.
L’art. 21, del decreto legislativo 08.04.2016, n. 39 estende poi il divieto di pantouflage ai soggetti titolari di incarichi contemplati nel citato decreto, “ivi compresi” recita la disposizione “i soggetti esterni con i quali l’amministrazione, l’ente pubblico o l’ente di diritto privato in controllo pubblico stabilisce un rapporto di lavoro subordinato o autonomo”.
A partire da tali previsioni normative l’ANAC estende l’ambito di applicazione della norma anche ad altri soggetti, legati alla pubblica amministrazione da un rapporto di lavoro autonomo (parere ANAC AG/2 del 04.02.2015 ribadito nei ultimi PNA adottati). Questa interpretazione desta perplessità in quanto, al contrario, proprio la circostanza che il legislatore abbia equiparato ai dipendenti i soggetti titolari di incarichi di cui al d.lgs. 39/2013 sembrerebbe confermare che l’ambito di applicazione non può che essere quello previsto dalla legge.
Sotto il profilo del tipo di funzioni esercitate, con l’espressione “poteri autoritativi o negoziali” si intende l’attività di emanazione di provvedimenti amministrativi e il perfezionamento di negozi giuridici, mediante la stipula di contratti in rappresentanza giuridica ed economica dell’ente.
L’ANAC precisa che i dirigenti e i funzionari che svolgono incarichi dirigenziali o coloro che esercitano funzioni apicali con deleghe di rappresentanza esterna rientrano in tale ambito, come anche coloro che ricoprono incarichi amministrativi di vertice, anche se non emanano direttamente provvedimenti amministrativi e non stipulano negozi giuridici. Essi sono, infatti, senz’altro in grado di incidere sull’assunzione di decisioni da parte delle strutture di riferimento.
Andando oltre, l’ANAC ritiene che il rischio di precostituirsi situazioni lavorative favorevoli possa sussistere anche in capo al dipendente che ha comunque avuto il potere di incidere in maniera determinante sulla decisione oggetto del provvedimento finale, collaborando all’istruttoria, ad esempio attraverso l’elaborazione di atti endoprocedimentali obbligatori (pareri, perizie, certificazioni) che vincolano in modo significativo il contenuto della decisione (parere ANAC AG/74 del 21.10.2015 e orientamento n. 24/2015).
Anche tale interpretazione rischia di estendere in maniera eccessiva l’ambito di applicazione del divieto, pertanto è importante che, in sede applicativa, si verifichino in concreto le funzioni svolte dal dipendente.
Ad esempio, appare eccessivo che un lavoratore che venga assunto a tempo determinato o un soggetto che stipuli un contratto di collaborazione professionale, riconducibile ad un rapporto di lavoro autonomo, debba vincolarsi, in sede di stipula del contratto, al rispetto della disposizione di cui all’art. 53, comma 16-ter, del d.lgs. 165/2001, per il solo fatto che collaborerà in attività procedimentali finalizzate all’adozione di un provvedimento di autorizzazione, concessione o erogazione di sovvenzioni, sussidi o vantaggi economici. La sola collaborazione all’elaborazione dei provvedimenti o degli atti endoprocedimentali vincolanti non può giustificare la limitazione alla liberà di iniziativa economica.
Resta fermo che, se il dipendente poi, nel corso dell’attività lavorativa, abbia in concreto effettivamente svolto delle funzioni autoritative o negoziali, nei confronti di un dato soggetto privato, non possa essere assunto o collaborare con tale soggetto, per i tre anni successivi alla cessazione del rapporto con la pubblica amministrazione.
Di seguito una ipotesi di formulazione della clausola: “Il sottoscritto dichiara di essere a conoscenza del divieto di cui all’art. 53, comma 16-ter, del d.lgs. 165/2001 e si impegna fin d’ora, nel caso eserciti in concreto poteri autoritativi o negoziali nei confronti di soggetti privati, a non accettare incarichi lavorativi o professionali presso i medesimi soggetti, per i tre anni successivi alla cessazione del rapporto di lavoro.”
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[1] “16-ter. I dipendenti che, negli ultimi tre anni di servizio, hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, non possono svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso i soggetti privati destinatari dell’attività della pubblica amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri. I contratti conclusi e gli incarichi conferiti in violazione di quanto previsto dal presente comma sono nulli ed è fatto divieto ai soggetti privati che li hanno conclusi o conferiti di contrattare con le pubbliche amministrazioni per i successivi tre anni con obbligo di restituzione dei compensi eventualmente percepiti e accertati ad essi riferiti” (04.02.2020 - link a www.publika.it).

gennaio 2020

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPubblicazione dati concernenti bandi di concorso.
Domanda
Stiamo avviando una procedura di reclutamento di personale e vorremmo avere un aggiornamento sugli obblighi di pubblicazione su Amministrazione Trasparente.
Risposta
L’articolo 19, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 è la disposizione di riferimento per la trasparenza in tema di bandi di concorso. Tale norma era stata già modificata dal decreto legislativo 25.05.2016, n. 97 ed è stata recentemente integrata dall’art. 1, comma 145, della legge 27.12.2019, n. 160 (legge di Bilancio 2020).
L’attuale formulazione dell’art. 19, comma 1 prevede che siano pubblicati:
   • bandi di concorso per il reclutamento a qualsiasi titolo di personale;
   • i criteri di valutazione stabiliti dalla Commissione;
   • le tracce delle prove (da intendersi come prova teorico/pratica; scritta e orale);
   • le graduatorie finali, aggiornate con l’eventuale scorrimento degli idonei non vincitori.
La novità, dunque, riguardano l’obbligo di pubblicare le tracce di tutte le prove e non più soltanto delle prove scritte e l’introduzione dell’obbligo di pubblicare le graduatorie finali aggiornate con l’eventuale scorrimento degli idonei, anche alla luce della disposizione che ha ripristinato la possibilità per gli enti di scorrere le proprie e le altrui graduatorie (legge 27.12.2019, n. 160, art. 1, comma 148).
Considerato che si tratta di dati personali “comuni”, occorre far attenzione a pubblicare i soli dati necessari ad individuare i soggetti; è sufficiente, dunque, indicare solamente in nome e cognome, evitando luogo e data di nascita, residenza o altro. Sull’argomento si richiamano le Linee Guida del Garante privacy del 15.05.2014, pubblicate in Gazzetta Ufficiale n. 134 del 12.06.2014, che forniscono una casistica di dati eccedenti da non pubblicare e alcuni suggerimenti per coniugare adeguatamente trasparenza e privacy. Attenzione, in particolare, alle selezioni riservate a disabili (vedere l’ordinanza del Garante del 14.03.2019 – doc web 9116773).
L’art. 1, comma 145, della legge n. 160/2019, modifica poi il secondo comma dell’art. 19, del d.lgs. 33/2013, specificando meglio che i dati di cui al comma precedente devono essere costantemente aggiornati.
La nuova formulazione sopprime il riferimento ad un elenco dei bandi previsto dal previgente comma 2. Nella strutturazione della pagina di Amministrazione Trasparente > Bandi di concorso si suggerisce, per una migliore consultazione, una articolazione che distingua i bandi in corso e quelli scaduti.
In merito alla decorrenza e alla durata della pubblicazione non si dice nulla, pertanto, si applicano le disposizioni dell’art. 8, del d.lgs. 33/2013 che prevedono la tempestività di pubblicazione e il termine di cinque anni, decorrenti dal 1° gennaio dell’anno successivo.
Altra novità della legge di bilancio è l’introduzione del comma 2-bis, con il quale si prevede che le amministrazioni debbano pubblicare il collegamento ipertestuale dei dati, ai fini dell’inserimento nella banca dati del Dipartimento della funzione pubblica, di cui all’art. 4, comma 5, del decreto legge 31.08.2013, n. 101, finalizzata al monitoraggio delle graduatorie concorsuali.
Le modalità attuative di tale ultima disposizione saranno definite con decreto ministeriale da adottarsi entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge.
Come noto, nonché espressamente precisato nell’incipit dell’art. 19, la pubblicazione su Amministrazione Trasparente non sostituisce la pubblicità legale; pertanto resta fermo l’obbligo di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e del bando di concorso o di un avviso contenente gli estremi del bando e la scadenza dei termini di presentazione delle domande (28.01.2020 - link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGOPermessi studio art. 45 CCNL.
Domanda
Vorremmo dei chiarimenti sui permessi per diritto allo studio di cui all’art. 45 del CCNL Funzioni Locali del 21/05/2018.
In particolare, premesso che l’ente al momento non ha provveduto a regolamentare l’istituto con proprio atto interno, si chiede se tali congedi possano essere concessi al personale iscritto ad università telematiche e, in subordine, quale documentazione debba acquisire l’ente al fine di verificare il rispetto dei requisiti previsti dalla normativa.
Infine, si chiedono chiarimenti in merito ai criteri per la concessione nel caso in cui, in corso d’anno, il numero di domande ecceda il limite fissato dalla disposizione contrattuale.
Risposta
L’art. 45 del CCNL 21/05/2018 prevede in merito al diritto allo studio, la concessione di permessi straordinari retribuiti, nella misura massima di 150 ore annue, concessi per partecipare a corsi destinati al conseguimento di titoli di studio universitari, post universitari, di scuole di istruzione primaria, secondaria e di qualificazione professionale, statali, pareggiate o legalmente riconosciute o comunque abilitate al rilascio di titoli di studio legali o attestati professionali riconosciuti dall’ordinamento pubblico e per sostenere i relativi esami.
La disposizione in esame ricalca in larga parte quanto già sancito dal precedente art. 15 del CCNL 14.09.2000, pertanto si ritengono attualmente vigenti gli orientamenti applicativi forniti già dall’ARAN nonché dal Dipartimento della Funzione Pubblica.
Ciò posto, per quanto attiene la possibilità di riconoscere detti permessi a dipendenti iscritti a università telematiche, il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca con nota del 20.05.2009 n. 9/207/RET/R, aveva interpretato in senso favorevole l’utilizzo dei permessi sostenendo che “la ratio della norma vada nel senso di garantire il diritto allo studio e quindi le 150 ore debbano essere concesse anche agli studenti delle università telematiche”.
Tuttavia, al fine di evitare l’uso distorto dell’istituto, il Dipartimento della Funzione Pubblica, con Circolare n. 12/2011, pur confermando che non vi sono preclusioni alla fruizione dei permessi studio da parte dei dipendenti pubblici iscritti alle università telematiche, ha precisato che “la fruizione risulta subordinata alla presentazione della documentazione relativa all’iscrizione e agli esami sostenuti, nonché all’attestazione della partecipazione personale del dipendente alle lezioni. In quest’ultimo caso i dipendenti iscritti alle università telematiche dovranno certificare l’avvenuto collegamento all’università telematica durante l’orario di lavoro”.
L’ARAN si è attestata sul predetto orientamento, stabilendo tuttavia che l’attestato di partecipazione o frequenza assume un rilievo prioritario in quanto certifica sia la circostanza dell’effettiva presenza alle lezioni sia quella che le medesime lezioni si svolgono all’interno dell’orario di lavoro.
A tal fine, l’autocertificazione potrebbe ammettersi nei casi in cui la PA possa procurarsi direttamente, ex se, la certificazione necessaria; contrariamente sarà necessaria una attestazione da parte della stessa università, che certifichi che quel determinato dipendente ha seguito personalmente, effettivamente e direttamente le lezioni trasmesse in via telematica.
Per quanto attiene le modalità di concessione dei permessi, posto che si consiglia all’ente di approvare apposita regolamentazione, si osserva quanto segue:
   1. l’ARAN ritiene non vi siano preclusioni circa la sostituzione di un dipendente in corso d’anno, purché sia rispettato il tetto delle 150 ore. Pertanto, se un dipendente termina l’utilizzo a marzo, potrà cedere le ore residue per l’anno solare ad altro dipendente;
   2. ove non sia prevista alcuna regolamentazione, come regola generale prescritta dall’art. 45, qualora il numero delle domande presentate dai lavoratori superi il limite massimo del 3% del personale a tempo indeterminato in servizio all’inizio di ogni anno, l’attribuzione dei permessi avviene sulla base dei criteri di priorità indicati nei commi 6, 7 e 8 (23.01.2020 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOL'ufficio personale di questo ente pubblico economico (Settore Sanità) chiede quali siano gli attuali obblighi di pubblicazione degli incarichi, stipendi e redditi dei dirigenti alla luce delle recenti vicende (interventi Anac, Corte Costituzionale ecc…)?
La questione relativa agli obblighi di pubblicazione dei dati patrimoniali e reddituali dei dirigenti (art. 14, D.Lgs. 14.03.2013, n. 33) ha visto degli sviluppi particolari che merita riepilogare.
Il D.Lgs. 14.03.2013 n. 33 all'art. 14, comma 1-ter, dispone "Ciascun dirigente comunica all'amministrazione presso la quale presta servizio gli emolumenti complessivi percepiti a carico della finanza pubblica, anche in relazione a quanto previsto dall'articolo 13, comma 1, del decreto-legge 24.04.2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n. 89. L'amministrazione pubblica sul proprio sito istituzionale l'ammontare complessivo dei suddetti emolumenti per ciascun dirigente".
L'autorità anticorruzione (ANAC) è intervenuta a chiarire nel tempo i contenuti prescrittivi delle disposizioni in materia con:
   - Del. 28.12.2016, n. 1310
   - Del. 08.03.2017, n. 241
   - Del. 12.04.del 2017, n. 382
La questione, attraverso il ricordo di dirigenti del Garante privacy è poi giunta al vaglio della Cort. Cost. 21.02.2019, n. 20 "dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 14, comma 1-bis, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni), nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all'art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo anche per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall'organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall'art. 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche)".
A tale pronuncia, non del tutto esaustiva è seguita la Del. 26.06.2019, n. 586 dell’ANAC del la quale ha dato vita a polemiche ed a un nuovo ricorso (questa volta da parte di dirigenti del settore sanità) che ha portato alla sua sospensione con il provvedimento del TAR Lazio, Roma, Sez. I, sent. 21.11.2019, n. 7579.
A questa ordinanza è seguito un nuovo Comunicato 04.12.2019 del Presidente ANAC circa gli effetti della sentenza e del citato complesso di disposizioni.
La situazione, che rischiava di creare problemi interpretativi e richieste di risarcimento di danni ha convinto il Governo ad inserire una disposizione nel "Decreto Milleproroghe 2020", all'art. 1, comma 7, D.L. 30.12.2019, n. 162 il quale dispone "Fino al 31.12.2020, nelle more dell'adozione dei provvedimenti di adeguamento alla sentenza della Cort. Cost. 21.02.2019, n. 20, ai soggetti di cui all'articolo 14, comma 1-bis, D.Lgs. 14.03.2013, n. 33, non si applicano le misure di cui agli artt. 46 e 47 del medesimo decreto.
Conseguentemente, con regolamento da adottarsi entro il 31.12.2020, ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della legge 23.08.1988, n. 400, su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro della giustizia, il Ministro dell'interno, il Ministro dell'economia e delle finanze, il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale e il Ministro della difesa, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, sono individuati i dati di cui al comma 1 dell'articolo 14 del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, che le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all'articolo 2-bis, comma 2, del medesimo decreto legislativo devono pubblicare con riferimento ai titolari amministrativi di vertice e di incarichi dirigenziali, comunque denominati, ivi comprese le posizioni organizzative ad essi equiparate, nel rispetto dei seguenti criteri:
   a) graduazione degli obblighi di pubblicazione dei dati di cui al comma 1, lettere a), b), c), ed e), dell'articolo 14, comma 1, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, in relazione al rilievo esterno dell'incarico svolto, al livello di potere gestionale e decisionale esercitato correlato all'esercizio della funzione dirigenziale;
   b) previsione che i dati di cui all'articolo 14, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, siano oggetto esclusivamente di comunicazione all'amministrazione di appartenenza;
   c) individuazione dei dirigenti dell'amministrazione dell'interno, degli affari esteri e della cooperazione internazionale, delle forze di polizia, delle forze armate e dell'amministrazione penitenziaria per i quali non sono pubblicati i dati di cui all'articolo 14 del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, in ragione del pregiudizio alla sicurezza nazionale interna ed esterna e all'ordine e sicurezza pubblica, nonché in rapporto ai compiti svolti per la tutela delle istituzioni democratiche e di difesa dell'ordine e della sicurezza interna ed esterna
" di fatto sospendendo tutti gli obblighi di pubblicazione relativi.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 14.03.2013, n. 33, art. 14 - Del. 08.03.2017, n. 241 dell’ANAC - Del. 12.04.2017, n. 382 dell’ANAC - Del. 26.06.2019, n. 586 dell’ANAC - Comunicato 04.12.2019 - D.L. 30.12.2019, n. 162, art. 1
Riferimenti di giurisprudenza
Cort. Cost. 21.02.2019, n. 20
Documenti allegati
Del. 28.12.2016, n. 1310 dell’ANAC - TAR Lazio, Roma, Sez. I, sent. 21.11.2019, n. 7579 (22.01.2020 - tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

PUBBLICO IMPIEGO: Intento persecutorio: risarcibilità dei danni.
Ai fini dell’accertamento di una condotta datoriale mobbizzante, è onere del lavoratore fornire una sicura prova circa:
   (a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato con intento vessatorio;
   (b) l’evento lesivo della propria salute o della propria personalità;
   (c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro (o del superiore gerarchico) ed il pregiudizio alla propria integrità psico-fisica; e
   (d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi
(TRIBUNALE di Roma, Sez. lavoro, sentenza 21.01.2020 n. 542 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).

PUBBLICO IMPIEGODiritto a godere le ferie e perdita delle ferie non godute.
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Pubblico impiego privatizzato – Ferie – Godimento – Mancata volontaria fruizione – Conseguenza – Perdita delle ferie.
Il lavoratore che volontariamente non gode delle ferie maturate le perde (1)
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   (1) Come emerge dalla giurisprudenza nazionale ed euro-unitaria (causa C-696/16 emessa dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia il 06.11.2018) la regula juris nella materia del godimento delle ferie da parte del lavoratore è quello per cui, per un verso, il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite deve essere considerato un principio particolarmente importante del diritto sociale dell’Unione, al quale non si può derogare, trovando il proprio fondamento nell’art. 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ed ha il medesimo valore giuridico, dei Trattati ai sensi dell’art 6 paragrafo 1 TUE: la ratio dell’esercizio dello stesso è quella di consentire al lavoratore di riposarsi dall’esecuzione dei compiti attribuiti godendo così di un periodo di relax e svago.
Per altro verso, il datore di lavoro ha l’onere di assicurarsi concretamente e con trasparenza che il lavoratore sia effettivamente in condizione di godere delle ferie annuali retribuite invitandolo, se necessario formalmente, a farlo e nel contempo informandolo –in modo accurato e in tempo utile– del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato.
Tuttavia, in un equilibrato contemperamento di principi ed istanze assiologiche di pari rango, il rispetto di tale onere derivante dall’art. 7 della direttiva 2003/88 non può estendersi fino al punto di costringere quest’ultimo a imporre ai suoi lavoratori di esercitare effettivamente la fruizione delle ferie annuali retribuite.
Egli deve limitarsi soltanto a consentire ai lavoratori di godere delle stesse dando altresì prova di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinché essi potessero effettivamente di esercitare tale diritto.
L’assetto ora descritto non collide con il principio costituzionale dell’irrinunciabilità delle ferie, in quanto garantisce, comunque, un equilibrato rispetto delle esigenze organizzative dell’amministrazione e di quelle di riposo del lavoratore.
Il presupposto imprescindibile per la perdita della possibilità di godimento delle ferie al di là di una determinata scadenza temporale è che il lavoratore non ne abbia goduto liberamente e consapevolmente. La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha chiarito, nel ritenere non fondata questione di legittimità costituzionale del d.l. n. 95 del 2012, art. 5, comma 8, conv., con mod. dalla l. n. 135 del 2012 (che prevede, tra l'altro: "Le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione..., sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi"), che il legislatore correla il divieto di corrispondere trattamenti sostitutivi a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentano di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito al periodo di godimento delle ferie (sentenza n. 95 del 2016).
Il Giudice delle Leggi ha precisato che la disciplina statale in questione come interpretata dalla prassi amministrativa e dalla magistratura contabile, è nel senso di escludere dall'àmbito applicativo del divieto le vicende estintive del rapporto di lavoro che non chiamino in causa la volontà del lavoratore e la capacità organizzativa del datore di lavoro.
Ha chiarito la Corte costituzionale che tale interpretazione, che si pone nel solco della giurisprudenza del Consiglio di Stato (sez. II, 15.04.2019, n. 2246) e della Corte di cassazione, non pregiudica il diritto alle ferie, come garantito dalla Carta fondamentale (art. 36, comma 3), dalle citate fonti internazionali (Convenzione dell'Organizzazione internazionale del lavoro h. 132 del 1970, concernente i congedi annuali pagati, ratificata e resa esecutiva con l. 10.04.1981, n. 157) e da quelle europee (art. 31, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza il 07.12.2000 e adattata a Strasburgo il 12.09.2007; direttiva 23.11.1993, n. 93/104/CE del Consiglio, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, poi confluita nella direttiva n. 2003/88/CE, che interviene a codificare la materia) (TAR Valle d’Aosta, sentenza 17.01.2020 n. 1 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
Il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato e che debba essere respinto per le seguenti ragioni.
Come emerge dalla giurisprudenza nazionale ed euro-unitaria (causa C-696/16 emessa dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia il 06.11.2018) la regula juris della materia de qua è quello per cui, per un verso, il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite deve essere considerato un principio particolarmente importante del diritto sociale dell’Unione, al quale non si può derogare, trovando il proprio fondamento nell’art. 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ed ha il medesimo valore giuridico, dei Trattati ai sensi dell’art 6 paragrafo 1 TUE: la ratio dell’esercizio dello stesso è quella di consentire al lavoratore di riposarsi dall’esecuzione dei compiti attribuiti godendo così di un periodo di relax e svago.
Per altro verso, il datore di lavoro ha l’onere di assicurarsi concretamente e con trasparenza che il lavoratore sia effettivamente in condizione di godere delle ferie annuali retribuite invitandolo, se necessario formalmente, a farlo e nel contempo informandolo –in modo accurato e in tempo utile– del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato. Tuttavia, in un equilibrato contemperamento di principi ed istanze assiologiche di pari rango, il rispetto di tale onere derivante dall’art. 7 della direttiva 2003/88 non può estendersi fino al punto di costringere quest’ultimo a imporre ai suoi lavoratori di esercitare effettivamente la fruizione delle ferie annuali retribuite.
Egli deve limitarsi soltanto a consentire ai lavoratori di godere delle stesse dando altresì prova di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinché essi potessero effettivamente di esercitare tale diritto.
Ciò posto nel caso di specie, come si evince con chiarezza dai documenti prodotti dalle parti, la direzione ha invitato la sig.ra Cr. a programmare nel più breve tempo possibile la fruizione dei periodi di congedo ordinario degli anni 2018 e 2019. Tale invito non è stato però accettato dalla ricorrente che ha avanzato la pretesa di fruire anche del periodo di congedo maturato per gli anni 2015, 2016 e 2017.
Tale pretesa si rivela però del tutto priva di fondamento. Come si deduce, infatti, dall’art. 9 del Nuovo Accordo Quadro Nazionale, pubblicato sulla G.U. n. 100 del 02.05.2018, il congedo ordinario va programmato e fruito nell’anno solare di riferimento, salvo indifferibili esigenze di servizio che non ne rendano possibile la completa fruizione o per motivate esigenze di carattere personale e, limitatamente a queste ultime, compatibilmente con le esigenze di servizio. In tal caso, la parte residua deve essere fruita entro i successivi 12 mesi, fino all’entrata in vigore del Nuovo Accordo Quadro Nazionale (G.U. n. 100 del 02.05.2018), ed entro i successivi 18 mesi per il periodo successivo all’entrata in vigore del predetto accordo.
Nel caso in esame non risulta esser stata presentata da parte dell’interessata al direttore di istituto, nei termini di legge e secondo le puntuali modalità ivi indicate, alcuna istanza di congedo ordinario né documentazione comprovante anche l’impossibilità oggettiva di godere dei predetti benefici
Pertanto non è possibile giustificarne la mancata fruizione, né per motivate esigenze di servizio e né tanto meno per obbiettive esigenze personali.
Sul punto giova ricordare come, anche in base a recenti arresti della giurisprudenza amministrativa sia di primo grado (TAR Campania–Napoli, sez. I, sentenza n. 1609 del 16.03.2019; TAR Calabria–Reggio Calabria, sentenza n. 264 del 15.05.2018; TAR Puglia-Lecce, sez. II, sentenza n. 431 del 14.03.2018) che d’appello (Cons. Stato, Sez. II, Sent. 2246 del 15.04.2019; parere definitivo, Sezione 1, n. 2756/2016), l’assetto ora descritto non collide con il principio costituzionale dell’irrinunciabilità delle ferie, in quanto garantisce, comunque, un equilibrato rispetto delle esigenze organizzative dell’amministrazione e di quelle di riposo del lavoratore.
Il presupposto imprescindibile per la perdita della possibilità di godimento delle ferie al di là di una determinata scadenza temporale è che il lavoratore non ne abbia goduto liberamente e consapevolmente.
La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha chiarito, nel ritenere non fondata questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 95 del 2012, art. 5, comma 8, conv., con mod. dalla L. n. 135 del 2012 (che prevede, tra l'altro: "Le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione..., sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi"), che il legislatore correla il divieto di corrispondere trattamenti sostitutivi a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentano di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito al periodo di godimento delle ferie (sentenza n. 95 del 2016).
Il Giudice delle Leggi ha precisato che la disciplina statale in questione come interpretata dalla prassi amministrativa e dalla magistratura contabile, è nel senso di escludere dall'àmbito applicativo del divieto le vicende estintive del rapporto di lavoro che non chiamino in causa la volontà del lavoratore e la capacità organizzativa del datore di lavoro.
Ha chiarito la Corte costituzionale che tale interpretazione, che si pone nel solco della giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. II, Sent. 2246 del 15.04.2019; parere definitivo, Sezione 1, n. 2756/2016) e della Corte di cassazione, non pregiudica il diritto alle ferie, come garantito dalla Carta fondamentale (art. 36, comma 3), dalle citate fonti internazionali (Convenzione dell'Organizzazione internazionale del lavoro h. 132 del 1970, concernente i congedi annuali pagati, ratificata e resa esecutiva con L. 10.04.1981, n. 157) e da quelle europee (art. 31, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza il 07.12.2000 e adattata a Strasburgo il 12.12.2007; direttiva 23.11.1993, n. 93/104/CE del Consiglio, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, poi confluita nella direttiva n. 2003/88/CE, che interviene a codificare la materia).
Ne consegue l’infondatezza delle articolate censure del ricorso che va pertanto respinto.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Aumento orario temporaneo dipendente part-time.
Domanda
È possibile aumentare il tempo del lavoro di un dipendente a part-time per un determinato periodo?
Risposta
Il quesito pone in rilievo le disposizioni contrattuali in materia di rapporto di lavoro a tempo parziale, oggi disciplinate dagli articoli 53, 54 e 55 del CCNL 21/05/2018. Richiede inoltre qualche breve considerazione in merito al rispetto dei vincoli in materia di spesa di personale.
In linea generale, si ritiene possibile l’incremento dell’ampiezza percentuale di un rapporto di lavoro costituito a part-time, a condizione, innanzitutto, che vi sia l’accordo del dipendente. In tal caso, occorrerà rifarsi alle regole contrattuali in materia, ovvero procedere alla stipula di un nuovo contratto individuale di lavoro; esso dovrà contenere, ai sensi dell’art. 53, comma 11, del CCNL anzi richiamato, l’indicazione dell’inizio della nuova articolazione oraria del rapporto, la durata della prestazione lavorativa, la collocazione/articolazione temporale puntuale dell’orario e, naturalmente (ai sensi del comma 12, del tutto opportunamente a parere nostro) la durata del contratto medesimo. Le parti si daranno reciprocamente atto che, al raggiungimento del predetto termine contrattuale, torneranno a osservare la disciplina del contratto individuale di lavoro a part-time originario, costituito a tempo indeterminato.
Sotto il profilo dei vincoli alla spesa di personale, l’incremento dei costi derivante dall’aumento delle ore lavorative sarà certamente e pienamente rilevante ai fini del rispetto del limite di cui all’art. 1, comma 557 e segg., della legge 296/2006 e s.m.i.
Dal punto di vista della capacità assunzionale invece si ritiene, per giurisprudenza sufficientemente consolidata presso la Corte dei conti, che il semplice incremento orario di un rapporto di lavoro a part-time, senza il raggiungimento della consistenza di un rapporto a tempo pieno, non configuri una nuova assunzione, e non debba pertanto essere accompagnato dall’utilizzo di facoltà assunzionale, a condizione che non vengano poste in essere fattispecie potenzialmente elusive della lettera e dello spirito della norma, ovvero (detto in modo meno ortodosso) che l’incremento non sia tale da mascherare un full time dietro percentuali di part-time prossime al 100%.
Varie sezioni regionali della Corte dei conti (tra le altre, si apprezzi la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti della Campania, deliberazione n. 338/2016/PAR) hanno rimarcato quanto la scelta dell’individuazione di tale “limite di ragionevolezza” sia del tutto rimessa all’autonoma valutazione, e conseguente assunzione di responsabilità, da parte dell’ente.
In ogni caso, in ipotesi di incremento della percentuale di part-time in via temporanea –con “rientro” del dipendente alla quota originaria decorso qualche mese– a parere di chi scrive, difficilmente può concretizzare un utilizzo di facoltà assunzionali, giacché è una scelta, di fatto, a tempo determinato.
Per completezza, si segnala la possibilità dell’utilizzo di altro strumento contrattuale, che parrebbe poter rispondere, in alternativa e in modo probabilmente più lineare, alle esigenze di copertura di una vacanza per un periodo piuttosto breve: trattasi del lavoro supplementare, regolato dall’art. 55, commi da 2 a 6, del ridetto CCNL 21/05/2018.
Stabilisce il contratto che, con l’accordo del lavoratore (che potrebbe però rifiutare la prestazione unicamente per comprovate esigenze lavorative, di salute o familiari), l’ente possa richiedere al dipendente a part-time la prestazione di ore di lavoro supplementari (non si tratta, si presti attenzione, di lavoro straordinario) nel limite del 25% della durata dell’orario di lavoro contrattualmente stabilito, con riferimento al mese.
Rilevato su base settimanale, tale previsione consentirebbe di richiedere al dipendente, ad esempio il cui orario sia articolato su 24 ore, fino a 30 ore complessive, dovendosi semplicemente contenere l’orario giornaliero (giorno per giorno) entro quello previsto come orario ordinario di lavoro a tempo pieno del giorno di riferimento (esempio: giornata con orario a tempo pieno di 6 ore / dipendente a part-time con orario di 4 ore / lavoro supplementare fino a ulteriori 2 ore).
Il lavoro supplementare è ammesso (comma 3) per specifiche e comprovate esigenze organizzative o in presenza di particolari situazioni di difficoltà derivanti da concomitanti assenze di personale non prevedibili e improvvise.
Le ore di lavoro supplementare, entro il limite massimo del 25% suddetto, sono retribuite al dipendente con un compenso pari alla retribuzione oraria globale di fatto individuata dall’art. 10, comma 2, lett. d), del CCNL 09/05/2006 (“importo della retribuzione individuale per 12 mensilità cui si aggiunge il rateo della 13^ mensilità nonché l’importo annuo della retribuzione variabile e delle indennità contrattuali percepite nel mese o nell’anno di riferimento, ivi compresa l’indennità di comparto di cui all’art. 33 del CCNL del 22.01.2004”), maggiorata del 15%, e tali importi sono posti a carico del fondo per il lavoro straordinario.
Chi scrive ritiene che, attesa la brevissima durata del periodo di assenza/difficoltà organizzativa, rispetto al quale la scelta della stipula di un nuovo contratto a part-time incrementato potrebbe apparire forzata anche in considerazione dell’incertezza in merito all’esatto protrarsi della stessa, ove l’ente ravvisi compiutamente la sussistenza dei requisiti contrattuali su richiamati, la soluzione da ultimo analizzata possa costituire una valida alternativa (16.01.2020 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Riparto dell’onere probatorio.
Posto che il mobbing ha fonte sia contrattuale ex art. 2087 c.c. sia extracontrattuale ex art. 2043 c.c., si deve ritenere che spetti al datore di lavoro dimostrare di aver posto in essere tutte le misure necessarie per tutelare l’integrità psico-fisica del dipendente, e che invece spetti al lavoratore dimostrare l’esistenza del nesso causale tra l’evento lesivo e il comportamento del datore di lavoro.
Ciò che è certo, è che non può configurarsi un danno psichico del lavoratore, del quale il datore di lavoro sia obbligato al risarcimento qualora non venga offerta rigorosa prova del danno e della relazione causale fra il medesimo ed i pretesi comportamenti persecutori
(TRIBUNALE di Roma, Sez. lavoro, sentenza 15.01.2020 n. 10057 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sì al compenso dei dipendenti pubblici se componenti esterni di commissioni di concorso (15.01.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).
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La Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia, col
parere 18.12.2019 n. 440 fornisce una lettura dell'articolo 3, commi da 12 a 14, della legge 56/2019 secondo la quale è possibile e doveroso compensare i componenti esterni delle commissioni di concorso, abbiano o meno la qualifica dirigenziale. (...continua).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOL'ufficio Personale di questo Comune chiede di conoscere il regime delle graduatorie dei pubblici concorsi a seguito delle novità normative introdotte dalla legge di bilancio 2020.
In particolare, esiste ancora il divieto di utilizzo per posti diversi da quelli messi a concorso per le graduatorie dal 2019?

La legge di bilancio 2020 (L. 27.12.2019, n. 160) ha introdotto delle novità rispetto alla disciplina limitativa introdotta con la L. 30.12.2018, n. 145.
Il comma 147 dell'art. 1 ha previsto che le amministrazioni possano "utilizzare le graduatorie dei concorsi pubblici, fatti salvi i periodi di vigenza inferiori previsti da leggi regionali, nel rispetto dei seguenti limiti:
   a) le graduatorie approvate nell'anno 2011 sono utilizzabili fino al 30.03.2020 previa frequenza obbligatoria, da parte dei soggetti inseriti nelle graduatorie, di corsi di formazione e aggiornamento organizzati da ciascuna amministrazione, nel rispetto dei princìpi di trasparenza, pubblicità ed economicità e utilizzando le risorse disponibili a legislazione vigente, e previo superamento di un apposito esame-colloquio diretto a verificarne la perdurante idoneità;
   b) le graduatorie approvate negli anni dal 2012 al 2017 sono utilizzabili fino al 30.09.2020;
   c) le graduatorie approvate negli anni 2018 e 2019 sono utilizzabili entro tre anni dalla loro approvazione
".
Il successivo comma ha disposto la abrogazione dei commi da 361 a 362-ter e il comma 365 dell'art. 1, L. 30.12.2018, n. 145, sono abrogati.
Fra le disposizioni abrogate vi è quella contenente l'inciso per cui le graduatorie "sono utilizzate esclusivamente per la copertura dei posti messi a concorso nonché di quelli che si rendono disponibili, entro i limiti di efficacia temporale delle graduatorie medesime, fermo restando il numero dei posti banditi e nel rispetto dell'ordine di merito, in conseguenza della mancata costituzione o dell'avvenuta estinzione del rapporto di lavoro con i candidati dichiarati vincitori", con cioè determinando il ripristino delle possibilità di utilizzo delle graduatorie ante riforma.
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Riferimenti normativi e contrattuali
L. 27.12.2019, n. 160, art. 1, comma 147 - L. 27.12.2019, n. 160, art. 1, comma 148 - L. 27.12.2019, n. 160, art. 1, comma 149 - L. 30.12.2018, n. 145, art. 1, comma 361 - L. 30.12.2018, n. 145, art. 1, comma 362 - L. 30.12.2018, n. 145, art. 1, comma 362-bis - L. 30.12.2018, n. 145, art. 1, comma 362-ter - L. 30.12.2018, n. 145, art. 1, comma 365 (15.01.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

PUBBLICO IMPIEGO: Rimborso spese legali. Il mancato avvio del procedimento disciplinare non esclude, per il dipendente assolto, la mancanza del conflitto di interessi per il rimborso delle spese legali.
Il Consiglio di Stato, dopo aver ricostruito i principi fondamentali per il rimborso delle spese legali al dipendente assolto in una causa penale, ha negato il rimborso in presenza dell'assoluzione dai reati di calunnia, omissione o rifiuto di atti di ufficio, non potendo escludere nel caso concreto la loro riconducibilità ad esigenze di servizio, non trovando immediata e diretta riferibilità nella volontà dell'Ente di appartenenza. Anzi, il non adempimento da parte del dipendente di un suo dovere di ufficio, pur considerando lo stesso non rilevante ai fini penali, non lo pone al di fuori di un possibile conflitto di interessi con la propria amministrazione, a nulla rilevando la mancata attivazione del procedimento disciplinare.
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8. Ritiene il Collegio che l’appello sia infondato e vada, pertanto, respinto.
9. Nell’odierno giudizio viene in questione la spettanza del rimborso delle spese legali sostenute dal pubblico dipendente, ai sensi dell’art. 18, co. 1, del D.L. n. 67 del 1997, come convertito nella legge n. 135 del 1997, che testualmente dispone: “Le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato. Le Amministrazioni interessate, sentita l’Avvocatura dello Stato, possono concedere anticipazioni del rimborso, salva la ripetizione nel caso di sentenza definitiva che accerti la responsabilità”.
9.1. Sui presupposti che indefettibilmente devono essere presenti affinché il pubblico dipendente possa invocare l’applicazione del citato art. 18 è attualmente ravvisabile una convergenza di posizioni nella giurisprudenza amministrativa.
9.2. Come recentemente chiarito anche dalla sentenza n. 8137/2019 di questa Sezione, la norma subordina la spettanza del beneficio ad una duplice circostanza:
   a) l’esistenza di un giudizio, promosso nei confronti del (e non anche dal) dipendente, conclusosi con un provvedimento che abbia definitivamente escluso la sua responsabilità;
   b) la sussistenza di un nesso tra gli atti e i fatti ascritti al dipendente e l’espletamento del servizio e l’assolvimento degli obblighi istituzionali.
9.3. In ordine alla prima circostanza, è necessario che la pronuncia giurisdizionale abbia accertato l’assenza di responsabilità ed un tale presupposto può ritenersi sussistente anche laddove sia stato applicato l’art. 530, comma 2, del c.p.p. (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28.11.2019, n. 8137; Sez. IV, 04.09.2017, n. 4176; Ad. Gen., 29.11.2012, n. 20/2013; Sez. IV, 21.01.2011, n. 1713); dovendosi invece negare l’applicazione dell’art. 18 quando il proscioglimento sia conseguenza di cause diverse, quali l’estinzione del reato, l’intervenuta prescrizione, oppure quando sia stato disposto per ragioni processuali, quali la mancanza delle condizioni di promovibilità o di procedibilità dell’azione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28.11.2019, n. 8137; Sez. IV, 04.09.2017, n. 4176; Sez. VI, 2005, n. 2041).
9.4. Ulteriore presupposto cui l’art. 18 ricollega il riconoscimento del rimborso delle spese legali è che il dipendente abbia agito in nome, per conto ed anche nell’interesse dell’Amministrazione; solo in tal caso, infatti, è possibile ravvisare il nesso di immedesimazione organica in ordine ai fatti o agli atti oggetto del giudizio (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28.11.2019, n. 8137).
9.5. Al riguardo è stato ulteriormente precisato che tale presupposto sussiste solo ove gli atti o i fatti compiuti dall’interessato siano riconducibili, in un rapporto di stretta dipendenza, con l’adempimento dei propri obblighi, ossia con l’esercizio diligente della funzione pubblica; occorrendo, altresì, che sia ravvisabile l’esistenza di un nesso di strumentalità tra il compimento dell’atto o del fatto e l’adempimento del dovere, non potendo il dipendente assolvere ai propri compiti, se non tenendo quella determinata condotta (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 26.02.2013, n. 1190).
9.6. Peraltro, occorre porre in rilievo come la ricostruzione dell’esatta portata dei requisiti indefettibili, ai quali l’art. 18 subordina il rimborso delle spese legali, sia condivisa dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, in ordine ai rapporti di impiego pubblico contrattualizzato.
9.7. La Cassazione, dando vita ad un orientamento ermeneutico consolidato, ha affermato l’esigenza che il giudizio, cui la richiesta di rimborso inerisce, riguardi procedimenti giudiziari strettamente connessi all’adempimento dei compiti istituzionali. Ed infatti, lo specifico interesse che deve necessariamente sussistere affinché l’Amministrazione possa essere chiamata a tenere indenne dalle spese legali il proprio dipendente, imputato in un procedimento penale, consiste nella circostanza che l’attività sia riferibile all’Ente di appartenenza, ponendosi in un rapporto di stretta connessione con il fine pubblico (cfr. Cass., 29.01.2019, n. 2475; Cass., 06.08.2018, n. 20561; Cass. Lav., 06.07.2018 n. 17874; Cass., 05.02.2016 n. 2366; Cass. Lav, 03.02.2014, n. 2297)
9.8. Risulta pertanto evidente come il rimborso delle spese legali rappresenti un meccanismo volto ad imputare al titolare dell’interesse sostanziale le conseguenze dell’operato di chi abbia agito per suo conto; ne deriva che un siffatto meccanismo di imputazione può operare solo in quanto siano ravvisabili quel rapporto di stretta dipendenza, nonché quel nesso di strumentalità tra l’adempimento del doveri istituzionali e il compimento dell’atto, di cui si è detto in precedenza.
Una diversa conclusione condurrebbe a riconoscere la spettanza del beneficio in ogni ipotesi di reato proprio, anche laddove il fatto addebitato esuli dai doveri istituzionali, senza che possa ravvisarsi un collegamento, diretto e di tipo oggettivo, con l’interesse dell’Amministrazione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 05.04.2017, n. 1568).
9.9. Alla luce delle accennate coordinate ermeneutiche consegue ulteriormente che la condotta del dipendente, consistente in atti o in comportamenti, deve essere espressione della volontà dell’Amministrazione di appartenenza e a questa riferibile, in quanto finalizzata al corretto adempimento dei suoi fini istituzionali (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28.11.2019, n. 8137).
Sussistendo tali condizioni, il principio di immedesimazione organica consente, mediante la creazione del rapporto d’ufficio, l’imputazione in capo all’Amministrazione dell’intera attività, quindi anche degli effetti, scaturenti dai comportamenti posti in essere dal titolare dell’organo.
9.10. La giurisprudenza ha infine chiarito come la natura eccezionale della disposizione in esame ne imponga una stretta interpretazione, dovendo concludersi per la non spettanza del beneficio nel caso in cui l’atto o il comportamento:
   a) non abbiano trovato origine nell’esecuzione dei compiti istituzionali, ma abbiano avuto luogo ‘in occasione’ dello svolgimento della pubblica funzione, senza che possa ravvisarsi la necessaria riferibilità all’Amministrazione di appartenenza (cfr. Cass. civ., Sez. I, 31.01.2019, n. 3026; Sez. lav., 06.07.2018, n. 17874; Sez. lav., 03.02.2014, n. 2297; Sez. lav., 30.11.2011, n. 25379; Sez. lav., 10.03.2011, n. 5718; Cons. Stato, Sez. V, 05.05.2016, n. 1816; Sez. III, 2013, n. 4849; Sez. IV, 26.02.2013, n. 1190);
   b) costituiscano violazione dei doveri d’ufficio (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 07.06.2018, n. 3427);
   c) possano condurre ad un conflitto con gli interessi dell’Amministrazione di appartenenza, cioè quando, pur in assenza di responsabilità penale, sussistano i presupposti per la configurazione di un illecito disciplinare e l’attivazione del relativo procedimento (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 27.08.2018, n. 2055; Sez. IV, 04.09.2017, n. 4176; Sez. IV, 2013, n. 1190; Sez. IV, 2012, n. 423).
9.11. La necessità che la disposizione sia oggetto di stretta interpretazione è del resto ricavabile dalla ratio che il legislatore ha inteso imprimere all’istituto del rimborso delle spese legali.
Lo scopo della norma è quello di sollevare i funzionari pubblici dal timore di eventuali conseguenze giudiziarie connesse all’espletamento del servizio, nell’intento di impedire ‘che il dipendente statale tema di fare il proprio dovere’ (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28.11.2019, n. 8137). Il fine avuto di mira dal normatore consiste quindi nel tenere indenni i soggetti che abbiano agito in nome, per conto e nell’interesse dell’Amministrazione dalle spese legali sostenute per difendersi dalle accuse di responsabilità, poi rivelatesi infondate.
9.12. Al conseguimento di un siffatto scopo non basta una connessione con il fatto di reato, di tipo soggettivo ed indiretto, come accadrebbe se lo svolgimento dell’attività costituisse una mera occasione per il compimento dell’atto o del comportamento; è necessario, invece, che sussista uno specifico nesso causale che consenta di affermare la stretta riconducibilità del fatto contestato all’espletamento del dovere d’ufficio, pena la dilatazione del perimetro applicativo della norma oltre i confini delineati dal legislatore.
10. Ricostruita la ragione ispiratrice della predetta disciplina, ne consegue come del tutto inconferente si riveli il richiamo, operato nell’atto di appello, agli artt. 11 e 12 del D.P.R. n. 461/2001 sulla riconducibilità a cause di servizio di lesioni, infermità o aggravamenti di lesioni o infermità preesistenti, riscontrate in capo al dipendente appartenente ad amministrazioni pubbliche.
10.1. La ricorrente ha infatti esposto di aver ottenuto con determinazione dirigenziale n. 1489/D del 27.10.2014 il riconoscimento della dipendenza da fatti di servizio della patologia riscontrata, nella specie reazione ansioso depressiva. Ha quindi lamentato la circostanza secondo cui l’Amministrazione avrebbe aderito al parere espresso dal Comitato di Verifica sulle Cause di Servizio in ordine al riconoscimento della valenza patogenetica del servizio prestato, salvo discostarsene successivamente e senza che venisse resa un’adeguata motivazione nell’ambito del procedimento sull’istanza di rimborso delle spese legali.
10.2. A giudizio dell’appellante sia l’Amministrazione di appartenenza, che il Tar avrebbero operato una riedizione illegittima del riconoscimento del nesso causale effettuato dall’organo tecnico preposto, stravolgendolo implicitamente.
10.3. Siffatta ricostruzione non coglie nel segno. È infatti da respingere la tesi, da ultimo ribadita nella memoria di replica prodotta dall’appellante, secondo cui il parere del C.V.C.S., seppur relativo ad un diverso procedimento, dovrebbe essere assunto quale indice rivelatore della presenza del nesso causale anche in altri giudizi, in ragione della natura vincolata ed insindacabile della valutazione compiuta dal Comitato, siccome connotata da certezza o da alto grado di credibilità logica e razionale.
10.4. A tale tesi non è possibile accedere proprio alla luce della ratio ispiratrice dell’istituto del rimborso delle spese legali. Eterogenei, infatti, sono i criteri che informano le relative discipline e differenti devono essere i principi che presiedono alle rispettive valutazioni.
10.5. Dal riconoscimento degli eventi di servizio prestato, quali fattori concausali efficienti sull’insorgenza o l’aggravamento dell’affezione, non può automaticamente e meccanicamente desumersi un accertamento, differente per natura e per oggetto, circa la stretta riconducibilità dell’atto o del fatto ai doveri istituzionali dell’Ente di appartenenza. Ed invero, i fatti addebitati al dipendente potrebbero, come nel caso di specie, esulare dall’esercizio della funzione, per rinvenire nell’attività lavorativa solo l’occasione del loro verificarsi.
10.6. Nel caso all’esame del Collegio, infatti, le condotte che hanno portato alla contestazione dei reati di calunnia, omissione o rifiuto di atti d’ufficio, seppur riconosciute come non rilevanti penalmente, non sono in ogni caso riconducibili ad esigenze di servizio, non trovando immediata e diretta riferibilità nella volontà dell’Ente di appartenenza. Anzi, l’astenersi dal porsi alla guida di un mezzo militare non può che rendere ipotizzabile in capo all’interessata una violazione dei doveri d’ufficio, se si consideri che la stessa era munita di apposita patente di guida militare. Ne deriva l’impossibilità di ravvisare un nesso tra l’agire della Sig.ra -OMISSIS- e la volontà dell’Amministrazione, in ragione del dissolvimento del rapporto di immedesimazione organica.
10.7. Né ha pregio l’eccezione sollevata dall’appellante in ordine al riconoscimento di un conflitto di interesse tra Amministrazione e dipendente. Si legge nell’atto di appello che il predetto conflitto potrebbe ritenersi sussistente solo ove l’Amministrazione avviasse un procedimento disciplinare nei confronti del proprio dipendente e procedesse all’irrogazione di una sanzione, nonostante l’intervenuta assoluzione in sede penale.
Orbene, la circostanza dell’assoluzione, così come la mancata instaurazione di un procedimento disciplinare non ha alcuna rilevanza. Il conflitto d’interesse può infatti rilevare ex se, indipendentemente dall’esito del giudizio penale (cfr. Cass. Lav., 03.02.2014, n. 2297).
E l’assoluzione, giova ulteriormente precisare, non ha alcuna incidenza in ordine al giudizio sulla non riconducibilità all’Amministrazione del fatto addebitato (cfr. Cass. 05.02.2016, n. 2366).
Ne consegue che per ravvisare un conflitto con gli interessi dell’Amministrazione ed escludere la spettanza del beneficio è sufficiente che sussistano i presupposti per la configurazione dell’illecito disciplinare e per l’attivazione del relativo procedimento (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 27.08.2018, n. 2055; Sez. IV, 04.09.2017, n. 4176; Sez. IV, 2013, n. 1190; Sez. IV, 2012, n. 423).
11. Per le ragioni sopra esposte, l’appello va respinto e, per l’effetto, va confermata la sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.01.2020 n. 281 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Annullamento del concorso per mancata pubblicazione bando/estratto in Gu.
È illegittimo il comportamento del Comune che, avendo visto annullare gli esiti di un concorso per l'assunzione di 4 unità di personale, per la violazione dell'obbligo di pubblicazione del bando (o di un estratto di esso) nella Gazzetta ufficiale, abbia provveduto a reclutare il personale necessario con procedura di mobilità, senza assumere i candidati dichiarati vincitori all'esito della procedura annullata.
Sono queste le considerazioni del TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, contenute nella sentenza 10.01.2020 n. 9, con la quale ha condannato un ente a risarcire il danno patito da 4 candidati vincitori di una procedura concorsuale, annullata dal giudice amministrativo, avendo l'ente nel frattempo ricoperto i posti tramite mobilità esterna.
In particolare, all'esito del concorso, un candidato non vincitore aveva impugnato gli atti della procedura, censurando la violazione dell'obbligo da parte del Comune di pubblicare il bando sulla Gazzetta ufficiale.
Per cui, accertata l'illegittimità, il Giudice amministrativo aveva annullato tutti gli atti della selezione e, di conseguenza, l'ente, nonostante avesse nominato i vincitori, aveva proceduto, erroneamente, al reclutamento tramite mobilità (commento tratto da http://quotidianoentilocali.ilsole24ore.com).
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Innanzitutto il Collegio ritiene esistente il danno ingiusto di cui le stesse si dolgono e parimenti ritiene comprovato il nesso causale tra il pregiudizio economico lamentato e l’annullamento della procedura concorsuale indetta dal comune di Bologna ad opera della sentenza del TAR Emilia Romagna sede di Bologna sez. I n. 145 del 2013.
In effetti, dagli atti di causa non risulta che –dopo l’approvazione della graduatoria finale del concorso– vi fosse alcun elemento ostativo all’assunzione delle ricorrenti (vincitrici della selezione) quali assistenti sociali del comune di Bologna, con conseguente legittima aspettativa di queste a ricoprire il posto messo a concorso.
E’ lo stesso comune di Bologna, infatti, a comunicare alle odierne ricorrenti che le ragioni dell’annullamento del procedimento concorsuale che le aveva viste collocate nella relativa graduatoria tra i candidati vincitori, risiedono esclusivamente nella mancata pubblicazione del bando di concorso sulla Gazzetta della Repubblica Italiana e, quindi, in un comportamento dell’amministrazione banditrice in contrasto con la vigente normativa in materia che prescrive la pubblicazione del bando per intero o per estratto anche sulla G.U.R.I..
Parimenti sussiste il comportamento colpevole del comune di Bologna, comprovato sia dalla illegittima mancata pubblicazione del bando di concorso anche sulla Gazzetta Ufficiale, come chiaramente rilevato dal TAR nella citata sentenza, sia dal successivo comportamento del comune che –pur avendo sostenuto nella propria linea difensiva in primo grado la tesi incentrata sulla non necessità della suddetta pubblicazione– non ha inteso tuttavia impugnare la sentenza del giudice di prime cure dinanzi al Consiglio di Stato.
D’altra parte, dagli stessi atti di causa emerge la necessità e l’urgenza per il Comune di coprire i posti di assistente sociale rimasti scoperti a causa dell’annullamento giurisdizionale dei citati atti concorsuali, poiché a tale precisato fine l’ente ha prontamente attivato le procedure di mobilità esterna. Pertanto, il Tribunale ritiene fondata l’azione risarcitoria proposta dalle ricorrenti, avendo accertato l’effettiva sussistenza, nella specie, di tutti i presupposti di cui all’art. 30 Cod. proc. amm. e della tutela aquiliana ex art. 2049 Cod. Civ..
Per quanto concerne il quantum da risarcire, il Collegio ritiene che il Comune di Bologna debba procedere alla liquidazione del pregiudizio subito dalle ricorrenti sulla base delle seguenti indicazioni:
   A) -Va risarcito il danno emergente costituito unicamente dalle spese sostenute dalle ricorrenti per partecipare al concorso in parola e, successivamente, per partecipare ad ulteriori concorsi banditi da altri enti pubblici per la stessa posizione lavorativa di assistente sociale con rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Tale importo ammonta, come attendibilmente comprovato dalla difesa delle ricorrenti in € 721,28 per la sig.ra Em.Fa. ed in € 482,41 per la sig.ra Em.Da.Ve. (v. dettaglio analitico a pagg. 10 e 11 della mem. depositata dig. il 05/10/2019 da parte ricorrente);
   B) - Non si ritengono invece ristorabili –in quanto non direttamente connessi con l’evento causativo del pregiudizio e in quanto relativi a periodi successivi alla presentazione del ricorso- gli ulteriori danni indicati a pag. 12 della citata memoria per la sig.ra Da.Ve. (ammontanti ad € 8.514,00), concernendo essi costi e spese di viaggio sostenuti per recarsi nella sede di lavoro presso cui ha prestato servizio dal 01/04/2014 al 31/12/2017;
   C) - Ad entrambe le ricorrenti va inoltre riconosciuto, a titolo di danno per lucro cessante, l’importo di € 3.080,38, così composto (come da dettagliato prospetto riportato a pag. 10 della citata memoria dep. il 05/10/2019): € 500,00 per quota annuale di produttività che le ricorrenti avrebbero percepito al comune di Bologna; € 50,00 (mancata progressione da posizione cat. D1 a D2); € 1.840,50 (per perdita permessi retribuiti); € 689,88 (perdita partecipazione concorsi).
Il Tribunale non considera infine risarcibili, in quanto non comprovati dalle richiedenti il risarcimento, sia i pretesi danni patrimoniali da “perdita di chances” per la mancata partecipazione ad altri concorsi banditi successivamente alla comunicazione dell’esito positivo del concorso del comune di Bologna, sia i danni non patrimoniali indicati nel ricorso quali “la lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della libertà del lavoratore”, “il danno…sulla vita professionale e di relazione delle interessate”, il danno “…alla vita di relazione e familiare” e il danno derivato “…dall’ansia dovuta all’incertezza del proseguimento dell’attività lavorativa”.
Sulla precisata questione deve richiamarsi la giurisprudenza costante del giudice amministrativo, secondo la quale, sul piano probatorio, in tema di risarcimento da atto illegittimo delle pubbliche amministrazioni va applicato il principio sancito dall'art. 2697 cod. civ. "in virtù del quale spetta al danneggiato fornire in giudizio la prova di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria, e quindi del danno di cui si invoca il ristoro per equivalente monetario, con la conseguenza che, laddove la domanda di risarcimento danni non sia corredata dalla prova del danno da risarcire, la stessa deve essere respinta" (ex multis, Cons. Stato, sez. V, 22.01.2015, n. 282).
Quale ulteriore considerazione volta a rafforzare l’esclusione della risarcibilità dei suddetti elementi di danno, il Collegio osserva che –seppure in posizione di lavoratrici dipendenti a tempo determinato– le odierne ricorrenti risultano avere prestato la propria attività lavorativa presso gli enti datori di lavoro senza soluzione di continuità nel periodo preso a riferimento ai fini risarcitori.
Per le suesposte ragioni, il ricorso è accolto e per l’effetto, il comune di Bologna è condannato a risarcire le ricorrenti, ciascuna per quanto di rispettiva spettanza, dei danni dalle stesse subite a causa dell’illegittima adozione del bando di concorso oggetto di causa, per gli importi meglio specificati nella parte motiva della presente decisione, oltre a rivalutazione monetaria e interessi compensativi nella misura legale (per la sola parte eccedente l’importo della rivalutazione), trattandosi di debito di valore dal dì del dovuto fino al completo soddisfo.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Misure da adottare nel caso di indagini penali a carico di propri dipendenti.
Domanda
Il dirigente dell’ufficio contratti e un dipendente dello stesso ufficio sono indagati rispettivamente per abuso d’ufficio e corruzione. Vorrei saper cosa deve fare l’Amministrazione e, in particolare, il Responsabile della Prevenzione della Corruzione
Risposta
Premesso che il verificarsi di un episodio di malamministrazione potenzialmente configurabile come fatto penalmente rilevante, impone al RPCT una riflessione di carattere generale circa l’adeguatezza delle misure di prevenzione della corruzione nell’area a rischio “contratti”, la prima valutazione che l’Amministrazione si trova a compiere è quella relativa all’opportunità/obbligo di procedere al trasferimento del dipendente ad altro incarico.
Si tratta della misura cosiddetta della rotazione straordinaria. È bene chiarire, innanzitutto, che si sta parlando di una misura preventiva, cautelare e non sanzionatoria. Il dipendente su cui grava il sospetto di una condotta di natura corruttiva viene rimosso dall’ufficio in cui presta l’attività, al fine di prevenire il danno all’immagine di imparzialità dell’Amministrazione.
Per capire se sussista un obbligo di provvedere in tal senso o se, invece, si tratti di una misura facoltativa, occorre analizzare la normativa (art. 3, comma 1, della legge 27.03.2001, n. 97 e art. 16, c. 1, lettera l-quater del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165) e le indicazioni ANAC, contenute nella delibera n. 215 del 26.03.2019.
Inoltre, occorre compiere i necessari distinguo in ragione sia del diverso inquadramento dei dipendenti che della natura dei delitti di cui sono indagati.
L’art. 3, comma 1, della legge 97/2001, disciplina il trasferimento del dipendente per il quale è disposto il giudizio per alcuni dei delitti previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater e 320 del codice penale.
Per come è formulata la disposizione “… lo trasferisce ad ufficio diverso…” la misura è da intendersi come obbligatoria, al momento in cui il dipendente è rinviato a giudizio per uno dei reati indicati, tra i quali è contemplata la corruzione ma non l’abuso d’ufficio.
L’art. 16, comma 1, lettera l-quater, del d.lgs. 165/2001, contempla, tra i compiti e i poteri dei dirigenti generali, il monitoraggio “delle attività nell’ambito delle quali è più elevato il rischio corruzione svolte nell’ufficio a cui sono preposti, disponendo, con provvedimento motivato, la rotazione del personale nei casi di avvio di procedimenti penali o disciplinari per condotte di natura corruttiva”.
Tale disposizione è evidentemente meno precisa, sia in ordine alla natura del reato di cui è sospettato il dipendente che al momento del procedimento penale in cui occorre intervenire.
Nell’aggiornamento al PNA del 2018
[1], l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) interpretava la norma in maniera restrittiva sul piano del momento rilevante per applicare la rotazione straordinaria, individuandolo nella richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pubblico ministero al termine delle indagini preliminari.
Successivamente, con la delibera n. 215 del 26.03.2019, l’ambito di applicazione della rotazione straordinaria si è esteso, anticipando il momento dell’adozione della misura cautelare a quello in cui il soggetto viene iscritto nel registro delle notizie di reato, di cui all’art. 355 c.p.p. sulla considerazione che il termine “procedimento penale” comprende, anche, la fase delle indagini preliminari.
In merito alla nozione di “condotta di natura corruttiva” invece, l’ANAC precisa nella citata delibera i reati per i quali la misura è obbligatoria (esempio: corruzione), distinguendoli dagli altri delitti contro la P.A. (abuso d’ufficio) per i quali è, evidentemente, facoltativa.
È necessario, pertanto, che non appena l’Amministrazione venga a conoscenza di indagini penali a carico di un dipendente, acquisisca le informazioni utili a valutare se e come applicare la rotazione straordinaria.
Nella valutazione si deve tener conto della gravità delle imputazioni e dello stato degli accertamenti compiuti dall’autorità giudiziaria. In ogni caso, ciò che l’ANAC raccomanda è di adottare comunque un provvedimento in cui si dia conto dell’applicazione o meno della misura e di motivarlo adeguatamente.
Con riferimento al caso proposto, pertanto, si potrebbero fare valutazioni diverse in relazione alla tipologia di reato di cui sono sospettati (abuso d’ufficio e corruzione) e tenere conto della fase del procedimento penale.
Il Responsabile della Prevenzione della Corruzione (RPCT) deve, inoltre, segnalare la questione al Responsabile dell’Ufficio Procedimenti disciplinari (UPD), al quale spetta l’avvio del procedimento disciplinare, con l’eventuale sospensione, in attesa della definizione del procedimento penale, secondo le disposizioni previste, da ultimo, nell’articolo 62 del CCNL Funzioni locale del 21.05.2018.
In ragione della prosecuzione del procedimento, dell’eventuale rinvio a giudizio e dell’esito del processo penale, la valutazione in merito alle misure da adottare dovrà essere ripetuta. Inoltre per il dirigente occorre valutare, nel caso di sentenza di condanna, le conseguenze in termini di inconferibilità, ai sensi dell’art. 3, del decreto legislativo 08.04.2013, n. 39.
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[1] Delibera ANAC n. 1074 del 13/11/2018 (07.01.2020 - tratto da e link a www.publika.it).

dicembre 2019

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Riduzione a 35 ore settimanali dell’orario di lavoro, polizia locale.
Domanda
È ancora possibile prevedere la riduzione dell’orario di lavoro del personale turnista, con particolare riferimento alla Polizia locale? E’ necessario inserire delle norme nel Contratto Collettivo Integrativo?
Risposta
Per rispondere al quesito è necessario ricostruire il quadro normativo legato alla possibilità di ridurre l’orario di lavoro del personale che svolte attività articolate in turni.
   a) La questione della riduzione dell’orario di settimanale a 35 ore è stata posta nell’art. 22 del CCNL regioni e autonomie locali, del 01.04.1999, che testualmente prevede:
Art. 22 – Riduzione di orario
   1. Al personale adibito a regimi di orario articolato in più turni o secondo una programmazione plurisettimanale, ai sensi dell’art. 17, comma 4, lett. b) e c), del CCNL del 06.07.1995, finalizzati al miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia delle attività istituzionali ed in particolare all’ampliamento dei servizi all’utenza, è applicata, a decorrere dalla data di entrata in vigore del contratto collettivo decentrato integrativo, una riduzione di orario fino a raggiungere le 35 ore medie settimanali. I maggiori oneri derivanti dall’applicazione del presente articolo devono essere fronteggiati con proporzionali riduzioni del lavoro straordinario, oppure con stabili modifiche degli assetti organizzativi.
   2. I servizi di controllo interno o i nuclei di valutazione, nell’ambito delle competenze loro attribuite dall’art. 20 del D.Lgs. 29/1993, verificano che i comportamenti degli enti siano coerenti con gli impegni assunti ai sensi del comma 1, segnalando eventuali situazioni di scostamento.
   3. La articolazione delle tipologie dell’orario di lavoro secondo quanto previsto dal CCNL del 06.07.1995 è determinata dagli enti previo espletamento delle procedure di contrattazione di cui all’art. 4.
   4. Le parti si impegnano a riesaminare la disciplina del presente articolo alla luce di eventuali modifiche legislative riguardanti la materia
[1].
   b) Il CCNL del 21.05.2018, all’art. 2, comma 8, stabilisce che per gli istituti non disciplinati “continuano a trovare applicazione le disposizioni dei precedenti CCNL non disapplicate”.
   c) L’articolo 49 – Disapplicazioni, del citato CCNL del 2018, non contempla l’art. 22 del CCNL 01/04/1999, tra le norme non più applicabili;
   d) In aggiunta, va ricordato che l’art. 3, comma 7, del CCNL 2018, afferma che “Le clausole del presente titolo sostituiscono integralmente tutte le disposizioni in materia di relazioni sindacali previste nei precedenti CCNL, le quali sono pertanto disapplicate”;
   e) L’art. 5, comma 3, lettera a), del CCNL 2018, prevede tra le materie oggetto di “Confronto” l’articolazione delle tipologie dell’orario di lavoro;
   f) La riduzione dell’orario di lavoro (sino) a 35 ore settimanali, non è prevista tra le materie soggette a contrattazione, come dettagliatamente elencate nell’art. 7, comma 4, lettere da a) a z), del CCNL 2018.
Tutto ciò premesso, la risposta al quesito è la seguente:
   a) le norme sulla riduzione sino a 35 ore settimanali sono ancora in vigore;
   b) la materia non è più soggetta a contrattazione, come invece era previsto nel comma 3, dell’art. 22, CCNL 1999 che va letto –dopo il 22.05.2018– in combinato disposto con l’art. 3, comma 7, dell’ultimo CCNL;
   c) la questione è, oggi, materia di confronto, alla luce dell’art. 5, comma 3, lettera a) del CCNL 2018;
   d) di conseguenza è da evitare qualsiasi inserimento nel contratto decentrato integrativo (dove la clausola sarebbe nulla), ma di prevederlo nell’ambito delle attività di confronto, come disciplinate nell’art. 5, comma 2, del CCNL 2018;
   e) se la riduzione dell’orario, nel comune per la Polizia locale, è già prevista, può essere sufficiente una semplice norma di “conferma” in un verbale di confronto.
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[1] NOTA: Come si può notare, la riduzione non era (e non è!) affatto scontata e ci deve essere una verifica del Nucleo di Valutazione su come fronteggiare i costi dell’eventuale riduzione, indicando due possibili strade: la riduzione del fondo del lavoro straordinario o una stabile modifica degli assetti organizzativi (19.12.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCommissioni di concorso, compenso anche ai non dirigenti
Anche i dipendenti privi di qualifica dirigenziale, al pari dei dirigenti, hanno diritto al compenso per l'incarico in commissione di concorso.

A ribaltare la lettura del decreto concretezza è la sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Lombardia (parere 18.12.2019 n. 440) chiamata da un Comune comasco ad affrontare le novità introdotte dell'articolo 3 della legge 56/2019, in tema di compensi ai commissari di concorsi.
Nello specifico il Comune ha domandato ai giudici se, così come previsto per i dirigenti (comma 14 dell'articolo 3), per il personale privo di quella qualifica, quando è componente di concorsi pubblici banditi da un'amministrazione diversa da quella di appartenenza, può essere previsto il compenso oppure se, in applicazione del principio di onnicomprensività della retribuzione (comma 12, dell'articolo 3), esiste un divieto di remunerazione in quanto tali incarichi, anche quando riferiti a concorsi banditi da un'amministrazione diversa da quella di appartenenza, rientrano nelle funzioni dell'ufficio ricoperto.
Chiara la risposta dei giudici: ai componenti delle commissioni di concorsi pubblici, banditi da un'amministrazione diversa da quella di appartenenza, privi di qualifica dirigenziale, spetta il compenso per l'attività di presidente, di componente o di segretario di una commissione di concorso.
Le argomentazioni dei magistrati contabili si fondano sulla considerazione secondo la quale il comma 12 dell'articolo 3 della legge 56/2019 non si riferisce all'aspetto retributivo degli incarichi, ma si preoccupa solo di autorizzare (con legge) le attività, al fine di consentirne lo svolgimento da parte dei dipendenti pubblici. In altri termini, la disposizione, lungi dall'escludere ogni compenso per gli incarichi di componenti delle commissioni di concorso, ha voluto qualificarli espressamente, anche nell'ipotesi di concorsi banditi da un'amministrazione diversa da quella di appartenenza (salva in questo caso l'autorizzazione), come compiti conferiti in ragione dell'ufficio ricoperto.
Si legge ancora nella delibera che una interpretazione più restrittiva della disciplina tendente ad affermare la possibilità di compensare gli incarichi in questione soltanto per il personale dirigente, oltre che presentare innegabili profili di illegittimità costituzionale per la disparità di trattamento tra personale dirigenziale e personale non dirigenziale, contrasterebbe con lo stesso impianto dell'articolo 3 che, nell'evidente presupposto della retribuibilità degli incarichi in questione, ha previsto, al comma 13, addirittura l'aggiornamento dei compensi.
Su richiesta dell'ente la Corte ha precisato poi che le considerazioni valgono anche per la partecipazione del segretario comunale a una commissione esaminatrice di concorso pubblico.
Infine, i giudici rispondono negativamente al quesito con il quale il Comune ha chiesto se l'entrata in vigore della legge 56/2009 presupponga necessariamente l'adozione del decreto ministeriale attuativo. Il decreto in questione riguarda infatti le modalità di istituzione e di gestione dell'albo nazionale dei componenti delle commissioni esaminatrici di concorso ed è previsto che in sua assenza le commissioni esaminatrici continuano a essere costituite secondo le disposizioni vigenti in materia alla data di entrata in vigore della legge in argomento (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.01.2020).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Circa l’interpretazione di alcuni commi dell’art. 3 della legge 56/2019, c.d. Legge Concretezza, in relazione al riconoscimento di un compenso ai dipendenti di altre p.a. per incarichi di presidente, di membro o di segretario di commissioni esaminatrici, i magistrati contabili della Lombardia hanno precisato che:
  
fino a quando non sarà adottato il d.m. di cui all’art. 3, comma 15, della legge 56/2019, cui sono demandate le modalità di istituzione e gestione dell’albo nazionale dei componenti delle commissioni esaminatrici di concorso, quest’ultime continuano ad essere costituite secondo le disposizioni vigenti in materia;
  
ai componenti delle commissioni esaminatrici di concorsi pubblici, banditi da un’amministrazione diversa da quella di appartenenza, privi di qualifica dirigenziale, spetta un compenso per l’attività di presidente, membro o di segretario della commissione;
  
anche al segretario comunale che partecipa ad una commissione esaminatrice di un concorso pubblico bandito da un’amministrazione diversa da quella presso cui presta servizio come titolare, spetta il compenso per l’attività svolta di presidente, membro o di segretario della commissione.
Pertanto, agli incarichi di presidente, membro o segretario di una commissione esaminatrice di un concorso pubblico, anche nell’ipotesi in cui siano banditi da un’amministrazione diversa da quella di appartenenza, spetta un compenso
(massima tratta da www.self-entilocali.it).
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Il Sindaco del Comune di Appiano Gentile (CO) presenta tre quesiti riguardanti l’interpretazione di alcuni commi dell'art. 3, della Legge 19.06.2019 n. 56 in relazione al riconoscimento di compenso a dipendenti (di amministrazione diversa da quella che ha bandito un concorso pubblico per l'accesso a un pubblico impiego) per incarichi di presidente, di membro o di segretario di una commissione esaminatrice. Nel dettaglio chiede:
   1. se l'entrata in vigore della Legge 19.06.2019 n. 56 presupponga necessariamente l'adozione del Decreto Ministeriale attuativo;
   2. “se, così come previsto dal comma 14 dell'art. 3 della legge 56/2019 per il personale dirigenziale, ai componenti delle commissioni di concorsi pubblici, privi di qualifica dirigenziale, banditi da un'amministrazione diversa da quella di appartenenza, può essere riconosciuto il compenso per l'attività di presidente, di membro o di segretario di una commissione di concorso, oppure, in applicazione del principio di onnicomprensività della retribuzione previsto dal comma 12, dell'art. 3, della legge sopra richiamata, il legislatore ha voluto introdurre un divieto di remunerazione in quanto tali incarichi, anche laddove si tratti di concorsi banditi da un'amministrazione diversa da quella di appartenenza, rientrano nelle funzioni dell'ufficio ricoperto (conferiti in ragione dell'ufficio ricoperto dal dipendente pubblico o comunque conferiti dall'amministrazione presso cui presta servizio o su designazione della stessa)”;
   3. “indicazioni applicative di tale disciplina alla figura del Segretario Comunale componente di commissioni di concorsi banditi da un'amministrazione diversa da quella presso cui presta servizio come titolare”.
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La questione sollevata in materia di compensi per la partecipazione alle commissioni per i pubblici concorsi si riferisce alla recente legge 19.06.2019 n. 56 (c.d. Decreto Concretezza, di iniziativa governativa) entrata in vigore il 07.07.2019.
Come risulta dagli atti parlamentari, tale legge persegue “l’obiettivo di individuare soluzioni concrete per garantire l’efficienza delle pubbliche amministrazioni, il miglioramento immediato dell’organizzazione amministrativa e l’incremento della qualità dei servizi erogati dalle stesse”; in questo ambito la materia dei concorsi per il reclutamento di personale è nello specifico disciplinata dall’art. 3, con l’intento di snellire l’espletamento delle procedure, ivi compresa la formazione delle commissioni di concorso.
Ciò premesso, riguardo al primo quesito, con il quale l’Amministrazione chiede se l'entrata in vigore della Legge 19.06.2019 n. 56 presupponga necessariamente l'adozione del Decreto Ministeriale attuativo, occorre rispondere negativamente dato che il decreto attuativo di cui al c. 15 dell’art. 3 della stessa legge, riguarda le modalità di istituzione e di gestione dell’Albo nazionale dei componenti delle commissioni esaminatrici di concorso e che in sua assenza, “le commissioni esaminatrici continuano ad essere costituite secondo le disposizioni vigenti in materia alla data di entrata in vigore della presente legge”.
Con il secondo quesito il comune di Appiano Gentile vuole sapere “se, così come previsto dal comma 14 dell’art. 3 della legge 56/2019 per il personale dirigenziale, ai componenti delle commissioni di concorsi pubblici, privi di qualifica dirigenziale, banditi da un’amministrazione diversa da quella di appartenenza, può essere riconosciuto il compenso per l’attività di presidente, di membro o di segretario di una commissione di concorso, oppure, in applicazione del principio di onnicomprensività della retribuzione previsto dal comma 12, dell’art. 3, della legge sopra richiamata, il legislatore ha voluto introdurre un divieto di remunerazione in quanto tali incarichi, anche laddove si tratti di concorsi banditi da un’amministrazione diversa da quella di appartenenza, rientrino nelle funzioni dell’ufficio ricoperto (conferiti in ragione dell’ufficio ricoperto dal dipendente pubblico o comunque conferiti dall’amministrazione presso cui presta servizio o su designazione della stessa)”.
Per pervenire alla risposta di detto quesito, occorre dare alla disciplina di riferimento un’interpretazione di carattere sistematico.
In primo luogo, si osserva che la legge n. 56 del 2019, recante “Interventi per la concretezza delle azioni delle pubbliche amministrazioni e la prevenzione dell'assenteismo”, all’articolo 6, comma 1, sancisce espressamente che “le disposizioni di cui agli articoli 1 e 3 recano norme di diretta attuazione dell'articolo 97 della Costituzione e costituiscono principi generali dell'ordinamento”, ancorando le indicate norme all’attuazione dei fondamentali principi del buon andamento ed imparzialità dell’amministrazione, e così attribuendo agli incarichi ivi disciplinati un ruolo funzionale al buon andamento della pubblica amministrazione, attraverso concorsi pubblici da espletarsi in maniera efficace e spedita, favorendo l’effettiva partecipazione alle commissioni di concorso, con un forte senso di responsabilizzazione per coloro che ne fanno parte.
Il comma 12 dell’art. 3, della legge n. 56/2019, in particolare, va letto tenendo conto della disciplina generale in materia di incarichi conferibili ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ai sensi del D.Lgs. 31.03.2001 n. 165.
La norma stabilisce: “Gli incarichi di presidente, di membro o di segretario di una commissione esaminatrice di un concorso pubblico per l'accesso a un pubblico impiego, anche laddove si tratti di concorsi banditi da un'amministrazione diversa da quella di appartenenza e ferma restando in questo caso la necessità dell'autorizzazione di cui all'articolo 53 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, si considerano ad ogni effetto di legge conferiti in ragione dell'ufficio ricoperto dal dipendente pubblico o comunque conferiti dall'amministrazione presso cui presta servizio o su designazione della stessa.”
La disposizione non si riferisce all’aspetto retributivo degli incarichi considerati, ma statuisce che gli stessi si intendono conferiti in ragione dell’ufficio ricoperto con ciò rispondendo alla necessità di una espressa previsione normativa in tal senso, stante il disposto dell’art. 53, comma 2, laddove stabilisce che “Le pubbliche amministrazioni non possono conferire ai dipendenti incarichi, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, che non siano espressamente previsti o disciplinati da legge o altre fonti normative, o che non siano espressamente autorizzati”.
Il comma 12 dell’art. 3, nel considerare gli incarichi in argomento conferiti in ragione dell’ufficio ricoperto, implicitamente distingue gli stessi dagli incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, ossia dagli incarichi esterni di cui all’art. 53, commi 7 e ss, del D.Lgs. n. 165/2001 (Ai sensi del comma 6 dell’articolo 53, difatti, “gli incarichi retribuiti, di cui ai commi seguenti, sono tutti gli incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, per i quali è previsto, sotto qualsiasi forma, un compenso”), per i quali sono previste specifiche verifiche ai fini dell'autorizzazione.
Ritiene, pertanto, il Collegio che il comma 12 dell’art. 3, lungi dall’escludere ogni compenso per gli incarichi di componenti delle commissioni di concorso, ha voluto, stante il disposto dell’art. 53, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001, qualificare espressamente gli incarichi in questione, anche nell’ipotesi in cui si tratti di concorsi banditi da un'amministrazione diversa da quella di appartenenza (salva in tal caso l’autorizzazione), come incarichi conferiti in ragione dell'ufficio ricoperto.
Tale interpretazione trova immediata conferma nel successivo comma 13 dello stesso articolo 3, che disciplina proprio l’aggiornamento (anche in deroga all'articolo 6, comma 3, del d.l. 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla l. 122/2010) dei compensi da corrispondere al presidente, ai membri e al segretario delle commissioni esaminatrici dei concorsi pubblici per l'accesso a un pubblico impiego indetti dalle amministrazioni dello Stato (…), nonché al personale addetto alla vigilanza delle medesime prove concorsuali.
In linea con l’interpretazione della non esclusione dei compensi per gli incarichi in argomento è anche il disposto del comma 14 dello stesso articolo 3 che stabilisce “Fermo restando il limite di cui all’art. 23-ter del decreto-legge 06.12.2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214, la disciplina di cui all’art. 24, comma 3, del decreto legislativo 30.03.2001 n. 165, non si applica ai compensi dovuti al personale dirigenziale per l’attività di presidente o di membro della commissione esaminatrice di un concorso pubblico per l’accesso a un pubblico impiego”, escludendo, quindi, l’applicazione del principio di onnicomprensività di cui all’art. 24, comma 3, del D.Lgs. n. 165/2001, per il personale dirigente destinatario degli incarichi in argomento.
D’altra parte, una diversa e più restrittiva lettura della disciplina contenuta nel comma 12 e nel comma 14 dell’art. 3, tendente ad affermare la possibilità di compensare gli incarichi in questione soltanto per il personale dirigente, oltre che presentare innegabili profili di illegittimità costituzionale per la disparità di trattamento tra personale dirigenziale e personale non dirigenziale, contrasterebbe con lo stesso impianto dell’art. 3 che, nell’evidente presupposto della retribuibilità degli incarichi di cui trattasi, ha previsto, al comma 13, addirittura l’aggiornamento dei compensi.
Giova soggiungere che la corresponsione dei compensi soltanto al personale dirigente si porrebbe, inoltre, in distonia con la stessa ratio della legge n. 56/2019, diretta, come già sopra evidenziato, ad individuare misure per espletare i concorsi pubblici in maniera efficace e spedita, perseguendo il buon andamento della pubblica amministrazione.
In sostanza, la previsione del comma 12 dell’articolo 3, della legge n. 56/2019, non incide sulla disciplina della retribuibilità dei compensi, ma sulle modalità di erogazione e gestione dei compensi stessi, in quanto gli incarichi di presidente, di membro o di segretario di una commissione esaminatrice di un concorso pubblico per l'accesso a un pubblico impiego vanno gestiti in maniera differente da quelli disciplinati ai sensi dell’articolo 53 del d.lgs. n. 165/2001, essendo i primi conferiti, ad ogni effetto di legge, in ragione dell’ufficio ricoperto.
Conseguentemente, al secondo quesito occorre rispondere nel senso che ai componenti delle commissioni di concorsi pubblici, banditi da un’amministrazione diversa da quella di appartenenza, privi di qualifica dirigenziale, spetti il compenso per l’attività di presidente, di componente o di segretario di una commissione di concorso.
Per quanto riguarda il terzo quesito, la Sezione ritiene che la partecipazione di un Segretario comunale ad una commissione esaminatrice di un concorso pubblico per l’accesso a un pubblico impiego non costituisca un caso speciale e che, quindi, le conclusioni su esposte si applichino anche per la figura del Segretario comunale (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 18.12.2019 n. 440).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOL'ufficio di segreteria generale di questo Ente chiede di conoscere se occorre procedere, ed in che termini, alla pubblicazione dei dati reddituali e patrimoniali dei dirigenti ai sensi dell'art. 14, comma 1, lett. f), D.Lgs. 14.03.2013, n. 33 o se permane la sospensione dopo la sentenza della Corte Costituzionale.
Come noto la vicenda della pubblicazione dei dati reddituali dei dirigenti pubblici ai sensi dell'art. 14, comma 1, lett. f), D.Lgs. 14.03.2013, n. 33 si è complicata a seguito della declaratoria di incostituzionalità da parte della Corte Costituzionale con la sentenza 23.01.2019 n. 20 "nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all'art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo anche per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall'organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall'art. 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche)".
A seguito di detta sentenza ANAC era intervenuta, pur con ampie critiche, attraverso la Del. 26.06.2019 n. 586 dell'ANAC «Integrazioni e modifiche della delibera 08.03.2017, n. 241 per l'applicazione dell'art. 14, co. 1-bis e 1-ter del d.lgs. 14.03.2013, n. 33 a seguito della sentenza n. 20 del 23.01.2019 della Corte Costituzionale» con cui l'Autorità ha modificato e integrato la citata Del. 08.03.2017, n. 241 e fornito precisazioni sulla delibera 1134/2017 in merito ai criteri e modalità di applicazione dell'art. 14, comma 1, 1-bis e 1-ter, D.Lgs. 14.03.2013, n. 33 alle amministrazioni pubbliche e agli enti di cui all'art. 2-bis del medesimo decreto, alla luce della sentenza della Corte Cost. 23.01.2019, n. 20.
A questa delibera sono seguite da più parti richieste di chiarimento, ed in particolare dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome e della Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e Province autonome attraverso riunioni operative con la stessa autorità. Negli incontri, in attesa dell'intervento legislativo chiarificatore sull'applicazione dell'art. 14, comma 1-bis, con riferimento alla pubblicazione dei dati reddituali e patrimoniali [art. 14, comma 1, lett. f)] richiamato dalla stessa sentenza della Corte Costituzionale, le Regioni, nella fase transitoria, identificano, entro il 01.03.2020, in appositi atti legislativi, ovvero normativi o amministrativi generali, gli strumenti utili all'attuazione della norma tenuto conto delle peculiarità del proprio assetto organizzativo e alla luce dell'intervento della Corte Costituzionale e della Del. 26.06.2019 n. 586 dell’ANAC.
Con ordinanza cautelare il TAR Lazio Roma, Sez. I, 21.11.2019 n. 7579, in accoglimento dell'istanza cautelare di due dirigenti sanitari titolari di struttura complessa dell'Azienda sanitaria locale di Matera, ha sospeso la deliberazione dell'omonima Asl con cui veniva richiesta ai suddetti dirigenti la trasmissione dei dati ex art. 14, comma 1, lett. f), D.Lgs. 14.03.2013, n. 33 e rinviata la causa al merito del 22.04.2019.
Sulla base di questi presupposti e dell'incertezza normativa che ne è derivata l'Autorità ha ritenuto opportuno, con Del. 04.12.2019 n. 1126:
   "- In attesa dell'intervento legislativo nazionale chiarificatore sull'applicazione dell'art. 14, co. 1, lett. f), d.lgs. 33/2013, di rinviare alla data del 01.03.2020 l'avvio della propria attività di vigilanza sull'applicazione dell'art. 14, co. 1, lett. f), d.lgs. 14.03.2013, n. 33 -dati reddituali e patrimoniali- con riferimento ai dirigenti delle amministrazioni regionali e degli enti da queste dipendenti;
   - Fermo restando quanto previsto nella delibera ANAC n. 586/2019 per i dirigenti del SSN, di sospendere, alla luce dell'ordinanza cautelare del TAR Lazio n. 7579 del 21.11.2019, l'efficacia della richiamata delibera limitatamente alle indicazioni relative all'applicazione dell'art. 14, co. 1, lett. f), del d.lgs. 14.03.2013, n. 33 ai dirigenti sanitari titolari di struttura complessa fino alla definizione nel merito del giudizio
".
Ciò premesso e considerato, venendo al quesito proposto, ne deriva che:
   1) l'obbligo di pubblicazione dei dati reddituali dei dirigenti pubblici ai sensi dell'art. 14, comma 1, lett. f), D.Lgs. 14.03.2013, n. 33 è vigente;
   2) tale obbligo legittima le amministrazioni a procedere alla pubblicazione dei dati in applicazione della citata normativa e della sentenza della Corte Costituzionale;
   3) tuttavia la delibera Anac ha ritenuto opportuno sospendere la propria attività di vigilanza e la propria deliberazione in materia "con riferimento ai dirigenti delle amministrazioni regionali e degli enti da queste dipendenti" ed "ai dirigenti sanitari titolari di struttura complessa";
   4) ANAC non ha disposto analoga sospensione per i dirigenti di altri settori/comparti.
Pertanto, alla luce di quanto sopra, qualora il richiedente non faccia parte del SSN dovrà valutare di procedere in ogni caso alla dovuta pubblicazione, eventualmente valutando forme di minimizzazione e previo ulteriore approfondimento sui contenuti della sentenza della Corte Costituzionale.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 14.03.2013, n. 33, art. 14 - Del. 26.06.2019 n. 586 dell’ANAC
Riferimenti di giurisprudenza
Corte Cost., sentenza 23.01.2019, n. 20
Documenti allegati

Del. 04.12.2019 n. 1126 dell’ANAC - Comunicato 04.12.2019 del Presidente ANAC - TAR Lazio-Roma, Sez. I, 21.11.2019 n. 7579
(18.12.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIResponsabilità e rischi connessi all’incarico di responsabile della prevezione della corruzione e trasparenza.
Domanda
Sono stato nominato da poco Responsabile della Prevenzione della Corruzione e Trasparenza dalla mia amministrazione, ma non possiedo una formazione specifica in materia e non ho del personale assegnato allo staff, per cui vorrei sapere quali sono le mie responsabilità ed i rischi connessi a tale incarico.
Risposta
La responsabilità della scelta del dipendente a cui attribuire l’incarico di Responsabile della Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPCT) è dell’organo di indirizzo
[1] che è tenuto ad adottare le modifiche organizzative necessarie ad assicurare allo stesso, funzioni e poteri idonei e, dunque, anche personale e mezzi tecnici adeguati.
In ogni caso, prima di affrontare il tema della responsabilità e dei rischi, è necessario comprendere il ruolo del RPCT. Il cardine dei poteri del RPCT, specifica l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) nella delibera n. 840 del 02.10.2018, è centrato sul prevenire la corruzione. A tale figura non spetta l’accertamento di responsabilità, ma l’acquisizione di informazioni sulle modalità di attuazione delle misure e la segnalazione agli organi competenti (Organismo Interno di Valutazione, vertice politico, ufficio di disciplina) dei dipendenti che non le attuano.
In aggiunta alla citata delibera, si consiglia di consultare la parte IV del Piano Nazionale Anticorruzione (PNA) 2019, approvato con deliberazione ANAC n. 1064 del 13.11.2019 e l’Allegato 3 dello stesso PNA.
Sinteticamente il RPCT deve:
   • proporre all’organo di indirizzo il Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT), che contiene l’analisi dei processi a rischio e le misure di prevenzione, vigilare sull’osservanza dello stesso e proporre i correttivi necessari in caso di significative violazioni, modifiche organizzative o funzionali;
   • relazionare sull’attività svolta, ai sensi dell’art. 1, comma 14, secondo periodo, della legge 06.11.2012, n. 190. La norma prevede il termine del 15 dicembre, ma l’ANAC, da alcuni anni, differisce il termine al 31 gennaio dell’anno successivo. Per quest’anno consultare il comunicato del Presidente dell’Autorità del 13.11.2019;
   • verificare che si attui la rotazione o, in mancanza, che ci siano adeguate misure alternative;
   • individuare i dipendenti coinvolti in procedimenti a rischio corruzione ai fini dell’inserimento in appositi programmi di formazione.
Il RPCT è, dunque, chiamato a delineare la strategia di prevenzione della corruzione adeguata all’amministrazione di riferimento e verificare il rispetto delle misure di prevenzione da parte dei dipendenti.
Pertanto –seppure è importante che il RPCT acquisisca una formazione di carattere tecnico-giuridico– è bene privilegiare, nella scelta del soggetto, altre valutazioni. Si deve trattare di un soggetto dalla condotta integerrima, un dirigente che conosca bene l’amministrazione, l’organizzazione, i processi di lavoro, che abbia una capacità di analisi e sia in grado di sensibilizzare il personale.
La negligenza del RPCT può comportare delle significative responsabilità nel caso di commissione, all’interno dell’amministrazione, di un reato di corruzione, accertato con sentenza passata in giudicato, nonché nel caso di ripetute violazioni di misure di prevenzione previste dal piano.
I commi 12 e 14, dell’art. 1 della legge 190/2012, delineano una sorta di responsabilità oggettiva in capo al RPCT, una responsabilità dirigenziale ex art. 21, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, una responsabilità disciplinare (con sanzione non inferiore alla sospensione del servizio con privazione della retribuzione da un minimo di un mese ad un massimo di sei mesi) e una responsabilità per danno erariale e all’immagine della pubblica amministrazione.
Per andare esente da responsabilità il RPCT deve provare di aver predisposto il PTPCT e vigilato sul funzionamento e l’osservanza dello stesso, nonché di aver messo in atto tutte le misure, di cui ai commi 9 e 10 dell’art. 1, della legge 190/2012 e di aver comunicato agli uffici le misure e le modalità di attuazione. Le prove da fornire per andare esente da responsabilità sono precisate in dettaglio nel paragrafo 9, della parte IV, del PNA 2019.
Da ciò consegue che è importante tracciare tutta l’attività di informazione, formazione e sensibilizzazione del personale. L’ANAC raccomanda anche di prevedere adeguati meccanismi di monitoraggio e controllo. Pur considerando la difficoltà di effettuare i controlli connessi al rispetto delle misure concernenti l’imparzialità dei funzionari pubblici, è importante individuare degli indicatori utili a verificare se le misure di prevenzione sono state attuate. Nell’Allegato 1, al PNA 2019, l’ANAC ribadisce che l’individuazione e la programmazione delle misure rappresentano la parte fondamentale, il “cuore” del PTPCT e che un elenco generico di misure di prevenzione, non assolve al compito di definire la strategia di prevenzione della corruzione.
La mancata adozione del PTPCT (come anche del Codice di comportamento) comporta l’applicazione della sanzione amministrativa da 1.000 a 10.000 euro, ai sensi dell’art. 19, comma 5, lettera b), del decreto legge 24.06.2014, n. 90. Si tratta di una responsabilità in capo all’Amministrazione ed è evidente che il RPCT non risponde in prima persona qualora abbia proposto il PTPCT all’organo di indirizzo, ma quest’ultimo non l’abbia adottato (si veda ad esempio la decisione dell’ANAC relativa al procedimento sanzionatorio n. 649 del 18.07.2019).
Responsabilità dirette a carico del RPCT conseguono invece alla mancata predisposizione di misure a tutela del whistleblowing. L’art. 54-bis, comma 6, d.lgs. 165/2001, prevede che “Qualora venga accertata l’assenza di procedure per l’inoltro e la gestione delle segnalazioni ovvero l’adozione di procedure non conformi a quelle di cui al comma 5, l’ANAC applica al responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro. Qualora venga accertato il mancato svolgimento da parte del responsabile di attività di verifica e analisi delle segnalazioni ricevute, si applica al responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro. L’ANAC determina l’entità della sanzione tenuto conto delle dimensioni dell’amministrazione o dell’ente cui si riferisce la segnalazione.”
In tema di trasparenza spetta al RPCT delineare chiaramente i soggetti responsabili della pubblicazione sulle diverse sottosezioni di Amministrazione Trasparente, al fine di andare esente dalle responsabilità di cui agli artt. 46 e 47, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33.
L’individuazione di specifiche responsabilità risponde all’obiettivo di costruire un modello a rete, che coinvolge tutti i soggetti dell’amministrazione.
In questo ci aiuta anche il Testo Unico sul Pubblico Impiego: l’art. 16, comma 1, lettera l-bis), l-ter) e l-quater) del d.lgs. 165/2001, individua, infatti, specifici compiti in materia di prevenzione della corruzione in capo a ciascun dirigente.
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[1] Articolo 1, comma 7, delle 190/2012 (17.12.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGORinegoziazione cessione stipendio.
Domanda
È possibile concedere una rinegoziazione di una cessione dello stipendio in presenza di ritenute per pignoramenti?
Risposta
Si dà per scontato che i pignoramenti, delegazione di pagamento e precedente cessione sono stati eseguiti nel rispetto dei limiti di legge e che sono soddisfatti i presupposti generali per la rinegoziazione della cessione ai sensi dell’art. 39 del DPR 180/1950.
Nella situazione descritta nel quesito si possono verificare due casi:
   1) la rinegoziazione della cessione porta ad abbassare oppure a mantenere invariata la rata mensile di rimborso: in questo caso non c’è ragione per la quale l’ente debba negare il suo assenso alla ricontrattazione (mediante estinzione e nuova cessione), dato che questa operazione non incrementerebbe l’incidenza complessiva del cumulo di cessione, delegazione e pignoramento sulla retribuzione del dipendente;
   2) la rinegoziazione della cessione porta ad incrementare l’importo della rata mensile di rimborso: in questo caso l’ente non è nelle condizioni di assentire alla nuova cessione:
      • se si supera la soglia di cui all’art. 68, comma 1, del DPR 180/1950 (“Quando preesistono sequestri o pignoramenti, la cessione, fermo restando il limite di cui al primo comma dell’art. 5, non può essere fatta se non limitatamente alla differenza tra i due quinti dello stipendio o salario valutati al netto delle ritenute e la quota colpita da sequestri o pignoramenti”);
      • se si supera la soglia di cui all’art. 70, comma 1, del DPR 180/1950 prevista per il cumulo tra delegazione e cessione;
      • naturalmente, se si supera la soglia del quinto della retribuzione per la cessione (12.12.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Lavoro: è illecito mantenere attivo l’account di posta dell’ex dipendente. Dopo la cessazione del rapporto di lavoro la società aveva avuto anche accesso alle e-mail.
Commette un illecito la società che mantiene attivo l’account di posta aziendale di un dipendente dopo l’interruzione del rapporto di lavoro e accede alle mail contenute nella sua casella di posta elettronica. La protezione della vita privata si estende anche all’ambito lavorativo.
Questi i principi ribaditi dal Garante per la privacy (provvedimento 04.12.2019 n. 216) nel definire il reclamo di un dipendente che lamentava la violazione della disciplina sulla protezione dei dati da parte della società presso la quale aveva lavorato.
L’ex dipendente contestava, in particolare, alla società la mancata disattivazione della e-mail aziendale e l’accesso ai messaggi ricevuti sul suo account. L’interessato era venuto a conoscenza di questi fatti per caso, nel corso di un giudizio davanti al giudice del lavoro promosso nei suoi confronti dalla sua ex azienda, avendo quest’ultima depositato agli atti una e-mail giunta sulla sua casella di posta un anno dopo la cessazione dal servizio.
Dagli accertamenti svolti dall’Autorità è emerso che l’account di posta era rimasto attivo per oltre un anno e mezzo dopo la conclusone del rapporto di lavoro prima della sua eliminazione, avvenuta solo dopo la diffida presentata dal lavoratore. In questo periodo la società aveva avuto accesso alle comunicazioni che vi erano pervenute, alcune anche estranee all’attività lavorativa del dipendente.
Il Garante ha ritenuto illecite le modalità adottate dalla società perché non conformi ai principi sulla protezione dei dati, che impongono al datore di lavoro la tutela della riservatezza anche dell’ex lavoratore. Subito dopo la cessazione del rapporto di lavoro, un’azienda deve infatti rimuovere gli account di posta elettronica riconducibili a un dipendente, adottare sistemi automatici con indirizzi alternativi a chi contatta la casella di posta e introdurre accorgimenti tecnici per impedire la visualizzazione dei messaggi in arrivo.
L’adozione di tali misure tecnologiche -ha spiegato il Garante- consente di contemperare l’interesse del datore di lavoro di accedere alle informazioni necessarie alla gestione della propria attività con la legittima aspettativa di riservatezza sulla corrispondenza da parte di dipendenti/collaboratori oltre che di terzi. Lo scambio di e-mail con altri dipendenti o con persone esterne all’azienda consente infatti di conoscere informazioni personali relative al lavoratore, anche solamente dalla visualizzazione dei dati esterni delle comunicazioni (data, ora oggetto, nominativi di mittenti e destinatari).
Oltre a dichiarare l’illecito trattamento, il Garante ha quindi ammonito la società a conformare i trattamenti effettuati sugli account di posta elettronica aziendale dopo la cessazione del rapporto di lavoro alle disposizioni e ai principi sulla protezione dei dati ed ha disposto l’iscrizione del provvedimento nel registro interno delle violazioni istituito presso l’Autorità. Tale iscrizione costituisce un precedente per la valutazione di eventuali future violazioni (commento tratto da e link a www.gpdp.it).
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MASSIMA
   RILEVATO che, in base alle risultanze dell’attività istruttoria, è emerso che la società, dopo la cessazione del rapporto di lavoro con il reclamante avvenuta il 10.09.2016, ha mantenuto attivo l’account di posta elettronica individualizzato assegnato al dipendente, al dichiarato fine di non perdere contatti utili con i clienti che avessero voluto mantenere rapporti commerciali con la società; alcune informazioni in tal modo raccolte sono state utilizzate nell’ambito di un procedimento avviato successivamente all’inizio della raccolta dei dati (con ricorso del 29.06.2017, notificato all’ex dipendente l’11.07.2017) in sede giurisdizionale nei confronti del reclamante −in particolare mediante deposito in giudizio di una e-mail pervenuta sull’account il 12.09.2017− per l’ulteriore e sopravvenuta finalità di difesa di propri diritti;
   RILEVATO pertanto che l’account aziendale è rimasto attivo per un periodo di tempo significativo (pari a circa un anno e sette mesi, durante il quale la società ha acceduto alle comunicazioni ivi pervenute), fino alla cancellazione effettuata dalla società (il 03.05.2018) a seguito della diffida presentata dal reclamante;
   RILEVATO altresì che, in relazione a tale modalità di trattamento dei dati relativi all’ex dipendente, si prende atto che la società ha dichiarato di aver previamente comunicato “verbalmente” al reclamante il trattamento connesso al suo indirizzo di posta elettronica, e che ciò non costituisce elemento idoneo a documentare l’avvenuto adempimento da parte della società dell’obbligo informativo che l’ordinamento pone in capo al titolare del trattamento;
   RITENUTO che il titolare è tenuto ad informare preventivamente i dipendenti circa le caratteristiche essenziali dei trattamenti che intende effettuare, anche con riferimento all’utilizzo di strumenti messi a disposizione nell’ambito del rapporto di lavoro, ciò anche in applicazione del principio di correttezza (v. artt. 11, comma 1, lett. a) e 13 del Codice, testo vigente all’epoca dei fatti oggetto di reclamo, criteri peraltro confluiti negli artt. 5, par. 1, lett. a) e 13 del Regolamento);
   RITENUTO che,
conformemente al costante orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, la protezione della vita privata si estende anche all’ambito lavorativo (v. Niemietz c. Allemagne, 16.12.1992 (ric. n. 13710/88), spec. par. 29; Copland v. UK, 03.04.2007 (ric. n. 62617/00), spec. par. 41; Bărbulescu v. Romania [GC], 05.09.2017 (ric. n. 61496/08), spec. par. 70-73; Antović and Mirković v. Montenegro, 28.11.2017 (ric. n. 70838/13), spec. par. 41-42);
   RILEVATO che
lo scambio di corrispondenza elettronica (estranea o meno all’attività lavorativa) su un account di tipo individualizzato con soggetti interni o esterni alla compagine aziendale configura un’operazione che consente di conoscere alcune informazioni personali relative all’interessato, anche relativamente ai dati c.d. esterni delle comunicazioni (data, ora, oggetto, nominativi di mittenti e destinatari) (v. Provv. 27.11.2014, n. 551, doc. web n. 3718714);
   VISTO, a tale ultimo proposito, che l’elenco delle comunicazioni ricevute sull’account aziendale riferito al reclamante dopo la cessazione del rapporto di lavoro contiene anche messaggi che, in base a quanto si evince dall’indicazione del mittente e dell’oggetto, non sono riferibili all’attività professionale dell’ex dipendente (ad es. inviti ricevuti sul social LinkedIn, inviti ad iniziative culturali, pubblicità di un istituto bancario alla clientela: v. reclamo 31.10.2018, All. 10);
   RILEVATO altresì che nel provvedimento contenente le "Linee guida del Garante per posta elettronica e Internet" (adottato dall´Autorità il 01.03.2007 e pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 58 del 10.03.2007), il Garante ha ritenuto che "
il contenuto dei messaggi di posta elettronica –come pure i dati esteriori delle comunicazioni e i file allegati- riguardano forme di corrispondenza assistite da garanzie di segretezza tutelate anche costituzionalmente, la cui ratio risiede nel proteggere il nucleo essenziale della dignità umana e il pieno sviluppo della personalità nelle formazioni sociali" (punto 5.2 lett. b) e che ciò, trasposto in ambito lavorativo, comporta la possibilità che il lavoratore o soggetti terzi coinvolti (i cui diritti devono essere parimenti tutelati), possano vantare una legittima aspettativa di riservatezza su talune forme di comunicazione; rilevato che tali esigenze di tutela devono essere tenute in considerazione anche nell´ipotesi in cui venga a cessare il rapporto di lavoro tra le parti;
   RITENUTO, in particolare, che
il datore di lavoro, in conformità ai principi in materia di protezione dei dati personali, dopo la cessazione del rapporto di lavoro debba rimuovere gli account di posta elettronica aziendali riconducibili a persone identificate o identificabili (in un tempo ragionevole commisurato ai tempi tecnici di predisposizione delle misure), previa disattivazione degli stessi e contestuale adozione di sistemi automatici volti ad informarne i terzi ed a fornire a questi ultimi indirizzi alternativi riferiti all’attività professionale del titolare del trattamento, provvedendo altresì ad adottare misure idonee ad impedire la visualizzazione dei messaggi in arrivo durante il periodo in cui tale sistema automatico è in funzione; l’adozione di tali misure tecnologiche ed organizzative consente di contemperare l’interesse del titolare ad accedere alle informazioni necessarie all’efficiente gestione della propria attività e a garantirne la continuità con la legittima aspettativa di riservatezza sulla corrispondenza da parte di dipendenti/collaboratori nonché dei terzi (v., da ultimo, provv.to 01.02.2018, n. 53, in www.garanteprivacy.it, doc. web n. 8159221. Si veda anche il provv. 05.03.2015, n. 136, doc. web n. 3985524 e il citato provv. 27.11.2014, n. 551; nello stesso senso v. Raccomandazione CM/Rec(2015)5 del Comitato dei Ministri agli Stati Membri sul trattamento di dati personali nel contesto occupazionale, spec. par. 14.5);
   RITENUTO che
non risulta conforme ai suesposti principi la prassi già adottata dalla società, consistente nel reindirizzare automaticamente -per un periodo di tempo anche assai ampio- i messaggi pervenuti sull’account dell’ex dipendente su un diverso account aziendale, tenuto conto peraltro che il ricorso della società nei confronti del reclamante davanti all’autorità giudiziaria ordinaria (in relazione a ritenute condotte illecite effettuate in violazione del patto di non concorrenza) è stato presentato in data successiva al reindirizzo dell’account; tale trattamento è pertanto avvenuto in violazione dei principi di liceità, necessità e proporzionalità (v. art. 11, comma 1, lett. d) del Codice, testo vigente all’epoca dei fatti oggetto di reclamo, criterio peraltro confluito nell’art. 5, par. 1, lett. c) del Regolamento);
   PRESO ATTO, con riguardo alla richiesta del reclamante di “imporre il divieto del trattamento illegittimo” consistente nella persistente attività dell’account a lui riferito, che la società ha affermato –con dichiarazione della quale può essere chiamata a rispondere ai sensi dell’art. 168 del Codice, “Falsità nelle dichiarazioni al Garante e interruzione dell’esecuzione dei compiti o dell’esercizio dei poteri del Garante”– di aver disposto la disattivazione dell’account a far data dal 03.05.2018 (dunque prima della proposizione del reclamo al Garante, sebbene in sede di riscontro all’interpello presentato il 24.04.2018, la società abbia dichiarato al reclamante che avrebbe provveduto alla disattivazione solo dopo che quest’ultimo avesse comunicato ai clienti della società gli estremi del nuovo account per contattare la società; v. nota 15.5.2018, All. 10, reclamo 05.02.2019 cit.);
   RITENUTO pertanto che, relativamente a tale istanza, non vi siano i presupposti per l’adozione di misure correttive da parte dell’Autorità;
   VISTO che, in base a quanto dichiarato all’Autorità, la società allo stato ha adottato un regolamento interno in base al quale subito dopo la cessazione del rapporto di lavoro l’account aziendale è disattivato con contestuale adozione di un messaggio automatico volto ad informarne i terzi e a indicare un account alternativo per contattare la società;
   PRESO ATTO, con riguardo all’istanza di accesso alle comunicazioni pervenute sull’account di posta elettronica aziendale riferito al reclamante −formulata con il menzionato interpello del 24.04.2018−, che la società ha inviato al reclamante un sufficiente riscontro in allegato alla nota del 15.05.2018;
   RITENUTO pertanto che, anche relativamente a tale istanza, considerata pure l’assenza di controdeduzioni del reclamante sul punto, non vi siano i presupposti per l’adozione di provvedimenti da parte dell’Autorità;
   RITENUTO che
il reclamo sia fondato in relazione alla prospettata illiceità del trattamento, allo stato non più in essere, consistente nella prolungata attività dell’account di posta aziendale riferito al reclamante dopo la cessazione del rapporto di lavoro ed all’accesso ai messaggi ivi pervenuti, peraltro in assenza di una policy aziendale resa nota ai dipendenti al riguardo;
   RITENUTO che ricorrano i presupposti di cui all’art. 17 del Regolamento n. 1/2019 concernente le procedure interne aventi rilevanza esterna, finalizzate allo svolgimento dei compiti e all’esercizio dei poteri demandati al Garante;
...
TUTTO CIÒ PREMESSO
ai sensi dell’art. 57, par. 1, lett. f) e 58, par. 2, lett. b) del Regolamento,
dichiara illecito il trattamento descritto nei termini di cui in motivazione, consistente nella persistente attività dell’account aziendale individualizzato per un ampio periodo di tempo dopo l’interruzione del rapporto di lavoro, con contestuale accesso ai messaggi ivi pervenuti, ed ammonisce Im.It. S.r.l. sulla necessità di conformare i trattamenti effettuati sugli account di posta elettronica aziendale dopo la cessazione del rapporto di lavoro alle disposizioni ed ai principi in materia di protezione dei dati personali indicati in motivazione.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMappatura dei processi a rischio corruzione.
Domanda
Siamo un comune con meno di 10.000 abitanti ed abbiamo iniziato a lavorare alla bozza di PTPCT 2020/2022. Ci potete dire qualcosa sulla mappatura dei processi, anche alla luce delle ultime indicazioni dell’ANAC?
Risposta
L’ANAC ha fornito alcune preziose informazioni sulla “mappatura” dei processi, da ultimo, all’interno della bozza di PNA 2019, in consultazione sino al 15.09.2019. In particolare, l’argomento è stato ampiamente trattato nell’allegato “1” del PNA, recante “Indicazioni metodologiche per la gestione dei rischi corruttivi”.
Per l’ANAC, la mappatura dei processi, rappresenta l’aspetto centrale (e, forse più importante) dell’analisi del contesto interno. Essa consiste nella individuazione e analisi dei processi organizzativi, presenti nell’ente. L’obiettivo finale che ci si deve prefiggere è che l’intera attività svolta dall’ente venga gradualmente esaminata, così da identificare aree che, per ragioni della natura e peculiarità delle stesse, risultino potenzialmente esposte a rischi corruttivi.
La mappatura dei processi delinea un modo efficace di individuare e rappresentare le attività dell’amministrazione e il suo effettivo svolgimento deve risultare, in forma chiara e comprensibile, nel Piano Triennale Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT).
Per realizzare una buona e utile indagine è necessario mappare i processi e non i singoli procedimenti amministrativi (che sono ben più numerosi dei processi). Un “processo” può essere definito come una sequenza di attività interrelate ed interagenti che trasformano delle risorse in un output destinato a un soggetto interno o esterno.
La mappatura dei processi si articola in tre fasi:
   1. Identificazione;
   2. Descrizione;
   3. Rappresentazione.
La prima fase (identificazione) consiste nel definire la lista dei processi che dovranno essere accuratamente esaminati e descritti. Una volta identificati i processi, è opportuno comprendere le modalità di svolgimento del processo, attraverso la loro “descrizione” (fase 2). Tale procedimento è particolarmente rilevante perché consente di identificare le criticità del processo, in funzione delle sue modalità di svolgimento. Al riguardo, le indicazioni dell’ANAC, propendono verso la direzione di giungere ad una descrizione analitica dei processi dell’amministrazione, in maniera progressiva, nei diversi cicli annuali di gestione del rischio corruttivo, tenendo conto delle risorse e delle competenze effettivamente disponibili nell’ente.
L’ultima fase (3) della mappatura dei processi è la rappresentazione degli elementi descrittivi di ogni specifico processo preso in esame. La forma più semplice ed immediata di rappresentazione è quella tabellare dove è possibile inserire i vari elementi a seconda del livello analitico adottato.
Negli enti locali, non di maggiore dimensione (come può essere il comune che ha posto il quesito), occorre procedere alla mappatura dei processi con la giusta gradualità provvedendo:
   • all’identificazione di tutti i processi, riferiti all’insieme dell’attività amministrativa;
   • alla descrizione, iniziale, dei processi più a rischio, con ampliamento annuale;
   • alla rappresentazione dei processi in formato tabellare, partendo da alcuni elementi descrittivi strettamente funzionali.
La mappatura dei processi –vissuta con gradualità e secondo livelli successivi di affinamento degli elementi considerati– rappresenta un requisito indispensabile per la formulazione di adeguate misure di prevenzione e incide nella qualità complessiva della gestione del rischio.
Per la mappatura è fondamentale il coinvolgimento dei responsabili apicali delle strutture organizzative ed, in tal senso, potrebbe essere opportuno costituire un apposito gruppo di lavoro. L’ANAC, inoltre, suggerisce di avvalersi di strumenti e soluzioni informatiche idonee a facilitare la rilevazione e l’elaborazione dei dati e delle informazioni necessarie, anche sfruttando ogni possibile sinergia con analoghe iniziative relative ad altri contesti, quali: il servizio di controllo di gestione; la certificazione di qualità; l’analisi dei carichi di lavoro; il piano della performance.
Un’ultima –importante– osservazione va rivolta alla possibilità di affidare la mappatura dei processi ad un soggetto esterno. Numerose sentenze
[1], nel corso degli ultimi anni, hanno stabilito che si determina un danno erariale per l’ente, qualora il responsabile anticorruzione (o altro soggetto) affidi all’esterno il servizio di mappatura dei processi o, peggio ancora, la redazione del Piano triennale, di cui la mappatura è un elemento essenziale di analisi.
In tal senso il portato normativo dell’articolo 1, comma 8, quarto periodo, della legge 190/2012
[2], non lascia dubbi di sorta, così come i costanti orientamenti dell’ANAC che, testualmente prevedono: «non convince l’affermazione della difesa che la mappatura del rischio sarebbe un elemento prodromico alla redazione del piano. Infatti, l’analisi dei rischi è un aspetto fondamentale del piano stesso e ne costituisce una delle componenti più significative, secondo quanto previsto dall’ANAC nei propri modelli» (delibera ANAC n. 748 del 05.09.2018).
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[1] Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lazio; sentenza 04.05.2018; Corte dei conti, sezione giurisdizionale Piemonte, sentenza n. 253/2019; Delibera ANAC numero 748 del 05.09.2018;
[2] Articolo 1, co. 8, legge 190/2012: “L’attività di elaborazione del piano non può essere affidata a soggetti estranei all’amministrazione”
(03.12.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

novembre 2019

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIter assunzione art. 110.
Domanda
Quale potrebbe essere l’iter per una procedura di assunzione ai sensi dell’art. 110 del TUEL?
Risposta
Riteniamo che l’iter procedurale da seguire è, in parte, simile a quello necessario in generale per le assunzioni a tempo indeterminato o a tempo determinato di altro genere.
L’ente dovrà prevedere, nell’ordine:
   1. l’inserimento dell’assunzione a tempo determinato in parola, con espressa previsione del ricorso all’art. 110, comma 1, del d.lgs. 267/2000 (che rileva, com’è noto, per la copertura di posti previsti in dotazione organica), all’interno del PTFP (Piano Triennale dei Fabbisogni del Personale), deliberato dalla giunta comunale, o di suo stralcio/modifica qualora l’azione assunzionale sia stabilita dall’organo politico a integrazione di un piano già adottato;
   2. l’adozione di determina, a cura del responsabile competente, di avvio del procedimento e di emanazione dell’avviso per la copertura del posto de quo;
   3. la pubblicazione dell’avviso di selezione, senza obbligo di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, ma certamente sul sito istituzionale dell’ente e per il periodo canonico di almeno 30 giorni;
   4. l’espletamento della procedura selettiva (sulla quale si tornerà nel seguito del parere, per tentare di meglio delinearne i contorni);
   5. a conclusione della procedura, l’adozione del decreto sindacale di nomina del candidato prescelto, la stesura del contratto di lavoro a t.d. e l’immissione in ruolo del candidato selezionato.
La procedura di scelta di un candidato da assumere a tempo determinato ai sensi dell’art. 110, comma 1, del richiamato TUEL, lungi dal consistere in una scelta meramente intuitu personae, è stata piuttosto recentemente inquadrata dal Consiglio di Stato (cfr. la sentenza Sez. V del 29.05.2017), come procedura avente natura non concorsuale, ma comunque di tipo selettivo: “L’art. 110, comma 1, t.u.e.l., regolante la procedura, prevede che la copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato previa selezione pubblica volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell’incarico”.
Per quanto rivestita di forme atte a garantire pubblicità, massima partecipazione e selezione effettiva dei candidati, la procedura in questione non ha le caratteristiche del concorso pubblico e più precisamente delle “procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni“.
Il terreno è “scivoloso”, ed occorre che l’ente presti la massima attenzione nel prevedere forme di garanzia del rispetto dei princìpi di pubblicità, trasparenza, massima partecipazione e selezione, ma anche che non strutturi la procedura stessa in forma di pubblico concorso, giacché di ciò non si tratta: il Consiglio di Stato, nella pronuncia citata, asseriva, tra l’altro, che proprio perché trattasi non di concorso pubblico, ma, comunque e in ultimo, di scelta di natura fiduciaria, la competenza giurisdizionale per eventuali controversie è del giudice del lavoro e non di quello amministrativo.
Si riporta di seguito un passaggio nodale della sentenza esaminata, che circoscrive un poco i contorni della “selezione” in argomento: “(…) Procedura meramente idoneativa deve, ai fini della controversia in esame, ritenersi quella prevista all’art. 110 del T.U.E.L. per la copertura, autorizzata dallo statuto dell’ente locale, di ‘posti di responsabili dei servizi e degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione’: la natura di mero ‘incarico a contratto’; la natura necessariamente temporanea dello stesso; lo scolpito ancoraggio temporale ne ultra quem al ‘mandato elettivo del sindaco o del presidente della provincia’; la prefigurata modalità di automatismo risolutorio in caso di dissesto o di sopravvenienza di situazioni strutturalmente deficitarie; la possibilità di formalizzazione, sia pure eccezionalmente e motivatamente, di contratto propriamente ‘di diritto privato’; la mancata previsione della nomina di una commissione giudicatrice, del (necessario) svolgimento di prove e della (correlata) formazione di formali graduatorie concorrono ad evidenziare il triplice carattere di temporaneità, specialità e fiduciarietà che caratterizza la procedura in questione, che –per tal via– deve ritenersi, in conformità al comune intendimento, bensì selettiva ma non concorsuale. (…)” (28.11.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing: elementi essenziali e onere probatorio.
Il fenomeno del mobbing, per assumere giuridica rilevanza, implica l’esistenza di plurimi elementi, la cui prova compete al prestatore di lavoro, di natura sia oggettiva che soggettiva e, fra questi, l’emergere di un intento di persecuzione, che non solo deve assistere le singole condotte poste in essere in pregiudizio del dipendente, ma anche comprenderle in un disegno comune e unitario, quale tratto che qualifica la peculiarità del fenomeno sociale e giustifica la tutela della vittima.
(Nella specie si trattava di scelte di politica e organizzazione aziendale che hanno riguardato tutti i lavoratori addetti al servizio di guardiania e custodia come eliminare dalla guardiola il frigorifero, il televisore e la macchina del caffè, vietare ai custodi l’uso dell’alloggio nel villaggio, adottare un orario di lavoro spezzato o in singole condotte che hanno riguardato altri lavoratori o che hanno avuto comunque valenza generale come l’omessa riparazione della pavimentazione all’esterno della guardiola, ma tali condotte non avevano un intento persecutorio in danno del ricorrente)
(TRIBUNALE di Lecce, Sez. lavoro, sentenza 25.11.2019 n. 3468 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOContenuto avviso selezione art. 110.
Domanda
Rispetto alle caratteristiche specifiche che potrebbe avere un avviso per un incarico ex art. 110 del d.lgs. 267/2000, quali suggerimenti potete proporre?
Risposta
A nostro parere, queste le indicazioni specifiche che ci sentiamo di suggerire.
L’ente dovrà strutturare l’avviso ponendo in evidenza quali sono le caratteristiche della professionalità che si ricerca, in cosa consiste l’alta specializzazione che si va a ricoprire e quali sono le caratteristiche curriculari, esperienziali e formative che i candidati debbono possedere per rispondere positivamente alla richiesta di cui sopra; dovrà altresì chiaramente indicare requisiti, termini e modalità di presentazione delle domande di ammissione, e criteri di attribuzione dell’idoneità o meno; dovrà chiarire che a procedura è finalizzata all’individuazione di soggetti idonei e alla successiva scelta di un soggetto, tra quelli, cui sarà affidato, eventualmente, l’incarico; dovrà chiarire la durata dell’incarico, che non potrà comunque eccedere la durata del mandato del sindaco, e modalità ed eventuali ragioni di revoca anticipata dello stesso.
L’ente dovrà garantire la pubblicazione su sito istituzionale, meglio nella sezione dell’Amministrazione Trasparente e nella pagina riservata (per mera analogia e facilità di reperimento da parte dei potenziali interessati) ai bandi di concorso; non è assolutamente dovuta, attesa la distinzione tracciata rispetto ai pubblici concorsi, la pubblicazione in G.U., ma ogni forma ulteriore di pubblicità (invio per la pubblicazione all’albo di enti limitrofi, nota su giornali locali, etc.) che l’ente voglia prevedere è certamente nel senso dell’allargamento della partecipazione e della trasparenza; si dovrà prevedere una comparazione delle candidature che pervengano, da effettuarsi, appare sensato, a mezzo della valutazione dei curricula degli eventuali candidati nonché, se lo si ritiene, attraverso un colloquio conoscitivo; il fine è, come disposto dalla fonte legale “(…) accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell’incarico”.
La comparazione di cui sopra, e la conseguente valutazione del candidato idoneo alla copertura del posto di che trattasi, potrà essere svolta da una “commissione”, costituita presso l’ente ad hoc; se lo si ritiene, in analogia (unicamente per ragioni di “operatività”) con quelle che si costituiscono per i concorsi, secondo le previsioni del regolamento comunale in materia; nulla vieta, però, che l’ente individui, motivando il tutto in seno alla relativa determinazione, altre modalità per la composizione della commissione, stabilendo, ancora a mero titolo di esempio, che ne facciano parte il segretario generale, il responsabile di servizio competente, altro responsabile di servizio che abbia attinenza con la figura che si intende coprire: è essenziale, però, che la composizione della commissione abbia natura tecnica, evitando, per ovvie ragioni, il coinvolgimento di organi politici.
La commissione potrà opportunamente redigere un verbale dei propri lavori, nel quale motivare le valutazioni attribuite ai curricula e ai colloqui, non pervenendo all’emanazione di una graduatoria, quanto piuttosto a un giudizio di idoneità o inidoneità all’incarico (non casualmente il supremo giudice amministrativo si spinge a definire la procedura de qua come procedura idoneativa): gli idonei potranno essere più d’uno, ma non si potrà in alcun modo, successivamente, far ricorso a quella “lista” di idonei per ulteriori assunzioni.
Una volta terminato il proprio compito, stante, per usare l’espressione del giudice amministrativo, la natura comunque “fiduciaria” dell’incarico, appare ragionevole che la commissione rassegni gli esiti del proprio lavoro al sindaco, perché compia la propria scelta in considerazione degli elementi che la commissione stessa ha potuto porre alla sua attenzione, effettuando se lo ritiene anche un ulteriore colloquio con l’interessato o gli interessati, e adottando infine, se lo ritiene, il decreto di nomina. Nell’avviso sarà utile precisare che il sindaco si riserva comunque di non scegliere alcuno dei candidati ritenuti idonei, se non intende farlo per ragioni ulteriori e rimesse alla sua valutazione.
L’iter indicato sopra, che vuole essere un suggerimento per l’ente nel non semplice tentativo di regolare operativamente un procedimento che è più facilmente definibile per ciò che non è piuttosto che per ciò che è, sembra rispettoso, a parere di chi scrive, di quanto evidenziato tanto a livello normativo che dalla giurisprudenza più recente. Naturalmente, come sempre e ancor di più, la motivazione posta alla base delle scelte compiute nelle varie fasi, è fondamento importantissimo per il buon esito dell’intero procedimento e per prevenire, per quanto possibile, l’insorgenza di contenziosi (21.11.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODanno erariale al sindaco per l'incarico dirigenziale a un funzionario senza laurea.
Il sindaco che attribuisce un incarico dirigenziale a un funzionario non laureato arreca un danno erariale al Comune.

Lo ha stabilito la corte dei Corte dei conti del Veneto, con la sentenza 20.11.2019 n. 182, con la quale ha condannato il sindaco di un Comune al risarcimento di un danno erariale per oltre 78 mila euro, a seguito del decreto di conferimento di un incarico dirigenziale a un funzionario privo del necessario diploma di laurea.
L'attribuzione dell'incarico a tempo determinato, con decorrenza dal giugno 2013 al maggio 2018, era avvenuta con un decreto del sindaco adottato ai sensi dell'articolo 110 del Tuel, che disciplina gli incarichi a contratto. L'argomentazione addotta dai giudici a sostegno della pesante condanna fa perno sul fatto che quest'ultimo articolo consente la copertura dei posti di qualifica dirigenziale mediante contratto a tempo determinato «fermi restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire».
Il requisito della laurea
L'impianto normativo connesso a questo disposto non lascia dubbi in ordine alla necessità del diploma di laurea per l'accesso alla dirigenza della Pa.
In particolare, l'articolo 19 del Dlgs 165/2001 (testo unico sul pubblico impiego), con riguardo all'attribuzione degli incarichi dirigenziali a tempo determinato, fa espresso riferimento alla formazione universitaria e post universitaria ai fini della verifica della competenza professionale, mentre l'articolo 28 del medesimo decreto, per quanto riguarda l'accesso alle qualifiche dirigenziali a tempo indeterminato, prevede anch'esso la necessità del possesso di titolo di laurea.
Tenuto conto di ciò, il decreto illegittimo ha comportato il riconoscimento al funzionario di un trattamento economico superiore a quello che gli sarebbe spettato se l'incarico gli fosse stato attribuito con il riconoscimento di una posizione organizzativa, e per questo la Corte ha addebitato al sindaco un danno pari alla differenza retributiva tra le due posizioni in organico per tutto il periodo di svolgimento dell'incarico.
Il collegio ha respinto l'argomentazione difensiva secondo cui il sindaco non avrebbe avuto alternative nella scelta del funzionario (dato che era l'unico dipendente di categoria D disponibile ad assumere l'incarico), senza tener conto del fatto che la nomina avrebbe fatto risparmiare al Comune i costi di un conferimento di incarico dirigenziale a un soggetto esterno.
Al contrario, i giudici hanno sostenuto che «esistevano nell'organico dell'ente altre professionalità a cui attribuire l'incarico», mentre per quanto concerne il presunto risparmio di spesa la difesa del sindaco «nulla ha argomentato in merito alla possibilità di affidare la responsabilità dell'area a un funzionario di categoria D mediante l'istituto della posizione organizzativa».
La colpa grave
La sezione ha poi ravvisato i connotati di una colpa grave nella condotta del primo cittadino, in quanto in materia si è ormai consolidato «un quadro normativo chiaro, privo di insidie sul piano ermeneutico, anche alla luce della concorde e costante giurisprudenza amministrativa».
A nulla è valso il tentativo della difesa nel sostenere un coinvolgimento di altri organi comunali nella responsabilità decisionale per il conferimento dell'incarico dirigenziale illegittimo.
Secondo i giudici la circostanza che, a monte del decreto in questione, la giunta comunale avesse adottato un piano di fabbisogno del personale prevedendo la copertura del posto di qualifica dirigenziale mediante contratto a tempo determinato con incarico in base all'articolo 110 del Tuel non ha escluso neppure parzialmente la responsabilità del convenuto.
La decisione di giunta, infatti, atteneva unicamente alle modalità di copertura del posto, e non all'individuazione del soggetto al quale l'incarico avrebbe dovuto essere conferito da parte del sindaco, nella veste di titolare della funzione di scelta del responsabile dell'ufficio.
Il segretario generale, chiamato a sua volta in causa dal sindaco in qualità di soggetto titolare delle «funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto e ai regolamenti» (articolo 97 del tuel), è stato scagionato dal collegio per aver rappresentato al sindaco subito dopo l'adozione del decreto, verbalmente e per iscritto, i profili di illegittimità dell'avvenuto conferimento dell'incarico.
In definitiva, l'addebito del danno erariale è stato posto interamente a carico del sindaco dell'ente, individuato dalla Corte quale titolare esclusivo del potere di esercitare la funzione di scelta dell'incarico, con esclusione peraltro della cosiddetta «esimente politica», riferibile ai soli atti rientranti nella competenza di uffici tecnici o amministrativi e approvati, autorizzati o eseguiti in buona fede dagli organi politici (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.12.2019).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Accesso alla dirigenza e responsabilità erariale per mancanza del diploma di laurea.
In materia di conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato negli enti locali, la normativa di settore (d.lgs. 267/2000), nell’individuarne la disciplina (art. 110), ha rinviato, quanto a requisiti e presupposti, alla generale disciplina del pubblico impiego (D.lgs. 29/1993 prima e, poi, D.lgs. 165/2001) e, quindi, all’art. 19 del D.lgs. 165/2001 (la cui applicazione agli enti locali è stata espressamente prevista dal D.lgs. 150/2009, benché in giurisprudenza, anche di questa Corte, non si fosse mancato di sottolinearne, anche in precedenza, l’estensibilità oltre l’impiego statale in quanto rappresentativa di principio generale) che, al comma 6, stabilisce i requisiti per il conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato, prevedendo la concorrenza del requisito culturale della formazione universitaria con il requisito professionale dell’esperienza quinquennale in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza.
Tale ultima disposizione, nel testo in vigore all’epoca dei fatti (2013) e, cioè, successivamente alle modifiche apportate dall’art. 40 del D.lgs n. 150/2009, aveva una formulazione letterale che non poteva (e non può) lasciare adito a dubbio ermeneutico alcuno in relazione al necessario possesso del titolo di studio della laurea: la “particolare specializzazione professionale” che è requisito per l’attribuzione dell’incarico, infatti, deve essere comprovata “dalla formazione universitaria e postuniversitaria, post universitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro…”.
Requisito culturale e di esperienza lavorativa dunque, non possono in alcun modo essere ritenuti, anche solo sulla base della littera legis, alternativi tra loro, ma debbono, coerentemente con la ratio legis, sussistere congiuntamente.
Invero, “
il criterio secondo il quale il legislatore ha inteso disciplinare l’immissione nell’esercizio di funzioni dirigenziali di soggetti, quali essi siano, in precedenza già non investiti di tale qualifica, risulta evidentemente informato alla volontà di acquisire professionalità estranee, tali da presentare qualità aggiuntive e comunque non minori rispetto ai già elevati requisiti previsti per le nomine di funzionari appartenenti ai ruoli dirigenziali. Tanto premesso, consegue da ciò attraverso una lettura sistematica dell’art. 19, c. 6, che la facoltà da tale norma prevista richiede, nei suoi destinatari, il concorrente possesso di una particolare specializzazione, sia professionale, che culturale e scientifica; quando si passi all’accertamento di tali requisiti, in relazione alle funzioni da attribuire, l’interprete, dal canto suo, non può sottrarsi alla verifica, sotto ogni profilo, della presenza di tutti gli elementi che complessivamente rendono il soggetto idoneo all’incarico. Ne discende che, ferma rimanendo l’esigenza dell’accertamento di un livello di formazione culturale identificabile nel possesso della laurea, gli elementi che configurano e completano in estranei il profilo della professionalità debbano, insieme ad altri, ricavarsi dal già disimpegnato esercizio di funzioni almeno di pari rilevanza di quelle previste nel nuovo compito. Quindi, oltre all’accertato possesso di sufficiente formazione culturale, in un contesto normativo in cui è però prevista l’attribuzione di incarichi dirigenziali previa verifica della sussistenza di livelli di formazione particolarmente elevati, occorre che la valutazione venga estesa ad un puntuale esame dei curricula degli incaricandi”.
L’aver conferito, da parte del convenuto, un incarico dirigenziale a soggetto non in possesso di diploma di laurea costituisce una violazione delle predette disposizioni, integrando l’elemento oggettivo della responsabilità amministrativa.
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In relazione all’elemento soggettivo, ritiene il Collegio che la condotta del convenuto sia connotata, come prospettato dalla Procura regionale, da colpa grave.

Invero,
il decreto di conferimento dell’incarico è, formalmente e sostanzialmente, atto proprio del Sindaco, adottato nell’ambito di funzioni ad esso attribuite in via esclusiva dal TUEL e dal Regolamento comunale di organizzazione degli uffici e dei servizi del Comune
La circostanza che, a monte del decreto in questione, la Giunta Comunale, organo al quale compete la programmazione in materia di personale ex art. 48, comma 2, TUEL, avesse deciso -appunto all’interno di un atto programmatorio a valenza generale quale il Piano occupazionale-
la “copertura del posto di qualifica dirigenziale dell’Area II “servizi economico-finanziari e tributari” mediante contratto a tempo determinato” con incarico ai sensi dell’art. 110 TUEL, anziché ricorrere ad altre opzioni (incarico a tempo determinato a personale esterno, concorso pubblico, attribuzione di posizione organizzativa) non vale ad escludere, neppure parzialmente, la responsabilità del convenuto.
Tale decisione, infatti, attiene unicamente alle modalità di copertura del posto, non alla individuazione e alla scelta del soggetto al quale l’incarico avrebbe dovuto essere conferito, queste ultime riferibili unicamente alla volontà del titolare del potere di esercitare la relativa funzione: il sindaco, appunto.
Né la circostanza che il personale apicale degli uffici o il segretario comunale fossero tenuti alla predisposizione dell’atto vale ad escludere in capo al sindaco la responsabilità dell’atto stesso, a ripartirla o ad attenuarla: si tratta, infatti, di compito di mera redazione materiale del documento, non di una (com)partecipazione alla formazione della volontà che nel documento si trasfonde dando, appunto, origine all’atto; la scelta del soggetto destinatario dell’incarico (e, quindi, la valutazione della sussistenza della speciale professionalità richiesta dalla norma) è di esclusiva pertinenza del Sindaco.
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Nell’attuale assetto normativo regolante la figura ed il ruolo del segretario comunale, dopo l’intervento della legge 127/1997 (che ha abrogato il parere preventivo obbligatorio di legittimità del segretario sugli atti degli organi collegiali), al segretario sono attribuite funzioni meramente consultive e di assistenza agli organi del comune –la cui ampiezza, peraltro, è delimitata dalla introduzione della figura del Direttore generale- e di coordinamento dell’attività dei dirigenti, ma non certo funzioni di amministrazione attiva.
La mera sottoscrizione degli atti di Giunta e Consiglio comunale quale soggetto verbalizzatore (art. 97, comma 3, TUEL) assolve ad una specifica funzione redazionale e certificativa, propria del Segretario, che non comporta alcuna responsabilità diversa da quella di registrazione dei fatti e delle volontà in conformità a quanto avvenuto nella seduta e, perciò, esterna ed estranea al processo formativo delle volontà espresse dagli organi collegiali a seguito di deliberazione (ed, in ipotesi, causative di danno).
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Il conferimento di incarico dirigenziale ex art. 110 TUEL è atto proprio del Sindaco dal quale è causalmente derivato il contestato danno al Comune con il pagamento di competenze retributive ad un soggetto privo della professionalità necessaria per la copertura dell’incarico illegittimamente conferito.

Invero,
l’illegittimità dell’incarico conferito a soggetto privo dei requisiti di studio richiesti dalla norma ha causato all’amministrazione un ingiusto pregiudizio economico: il danno in caso di prestazioni rese in mancanza del prescritto titolo di studio e professionale è insito nella lesione della violazione del sinallagma contrattuale, dal momento che alla retribuzione percepita non corrisponde una prestazione adeguatamente commisurata e qualitativamente corrispondente alla professionalità richiesta.
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Oggetto del presente giudizio è la responsabilità risarcitoria del convenuto, all’epoca Sindaco pro tempore del Comune di Villafranca di Verona, per l’illegittimo conferimento di incarico dirigenziale intra dotazione organica, a tempo determinato, ad un dipendente dell’ente poiché sprovvisto dell’imprescindibile requisito del diploma di laurea, così come previsto dalla disciplina di rango primario vigente all’atto del conferimento dell’incarico medesimo, nel giugno 2013.
Secondo la prospettazione della Procura Regionale, il possesso del titolo di studio della laurea, non solo era un requisito obbligatoriamente richiesto, ma emergeva in modo chiaro e puntuale dal complesso delle disposizioni normative regolanti la materia, circostanza che di per sé impediva il venir meno della gravità delle colpa.
A tale conclusione la Procura è pervenuta in considerazione dell'art. 110 del D.lgs. 267/2000, che prevede che la copertura dei posti di qualifica dirigenziale possa avvenire mediante contratto a tempo determinato “fermi restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire”, dell’art. 19 del D.Lgs. 165/2001 -divenuto applicabile a tutte le amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del D.lgs. 165/2001 in forza dell’art. 40, comma 1, lett. f), del D.lgs. 150/2009-, che disciplina il conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato e fa riferimento alla “particolare specificazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria”, e infine dell’art. 28 del D.Lgs. 165/2001 che, benché riferito alle nomine in ruolo dei dirigenti per le quali, appunto, è richiesto il diploma di laurea, è da considerarsi norma di generale applicazione, anche per ragioni di logica e coerenza del sistema.
Si tratterebbe di un quadro normativo chiaro, privo di insidie sul piano ermeneutico, anche alla luce della concorde e costante giurisprudenza amministrativa da un lato e, dall’altro, della stessa Corte dei Conti, più volte intervenuta nella materia de qua anche in sede di controllo di legittimità (Sez. Centr. Contr. Leg. n. 31/2001, n. 3/2003) che in sede consultiva di controllo (a partire dalla Sez. Contr. Lombardia n. 31/2001) e ribadita anche dal Dipartimento della Funzione Pubblica fin dal 2008 (parere n. 35/2008).
La difesa del convenuto non ha formulato contestazioni circa le norme applicabili, al momento dell’adozione del decreto sindacale n. 11 del 18.06.2013, al conferimento di incarichi dirigenziali ai sensi dell’art. 110 del TUEL -e, quindi, in relazione alla necessità del possesso del requisito della laurea-, tuttavia ha rappresentato che tale quadro normativo, in ogni caso farraginoso e di non semplice ricostruzione a causa della tecnica normativa del rinvio mobile, solo a partire dalla riforma del 2009 non poneva dubbi interpretativi circa i requisiti professionali e di studio necessari per il conferimento di incarichi dirigenziali.
In precedenza, infatti, la formulazione letterale dell’art. 19, comma 6, del D.lgs. 165/2001, elencando i requisiti possesso di laurea/esperienza in maniera disgiuntiva, consentiva di ritenere legittimo il conferimento di incarico anche a soggetti non in possesso del titolo di studio, ma in possesso di concreta esperienza di lavoro maturata presso pubbliche amministrazioni; solo dopo il d.lgs. 150/2009, il testo della disposizione è stato mutato in modo tale da non lasciare spazio a soluzioni ermeneutiche diverse circa la necessaria compresenza di entrambi i requisiti.
Osserva il Collegio che l’adozione da parte dell’odierno convenuto, all’epoca dei fatti Sindaco pro tempore del Comune di Villafranca di Verona, del decreto n. 11 del 18.06.2013 integra una condotta antigiuridica, essendo condivisibile la ricostruzione del quadro normativo applicabile alla fattispecie dedotta dalla Procura Regionale e, nella sostanza, condivisa anche dalla difesa del convenuto.
Come già ricordato,
in materia di conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato negli enti locali, la normativa di settore (d.lgs. 267/2000), nell’individuarne la disciplina (art. 110), ha rinviato, quanto a requisiti e presupposti, alla generale disciplina del pubblico impiego (D.lgs. 29/1993 prima e, poi, D.lgs. 165/2001) e, quindi, all’art. 19 del D.lgs. 165/2001 (la cui applicazione agli enti locali è stata espressamente prevista dal D.lgs. 150/2009, benché in giurisprudenza, anche di questa Corte, non si fosse mancato di sottolinearne, anche in precedenza, l’estensibilità oltre l’impiego statale in quanto rappresentativa di principio generale) che, al comma 6, stabilisce i requisiti per il conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato, prevedendo la concorrenza del requisito culturale della formazione universitaria con il requisito professionale dell’esperienza quinquennale in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza.
Osserva a tal proposito il Collegio che
tale ultima disposizione, nel testo in vigore all’epoca dei fatti (2013) e, cioè, successivamente alle modifiche apportate dall’art. 40 del D.lgs n. 150/2009, aveva una formulazione letterale che non poteva (e non può) lasciare adito a dubbio ermeneutico alcuno in relazione al necessario possesso del titolo di studio della laurea: la “particolare specializzazione professionale” che è requisito per l’attribuzione dell’incarico, infatti, deve essere comprovata “dalla formazione universitaria e postuniversitaria, post universitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro…”.
Requisito culturale e di esperienza lavorativa dunque, non possono in alcun modo essere ritenuti, anche solo sulla base della littera legis, alternativi tra loro, ma debbono, coerentemente con la ratio legis, sussistere congiuntamente.
Come osservato, infatti, già prima dell’intervento del legislatore del 2009 dalla Sezione del controllo di legittimità su atti del Governo di questa Corte con la delibera n. 3/2003 del 09.01.2003, “
il criterio secondo il quale il legislatore ha inteso disciplinare l’immissione nell’esercizio di funzioni dirigenziali di soggetti, quali essi siano, in precedenza già non investiti di tale qualifica, risulta evidentemente informato alla volontà di acquisire professionalità estranee, tali da presentare qualità aggiuntive e comunque non minori rispetto ai già elevati requisiti previsti per le nomine di funzionari appartenenti ai ruoli dirigenziali. Tanto premesso, consegue da ciò attraverso una lettura sistematica dell’art. 19, c. 6, che la facoltà da tale norma prevista richiede, nei suoi destinatari, il concorrente possesso di una particolare specializzazione, sia professionale, che culturale e scientifica; quando si passi all’accertamento di tali requisiti, in relazione alle funzioni da attribuire, l’interprete, dal canto suo, non può sottrarsi alla verifica, sotto ogni profilo, della presenza di tutti gli elementi che complessivamente rendono il soggetto idoneo all’incarico. Ne discende che, ferma rimanendo l’esigenza dell’accertamento di un livello di formazione culturale identificabile nel possesso della laurea, gli elementi che configurano e completano in estranei il profilo della professionalità debbano, insieme ad altri, ricavarsi dal già disimpegnato esercizio di funzioni almeno di pari rilevanza di quelle previste nel nuovo compito. Quindi, oltre all’accertato possesso di sufficiente formazione culturale, in un contesto normativo in cui è però prevista l’attribuzione di incarichi dirigenziali previa verifica della sussistenza di livelli di formazione particolarmente elevati, occorre che la valutazione venga estesa ad un puntuale esame dei curricula degli incaricandi”.
L’aver conferito, da parte del convenuto, un incarico dirigenziale a soggetto non in possesso di diploma di laurea costituisce una violazione delle predette disposizioni, integrando l’elemento oggettivo della responsabilità amministrativa.
In relazione all’elemento soggettivo, ritiene il Collegio che la condotta del convenuto sia connotata, come prospettato dalla Procura regionale, da colpa grave.

Contrariamente, infatti, a quanto sostenuto dalla difesa del convenuto,
il decreto di conferimento dell’incarico è, formalmente e sostanzialmente, atto proprio del Sindaco, adottato nell’ambito di funzioni ad esso attribuite in via esclusiva dal TUEL e dal Regolamento comunale di organizzazione degli uffici e dei servizi del Comune di Villafranca di Verona (art. 50, comma 10, TUEL: “Il sindaco e il presidente della provincia nominano i responsabili degli uffici e dei servizi, attribuiscono e definiscono gli incarichi dirigenziali e quelli di collaborazione esterna secondo le modalità ed i criteri stabiliti dagli articoli 109 e 110, nonché dai rispettivi statuti e regolamenti comunali e provincia”; Art. 109 TUEL: (Conferimento di funzioni dirigenziali) “1. Gli incarichi dirigenziali sono conferiti a tempo determinato, ai sensi dell'articolo 50, comma 10, con provvedimento motivato e con le modalità fissate dal regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza professionale, in relazione agli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o del presidente della provincia (…)”; art, 12, comma 1, lett. c), del Regolamento secondo cui spetta al Sindaco “l’attribuzione e la definizione degli incarichi dirigenziali ai responsabili di area” e art. 60, comma 1, dello Statuto comunale: “(Incarichi dirigenziali) 1. L’atto del Sindaco di conferimento o revoca degli incarichi dirigenziali è adottato sentita la Giunta e il Direttore Generale, se nominato o il Segretario Generale.”).
La circostanza che, a monte del decreto in questione, la Giunta Comunale, organo al quale compete la programmazione in materia di personale ex art. 48, comma 2, TUEL, avesse deciso -appunto all’interno di un atto programmatorio a valenza generale quale il Piano occupazionale: D.G.C. n. 90 del 2013, cfr. doc. 16 allegato all’atto di citazione- la “copertura del posto di qualifica dirigenziale dell’Area II “servizi economico-finanziari e tributari” mediante contratto a tempo determinato” con incarico ai sensi dell’art. 110 TUEL, anziché ricorrere ad altre opzioni (incarico a tempo determinato a personale esterno, concorso pubblico, attribuzione di posizione organizzativa) non vale ad escludere, neppure parzialmente, la responsabilità del convenuto.
Tale decisione, infatti, attiene unicamente alle modalità di copertura del posto, non alla individuazione e alla scelta del soggetto al quale l’incarico avrebbe dovuto essere conferito, queste ultime riferibili unicamente alla volontà del titolare del potere di esercitare la relativa funzione: il sindaco, appunto.
Né la circostanza che il personale apicale degli uffici o il segretario comunale fossero tenuti alla predisposizione dell’atto vale ad escludere in capo al sindaco la responsabilità dell’atto stesso, a ripartirla o ad attenuarla: si tratta, infatti, di compito di mera redazione materiale del documento, non di una (com)partecipazione alla formazione della volontà che nel documento si trasfonde dando, appunto, origine all’atto; la scelta del soggetto destinatario dell’incarico (e, quindi, la valutazione della sussistenza della speciale professionalità richiesta dalla norma) è di esclusiva pertinenza del Sindaco.

La difesa del ricorrente, poi, attribuisce al Segretario comunale, che con il suo comportamento reticente avrebbe omesso di rappresentare alla Giunta e al Sindaco l’esistenza di profili di illegittimità, l’aver indotto in errore gli organi politici, privando il Sindaco in particolare di “scegliere diversamente da come ha fatto” (pag. 18 comparsa).
Anche a prescindere dalla contraddittorietà dell’argomentazione difensiva, avendo lo stesso convenuto in precedenza sostenuto che la scelta del rag. Da. per l’attribuzione dell’incarico dirigenziale “si presentava sostanzialmente come obbligata” (pag. 10 comparsa) essendo quest’ultimo l’unico dipendente di categoria D disponibile ad assumere l’incarico,
nell’attuale assetto normativo regolante la figura ed il ruolo del segretario comunale, dopo l’intervento della legge 127/1997 (che ha abrogato il parere preventivo obbligatorio di legittimità del segretario sugli atti degli organi collegiali), al segretario sono attribuite funzioni meramente consultive e di assistenza agli organi del comune –la cui ampiezza, peraltro, è delimitata dalla introduzione della figura del Direttore generale- e di coordinamento dell’attività dei dirigenti, ma non certo funzioni di amministrazione attiva.
Risulta in atti che il segretario comunale di Villafranca di Verona abbia assolto al proprio compito di consulenza/assistenza, avendo rappresentato al Sindaco i profili di illegittimità del decreto di conferimento dell’incarico, sia per le vie brevi prima sia formalmente con PEC nei giorni immediatamente successivi all’adozione: la Procura ha prodotto, infatti, copia della comunicazione scritta che la medesima ha dichiarato di aver consegnato brevi manu al Sindaco e inviato tramite PEC.
La difesa del convenuto ha contestato la veridicità della circostanza, peraltro confermata dalla medesima Segretario in sede di audizione (doc. 33 Procura), producendo sub doc. 9 una nota (erroneamente qualificata come dichiarazione) a firma del Vice Segretario generale del Comune di Villafranca di Verona, dr. Bo., con la quale lo stesso trasmette al difensore un file di excel (non prodotto in atti) contenente l’elenco degli atti protocollati in arrivo nel periodo 21.06.2013-30.06.2010, evidenziando che con le chiavi di ricerca “sindaco” e “Fa.” non si producono risultati.
E’ di tutta evidenza che, anche al di là della considerazione per cui il file predetto, in assenza di iniziative processuali di parte convenuta diverse dalla prova testimoniale richiesta –inammissibile sia per l’omessa formulazione di specifici capitoli, ma anche irrilevante per le ragioni che seguiranno-, non avrebbe certo potuto essere acquisito d’ufficio agli atti del giudizio -con la conseguenza che la mera cognizione dell’ esistenza di un file non consente di valutarne il contenuto- e anche a voler superare ogni questione in merito alla natura e alla capacità probatoria di un file in assenza di forme di certificazione circa la sua completezza, autenticità ed effettiva corrispondenza con i dati del server (se il protocollo è elettronico) ovvero dei registri (se il protocollo è cartaceo) del Comune, l’estratto del protocollo generale dell’ente dal quale non risulta l’avvenuta protocollazione di una comunicazione, potrebbe unicamente attestare, appunto, che al protocollo generale non risulta acquisito un documento, ma non può escludere, in assoluto, che tale documento esista o sia stato consegnato al destinatario.
E ciò a maggior ragione se si considera che il documento allegato dal Segretario al proprio esposto (doc. 1 Procura) porta un numero del protocollo riservato (il n. 89 del 2013: il relativo registro –non prodotto né offerto in produzione- è conservato nell’Ufficio del Segretario, come risulta dalla dichiarazione resa dalla d.ssa Sa. in sede di audizione), circostanza che di certo spiega l’assenza di numero di protocollo generale e che non è stata oggetto di contestazione alcuna da parte della difesa del convenuto.
Del resto, la stessa Sa. ha espressamente confermato in audizione di aver, dapprima, rappresentato verbalmente l’illegittimità dell’atto e di aver, poi, consegnato la nota scritta brevi manu ed infine di averla trasmessa anche tramite PEC.
In tale sede, peraltro, la medesima Segretario ha dichiarato anche che nei colloqui intercorsi con il convenuto, quest’ultimo è apparso a conoscenza del fatto che il rag. Da. non avrebbe potuto rivestire l’incarico dirigenziale per difetto del titolo di studio, tant’è che oggetto di discussione era la possibilità di conferire detto incarico ad altro dipendente comunale in possesso di laurea, il dr. Gr., che seguiva le questioni relative alla programmazione di competenza del settore finanziario e di aver appreso dell’incarico solo successivamente al conferimento, essendole stata consegnata una copia del relativo decreto sindacale.
A fronte di tali evidenze probatorie, ampiamente circostanziate e non incise dalle produzioni documentali della difesa, non sembra che possa fondatamente ritenersi che via siano state condotte omissive imputabili al Segretario utili a escludere o ridurre la responsabilità del Sindaco.
Quanto, poi, al ruolo del Segretario comunale in relazione alla citata delibera della Giunta comunale che ha approvato il piano occupazionale 2013 (che, peraltro, come si è visto, non è causativa di danno alcuno), la mera sottoscrizione degli atti di Giunta e Consiglio comunale quale soggetto verbalizzatore (art. 97, comma 3, TUEL) assolve ad una specifica funzione redazionale e certificativa, propria del Segretario, che non comporta alcuna responsabilità diversa da quella di registrazione dei fatti e delle volontà in conformità a quanto avvenuto nella seduta e, perciò, esterna ed estranea al processo formativo delle volontà espresse dagli organi collegiali a seguito di deliberazione (ed, in ipotesi, causative di danno).
Priva di giuridico pregio appare, infine, l’argomentazione difensiva secondo cui il Sindaco, organo politico, non sarebbe per ciò tenuto, nell’esercizio delle sue funzioni e nell’adozione degli atti propri –quelli, cioè, per i quali è titolare di competenza esclusiva quale quello di cui si tratta-, alla conoscenza delle norme, dovendo provvedervi in sua vece gli uffici tecnici, invocando all’uopo la giurisprudenza di questa Corte in punto di esimente politica.
La disposizione normativa invocata dal ricorrente, infatti, (art. 1, comma 1-ter, della L. n. 20/1994), prevedendo che la responsabilità dei componenti di un organo politico viene meno quando essi abbiano in buona fede autorizzato o approvato atti di competenza di organi tecnici o amministrativi, non tutela sempre e comunque, come sembra pretendere l’appellante, il soggetto politico in quanto tale, ma si limita a prevedere la sua irresponsabilità nelle sole ipotesi in cui esso abbia fatto affidamento sull’attività gestoria svolta dai dipendenti amministrativi della quale non abbia potuto apprezzare, per la peculiarità dei relativi contenuti, il carattere potenzialmente lesivo.
Come ha invero correttamente osservato la Corte territoriale, la richiamata norma si limita ad attuare il principio di separazione tra politica e gestione amministrativa, più volte affermato dal legislatore (art. 3 d.lgs. n. 29/1993, art. 4 d.lgs. n. 165/2001, art. 107 del d.lgs. n. 267/2000) ed in forza del quale i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo delle amministrazioni pubbliche, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita mediante poteri autonomi ai dirigenti, Ne segue che tale norma non consente di ancorare sic et simpliciter l’irresponsabilità del soggetto politico al particolare ruolo istituzionale che lo diversifica dai dirigenti, dovendosi detta disposizione considerare inoperante quando il soggetto stesso abbia direttamente compiuto, nell’ambito delle sue competenze, atti causativi di danno erariale
” (Sez. III App., 432/2016).
Ed è, appunto, questo il caso che ci aggrava: come già ricordato più sopra,
il conferimento di incarico dirigenziale ex art. 110 TUEL è atto proprio del Sindaco dal quale è causalmente derivato il contestato danno al Comune di Villafranca di Verona con il pagamento di competenze retributive ad un soggetto privo della professionalità necessaria per la copertura dell’incarico illegittimamente conferito.
Venendo ad esaminare il terzo elemento costitutivo della responsabilità erariale, l’avvenuta causazione di un danno risarcibile, il Collegio osserva che, come peraltro correttamente rappresentato dalla Procura attrice,
l’illegittimità dell’incarico conferito a soggetto privo dei requisiti di studio richiesti dalla norma ha causato all’amministrazione un ingiusto pregiudizio economico: il danno in caso di prestazioni rese in mancanza del prescritto titolo di studio e professionale è insito nella lesione della violazione del sinallagma contrattuale, dal momento che alla retribuzione percepita non corrisponde una prestazione adeguatamente commisurata e qualitativamente corrispondente alla professionalità richiesta, come peraltro ormai acquisito dalla costante giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. Veneto sent. n. 107/2015; Sez. Sicilia n. 55/2014; Sez. Lombardia n. 280/2013; Sez. Toscana n. 433/2011; Sez. Sardegna n. 1246/2009; Sez. Piemonte n. 24/2009 per citare, ex multis, alcune tra le più recenti e, da ultimo, Sez. Campania n. 129/2017).
Alla luce di tali consolidati orientamenti, corretto appare, quindi, il criterio di quantificazione del danno utilizzato dalla Procura e, cioè, la differenza fra le retribuzioni percepite dal Dalgal in dipendenza dall’incarico dirigenziale e quelle che gli sarebbero spettate qualora avesse ricevuto il riconoscimento di una posizione organizzativa quale funzionario di cat. D5 (questa sì, legittima e conforme alla normativa e alle disposizioni contrattuali applicabili ratione temporis: “ART. 8 - Area delle posizioni organizzative.
1. Gli enti istituiscono posizioni di lavoro che richiedono, con assunzione diretta di elevata responsabilità di prodotto e di risultato:
   a) lo svolgimento di funzioni di direzione di unità organizzative di particolare complessità, caratterizzate da elevato grado di autonomia gestionale e organizzativa;
   b) lo svolgimento di attività con contenuti di alta professionalità e specializzazione correlate a diplomi di laurea e/o di scuole universitarie e/o alla iscrizione ad albi professionali;
   c) lo svolgimento di attività di staff e/o di studio, ricerca, ispettive, di vigilanza e controllo caratterizzate da elevate autonomia ed esperienza.
2. Tali posizioni, che non coincidono necessariamente con quelle già retribuite con l’indennità di cui all’art. 37, comma 4, del CCNL del 06.07.1995, possono essere assegnate esclusivamente a dipendenti classificati nella categoria D, sulla base e per effetto d’un incarico a termine conferito in conformità alle regole di cui all’art. 9
.” CCNL del 31.03.1999).
La difesa del convenuto contesta in nuce l’esistenza di un danno risarcibile rappresentando, al contrario, l’avvenuta realizzazione di una economia di spesa in quanto il posto avrebbe comunque dovuto essere coperto, con maggiori costi, con ricorso ad un dirigente esterno, argomentando in ordine alla necessaria copertura del posto con una figura dirigenziale non potendosi procedere ad accorpamenti di aree, ma nulla argomentando in merito alla possibilità di affidare la responsabilità dell’area ad un funzionario di cat. D mediante l’istituto della posizione organizzativa, contrattualmente previsto (ed applicabile al caso de quo), appunto oggetto di contestazione da parte della Procura Regionale.
In conclusione, sussistendone tutti i presupposti, deve essere dichiarata la responsabilità erariale del convenuto per i fatti di cui è causa e lo stesso deve essere condannato al risarcimento del danno in favore del Comune di Villafranca di Verona.
Per le ragioni ampiamente più sopra esposte in merito alla solo presunta compartecipazione di soggetti terzi (Giunta comunale/Segretario Comunale) alla formazione della volontà sottostante al decreto di conferimento dell’incarico, ritiene il Collegio non ricorrere nemmeno i presupposti per l’applicazione del potere riduttivo, così come richiesto dalla difesa.
In conclusione, la domanda attorea deve essere accolta e il convenuto condannato al risarcimento in favore del Comune di Villafranca di Verona del danno complessivamente derivante dai fatti di cui è causa e quantificato in euro 78.120,00, somma comprensiva della rivalutazione monetaria, oltre agli interessi legali dalla data della sentenza al saldo effettivo.
Ai sensi dell’art. 31 del c.g.c. il convenuto va inoltre condannato al pagamento delle spese di giustizia, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Sezione Giurisdizionale Regionale per il Veneto della Corte dei Conti, ogni diversa e/o contraria domanda od eccezione respinta, definitivamente pronunciando nel giudizio iscritto al n. 30799 del registro di segreteria promosso dal Procuratore Regionale nei confronti di Fa.Ma.;
   - respinge l’eccezione preliminare di prescrizione;
   - in accoglimento della domanda avanzata dalla Procura Regionale condanna Fa.Ma. al risarcimento del danno nei confronti del Comune di Villafranca di Verona di euro 78.120,00 (settantottomilacentoventi/00), somma comprensiva della rivalutazione monetaria, oltre interessi dalla data della sentenza fino al saldo effettivo (Corte dei Conti Veneto, sentenza 20.11.2019 n. 182).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOCedere la propria firma digitale quali reati comporta?
È possibile avere qualche riferimento normativo e giurisprudenziale nel quale si dispone la sanzione, sia al soggetto che cede la propria firma digitale, sia al soggetto che impropriamente la usa al posto del legittimo titolare?
Punto di partenza della riflessione è la norma prevista nel “Codice dell’Amministrazione digitale” (“Cad”).
L’art. 32, comma 1, del “Cad”, dispone che “il titolare del certificato di firma è tenuto ad assicurare la custodia del dispositivo di firma o degli strumenti di autenticazione informatica per l’utilizzo del dispositivo di firma da remoto, e ad adottare tutte le misure organizzative e tecniche idonee ad evitare danno ad altri; è altresì tenuto ad utilizzare personalmente il dispositivo di firma”.
Inoltre, l’art. 21 sempre del “Cad” prevede che “l’utilizzo del dispositivo di firma elettronica qualificata o digitale si presume riconducibile al titolare, salvo che questi dia prova contraria”.
Dalla lettura di queste disposizioni emerge chiaramente la volontà del Legislatore di assicurare un uso affidabile del dispositivo di firma digitale che, a differenza della firma autografa, ha delle debolezze nella certa riconducibilità al suo titolare. Del resto, l’associazione “titolare/dispositivo di firma” è “asettica”, basandosi unicamente su un processo di identificazione significativa a 2 fattori (qualcosa che hai + qualcosa che conosci), che nella pratica si concretizza in una smart card/dispositivo usb/password accesso al server di firma remoto più il Pin.
In altre parole, la modalità di identificazione prevista per attivare la procedura di firma non prevede un riconoscimento biometrico che obblighi la presenza del titolare.
La mancanza, poi, di qualsiasi elemento grafometrico/biometrico rende impossibile l’attività del grafologo utile a determinare l’autenticità della firma in caso di disconoscimento.
L’utilizzo “improprio” della firma digitale, oltre ad essere vietato dal Legislatore, genera delle conseguenze anche sul piano giuridico probatorio del documento amministrativo informatico prodotto. In questo senso la giurisprudenza si è già espressa con alcune Sentenze, di cui si menzionano degli esempi:
   • Cassazione penale, Sezione V, Sentenze 27.08.2013, n. 35543 e 10.03.2009, n. 16328: “sul piano oggettivo, ai fini della sussistenza del reato di falso in scrittura privata (art. 485 Cp.), il consenso o l’acquiescenza della persona di cui sia falsificata la firma, non svolge alcun rilievo, in quanto la tutela penale ha per oggetto non solo l’interesse della persona offesa, apparente firmataria del documento, ma anche la fede pubblica, la quale è compromessa nel momento in cui l’agente faccia uso della scrittura contraffatta per procurare a sé un vantaggio o per arrecare ad altri un danno; pertanto anche l’erroneo convincimento sull’effetto scriminante del consenso costituisce una inescusabile ignoranza della legge penale. Sul piano soggettivo, nel delitto in questione, per l’integrazione del dolo specifico non occorre il perseguimento di finalità illecite, poiché l’oggetto di esso è costituito dal fine di trarre un vantaggio di qualsiasi natura, legittimo od illegittimo”;
   • Cassazione penale, Sezione V, Sentenza 05.07.1990: “posto che il verbale di ricezione di dichiarazione di appello da parte del Cancelliere costituisce un atto pubblico facente fede fino a querela di falso, sussiste il reato di falso in atto pubblico anche qualora tale verbale sia stato redatto e sottoscritto da un coadiutore giudiziario col consenso del cancelliere, […]”;
   • Cassazione penale, Sezione V, Sentenze 12.07.2011, n. 32856 e 12.05.2011, n. 24917: “in tema di falsità ideologica in atto pubblico (art. 483 Cp.), ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo è sufficiente il dolo generico, e cioè la volontarietà e la consapevolezza della falsa attestazione, mentre non è richiesto l’animus nocendi né l’animus decipiendi, con la conseguenza che il delitto sussiste non solo quando la falsità sia compiuta senza l’intenzione di nuocere ma anche quando la sua commissione sia accompagnata dalla convinzione di non produrre alcun danno”.
Inoltre, occorre richiamare anche alcune disposizioni del Codice penale in merito alla falsità degli atti:
   • art. 476 Cp. “Falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici”: “il ‘Pubblico Ufficiale’, che, nell’esercizio delle sue funzioni, forma, in tutto o in parte, un atto falso o altera un atto vero, è punito con la reclusione da uno a 6 anni. Se la falsità concerne un atto o parte di un atto, che faccia fede fino a querela di falso, la reclusione è da 3 a 10 anni”;
   • art. 491-bis Cp. “Documenti informatici”: “se alcuna delle falsità previste dal presente Capo riguarda un documento informatico pubblico avente efficacia probatoria, si applicano le disposizioni del Capo stesso concernenti gli atti pubblici”;
   • art. 493 Cp. “Falsità commesse da pubblici impiegati incaricati di un servizio pubblico”: “le disposizioni degli articoli precedenti sulle falsità commesse da Pubblici Ufficiali si applicano altresì agli impiegati dello Stato, o di un altro Ente pubblico, incaricati di un pubblico servizio, relativamente agli atti che essi redigono nell’esercizio delle loro attribuzioni” (20.11.2019 - tratto da www.entilocali-online.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIndennità PO e servizi convenzionati.
Domanda
Potete spiegare il funzionamento della retribuzione di posizione in caso di servizi convenzionati?
Risposta
Con riferimento al quesito posto, va subito fatta una precisazione. Un conto è l’utilizzo dei dipendenti su due enti, mentre un altro conto è laddove l’ente ha approvato una convenzione ai sensi dell’art. 30 del TUEL.
Nel primo caso, l’art. 17 del CCNL 21.05.2018, precisa che:
   1) L’ente di provenienza del dipendente distaccato ad altri servizi attribuisce la propria retribuzione di posizione, individuata secondo il proprio sistema per la pesatura delle posizioni organizzative, riproporzionandola in ragione delle ore effettivamente rese presso il medesimo, senza alcuna maggiorazione;
   2) gli enti presso il quale il dipendente è distaccato a operare (leggasi: presso altri servizi, anche in convenzione, rispetto a quello del comune di provenienza), attribuiscono la propria retribuzione di posizione, secondo le proprie regole in materia, e “al fine di compensare la maggiore gravosità della prestazione svolta in diverse sedi di lavoro, (…) possono altresì corrispondere con oneri a proprio carico, una maggiorazione della retribuzione di posizione attribuita ai sensi del precedente alinea, di importo non superiore al 30% della stessa”.
Laddove invece ci sia, ai sensi dell’art. 30 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, un unico servizio convenzionato, non ricorre il presupposto per le maggiorazioni né per le disposizioni di cui alle norme contrattuali citate, giacché il dipendente non è chiamato ad assumere maggiori carichi e responsabilità connessi a una prestazione frazionata su più servizi, presso diversi enti. Il dipendente opera, e assume le proprie responsabilità, presso l’unico servizio istituito a mezzo di convenzione tra i tre enti.
In questo caso, quindi, l’unica possibilità per il riconoscimento, in favore del responsabile unico, di un’indennità maggiore, compatibilmente con il sistema all’uopo definito presso l’ente di appartenenza, è l’individuazione di una retribuzione di posizione più elevata qualora si valuti che l’assorbimento in convenzione delle attività prima esplicate separatamente dagli enti “deleganti” prefiguri una pesatura del servizio, presidiato dal medesimo responsabile, più alta, pur sempre entro il limite massimo di cui all’articolo 15, comma 2, del CCNL 21/05/2018 (Euro 16.000,00 annui).
L’ente titolare del rapporto di lavoro, pertanto, potrebbe aumentare l’indennità di posizione in godimento, e gli enti “deleganti” rimborsarla pro quota, secondo gli accordi convenzionali.
In tal senso, si precisa che la retribuzione di posizione (e di risultato) attribuita presso l’ente di appartenenza, anche ove incrementata per effetto della valutazione di cui sopra, deve essere computata, ai fini del rispetto dell’articolo 23, comma 2, del d.lgs. 75/2017 (contenimento del salario accessorio nel limite dell’anno 2016), a carico di ciascuno dei comuni coinvolti sulla base di idonei criteri di riparto (14.11.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPeriodo prova stabilizzazione.
Domanda
Il dipendente assunto con stabilizzazione è soggetto al periodo di prova previsto dall’art. 20 del CCNL sottoscritto in data 21.05.2018?
Risposta
Ai sensi del citato articolo 20 del contratto del 2018, le eccezioni all’obbligo di superamento del periodo di prova sono contenute al comma 2 che recita: “Possono essere esonerati dal periodo di prova, con il consenso dell’interessato, i dipendenti che lo abbiano già superato nella medesima categoria e profilo professionale oppure in corrispondente profilo di altra amministrazione pubblica, anche di diverso comparto. Sono, altresì, esonerati dal periodo di prova, con il consenso degli stessi, i dipendenti che risultino vincitori di procedure selettive per la progressione tra le aree o categorie riservate al personale di ruolo, presso la medesima amministrazione, ai sensi dell’art. 22, comma 15, del D.Lgs. n. 75/2017
[1].”
L’ente, invece, darà applicazione all’art. 20 “Superamento del precariato nelle pubbliche amministrazioni” del D.Lgs. n. 75/2017, che consente l’assunzione a tempo indeterminato, nel triennio 2018-2020, dei soggetti in possesso di tutti i seguenti requisiti:
   a) risulti in servizio successivamente alla data di entrata in vigore della legge n. 124 del 2015 con contratti a tempo determinato presso l’amministrazione che procede all’assunzione;
   b) sia stato reclutato a tempo determinato, in relazione alle medesime attività svolte, con procedure concorsuali anche espletate presso amministrazioni pubbliche diverse da quella che procede all’assunzione;
   c) abbia maturato, al 31.12.2017, alle dipendenze dell’amministrazione che procede all’assunzione almeno tre anni di servizio, anche non continuativi, negli ultimi otto anni.
L’assunzione si concretizzerà con la stipulazione del contratto di lavoro che dovrà contenere anche l’indicazione del periodo di prova, in questo caso pari a sei mesi. Il fatto che il lavoratore sia stato in servizio per un periodo pregresso non esime dal superamento del periodo di prova contrattualmente stabilito.
Tale posizione trova conferma nella sentenza della Corte di Cassazione, Sezione lavoro, n. 21376 del 29.08.2018, con riguardo al caso di una lavoratrice del Comparto Sanità. Si legge nella decisione che “… sia la legge che il CCNL del Comparto Sanità impongono alle pubbliche Amministrazioni datrici di lavoro l’espletamento del periodo di prova; la valutazione espressa in occasione della pregressa esperienza lavorativa era irrilevante in quanto la datrice di lavoro era tenuta a verificare in concreto, all’esito del periodo di prova, l’idoneità della lavoratrice allo svolgimento delle mansioni per le quali era stata assunta con contratto di lavoro a tempo indeterminato…”.
Le norme che prevedono il superamento del periodo di prova sono richiamate nella sentenza citata: “Come già affermato da questa Corte nella sentenza n. 9296/2017, quest’ultima legge art. 70, comma 13, dispone, infatti, che “in materia di reclutamento, le pubbliche amministrazioni applicano la disciplina prevista dal D.P.R. 09.05.1994, n. 487, e successive modificazioni ed integrazioni, per le parti non incompatibili con quanto previsto dagli artt. 35 e 36, salvo che la materia venga regolata, in coerenza con i principi ivi previsti, nell’ambito dei rispettivi ordinamenti”. E l’art. 17 della richiamata fonte normativa (Assunzioni in servizio), al comma 1, prevede che i candidati dichiarati vincitori sono assunti in prova nel profilo professionale di qualifica o categoria per il quale risultano vincitori, la durata del periodo di prova è differenziata in ragione della complessità delle prestazioni professionali richieste e sarà definita in sede di contrattazione collettiva, i provvedimenti di nomina in prova sono immediatamente esecutivi.”
La Corte aggiunge, con riferimento al surrichiamato quadro normativo, che “… tutte le assunzioni alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche sono assoggettate all’esito positivo di un periodo di prova, e ciò avviene ex lege e non per effetto di patto inserito nel contratto di lavoro dall’autonomia contrattuale e che l’autonomia contrattuale è abilitata esclusivamente alla determinazione della durata del periodo di prova, ma tale abilitazione è data dalle norme esclusivamente alla contrattazione collettiva, restando escluso che il contratto individuale possa discostarsene (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 3).”
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[1] “Per il triennio 2018-2020, le pubbliche amministrazioni, al fine di valorizzare le professionalità interne, possono attivare, nei limiti delle vigenti facoltà assunzionali, procedure selettive per la progressione tra le aree riservate al personale di ruolo, fermo restando il possesso dei titoli di studio richiesti per l’accesso dall’esterno. Il numero di posti per tali procedure selettive riservate non può superare il 20 per cento di quelli previsti nei piani dei fabbisogni come nuove assunzioni consentite per la relativa area o categoria. In ogni caso, l’attivazione di dette procedure selettive riservate determina, in relazione al numero di posti individuati, la corrispondente riduzione della percentuale di riserva di posti destinata al personale interno, utilizzabile da ogni amministrazione ai fini delle progressioni tra le aree di cui all’articolo 52 del decreto legislativo n. 165 del 2001. Tali procedure selettive prevedono prove volte ad accertare la capacità dei candidati di utilizzare e applicare nozioni teoriche per la soluzione di problemi specifici e casi concreti. La valutazione positiva conseguita dal dipendente per almeno tre anni, l’attività svolta e i risultati conseguiti, nonché l’eventuale superamento di precedenti procedure selettive, costituiscono titoli rilevanti ai fini dell’attribuzione dei posti riservati per l’accesso all’area superiore” (07.11.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ottobre 2019

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAmmissione con riserva alle prove di un concorso.
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Concorso – Prove – Ammissione con riserva – Superamento – Conseguenza - Definizione del ricorso nel merito – Interesse - Permane.
L’ammissione con riserva alle prove di un concorso, anche quando il concorrente le abbia superate e risulti vincitore del concorso, è un provvedimento cautelare che non fa venir meno l’interesse alla definizione del ricorso nel merito, poiché tale ammissione è subordinata alla verifica della fondatezza delle sue ragioni e, cioè, “con riserva” di accertarne la definitiva fondatezza nel merito, senza, però, pregiudicare nel frattempo la sua legittima aspirazione a sostenere le prove, aspirazione che sarebbe irrimediabilmente frustrata se la sentenza a lui favorevole sopraggiungesse all’esaurimento della procedura concorsuale e fosse quindi, a quel punto, inutiliter data, vanificando l’effettività della tutela giurisdizionale (1).
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   (1) Cons. St., sez. III, 18.01.2017, n. 209; id. 06.05.2016, n. 1839; id. 16.06.2015, n. 3038.
La Sezione ha ritenuto di non poter condividere il diverso orientamento (Cons. St., sez. VI, 25.07.2019, n. 5263; 01.04.2019, n. 2155) che, in relazione all’ammissione con riserva di studenti alla frequenza della facoltà a numero di chiuso di medicina, ossia a fattispecie di natura comunque selettiva, pur non rilevando il testo dell’art. 4, comma 2-bis, d.l. 30.06.2005, n. 115, ha affermato che nondimeno “nel caso di specie, vi sia ugualmente una situazione di affidamento, con avvio in buona fede di un articolato percorso di studio, quasi completato, che merita un trattamento non dissimile a quello previsto dal sopra richiamato art. 4-bis quando vi sia stato il conseguimento di una abilitazione professionale o di un titolo nei casi ivi previsti”.
La Sezione ha ritenuto che siffatta “apertura” giustificata essenzialmente dall’esigenza di tutela dell’affidamento nello specifico e peculiare caso degli studenti di medicina, non possa essere considerata espressiva di un principio generale che giunga ad estendere in via analogica la prescrizione normativa di cui all’art. 4, comma 2-bis, cit., all’intero ambito delle procedura selettive. Ne risentirebbe in modo inaccettabile il principio della par conditio, e ancor prima il principio del pubblico concorso, posto che si generebbe, in forza di una mera delibazione del fumus e del periculum in mora in sede giudiziaria, una corsia parallela di accesso alla professioni e ai pubblici impieghi, pur quando la sentenza definitiva, nel pieno contradditorio tra le parti, abbia infine accertato che le ragioni del ricorrente, beneficiario della tutela cautelare, siano del tutto infondate.
La tutela cautelare non è la rimozione di un ostacolo procedurale interposto dall’amministrazione, ma è solo l’effetto della protezione interinale di una posizione giuridica, in guisa che il tempo del processo non abbia a compromettere definitivamente le utilità cui il ricorrente aspira.
La Sezione ha escluso che la frequenza con profitto e il superamento dell’esame finale, abbiamo di fatto ed ex post sancito che il bene della vita è meritato; o, ancora, che sarebbe irragionevole negare il conseguimento del titolo agli appellanti in considerazione della cronica carenza di medici di base.
Siffatte argomentazioni obliterano che, alla luce del principio del pubblico concorso, l’attribuzione del “bene della vita” è frutto della competizione fra più aspiranti, in un quadro di regole trasparenti in cui “più meritevoli” sono considerati solo coloro che legittimamente superano il concorso, talché consentire ad alcuni di ottenere il predetto bene, senza passare dal vittorioso esito di una competizione, non può che costituire un pregiudizio per gli altri aspiranti, i cui posti sono attinti.
La cronica carenza dei medici, inoltre, sotto il profilo strettamente giuridico, non rileva. E’ compito del legislatore, ove le procedure selettive non siano sufficienti ad assicurare adeguate coperture, individuare soluzioni e rimedi per un reclutamento straordinario che eventualmente tenga conto dell’esistenza di medici già formati seppur all’esito di un percorso avviatosi in forza di provvedimenti giurisdizionale di natura cautelare (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 29.10.2019 n. 7410 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOVerifiche sui requisiti di nomina dei componenti delle commissioni di concorso.
Domanda
Stiamo nominando una commissione di concorso per il nostro comune e i componenti sono tutti esterni all’ente. Dobbiamo compiere delle verifiche particolari sulla situazione dei componenti?
Risposta
La normativa in materia di prevenzione della corruzione ha interessato anche le procedure di formazione delle commissioni di concorso, attraverso l’articolo 1, comma 46, della legge 06.11.2012, n. 190, che ha introdotto l’art. 35-bis, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, rubricato “Prevenzione del fenomeno della corruzione nella formazione di commissioni e nelle assegnazioni agli uffici”. Analoga disposizione è rinvenibile nell’art. 3, del d.lgs. 39/2013, in materia di inconferibilità ed incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni.
La nuova disposizione, prevede che coloro che sono stati condannati, anche con sentenza NON passata in giudicato, per i reati previsti nel Capo I, del Titolo II del libro secondo del codice penale (articoli da 314 a 335-bis c.p.), tra gli altri divieti, non possono fare parte, anche con compiti di segreteria, di commissioni per l’accesso o la selezione a pubblici impieghi. Come ben specificato nel comma 2, del citato articolo 35-bis, “la disposizione prevista al comma 1 integra le leggi e regolamenti che disciplinano la formazione di commissioni e la nomina dei relativi segretari”.
Chiarito l’ambito normativo in cui ci si muove, rispondendo al quesito, è necessario che l’ente che ha provveduto alla nomina della commissione, acquisisca, da ciascun componente (presidente + due componenti) e dal segretario, prima dell’insediamento, un’apposita dichiarazione sostitutiva di certificazione, resa dall’interessato nei termini e alle condizioni dell’art. 46 del DPR n. 445/2000, che attesti l’assenza di condanne, anche non definitive, per i reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione.
Ricevuta la dichiarazione, il servizio personale o altro ufficio del comune, dovrà provvedere ad acquisire il certificato penale e quello dei carichi pendenti dei quattro interessati, così da compiere la dovuta verifica sulle dichiarazioni rese. É consigliabile che le dichiarazioni e l’acquisizione dei certificati penali, avvenga prima dell’insediamento della commissione giudicatrice.
Sull’argomento, a completamento informativo, si rinvia alla delibera ANAC n. 447 del 17.04.2019, con la quale l’Autorità ha ritenuto applicabile il principio dell’inconferibilità dell’incarico di componente o di segretario di una commissione di concorso, anche nei casi in cui la sentenza –anche non definitiva– sia stata pronunciata non solo per reato “consumato”, ma anche per “delitto tentato” (29.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGOScorporo dell'IRAP dai compensi dei legali interni, Corte dei Conti in linea con la Cassazione.
A seguito delle recenti indicazioni del giudice di legittimità (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 29 agosto) i giudici contabili hanno confermato la corretta procedura di scorporo dai compensi professionali dei legali interni dell'Irap posta a carico dell'ente.
Secondo la Corte dei conti della Lombardia (parere 24.10.2019 n. 407), la posizione della Cassazione rientra a pieno titolo nelle interpretazioni anche a suo tempo fornite dai giudici contabili secondo le quali pur essendo il soggetto passivo d'imposta il Comune e non il dipendente, tuttavia, la maggiore imposta che il datore di lavoro dovrà corrispondere a titolo di maggiorazione Irap, in ragione del compenso aggiuntivo liquidato al proprio personale, rientra nel compenso lordo e da questo deve essere inizialmente scorporato all'atto dell'iscrizione del fondo. In altri termini, non si tratta di somme aggiuntive poste a carico del datore di lavoro pubblico ma di una diversa componente fiscale facente parte dei medesimi compensi dovuti ai legali interni.
Le indicazioni della Cassazione sull'Irap
Il comma 208 dell'articolo unico della legge finanziaria 2006 ha fornito una interpretazione autentica (con effetti, quindi, retroattivi), sui compensi professionali corrisposti al personale dell'avvocatura interna, precisando che gli stessi avrebbero dovuto essere considerati comprensivi anche degli oneri riflessi a carico del datore di lavoro. Pertanto, mentre i compensi professionali avrebbero dovuto essere corrisposti al netto degli oneri assistenziali e previdenziali a carico del datore di lavoro pubblico, nulla era disposto in merito alla componente fiscale dell'Irap. Ciò aveva determinato un contrasto interpretativo che è stato risolto dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti (
deliberazione 30.06.2010 n. 33) che hanno evidenziato come avrebbe dovuto essere ricompresa anche la maggiore imposta che il datore di lavoro deve corrispondere a titolo di maggiorazione Irap, in ragione del compenso aggiuntivo erogato al proprio personale.
Inoltre, in termini di copertura finanziaria, la nomofilachia contabile aveva stabilito che gli enti locali avrebbero dovuto seguire i principi che regolano la costituzione dei fondi, con quantificazione delle somme che gravano sull'ente a titolo di Irap, rendendole indisponibili, e successivamente procedere alla ripartizione dell'incentivo, corrispondendo lo stesso ai dipendenti interessati al netto degli oneri assicurativi e previdenziali. Ma questa precisazione, tuttavia, non risultava sufficiente tanto da generare altri diversi orientamenti, sia nella giurisprudenza contabile sia il quella amministrativa.
La Cassazione chiude ad interpretazioni diverse, precisando che se da una lato, in ragione dei presupposti impositivi l'onere fiscale non può gravare sul lavoratore dipendente, dall'altro lato la quantificazione dell'incentivo non deve gravare sull'ente, quale conseguenza indiretta dell'erogazione del trattamento retributivo speciale ed aggiuntivo, che comporta un innalzamento della base imponibile. In altri termini, le disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri di personale (tra cui l'Irap) si riflettono in sostanza sulle disponibilità dei fondi per la l'avvocatura interna, ripartibili nei confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse necessarie alla copertura dell'onere Irap gravante sull'amministrazione.
Le conclusioni del collegio contabile
I giudici contabili della Lombardia non solo confermano le conclusioni della Cassazione ma precisano anche che tali indicazioni erano già contenute in proprie precedenti deliberazioni (parere 10.10.2018 n. 267 sul Quotidiano degli enti locali e della Pa del 26 novembre), secondo cui le amministrazioni dovranno quantificare le somme che gravano sull'ente a titolo di Irap, rendendole indisponibili, e successivamente procedere alla ripartizione dell'incentivo, corrispondendo lo stesso ai dipendenti interessati al netto degli oneri assicurativi e previdenziali (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.11.2019).

PUBBLICO IMPIEGO: L’Irap per gli avvocati dipendenti è a carico del Comune.
In linea con l’orientamento prevalente nella giurisprudenza giuslavoristica, il soggetto passivo dell’imposta è l’amministrazione comunale che deve accantonare, rendendole indisponibili, le risorse necessarie a fronteggiare l’onere IRAP dai fondi per la progettazione e per le avvocature interne, ripartendo successivamente l’incentivo ai dipendenti aventi titolo, al netto degli oneri assicurativi e previdenziali.
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Con la nota sopra citata, il Sindaco del Comune di Pavia pone due quesiti in merito alla corresponsione dei compensi professionali a favore degli avvocati dipendenti degli enti locali (art. 9 del Decreto-legge n. 90/2014 convertito in legge con modificazioni dalla Legge n. 114/2014).
In particolare, il primo quesito riguarda l’individuazione di quali provvedimenti degli organi giudiziari determinano la corresponsione dei compensi professionali a favore degli avvocati dipendenti degli enti locali.
Il secondo quesito riguarda invece, sempre con riferimento ai medesimi compensi, quale sia il soggetto passivo dell’IRAP e se questa Sezione intenda confermare o meno gli orientamenti espressi con parere 10.10.2018 n. 267 anche alla luce della recente
ordinanza 13.08.2019 n. 21398 della Sezione lavoro della Corte di Cassazione, con riferimento alla valutazione se il pagamento dell’Irap dovuta dal Comune sui compensi professionali debba comportare o meno una corrispondente decurtazione della somma finale corrisposta al singolo avvocato a titolo di compenso finale.
...
Con riferimento al secondo quesito posto dal Comune di Pavia, nel quale si chiede, tra l’altro, di confermare o meno orientamenti assunti in materia da questa stessa Sezione nel passato, occorre preliminarmente riprendere quanto aveva già affermato la sezione con riferimento al medesimo quesito posto da altro Comune. In particolare, la Sezione con il parere 10.10.2018 n. 267, alla luce della ampia giurisprudenza ivi citata, ribadiva due principi importanti che è necessario tenere distinti ai fini della analisi del problema.
1. Per quanto riguarda il soggetto passivo del tributo, afferma: “La Sezione ritiene che il quesito meriti una risposta negativa, nel senso che il pagamento dell'IRAP dovuta dal Comune sui compensi professionali dei propri avvocati non deve comportare una corrispondente decurtazione della somma finale corrisposta al singolo avvocato a titolo di compenso professionale, con la conseguenza che l’Amministrazione non può operare, sugli importi corrisposti agli avvocati comunali a titolo di compensi professionali, la trattenuta dell'IRAP.”
2. Per quanto invece riguarda la copertura degli oneri derivanti dal tributo stesso afferma: “Si aggiunge che, proprio in quanto è l’ente pubblico ad essere debitore d’imposta, il medesimo è tenuto a costituire, nel rispetto dell’ordinamento contabile, la provvista necessaria al pagamento della medesima. In particolare, in aderenza alla necessità di garantire adeguata copertura ad una qualunque spesa gravante sulle amministrazioni pubbliche e di rispettare il principio del pareggio di bilancio posto dall’art. 81 della Costituzione, “le somme destinate al pagamento dell’IRAP devono trovare preventiva copertura finanziaria in sede di costituzione dei fondi destinati a compensare l’attività dell’avvocatura comunale” Corte dei Conti Sezioni Riunite
deliberazione 30.06.2010 n. 33).”
A tali conclusioni la Sezione giungeva proprio alla luce della citata delibera delle Sezioni Riunite che aveva affermato in sede nomofilattica: “Pertanto, ai fini della quantificazione dei fondi per l’incentivazione e per le avvocature interne, vanno accantonate, a fini di copertura, rendendole indisponibili, le somme che gravano sull’ente per oneri fiscali, nella specie, a titolo di Irap. Quantificati i fondi nel modo indicato, i compensi vanno corrisposti al netto, rispettivamente, degli “oneri assicurativi e previdenziali” e degli “oneri riflessi”, che non includono, per le ragioni sopra indicate, l’Irap".
"Può concludersi nel senso che, mentre sul piano dell’obbligazione giuridica, rimane chiarito che l’Irap grava sull’amministrazione (secondo blocco delle citate disposizioni), su un piano strettamente contabile, tenuto conto delle modalità di copertura di “tutti gli oneri”, l’amministrazione non potrà che quantificare le disponibilità destinabili ad avvocati e professionisti, accantonando le risorse necessarie a fronteggiare l’onere Irap, come avviene anche per il pagamento delle altre retribuzioni del personale pubblico (primo blocco delle citate disposizioni). Pertanto, le disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri di personale (tra cui l’Irap) si riflette, in sostanza, sulle disponibilità dei fondi per la progettazione e per l’avvocatura interna ripartibili nei confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse necessarie alla copertura dell’onere Irap gravante sull’amministrazione".
La più recente sentenza della Corte di Cassazione (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro,
ordinanza 13.08.2019 n. 21398), citata nella richiesta di parere del Comune di Pavia, in realtà conferma appieno questi stessi orientamenti. 
Infatti, con riferimento al soggetto passivo dell’onere fiscale afferma: “la circostanza che l'ammontare dell'imposta debba essere quantificato assumendo a base di calcolo, ex art. 10 del richiamato d.lgs. n. 446/1997, le retribuzioni spettanti al personale dipendente ed i compensi corrisposti ai collaboratori autonomi, non incide sulla natura del tributo, che non colpisce il reddito bensì il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate; ciò induce il Collegio a ritenere condivisibile l'orientamento espresso dalla giurisprudenza contabile (Corte dei Conti, Sezioni Riunite in sede di controllo,
deliberazione 30.06.2010 n. 33) secondo cui, in ragione dei presupposti impositivi, l'onere fiscale non può gravare sul lavoratore dipendente e, pertanto, si deve escludere che i commi 207 e 208 dell'art. 1 legge n. 266/2005, nella parte in cui si riferiscono, rispettivamente, agli «oneri assistenziali e previdenziali a carico dell'amministrazione» e, quanto al personale delle avvocature interne degli enti pubblici, agli «oneri riflessi», possano essere interpretati nel senso di ricomprendere anche la maggiore imposta che il datore di lavoro dovrà corrispondere a titolo di maggiorazione IRAP, in ragione del compenso aggiuntivo corrisposto al proprio personale;”.
Con riferimento alla questione della copertura degli oneri derivanti dal tributo afferma: “il Collegio, pertanto, condivide e fa proprie le conclusioni alle quali sono già pervenuti i giudici contabili secondo cui, in sede interpretativa, l'art. 1, comma 207, della legge n. 266/2005 e l'art. 92 del d.lgs. 163/2006, che del primo ripete il contenuto, vanno armonizzati con i principi che regolano la costituzione dei fondi, con la conseguenza che le amministrazioni dovranno quantificare le somme che gravano sull'ente a titolo di IRAP, rendendole indisponibili, e successivamente procedere alla ripartizione dell'incentivo, corrispondendo lo stesso ai dipendenti interessati al netto degli oneri assicurativi e previdenziali; in altri termini «le disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri di personale (tra cui l'IRAP) si riflettono in sostanza sulle disponibilità dei fondi per la progettazione e per l'avvocatura interna, ripartibili nei confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse necessarie alla copertura dell'onere IRAP gravante sull'amministrazione» (Corte dei conti
deliberazione 30.06.2010 n. 33 cit.)”.
Alla luce di quanto considerato e con riferimento al quesito posto dal Comune di Pavia in considerazione di nuove pronunce della giurisprudenza, si evincono dunque solamente valutazioni che portano a confermare nuovamente l’orientamento già espresso nel passato da questa stessa Sezione e i principi in esso contenuti (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 24.10.2019 n. 407).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOUtilizzo graduatorie.
Domanda
La Corte dei Conti Sardegna e, recentemente, quella delle Marche sono intervenute in materia di graduatorie. Potete fare la sintesi di quanto affermato?
Risposta
Il parere 06.09.2019 n. 41 della Sezione regionale delle Marche della Corte dei Conti è intervenuto in maniera precisa e attenta alla questione dell’utilizzo delle graduatorie dopo le novità contenute nei commi 360 e seguenti della legge 145/2018. Queste, sono state in sintesi le conclusioni dei magistrati contabili, che peraltro si condividono:
   • le graduatorie di concorsi banditi dopo il 01.01.2019 si possono utilizzare solo per i posti messi a concorso; queste graduatorie non possono essere utilizzate da altri enti;
   • le graduatorie dal 2010 al 2018 (comprese quelle di concorsi banditi entro il 31.12.2018) si possono ancora utilizzare per lo scorrimento degli idonei e possono ancora essere utilizzate da altri enti;
   • rimane valido l’art. 91, comma 4, del d.lgs. 267/2000 che prevede l’impossibilità di scorrere una graduatoria per posti creati o trasformati dopo la stessa;
   • tutte le graduatorie (sia del 2019 che quelle degli anni precedenti) si possono ancora utilizzare per assumere a tempo determinato, in quanto l’art. 36, comma 2, del d.lgs. 165/2001 è ancora vigente, non è stato abrogato né modificato (17.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Monetizzazione delle ferie nel pubblico impiego: ammissibilità.
La monetizzazione delle ferie, nel pubblico impiego, è consentita solo in quei casi in cui il diritto alle stesse sia compromesso da cause non imputabili al lavoratore quali la malattia, essendo legittimo il divieto di monetizzazione delle stesse in tutti gli altri casi (nella specie il lavoratore ha rassegnato le proprie dimissioni con l’intento di godere della pensione, anche se poi ciò non si è verificato, pertanto ben avrebbe potuto, preventivando la data di cessazione del rapporto, godere delle ferie residue) (TRIBUNALE di Taranto, Sez. lav., sentenza 17.10.2019 n. 3418 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Divieto di monetizzazione delle ferie non godute: può considerarsi assoluto?
Il divieto di monetizzazione delle ferie non godute non può considerarsi assoluto, nel senso di proibire radicalmente il pagamento del compenso sostitutivo, pertanto, a fronte di evidenti impossibilità al godimento delle ferie non attribuibili in alcun modo alla volontà del lavoratore (nella specie il lavoratore ha tempestivamente comunicato al datore di lavoro il proprio recesso dal rapporto di lavoro per collocamento in quiescenza e il datore di lavoro ha comunicato al dipendente la necessità della fruizione delle ferie residue in costanza del rapporto di lavoro, stante l’impossibilità della loro monetizzazione, il dipendente non ha potuto usufruire dei n. 15 giorni di ferie residue nel mese di dicembre e di gennaio 2015, come inizialmente convenuto tra le parti, a causa di contestuale richiesta di fruizione di ferie da parte di molti altri dipendenti, per cui il contemperamento delle esigenze di assicurare la continuità del servizio e di garantire il recupero delle energie del dipendente possa risolversi in un aprioristico riconoscimento della prevalenza delle prima e rendere intempestiva qualsiasi istanza, anche presentata con ampio anticipo, da parte del lavoratore, ai fini della conservazione del di lui diritto), il divieto di corrispondere un compenso sostitutivo configura un comportamento censurabile, non essendo logico far derivare da una violazione dell’ art. 36 della Costituzione imputabile alla pubblica amministrazione. il venir meno del diritto all’equivalente pecuniario di una prestazione comunque effettuata (TRIBUNALE di Teramo, Sez. lav., sentenza 16.10.2019 n. 514 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

COMPETENZE GESTIONALI - INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE - PUBBLICO IMPIEGOCompete al responsabile finanziario il recupero del salario accessorio erogato in eccesso.
Un regolamento comunale che ha previsto l'erogazione di compensi, contrattati con le organizzazioni sindacali, ma poi rilevatisi in eccesso rispetto alla normativa o al contratto nazionale, comporta il recupero dal personale che quelle risorse addizionali avesse indebitamente ricevuto.
La competenza al recupero delle somme, mediante trattenute nel limite del quinto dello stipendio, spetta al responsabile finanziario e non al responsabile del personale.
Inoltre, la decisione in via unilaterale dell'ente di correggere la parte del regolamento che dispone in difformità dalla legge e dal contratto, non viola le regole della contrattazione tutte le volte che si tratti di disposizioni di natura fiscale o previdenziale, essendo la contrattazione limitata alla definizione dei soli criteri e regole di ripartizione tra il personale dipendente.

Sono queste le conclusioni cui è giunto il Consiglio di Stato - Sez. V (sentenza 14.10.2019 n. 6953) che ha respinto le eccezioni dei dipendenti, sia sulla competenza del dirigente finanziario in materia di recupero delle somme indebite, sia della presunta violazione delle regole di contrattazione.
La vicenda
L'interpretazione autentica sulla corretta applicazione delle ritenute assistenziali e previdenziali, a carico dei fondi destinati ai compensi per le opere pubbliche, è avvenuta con la legge 266/2005 che ha finalmente chiarito, operando con effetto retroattivo, come la quota percentuale spettante ai dipendenti, per gli incentivi alla progettazione delle opere pubbliche, fosse comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'ente locale.
Al fine di rendere coerente il proprio regolamento con la disposizione legislativa, un Comune, che aveva considerato l'erogazione degli incentivi al netto delle componenti previdenziali e assistenziali a proprio carico, ha proceduto da un lato, a correggere in parte qua il regolamento e, dall'altro lato ad attivare le procedure di recupero delle somme erogate in eccesso al personale.
I dipendenti, dopo aver inutilmente adito il giudice del lavoro, si sono rivolti al giudice amministrativo, in considerazione della presunta violazione delle disposizioni del contratto decentrato e dell'affidamento in buona fede per le somme ricevute. Avendo il tribunale amministrativo di primo grado respinto le eccezioni di presunta illegittimità del recupero disposto, il ricorso è proseguito davanti al Consiglio di Stato.
I punti di contestazione sollevati dai dipendenti riguardavano sia l'incompetenza del dirigente finanziario al ricalcolo delle somme dovute e al successivo prelievo nel quinto dello stipendio, sia la violazione delle regole della contrattazione per aver l'amministrazione proceduto in via unilaterale anziché riportare in contrattazione le modifiche regolamentari considerate illegittime.
Le indicazioni del Consiglio di Stato
Secondo i giudici amministrativi d'appello le doglianze dei dipendenti sono infondate. In merito, infatti, alla competenza del responsabile finanziario, rispetto a quello del servizio del personale, il collegio ha detto che spetta al responsabile della ragioneria il calcolo dei compensi pagati in eccesso e del conseguente recupero sugli stipendi del personale, trattandosi di effetti limitati e di natura squisitamente contabile.
Al contrario, spetta al responsabile del servizio del personale una competenza più estesa che va dalla costituzione del fondo, alla definizione dei criteri e della modalità del riparto e delle percentuali del compenso incentivante, attività queste non incise dal recupero delle somme eccedenti che riguardavano esclusivamente lo scorporo delle ritenute assistenziali e previdenziali poste erroneamente in capo al Comune.
Non merita, inoltre, condivisione l'eccezione formulata dai ricorrenti sulla illegittimità della modifica unilateralmente del regolamento. Sul punto, rileva il Consiglio di Stato, la legge demanda alla contrattazione collettiva e alla normativa regolamentare la sola previsione dei criteri e delle modalità di riparto della somma e la percentuale per le diverse tipologie di lavori, ma non problematiche di natura fiscali o previdenziali che vanno poste al di fuori dei principi di contrattazione.
Possibile estensione della decisione
I principi enunciati dal Consiglio di Stato potrebbero essere estensibili anche ad altre fattispecie di regolamenti eventualmente adottati dagli enti locali.
Il primo potrebbe riguardare gli incentivi tributari, qualora il regolamento avesse disposto di ritenere le risorse escluse anche in presenza di un bilancio approvato dopo il 31/12 ma entro il termine del differimento disposto dal ministero dell'Interno (Corte dei conti Emilia Romagna deliberazione n. 52/2019 e, più di recente, Sezione Lombardia delibera n. 412/2019).
Il secondo potrebbe fare riferimento al regolamento sui compensi alle avvocature interne nel caso di mancato scorporo dell'Irap così come evidenziato nella sentenza n. 21398/2019 della Cassazione (si veda il quotidiano degli enti locali e della Pa del 29 agosto).
In ultimo, il regolamento sugli incentivi tecnici allorché avesse disciplinato effetti retroattivi del regolamento considerando le risorse escluse dai limiti del salario accessorio in presenza di attività effettuate prima del 2018 (si veda il quotidiano degli enti locali e della Pa del 4 novembre) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 25.11.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Principio onnicomprensività.
Domanda
Potreste spiegare il principio dell’onnicomprensività della retribuzione accessoria di un dipendente pubblico?
Risposta
Ogni compenso accessorio che può essere retribuito a un dipendente pubblico deve necessariamente transitare dal fondo delle risorse decentrate che è alimentabile solo con le risorse previste dalla contrattazione nazionale.
Quanto sopra è una conseguenza del cosiddetto principio dell’onnicomprensività della retribuzione del dipendente pubblico statuito dall’art. 2, comma 3, del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165.
Su tale aspetto la giurisprudenza si è soffermata più volte.
Il Consiglio di Stato, V sezione, con la sentenza n. 463/2009, pronunciata in materia di compensi ai messi notificatori, ha avuto modo di precisare che tali somme aggiuntive possono essere rese disponibili solamente dopo l’approvazione del C.C.N.L. 14/09/2000, allorquando tale possibilità è stata appunto prevista in un contratto nazionale. Diversamente nessun compenso può essere erogato ai dipendenti pubblici.
L’art. 45 del D.Lgs 30.03.2001, n. 165 prevede che il trattamento economico fondamentale ed accessorio dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni, fatto salvo quanto previsto all’articolo 40, commi 3-ter e 3-quater, e all’articolo 47-bis, comma 1, sia definito dai contratti collettivi.
L’art. 40, comma 3-quinquies del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 afferma altresì che le regioni, per quanto concerne le proprie amministrazioni, e gli enti locali possono destinare risorse aggiuntive alla contrattazione integrativa nei limiti stabiliti dalla contrattazione nazionale e nei limiti dei parametri di virtuosità fissati per la spesa di personale dalle vigenti disposizioni, in ogni caso nel rispetto degli obiettivi di finanza pubblica e di analoghi strumenti del contenimento della spesa.
Per quanto concerne specificamente il comparto Funzioni Locali il contratto collettivo nazionale del 21/05/2018, riprendendo quanto già operato in passato con l’art. 31, comma 2, del CCNL 22/01/2004, ha introdotto, con l’art. 67, comma 1, un nuovo consolidamento delle risorse di parte stabile, definendo come importo unico consolidato, le risorse di parte stabile destinate nell’anno 2017, come certificate dall’organo di revisione.
Il predetto importo unico consolidato resta confermato, con le stesse caratteristiche, anche per gli anni successivi.
Nel proseguo del sopra richiamato art. 67 sono elencate, ai commi 2 e 3, le voci di parte stabile che consentono di incrementare stabilmente l’importo unico consolidato anno 2017 e le voci di parte variabile che consentono di alimentare i fondi della contrattazione decentrata integrativa con importi variabili di anno in anno, comprese quelle “risorse” specificamente individuate dalla legge (art. 67, comma 3, lett. C).
Il comma 8 introduce una “nuova” possibilità di alimentazione dei fondi di parte variabile per i fondi delle Regioni a statuto ordinario e per le città metropolitane, ai sensi dell’art. 23, comma 4, del D.Lgs. n. 75/2017 (10.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Natura giuridica cartellino.
Domanda
I cartellini marcatempo o i fogli presenza hanno natura di atto pubblico?
Risposta
Gli orientamenti giurisprudenziali si sono mossi nel tempo sino a raggiungere direzioni diametralmente opposte, tuttavia, l’orientamento più recente può dirsi consolidato.
Le meno recenti pronunce configuravano il cartellino marcatempo come un atto pubblico. Il Consiglio di Stato, sez. II, con sentenza del 06.04.1991, n. 3891 lo aveva precisato definendo atto pubblico “ogni documento contenente attestazioni suscettibili di produrre effetti giuridici per una pubblica amministrazione”, ed in ciò identificando anche il cartellino orario che è destinato a fornire la prova dell’effettuazione della prestazione di lavoro ai fini del pagamento della retribuzione. Dal riconoscimento al cartellino della natura di atto pubblico ne conseguiva che, comportamenti dei dipendenti finalizzati a falsificare le risultanze dello stesso, fossero inquadrabili come falso ideologico.
Di parere opposto è la Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 41426 del 25.09.2018, si pronuncia così “i cartellini marcatempo o i fogli presenza non hanno natura di atto pubblico (allo stesso modo Sez. U, n. 15983 del 11.04.2006; Cassazione 19299 del 16.04.2012), trattandosi di documenti di mera attestazione del dipendente inerente al rapporto di lavoro, soggetto a disciplina privatistica, documenti che, peraltro non contengono manifestazioni dichiarative o di volontà riferibili alla Pubblica Amministrazione".
La vicenda aveva riguardato alcuni dipendenti i quali timbravano il cartellino, con modalità tali da attestare falsamente la loro presenza negli uffici comunali. Ma se è vero che commettevano il reato di truffa aggravata ai danni dell’ente locale, non è vero che realizzassero un falso in atto pubblico.
Cartellini e badge rilevano infatti solo nel rapporto con il datore di lavoro, rapporto che nella Pubblica Amministrazione è di diritto privato. Sono cioè privi di rilevanza esterna non essendo manifestazione dichiarativa o di volontà attribuibile alla Pubblica Amministrazione.
L’alterazione delle presenze configura quindi il reato di truffa aggravata ma non quello di falso in atto pubblico (03.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

settembre 2019

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOUfficio di staff con incarico gratuito.
Domanda
È possibile costituire l’ufficio di staff (ex art. 90 TUEL) attribuendo un incarico gratuito ad un collaboratore del sindaco? Cambia qualcosa se il collaboratore fosse in pensione?
Risposta
Per poter costituire un ufficio alle dirette dipendenze del sindaco (o della giunta o dei singoli assessori) è necessario che la materia venga preventivamente disciplinata nel ROUS (Regolamento per l’Ordinamento degli Uffici e dei Servizi). L’ufficio di staff viene costituito per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo attribuite –in questo caso– al sindaco.
L’ufficio di staff –struttura eventuale, ma non necessaria in un ente locale– può essere costituito da dipendenti dell’ente, che lasciano i propri incarichi e mansioni per dedicarsi ad altro, o, se l’ente non è dissestato o strutturalmente deficitario, da collaboratori assunti con contratto a tempo determinato. Se questi collaboratori, sono dipendenti di altra amministrazione, vengono posti in aspettativa senza assegni (comma 1).
Al personale assunto con contratto di lavoro subordinato e a tempo determinato, si applica il CCNL del comparto Funzioni locali (comma 2).
L’ufficio di staff trova la sua ragion d’essere nella collaborazione dell’organo politico, per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo, per cui sono escluse tutte le attività gestionali che restano in capo ai dipendenti inquadrati nella struttura organizzativa del comune, identificati nei dirigenti o posizioni organizzative negli enti senza la dirigenza (comma 3-bis).
Ricapitolando tutte le disposizioni contenute nell’articolo 90, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, comprese le ultime modifiche apportate, nel 2014 con il d.l. 90, possiamo riassumere che la costituzione dell’ufficio di staff:
   • non richiede la pubblicazione di avvisi o lo svolgimento di prove selettive;
   • non richiede il possesso di specifici titoli di studio;
   • non richiede specifica esperienza professionale;
   • non richiede particolari contenuti del curriculum vitae o professionale;
   • non richiede che vi sia una verifica preventiva dell’assenza di professionalità nell’ambito dell’ente;
   • prevede, necessariamente, un carattere oneroso;
   • non pone alcun limite alla possibilità di inquadrare i destinatari degli incarichi, i cui contratti possono, pertanto, classificarli dalla categoria A fino alla dirigenza, nell’ambito del CCNL del comparto Funzioni locali;
   • non pone alcun limite alla retribuzione;
   • non richiede alcuna particolare motivazione sulla scelta del destinatario;
   • è assoggettata ai limiti di spesa per il personale (media della spesa del triennio 2011/2013).
Dopo aver provato a chiarire il quadro normativo in cui ci si muove, dando risposta al doppio quesito presentato è possibile scrivere quanto segue:
   a) data la chiara portata dei commi 1 e 2 dell’articolo 90, del TUEL, non è possibile nominare un componente dell’ufficio di staff a titolo gratuito. Il collaboratore esterno deve essere titolare di un contratto di lavoro subordinato, a tempo determinato, parametrato a quello dei dipendenti del comparto Funzioni locali, con le eventuali deroghe –previste nel comma 3– per ciò che concerne il trattamento economico accessorio;
   b) non sarebbe vietato nominare nell’ufficio di staff un collaboratore in pensione, ma resta vietato nominarlo a titolo gratuito.
A completamento si riporta l’articolo 90, nel testo attualmente in vigore:
Articolo 90 Uffici di supporto agli organi di direzione politica
   1. Il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi può prevedere la costituzione di uffici posti alle dirette dipendenze del sindaco, del presidente della provincia, della giunta o degli assessori, per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo loro attribuite dalla legge, costituiti da dipendenti dell’ente, ovvero, salvo che per gli enti dissestati o strutturalmente deficitari, da collaboratori assunti con contratto a tempo determinato, i quali, se dipendenti da una pubblica amministrazione, sono collocati in aspettativa senza assegni.
   2. Al personale assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti locali.
   3. Con provvedimento motivato della giunta, al personale di cui al comma 2 il trattamento economico accessorio previsto dai contratti collettivi può essere sostituito da un unico emolumento comprensivo dei compensi per il lavoro straordinario, per la produttività collettiva e per la qualità della prestazione individuale.
   3-bis. Resta fermo il divieto di effettuazione di attività gestionale anche nel caso in cui nel contratto individuale di lavoro il trattamento economico, prescindendo dal possesso del titolo di studio, è parametrato a quello dirigenziale
(26.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIncaricati senza libertà d’orario. Non possono regolarlo in base alle esigenze degli uffici. Un contratto che riconosca prerogative dirigenziali alle posizioni organizzative sarebbe nullo.
Gli incaricati di posizione organizzativa non possono regolare la propria attività con orario di lavoro organizzato sulla base delle esigenze degli uffici, come le qualifiche dirigenziali.
Sono ancora molto frequenti i casi nei quali negli enti locali, e specialmente nelle forme associative, si verifichino violazioni palesi alle disposizioni contrattuali, laddove si consenta ai «quadri» un orario di lavoro non predeterminato.
Il tutto, nasce da un'interpretazione totalmente erronea dell'articolo 109, comma 2, del dlgs 267/2000, ai sensi del quale «nei comuni privi di personale di qualifica dirigenziale le funzioni di cui all'articolo 107, commi 2 e 3, fatta salva l'applicazione dell'articolo 97, comma 4, lettera d), possono essere attribuite, a seguito di provvedimento motivato del sindaco, ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dalla loro qualifica funzionale, anche in deroga a ogni diversa disposizione».
Tale norma è posta a rimediare alla circostanza che nella gran parte degli enti locali mancano le qualifiche dirigenziali e, tuttavia, è comunque necessario applicare il principio di separazione delle funzioni politiche da quelle gestionali. L'articolo 109, comma 2, rimedia, consentendo di attribuire le funzioni dirigenziali ai funzionari apicali, abilitati, quindi ad esercitare dette funzioni dirigenziali. Ma, tale abilitazione non trasforma i funzionari incaricati nell'area delle posizioni organizzative in qualifiche dirigenziali.
Si continua ad applicare sempre soltanto e solo, dunque, il Ccnl del comparto. Sull'orario di lavoro, il Ccnl 21.05.2018 non ha cambiato nulla rispetto alla contrattazione collettiva previgente.
Resta attuale, allora, l'indicazione fornita nel 2011 dall'Aran con il
parere 05.06.2011 n. RAL-613, ove si spiega che «il personale incaricato delle posizioni organizzative è tenuto ad effettuare prestazioni lavorative settimanali non inferiori a 36 ore (mentre, ai sensi dell'art. 10, comma 1, del Ccnl del 31.03.1999 e salvo quanto previsto dall'art. 39, comma 2, del Ccnl del 14.09.2000 e dall'art. 16 del Ccnl del 05.10.2001, non sono retribuite le eventuali prestazioni ulteriori che gli interessati potrebbero aver effettuato, senza diritto ad eventuali recuperi, in relazione all'incarico affidato e agli obiettivi da conseguire)».
Conseguentemente l'orario di lavoro va assoggettato «alla vigente disciplina relativa a tutto il personale dell'ente e agli ordinari controlli sulla relativa quantificazione». In particolare, spiega l'Aran, «il vigente Ccnl non attribuisce, in particolare, né al datore di lavoro né al dipendente il potere o il diritto all'autogestione dell'orario settimanale, consentita, invece, al solo personale con qualifica dirigenziale».
È da aggiungere che laddove i funzionari incaricati di posizione organizzativa non rispettassero le previsioni del Ccnl del comparto, incorrono nella responsabilità disciplinare connessa alla violazione dell'articolo 57, comma 3, lettera a), che impone di «collaborare con diligenza, osservando le norme del contratto collettivo nazionale, le disposizioni per l'esecuzione e la disciplina del lavoro»; l'articolo 59, comma 3, lettera a), del Ccnl, ancora, considera esplicitamente violazione disciplinare l'inosservanza delle disposizioni di servizio, anche in tema di assenze per malattia, nonché dell'orario di lavoro.
È opportuno ricordare che qualsiasi contratto collettivo decentrato o direttiva interna finalizzata a consentire alle posizioni organizzative di fruire dell'orario previsto solo per la dirigenza, sarebbe del tutto nulla e inapplicabile, per violazione di una disciplina riservata esclusivamente alla contrattazione nazionale collettiva.
Non solo: la tolleranza nei confronti di orari difformi, che, come visto sopra, implicano responsabilità disciplinare, determinerebbe nei confronti dei dirigenti a loro volta responsabilità disciplinare ai sensi dell'articolo 55-sexies, comma 3, del dlgs 165/2001, il quale dispone: «Il mancato esercizio o la decadenza dall'azione disciplinare, dovuti all'omissione o al ritardo, senza giustificato motivo, degli atti del procedimento disciplinare, inclusa la segnalazione di cui all'articolo 55-bis, comma 4, ovvero a valutazioni manifestamente irragionevoli di insussistenza dell'illecito in relazione a condotte aventi oggettiva e palese rilevanza disciplinare, comporta, per i soggetti responsabili, l'applicazione della sospensione dal servizio fino a un massimo di tre mesi, salva la maggiore sanzione del licenziamento prevista nei casi di cui all'articolo 55-quater, comma 1, lettera f-ter) e comma 3-quinquies»
(articolo ItaliaOggi del 20.09.2019).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIPosizioni organizzative, è colpa grave il mancato controllo sugli atti dei propri funzionari.
Con la sentenza 19.09.2019 n. 350, la Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la regione Toscana, ha precisato che il responsabile di posizione organizzativa che appone la propria firma agli atti predisposti dai funzionari senza operare mai alcun controllo, nemmeno a campione, è suscettibile di condanna per responsabilità sussidiaria a titolo di colpa grave, per omessa vigilanza e/o controllo.
Il fatto
Nel caso in esame, la Procura erariale, presso la Sezione Giurisdizionale della regione Toscana, ha instaurato un giudizio di responsabilità nei confronti di due dipendenti del comune di Cascina, rispettivamente nella qualità di funzionario e di Responsabile di Posizione Organizzativa del Settore “Macrostruttura 6-Educativo e Socio Culturale”; detto giudizio è scaturito dalla segnalazione, da parte del suddetto comune, di un possibile danno erariale, conseguente alla condotta, penalmente rilevante, posta in essere dal menzionato funzionario, fra l'altro destinatario di misura di custodia cautelare in carcere su richiesta della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pisa, nonché di provvedimento di sospensione cautelare adottato dal Comune di Cascina.
Infatti, dall’attività investigativa espletata dalla Guardia di Finanza, nell’ambito del procedimento penale, era emerso che il funzionario, assegnato quale unico addetto all’unità operativa “Nidi, Progettazione Educativa e Diritto allo Studio”, si era appropriato di circa 400.000 euro, fra i 2012 ed il 2017, stanziati dall'Ente di appartenenza e dalla Regione Toscana per il potenziamento degli asili nido e per finanziare progetti sociali a favore di infanti disabili e/o in stato di disagio.
Con riferimento al citato danno, la Procura contabile ha individuato oltre la responsabilità principale e dolosa del funzionario –la cui condotta illecita, era stata ampiamente dimostrata dalle risultanze probatorie del procedimento penale–, anche quella sussidiaria, a titolo di culpa in vigilando, in capo al Responsabile del Settore in cui il reo operava, poiché non aveva esercitato sullo stesso alcun controllo, neanche a campione o saltuario.
Infatti, il Responsabile aveva consentito, o comunque agevolato, la condotta illecita del funzionario, apponendo, in maniera acritica ed automatica, la propria firma sui provvedimenti che quest'ultimo gli sottoponeva, ponendo in essere una condotta gravemente colposa di omesso controllo e vigilanza, reiterata per ben cinque anni.
Il Responsabile, costituitosi in giudizio, ha eccepito l’impossibilità di avere, in qualche modo, contezza del disegno criminoso portato avanti dal funzionario, tant'è che, all’esito dell’attività istruttoria espletata nel parallelo procedimento penale, non era stata formulata alcuna ipotesi di reato nei suoi confronti, essendo emersa, invece, la sua totale estraneità rispetto ai fatti incriminati, escludendo, di conseguenza, qualsiasi responsabilità per culpa in vigilando.
Altresì, dall’esame degli atti istruttori, era emerso che la maggior parte degli episodi criminosi contestati si erano verificati successivamente all’erogazione delle somme da parte del Comune, ovvero in una fase in cui non avrebbe potuto esserci alcun controllo da parte del Responsabile.
Peraltro, da un lato gli atti prodotti dal funzionario erano stati predisposti al di fuori dei protocolli istituzionali, mediante documentazione ideologicamente e/o materialmente falsa, dall'altro, nel corso degli anni, non vi era mai stata alcuna contestazione sull'operato del funzionario da parte di terzi.
Altresì, l’assenza di culpa in vigilando derivava dal fatto che il Responsabile gestiva una macrostruttura con un elevato numero di servizi ed unità operative (almeno 11) e potendo contare su personale limitato: in tale contesto, di fronte irregolarità perpetrate prevalentemente al di fuori dell’orario di servizio ed all’esterno della sede di lavoro ed in assenza di segnali, anche minimi, che potessero far pensare a comportamenti illeciti del funzionario, tali da giustificare una vigilanza “straordinaria” sull’operato dello stesso, il controllo non avrebbe potuto essere diverso da quello di fatto esercitato.
Le considerazioni della Corte
La Corte, entrando nel merito, ha ritenuto che la pretesa erariale fosse meritevole di accoglimento nei confronti di entrambi i convenuti, ricorrendo tutti i presupposti della contestata responsabilità amministrativa.
Per quanto concerne la posizione del funzionario, il Collegio ha riconosciuto pacifica la ricorrenza del cd "rapporto di servizio" con l’Amministrazione danneggiata, nonché acclarate la sussistenza ed antigiuridicità delle condotte contestate, alla luce della valutazione complessiva degli atti di causa e di quelli derivanti dal parallelo procedimento penale –che ha portato alla condanna del funzionario alla pena di 6 anni di reclusione per i delitti di truffa e peculato, continuato ed in concorso con altri, nonché all'interdizione in perpetuo dai pubblici uffici–, dai quali il giudice contabile è legittimato a trarre elementi utili al proprio convincimento (Corte Conti, Sez. giur. Lombardia n. 450/2012; Sez. giur. Friuli Venezia Giulia n. 270/2011).
Alla responsabilità principale, di carattere doloso, per il Collegio si è affiancata quella sussidiaria del Responsabile di Po: quest’ultimo, infatti, pur essendo rimasto del tutto estraneo alle vicende penali, sulla base degli atti e dei fatti esaminati, si è reso responsabile, a titolo di colpa grave, di omessa vigilanza e/o controllo.
Infatti, per ben cinque anni, egli ha firmato i provvedimenti di impegno/liquidazione predisposti dal funzionario, senza avvertire mai la necessità di svolgere controlli, nemmeno a campione, sull’attività preliminare ed istruttoria espletata. Considerato che la firma del Responsabile sulle determine comporta, a suo carico, la piena responsabilità dell’atto e dei relativi effetti, un controllo, anche saltuario e a campione, sarebbe stato opportuno, se non necessario, a prescindere ed indipendentemente da eventuali segnalazioni di anomalie e/o irregolarità da parte di terzi.
In conclusione, alla luce del considerevole arco temporale di reiterazione, le condotte omissive del Responsabile sono risultate, per la Corte, connotate da colpa grave, alla luce dell’estrema noncuranza e superficialità dimostrate per la salvaguardia delle risorse finanziarie del Comune di Cascina, nonché, più in generale, per la corretta utilizzazione delle stesse strumentale all’attuazione di valori di rilievo costituzionale, quali l'imparzialità ed il buon andamento della Pa (articolo 97 della Costituzione) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.10.2019).
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SENTENZA
4. Alla responsabilità principale, di carattere doloso, del Sig. RO. (per l’intero importo sopra visto) si affianca quella sussidiaria, a titolo di colpa grave, della convenuta CA..
A tal riguardo, va in primo luogo rilevata la pacifica sussistenza del cd rapporto di servizio tra l’Amministrazione danneggiata (Comune di Cascina) e la Sig.ra CA., quale Responsabile di Posizione Organizzativa Autonoma nell’ambito del Settore “Macrostruttura 6-Educativo e Socio Culturale” della predetta Amministrazione.
Per quanto concerne il profilo dell’illiceità delle condotte serbate, il Collegio, sulla base degli atti e fatti di causa, ritiene sicuramente di escludere, in armonia con quanto fatto dall’Organo requirente, una corresponsabilità dolosa della convenuta Ca..
Quest’ultima, infatti, è rimasta del tutto estranea alle vicende penali, venendo, del resto, pienamente scagionata in quella sede dallo stesso Ro. (vedasi interrogatorio reso al GIP in data 16.05.2017, ove il Ro. ha espressamente dichiarato “…Le determine venivano firmate dal Dirigente nel caso di specie la Dott.ssa Ca. che non era assolutamente consapevole di quello che facevo”).
Nondimeno, sulla base degli stessi atti e fatti, risulta configurabile una responsabilità della Sig.ra CA., a titolo di colpa grave per omessa vigilanza e/o controllo.
Risulta, infatti, che la medesima CA., per un considerevole lasso temporale (dal 2012 al 2017, epoca di svolgimento delle condotte illecite del Ro., secondo quanto emergente dai capi d’imputazione penale), si sia completamente affidata al Ro. stesso, firmando, in maniera del tutto acritica, i provvedimenti di impegno/liquidazione delle risorse dal medesimo istruiti e predisposti, senza avvertire mai la necessità di svolgere controlli, nemmeno a campione, sull’attività preliminare ed istruttoria espletata (rectius, che avrebbe dovuto essere espletata) dal medesimo (vedasi anche la relazione della Guardia di Finanza del 28.06.2017, prot. n. 0218909, con la documentazione contenuta nel dischetto informatico allegato).
Sul punto, è appena il caso di rimarcare che
colui il quale firma, nell’esercizio precipuo delle competenze relative all’incarico di responsabilità rivestito, determine comportanti l’attribuzione di risorse finanziarie pubbliche in favore di soggetti terzi, si assume, con la predetta sottoscrizione, la (piena) responsabilità dell’atto e dei relativi effetti.
Di qui la necessità di un controllo, anche saltuario e a campione, nel caso all’esame per contro del tutto omesso, sull’attività preliminare e propedeutica svolta dal responsabile del procedimento (o comunque sull’operato dello stesso).
Tutto ciò a prescindere ed indipendentemente dalla segnalazione di anomalie e/o irregolarità da parte di terzi.
Tale conclusione risulta invero confortata (anche) dalla particolare valenza degli interessi coinvolti (nello specifico, quello alla corretta utilizzazione delle risorse finanziarie pubbliche), strumentali all’attuazione di valori di rilievo anche costituzionale (imparzialità e buon andamento della P.A. ex art. 97 Cost.).
Né può ritenersi, in superamento delle argomentazioni difensive sul punto, che tale controllo, nella fattispecie all’esame, non avrebbe potuto essere concretamente esercitato dalla Sig.ra CA., per essersi l’attività illecita del Sig. Ro. svolta prevalentemente al di fuori del rapporto di servizio (investendo, in particolare, la richiesta di rimborso, supportata da false motivazioni, delle somme erogate, a seguito di un’attività di erogazione che sarebbe risultata di per sé lecita).
A tal riguardo, il Collegio ribadisce che, per quanto emerso in sede penale, le condotte illecite del Sig. Ro. sono consistite essenzialmente nel:
   a) richiedere, con false motivazioni, a vari asili nido la restituzione di somme erogate in eccesso, al fine di creare una provvista di cui poi appropriarsi, una volta ottenuta la restituzione di quanto attribuito in eccesso rispetto al dovuto;
   b) riconoscere ad associazioni (TE.TA.) e/o cooperative (TR.) “compiacenti” contributi cui le stesse non avrebbero avuto diritto, per poi ottenere da tali soggetti le somme in questione.
In entrambi i casi, l’appropriazione “illecita” è risultata possibile per essere state le relative risorse previamente assegnate/liquidate con determine firmate, in assenza di qualsivoglia controllo, da parte della convenuta Ca..
La medesima assegnazione (e susseguente erogazione) risulta, invero, anch’essa illecita, in quanto avvenuta in favore di cooperative/associazioni “compiacenti”, non aventi titolo per beneficiarne, attesa la mancata presentazione e/o svolgimento dei relativi progetti, ovvero intervenuta in favore di soggetti (asili nido) astrattamente legittimati ad usufruirne, ma in concreto destinatari di contributi superiori al dovuto.
Risulta allora evidente come i controlli omessi dalla Sig.ra CA. abbiano consentito o quanto meno agevolato l’operazione illecita complessiva attuata dal Ro., partita con l’assegnazione di somme a soggetti terzi (illecita per le ragioni viste) e sfociata nella definitiva appropriazione (anch’essa illecita) da parte del Ro. stesso (beneficiario “finale” della medesima operazione).
Le condotte omissive serbate dalla Sig.ra CA. risultano, invero, connotate da colpa grave, attesa l’estrema noncuranza e superficialità mostrate per la salvaguardia delle risorse finanziarie del Comune di Cascina.
Tutto ciò anche alla luce del considerevole arco temporale di reiterazione delle condotte in questione e del mancato rinvenimento, nei fascicoli delle determine acquisiti presso il Comune di Cascina, di traccia alcuna di attività istruttoria (vedasi su tale ultimo punto pag. 6 della relazione della Guardia di Finanza del 28.06.2017, prot. n. 218909).
Nondimeno, il Collegio, in considerazione delle peculiari circostanze del caso concreto e del ruolo effettivamente rivestito nella vicenda de qua, ritiene di limitare la responsabilità sussidiaria della Sig.ra Ca. all’importo di euro 150.000,00.
5.
In conclusione, alla luce di tutto quanto sopra esposto, il Sig. RO.Al. va condannato al pagamento, in favore del Comune di Cascina, dell’importo di euro 372.863,25, a titolo di responsabilità principale di carattere doloso.
Nel contempo, la Sig.ra CA.Ga. va condannata al pagamento, in favore del Comune di Cascina, dell’importo di euro 150.000,00, a titolo di responsabilità sussidiaria per colpa grave.
Sugli importi per cui è condanna, da ritenersi già comprensivi di rivalutazione, vanno computati gli interessi, come da dispositivo.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Graduatoria tempo determinato.
Domanda
Quali sono le regole oggi vigenti per le graduatorie a tempo determinato?
Risposta
Le attuali regole che disciplinano il ricorso a contratti a tempo determinato, per tutte le pubbliche amministrazioni, sono contenute nell’art. 36, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001, in particolare, l’ultimo alinea, prevede che: “Per prevenire fenomeni di precariato, le amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle disposizioni del presente articolo, sottoscrivono contratti a tempo determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato. È consentita l’applicazione dell’articolo 3, comma 61, terzo periodo, della legge 24.12.2003, n. 350, ferma restando la salvaguardia della posizione occupata nella graduatoria dai vincitori e dagli idonei per le assunzioni a tempo indeterminato.”
Con circolare n. 5/2013 il Dipartimento della Funzione Pubblica aveva ampiamente analizzato la fattispecie, che allora costituiva una novità legislativa
[1], specificando che: “Le amministrazioni che devono fare assunzioni a tempo determinato, ferme restando le esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale, piuttosto che indire procedure concorsuali a tempo determinato, devono attingere, nel rispetto, ovviamente, dell’ordine di posizione, alle loro graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato.”
Aggiungeva, poi, una clausola di salvaguardia destinata alle selezioni già completate, puntualizzando che: “… pur mancando una disposizione di natura transitoria nel decreto-legge, per ovvie ragioni di tutela delle posizioni dei vincitori di concorso a tempo determinato, le relative graduatorie vigenti possono essere utilizzate solo a favore di tali vincitori, rimanendo precluso lo scorrimento per gli idonei.”
Fatta questa doverosa premessa, risulta evidente che le selezioni a tempo determinato non sono più neppure contemplate dalla normativa vigente, di conseguenza, non si ritiene che le graduatorie a tempo determinato possano formare oggetto di cessione ad altra pubblica amministrazione.
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[1] L’art. 36 è stato modificato dal D.L. n. 101/2013 per la parte che interessa il quesito (19.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Compatibilità tra RPCT e Ufficio Procedimenti Disciplinari.
Domanda
Nel nostro comune stiamo riscrivendo il Regolamento di Organizzazione Uffici e Servizi e dobbiamo individuare i componenti dell’UPD.
E’ possibile designare, in composizione monocratica, l’ufficio del Segretario comunale che è anche Responsabile Anticorruzione e Trasparenza?
Risposta
La questione se il Responsabile della Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPCT) possa anche essere componente dell’Ufficio per i Procedimenti Disciplinari –ex art. 55-bis, commi 2 e 3, d.lgs. 165/2001– è sempre stata motivo di riflessione e di vari orientamenti, non sempre univoci, dall’emanazione della Legge Severino (legge 190/2012) in poi.
Per poter rispondere compiutamente al quesito, in via preventiva, va ricostruito il perimetro normativo in cui si muove l’articolazione e organizzazione dell’Ufficio per i Procedimenti Disciplinari (UPD). Riassuntivamente è possibile affermare che:
   a) la presenza di un UPD è obbligatoria in ogni pubblica amministrazione e gli enti vi provvedono secondo le loro peculiarità;
   b) nei comuni, la disciplina in materia di UPD deve trovare collocazione all’interno del ROUS (ex art. 89 TUEL). In tale disciplina deve trovare allocazione anche l’UPD dell’UPD: cioè vanno disciplinate le fattispecie in cui sia oggetto di procedimento disciplinare, il/un componente dell’UPD;
   c) è possibile la gestione in forma associata tra più enti, previa stipula di apposita convenzione;
   d) la composizione dell’UPD può essere monocratica o collegiale;
   e) è possibile prevedere –specie negli enti di maggiori dimensioni– una struttura di supporto per la definizione degli atti istruttori propedeutici;
   f) se la composizione è collegiale vanno definite le modalità di funzionamento, prevedendo quando è necessario che il collegio sia perfetto o quando può agire in assenza di alcuni componenti;
   g) l‘UPD deve anche curare l’aggiornamento del codice di comportamento di ente; esaminare le segnalazioni di violazione dei codici di comportamento; curare la raccolta delle condotte illecite accertate e sanzionate.
Per quanto riguarda, invece, il rapporto tra queste due, imprescindibili, figure presenti nell’ordinamento comunale (UPD e RPCT), occorre rifarsi a:
   • articolo 1, comma 7, della legge 06.11.2012, n. 190, nel testo sostituito dall’art. 41, del d.lgs. 97/2016;
   • articolo 43, commi 1 e 5, del d.lgs. 14.03.2013, n. 33;
   • circolare n. 1/2013, a cura del Dipartimento della funzione pubblica;
   • intesa della Conferenza Unificata del 24 luglio 2013, per l’attuazione dell’art. 1, commi 60 e 61, della legge 190/2012;
   • FAQ n. 3.8 in materia di prevenzione della corruzione, consultabile nel sito web dell’ANAC;
   • orientamento ANAC n. 111 del 04.11.2014;
   • PNA 2016, approvato con delibera ANAC n. 831 del 03.08.2016, Paragrafo 5.2;
   • Delibera ANAC n. 700 del 23.07.2019.
Dall’esame dell’ultimo pronunciamento dell’Autorità Anticorruzione (delibera n. 700/2019) –che ha parzialmente rivisto e meglio precisato le sue precedenti indicazioni– è possibile concludere che:
   – in via generale, l’ANAC ritiene non sussistente, specie nel caso in cui l’Ufficio Procedimenti Disciplinari sia costituito come Organo Collegiale, una situazione di incompatibilità tra la funzione di RPCT e l’incarico di componente UPD, salvo i casi in cui oggetto dell’azione disciplinare sia un’infrazione commessa dallo stesso RPCT;
   – si raccomanda, come altamente auspicabile, laddove possibile, di distinguere le due figure, soprattutto nelle amministrazioni e negli enti di maggiori dimensioni e nel caso in cui l’UPD sia organo monocratico.
Dal momento che il comune interpellante ha una popolazione inferiore a 15.000 abitanti –quindi non può definirsi “ente di maggiori dimensioni”– si ritiene possibile prevedere che il Segretario comunale ricopra, contemporaneamente, il ruolo di RPCT e UPD. Resta comunque valida, inoltre, la possibilità di nominare l’UPD, in forma associata e, in tal senso, si consiglia di prevedere anche tale opzione all’interno del regolamento di organizzazione (17.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTIIncentivi antievasione IMU e TARI solo se il bilancio è approvato entro il 31 dicembre.
Gli incentivi economici a favore dei dipendenti comunali per le attività connesse al recupero dei tributi erariali (Imu e Tari) possono essere corrisposti solo se l'ente approva tassativamente il bilancio di previsione entro il 31 dicembre dell'anno precedente.

È questa l'importante indicazione contenuta nel parere 18.09.2019 n. 52 della sezione regionale di controllo della Corte dei conti dell'Emilia Romagna.
Il quesito
Il comma 1091, articolo 1, della legge di bilancio 2019 ha previsto la possibilità per i Comuni di destinare una quota delle risorse derivanti dal recupero dell'evasione dell'imposta municipale propria (Imu) e della Tari al potenziamento delle risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla gestione delle entrate e al trattamento accessorio del personale dipendente, anche di qualifica dirigenziale, derogando al limite previsto dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 25.05.2017 n. 75.
Tra le condizioni che la norma pone per la sua applicazione vi è quella secondo la quale l'ente deve aver approvato il bilancio di previsione e il rendiconto «entro i termini stabiliti dal Tuel».
Ciò premesso un ente locale ha chiesto alla Corte dei conti dell'Emilia Romagna se il termine per l'approvazione del bilancio debba intendersi solo con riferimento al 31 dicembre dell'anno di riferimento (così come indicato nell'articolo 163, comma 1, del Tuel) o può essere correttamente riferito al termine differito (come previsto dal successivo comma 3, dell'articolo 163 del Tuel), con specifica legge e/o decreti ministeriali.
La risposta
Per i giudici contabili la risposta al quesito formulato è nel senso che il termine per l'approvazione del bilancio è da intendersi il 31 dicembre dell'anno di riferimento e non anche il termine differito.
D'altronde «nell'ipotesi in cui il bilancio di previsione dell'ente non sia approvato nel termine fisiologicamente indicato, il legislatore, all'articolo 163 limita l'attività gestionale dell'ente a una serie di attività tassativamente indicate e tra esse non può rientrarvi quella della destinazione di incentivi al personale. E ciò in base alla sottesa considerazione concernente la fase di criticità in cui versa quell'ente che non sia in grado di corrispondere al fondamentale obiettivo della tempestiva approvazione del bilancio di previsione, dal che discende, ex lege, una gestione di tipo provvisorio dell'ente e limitata a specifiche attività».
Conclusioni
La posizione assunta dalla magistratura contabile emiliana spiazza molti enti locali che hanno seguito l'indicazione fornita dall'Ifel nella nota di approfondimento al comma 1091 della legge di bilancio 2019 dello scorso 28 febbraio (si veda Il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 04.03.2019).
L'istituto, infatti, aveva ritenuto soddisfatta la condizione imposta dalla legge anche con l'approvazione del bilancio di previsione entro i termini prorogati dal decreto ministeriale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 02.10.2019).

PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTIIncentivi Imu solo con bilancio entro il 31 dicembre.
La sezione regionale di controllo della Corte dei conti dell'Emilia Romagna mette in seria crisi l'erogazione dell'incentivo Imu e Tari introdotto dall'ultima legge di bilancio.
Il parere 18.09.2019 n. 52 ha stabilito infatti che solo gli enti che hanno approvato il bilancio di previsione entro il 31 dicembre possono stanziare le somme previste per l'incentivazione del personale.
La norma della legge di bilancio
L'articolo 1, comma 1091, della legge 145/2018, dopo alcuni anni di assenza, aveva reintrodotto la possibilità per i Comuni di prevedere somme incentivanti in favore del personale addetto al raggiungimento degli obiettivi del settore entrate. Subordinando tuttavia questa facoltà ad alcune condizioni. In primo luogo, si tratta di una scelta facoltativa, rimessa alla discrezione degli enti locali interessati.
Inoltre, la destinazione di una somma non superiore al 5 per cento del maggior gettito accertato e riscosso relativo agli accertamenti Imu e Tari dell'esercizio fiscale precedente al potenziamento delle risorse comunali degli uffici entrate e al trattamento accessorio del personale impiegato nel raggiungimento degli obiettivi del settore entrate, è subordinata all'approvazione del bilancio di previsione e del rendiconto entro i termini stabiliti dal testo unico degli enti locali.
Il rispetto del termine di approvazione del bilancio
La norma aveva ingenerato dei dubbi sull'individuazione dei suddetti termini. In particolare per il bilancio di previsione, poiché l'articolo 151 del Dlgs 267/2000 stabilisce che il bilancio di previsione deve essere approvato entro il 31 dicembre dell'anno precedente, prevedendo tuttavia che «i termini possono essere differiti con decreto del ministro dell'Interno, d'intesa con il ministro dell'Economia e delle finanze, sentita la conferenza Stato-città e autonomie locali, in presenza di motivate esigenze. L'Ifel, nella nota del 28.02.2019, ritiene che la condizione richiesta dalla norma è comunque soddisfatta laddove l'ente approvi il bilancio entro i termini stabiliti dal decreto ministeriale di proroga.
La Corte dei conti dell'Emilia Romagna, con la deliberazione sopra richiamata, ha invece ritenuto che il termine per l'approvazione del bilancio è da intendersi il 31 dicembre dell'anno di riferimento di cui all'articolo 163, comma 1, del Dlgs 267/2000 e non anche il termine differito di cui al comma 3 del medesimo articolo. Ciò in quanto l'articolo 163 del Tuel limita l'attività gestionale dell'ente a una serie di attività tassativamente indicate e tra esse non può rientrarvi quella della destinazione di incentivi al personale.
La Corte sostiene, infatti, che l'ente, nel caso di mancata approvazione del bilancio nel termine, versa in una fase di criticità in quanto non è in grado di corrispondere al fondamentale obiettivo dell'approvazione del bilancio di previsione, dal che discende ex lege una gestione di tipo provvisorio e limitata a specifiche attività.
La conclusione è tranchant. L'ente che non ha rispettato il termine del 31 dicembre, pur rispettando il termine fissato dal decreto di proroga, non può stanziare per quell'anno (l'esercizio di riferimento) il fondo calcolato sugli accertamenti Imu e Tari. Mettendo fuori gioco la maggior parte dei Comuni italiani.
Considerazioni
Questa conclusione, a modesto parere di chi scrive, non tiene tuttavia conto che laddove il legislatore, per consentire agli enti di beneficiare di eventuali norme agevolative, ha voluto vincolare l'approvazione del bilancio di previsione alla data del 31 dicembre, lo ha fatto espressamente. Si pensi, ad esempio, al comma 905 dell'articolo 1 della medesima legge di bilancio, che ha concesso agli enti che approvano il bilancio entro il 31 dicembre di non applicare alcuni limiti di spesa e di essere dispensati da alcuni adempimenti, oppure all'analoga norma contenuta nell'articolo 21-bis, comma 2, del Dl 50/2017.
L'aver fatto riferimento genericamente al termine previsto dal Tuel è indice della volontà della norma di tenere conto di eventuali differimenti del termine, sovente dovuti peraltro a cause non imputabili agli enti locali.
Inoltre, seppure è vero che l'ente che non approva il bilancio entro il 31 dicembre si trova a operare nei primi mesi dell'anno successivo in esercizio provvisorio, tuttavia non si comprende come questa circostanza possa impedire all'ente di stanziare le somme relative al fondo con l'approvazione del bilancio di previsione (o meglio dopo l'approvazione del rendiconto dell'esercizio precedente), incidendo i vincoli dell'esercizio provvisorio sull'ente solo fino all'approvazione del documento contabile previsionale.
Una siffatta interpretazione appare molto penalizzante, considerando che spesso i Comuni sono costretti ad approvare il bilancio dopo il termine ordinario del 31 dicembre (peraltro sempre storicamente prorogato) a causa delle mancate certezze sulle risorse disponibili, definite solitamente dallo Stato a ridosso della fine dell'anno, con l'approvazione della legge di bilancio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.09.2019).

PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTICon riferimento alla possibilità di istituire l’incentivo economico a favore dei dipendenti comunali per le attività connesse alla partecipazione del Comune all’accertamento dei tributi erariali e dei contributi sociali non corrisposti e tenuto conto del disposto di cui all’art. 1, comma 1091, della legge n. 145 del 2018, il termine per l’approvazione del bilancio deve intendersi il 31/12 dell’anno di riferimento ai sensi dell’art. 163, comma 1, del d.lgs. n. 267/2000.
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Il Sindaco del Comune di Sant’Agata Bolognese (BO) formula seguente richiesta di parere: con riferimento alla possibilità di istituire l’incentivo economico a favore dei dipendenti comunali per le attività connesse alla partecipazione del Comune all’accertamento dei tributi erariali e dei contributi sociali non corrisposti e tenuto conto del disposto di cui all’art. 1, comma 1091, della legge n. 145 del 2018, “se il termine per l’approvazione del bilancio debba intendersi solo con riferimento al 31/12 dell’anno di riferimento ai sensi dell’art. 163, comma 1, del d.lgs. n. 267/2000 o può essere correttamente riferito al termine differito, ai sensi dell’art. 163, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000, con apposita legge e/o decreti ministeriali”.
...
2.1. Passando al merito, la risposta al quesito formulato è nel senso che il termine per l’approvazione del bilancio è da intendersi il 31/12 dell’anno di riferimento di cui all’art. 163, comma 1, del d.lgs. n. 267/2000 e non anche il termine differito di cui all’art. 163, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000.
2.2. Depone in tal senso la chiara disposizione di cui al citato art. 1, comma 1091, della legge n. 145 del 2018, secondo la quale “1091. Ferme restando le facoltà di regolamentazione del tributo di cui all'articolo 52 del decreto legislativo 15.12.1997, n. 446, i comuni che hanno approvato il bilancio di previsione ed il rendiconto entro i termini stabiliti dal testo unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, possono, con proprio regolamento, prevedere che il maggiore gettito accertato e riscosso, relativo agli accertamenti dell'imposta municipale propria e della TARI, nell'esercizio fiscale precedente a quello di riferimento risultante dal conto consuntivo approvato, nella misura massima del 5 per cento, sia destinato, limitatamente all'anno di riferimento, al potenziamento delle risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla gestione delle entrate e al trattamento accessorio del personale dipendente, anche di qualifica dirigenziale, in deroga al limite di cui all'articolo 23, comma 2, del decreto legislativo 25.05.2017, n. 75. La quota destinata al trattamento economico accessorio, al lordo degli oneri riflessi e dell'IRAP a carico dell'amministrazione, è attribuita, mediante contrattazione integrativa, al personale impiegato nel raggiungimento degli obiettivi del settore entrate, anche con riferimento alle attività connesse alla partecipazione del comune all'accertamento dei tributi erariali e dei contributi sociali non corrisposti, in applicazione dell'articolo 1 del decreto-legge 30.09.2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 02.12.2005, n. 248. Il beneficio attribuito non può superare il 15 per cento del trattamento tabellare annuo lordo individuale. La presente disposizione non si applica qualora il servizio di accertamento sia affidato in concessione.”.
Invero, l’inciso di cui alla norma citata consente la facoltà di destinare risorse per incentivi al personale per l’accertamento di imposte municipali alla condizione dell’approvazione del bilancio di previsione e del rendiconto “entro i termini stabiliti dal testo unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267”, e cioè nei termini previsti dall’art. 163, comma 1, Tuel1, e dunque solo nel caso in cui il bilancio di previsione sia approvato dal Consiglio entro il 31 dicembre dell'anno precedente.
D’altro canto, nell’ipotesi in cui il bilancio di previsione dell’ente non sia approvato nel termine fisiologicamente indicato, il legislatore, all’art. 163 citato, limita l’attività gestionale dell’ente ad una serie di attività tassativamente indicate e tra esse non può rientrarvi quella della destinazione di incentivi al personale.
E ciò in base alla sottesa considerazione concernente la fase di criticità in cui versa quell’ente che non sia in grado di corrispondere al fondamentale obiettivo della tempestiva approvazione del bilancio di previsione, dal che discende, ex lege, una gestione di tipo provvisorio dell’ente e limitata a specifiche attività.
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   11. Se il bilancio di previsione non è approvato dal Consiglio entro il 31 dicembre dell'anno precedente, la gestione finanziaria dell'ente si svolge nel rispetto dei principi applicati della contabilità finanziaria riguardanti l'esercizio provvisorio o la gestione provvisoria. Nel corso dell'esercizio provvisorio o della gestione provvisoria, gli enti gestiscono gli stanziamenti di competenza previsti nell'ultimo bilancio approvato per l'esercizio cui si riferisce la gestione o l'esercizio provvisorio, ed effettuano i pagamenti entro i limiti determinati dalla somma dei residui al 31 dicembre dell'anno precedente e degli stanziamenti di competenza al netto del fondo pluriennale vincolato. 
   2. Nel caso in cui il bilancio di esercizio non sia approvato entro il 31 dicembre e non sia stato autorizzato l'esercizio provvisorio, o il bilancio non sia stato approvato entro i termini previsti ai sensi del comma 3, è consentita esclusivamente una gestione provvisoria nei limiti dei corrispondenti stanziamenti di spesa dell'ultimo bilancio approvato per l'esercizio cui si riferisce la gestione provvisoria. Nel corso della gestione provvisoria l'ente può assumere solo obbligazioni derivanti da provvedimenti giurisdizionali esecutivi, quelle tassativamente regolate dalla legge e quelle necessarie ad evitare che siano arrecati danni patrimoniali certi e gravi all'ente. Nel corso della gestione provvisoria l'ente può disporre pagamenti solo per l'assolvimento delle obbligazioni già assunte, delle obbligazioni derivanti da provvedimenti giurisdizionali esecutivi e di obblighi speciali tassativamente regolati dalla legge, per le spese di personale, di residui passivi, di rate di mutuo, di canoni, imposte e tasse, ed, in particolare, per le sole operazioni necessarie ad evitare che siano arrecati danni patrimoniali certi e gravi all'ente. 
   3. L'esercizio provvisorio è autorizzato con legge o con decreto del Ministro dell'interno che, ai sensi di quanto previsto dall'art. 151, primo comma, differisce il termine di approvazione del bilancio, d'intesa con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza Stato-città ed autonomia locale, in presenza di motivate esigenze. Nel corso dell'esercizio provvisorio non è consentito il ricorso all'indebitamento e gli enti possono impegnare solo spese correnti, le eventuali spese correlate riguardanti le partite di giro, lavori pubblici di somma urgenza o altri interventi di somma urgenza. Nel corso dell'esercizio provvisorio è consentito il ricorso all'anticipazione di tesoreria di cui all'art. 222.
   4. All'avvio dell'esercizio provvisorio o della gestione provvisoria l'ente trasmette al tesoriere l'elenco dei residui presunti alla data del 1° gennaio e gli stanziamenti di competenza riguardanti l'anno a cui si riferisce l'esercizio provvisorio o la gestione provvisoria previsti nell'ultimo bilancio di previsione approvato, aggiornati alle variazioni deliberate nel corso dell'esercizio precedente, indicanti -per ciascuna missione, programma e titolo- gli impegni già assunti e l'importo del fondo pluriennale vincolato.
   5. Nel corso dell'esercizio provvisorio, gli enti possono impegnare mensilmente, unitamente alla quota dei dodicesimi non utilizzata nei mesi precedenti, per ciascun programma, le spese di cui al comma 3, per importi non superiori ad un dodicesimo degli stanziamenti del secondo esercizio del bilancio di previsione deliberato l'anno precedente, ridotti delle somme già impegnate negli esercizi precedenti e dell'importo accantonato al fondo pluriennale vincolato, con l'esclusione delle spese: a) tassativamente regolate dalla legge; b) non suscettibili di pagamento frazionato in dodicesimi; c) a carattere continuativo necessarie per garantire il mantenimento del livello qualitativo e quantitativo dei servizi esistenti, impegnate a seguito della scadenza dei relativi contratti. 
   6. I pagamenti riguardanti spese escluse dal limite dei dodicesimi di cui al comma 5 sono individuati nel mandato attraverso l'indicatore di cui all'art. 185, comma 2, lettera i-bis).
   7. Nel corso dell'esercizio provvisorio, sono consentite le variazioni di bilancio previste dall'art. 187, comma 3-quinquies, quelle riguardanti le variazioni del fondo pluriennale vincolato, quelle necessarie alla reimputazione agli esercizi in cui sono esigibili, di obbligazioni riguardanti entrate vincolate già assunte, e delle spese correlate, nei casi in cui anche la spesa è oggetto di reimputazione l'eventuale aggiornamento delle spese già impegnate. Tali variazioni rilevano solo ai fini della gestione dei dodicesimi
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 18.09.2019 n. 52).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Comma 557 e anagrafe prestazioni.
Domanda
Un incarico conferito ai sensi dell’art. 1, comma 557, della l. 311/2004 deve essere comunicato in PERLAPA oppure configurandosi come tempo determinato non rientra negli incarichi ai dipendenti?
Risposta
A parere di chi scrive, non avendo in merito indicazioni specifiche da parte del DFP (Dipartimento della Funzione Pubblica), poiché la natura dell’istituto previsto dal comma 557, dell’art. 1, della legge n. 311/2004, è quella di rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato, in deroga al principio dell’esclusività del rapporto di pubblico impiego, come ripetutamente ricostruito dalla Corte dei Conti e dal Consiglio di Stato nelle loro pronunce in materia, esso non rientra tra quelli di cui all’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001.
A ulteriore supporto di tale lettura, la Corte dei Conti affianca ormai univocamente l’istituto in esame, definito “scavalco di eccedenza” e già assimilato anche, in altre pronunce giurisprudenziali, al comando o distacco, allo “scavalco condiviso” ex art 14 del CCNL 22/01/2004, ora assurto al rango di fonte legale con l’introduzione del comma 124 della legge di bilancio n. 145/2018, e certamente non rilevante per l’Anagrafe delle prestazioni.
L’istituto di cui al comma 557 citato, in sostanza, non ha la natura di incarico, sulla quale è incentrata la disposizione del TUPI, e giova rilevare che, in effetti, tale definizione non è contenuta neppure nella norma che lo ha istituito (12.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOObblighi di pubblicità e trasparenza bandi di concorso.
Domanda
Tra poche settimane dovremo pubblicare un bando di concorso. Quali sono gli obblighi di trasparenza che ha il comune?
Risposta
Relativamente ai bandi di concorso, la legislazione vigente prevede vari e diversi obblighi di pubblicità e trasparenza.
Il primo è rappresentato dalla pubblicazione del bando nella Gazzetta Ufficiale, 4ª Serie Speciale – Concorsi ed Esami. Come previsto dall’articolo 4, comma 1-bis, del DPR 09.05.1994, n. 487, per gli enti locali, la diffusione in Gazzetta può essere sostituita dalla pubblicazione, sempre nella G.U., del solo avviso di concorso, contenente gli estremi del bando e l’indicazione della scadenza del termine per la presentazione delle domande.
Il secondo obbligo è quello di pubblicare il bando e il relativo schema di domanda di partecipazione all’albo pretorio on-line dell’ente, per tutta la durata del termine di presentazione della domanda. Per evitare possibili confusioni tra le date è bene che la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e quella all’albo pretorio comunale sia prevista nella stessa data.
Sempre nella medesima data, parte il terzo obbligo che è quello di pubblicare il bando e lo schema di domanda nella sezione del sito web, denominata Amministrazione trasparente > Bandi di concorso.
Per tale sezione gli obblighi di trasparenza sono fissati nell’articolo 19, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, che testualmente recita:
Art. 19 Bandi di concorso
   1. Fermi restando gli altri obblighi di pubblicità legale, le pubbliche amministrazioni pubblicano i bandi di concorso per il reclutamento, a qualsiasi titolo, di personale presso l’amministrazione, nonché i criteri di valutazione della Commissione e le tracce delle prove scritte.
   2. Le pubbliche amministrazioni pubblicano e tengono costantemente aggiornato l’elenco dei bandi in corso.

Come si può notare, gli obblighi contenuti nel decreto Trasparenza (d.lgs. 33/2013) fanno salvi gli altri obblighi di pubblicità legale (Gazzetta e albo) e non si limitano alla pubblicazione del bando e del fac-simile di domanda, ma riguardano anche:
   • i criteri di valutazione della Commissione (spesso previsti nel regolamento dei concorsi ed eventualmente integrati dalla Commissione stessa, nella sua prima seduta);
   • le tracce delle prove scritte, intendendo sia quelle estratte per lo svolgimento delle prove, sia quelle preparate dalla Commissione e non utilizzate nella procedura concorsuale.
Con le ultime modifiche introdotte dall’articolo 18, del decreto legislativo 25.05.2016, n. 97, è stato soppresso l’obbligo di pubblicare tutti i bandi espletati nel corso dell’ultimo triennio, accompagnati dall’indicazione, per ciascuno di essi, del numero dei dipendenti assunti e delle spese sostenute per l’espletamento del concorso.
Contrariamente a quanto previsto per le commissioni di gara (si veda articolo 37, comma 1, lettera b, del d.lgs. 33/2013 e art. 29, comma 1, d.lgs. 50/2016), per i bandi di concorso non vengono previsti obblighi particolari di pubblicità circa la composizione della commissione giudicatrice, né per la pubblicazione dei curricula dei suoi componenti (10.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSullo scorrimento delle graduatorie dei concorsi pre-2019 in Corte dei conti vince il «sì».
Si possono scorrere le graduatorie dei concorsi banditi prima del 2019? Per la maggioranza delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti fin qui intervenute, tra cui in modo esplicito quella della Marche, la risposta è positiva; per i giudici contabili della Sardegna la risposta è negativa.
È questa l'ennesima occasione su cui una disposizione di legge, per la verità molto lacunosa tecnicamente, viene letta in modo differente dai giudici contabili, peraltro nell'assenza in questa occasione di indicazioni da parte dei ministeri. Il caso torna a sollevare ancora una volta la necessità di migliorare la tecnica di redazione delle leggi e di garantire omogeneità nelle interpretazioni.
Il nuovo quadro normativo
Sulla base delle disposizioni della legge di bilancio del 2019, e questo è un dato acclarato, le graduatorie dei concorsi banditi a partire dallo scorso 1° gennaio non potranno essere utilizzate per scorrimento né da parte degli enti che hanno indetto le selezioni concorsuali né da parte di altre amministrazioni.
Sulla base delle modifiche introdotte dalla legge di conversione del Dl 135/2018 le graduatorie dei concorsi banditi dal 2019 vanno comunque utilizzate per scorrimento per la sostituzione dei vincitori non assunti o decaduti o dimessi durante il periodo di validità della stessa. Con una deroga introdotta dalla legge di conversione del Dl 34/2019 il divieto di scorrimento per le assunzioni degli idonei non si applica al personale educativo e docente degli enti locali.
Il parere 06.09.2019 n. 41 della sezione regionale di controllo della Corte dei conti delle Marche (già sul Quotidiano degli enti locali e della Pa del 10 settembre) ha opportunamente aggiunto che queste graduatorie possono comunque essere utilizzate per le assunzioni del personale a tempo indeterminato, in quanto la disposizione che lo consente (articolo 36 del Dlgs 165/2001) costituisce una norma speciale e non è quindi abrogata in modo implicito delle nuove disposizioni.
Questa stessa deliberazione in modo esplicito e facendo seguito a quanto implicitamente contenuto nelle pronunce delle sezioni regionali di controllo della Puglia (parere 09.07.2019 n. 72) e del Veneto (parere 22.05.2019 n. 113) chiarisce che il legislatore non ha introdotto un divieto di scorrimento delle graduatorie a tempo indeterminato per i concorsi banditi negli anni precedenti, ma solamente per quelli banditi a partire dal 2019. Con ciò smentendo il parere 03.07.2019 n. 36 dei giudici contabili della Sardegna.
È da considerare assodato che con la legge di bilancio è stata invertita la logica che ha ispirato il legislatore negli ultimi anni, cioè il favore per lo strumento dello scorrimento delle graduatorie. Ma, punto del contrasto, questa inversione si applica solamente per i concorsi del 2019 o si estende a tutti, con l'abrogazione implicita dell'articolo 3, comma 61, della legge 350/2003?
Effetti e interpretazioni di legge
È del tutto evidente che lo scorrimento delle graduatorie abbrevia i tempi in cui si porta a conclusione un'assunzione ed è molta "comoda" per l'ente, perché evita di dovere indire e attuare un concorso e, quindi, comporta oneri finanziari e organizzativi assai contenuti. Dall'altro lato, è del tutto evidente che gli idonei non sono dei vincitori e che la possibilità di attingere senza limiti numerici, tanto più se congiunto all'allungamento dei periodi di validità delle graduatorie, possono determinare rilevanti effetti distorsivi.
L'eccessiva durata delle graduatorie è stata tolta di mezzo dalla legge di bilancio, visto che dal 1° gennaio non sono più utilizzabili le graduatorie approvate fino a tutto il 2009, dal prossimo 30 settembre non lo saranno più quelle approvate negli anni dal 2010 al 2014 ed entro pochi anni si ritorna alla validità triennale di tutte le graduatorie. Ma l'utilizzazione delle graduatorie non ha limiti numerici.
È opportuno ricordare infine, richiamando le indicazioni dei giudici contabili marchigiani, che lo scorrimento delle graduatorie, sia da parte dell'ente che ha indetto il concorso sia da parte delle altre amministrazioni, è vietato per i posti di nuova istituzione o che risultano dalla trasformazione dei posti esistenti. Un divieto che peraltro deve essere chiarito dopo che con la legge Madia il rilievo delle dotazioni organiche è stato significativamente ridimensionato.
E, ancora, si deve ricordare che la possibilità di utilizzare per scorrimento graduatorie di altri enti sulla base di intese raggiunte dopo che la loro approvazione costituisce una deroga ai principi di carattere generale, quindi da applicare in via eccezionale, e comunque le amministrazioni si devono dare meccanismi predeterminati e trasparenti di scelta delle graduatorie da utilizzare, senza ad esempio poterne sovvertire l'ordine di merito (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.09.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Graduatorie, largo agli idonei. Sì allo scorrimento per i bandi antecedenti al 2019. La Corte dei conti Marche sconfessa la sezione Sardegna.
Graduatorie, largo agli idonei Per i bandi antecedenti al 2019 è ancora possibile sia lo scorrimento delle graduatorie degli idonei, sia l'utilizzo delle graduatorie di altri enti.

Lo ha chiarito la Corte conti Marche nel parere 06.09.2019 n. 41.
In risposta ad alcuni quesiti sulla possibilità di scorrere le graduatorie, la sezione Marche della magistratura contabile si discosta, correttamente, dall'erronea interpretazione fornita dalla sezione Sardegna col parere 03.07.2019 n. 36, ammettendo che per i bandi antecedenti al 2019 sia ancora possibile sia lo scorrimento delle graduatorie degli idonei, sia l'utilizzo delle graduatorie di altri enti.
Nell'affrontare la questione della possibilità di scorrere le graduatorie degli idonei allo scopo di assumere a tempo determinato, invece, il parere della sezione Marche inciampa in evidenti equivoci. Esso afferma che «per le assunzioni a tempo determinato di idonei non vincitori di graduatorie a tempo indeterminato è possibile derogare all'obbligo di utilizzo delle graduatorie per i soli posti messi a concorso previsto dal combinato disposto dei commi 361 e 365 dell'art. 1 della legge n. 145 del 2018».
Quindi, per la sezione Marche, mentre i dipendenti a tempo indeterminato si possono assumere attingendo solo ai vincitori, al contrario i dipendenti a tempo determinato potrebbero essere assunti anche chiamando gli idonei non vincitori.
Questo perché «in sostanza, l'art. 36, comma 2, dlgs 165/2001 costituisce una normativa di carattere speciale rispetto alle previsioni della legge n. 145 del 2018, dettata da una ratio differente». La specialità di tale disposizione, secondo la magistratura contabile sarebbe «supportata non solo dalla interpretazione teleologica dell'intervento normativo che l'ha introdotta ma anche dalla stessa interpretazione letterale e sistematica della legge n. 145 del 2018, che ha abrogato solo alcune delle disposizioni contenute nel medesimo art. 4 del decreto-legge n. 101 del 2013, ma non quella modificativa dell'art. 36, comma 2, dlgs 165/2001».
Tale impianto interpretativo non regge. L'articolo 36, comma 2, penultimo periodo, del dlgs 165/2001 dispone: «Per prevenire fenomeni di precariato, le amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle disposizioni del presente articolo, sottoscrivono contratti a tempo determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato».
È vero che la disposizione citata consente di sottoscrivere i contratti a termine sia coi vincitori, sia con gli idonei. Ma, altrettanto vero è che occorra, nel nuovo regime normativo, coordinare tale disposizioni con le previsioni contenute nell'articolo 1, comma 361, della legge 145/2018, ai sensi del quale a partire dalle procedure bandite nel 2019 si possono assumere solo i vincitori e non gli idonei (ferma la possibilità di scorrere le graduatorie quando per qualsiasi ragione il rapporto di lavoro con i vincitori non si sia costituito o si sia interrotto entro la vigenza delle graduatorie).
Lo scopo dichiarato dell'articolo 36, comma 2, del dlgs 165/2001 è evitare il fenomeno del precariato. In un regime nel quale lo scorrimento delle graduatorie fino alla chiamata degli idonei è ammesso, un idoneo assunto a tempo determinato può contare su una futura assunzione a tempo indeterminato dovuta appunto allo scorrimento della graduatoria; dunque, la sua assunzione a termine attenua la «precarietà» insita in un contratto flessibile. Ma, nel nuovo regime, un idoneo non può vantare alcuna fondata aspettativa allo scorrimento della graduatoria a tempo indeterminato. Quindi, una sua assunzione con contratto a termine molto difficilmente precederebbe una successiva assunzione a tempo indeterminato.
Pertanto, la chiamata con contratto a termine di idonei di graduatorie a tempo indeterminato, esattamente all'opposto della tesi proposta dalla sezione Marche, finisce proprio per tradursi senza dubbio alcuno nella produzione di precariato pubblico, in aperta violazione della prescrizione normativa, che va vista nella combinazione tra articoli 1, comma 361, della legge 145/2018 e articolo 36, comma 2, penultimo periodo, del dlgs 165/2001, norma, quindi, da non poter in alcun modo considerare come «speciale», ma necessariamente da coordinare e integrare con le disposizioni della legge di Bilancio 2019 (articolo ItaliaOggi dell'11.09.2019).
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Con nota a firma del Sindaco del Comune di Falconara Marittima (AN), pervenuta via PEC in data 08.08.2019 per il tramite del CAL, il Comune di Falconara Marittima ha avanzato a questa Corte una richiesta di parere, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge n. 131 del 2003, concernente l’interpretazione della normativa vigente in materia di utilizzo di graduatorie concorsuali.
In particolare, l’Ente ha chiesto se:
   · alla luce della perdurante vigenza dell’art. 36, comma 2, penultimo capoverso, del decreto legislativo n. 165 del 2001, le graduatorie di concorsi, banditi successivamente al 01.01.2019 per posti a tempo indeterminato, possano essere correttamente utilizzate –nel rispetto dei limiti e vincoli delle norme contabili– per assunzioni a tempo determinato, domandando, altresì, in caso positivo, di specificare i limiti e le modalità procedurali sia nel caso di utilizzo di proprie graduatorie che di graduatorie di altri comuni;
   · alla luce delle vigenti norme, si ritiene ancora possibile l’assunzione mediante scorrimento degli idonei della graduatoria di altro ente formata a seguito di un bando pubblicato precedentemente al 01.01.2019, in quanto fuori dall’ambito applicativo della legge n. 145 del 2018.
Al riguardo, l’Ente ha chiesto l’interpretazione di specifiche disposizioni di legge, quali l’art. 1, comma 363, della legge n. 145 del 2018; l’art. 4, comma 3-ter, del decreto-legge n. 101 del 2013; l’art. 36, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, facendo presente che la propria tesi interpretativa è favorevole per entrambe le questioni.
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Nel merito
1. Normativa di riferimento
Passando a trattare il merito della questione sottoposta al vaglio della Sezione, ferma restando la normativa in materia di vincoli di spesa e di vincoli assunzionali vigenti, in merito alla quale si rinvia alla costante giurisprudenza della Corte dei conti (ex multis, Sezione regionale di controllo per la Puglia, parere 09.07.2019 n. 72, Sezione regionale di controllo per il Veneto, parere 20.12.2018 n. 548), appare opportuno effettuare un sintetico excursus della normativa in applicazione.
1.1. Il d.l. 31.08.2013, n. 101, convertito in legge 30.10.2013, n. 125, recante “Disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni”, ha introdotto, all’art. 4, una serie di disposizioni volte a consentire alle pubbliche amministrazioni di sottoscrivere contratti a tempo determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato. In particolare, il medesimo articolo:
   · ha modificato l’art. 36, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, introducendo l’ultimo periodo, ancora in vigore, che dispone: “Per prevenire fenomeni di precariato, le amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle disposizioni del presente articolo, sottoscrivono contratti a tempo determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato. È consentita l'applicazione dell'articolo 3, comma 61, terzo periodo, della legge 24.12.2003, n. 350, ferma restando la salvaguardia della posizione occupata nella graduatoria dai vincitori e dagli idonei per le assunzioni a tempo indeterminato”;
   · ha previsto, al comma 3, che “per le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le agenzie, gli enti pubblici non economici e gli enti di ricerca, l'autorizzazione all'avvio di nuove procedure concorsuali, ai sensi dell'articolo 35, comma 4, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, è subordinata alla verifica: a) dell'avvenuta immissione in servizio, nella stessa amministrazione, di tutti i vincitori collocati nelle proprie graduatorie vigenti di concorsi pubblici per assunzioni a tempo indeterminato per qualsiasi qualifica, salve comprovate non temporanee necessità organizzative adeguatamente motivate; b) dell'assenza, nella stessa amministrazione, di idonei collocati nelle proprie graduatorie vigenti e approvate a partire dal 01.01.2007, relative alle professionalità necessarie anche secondo un criterio di equivalenza”;
   · ha previsto, al comma 3-bis, che “per la copertura dei posti in organico, è comunque necessaria la previa attivazione della procedura prevista dall'articolo 33 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, in materia di trasferimento unilaterale del personale eccedentario”.
   · ha previsto, al comma 3-ter, che “resta ferma per i vincitori e gli idonei delle graduatorie di cui al comma 3 del presente articolo l'applicabilità dell'articolo 3, comma 61, terzo periodo, della legge 24.12.2003, n. 350”;
   · ha disposto, al comma 3-quater, che “l'assunzione dei vincitori e degli idonei, nelle procedure concorsuali già avviate dai soggetti di cui al comma 3 e non ancora concluse alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, è subordinata alla verifica del rispetto della condizione di cui alla lettera a) del medesimo comma”.
Fino alla legge n. 145 del 2018, gli interventi normativi hanno esteso la possibilità di utilizzo delle graduatorie concorsuali, mediante il loro scorrimento, per l’assunzione dei candidati idonei non vincitori.
In particolare, con il decreto-legge n. 101 del 2013, il legislatore ha limitato l’autorizzazione all’avvio di nuove procedure concorsuali, prevedendo preliminarmente la verifica di una serie di condizioni quali:
   a) l’avvenuta immissione in servizio, nella stessa Amministrazione, di tutti i vincitori collocati nelle proprie graduatorie vigenti di concorsi pubblici per assunzioni a tempo indeterminato per qualsiasi qualifica, salve comprovate non temporanee necessità organizzative adeguatamente motivate; e
   b) l’assenza, nella stessa Amministrazione, di idonei collocati nelle proprie graduatorie vigenti e approvate a partire dal 01.01.2007, relative alle professionalità necessarie anche secondo un criterio di equivalenza.
Oltre a ciò, lo stesso corpo normativo ha previsto ulteriori condizioni, quali la previa attivazione della procedura prevista dall’articolo 33 del decreto legislativo n. 165 del 2001, in materia di trasferimento unilaterale del personale eccedentario.
Inoltre, veniva fatta salva, per i vincitori e gli idonei delle graduatorie di cui sopra, l’applicabilità dell’articolo 3, comma 61, terzo periodo, della legge 24.12.2003, n. 350, mentre anche l’assunzione dei vincitori e degli idonei, nelle procedure concorsuali già avviate dai soggetti di cui sopra e non ancora concluse alla data di entrata in vigore della legge di conversione, veniva subordinata alla verifica del rispetto della condizione dell’avvenuta immissione in servizio, nella stessa Amministrazione, di tutti i vincitori collocati nelle proprie graduatorie vigenti di concorsi pubblici per assunzioni a tempo indeterminato per qualsiasi qualifica, salve comprovate non temporanee necessità organizzative adeguatamente motivate.
Tali prescrizioni, inizialmente dettate per le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le agenzie, gli enti pubblici non economici e gli enti di ricerca, sono state estese anche agli enti locali dall’art. 3, comma 5-ter, del decreto-legge n. 90 del 2014, secondo cui i principi dell’art. 4, comma 3, del decreto-legge n. 101 del 2013, convertito, con modifiche, dalla legge n. 114 del 2014, si applicano alle amministrazioni di cui al comma 5 del medesimo art. 3 ovvero alle regioni e agli enti sottoposti al patto di stabilità interno.
Peraltro, la giurisprudenza ha riconosciuto un “generale favor dell’ordinamento per lo scorrimento di graduatorie ancora efficaci ai fini della copertura di posti vacanti nella pianta organica” (si veda, ex multis, Sezione regionale di controllo per il Veneto, deliberazione n. 371/2018/PAR, Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria n. 14/2011, Sezione regionale di controllo per la Campania, deliberazione n. 158/2018/PAR).
In particolare, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la decisione di scorrimento della graduatoria preesistente ed efficace rappresenta ormai la regola generale, mentre l’indizione del nuovo concorso costituisce l’eccezione e richiede un’apposita e approfondita motivazione, che dia conto del sacrificio imposto ai concorrenti idonei e delle preminenti esigenze di interesse pubblico (TAR Lazio, sent. n. 3444/2012, TAR Campania, Napoli, sent. n. 366/2017, Consiglio di Stato, sent. n. 6247/2013), senza che tuttavia sia configurabile un diritto soggettivo all’assunzione in capo agli idonei per il solo fatto della disponibilità di posti in organico: infatti, l’Amministrazione deve sempre motivare le forme prescelte per il reclutamento, tenendo conto delle graduatorie vigenti e del fatto che “l’ordinamento attuale afferma un generale favore per l’utilizzazione delle graduatorie degli idonei, che recede solo in presenza di speciali discipline di settore o di particolari circostanze di fatto o di ragioni di interesse pubblico prevalenti, che devono, comunque, essere puntualmente enucleate nel provvedimento di indizione del nuovo concorso” (Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 14 del 2011).
1.2. Successivamente, il comma 363 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018 ha modificato il decreto-legge n. 101 del 2013 sopra richiamato, abrogando la lettera b) del comma 3 e i commi 3-ter e 3-quater dell’art. 4.
In particolare, i commi 360-367 della citata legge, concernenti le modalità delle procedure concorsuali per il reclutamento del personale nelle pubbliche amministrazioni, hanno ammesso l’utilizzo delle graduatorie concorsuali solo per la copertura dei posti messi a concorso e hanno modificato, in via transitoria, i termini di vigenza delle graduatorie medesime. I commi in esame riguardano tutte le pubbliche amministrazioni (di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, e successive modificazioni), con esclusione delle assunzioni del personale scolastico (ivi compresi i dirigenti) e del personale delle istituzioni di alta formazione artistica, musicale e coreutica.
In particolare, il comma 360 ha esteso a tutte le procedure concorsuali delle pubbliche amministrazioni le modalità semplificate che verranno definite con il regolamento ministeriale di cui al precedente comma 300.
I commi 361 e 365 hanno previsto, con riferimento alle procedure concorsuali bandite dopo il 01.01.2019, che le relative graduatorie siano impiegate esclusivamente per la copertura dei posti messi a concorso, fermi restando i termini di vigenza delle medesime graduatorie.
Tali termini sono stati modificati, in via transitoria, dal successivo comma 362, che ha posto termini di durata specifici a seconda dell'anno di approvazione della graduatoria, con riferimento agli anni 2010-2018, mentre è stato confermato il termine già vigente di 3 anni per le graduatorie approvate a decorrere dal 01.01.2019. E’ stata, inoltre, esplicitamente confermata la possibilità, per le leggi regionali, di stabilire periodi di vigenza inferiori.
Infine, i commi 363 e 364 hanno abrogato alcune norme, ai fini del coordinamento con i principi citati.
Come evidenziato nel recente parere 03.07.2019 n. 36 della Sezione di controllo della Corte dei conti per la regione Sardegna, i due interventi normativi hanno una ratio differente: infatti, mente il primo (decreto-legge n. 101 del 2013) si colloca in un quadro normativo da cui emerge una preferenza per l’assunzione di personale mediante lo scorrimento di graduatorie, proprie o altrui, il secondo (legge n. 145 del 2018), con le disposizioni innanzi richiamate, ha introdotto una evidente discontinuità con gli interventi normativi precedenti: infatti, la disciplina dettata dall’art. 1, comma 361, della legge n. 145 del 2018, nel prevedere che le graduatorie dei concorsi siano utilizzate “esclusivamente” per la copertura dei posti messi a concorso, impedisce l’utilizzo della medesima graduatoria per la copertura di qualsiasi altro posto diverso da quelli messi a concorso, sia esso della medesima o di altra Amministrazione.
Lo scorrimento della graduatoria viene quindi limitato, a partire dal 2019, alla sola possibilità di attingere ai candidati “idonei” per la copertura di posti che, pur essendo stati messi a concorso, non siano stati coperti o siano successivamente divenuti scoperti nel periodo di permanente efficacia della graduatoria medesima.
Come rimarcato nella deliberazione sopra richiamata, “la regola introdotta dal menzionato art. 1, comma 361, della legge n. 145/2018, pertanto, determina una inversione di tendenza nella utilizzabilità delle graduatorie di concorso, non consentendo più lo scorrimento da parte di altre amministrazioni, né da parte della medesima Amministrazione che intendesse utilizzare una propria graduatoria, ancora efficace, per la copertura di un posto diverso da quelli messi a concorso. Il successivo art. 1, comma 363, nell’abrogare alcune norme che prevedevano la possibilità di utilizzare le graduatorie di altre amministrazioni, si pone in coerenza con la volontà legislativa espressa nella nuova regola generale di cui al comma 361: da un lato, infatti, si crea uno stretto collegamento tra graduatoria e posto messo a concorso; dall’altro, coerentemente, vengono abrogate le norme che prevedevano l’utilizzo della graduatoria per la copertura di posti diversi da quelli messi a concorso” (Sezione di controllo per la Sardegna, parere 03.07.2019 n. 36).
1.3. Si evidenzia che i sopra citati commi della legge n. 145 del 2018 sono stati modificati di recente dall’articolo 9-bis, comma 1, lettera a), del decreto-legge 14.12.2018, n. 135, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 11.02.2019, n. 12, dall'articolo 14-ter, comma 2, del decreto-legge 28.01.2019, n. 4, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 28.03.2019, n. 26 e dall’articolo 33, comma 2-bis, del decreto-legge 30.04.2019, n. 34, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 28.06.2019, n. 58.
In particolare, il comma 361 è stato modificato dall’art. 14-ter del decreto-legge 28.01.2019, n. 4, che ha aggiunto, dopo le parole «a concorso», le seguenti: «nonché di quelli che si rendono disponibili, entro i limiti di efficacia temporale delle graduatorie medesime, fermo restando il numero dei posti banditi e nel rispetto dell'ordine di merito, in conseguenza della mancata costituzione o dell'avvenuta estinzione del rapporto di lavoro con i candidati dichiarati vincitori. Le graduatorie possono essere utilizzate anche per effettuare, entro i limiti percentuali stabiliti dalle disposizioni vigenti e comunque in via prioritaria rispetto alle convenzioni previste dall'articolo 11 della legge 12.03.1999, n. 68, le assunzioni obbligatorie di cui agli articoli 3 e 18 della medesima legge n. 68 del 1999, nonché quelle dei soggetti titolari del diritto al collocamento obbligatorio di cui all'articolo 1, comma 2, della legge 23.11.1998, n. 407, sebbene collocati oltre il limite dei posti ad essi riservati nel concorso».
Il Collegio osserva come il primo periodo dell’ultima parte del comma 361, aggiunta dall’art. 14-ter del decreto-legge 28.01.2019, n. 4, non introduce una deroga al principio di stretto collegamento tra graduatoria e posto messo a concorso, bensì, con un’endiadi, chiarisce il significato della locuzione “posti messi a concorso”, evidenziando come la stessa non coincida con il termine “vincitori”, comprendendo la possibilità di scorrimento delle graduatorie degli idonei nei casi in cui si verifichino vicende che possono portare alla mancata costituzione o alla estinzione anticipata del rapporto di lavoro con i candidati dichiarati vincitori.
Inoltre, a seguito delle modifiche apportate all’art. 1, comma 366, della legge n. 145 del 2018 ad opera del decreto-legge n. 34 del 2019, i commi 360, 361, 363 e 364 non si applicano alle assunzioni del personale educativo degli enti locali.
1.4. Infine, si evidenzia come il principio sancito dal comma 361 sopra citato non sia stato superato dal recente intervento normativo operato con la legge 19.06.2019, n. 56 (c.d. legge concretezza).
In particolare, l’articolo 3, comma 4, della legge 19.06.2019, n. 56 (c.d. legge concretezza), dispone che: “Al fine di ridurre i tempi di accesso al pubblico impiego, per il triennio 2019-2021, fatto salvo quanto stabilito dall’articolo 1, comma 399, della legge 30.12.2018, n. 145, le amministrazioni di cui al comma 1” ovvero le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le agenzie e gli enti pubblici non economici, “possono procedere, in deroga a quanto previsto dal primo periodo del comma 3 del presente articolo e all'articolo 30 del decreto legislativo n. 165 del 2001, nel rispetto dell'articolo 4, commi 3 e 3-bis, del decreto-legge 31.08.2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.10.2013, n. 125, nonché del piano dei fabbisogni definito secondo i criteri di cui al comma 2 del presente articolo: a) all'assunzione a tempo indeterminato di vincitori o allo scorrimento delle graduatorie vigenti, nel limite massimo dell'80 per cento delle facoltà di assunzione previste dai commi 1 e 3, per ciascun anno”.
L’art. 6 della medesima legge ha esteso l’applicazione delle disposizioni sopra richiamate anche agli enti locali, prevedendo che le stesse “recano norme di diretta attuazione dell’art. 97 della Costituzione e costituiscono principi generali dell’ordinamento” (comma 1) e che “le Regioni, anche per quanto concerne i propri enti e le amministrazioni del Servizio sanitario nazionale, e gli enti locali adeguano i propri ordinamenti alle disposizioni della presente legge” (comma 4).
Il citato art. 3, come evidenziato nella rubrica, introduce “Misure per accelerare le assunzioni mirate e il ricambio generazionale nella pubblica amministrazione", intervenendo, tra l’altro, in materia di facoltà assunzionali, di procedure per le assunzioni, nonché di concorsi pubblici e di personale in disponibilità e assunzioni delle categorie protette. In particolare, il comma 4 del medesimo articolo reca norme transitorie, intese a ridurre i tempi di accesso al pubblico impiego, in deroga alla procedura di autorizzazione di cui all’art. 4, comma 3, primo periodo, ed alle norme sulla mobilità volontaria.
Ritiene questa Sezione che, con il richiamo contenuto nell’art. 3, comma 4, lettera a), della legge. n. 56 del 2019 allo “scorrimento delle graduatorie”, il legislatore magis dixit quam voluit, poiché l’intero inciso di tale comma, più sopra riportato, “Al fine di ridurre i tempi di accesso al pubblico impiego...”, deve intendersi genericamente riferito allo snellimento delle procedure di reclutamento del personale, senza alcun intento di ripristinare la persistente valenza delle graduatorie pregresse.
A riprova di tale assunto, la citata legge n. 56 del 2019 ha espressamente derogato alle sole disposizioni riferentesi al preventivo espletamento delle procedure di mobilità e non anche alle più volte menzionate disposizioni della legge n. 145 del 2018 che hanno escluso (con la decorrenza che più innanzi sarà specificata) lo scorrimento delle graduatorie per le assunzioni a tempo indeterminato.
In ragione di tale conclusione, il parere può essere reso nei termini prospettati dalla richiedente Amministrazione.
2. L’utilizzo, per assunzioni a tempo determinato, di graduatorie di concorsi per posti a tempo indeterminato e l’art. 36, comma 2, del d.lgs. 165/2001.
2.1. La legge n. 145 del 2018 stabilisce, dunque, un obbligo in capo alle amministrazioni pubbliche ai sensi dell'art. 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001 sulle modalità di utilizzo delle graduatorie di concorso per il reclutamento del proprio personale: attraverso la previsione dell'utilizzabilità delle graduatorie “esclusivamente per la copertura dei posti messi a concorso”, infatti, viene sostanzialmente eliminata tanto la possibilità di operare uno scorrimento delle graduatorie -nel periodo di vigenza delle stesse- per far fronte alla copertura di posti che si rendessero vacanti successivamente all'indizione del concorso, quanto la possibilità di utilizzo delle graduatorie -nel periodo di vigenza delle stesse- per la copertura di posti necessari ad altro Ente.
Il Collegio ritiene, tuttavia, che tale principio non possa trovare applicazione per le assunzioni a tempo determinato.
Il citato comma 363 dell'art. 1, infatti, ha abrogato alcune disposizioni dell'art. 4 del decreto-legge n. 101 del 2013, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge n. 125 del 2013, che permettevano lo scorrimento delle graduatorie e l'utilizzo di graduatorie di concorsi banditi da altre pubbliche amministrazioni, al fine di rendere operativo l'obbligo di cui al precedente comma 361.
La disposizione in esame, al contempo, non ha abrogato il comma 1 dell'art. 4 del richiamato decreto-legge n. 101 del 2013, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 125 del 2013.
In particolare, l’art. 4, comma 1, del decreto-legge n. 101 del 2013 ha modificato l’art. 36, comma 2, del decreto legislativo n. 165/2001, prescrivendo l'obbligo per tutte le pubbliche amministrazioni, al fine di prevenire fenomeni di precariato, di procedere ad assunzioni a tempo determinato di vincitori e idonei collocati nelle graduatorie vigenti per concorsi a tempo indeterminato, proprie o approvate da altre amministrazioni, previo accordo con le stesse. Con riferimento all’utilizzo di graduatorie di altri enti, lo stesso art. 36, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001 afferma che “È consentita l'applicazione dell'articolo 3, comma 61, terzo periodo, della legge 24.12.2003, n. 350, ferma restando la salvaguardia della posizione occupata nella graduatoria dai vincitori e dagli idonei per le assunzioni a tempo indeterminato”.
La giurisprudenza della Corte dei conti ha più volte evidenziato come la disposizione citata, contenuta nell’art. 36, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, come modificato dall’art. 4, comma 1, decreto-legge n. 101 del 2013, si collochi nell’ambito di una serie di disposizioni volte a limitare la possibilità per gli enti locali di utilizzare contratti di lavoro flessibile, in particolare, il tempo determinato, ribadendo che la regola generale per assumere è il contratto a tempo indeterminato, quale strumento ordinario per far fronte al fabbisogno di personale, mentre le assunzioni a tempo determinato possono avvenire soltanto per esigenze di carattere "esclusivamente" temporaneo o eccezionale.
In particolare, è stato affermato come la disposizione sopra richiamata “introduce un evidente favor per i contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, da utilizzare per dare risposta ai fabbisogni ordinari ed alle esigenze di carattere duraturo, nel rispetto delle norme contrattuali e della disciplina di settore. Al contempo, relega le forme contrattuali flessibili all’esclusivo soddisfacimento di esigenze di carattere temporaneo o eccezionale” (cfr. Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Campania, n. 31/2017/PAR).
In tale quadro normativo si colloca la disposizione contenuta nel medesimo art. 36, comma 2, che, sempre nell'ottica di restringere la possibilità di ricorso a forme di lavoro flessibile, ha previsto la possibilità per le p.a., “al fine di prevenire il precariato”, di sottoscrivere contratti a tempo determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato. L'intento del legislatore è, quindi, quello di evitare, attraverso l’assunzione con contratti a tempo determinato di vincitori di concorsi per posti a tempo indeterminato, la creazione dei presupposti del precariato.
Infatti, il Dipartimento della Funzione pubblica, con la circolare n. 5/2013, ha chiarito che il lavoratore, che si trova all'interno di una graduatoria a tempo indeterminato, nel caso in cui sia assunto con contratto a termine potrà poi “essere assunto con rapporto di lavoro a tempo indeterminato senza necessità di altre procedure”, una volta verificate le condizioni per l'assunzione definitiva in ruolo.
Pertanto, per le assunzioni a tempo determinato di idonei non vincitori di graduatorie a tempo indeterminato è possibile derogare all'obbligo di utilizzo delle graduatorie per i soli posti messi a concorso previsto dal combinato disposto dei commi 361 e 365 dell'art. 1 della legge n. 145 del 2018.
In sostanza, l’art. 36, comma 2, d.lgs. 165/2001 costituisce una normativa di carattere speciale rispetto alle previsioni della legge n. 145 del 2018, dettata da una ratio differente. Peraltro, come già sopra evidenziato, la specialità di tale disposizione è supportata non solo dalla interpretazione teleologica dell’intervento normativo che l’ha introdotta ma anche dalla stessa interpretazione letterale e sistematica della legge n. 145 del 2018, che ha abrogato solo alcune delle disposizioni contenute nel medesimo art. 4 del decreto-legge n. 101 del 2013, ma non quella modificativa dell’art. 36, comma 2, d.lgs. 165/2001.
2.2. L’Ente ha chiesto, altresì, di indicare i limiti e le modalità procedurali sia nel caso di utilizzo di proprie graduatorie sia nel caso di (eventuale) utilizzo di graduatorie di altri comuni.
Per quanto riguarda i limiti allo scorrimento di graduatorie, si rinvia alla costante giurisprudenza della Corte dei conti, che si è pronunciata più volte sulla necessità che i posti da coprire non siano di nuova istituzione o trasformazione ai sensi dell’art. 91, comma 4, d.lgs. 267/2001 e sulla identità di posti tra quello oggetto della procedura che ha dato luogo alla graduatoria e la nuova esigenza assunzionale (ex multis, Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Puglia, deliberazione n. 72 del 2019 e la giurisprudenza ivi richiamata), nonché, nel caso di utilizzo di graduatorie di altri Enti, sulle condizioni del “previo accordo” tra le amministrazioni interessate (sul punto si rinvia al par. 4).
Relativamente alle modalità procedurali nel caso di utilizzo di graduatorie proprie e di altri comuni, si rammenta che tale decisione esula dalla funzione consultiva della Corte dei conti, concernente l’esame da un punto di vista astratto e su temi di carattere generale.
Pertanto, la decisione relativa alle modalità procedurali non può che essere rimessa alla valutazione dell’Ente, rientrando nella sfera di competenza amministrativa del singolo Comune e nella discrezionalità e responsabilità diretta degli organi di governo, fermo restando il rispetto dei principi di trasparenza ed imparzialità che devono ispirare le suddette procedure.
3. L’utilizzo, per assunzioni a tempo indeterminato, di graduatorie di concorsi per posti a tempo indeterminato e l’ambito di applicazione della legge n. 145 del 2018
3.1. Il secondo quesito riguarda la possibilità di attingere a graduatorie di altre amministrazioni per posti a tempo indeterminato. In particolare, l’Ente ha chiesto se sia ancora possibile l’assunzione mediante scorrimento degli idonei della graduatoria di altro Ente formata a seguito di un bando pubblicato precedentemente al 01.01.2019, in quanto fuori dall’ambito applicativo della richiamata legge n. 145 del 2018.
A tale riguardo, il Collegio evidenzia come
per i concorsi banditi successivamente al 01.01.2019, data di entrata in vigore della legge n. 145 del 2018, l’assunzione mediante scorrimento degli idonei della graduatoria di altro Ente non sia possibile né per le graduatorie proprie né per quelle di altro Ente (cfr. Sezione regionale di controllo per la Sardegna, parere 03.07.2019 n. 36).
Infatti, il citato comma 361 della legge n. 145 del 2018 ha eliminato sia la possibilità di operare lo scorrimento delle graduatorie per far fronte alla copertura di posti che si rendessero vacanti successivamente all’indizione del concorso sia la possibilità di utilizzo delle graduatorie per la copertura di posti necessari ad altro Ente.
Al contrario,
per i concorsi banditi antecedentemente al 31.12.2018, il Collegio ritiene che non si possa affermare lo stesso principio, dal momento che l'art. 1, comma 365, dispone che “la previsione di cui al comma 361 si applica alle graduatorie delle procedure concorsuali bandite successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge”.
3.2. Come sopra esposto, il principio sancito dal comma 361 citato è stato mitigato dall’art. 14-ter del decreto-legge 28.01.2019, n. 4 (si veda par. 1.3).
4. L’assunzione mediante scorrimento degli idonei della graduatoria di altro Ente
4.1. Le fattispecie su cui l’Ente ha richiesto il parere si pongono, quindi, al di fuori dell’ambito applicativo della legge n. 145 del 2018: la prima in quanto trattasi di utilizzo di graduatorie di concorsi a tempo indeterminato per assunzioni a tempo determinato, per il quale si applica la normativa speciale dettata dall’art. 36, comma 2, d.lgs. 165/2001; la seconda in quanto trattasi di utilizzo, per assunzioni a tempo indeterminato, di graduatorie di procedure concorsuali a tempo indeterminato, bandite prima del 01.01.2019, per le quali, ai sensi del comma 365, non è applicabile il comma 361.
In entrambi i casi, trattandosi appunto di fattispecie non rientranti nell’ambito applicativo della legge n. 145 del 2018, si impone una precisazione per quanto concerne l’utilizzo di graduatorie di altri enti.
Come già sopra evidenziato, con riferimento alla prima fattispecie, lo stesso art. 36, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001 consente l’utilizzo di graduatorie di altri enti, richiamando l’art. 3, comma 61, terzo periodo, della legge n. 350 del 2003.
Con riferimento alla seconda fattispecie, il comma 363 della legge n. 145 del 2018 ha abrogato alcune disposizioni contenute nel decreto-legge n. 101 del 2013, ovvero l’art. 1, lettera b), del comma 3 e i commi 3-ter e 3-quater dell’art. 4.
In particolare, l’art. 3, comma 3-ter, prevedeva che “resta ferma per i vincitori e gli idonei delle graduatorie di cui al comma 3 del presente articolo l'applicabilità dell'articolo 3, comma 61, terzo periodo, della legge 24.12.2003, n. 350”. Il comma citato è stato abrogato a decorrere dal 01.01.2019.
Tuttavia, la legge n. 145 del 2018 non ha abrogato l’articolo 3, comma 61, terzo periodo, della legge n. 350 del 2003, che dispone: “In attesa dell'emanazione del regolamento di cui all'articolo 9 della legge 16.01.2003, n. 3, le amministrazioni pubbliche ivi contemplate, nel rispetto delle limitazioni e delle procedure di cui ai commi da 53 a 71, possono effettuare assunzioni anche utilizzando le graduatorie di pubblici concorsi approvate da altre amministrazioni, previo accordo tra le amministrazioni interessate”.
La sezione Sardegna, con parere 03.07.2019 n. 36, ha affermato che
non è possibile procedere allo scorrimento di graduatoria concorsuale formata da altro Ente pubblico, per l’assunzione di personale a tempo indeterminato, evidenziando come l’art. 3, comma 61, sebbene non espressamente abrogato dalla legge n. 145 del 2018, risulterebbe implicitamente abrogato in quanto incompatibile con la nuova regola generale di cui al comma 361 della legge n. 145 del 2018.
Il Collegio evidenzia, a tale riguardo, come
tale principio si possa applicare solo ai casi rientranti nell’ambito applicativo della legge n. 145 del 2018, ossia alle graduatorie delle procedure concorsuali bandite successivamente al 01.01.2019, per espressa previsione normativa (comma 365). Di conseguenza, l’art. 3, comma 61, della legge n. 350 del 2003 risulterebbe inapplicabile solo per dette graduatorie.
Tale soluzione interpretativa è avallata dall’interpretazione letterale delle disposizioni contenute nella legge n. 145 del 2018, nonché dalla stessa ratio dell’intervento normativo: infatti,
la legge n. 145 del 2018 prevede che le graduatorie dei concorsi siano utilizzate “esclusivamente” per la copertura dei posti messi a concorso, impedendo, per le graduatorie delle procedure concorsuali bandite successivamente alla data di entrata in vigore della medesima legge, l’utilizzo della graduatoria per la copertura di qualsiasi altro posto diverso da quelli messi a concorso, sia esso della medesima o di altra Amministrazione. Il principio espresso nel comma 361 ha uno specifico ambito applicativo, anche dal punto di vista temporale (comma 365), e non può che valere a prescindere da quale Amministrazione utilizzi la graduatoria, stante la generalità della previsione, che si riferisce all’utilizzo di graduatorie in generale.
Inoltre, il Collegio,
a conferma della perdurante vigenza dell’art. 3, comma 61, della legge n. 350 del 2003, evidenzia come lo stesso sia tuttora citato in diverse disposizioni (art. 36, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001; art. 1, comma 100, della legge n. 311 del 2004; art. 9, comma 4-bis, del decreto-legge n. 78 del 2010); pertanto, tale articolo non risulterebbe inapplicabile in ogni caso, ma solo con riguardo alle fattispecie rientranti nel perimetro applicativo della legge n. 145 del 2018, in quanto non compatibile con la ratio del revirement normativo, risultando invece applicabile ai casi che si collocano al di fuori di esso (assunzioni a tempo determinato e assunzioni a tempo indeterminato in caso di utilizzo di graduatorie di bandi pubblicati prima del 01.01.2019).
4.2. Con specifico riferimento all’utilizzo di graduatorie di altri Enti, si evidenzia come le Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti si siano più volte pronunciate sulla interpretazione del requisito normativo del “previo accordo” tra le amministrazioni interessate, necessario per la legittimità dell’assunzione del candidato idoneo in una graduatoria di concorso bandito da altro Ente, ai sensi dell’art. 3, comma 61, della legge n. 350 del 2003, affermando come tale previsione debba necessariamente raccordarsi con la previsione contenuta nell’art. 91, comma 4, del decreto legislativo n. 267 del 2001.
A tale riguardo, con deliberazione n. 3/2019/PAR, la Sezione regionale di controllo per il Piemonte ha affermato che “se l’utilizzo delle proprie graduatorie è escluso per i posti istituiti o trasformati dopo l’indizione del concorso da parte dello stesso ente, è evidente che tale limite vale anche per l’utilizzo delle altrui graduatorie” (cfr. anche Sezione regionale di controllo per l’Umbria, deliberazione n. 28/2018/PAR e Sezione regionale di controllo per il Piemonte, n. 114/2018).
Peraltro, è stato evidenziato come tale accordo con le altre Amministrazioni interessate, sebbene la normativa non lo imponga, dovrebbe, per ragioni di trasparenza, precedere l’indizione del concorso del diverso Ente o l’approvazione della graduatoria.
In tal senso, la Sezione regionale di controllo per l’Umbria, con deliberazione n. 124/2013, ha affermato che ciò che rileva è che “l’accordo stesso, che comunque deve intervenire prima dell’utilizzazione della graduatoria, si inserisca in un chiaro e trasparente procedimento di corretto esercizio del potere di utilizzare graduatorie concorsuali di altri Enti, così da escludere ogni arbitrio e/o irragionevolezza e, segnatamente, la violazione delle cennate regole di “concorsualità” per l’accesso ai pubblici uffici” (cfr. anche Sezione regionale di controllo per il Veneto, deliberazioni nn. 189/2018 e 371/2018, che si sofferma anche sugli altri requisiti richiesti dall’ordinamento ai fini del corretto e legittimo utilizzo della graduatoria di altro Ente) (Corte dei Conti, Sez. controllo Marche, parere 06.09.2019 n. 41).

agosto 2019

PUBBLICO IMPIEGO: Responsabilità oggettiva e onere della prova del lavoratore.
L’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ciò in quanto la responsabilità del datore di lavoro deve essere collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento.
Da tale principio deriva che incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 01.08.2019 n. 1808 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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II) In via preliminare va affermata la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione alla controversia di cui è causa.
A margine del rilievo della non pertinenza delle pronunce giurisprudenziali citate dalla ricorrente a sostegno della propria deduzione in ordine al difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, e non volendo il Collegio soffermarsi sulla violazione del canone di buona fede processuale, concretatasi nel caso di specie con il venire contra factum proprium, avendo la ricorrente adito sua sponte il giudice amministrativo, va rilevato che nessun dubbio sussiste in ordine alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, trattandosi di controversia attinente al pubblico impiego di personale non contrattualizzato, ai sensi del combinato disposto di cui all’art. 133, comma 1, lett. i), c.p.a. e all’art. 3 del D.lgs. 165/2001.
In tale ipotesi la giurisdizione si estende anche alla cognizione delle azioni inerenti il risarcimento del danno derivante dal cosiddetto mobbing a condizione che l'azione proposta possa qualificarsi in termini di responsabilità contrattuale per violazione dell'obbligo di garanzia imposto dall'art. 2087 c.c. (Cons. Stato Sez. VI, 20.06.2012, n. 3584) nel caso di comportamenti vessatori adottati nell'esercizio del potere di supremazia gerarchica posto a regolazione dello svolgimento del rapporto di lavoro (Consiglio di Stato, sez. IV, 26/11/2015, n. 5371) e da ricondurre specificamente al rapporto di servizio.
Ora, secondo la prospettazione della ricorrente le condotte dell'Amministrazione che avrebbero determinato il danno asseritamente subito sarebbero proprio riconducibili al rapporto di servizio.
Va comunque in proposito precisato che nessuna rilevanza può avere ai fini del riparto di giurisdizione la vicenda (distinta) riguardante l’accertamento della dipendenza da causa di servizio della patologia riscontrata, che, come si dirà meglio in seguito, neppure rileva sotto il profilo di merito della presente controversia.
Le questioni riguardanti la pensione privilegiata, di cui la ricorrente ha interessato la competente sezione regionale della Corte dei Conti, hanno natura nettamente differente dalla domanda avanzata con il ricorso introduttivo.
Deve dunque affermarsi la giurisdizione di questo Tribunale.
III) Venendo al merito della controversia, come appena rilevato, va innanzi tutto osservato che non può trarsi alcun elemento di fondatezza della domanda risarcitoria avanzata nella presente sede dall’avvenuto accertamento della dipendenza da causa di servizio della patologia riscontrata alla ricorrente.
Come condivisibilmente argomentato dalla difesa dell’Amministrazione non può esserci un’automatica trasposizione sul piano della responsabilità datoriale dell’accertata inidoneità al servizio attivo.
Ed invero al fine di ritenere sussistente la fattispecie del mobbing occorrono elementi che, nel procedimento volto ad accertare la dipendenza da causa di servizio di una certa patologia, non vengono minimamente considerati, quale, in particolare, l’intento persecutorio.
Sotto tale profilo risultano del tutto irrilevanti e non pertinenti le argomentazioni sviluppate dalla difesa della ricorrente nelle 39 pagine della memoria depositata per l’udienza pubblica (e dei 209 documenti), prevalentemente incentrate sul procedimento per il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio con digressioni varie sulla natura del Comitato di verifica per le cause di servizio, che, evidentemente non sono conducenti in relazione alla vicenda di cui è causa.
La giurisprudenza ha avuto modo di osservare che la riconosciuta dipendenza delle malattie da una "causa di servizio" non implica necessariamente, o può far presumere, che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell'ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento dell'organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori dall'ambito dell'art. 2087 c.c., che riguarda una responsabilità ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici (Consiglio di Stato sez. VI, 12.03.2015, n. 1282; Cassazione civile sez. lav., 29.01.2013, n. 2038).
Ciò chiarito, ad avviso del Collegio il ricorso non è meritevole di accoglimento.
Va premesso, in via teorica e generale, che in relazione al mobbing, fattispecie priva di definizione normativa, sono stati elaborati dalla giurisprudenza alcuni principi, con specifica attinenza al rapporto di pubblico impiego, per delinearne gli elementi costitutivi.
Il mobbing c.d. verticale, nel rapporto di impiego pubblico, si sostanzia in una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del dipendente nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del medesimo dipendente, tale da provocare un effetto lesivo della sua salute psicofisica (TAR Milano sez. III, 02.02.2018, n. 310; Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.03.2015, n. 1282).
Pertanto, ai fini della configurabilità della condotta lesiva da mobbing, va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, di seguito indicati (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 16.04.2015, n. 1945; Cass. civ., sez. lav., 19.02.2016, n. 3291; id., 16.03.2016, n. 5230):
   a) la molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico o prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio;
   b) l'evento lesivo della salute psicofisica del dipendente;
   c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore;
   d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio.
La sussistenza di condotte mobbizzanti deve essere qualificata dall'accertamento di precipue finalità persecutorie o discriminatorie, poiché proprio l'elemento soggettivo finalistico consente di cogliere in uno o più provvedimenti e comportamenti, o anche in una sequenza frammista di provvedimenti e comportamenti, quel disegno unitario teso alla dequalificazione, svalutazione od emarginazione del lavoratore pubblico dal contesto organizzativo nel quale è inserito, che è imprescindibile ai fini della concretizzazione del mobbing (cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 14.05.2015, n. 2412).
Conseguentemente un singolo atto illegittimo o anche più atti illegittimi di gestione del rapporto in danno del lavoratore, non sono, di per sé soli, sintomatici della presenza di un comportamento mobbizzante (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16.04.2015, n. 1945).
Sul piano processuale, la condotta che dà luogo a mobbing deve essere allegata nei suoi elementi essenziali dal lavoratore, che non può limitarsi davanti al giudice a dolersi genericamente di essere vittima di un illecito, ovvero ad allegare l'esistenza di specifici atti illegittimi, ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice, eventualmente, anche attraverso l'esercizio dei suoi poteri ufficiosi, possa verificare la sussistenza, nei suoi confronti, di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione.
La ricorrenza del mobbing deve essere, dunque, esclusa tutte le volte che la valutazione complessiva dell'insieme delle circostanze addotte (ed accertate nella loro materialità), pur se idonea a palesare, singulatim, elementi od episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere esorbitante ed unitariamente persecutorio e discriminante del complesso di condotte poste in essere (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.09.2015, n. 4394).
Applicando al caso di specie le suddette coordinate ermeneutiche, ad avviso del Collegio non risultano provati gli elementi che integrano la fattispecie risarcitoria da mobbing, dovendosi rammentare che nel giudizio risarcitorio che si svolge davanti al giudice amministrativo, nel rispetto del principio generale sancito dal combinato disposto degli artt. 2697 c.c. (secondo cui chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda) e 63, co. 1 e 64, co. 1, c.p.a. (secondo cui l'onere della prova grava sulle parti che devono fornire i relativi elementi di fatto di cui hanno la piena disponibilità), non può avere ingresso il c.d. metodo acquisitivo tipico del processo impugnatorio; pertanto, il ricorrente che chiede il risarcimento del danno deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda (Consiglio di Stato, sez. VI, 28.01.2016, n. 284).
In particolare nel caso di specie non risulta assolto l'onere probatorio da parte della ricorrente in relazione né al profilo oggettivo della condotta illecita né a quello soggettivo.
Quanto alla condotta illecita sotto un profilo oggettivo la ricorrente si è limitata ad elencare una serie di episodi che appaiono pacificamente riconducibili alle ordinarie dinamiche, talvolta anche conflittuali, nell’ambito del rapporto di impiego. Ed invero il non gradimento da parte del dipendente delle scelte organizzative dell’Amministrazione, che incidono sulla sua posizione lavorativa, non può essere ascritto ad una ipotesi di mobbing.
In termini generali va osservato che molti degli episodi riferiti sono riconducibili a fisiologiche conflittualità tra subordinati e superiori gerarchici, particolarmente esasperati in un ambiente, quale quello militare, in cui il principio della superiorità gerarchica permea profondamente la disciplina del rapporto di servizio.
Altri episodi sono invece riconducibili ad atti organizzativi assunti tenendo conto delle fisiologiche carenze di personale che affliggono tale settore del pubblico impiego.
A prescindere dal fatto che l’Amministrazione nella propria memoria fornisce una ricostruzione differente degli stessi episodi, i quali dunque risultano contestati nella loro dimensione fenomenologica, va osservato che nell’atto introduttivo del giudizio in relazione a tali episodi non è stata neppure individuata la violazione da parte dell'Amministrazione degli specifici obblighi inerenti al rapporto di impiego, essendosi limitata la ricorrente a generiche e non contestualizzate affermazioni sul mobbing, nonché a lati riferimenti giurisprudenziali sulla fattispecie.
Va in proposito ricordato che "l'art. 2087 c.c. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi" (Cassazione sez. lav. 29.01.2013, n. 2038).
Quanto al profilo soggettivo della condotta illecita, l’individuazione dell’intento persecutorio, che deve costituire il filo conduttore dei diversi episodi ritenuti mobbizzanti, è dalla ricorrente meramente affermata ma lungi dall’essere dimostrata. Ciò anche alla luce di quanto rilevato in relazione agli episodi riferiti, che non sembrano di per sé rivelare alcun intento persecutorio o di un disegno unitario dell’Amministrazione volto alla emarginazione o alla persecuzione della dipendente.
L’intento persecutorio imputato all’Amministrazione risulta quindi frutto di personale convincimento della ricorrente, che tuttavia non risulta supportato da alcuna concreta ed idonea dimostrazione.
Il lavoratore "non può limitarsi davanti al giudice a genericamente dolersi di esser vittima di un illecito (ovvero ad allegare l'esistenza di specifici atti illegittimi), ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice amministrativo possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione" (Cons. Stato, sez. IV, 06.08.2013, n. 4135; idem 12.03.2012, n. 1388).
In conclusione, per le ragioni che precedono, il ricorso non è meritevole di accoglimento e deve essere rigettato.

luglio 2019

INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Danno erariale al segretario comunale che autorizza l'incarico professionale esterno a un dipendente dell'Ente.
I dipendenti della Pa a tempo parziale -che svolgono un orario lavorativo non superiore alle 18 ore settimanali- possono essere autorizzati dall'ente di appartenenza anche a svolgere altra attività lavorativa, inclusa quella professionale a partita Iva. Tuttavia, l'amministrazione non può conferire un incarico professionale esterno al medesimo dipendente.
Queste sono in sintesi le conclusioni della Corte dei conti - Sez. giurisdiz. Puglia (sentenza 31.07.2019 n. 501) che ha condannato per danno erariale in solido il responsabile del servizio finanziario e il segretario comunale che ha autorizzato l'incarico esterno di resistenza nei giudizi tributari al medesimo responsabile del servizio finanziario e dei tributi.
La vicenda
Il commissario straordinario di un Comune di modeste dimensioni aveva attivato le procedure di recupero delle somme indebitamente corrisposte al responsabile finanziario e dei tributi per l'incarico professionale di resistenza in giudizio davanti alle commissioni tributarie.
In considerazione del mancato versamento degli importi, la Procura della Corte dei conti ha chiamato a rispondere di danno erariale sia il segretario comunale, per aver espresso parere favorevole all'incarico professionale al dipendente, sia il responsabile finanziario e dei tributi che, pur a conoscenza della normativa, ha formalizzato e ricevuto le parcelle professionali.
Nel caso di specie, la Procura ha contestato un reale conflitto tra le due posizioni assunte dal medesimo soggetto, in quanto l'attività di recupero tributario, non può che rientrare nelle funzioni istituzionali dell'ente e del responsabile del settore preposto e, qualora esternalizzato, non può essere affidato allo stesso soggetto che svolge, all'interno, le funzioni di responsabile del servizio.
La difesa dei convenuti
Nelle memorie di costituzione in giudizio è stato rilevato come il responsabile finanziario fosse un dipendente in part-time, con orario non superiore alla metà del tempo pieno, autorizzato dall'ente a svolgere attività professionale esterna.
La disposizione legislativa -articolo 11, comma 3, Dlgs 546/1992– prevede espressamente che «L'ente locale nei cui confronti è proposto il ricorso può stare in giudizio anche mediante il dirigente dell'ufficio tributi …», mentre l'articolo 15, comma 2-bis, dispone che «Nella liquidazione delle spese a favore dell'ente impositore, dell'agente della riscossione e dei soggetti iscritti nell'albo di cui all'articolo 53 del decreto legislativo 15.12.1997, n. 446, se assistiti da propri funzionari, si applicano le disposizioni per la liquidazione del compenso spettante agli avvocati, con la riduzione del venti per cento dell'importo complessivo ivi previsto».
La decisione del collegio contabile
I giudici contabili pugliesi oltre a ritenere fondate le conclusioni cui è giunto il Pm contabile, di un reale conflitto tra le due posizioni assunte dal responsabile finanziario -da un lato resistente in giudizio in quanto dirigente dell'ufficio tributi e dall'altro lato in qualità di libero professionista- hanno anche accertato l'inconsistenza del pagamento previsto dalla normativa.
L'Aran ha, infatti, da sempre chiarito che, per l'attività di difesa avanti alle Commissioni tributarie, ai funzionari può essere riconosciuta un'integrazione dell'indennità di risultato oppure una diversa forma di incentivazione, a condizione che sussista al riguardo uno specifico intervento di regolazione nell'ambito della contrattazione integrativa.
Nel caso di specie, ha precisato il collegio contabile, non c'è stato alcun iter contrattuale per forme integrative di incentivi al personale, bensì l'affidamento al dirigente responsabile del settore finanziario di due incarichi esterni di rappresentanza del Comune davanti alle commissioni tributarie, in palese violazione di legge.
Inoltre, stante la consapevolezza dei convenuti di tenere un comportamento vietato dalla legge, si rientra nell'ipotesi di dolo con conseguente responsabilità solidale dei convenuti al pagamento delle somme indebitamente corrisposta al responsabile finanziario (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.08.2019).
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MASSIMA
Il thema decidendum del presente giudizio riguarda l’accertamento della responsabilità dei convenuti –in qualità di dipendenti del Comune di Roseto Valfortore- per il danno patrimoniale, asseritamente arrecato all’ente, in conseguenza dell’indebito affidamento di incarico professionale al responsabile del settore finanziario dott. MI., in difetto dei presupposti di legge.
...
2. Nel merito, la domanda è fondata.
Occorre premettere che
l’obbligo della pubblica amministrazione di provvedere ai compiti istituzionali con la propria organizzazione e con il proprio personale, costituisce regola fondamentale dell’ordinamento, codificata da specifiche disposizioni di legge.
In particolare, l’art. 24, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, recependo quanto già previsto dal d.lgs. n. 29 del 1993, ha rafforzato il principio di onnicomprensività della retribuzione dei dirigenti delle pubbliche amministrazioni, stabilendo che il trattamento economico contrattualmente determinato remunera tutte le funzioni e i compiti loro attribuiti, nonché qualsiasi incarico ad essi conferito in ragione del loro ufficio o, comunque, conferito dall’Amministrazione presso cui prestano servizio o su designazione della stessa.
Pertanto, risulta in primo luogo violato il principio di onnicomprensività della retribuzione, svolgendo il Mi. l’incarico di dirigente a tempo determinato ex art. 110, comma 2, del d.lgs n. 267 de 2000.
Egli, seppure in regime di part-time, svolgeva le funzioni di responsabile del settore finanziario e, come tale, era responsabile anche della gestione dei tributi, ivi compresa, appunto, tutta l'attività relativa al loro recupero.
Invero, in quanto titolare di posizione organizzativa, al Mi. era già attribuita l'indennità di posizione, l'indennità di risultato e la specifica indennità ad personam prevista dall'art. 110, comma 3, del d.lgs. n. 267 del 2000, oltre ad un rimborso spese di viaggio per raggiungere la sede di servizio (deliberazione della Giunta comunale n. 116 del 13.11.2002).
In merito alle attività attribuite alla responsabilità dell’odierno convenuto, inoltre, il decreto del Sindaco del Comune di Roseto Valfortore, n. 5912 del 13.11.2002 dispone espressamente che il dott. Mi. dal 01.01.2003 veniva chiamato o svolgere le funzioni di responsabile del Settore economico–finanziario, “comprendente tutti servizi economico e finanziari esemplificativamente riferiti a: ….tributi ed entrate patrimoniali (gestione di tutte le fasi compreso controllo riscossioni in concessione)”.
Di conseguenza, la rappresentanza dell’ente avanti alle Commissioni tributarie rientrava appieno tra i compiti istituzionali affidati al Mi., con ciò smentendo tutte le eccezioni opposte dai convenuti circa la legittimità dell’affidamento dell’incarico professionale. Né vi è prova che l’Amministrazione non fosse in grado di provvedervi per l’eccessivo carico di lavoro, meramente enunciato dal Mi..
Al riguardo, l'art. 11, comma 3, del D.Lgs 546/1992, come modificato dall'art. 3-bis del D.L. 31.03.2005, n. 44 prevede espressamente che "L'ente locale nei cui confronti è proposto il ricorso può stare in giudizio anche mediante il dirigente dell'ufficio tributi, ovvero, per gli enti locali privi di figura dirigenziale, mediante il titolare della posizione organizzativa in cui è collocato detto ufficio".
Il Procuratore regionale, pertanto, ha correttamente contestato agli odierni convenuti un reale conflitto tra le due posizioni assunte dal medesimo soggetto (art. 6, comma 2, d.p.c.m. 117/1989). In particolare, l’attore pubblico ha osservato che l’attività di recupero dell'ICI, non può che rientrare nelle funzioni istituzionali dell'ente e del responsabile del settore preposto e, qualora esternalizzato, non può essere affidato allo stesso soggetto che svolge, all'interno, le funzioni di responsabile del servizio.
Il Collegio non può che condividere tale assunto.
Per l’attività in questione, al dirigente non spettava alcun compenso.
Priva di pregio appare, al riguardo l’eccezione opposta da parte convenuta secondo cui il compenso sarebbe comunque spettato al Mi. ex art. 15, comma 2-bis (ora comma 2-sexies) del d.lgs n. 546 del 1992 che dispone “Nella liquidazione delle spese a favore dell'ente impositore, dell'agente della riscossione e dei soggetti iscritti nell'albo di cui all'articolo 53 del decreto legislativo 15.12.1997, n. 446, se assistiti da propri funzionari, si applicano le disposizioni per la liquidazione del compenso spettante agli avvocati, con la riduzione del venti per cento dell'importo complessivo ivi previsto”.
Non vi è dubbio, infatti, che la liquidazione delle spese di difesa avviene nei confronti dell’Amministrazione, risultata vittoriosa nel giudizio tributario, e non già nei confronti del soggetto che la rappresenta. Sulla questione, l'ARAN (RAL 1660) ha chiarito che, per l’attività di difesa avanti alle Commissioni tributarie, ai funzionari può essere riconosciuta un’integrazione dell'indennità di risultato oppure una diversa forma di incentivazione, a condizione che sussista al riguardo uno specifico intervento di regolazione nell’ambito della contrattazione integrativa.
Nel caso di specie, non vi è stata alcun iter contrattuale per forme integrative di incentivi al personale, bensì vi è stato l’affidamento al dirigente responsabile del settore finanziario di due incarichi esterni di rappresentanza del Comune avanti alle Commissioni tributarie, in palese violazione di legge.
Sicché
il compenso che è stato erogato al Mi., nella veste di professionista esterno, rappresenta certamente un’indebita spesa sostenuta dal Comune.
Il danno risarcibile ammonta a complessivi euro 163.991,74.
Responsabili in solido di tale indebita spesa risultano entrambi i convenuti a titolo di dolo. Al riguardo, occorre chiarire che,
nel processo contabile, per dolo deve intendersi la consapevolezza dell’agente di tenere un comportamento vietato dalla legge.
Il Mi. è responsabile per aver scientemente lucrato il compenso per la difesa del Comune, pur nella piena consapevolezza di aver assunto l’obbligo di svolgere tale attività in veste di dirigente responsabile del settore finanziario.
La dott.ssa Ce., in qualità di
Segretario generale dell’ente, per il ruolo rivestito di garante della legittimità dell’azione amministrativa del Comune, che nulla ha obiettato a tutela della corretta e proficua gestione del denaro pubblico, esprimendo per di più parere favorevole per l’affidamento dell’incarico in questione e provvedendo ad impegnare e liquidare il compenso de quo.
L’indebita spesa, pari a complessivi euro 163.991,74, erogata dal Comune di Roseto Valfortore è la conseguenza unica e diretta delle
condotte tenute dai convenuti, nella piena consapevolezza del totale dispregio degli interessi dell’Amministrazione.
Ai soli fini della ripartizione interna delle quote di danno, per cui ciascuno potrà eventualmente rivalersi nei confronti dell’altro responsabile in solido, per il ruolo preponderante rivestito nella vicenda dal dott. Mi., a lui compete la maggior quota di danno pari al 70 per cento del danno risarcibile, mentre il restante 30 va attribuito alla responsabilità della dott.ssa Ce..
Trattandosi di responsabilità per dolo deve essere escluso il ricorso al potere riduttivo dell’addebito.
Sull’importo di euro 163.991,74 per cui è condanna va computata la rivalutazione monetaria dalla data dei pagamenti e fino alla pubblicazione della presente sentenza. Per tutte le ragioni espresse, la domanda è accolta.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
La Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Puglia, definitivamente pronunciando, accoglie la domanda attrice e, per l’effetto,
CONDANNA
I signori Ma.MI. e Ma.Ce.An.CE. al pagamento in solido della complessiva somma di euro 163.991,74 (centossessantatremilanovecentonovantuno/74), oltre rivalutazione monetaria, in favore del Comune di Roseto Valfortore.

Sulle somme rivalutate spettano all’Amministrazione gli interessi al tasso legale decorrenti dalla data di deposito della sentenza e fino al totale soddisfo.

PUBBLICO IMPIEGOObblighi di trasparenza per gli incaricati di posizione organizzativa.
Domanda
Nel nostro ente (con dirigenza) sono state nominate, di recente, delle posizioni organizzative, ex art. 13 e seguenti del CCNL Funzioni locali. Su dieci P.O., cinque hanno anche delle deleghe dirigenziali. I restanti cinque non l’hanno.
Come si deve comportare l’ente per ciò che concerne gli obblighi di pubblicità e trasparenza delle P.O.?
Risposta
Per effetto dell’articolo 14, commi 1 e 1-quinquies, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, nel testo inserito dall’art. 13, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 25.05.2016, n. 97, gli obblighi di pubblicazione e trasparenza per le posizioni organizzative sono notevolmente differenziati a seconda delle seguenti casistiche:
   • Posizione organizzativa in ente con dirigenza, senza delega dirigenziale;
   • posizione organizzativa in ente senza dirigenza o con delega dirigenziale.
Per gli incaricati di posizione organizzativa, negli enti CON dirigenza e SENZA delega dirigenziale, l’obbligo è ristretto alla pubblicazione del curriculum, redatto in conformità al vigente modello europeo.
Il documento va pubblicato nella sezione Amministrazione trasparente > Personale > Posizioni organizzative.
Il termine per provvedere alla pubblicazione è previsto entro tre mesi dal conferimento e l’obbligo decade dopo tre anni dalla cessazione dall’incarico. L’aggiornamento del curriculum, deve avvenire in modo “tempestivo” (art. 8, d.lgs. 33/2013), se si verificano delle variazioni significative rispetto a quelle pubblicate.
Per gli incaricati di posizione organizzativa negli enti senza dirigenza e in quelli con dirigenti e delega dirigenziale, gli obblighi restano quelli riportati nel comma 1, del citato art. 14 e sono i seguenti:
   a) l’atto di nomina o di proclamazione, con l’indicazione della durata dell’incarico o del mandato elettivo;
   b) il curriculum;
   c) i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici;
   d) i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o privati, ed i relativi compensi a qualsiasi titolo corrisposti;
   e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza pubblica e l’indicazione dei compensi spettanti;
   f) le dichiarazioni di cui all’articolo 2, della legge 05.07.1982, n. 441, nonché le attestazioni e dichiarazioni di cui agli articoli 3 e 4 della medesima legge, come modificata dal presente decreto, limitatamente al soggetto, al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano. Viene in ogni caso data evidenza al mancato consenso. Alle informazioni di cui alla presente lettera concernenti soggetti diversi dal titolare dell’organo di indirizzo politico non si applicano le disposizioni di cui all’articolo 7.
Per gli obblighi della lettera f) –situazione reddituale e patrimoniale– è intervenuta la sentenza della Corte costituzionale n. 20/2019, che ha escluso l’obbligo per i dirigenti e le P.O., con la sola eccezione dei titolari degli incarichi dirigenziali, previsti dall’art. 19, commi 3 e 4, del d.lgs. 165/2001.
Per la seconda tipologia di incarichi, gli obblighi vengono assolti –entro tre mesi dal conferimento dell’incarico– con pubblicazione dei dati e delle informazioni su Amministrazione trasparente > Personale > Titolari di incarichi dirigenziali (dirigenti non generali). I dati dovranno essere pubblicati in tabelle che distinguano le seguenti situazioni:
   • dirigenti;
   • dirigenti individuati discrezionalmente;
   • titolari di posizione organizzativa con funzione dirigenziali.
Anche in questo caso, l’aggiornamento dei dati deve essere tempestivo e l’obbligo cessa, dopo tre anni dal termine dell’incarico di P.O. (art. 14, comma 2, d.lgs. 33/2013) (30.07.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Trasformazione part-time.
Domanda
Può essere negata la richiesta da parte di un lavoratore di avere il proprio rapporto di lavoro trasformato da tempo pieno a tempo parziale?
Risposta
Con l’art. 73 del decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, in legge n. 133 del 2008, è stato modificato il regime giuridico relativo alla trasformazione del rapporto da tempo pieno a part-time, con una novella all’art. 1, comma 58, della legge n. 662 del 1996. Inoltre, sempre con il medesimo provvedimento, è stato modificato il comma 59 del citato articolo, incidendo sulla destinazione finanziaria dei risparmi derivanti dalla trasformazione dei rapporti.
In sintesi, le novità apportate con il decreto-legge n. 112 del 2008 riguardano i seguenti aspetti:
   • è stato eliminato ogni automatismo nella trasformazione del rapporto, che attualmente è subordinato alla valutazione discrezionale dell’amministrazione interessata;
   • stata soppressa la mera possibilità per l’amministrazione di differire la trasformazione del rapporto sino al termine dei sei mesi nel caso di grave pregiudizio alla funzionalità dell’amministrazione stessa;
   • è stata contestualmente introdotta la possibilità di rigettare l’istanza di trasformazione del rapporto presentata dal dipendente nel caso di sussistenza di un pregiudizio alla funzionalità dell’amministrazione;
   • è stata innovata la destinazione dei risparmi derivanti dalle trasformazioni, prevedendo che una quota sino al 70% degli stessi possa essere destinata interamente all’incentivazione della mobilità, secondo le modalità ed i criteri stabiliti in contrattazione collettiva, per le amministrazioni che dimostrino di aver proceduto ad attivare piani di mobilità e di riallocazione di personale da una sede all’altra.
Non vi è quindi nessun automatismo, ma la trasformazione deve sempre essere concessa (25.07.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALISegretari comunali: quella dannosa voglia di "dirigente apicale" (in memoria di Stefano Fedeli) (14.08.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).
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Non è compito dei segretari comunali svolgere funzioni di direzione di strutture amministrative assumendo la qualità di dirigenti. Tali funzioni possono essere gestite, specie nei comuni di grandi dimensioni, solo per in via temporanea e suppletiva, avendo prima dimostrato l’assoluta carenza di professionalità interne.
La sentenza 23.07.2019 n. 489 della Corte dei conti, Sezione giurisdiz. per la Puglia, è particolarmente rilevante perché smonta in modo ultimativo il castello di sabbia del “dirigente apicale” ed indica in modo chiaro e puntuale quali sono le peculiarità della funzione dei segretari comunali.
E’ una sentenza importantissima, che evidenzia le gravissime pecche purtroppo contenute nella superficiale sentenza 22.02.2019 n. 23 della Corte costituzionale (sul punto: cliccare qui e cliccare anche qui), in particolare nella debolissima parte nella quale la Consulta ha in modo vistosamente erroneo considerato costituzionalmente legittimo lo spoil system, anche in considerazione delle funzioni dirigenziali viste come “tipiche” della figura del segretario comunale.
Una svista imperdonabile, che viene indirettamente, ma ferocemente evidenziata dalle considerazioni della Corte dei conti della Puglia, che, limitandosi a leggere ed applicare in maniera niente più che piana e corretta le disposizioni normative e contrattuali, ricorda come le funzioni dirigenziali siano, per i segretari comunali, solo un accessorio, eventuale e non tipizzante per nulla le proprie funzioni. Con buona pace di chi pervicacemente cerca di ammantare la figura con quel ruolo di “dirigente apicale” che la mancata riforma Madia ha impedito venisse in essere.
E’ bene specificare che la Corte dei conti ha riconosciuto la responsabilità per danno erariale a carico di un segretario comunale di un comune di grandi dimensioni, che per anni ha svolto funzioni di dirigente di una quantità ingiustificabile anche solo logicamente, prima che organizzativamente, di servizi, ottenendo maggiorazioni retributive persino superiori a quelle ammesse dal contratto. Non si può non fare proprie le considerazioni, sul punto, della Corte dei conti: “
Quello che sconcerta ancor di più, e che rende irrimediabilmente grave sotto il profilo omissivo la sua condotta, e che la ricollega causalmente al danno qui azionato è il fatto che il soggetto che è rimasto passivo e inerte in ordine a emolumenti ricevuti e spiccatamente esorbitanti rispetto al dovuto, sia proprio colui che istituzionalmente aveva il dovere giuridico di conformare alla legalità l’agere amministrativo”.
Lo sconcerto è forte. E dura da anni, esattamente da quel 1997 che introducendo l’inutile figura del direttore generale ha scatenato in molti (non tutti, ovviamente) i segretari comunali gli appetiti da “dirigente apicale”. Si sono visti incarichi di direttore generale in comuni con pochissimi dipendenti e senza Peg, incarichi in comuni convenzionati ma singoli per ciascun comune, cifre elevatissime non giustificate da funzioni nuove e diverse. Uno spreco di denaro pubblico, che nel 2009 portò alla cancellazione (purtroppo limitata ai soli comuni con popolazione fino a 100.000 abitanti) del direttore generale.
Sconcerta, comunque, ancora che la voglia di “apicalità” e, soprattutto, di ottenere maggiorazioni retributive, invece di passare dalla via maestra di una migliore contrattazione collettiva capace di valorizzare le funzioni effettivamente caratterizzanti dei segretari, in modo strisciante anche sigle sindacali abbiano lavorato per creare una condizione di “dirigente apicale” di fatto (preparatoria, senza successo, alla riforma Madia), soffiando sul fuoco delle ambizioni personali.
La gran parte dei segretari comunali sa qual è il proprio ruolo, conosce la profonda differenza del coordinamento rispetto alla gestione operativa, valorizza la prima in funzione del miglior funzionamento della seconda.
Per non pochi, al contrario, la funzione del segretario praticamente non può che ridursi a quella di un dirigente che assommi su di sé (salvo, spesso, poi deleghe diffuse e in bianco) funzioni gestionali, gestite fin troppo, poi, nel rispetto della “fiducia” contrattata a suon di inevitabili reciproche concessioni con sindaci disposti a remunerare queste funzioni dirigenziali anche ben oltre i limiti contrattuali. Con sprezzo dell’evidente rischio di danno erariale.
Questa visione della “apicalità” dirigenziale necessitata del segretario comunale viene letteralmente posta nel nulla dalla sentenza della Corte dei conti. Essa evidenzia quali siano le rilevanti e complesse competenze previste dall’articolo 97 del d.lgs 267/2000, non negando, ovviamente, che è operante il comma 4, lettera d), per effetto del quale il sindaco può attribuire al segretario ogni altra funzione.
Sagacemente, il giudice contabile osserva, però: “
Tale ultima previsione, pur integrando una sorta di clausola in bianco, si dà consentire, in linea di principio (per ragioni di flessibilità organizzativa), l’affidamento al segretario di funzioni gestionali, va però contemperata con altre disposizioni affermative di principi di ordine generale, come quella secondo cui i compiti c.dd. di amministrazione attiva spettano ai dirigenti e non possono essere loro sottratti se non in virtù di una norma primaria espressa (cfr. l’art. 4, comma 2 e 3, l’art. 15 e ss. del citato t.u.p.i.; l’art. 107, comma 4, del t.u.o.e.l.)”.
L’attribuzione di funzioni dirigenziali ai segretari comunali non è posta in posizione di equivalenza con la scelta di assegnare incarichi di direzione ai dirigenti. Questi ultimi sono titolari in via esclusiva della gestione. Il che non può non portare alla conclusione secondo la quale l’assegnazione di funzioni di direzione ai segretari (lo stesso vale per l’attivazione dell’articolo 110 del Tuel) va saldamente giustificato con l’evidenziazione di una situazione non rimediabile se non con una temporanea attività di “supplenza”, fermo restando che se l’organizzazione prevede una struttura di vertice, essa non può restare acefala o essere a tempo indefinito affidata alla preposizione direzionale di un soggetto che non può e non deve svolgere la funzione direzionale in via continuativa, come il segretario comunale.
Sul punto, la Corte dei conti della Puglia è chiarissima: “l’Accordo integrativo del 22.12.2003, sottoscritto in attuazione dell’articolo 41, comma 4, del CCNL, e il successivo Accordo integrativo del 13.01.2009. In particolare, il primo dei citati accordi ha stabilito a quali condizioni possa essere concessa la maggiorazione dell’indennità in parola, condizioni che possono essere sia di carattere oggettivo che di carattere soggettivo. Senza entrare nello specifico di tali condizioni,
basti qui mettere in luce che il contratto precisa che tale maggiorazione è consentita a condizione che al segretario siano affidati incarichi gestionali comunque afferenti alle sue funzioni istituzionali, ma “in via temporanea e dopo aver accertato l’inesistenza delle necessarie professionalità all’interno dell’Ente”. L’Accordo fissa poi la misura minima e massima di tale maggiorazione, che non può essere inferiore al 10% e superiore al 50% della retribuzione di posizione in godimento, ad eccezione dei comuni inferiori a 3.000 abitanti”.
Dunque,
è l’ordinamento giuridico ad impedire di considerare come fungibili gli incarichi dirigenziali. Essi sono competenza esclusiva dei dirigenti. La scelta di affidarli al segretario è transeunte e motivata da una verifica reale di assenza di professionalità interne.
Spiega ancora la Corte dei conti: “
Tanto è vero che le sopra indicate disposizioni contrattuali integrative si sono fatte carico di precisare che l’attribuzione al segretario di funzioni dirigenziali possa avvenire solo con atto formale del capo dell’Amministrazione e in ogni caso previo accertamento dell’assenza di adeguate figure professionali interne e (solo) in via temporanea. Ciò evidenza chiaramente che la strada dell’affidamento di compiti gestionali ai segretari sia percorribile solo in via transitoria, e in caso di eccezionale assenza delle necessarie professionalità all’interno dell’Ente (ex multis, Cass., S.L. 12.06.2007, n. 13708; Cons. St., Sez. V, 25.09.2006, n. 5625; cfr. anche Parere Min. Interno 17.12.2008): solo in tal modo è possibile conciliare la facoltà concessa dal citato art. 97, co. 4, lett. d), del t.u.o.e.l., da un lato (come detto) con l’intestazione ex lege di tali funzioni ai dirigenti, dall’altro con l’esercizio in concreto dei compiti gestionali negli enti di piccole dimensioni (notoriamente privi di dirigenza e, sovente, anche di dipendenti inidonei a svolgerle) o in particolari frangenti, tali da generare situazioni di paralisi gestionale non risolvibili aliunde (ex multis, Tar Piemonte, sez. II, 04.11.2008 n. 2739; Cons. St., sez. IV, 21.08.2006 n. 4858). Dunque, nel rispetto di tali presupposti al segretario possono essere attribuite funzioni dirigenziali”.
L’ultimo passaggio enfatizzato in grassetto smentisce le diverse ed erronee conclusioni cui, invece, purtroppo è giunta la Consulta.
Può, comunque, un comune decidere per scelta organizzativa di puntare su un segretario “dirigente apicale” di fatto e quindi in ogni caso dotarlo di funzioni dirigenziali in via continuativa, sì da giustificare anche una remunerazione superiore alle maggiorazioni previste contrattualmente?
La risposta della Sezione Puglia è radicale e negativa: “
Non coglie nel segno sul punto l’assunto difensivo che fa leva sulla asserita legittimità della retribuzione di posizione in quanto finalizzata a remunerare funzioni gestionali affidate non in via temporanea ma continuativa. In proposito, per vero, è appena il caso di osservare che la stessa attribuzione di funzioni gestionali affidate non in via temporanea, ma stabile e duratura al segretario generale –sia pure attraverso diversi provvedimenti a tempo riguardanti distinti servizi– si appalesa contra legem perché effettuata in difetto dei presupposti normativi”.
C’è un vizio di legittimità genetico e non superabile nella scelta di attribuire funzioni gestionali ai segretari comunali. Che, per altro, sebbene spesso ottengano queste funzioni a seguito delle “contrattazioni” spesso improprie coi sindaci, poi pagano molto caramente, in termini di serenità operativa e condizioni di lavoro, la disponibilità data a riscontro delle maggiorazioni contrattuali.
Nel caso di specie, lo sconcerto mostrato dalla Corte dei conti, sorge anche solo guardando l’incredibile elenco di incarichi dirigenziali assegnati al segretario, con molteplici decreti sindacali:
   - gestione dell’Ufficio Legale,
   - gestione della Segreteria Comunale,
   - gestione della Presidenza del Consiglio Comunale,
   - gestione del Servizio Sistemi Informativi e Statistica,
   - gestione del Contratto d’Area,
   - gestione del del 2° Settore “Attuazione Politiche per l’Occupazione”,
   - gestione del del 5° Settore “Attuazione Politiche Sociali, Educative, Culturali e Ricreative”,
   - gestione dell’Ufficio di Piano.
Una “non organizzazione”, uno schema organizzativo semplicemente assurdo e non credibile, con una concentrazione direzionale ingiustificabile, implausibile e oggettivamente irrazionale.
Per altro, spiega la sentenza della Sezione Puglia “
nessuno dei competenti decreti sindacali di conferimento evidenzia (se non nel limitato caso di cui al decreto n. 52 del 13.10.2010, in cui il segretario è stato incaricato ad interim, per tre giorni, della gestione del Settore Bilancio a causa del congedo del titolare dell’ufficio) alcun elemento da cui arguire la mancanza in concreto di idonee professionalità all’interno dell’Ente o la presenza di situazioni contingenti di sorta, ulteriori rispetto alla richiamata astratta esigenza di riorganizzare gli uffici, o a quella generica di sgravare il dirigente fino ad allora designato dal relativo carico”.
Indicazioni che sarebbero state ancor più generali, in considerazione della dimensione del comune, di quasi 60.000 abitanti, che, secondo la Corte “induce ad ipotizzare –in difetto di contrarie allegazioni– un organico dirigenziale di assoluto rilievo e consistenza, anche in termini di presenza di idonee figure dirigenziali nei settori di competenza gestionale affidati, invece, al segretario”.
La conclusione della Corte è caustica: “In definitiva,
il sistema ordinamentale sopra tratteggiato [...] non consente che ai segretari siano conferite funzioni gestionali in pianta stabile, se non nei casi limite sopra indicati (comuni privi di idonee figure dirigenziali, situazioni di paralisi gestionale, ecc.) e previa adeguata motivazione”.
Laddove i segretari sono caricati di queste funzioni, la verifica puntuale spesso porterebbe ad osservare situazioni del tutto improprie, come quelle della sentenza, in cui la caccia alla mostrina di “dirigente apicale” porta a situazioni paradossali e dannose per l’erario; oppure, a situazioni del tutto opposte, nelle quali, specie in piccoli comuni, il segretario viene subissato di funzioni e competenze, senza mezzi, senza strumenti, con strutture spesso torpide, che agiscono a “tenaglia” con l’amministrazione nello schiacciare l’ordinato svolgersi delle competenze della figura.
La Corte costituzionale con la sentenza 22.02.2019 n. 23 ha perso l’occasione enorme di riallineare l’ordinamento a logica e razionalità. La sentenza della Corte dei conti della Puglia è lì, scolpita, a ricordarci di questa occasione drammaticamente sfuggita.

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALINomina di un RPCT diverso dal vicesegretario.
Domanda
Nel nostro comune è vacante il posto di segretario comunale da molti mesi. Per sopperire a tale vacanza è stato nominato un vicesegretario che lo sostituisce. Nel frattempo il Sindaco ha nominato Responsabile Anticorruzione e Trasparenza un altro funzionario del comune e non il vicesegretario.
La nomina è legittima ?
Risposta
L’articolo 1, comma 7, della legge 06.11.2012, n. 190, prevede che negli enti locali, il Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza sia individuato (dal sindaco, nei comuni) –di norma– nel segretario o nel dirigente apicale, salva diversa e motivata determinazione.
Come si può notare, la nomina del segretario comunale, in qualità di RPCT, rappresenta la situazione di “normalità”, ma non è l’unica ed esclusiva prevista dalle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione nella pubblica amministrazione.
Per ciò che concerne l’incarico di vicesegretario occorre rifarsi, invece, all’articolo 97, comma 5, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, il quale stabilisce che il ROUS (Regolamento di organizzazione uffici e servizi), può prevedere un vicesegretario, con il compito di coadiuvare il segretario e sostituirlo nei casi di assenza o impedimento.
Nel caso specifico segnalato nel quesito, non si ritiene che le funzioni svolte dal vicesegretario comunale debbano, per forza o in automatico, riguardare anche l’incarico di RPCT.
La diversa valutazione compiuta dal sindaco, che ha individuato un altro responsabile, è certamente legittima e dovrà essere debitamente sostenuta dalle motivazioni inserite nell’atto di nomina (23.07.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGOUfficio di staff con incarico gratuito.
Domanda
È possibile costituire l’ufficio di staff (ex art. 90 TUEL) attribuendo un incarico gratuito ad un collaboratore del sindaco? Cambia qualcosa se il collaboratore fosse in pensione?
Risposta
Per poter costituire un ufficio alle dirette dipendenze del sindaco (o della giunta o dei singoli assessori) è necessario che la materia venga preventivamente disciplinata nel ROUS (Regolamento per l’Ordinamento degli Uffici e dei Servizi). L’ufficio di staff viene costituito per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo attribuite –in questo caso– al sindaco.
L’ufficio di staff –struttura eventuale, ma non necessaria in un ente locale– può essere costituito da dipendenti dell’ente, che lasciano i propri incarichi e mansioni per dedicarsi ad altro, o, se l’ente non è dissestato o strutturalmente deficitario, da collaboratori assunti con contratto a tempo determinato. Se questi collaboratori, sono dipendenti di altra amministrazione, vengono posti in aspettativa senza assegni (comma 1).
Al personale assunto con contratto di lavoro subordinato e a tempo determinato, si applica il CCNL del comparto Funzioni locali (comma 2).
L’ufficio di staff trova la sua ragion d’essere nella collaborazione dell’organo politico, per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo, per cui sono escluse tutte le attività gestionali che restano in capo ai dipendenti inquadrati nella struttura organizzativa del comune, identificati nei dirigenti o posizioni organizzative negli enti senza la dirigenza (comma 3-bis).
Ricapitolando tutte le disposizioni contenute nell’articolo 90, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, comprese le ultime modifiche apportate, nel 2014 con il d.l. 90, possiamo riassumere che la costituzione dell’ufficio di staff:
   • non richiede la pubblicazione di avvisi o lo svolgimento di prove selettive;
   • non richiede il possesso di specifici titoli di studio;
  • non richiede specifica esperienza professionale;
   • non richiede particolari contenuti del curriculum vitae o professionale;
   • non richiede che vi sia una verifica preventiva dell’assenza di professionalità nell’ambito dell’ente;
   • prevede, necessariamente, un carattere oneroso;
   • non pone alcun limite alla possibilità di inquadrare i destinatari degli incarichi, i cui contratti possono, pertanto, classificarli dalla categoria A fino alla dirigenza, nell’ambito del CCNL del comparto Funzioni locali;
   • non pone alcun limite alla retribuzione;
   • non richiede alcuna particolare motivazione sulla scelta del destinatario;
   • è assoggettata ai limiti di spesa per il personale (media della spesa del triennio 2011/2013).
Dopo aver provato a chiarire il quadro normativo in cui ci si muove, dando risposta al doppio quesito presentato è possibile scrivere quanto segue:
   a) data la chiara portata dei commi 1 e 2 dell’articolo 90, del TUEL, non è possibile nominare un componente dell’ufficio di staff a titolo gratuito. Il collaboratore esterno deve essere titolare di un contratto di lavoro subordinato, a tempo determinato, parametrato a quello dei dipendenti del comparto Funzioni locali, con le eventuali deroghe –previste nel comma 3– per ciò che concerne il trattamento economico accessorio;
   b) non sarebbe vietato nominare nell’ufficio di staff un collaboratore in pensione, ma resta vietato nominarlo a titolo gratuito.
A completamento si riporta l’articolo 90, nel testo attualmente in vigore: "Articolo 90 Uffici di supporto agli organi di direzione politica
   1. Il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi può prevedere la costituzione di uffici posti alle dirette dipendenze del sindaco, del presidente della provincia, della giunta o degli assessori, per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo loro attribuite dalla legge, costituiti da dipendenti dell’ente, ovvero, salvo che per gli enti dissestati o strutturalmente deficitari, da collaboratori assunti con contratto a tempo determinato, i quali, se dipendenti da una pubblica amministrazione, sono collocati in aspettativa senza assegni.
   2. Al personale assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti locali.
   3. Con provvedimento motivato della giunta, al personale di cui al comma 2 il trattamento economico accessorio previsto dai contratti collettivi può essere sostituito da un unico emolumento comprensivo dei compensi per il lavoro straordinario, per la produttività collettiva e per la qualità della prestazione individuale.
   3-bis. Resta fermo il divieto di effettuazione di attività gestionale anche nel caso in cui nel contratto individuale di lavoro il trattamento economico, prescindendo dal possesso del titolo di studio, è parametrato a quello dirigenziale
" (18.07.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi a contratto misurati. Non sono strumenti ordinari per coprire. Il Tar Calabria chiarisce la portata limitata del dlgs 267 (art. 110).
A giudizio del Tar, l’incarico è stato attribuito senza tenere in alcun modo conto della circostanza relativa alla presenza nel proprio organico dei ricorrenti, dipendenti a tempo indeterminato.
Gli incarichi a contratto non sono uno strumento ordinario di copertura dei fabbisogni e possono essere assegnati esclusivamente nel caso di dimostrata assenza nell'organico di professionalità.

La sentenza 17.07.2019 n. 456 del TAR Calabria-Reggio Calabria chiarisce la portata limitata delle disposizioni dell'articolo 110 del dlgs 267/2000, evidenziando i corretti presupposti e condizioni per attivare gli incarichi a contratto. Il Tar ha annullato la deliberazione con la quale era stata decisa l'assunzione di un responsabile di servizio (in un comune privo di dirigenti) ai sensi dell'articolo 110 del Tuel (Testo unico enti locali), per violazione delle disposizioni normative, per altro ponendo le spese a carico del comune soccombente e trasmettendo il fascicolo alla procura della Corte dei conti.
A giudizio del Tar, l'incarico è stato attribuito «senza tenere in alcun modo conto della circostanza relativa alla presenza nel proprio organico dei ricorrenti, dipendenti a tempo indeterminato la cui idoneità professionale a ricoprire l'incarico in discorso non è mai stata contestata e, dall'altro, che non ha assolto minimamente all'onere di esplicitare le ragioni per cui si è ritenuto di dover ricorrere alla procedura in discorso».
Il comune ha violato le previsioni dell'art. 19, comma 6, del dlgs 165/2001, norma da applicare obbligatoriamente insieme con l'art. 110 del Tuel. La difesa dell'ente locale aveva espresso la tesi secondo la quale i contratti di cui all'articolo 110 del Tuel non richiederebbero la previa, necessaria, valutazione circa l'esistenza di analoghe professionalità all'interno dell'ente, è stata respinta. Il Tar spiega che detta tesi «si scontra con la necessità di leggere la norma in discorso in connessione con gli artt. 19 comma 6, 7 comma 6 e 36 del dlgs 165/2001».
Proprio il comma 6 dell'art. 19 del dlgs 165/2001 impone di motivare gli incarichi a contratto a partire proprio dalla rilevazione dell'assenza irrimediabile di professionalità interne. Tale dimostrazione, spiega il Tar, è necessaria perché sia rispettato il principio di «autosufficienza» del personale, secondo il quale «ogni ente pubblico, dallo Stato all'ente locale, deve provvedere ai propri compiti con la propria organizzazione ed il proprio personale».
Il fondamento di tale principio, prosegue la sentenza, deriva non solo non solo «dal canone costituzionale di buona amministrazione, di cui i principi di efficacia ed economicità dell'azione amministrativa costituiscono attuazione, ma anche nella considerazione che -atteso che ogni ente pubblico ha una sua organizzazione e un suo personale- è con questa organizzazione e con questo personale che l'ente deve attendere alle sue funzioni».
Da qui la fondamentale statuizione: utilizzare personale esterno alla dotazione organica è ammesso, ma entro limiti ristretti. Non solo occorre che gli incarichi a contratto si attivino nei limiti ed alle condizioni in cui la legge lo consenta, ma è necessario dimostrare che si tratti di un rimedio straordinario ad una carenza temporanea di professionalità. Infatti, afferma il Tar, «tutte le forme di esternalizzazione dell'attività pubblica quali le consulenze, le collaborazioni esterne, i contratti a tempo determinato, hanno la comune e generale funzione di acquisire professionalità qualitativamente e quantitativamente assenti nella pubblica amministrazione, oppure quella di sopperire ad esigenze eccezionali ed impreviste, di natura transitoria».
Di conseguenza gli incarichi ai sensi dell'art. 110 non solo debbono essere preceduti dalla dimostrata assenza di professionalità, non solo debbono essere affidati a persone dotati di una competenza estremamente peculiare e in possesso dei particolari requisiti imposti dall'art. 19, comma 6, dlgs 165/2001, ma debbono essere necessariamente connessi ad esigenze transitorie, alle quali porre rimedio in via definitiva con l'adeguamento della dotazione organica e, quindi, l'assunzione in ruolo delle professionalità mancanti, così da rispettare il principio di autosufficienza e non ripetere all'infinito il ricorso agli incarichi a contratto, trasformandoli surrettiziamente in strumenti di ordinaria copertura dei fabbisogni
(articolo ItaliaOggi del 28.12.2019).
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SENTENZA
... per l'annullamento:
   - della deliberazione n. 4 del 27.06.2016, pubblicata all’Albo Pretorio il 05.07.2016, con la quale è stata approvata la programmazione del fabbisogno di personale a tempo determinato;
   - del successivo Avviso pubblico del 12.07.2016 per l’assunzione di un funzionario tecnico categoria D3 ai sensi dell’art. 110, comma 1, del D.Lgs. 267/2000;
   - della deliberazione n. 27 del 12.08.2016, avente ad oggetto il conferimento dell’incarico di funzionario tecnico ai sensi dell’art. 110, comma 1, del D.Lgs. 267/2000.
...
1. Con il ricorso in epigrafe l’Architetto Gi.Ma. e l’Ingegnere Al.Ca., entrambi dipendenti a tempo indeterminato del Comune di Rosarno, chiedono l’annullamento della deliberazione n. 4 del 27.06.2016, con la quale è stata approvata la programmazione del fabbisogno di personale a tempo determinato dell’ente per l’anno 2016, del successivo avviso pubblico del 12.07.2016 per l’assunzione di un funzionario tecnico categoria D3, ai sensi dell’art. 110, comma 1, del d.lgs 267/2000, nonché della deliberazione n. 27 del 12.08.2016 avente ad oggetto il conferimento dell’incarico di funzionario tecnico ai sensi dell’art. 110, comma 1, del d.lgs 267/2000.
2. Espongono in fatto i ricorrenti che, all’esito dell’approvazione (di cui alla Delibera del Commissario Prefettizio n. 35 del 27.08.2015) del nuovo organigramma dell’Ente, e dell’accorpamento (di cui alla successiva Delibera del Commissario Prefettizio n. 51 del 14.04.2016) delle due aree tecniche –“Lavori Pubblici” e “Urbanistica ed Edilizia”- in un’unica unità operativa complessa, gli stessi venivano privati della responsabilità di posizione organizzativa di cui godevano prima delle citate modifiche alla struttura burocratica del comune e che, all’esito delle elezioni amministrative del 2016, la nuova amministrazione insediatasi decideva di procedere, con i provvedimenti gravati, a reperire all’esterno il funzionario a cui affidare la direzione dell’area tecnica, con contratto a tempo determinato ex art. 110, comma 1, del TUEL.
3. Contro la detta decisione e contro i conseguenti provvedimenti di approvazione del bando di selezione e di conferimento dell’incarico al controinteressato sono perciò insorti i ricorrenti con il ricorso in epigrafe affidato, alle seguenti censure:
   3.1. Violazione e falsa applicazione dell’art. 110, comma 1, del D.Lgs. n. 267/2000.
L’amministrazione avrebbe omesso di considerare che, in seno alla struttura burocratica del comune, erano già in servizio gli odierni ricorrenti, sicché il provvedimento gravato sarebbe stato adottato in difetto della condizione normativa che consente di attivare i contratti a tempo determinato solo in assenza di analoghe professionalità, nei ruoli dell'Amministrazione.
Il provvedimento impugnato, per altro verso, violerebbe l’art. 9, comma 28, del D.L. 78/2010, il quale stabilisce che, a decorrere dall'anno 2011, le Amministrazioni dello Stato e degli altri enti pubblici anche ad ordinamento autonomo, possono avvalersi di personale a tempo determinato o con convenzioni ovvero con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, nel limite del 50% della spesa sostenuta per le stesse finalità nell’anno 2009.
   3.2. Violazione di legge e, in particolare, dell'art. 3 della legge n. 241/1990 per omessa e/o insufficiente motivazione del provvedimento.
Sarebbe evidente il vizio di motivazione del provvedimento gravato, che, in violazione anche dell’art. 19, comma 6, del dlgs 165/2001, non rappresenterebbe né l’esigenza di una specifica qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell'Amministrazione, né le ragioni del ricorso all’incarico a contratto, invece che al concorso pubblico.
   3.3. Violazione del legittimo affidamento dei ricorrenti.
Si sostiene che i ricorrenti, in possesso dei requisiti professionali richiesti per l’espletamento dell’incarico, hanno visto del tutto disattesa la propria aspettativa di continuare a ricoprire la predetta posizione lavorativa. L’Amministrazione intimata avrebbe, infatti, leso il loro legittimo affidamento attraverso la decisione di assumere a tempo determinato un nuovo funzionario tecnico nonostante la presenza di analoghi profili professionali nei ruoli dell’Amministrazione.
...
5.1. Vanno preliminarmente scrutinate le eccezioni preliminari formulate dalla resistente amministrazione, che il Collegio giudica infondate.
Quanto alla eccezione di inammissibilità del ricorso per mancata partecipazione dei ricorrenti alla procedura selettiva, in disparte ogni considerazione sul fatto che, seguendo la tesi della resistente amministrazione, l’architetto Ma., avrebbe dovuto, per continuare a coltivare il proprio interesse a ricorrere, partecipare ad una selezione per una qualifica già posseduta, appare evidente che il vulnus alle posizioni giuridiche di entrambi i ricorrenti si è perfezionato con la scelta dell’amministrazione di procedere a reperire all’esterno la professionalità a cui affidare la direzione dell’area tecnica.
In altri termini, la lesione della sfera giuridica dei ricorrenti era già compiuta al momento dell’indizione della procedura selettiva ex art. 110, co. 1, del TUEL e nessun rilievo può avere, ai fini del radicamento dell’interesse a ricorrere, la loro mancata partecipazione alla ridetta selezione, per altro evidentemente rivolta a selezionare all’esterno del personale dell’ente il soggetto a cui conferire l’incarico.
Il Collegio reputa altresì prive di fondamento le eccezioni di improcedibilità del ricorso legate ai successivi provvedimenti amministrativi adottati dall’ente (la proroga del contratto del controinteressato o addirittura i provvedimenti di riorganizzazione della struttura). Le descritte circostanze, in uno con quella relativa allo scadere del contratto di lavoro del controinteressato, anche se determinassero la cessazione degli effetti dei provvedimenti gravati, non potrebbero comunque considerarsi idonee a far venir meno l’interesse alla decisione dei ricorrenti che potrebbero, nei termini prescritti dall’art. 30, comma 5, del codice del processo amministrativo, attivare la tutela risarcitoria, come già ipotizzato in ricorso.
6. Nel merito, risultano, nei termini di cui si dirà, fondati ed assorbenti i primi due motivi di ricorso.
La tesi della resistente amministrazione secondo la quale i contratti ex 110, comma 1, del TUEL non richiedono la previa, necessaria, valutazione circa l’esistenza di analoghe professionalità all’interno dell’ente, si scontra con la necessità di leggere la norma in discorso in connessione con gli artt. 19 comma 6, 7 comma 6 e 36 del dlgs 165/2001, che, in disparte ogni altra considerazione, è resa ineludibile per tabulas dalla mera lettura dell’art. 88 del dlgs 267/2000 a mente del quale “All'ordinamento degli uffici e del personale degli enti locali, ivi compresi i dirigenti ed i segretari comunali e provinciali, si applicano le disposizioni del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29 e successive modificazioni ed integrazioni, e le altre disposizioni di legge in materia di organizzazione e lavoro nelle pubbliche amministrazioni nonché quelle contenute nel presente testo unico.”
In altri termini,
la procedura finalizzata alla copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, mediante contratto a tempo determinato, ai sensi dell’art. 110, comma 1, del TUEL, non può derogare dal rispetto delle prescrizioni dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001, il quale fornisce due fondamentali e correlate indicazioni:
   - l’incarico può essere conferito a soggetti esterni a condizione che la correlata professionalità sia “non rinvenibile nei ruoli dell'Amministrazione”; occorre, quindi, preliminarmente dimostrare, l’assenza totale nei ruoli dell’amministrazione di persone aventi la professionalità necessaria;
   - gli “incarichi sono conferiti, fornendone esplicita motivazione”, la quale è funzionale alla verifica della particolare e comprovata qualificazione professionale, richiesta ai funzionari da sottoporre a selezione, e della insussistenza di professionalità equivalenti all’interno dell’ente, anche ai fini del controllo della Corte dei Conti sugli atti di conferimento dei predetti incarichi
(Cass. civ. Sez. lavoro, sentenza 22.02.2017 n. 4621).
6.2. Tanto premesso,
il Collegio non può esimersi dal ricordare come sia un principio basilare del nostro ordinamento, da tempo unanimemente riconosciuto dalla giurisprudenza contabile, quello in virtù del quale ogni ente pubblico, dallo Stato all'ente locale, deve provvedere ai propri compiti con la propria organizzazione ed il proprio personale.
Detto principio trova in realtà il suo fondamento non solo nel canone costituzionale di buona amministrazione, di cui i principi di efficacia ed economicità dell'azione amministrativa costituiscono attuazione, ma anche nella considerazione che -atteso che ogni ente pubblico ha una sua organizzazione e un suo personale- è con questa organizzazione e con questo personale che l'ente deve attendere alle sue funzioni.
La possibilità di ricorrere a personale esterno è ammessa nei limiti ed alle condizioni in cui la legge la preveda, stante che tutte le forme di esternalizzazione dell'attività pubblica quali le consulenze, le collaborazioni esterne, i contratti a tempo determinato, hanno la comune e generale funzione di acquisire professionalità qualitativamente e quantitativamente assenti nella pubblica amministrazione, oppure quella di sopperire ad esigenze eccezionali ed impreviste, di natura transitoria.
6.3. Tanto premesso,
nel caso di specie, dall’esame della documentazione versata in atti, risulta pacificamente, da un lato, che il Comune di Rosarno ha attivato la procedura di cui all’art. 110, comma 1, del TUEL senza tenere in alcun modo conto della circostanza relativa alla presenza nel proprio organico dei ricorrenti, dipendenti a tempo indeterminato la cui idoneità professionale a ricoprire l’incarico in discorso non è mai stata contestata e, dall’altro, che non ha assolto minimamente all’onere di esplicitare le ragioni per cui si è ritenuto di dover ricorrere alla procedura in discorso.
7. In conclusione, il ricorso deve essere accolto con conseguente annullamento degli atti impugnati.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIncarichi PO e superamento limiti.
Domanda
Il Sindaco ha firmato dei decreti di nomina dei Responsabili dei Servizi corrispondendo importi di retribuzione di posizione che non rispettano il tetto del 2016. Cosa ci suggerite?
Risposta
In risposta al vostro quesito, innanzitutto suggeriamo di verificare se il calcolo dei valori delle posizioni organizzative sono stati effettuati tenendo in considerazione il concetto di “destinato” o meglio dire “finalizzato” all’istituto così come riassunto dalla Corte dei conti della Sicilia nella Deliberazione n. 172/2018: “il limite massimo di spesa di riferimento, pertanto, non può essere quello quantificato tenendo conto della ipotetica struttura organizzativa né quello relativo alle somme effettivamente erogate e riferite all’esercizio 2016, piuttosto deve essere quello rappresentato dall’ammontare delle risorse stanziate in bilancio nel medesimo esercizio finanziario, nel rispetto del contratto di lavoro e dei vincoli di finanza pubblica”.
Di fatto, nel 2017 non potevano essere stanziate somme in misura incompatibili con l’art. 23, comma 2, del d.lgs. 75/2017 che prevede di non superare il trattamento accessorio del 2016, tetto che va rispettato come unico aggregato tra fondo e posizioni organizzative.
Pertanto, già in fase di attribuzione delle somme per retribuzione di posizione e di risultato, l’ente avrebbe dovuto preoccuparsi di verificare il rispetto della norma.
Purtroppo, però, dal momento in cui viene identificato l’importo in un decreto del Sindaco, tale somme diventa a nostro parere esigibile da parte del lavoratore, il quale, se non corrisposta potrebbe rivolgersi al giudice del lavoro.
Va però altresì precisato che, in ogni caso, il Sindaco non ha un’autonoma e illimitata discrezionalità nell’aumentare gli importi delle posizioni organizzative, in quanto il sistema ha sempre previsto la necessità di avere nell’ente criteri per la graduazione delle aree. Quindi, in assenza di questi, c’è da chiedersi se i decreti di nomina del Sindaco siano legittimi o non possano essere anche rivisti in autotutela.
In ogni caso, tornando alla questione, se dalla somma aritmetica dei valori come sopra determinati risulta che un ente non ha rispettato il tetto dell’anno di riferimento, non vi è alcun dubbio che ha creato un superamento del vincolo finanziario che dovrà essere recuperato negli anni successivi.
Ora, se diamo per assodato che i valori delle p.o. siano “giusti” e quindi quelli stanziati, l’ente non avrebbe potuto stanziare quelle somme di parte variabile nel fondo negli anni di riferimento perché quei valori portano al superamento del limite che, appunto, ora dovrà essere recuperato sui fondi degli anni successivi.
Se invece l’ente ritiene che l’errore sia nella quantificazione del valore delle p.o. dovrà agire in autotutela con la revisione dei decreti di nomina (11.07.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Allattamento genitore lavoratore autonomo.
Domanda
Un papà chiede le 2 ore di allattamento giornaliere per suo figlio. La madre è lavoratrice autonoma e gode dell’indennità di maternità riconosciuta dall’INPS. La domanda del padre può essere accolta?
Risposta
I riposi giornalieri del padre, meglio noti come le 2 ore di allattamento, sono disciplinati all’art. 40 del d.lgs. 151/2001.
La norma di legge prevede che al padre siano riconosciuti 2 periodi di riposo della durata di 1 ora ciascuno (se l’orario di lavoro è di almeno 6 ore) solo nelle seguenti ipotesi:
   a) nel caso in cui i figli siano affidati al solo padre;
   b) in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga
   c) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente;
   d) in caso di morte o di grave infermità della madre.
L’alternatività nel godimento dei riposi giornalieri da parte del padre è prevista solo in relazione alla madre «lavoratrice dipendente» che non se ne avvalga.
Quindi, solo se la madre è lavoratrice subordinata, è prevista la regola dell’alternatività, ovvero il padre può godere dei riposi giornalieri solo se la madre non se ne avvale. Vale a dire che se la madre subordinata è in congedo di maternità, il padre non può godere dei riposi giornalieri.
Al contrario, nel caso di madre “lavoratrice autonoma” non vi è alcun divieto normativo di cumulo tra godimento dell’indennità di maternità e la fruizione dei riposi giornalieri.
Le ragioni della diversa disciplina nascono dalla diversa condizione lavorativa delle madri, meno tutelata dal punto di vista economico per la lavoratrice autonoma rispetto alle garanzie che la legge offre alla lavoratrice dipendente.
La cumulabilità del congedo di maternità della lavoratrice autonoma con i riposi giornalieri del padre è confermata dalla Cassazione con sentenza n. 22177 del 12.09.2018 (04.07.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

giugno 2019

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGOComporta responsabilità amministrativa l’erroneo calcolo degli oneri di urbanizzazione posti a carico dei privati ai quali è rilasciata la concessione edilizia. Il termine di prescrizione decorre dalla data di rilascio del titolo edilizio.
Fermo restando la concorrente responsabilità degli organi di governo dell’Ente, causa danno erariale la condotta del responsabile dell’ufficio tecnico che non abbia segnalato, tra l’altro, la necessità di adottare la delibera di adeguamento dei costi in esame sulla base delle variazioni ISTAT.
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FATTO
1. Con la sentenza n. 87/2017, depositata il 06.03.2017 e notificata il 15.05.2017 la Sezione giurisdizionale regionale della Corte dei conti per la Puglia, in parziale accoglimento della domanda risarcitoria in tal senso proposta dalla Procura regionale, ha condannato il sig. Fr.Ma., responsabile del Settore tecnico del Comune di Salve (LE), a pagare a quest’ultimo, la somma complessiva di euro 10.000,00, omnicomprensivi di rivalutazione monetaria, oltre interessi, in misura legale, fino al momento del soddisfo.
1.1. Le contestazioni della Procura, condivise dalla sentenza del giudice di primo grado attengono alla mancata applicazione nel Comune di Salve (LE), per il periodo dal 2008 al 2011, del corretto valore del costo di costruzione da utilizzare per la quantificazione del contributo finanziario a carico dei privati in sede di rilascio dei permessi di costruire.
1.2. La Sezione regionale, dopo avere affermato la concretezza e l’attualità del danno sin dalla data del rilascio del permesso di costruire ha accolto parzialmente la domanda attrice, rideterminando il danno addebitabile al Ma. in euro 16.839,77.
Ha sostenuto la Sezione che la parte di danno relativa al periodo interessato dagli aggiornamenti disposti dalla Giunta Comunale non può essere collegata completamente imputata al convenuto, essendo tali decisioni state assunte dall'organo di governo, e che pertanto nel periodo in cui sono intervenute le delibere di Giunta (aprile 2009 e giugno 2011), può quantificarsi pari a due terzi di quello prodottosi nel 2009 (2.927,06) ed alla metà di quello scaturito per l'anno 2011 (2.742,28).
Rilevato il recupero da parte del Comune, con riguardo alle pratiche edilizie del 2008 dell'importo di euro 3.090,61 e per quelle relative al 2009 dell'importo di euro 2.235,53, ha portato in diminuzione per intero dalla somma il primo importo ed il secondo in riduzione nei limiti della quota di danno addebitata al convenuto per l'anno 2009 ossia pari ad un terzo.
In applicazione del potere riduttivo dell'addebito ha, poi, rideterminato l'importo di danno nella misura di euro 10.000,00 comprensivi anche della rivalutazione monetaria maturata sino alla data di deposito in Segreteria della decisione; oltre gli interessi in misura legale, calcolati a decorrere dalla suddetta data sino al soddisfo.
2. Avverso la sentenza ha proposto appello il sig. Ma. rilevando vari motivi di gravame.
...
DIRITTO
1. La presente fattispecie ha ad oggetto il danno causato al Comune di Salve (LE) a causa della mancata applicazione nel Comune di Salve (LE), per il periodo dal 2008 al 2011, del corretto valore del costo di costruzione da utilizzare per la quantificazione del contributo finanziario a carico dei privati in sede di rilascio dei permessi di costruire.
Con il primo motivo l’appellante lamenta, sostanzialmente, l’inattualità del danno, atteso che il Comune può ancora intervenire nel termine di prescrizione decennale per recuperare la differenza tra i costi di costruzione riscossi e quelli dovuti.
Il motivo non ha pregio, perché anche se ciò è vero, le relative partite contabili non risultano in atto incassate, né è certo se mai lo saranno: la concretezza e l’attualità del danno, infatti, risiede nella perdita dell’originaria fonte di credito per l’Ente Locale e poiché gli oneri di costruzione sono stati riscossi in misura inferiore al dovuto, il procedimento volto al recupero dei differenziali si appalesa, all’attualità, di esito incerto e non prevedibile, considerato che i contribuenti, per via del tempo trascorso, potrebbero più facilmente contestarne la legittimità.
La stessa giurisprudenza del giudice amministrativo ritiene che il costo di costruzione, sia una prestazione patrimoniale di natura impositiva che trova la sua ratio nell’incremento patrimoniale che il titolare del permesso di costruire consegue in dipendenza dell’intervento edilizio e che viene determinato al momento del rilascio della concessione, che costituisce il fatto costitutivo del relativo obbligo giuridico.
Relativamente alla dedotta assenza dell’elemento soggettivo della colpa grave rileva preliminarmente il Collegio che, alla luce della posizione rivestita dall’appellante, nel 2008, così come negli anni successivi, di responsabile del settore Tecnico del predetto comune, rientrava, senza alcun dubbio, tra i doveri e gli obblighi intestati a tale tipologia di funzionario, la vigilanza sull’ammontare degli introiti, da parte del Comune, relativi al settore di competenza.
Infatti, gli artt. 4 e 11 del D.L.vo n. 165/2001 e 111 del D.L.vo n. 267/2000 stabiliscono che agli amministratori spettano poteri di indirizzo politico, mentre ai dirigenti la relativa attuazione e la concreta gestione.
D’altronde, la normativa in materia, nazionale e regionale, prevedeva che il costo di costruzione venisse determinato periodicamente dalle Regioni e adeguato annualmente sulla base delle variazioni ISTAT.
E che gli adempimenti di cui trattasi rientrassero tra gli atti di gestione, trattandosi di autorizzazioni e concessioni edilizie da corredare, necessariamente con la determinazione del relativo quantum da versare, è fuor di dubbio.
Ma anche a voler considerare, per gli anni 2008 e 2010 l’inerzia dell’organo politico, che, secondo l’appellante, non avrebbe adottato la deliberazione annuale di adeguamento dei costi in questione, resta, pur sempre, inalterata la responsabilità del Martella il quale, in qualità di responsabile del settore, avrebbe dovuto segnalare tale inadempimento e sollecitarlo al fine di evitare le conseguenze dannose derivanti dal mancato adeguamento, nel tempo, del contributo in argomento.
In tal senso la sentenza deve essere confermata.
In ordine al quantum debetaur, invece, osserva il Collegio che la documentazione depositata nel corso del giudizio, dalla quale risulta per tabulas che il Comune ha già recuperato la somma di € 3.772,26, relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2008, la somma di € 3.446,62, relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2009; la somma di € 5.796,91, relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2010; la somma di € 4.065,08, relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2011, consente di potere dichiarare la cessazione della materia del contendere fino alla concorrenza della somma, di € 8.915,09.
Va infatti, nella determinazione del quantum, seguito il calcolo operato in sentenza (sulle cui modalità si è formato giudicato), e va tenuto conto che, ai fini della determinazione del danno al 21.12.2016 è già stato decurtato, con riguardo alle pratiche edilizie del 2008 l'importo di € 3.090,61 e per quelle relative al 2009 l'importo di € 2.235,53.
Pertanto dalla somma di € 10.000,00 (di cui è condanna) va detratta la somma di euro somma di € 681.65 (€ 3.772,26 – € 3.090,61) relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2008, la somma di € 403,69 (1/3 di € 3.446,62 – € 2.235,53) relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2009; la somma di € 5.796,91, relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2010; la somma di € 2.032,84, relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2011 ( pari ad ½ di € 4.065,08).
Per il resto, la sentenza deve essere confermata con il rigetto dell’appello, fermo restando che, con riferimento alla somma residua pari a € 1.084.91, l’interessato potrà far valere –in sede esecutiva– l’eventuale ulteriore recupero, da parte del Comune, della somma di cui è condanna.
Ogni ulteriore motivo non espressamente affrontato deve ritenersi assorbito e, in ogni caso, respinto.
Le spese sono compensate ai sensi dell’art. 31, comma 3 c.g.c.
P.Q.M.
La Corte dei Conti - Sezione Terza Centrale d’appello, definitivamente pronunciando, disattesa ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione, dichiara cessata la materia del contendere fino alla concorrenza di € 8.915,09.
Respinge l’appello e conferma la sentenza impugnata fino alla concorrenza di € 1084.91, nei termini di cui in motivazione (Corte dei Conti, Sez. III centrale d'appello, sentenza 27.06.2019 n. 127).

PUBBLICO IMPIEGOCambio turno.
Domanda
È possibile per un dipendente chiedere autonomamente il “cambio turno”? Come funziona?
Risposta
Premesso che la fattispecie non è normata da alcuna disciplina di contratto e di legge, il cambio turno non esiste dal punto di vista giuridico, per cui l’unico soggetto che legittimamente può regolamentare in materia è il datore di lavoro (dirigente) nell’esercizio dei suoi poteri conferitegli dall’art. 5, comma 2, del d.lgs. 165/2001.
La regolamentazione va inserita nel disciplinare sull’orario di lavoro e non richiede alcuna partecipazione sindacale diversa dalla sola informazione.
Ciò detto, le motivazioni che legittimano il cambio turno sono definite e perimetrate dal datore di lavoro che deve tenere conto del rischio che conduce un abuso di questo istituto.
Non sono le motivazioni personali generiche dei lavoratori a prevalere sull’esigenza di rispettare le condizioni legittimanti l’indennità di turno (in proposito si legga la delibera della Corte dei Conti Molise n. 25/2016).
Un utilizzo incontrollato di cambi turni può far venire meno la legittimità della corresponsione della relativa indennità, producendo ad esempio un disequilibrio tra turni mattutini e pomeridiani nell’arco del mese, è quindi dovere e compito del datore di lavoro monitorare e regolamentare un corretto e proprio utilizzo del cambio turno.
Tale ipotesi, del resto, è certamente riconducibile ad una forma di flessibilità, non normata, e che per questa ragione richiede di essere regolamentata tenuto conto di quanto sopra (27.06.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOOggetto: Chiarimenti e linee guida in materia di collocamento obbligatorio delle categorie protette. Articoli 35 e 39 e seguenti del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 - Legge 12.03.1999, n. 68 - Legge 23.11.1998, n. 407 - Legge 11.03.2011, n. 25 (direttiva 24.06.2019 n. 1/2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODanno erariale alla commissione di concorso che forma una graduatoria errata.
Alla commissione di concorso è richiesto uno standard minimo professionale nella valutazione dei titoli dei candidati al momento della formazione della graduatoria, specialmente quando una sua errata valutazione possa comportare un ribaltamento della posizione utile del candidato che aspira alla copertura del posto a vantaggio del secondo classificato.
In caso di annullamento della graduatoria disposto dal tribunale amministrativo, pertanto, le spese inutilmente sopportate dall'ente pubblico devono essere poste a carico della commissione che abbia operato al di sotto della ordinaria esigibilità.

Queste sono le conclusioni cui è giunta la Corte dei conti della Toscana (sentenza 20.06.2019 n. 262).
La vicenda
Il bando di concorso per la nomina a tempo determinato di un addetto stampa prevedeva il possesso dell'iscrizione all'albo dei pubblicisti o dei giornalisti, mentre per la formazione della graduatoria la commissione avrebbe dovuto valutare i candidati secondo questi punteggi: «Titoli di studio: diploma di laurea o laurea specialistica in materie attinenti fino a 20 punti; Titoli culturali o professionali, fino ad un massimo di 30 punti; 3. Curriculum fino ad un massimo di 40 punti; colloquio fino ad un massimo di 10 punti».
Avverso la scelta del candidato vincitore, il secondo idoneo in graduatoria chiedeva alla commissione di modificare la medesima, in considerazione del fatto che al vincitore erano stati attribuiti dei punteggi sul titolo di studio della laurea che non possedeva. A seguito di questa richiesta, la commissione di concorso confermava il vincitore modificando tuttavia i punteggi complessivi dei titoli, avendo proceduto da un alto alla eliminazione del punteggio erroneamente attribuito al vincitore nel titolo di studio, ma dall'altro lato modificava anche il punteggio dei titoli culturali e professionali in modo tale da far restare immutata la graduatoria.
Il Tar cui era ricorso il candidato estromesso annullava la graduatoria e condannava l'ente pubblico alle spese di giudizio, che la procura contabile riteneva inutilmente sborsate dall'ente pubblico e quindi configuranti danno erariale da porre a carico della commissione di concorso, che era interamente rinviata a giudizio.
La conferma del danno erariale
Il collegio contabile toscano ha preliminarmente evidenziato come la medesima commissione abbia inizialmente corretto il proprio errore per aver attribuito un punteggio su un titolo di studio non posseduto dal candidato risultato vincitore, ammettendo i propri sbagli. La sussistenza della colpa grave è dovuta sicuramente alla imperizia con la quale la commissione di concorso ha proceduto all'attribuzione di un punteggio inesistente al vincitore della selezione, imperizia questa che giustifica da sola il danno erariale che è pari al valore del rimborso delle spese di giudizio sopportate dall'ente pubblico.
Per i giudici contabili, infatti, la colpa grave è caratterizzata dal comportamento il cui grado di diligenza, perizia, prudenza, correttezza e razionalità sono da ritenersi inferiori allo standard minimo professionale esigibile e tale da rendere prevedibile o probabile il concreto verificarsi dell'evento dannoso (tra le tante: Corte conti, Sezione II Appello, sentenza n. 611/2011 e Sezione I Appello n. 357/2018).
Secondo la Corte dei conti, pertanto, l'errore commesso dalla commissione di concorso è da classificarsi al di sotto della ordinaria esigibilità, con la conseguenza del danno erariale subito dall'ente pubblico pari alle spese di giudizio sopportate inutilmente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 25.06.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Articolazione orario lavoro.
Domanda
Abbiamo la necessità di aprire lo sportello al pubblico anche il sabato modificando quindi l’orario di lavoro a due dipendenti. Avrei bisogno di sapere cosa dobbiamo fare per procedere in tal senso?
Risposta
La modifica dell’articolazione dell’orario di lavoro è oggetto di confronto con le parti sindacali. La dinamica del confronto è indicata all’art. 5 del contratto che riportiamo di seguito:
   1. Il confronto è la modalità attraverso la quale si instaura un dialogo approfondito sulle materie rimesse a tale livello di relazione, al fine di consentire ai soggetti sindacali di cui all’art. 7, comma 2, di esprimere valutazioni esaustive e di partecipare costruttivamente alla definizione delle misure che l’ente intende adottare.
   2. Il confronto si avvia mediante l’invio ai soggetti sindacali degli elementi conoscitivi sulle misure da adottare, con le modalità previste per la informazione. A seguito della trasmissione delle informazioni, ente e soggetti sindacali si incontrano se, entro 5 giorni dall’informazione, il confronto è richiesto da questi ultimi. L’incontro può anche essere proposto dall’ente, contestualmente all’invio dell’informazione. Il periodo durante il quale si svolgono gli incontri non può essere superiore a trenta giorni. Al termine del confronto, è redatta una sintesi dei lavori e delle posizioni emerse.
   3. Sono oggetto di confronto, con i soggetti sindacali di cui all’articolo 7, comma 2:
      a) l’articolazione delle tipologie dell’orario di lavoro;
      b) i criteri generali dei sistemi di valutazione della performance;
      c) l’individuazione dei profili professionali;
      d) i criteri per il conferimento e la revoca degli incarichi di posizione organizzativa;
      e) i criteri per la graduazione delle posizioni organizzative, ai fini dell’attribuzione della relativa indennità;
      f) il trasferimento o il conferimento di attività ad altri soggetti, pubblici o privati, ai sensi dell’art. 31 del D. Lgs. n. 165/2001;
      g) la verifica delle facoltà di implementazione del Fondo risorse decentrate in relazione a quanto previsto dall’art. 15, comma 7;
      h) i criteri generali di priorità per la mobilità tra sedi di lavoro dell’amministrazione;
      i) negli enti con meno di 300 dipendenti, linee generali di riferimento per la pianificazione delle attività formative.
A seguire e a confronto concluso (30 giorni) va redatta una determina dirigenziale (20.06.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGODanno erariale, prescrizione e responsabilità solidale tra dirigente e responsabile del procedimento.
La sentenza 17.06.2019 n. 117 della Corte di Conti, Sez. III Giur.le Centrale d’Appello, merita particolare attenzione poiché affronta due temi frequenti nei giudizi contabili, offrendo utili chiarimenti.
L’uno riguarda la condivisione della responsabilità per il danno erariale tra il dirigente e il responsabile del procedimento; l’altro il termine di prescrizione e, nella specie, il momento della sua decorrenza in materia di indebite erogazioni quando soggetto erogante e soggetto concedente non coincidano.
Solidarietà tra dirigente e responsabile del procedimento
In linea generale e di principio il dirigente è responsabile del danno erariale prodotto dall’atto amministrativo (illegittimo) di cui è firmatario.
Tale responsabilità può essere condivisa, in ragione dell’apporto causale, con il responsabile del procedimento.
Ai sensi dell’art. 5 e ss, Legge 241/1990 quest’ultimo è tenuto a curare l’istruttoria e tutti quegli adempimenti previsti dalla legge e/o delegati dal dirigente, necessari alla formazione della volontà amministrativa. Il dirigente può accogliere i risultati dell’istruttoria e, dunque, provvedere di conseguenza oppure può respingerli, sollecitando ulteriori attività di accertamento, ovvero rinunciare all’adozione dell’atto.
Recentemente è stata apprezzata una certa tendenza di alcuni dirigenti a ridurre e/o esimersi dalla propria responsabilità amministrativa riversandola sul responsabile del procedimento. Taluni, addirittura, per fortuna molto pochi, usano dell’istituto allo scopo di precostitursi un coobbligato solidale, una sorta di assicurazione gratuita per la responsabilità professionale.
Il giudice contabile, con la sentenza in nota, ha precisato che la responsabilità per danno erariale derivante dall’emissione di una illegittima e dannosa determina dirigenziale vada attribuita al solo dirigente quando “manchi del tutto l’evidenza della partecipazione alla fase istruttoria del responsabile del procedimento”, evidenza da individuarsi almeno nella presentazione per la firma della bozza del provvedimento finale.
La formale attribuzione della responsabilità del procedimento, infatti, “non è elemento sufficiente, di per sé, a fondare una sua responsabilità per l’emissione di atti a conclusione di procedimenti nei quali non sia concretamente intervenuto”.
Lo stesso dicasi nell’ipotesi in cui –pur essendo intervenuto– non abbia firmato (con il dirigente) l’atto amministrativo incriminato.
La prescrizione del danno
Secondo la consolidata giurisprudenza del giudice contabile (SS.RR., 15.01.2003, n. 2/QM) “l’art. 1, comma 2, della l. n. 20/1994, nel costituire declinazione della regola generale sulla prescrizione dei diritti espressa nell’art. 2935 c.c., deve essere interpretato nel senso che la prescrizione non può decorrere prima che il “fatto” (cioè “l'evento” dannoso, costituito da condotta e depauperamento patrimoniale) sia conosciuto, o conoscibile secondo l’ordinaria diligenza, da parte dell’ente danneggiato.”
Nel caso all’esame della Corte -indebite erogazioni- deve escludersi che il dies a quo della prescrizione possa identificarsi con l’erogazione del beneficio, poiché nel particolare procedimento mancava, al momento dell’erogazione, una “conoscibilità oggettiva” dell’illecito da parte dell’ente erogatore il quale non era né il soggetto concedente né l’intestatario di poteri di controllo.
Sono atti interruttivi del decorso del termine prescrizionale, tra gli altri, la notifica dell’invito a dedurre e la notificazione dell’atto di citazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.06.2019).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Cause di inconferibilità per incarico ex art. 110, comma 1, del tuel 267/2000.
Domanda
Dopo le elezioni amministrative del 26.05.2019, il nostro sindaco (confermato) intende avviare una procedura pubblica finalizzata alla copertura di un posto di responsabile apicale di area –con posizione organizzativa, in ente senza dirigenza– ai sensi dell’articolo 110, comma 1, del TUEL. Tra i “papabili” figura un ex assessore che ha terminato il proprio mandato il 26/05/2019. Il comune ha meno di 15.000 abitanti.
Come ci dobbiamo comportare se l’ex assessore partecipa alla procedura? Lo dobbiamo ammettere?
Risposta
Il riferimento normativo in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi dirigenziali presso le pubbliche amministrazioni (compresi i comuni), va rinvenuto nel decreto legislativo 08.04.2013, n. 39.
In particolare, va evidenziato che l’articolo 2, comma 2, del citato decreto prevede che le norme si applicano, negli enti locali, anche al conferimento di incarichi dirigenziali a personale non dirigenziale, come in effetti accade nei comuni, nei comuni privi di figure dirigenziali, con i titolari di posizione organizzativa, a cui il sindaco conferisce le funzioni dirigenziali, ai sensi degli articoli 50, comma 10 e 109, comma 2, del Testo Unico Enti Locali.
Venendo allo specifico quesito, si ritiene che le cause di inconferibilità, non siano rinvenibili, nel caso segnalato, dal momento che il vostro comune ha meno di 15.000 abitanti.
L’articolo 7, comma 2, lettera b) –che richiama la precedente lettera a)– prevede, infatti, una causa di inconferibilità per i componenti dei consigli o delle giunte (fissata in uno o due anni), ma solamente per gli incarichi dirigenziali nei comuni sopra 15.000 abitanti.
In tali enti (ma solo in quelli) si deve rispettare quello che alcuni commentatori hanno definito il “periodo di raffreddamento”, intendendo per esso un lasso temporale che non comporta un’esclusione permanente dal conferimento dell’incarico dirigenziale, ma solo di natura temporanea.
La normativa, in pratica, vuol impedire che un soggetto che si trovi in una posizione tale da compromettere l’imparzialità, acceda all’incarico senza soluzione di continuità. È necessario un periodo di raffreddamento, utile a garantire la condizione di imparzialità all’incarico (18.06.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Aumento orario part-time.
Domanda
Un dipendente del Comune è stato assunto ad aprile 2018 con contratto di lavoro a tempo indeterminato e part-time (18 ore settimanali).
Le ore di lavoro possono essere aumentate da 18 ore fino a 30 settimanali? Quali sono le condizioni? C’è bisogno di una modifica del programma del fabbisogno del personale?
Risposta
L’art. 3, comma 101, della legge n. 244/2008 sancisce che la trasformazione del rapporto di lavoro da part-time a full time può avvenire nel rispetto e nelle modalità previste dalle disposizione vigenti in tema di assunzioni.
Le varie sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti hanno da tempo chiarito che l’aumento del part-time che non determini la trasformazione a tempo pieno non entra nei vincoli alle assunzioni a tempo indeterminato.
L’inclusione dell’ampliamento dell’orario di lavoro di un dipendente assunto a part-time nel tetto delle capacità assunzionali è limitata alla vera e propria trasformazione del rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno, mentre ne rimane esclusa l’ipotesi dell’incremento delle ore lavorative.
Un mero aumento orario non integra, infatti, una nuova assunzione, sicché non fa scattare la soggezione ai limiti e divieti alle stesse, sempre che ciò non si traduca in una manovra elusiva.
A tal proposito, si ritiene di affermare, sulla base della giurisprudenza contabile formatasi in materia, che l’aumento orario a n. 35 ore settimanali, una in meno del full-time, costituirebbe già manovra elusiva (Sez. Sardegna n. 67/2012).
E’ necessario per effettuare l’ampliamento de quo rispettare il limite generale della spesa di personale (Sez. Basilicata n. 51/2016 e Sez. Puglia n. 159/2017) e procedere alla modifica del PTFP (13.06.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa Corte dei Conti conferma: i pensionamenti da quota 100 entrano nei calcoli del turn-over.
Per determinare le proprie capacità assunzionali le Regioni e gli enti locali non devono tenere conto dei risparmi derivanti da cessazioni per prepensionamenti a seguito di collocamento in eccedenza e/o sovrannumero fino a che gli stessi non abbiano raggiunto i requisiti previsti dalla legge Fornero per il collocamento in quiescenza. La disposizione deve essere considerata ancora pienamente in vigore in quanto non modificata dal legislatore né in modo espresso né in modo implicito.
Questa in sintesi l'indicazione contenuta nel parere 11.06.2019 n. 123 della Corte dei conti della Sicilia.
È opportuno sottolineare che questa indicazione si riferisce alle previsioni dettate nei Dl 95/2012 e 101/2013 e illustrate nella circolare della funzione pubblica n. 4/2014. Essa non si estende ad altre forme di collocamento anticipato in quiescenza, quindi non si applica ai pensionamenti di quota 100, Dl 4/2019.
I giudici contabili siciliani hanno ripreso le indicazioni già fornite dalla stessa funzione pubblica sull'applicazione delle citate disposizioni legislative.
Le indicazioni
In primo luogo, gli enti locali e le Regioni che hanno collocato in eccedenza e/o sovrannumero dei dipendenti per i quali è scattato il prepensionamento perché in possesso dei requisiti previsti per il collocamento in quiescenza sulla base della normativa precedente al Dl 201/2011, dovevano sopprimere quei posti dalla dotazione organica. Quindi dovevano privarsi della possibilità di reperire nel futuro quelle professionalità, con una diminuzione permanente e «strutturale» della spesa per il personale, quanto meno in termini teorici, cioè gli oneri derivanti dalla copertura di tutti i posti previsti in dotazione organica.
In secondo luogo, l'utilizzazione di questa opportunità ha determinato la conseguenza di non poter utilizzare immediatamente i risparmi derivanti da queste cessazioni, ma di rinviarne l'utilizzazione al momento in cui il dipendente avrebbe dovuto essere collocato in quiescenza sulla base dei vincoli legislativi ordinari. Per cui il risparmio per l'ente è dato anche dal rinvio di questa fonte di spesa.
Non vi sono elementi nel parere per ritenere che questi principi si applicano anche ai pensionamenti sulla base della cosiddetta quota 100. In primo luogo, non vi sono riferimenti legislativi che vanno in questa direzione. In secondo luogo, per l'utilizzazione di questo strumento non è in alcun modo richiesto che i dipendenti siano stati preventivamente dichiarati in eccedenza e/o in sovrannumero (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 25.09.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODistacco sindacale e straordinario.
Domanda
Un dipendente dell’Ente è stato collocato dallo scorso 1 novembre in distacco sindacale part-time al 50%.
Per il restante 50% presta regolarmente servizio presso questo Ente in due giorni settimanali (con orario giornaliero di 9 ore).
Può svolgere nelle suddette giornate lavoro supplementare di cui all’articolo 55 del CCNL del 21/05/2018?
Risposta
Occorre in primo luogo chiarire che la nozione di “lavoro supplementare” utilizzata nel CCNL del Comparto Funzioni Locali, sottoscritto in data 21.05.2018, attiene al rapporto di lavoro a tempo parziale e fa riferimento all’effettuazione di prestazioni di lavoro eccedenti l’orario ridotto concordato tra le parti ma contenute entro i limiti dell’orario a tempo pieno. Nell’eventualità di svolgimento di prestazioni aggiuntive del dipendente che superino anche la durata dell’orario normale di lavoro occorre, invece, riferirsi alla nozione di lavoro straordinario.
Fatta questo doverosa premessa, occorre fare riferimento, ai fini del corretto inquadramento della situazione rappresentata, a quanto dettato in materia di flessibilità dei distacchi sindacali dall’articolo 8 del CCNQ sulle modalità di utilizzo dei distacchi, aspettative e permessi, nonché delle altre prerogative sindacali, sottoscritto il 04/12/2017.
Il comma 5 del summenzionato articolo 8 stabilisce che “il trattamento economico del lavoratore in distacco sindacale part-time ai sensi del comma 3 è quello previsto all’art. 19, comma 3 (Trattamento economico). Per il diritto alle ferie e per lo svolgimento del periodo di prova in caso di vincita di concorso o passaggio di qualifica (purché in tale ipotesi sia confermato il distacco sindacale con prestazione lavorativa ridotta) si applicano le norme previste nei singoli contratti collettivi di lavoro per il rapporto di lavoro part-time –orizzontale o 10 verticale– secondo le tipologie del comma 4. Tale ultimo rinvio va inteso solo come una modalità di fruizione dei distacchi sindacali che, pertanto, non si configurano come un rapporto di lavoro part-time – e non incidono sulla determinazione delle percentuali massime previste, in via generale, per la costituzione di tali rapporti di lavoro”.
Pertanto, la summenzionata disposizione chiarisce che i rinvii alle norme in materia di part-time operati nell’ambito del CCNQ quale riferimento per la disciplina da applicare alle fattispecie menzionate vanno intesi meramente come una modalità di fruizione dei distacchi sindacali, non configurando, pertanto, un rapporto di lavoro part-time ai sensi del contratto collettivo del comparto.
Ne deriva, quindi, che il caso sottoposto non va considerato alla stregua di un rapporto di lavoro a tempo parziale e che, conseguentemente, la nozione di lavoro supplementare non è appropriata (06.06.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

maggio 2019

PUBBLICO IMPIEGOFurbetti cartellino e reato di truffa.
Domanda
La falsa attestazione della presenza in servizio integra il reato di truffa aggravata anche se il raggiro produce nel complesso assenze di pochi minuti?
Risposta
La copiosa e recente giurisprudenza che si è occupata dei furbetti del cartellino non ammette sconti nemmeno nei casi in cui la falsa attestazione della presenza in servizio derivi da manomissioni del sistema di rilevazione dell’orario di presenza che nel complesso producono assenze di pochi minuti.
Le ragioni delle diverse Cassazioni Penali (Cassazione Penale, sentenza, n. 20130 del 08.05.2018; Cassazione Penale, n. 3262 del 23.01.2019; Cassazione Penale n. 9900 del 05.03.2018; Cassazione Penale n. 22972 del 22.05.2018) si esprimono all’unisono, muovendo dall’assunto che la falsa attestazione del pubblico dipendente circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli presenza, è condotta fraudolenta, idonea aggettivamente ad indurre in errore l’amministrazione di appartenenza circa la presenza sul luogo di lavoro e integra il reato di truffa aggravata ove il pubblico dipendente si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino, i periodi di assenza, sempre che siano da considerare economicamente apprezzabili.
Apprezzabile però, non è sinonimo di rilevante.
Non va tenuto conto solo dell’aspetto economico del danno patrimoniale, incarnato nell’indebita percezione, da parte del lavoratore, di un emolumento retributivo in assenza di prestazione lavorativa resa; l’esiguità dell’aspetto economico non prevale infatti sul grave tradimento del rapporto fiduciario esistente tra dipendente e Amministrazione datrice di lavoro.
Le norme non ammettono una soglia di tolleranza al di sotto della quale non è integrata la fattispecie di reato: non nel caso di falsa attestazione della presenza in servizio, in qualunque modo essa avvenga.
Anche una indebita percezione di poche centinaia di euro costituisce quindi un danno economicamente apprezzabile per il datore di lavoro pubblico.
L’esiguità della somma può tutt’al più integrare l’attenuante della speciale tenuità ma non certo impedire la configurabilità del reato di truffa aggravata.
In relazione alle situazioni che si palesano come meno gravi in quanto afferenti ad intervalli temporali esigui e a corrispondenti valori economici di somme indebitamente percepite, è stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 55-quinquies (False attestazioni o certificazioni) del d.lgs. 165/2001 nella parte in cui non prevede un’ipotesi attenuata per i casi di minore gravità.
La Corte Costituzionale, con ordinanza n. 184, depositata il 04.10.2018, ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 55-quinquies del d.lgs. 165/2001 (30.05.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Sul danno erariale derivante dal riconoscimento ex post, da parte del comune, di debiti a titolo di corrispettivi per lo svolgimento di lavori saltuari e occasionali svolti da privati cittadini e sulla portata dell'ex "parere di legittimità", del "parere di regolarità tecnica" e del "parere di regolarità contabile".
Le delibere di Giunta oggetto del presente giudizio non hanno valore come riconoscimento di debiti fuori bilancio per l’incompetenza assoluta dell’organo esecutivo del Comune.
Infatti, solo il riconoscimento formale da parte del Consiglio Comunale consente l’imputazione del debito assunto irregolarmente al bilancio dell’ente.
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Sussiste la piena responsabilità del sindaco e degli assessori (Giunta Comunale) per aver posto in essere una condotta antigiuridica –connotata da colpa grave- tesa al riconoscimento di debiti da parte di un organo incompetente a riconoscere i debiti dell’Ente, soprattutto in assenza dei presupposti normativi per l’applicabilità dell’art. 191, 3 comma, e/o per il riconoscimento di cui all’art. 194 del TUEL.
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Parimenti responsabile il geometra responsabile dell’area tecnica e del personale, per aver apposto il parere di regolarità tecnica in calce alle delibere di cui è causa senza verificare la legittimità e regolarità delle procedure relative alla fase dell’impegno contabile e della spesa, alla fase contrattuale e di assegnazione dei lavori e alla fase di verifica della regolare esecuzione degli stessi.

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Altrettanto responsabile il segretario comunale, per il quale valgono le seguenti considerazioni.
E’ indubbio che il segretario comunale svolge una specifica funzione di garante della legalità e di correttezza amministrativa dell’azione dell’ente locale, di assistenza e di collaborazione giuridica ed amministrativa proprio in virtù dell’art. 17, comma 68, della l. 127 del 1997, ma ancor prima in virtù della l. 142 del 1990.
L’intervenuta soppressione, ai sensi dell’art. 17, comma 85, della legge citata, del parere di legittimità su ogni proposta di deliberazione giuntale o consiliare, non costituisce commodus discessus da ogni responsabilità.
Al contrario,
l’evoluzione normativa in materia, ben lungi dall'evidenziare una sottrazione del segretario in questione alla responsabilità amministrativa per il parere eventualmente espresso su atti della Giunta o del Consiglio, ne ha invece sottolineato le maggiori responsabilità in ragione della rilevata estensione di funzioni, di tal che non assume alcun rilievo esimente l'art. 17, commi 85 e 86, l. n. 127/1997 che ha espressamente abrogato l'istituto del parere preventivo di legittimità del segretario comunale.
Sul punto il Collegio ritiene di condividere quanto affermato da questa Corte, secondo cui
la soppressione del parere di legittimità del segretario su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta o al Consiglio “non esclude che permangano in capo al segretario tutta una serie di compiti ed adempimenti che, lungi dal determinare un'area di deresponsabilizzazione del medesimo, lo impegnano, invece, ad un corretto svolgimento degli stessi, pena la sua soggezione, in ragione del rapporto di servizio instaurato con l'Ente locale, all'azione di responsabilità amministrativa, ove di questa ricorrano gli specifici presupposti”.
Nel caso di specie,
il segretario, partecipando alla seduta di Giunta, avrebbe dovuto svolgere la sua funzione di garante del diritto ponendo in evidenza le gravi violazioni di legge che, con l’approvazione delle delibere di riconoscimento, si stavano effettuando, e, nell’ipotesi in cui gli assessori avessero comunque deciso di deliberare il riconoscimento, avrebbe dovuto esigere la verbalizzazione della sua opposizione.
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Non appare revocabile in dubbio che nell’ambito del controllo sulla regolarità e correttezza dell’azione amministrativa, rientri a pieno titolo il controllo sulla legittimità della proposta di deliberazione, ovverosia la verifica del rispetto delle norme che presidiano l’attività amministrativa nello specifico campo, nonché la legittimità del fine pubblico perseguito e la correttezza sostanziale delle soluzioni adottate.

Ne deriva che
la lettura combinata dall’art. 49 e 147-bis, comma 1, del TUEL permette di individuare, innanzitutto, il contenuto del parere di regolarità tecnica, che non si limita a verificare l’attendibilità tecnica della soluzione proposta, ma involge l’insieme del procedimento amministrativo, coprendo e inglobando le regole sia tecniche, di un determinato settore, che quelle generali in ordine alla legittimità dell’azione amministrativa, ivi compresa la legittimità della spesa, in considerazione del fatto che ciascun centro di responsabilità, proponente un qualsiasi atto deliberativo recante spesa, gestisce autonomamente il piano esecutivo di gestione assegnato al proprio settore.
Invece,
con il “parere di regolarità contabile” il fine perseguito dal legislatore è stato quello di assegnare al responsabile del servizio di ragioneria un ruolo centrale nella tutela degli equilibri di bilancio dell'ente e, a tal fine, nell’esprimere tale parere egli dovrà tener conto, in particolare, delle conseguenze rilevanti in termini di mantenimento nel tempo degli equilibri finanziari ed economico-patrimoniali, valutando:
   a) la verifica della sussistenza del parere di regolarità tecnica rilasciato dal soggetto competente;
   b) il corretto riferimento (si sottolinea effettuato dall’organo proponente) della spesa alla previsione di bilancio annuale, ai programmi e progetti del bilancio pluriennale e, ove adottato, al piano esecutivo di gestione.

Orbene,
secondo il sistema delle competenze assegnate dal TUEL e ridisegnate dalla riforma operata con il d.l. n. 174/2012, la verifica della legittimità delle deliberazioni, sia esse di giunta che di consiglio, non rientra tra il controlli che il responsabile del servizio di ragioneria deve effettuare prima dell’emissione del proprio parere di regolarità contabile.
Da tutto quanto sopra, anche con riferimento a quanto affermato in ordine alle funzioni e responsabilità del segretario comunale,
si ritiene che il parere di regolarità contabile non possa che coprire la legittimità della spesa in senso stretto del termine, cioè la corretta imputazione al capitolo del bilancio dell’ente, la regolare copertura finanziaria e il rispetto degli equilibri di bilancio, esulando dai compiti del responsabile del servizio di ragioneria ogni valutazione sulla legittimità dell’atto deliberativo, perché di competenza di altri organi istituzionali dell’ente.
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La questione all’esame del Collegio riguarda una ipotesi di danno erariale derivante dal riconoscimento ex post, da parte del Comune di Santa Domenica Talao, di debiti a titolo di corrispettivi per lo svolgimento di lavori saltuari e occasionali svolti da privati cittadini.
Il Procuratore regionale contesta agli odierni convenuti che, con l’adozione delle diciannove delibere di giunta sopra citate, siano state violate le disposizioni di cui agli artt. 191 e seguenti del TUEL che concernono l’assunzione degli impegni di spesa negli enti locali, nonché dell’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001 e dell’art. 92 del TUEL relativi all’utilizzo delle forme di lavoro flessibile.
L’art. 191 del TUEL stabilisce che “Gli enti locali possono effettuare spese solo se sussiste l'impegno contabile registrato sul competente programma del bilancio di previsione e l'attestazione della copertura finanziaria di cui all’art. 153, comma 5”.
Il successivo comma 3 afferma che “Per i lavori pubblici di somma urgenza, cagionati dal verificarsi di un evento eccezionale o imprevedibile, la Giunta, entro venti giorni dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile del procedimento, sottopone al Consiglio il provvedimento di riconoscimento della spesa con le modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e), prevedendo la relativa copertura finanziaria nei limiti delle accertate necessità per la rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica incolumità. Il provvedimento di riconoscimento è adottato entro 30 giorni dalla data di deliberazione della proposta da parte della Giunta, e comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso se a tale data non sia scaduto il predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è data contestualmente all'adozione della deliberazione consiliare”.
Orbene,
dall’esame delle delibere di riconoscimento indicate nell’atto di citazione non risulta che le stesse siano state precedute dalla necessaria delibera a contrarre con il relativo impegno di spesa sul relativo capitolo di bilancio con l’attestazione di copertura finanziaria da parte del responsabile del servizio economico-finanziario.
Né dalle stesse è rinvenibile, al di là di un’apodittica affermazione, la giustificazione di ragioni di urgenza o di eccezionalità e imprevedibilità dell’evento che avrebbero potuto giustificare il ricorso alla procedura disciplinata dal terzo comma del medesimo articolo 191 suddetto.
Stante quanto sopra,
si sarebbe, allora, dovuto fare ricorso all’istituto del riconoscimento del debito fuori bilancio di cui all’art. 194 del TUEL, la cui competenza viene, però, ascritta al Consiglio comunale e non all’organo esecutivo dell’ente locale.
Nel caso di specie, pertanto, il rapporto obbligatorio intercorre tra il privato fornitore e il soggetto amministratore o funzionario o dipendente dell’ente che ha consentito la prestazione, ai sensi del già richiamato art. 191, comma 4.
Inoltre, gli artt. 36 del D.Lgs. n 165/2001 e 92 del TUEL, richiamati dal Procuratore nel suo atto di citazione, disciplinano la possibilità per le pubbliche amministrazioni di ricorrere a forme contrattuali di lavoro flessibile con rapporti di lavoro a tempo parziale e a tempo determinato, pieno o parziale, sempre, però, nel rispetto della disciplina vigente in materia e “per comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale, (sempre) nel rispetto delle condizioni e modalità di reclutamento (del personale) assicurando la trasparenza ed escludendo ogni forma di discriminazione".
Orbene, ai fini dell’accertamento della responsabilità dei convenuti citati, ad avviso del Collegio, nessun rilievo assume il diverso inquadramento giuridico dei fatti operato dai difensori.
Infatti, sia che tali interventi vengano inquadrati tra le “borse lavoro” o tra gli “appalti di servizi”, in nessuno dei due casi vi è stato un atto propedeutico –quale ad esempio un bando per l’assegnazione delle borse, o una delibera di acquisizione dei servizi richiesti- che abbia concorso a manifestare all’esterno una volontà in tal senso, da parte dell’amministrazione del Comune di Santa Domenica Talao.
In tutti i casi, sia l’eventuale assegnazione della borsa o l’adozione di qualsivoglia forma di lavoro flessibile sia, a maggior ragione, la stipulazione di un contratto d’appalto di servizi, necessitano di una forma scritta “ad substantiam”, nel pieno rispetto di uno dei principi cardine dell’ordinamento giuridico, quando una delle parti contrattuali è una Pubblica Amministrazione.
Tale principio è sancito dall’art. 17 della Legge di contabilità generale dello Stato (R.D. n. 2440 del 1923) che, ammettendo anche forme più semplificate di stipulazione contrattuale, prevede per tutte la forma scritta (scrittura privata; obbligazione stesa ai piedi del capitolato; atto separato sottoscritto; lettera commerciale).
Tale principio trova la sua giustificazione non solo e non tanto in ragioni di ordine generale attinenti l’interesse pubblico perseguito dalla p.a., ma anche nella considerazione che un’attività estremamente procedimentalizzata, quale quella in esame, al di là del nomen juris utilizzato ai fini del suo inquadramento, non sarebbe concepibile che possa essere conclusa con una stipulazione orale.
Ciò anche perché la forma scritta rappresenta uno strumento indefettibile di garanzia del regolare svolgimento dell'attività negoziale della p.a., nell'interesse sia del cittadino sia della stessa amministrazione e, conseguentemente, in assenza della forma scritta il contratto è nullo (in terminis: Cass, sez. I civile, sent. n. 5263/2015; n. 7297/2009; sez. III civile, ord. n. 16307/2018).
Per il principio su esposto, prive di pregio, ad avviso del Collegio, sono le contestazioni che le difese muovono all’atto di citazione secondo cui nel caso di specie si verserebbe in una ipotesi di affidamento di un appalto di servizi sotto soglia.
Infatti, il superamento o meno della “soglia” (art 29 del D.Lgs n. 163/2006 applicabile ratione temporis; oggi art. 36 del D.Lgs. n. 50/2016) implica esclusivamente un maggiore o minore rigore nella scelta del contraente, ma nessuna incidenza può avere in ordine alla necessaria forma scritta dei contratti della p.a.
Atteso quanto sopra, ritiene il Collegio che nessuna valida obbligazione sia sorta in capo all’amministrazione del Comune di Santa Domenica Talao e, pertanto, sussiste la responsabilità amministrativo-contabile in capo ai convenuti, in quanto con la loro condotta hanno causato un indubbio danno erariale consistente nell’erogazione di corrispettivi non dovuti in quanto conseguenti a obbligazioni nulle.
A ciò si aggiunga che
sono state violate tutte le norme del TUEL (prima citate) poste a presidio della correttezza delle procedure di spesa degli enti locali e, per quanto già detto, le delibere di Giunta oggetto del presente giudizio non hanno nemmeno valore come riconoscimento di debiti fuori bilancio per l’incompetenza assoluta dell’organo esecutivo del Comune.
Infatti, solo il riconoscimento formale da parte del Consiglio Comunale consente l’imputazione del debito assunto irregolarmente al bilancio dell’ente.

In ordine alle singole condotte il Collegio svolge le seguenti considerazioni.
Sussiste la piena responsabilità del sindaco Lu.Al.Gi. e degli assessori Es.Fu.Fr., La Gr.Ma.Gi., Fa.Gi., La.Ra.Ma., Le.Fr. e Pa.An.Sa. per aver posto in essere una condotta antigiuridica –connotata da colpa grave- tesa al riconoscimento di debiti da parte di un organo incompetente a riconoscere i debiti dell’Ente, soprattutto in assenza dei presupposti normativi per l’applicabilità dell’art. 191, 3 comma, e/o per il riconoscimento di cui all’art. 194 del TUEL.
Inoltre, nessuna istruttoria è stata svolta dal sindaco o dai componenti la giunta ma, soprattutto, nessuna prova viene fornita in ordine all’eccezionalità e imprevedibilità dei lavori e alla loro utilità per il Comune.
Parimenti responsabile il geom. Fa.Be., responsabile dell’area tecnica e del personale, per aver apposto il parere di regolarità tecnica in calce alle delibere di cui è causa senza verificare la legittimità e regolarità delle procedure relative alla fase dell’impegno contabile e della spesa, alla fase contrattuale e di assegnazione dei lavori e alla fase di verifica della regolare esecuzione degli stessi.
In merito nessun valore esimente, ad avviso del Collegio, può avere la perizia a firma del geom. To.Gr., datata 19.10.2016, in quanto riferentesi a delibere diverse rispetto a quelle oggetto della citazione in questione.
Altrettanto responsabile il dott. Mo.Ca.An., segretario comunale, per il quale valgono le seguenti considerazioni.
E’ indubbio che il segretario comunale svolge una specifica funzione di garante della legalità e di correttezza amministrativa dell’azione dell’ente locale, di assistenza e di collaborazione giuridica ed amministrativa proprio in virtù dell’art. 17, comma 68, della l. 127 del 1997, ma ancor prima in virtù della l. 142 del 1990.
L’intervenuta soppressione, ai sensi dell’art. 17, comma 85, della legge citata, del parere di legittimità su ogni proposta di deliberazione giuntale o consiliare, non costituisce commodus discessus da ogni responsabilità.
Al contrario,
l’evoluzione normativa in materia, ben lungi dall'evidenziare una sottrazione del segretario in questione alla responsabilità amministrativa per il parere eventualmente espresso su atti della Giunta o del Consiglio, ne ha invece sottolineato le maggiori responsabilità in ragione della rilevata estensione di funzioni, di tal che non assume alcun rilievo esimente l'art. 17, commi 85 e 86, l. n. 127/1997 che ha espressamente abrogato l'istituto del parere preventivo di legittimità del segretario comunale.
Sul punto il Collegio ritiene di condividere quanto affermato da questa Corte, secondo cui
la soppressione del parere di legittimità del segretario su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta o al Consiglio “non esclude che permangano in capo al segretario tutta una serie di compiti ed adempimenti che, lungi dal determinare un'area di deresponsabilizzazione del medesimo, lo impegnano, invece, ad un corretto svolgimento degli stessi, pena la sua soggezione, in ragione del rapporto di servizio instaurato con l'Ente locale, all'azione di responsabilità amministrativa, ove di questa ricorrano gli specifici presupposti (Sez. giur. Toscana, sent. n. 217/2012).
Il segretario Mo., partecipando alla seduta di Giunta, avrebbe dovuto svolgere la sua funzione di garante del diritto ponendo in evidenza le gravi violazioni di legge che, con l’approvazione delle delibere di riconoscimento, si stavano effettuando, e, nell’ipotesi in cui gli assessori avessero comunque deciso di deliberare il riconoscimento, avrebbe dovuto esigere la verbalizzazione della sua opposizione.
Niente di tutto questo è avvenuto, e pertanto deve confermarsi la responsabilità del segretario comunale.
Considerazioni contrarie vanno svolte, invece, per la convenuta De Lu.Ma.Ro., quale responsabile del servizio economico-finanziario del Comune, che ha emesso i relativi pareri di “regolarità contabile”.
Il responsabile del servizio economico-finanziario, ai sensi dell’art. 49 del TUEL, come modificato dall’art. 3, comma 1, lett. b), del d.l. n. 174/2012, convertito in l. n. 213/2012, su ogni proposta di deliberazione ha l’obbligo di esprimere un parere di regolarità contabile, qualora la stessa comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico finanziaria o sul patrimonio dell’ente.
Tale parere, che rientra tra quelli preventivi, è previsto dall’art. 147 del TUEL, a mente del quale “Gli enti locali, nell'ambito della loro autonomia normativa e organizzativa, individuano strumenti e metodologie per garantire, attraverso il controllo di regolarità amministrativa e contabile, la legittimità, la regolarità e la correttezza dell'azione amministrativa”.
Il successivo art. 147-bis afferma che “Il controllo di regolarità amministrativa e contabile è assicurato, nella fase preventiva della formazione dell'atto, da ogni responsabile di servizio ed è esercitato attraverso il rilascio del parere di regolarità tecnica attestante la regolarità e la correttezza dell'azione amministrativa. Il controllo contabile è effettuato dal responsabile del servizio finanziario ed è esercitato attraverso il rilascio del parere di regolarità contabile e del visto attestante la copertura finanziaria”.
Pertanto, il legislatore della novella del 2012, con la suddetta norma ha inteso differenziare il contenuto del “controllo di regolarità amministrativa e contabile” (di competenza del responsabile del servizio o della funzione), che si esprime attraverso il parere di regolarità tecnica e riguarda la “regolarità e la correttezza dell’azione amministrativa”, dal “controllo contabile” che, esprimendosi attraverso il parere di regolarità contabile (di competenza del responsabile di ragioneria), ha riguardo all’aspetto meramente contabile e finanziario del provvedimento, attraverso, anche, l’apposizione del visto attestante la copertura finanziaria.
Pertanto,
non appare revocabile in dubbio che nell’ambito del controllo sulla regolarità e correttezza dell’azione amministrativa, rientri a pieno titolo il controllo sulla legittimità della proposta di deliberazione, ovverosia la verifica del rispetto delle norme che presidiano l’attività amministrativa nello specifico campo, nonché la legittimità del fine pubblico perseguito e la correttezza sostanziale delle soluzioni adottate.
Ne deriva che
la lettura combinata dall’art. 49 e 147-bis, comma 1, del TUEL permette di individuare, innanzitutto, il contenuto del parere di regolarità tecnica, che non si limita a verificare l’attendibilità tecnica della soluzione proposta, ma involge l’insieme del procedimento amministrativo, coprendo e inglobando le regole sia tecniche, di un determinato settore, che quelle generali in ordine alla legittimità dell’azione amministrativa, ivi compresa la legittimità della spesa, in considerazione del fatto che ciascun centro di responsabilità, proponente un qualsiasi atto deliberativo recante spesa, gestisce autonomamente il piano esecutivo di gestione assegnato al proprio settore.
Invece,
con il “parere di regolarità contabile” il fine perseguito dal legislatore è stato quello di assegnare al responsabile del servizio di ragioneria un ruolo centrale nella tutela degli equilibri di bilancio dell'ente e, a tal fine, nell’esprimere tale parere egli dovrà tener conto, in particolare, delle conseguenze rilevanti in termini di mantenimento nel tempo degli equilibri finanziari ed economico-patrimoniali, valutando:
   a) la verifica della sussistenza del parere di regolarità tecnica rilasciato dal soggetto competente;
   b) il corretto riferimento (si sottolinea effettuato dall’organo proponente) della spesa alla previsione di bilancio annuale, ai programmi e progetti del bilancio pluriennale e, ove adottato, al piano esecutivo di gestione.

Orbene,
secondo il sistema delle competenze assegnate dal TUEL e ridisegnate dalla riforma operata con il d.l. n. 174/2012, la verifica della legittimità delle deliberazioni, sia esse di giunta che di consiglio, non rientra tra il controlli che il responsabile del servizio di ragioneria deve effettuare prima dell’emissione del proprio parere di regolarità contabile.
Da tutto quanto sopra, anche con riferimento a quanto affermato in ordine alle funzioni e responsabilità del segretario comunale,
si ritiene che il parere di regolarità contabile non possa che coprire la legittimità della spesa in senso stretto del termine, cioè la corretta imputazione al capitolo del bilancio dell’ente, la regolare copertura finanziaria e il rispetto degli equilibri di bilancio, esulando dai compiti del responsabile del servizio di ragioneria ogni valutazione sulla legittimità dell’atto deliberativo, perché di competenza di altri organi istituzionali dell’ente.
Conseguentemente, ritiene il Collegio, di rigettare l’azione del Procuratore regionale nei confronti di De Lu.Ma.Ro..
Al proscioglimento segue il rimborso delle spese di lite, poste a carico dell’Amministrazione comunale, che si liquidano equitativamente in euro 1.500,00.
Riguardo alla quantificazione del danno e alla sua ripartizione fra i rimanenti convenuti, si condivide parzialmente quanto indicato in citazione e quindi:
...
P.Q.M.
La Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la regione Calabria, definitivamente pronunciando, in accoglimento parziale dell’atto di citazione:
assolve Ma.Ro. De Lu. da ogni addebito e liquida alla medesima a titolo di spese del giudizio la somma di € 1.500,00 oltre IVA, CPA e spese generali come per legge, posta a carico dell’Amministrazione di appartenenza;
condanna i sotto elencati convenuti al pagamento in favore del Comune di Santa Domenica Talao delle somme:
   1) Lu.Al.Gi., € 2.294,00 oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo.
   2) La Gr.Ma.Gi., € 679,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo.
   3) Es.Fu.Fr., € 369,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo.
   4) Fa.Gi., € 690,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo.
   5) La Bo.Ra.Ma., € 1.425,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo.
   6) Pa.An.Sa., € 25,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo.
   7) Le.Fr., € 340,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo.
   8) Mo.Ca.An., € 2.444,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo.
   9) Fa.Be., € 2.444,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo (Corte dei Conti, sez. giurisdiz, Calabria, sentenza 27.05.2019 n. 185).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOREATI CONTRO LA PA/ Abuso d’ufficio per il sindaco che punisce lo zelo. Punito il comportamento ritorsivo contro un dipendente diligente.
Abuso d’ufficio per il sindaco che non rinnova l’incarico e nega l’indennità al responsabile di area come ritorsione per il suo zelo. E il reato -oltre alla valutabilità del danno il danno economico e professionale- scatta a prescindere dal diritto o meno del dipendente alla riconferma.
La colpa del funzionario era di aver agevolato l’accertamento della responsabilità contabile, poi esclusa, del primo cittadino e della giunta in merito ad alcune nomine, e nell’aver dato seguito, malgrado sconsigliato in maniera “pressante”, ad iniziative per presunti illeciti della polizia locale. Un comportamento virtuoso che gli era costato il rinnovo della nomina a responsabile dell’area vigilanza e le indennità: in pratica un demansionamento.
Per la Corte di Cassazione (Sez. VI penale, sentenza 23.05.2019 n. 22871), che avalla la linea della Corte d’Appello, il sindaco con le sue azioni ritorsive e discriminatorie, aveva prima di tutto violato la Costituzione. E, in particolare l’articolo a tutela del buon andamento e dell’imparzialità della Pa, e l’articolo , secondo il quale i cittadini a cui sono affidate funzioni pubbliche devono adempierle con disciplina e onore.
Una lettura che non era piaciuta al ricorrente, secondo il quale, la Corte di merito aveva valorizzato la Carta per il reato di abuso d’ufficio (articolo del Codice penale) anziché norme specifiche. Ad avviso della difesa, infatti, la Costituzione non ha un contenuto precettivo, mentre per contestare il reato sarebbe stato necessario individuare la violazione di una specifica disciplina.
La Cassazione condivide l’impostazione dei giudici di merito che, pur avendo analizzato le norme sul conferimento degli incarichi e sull’impiego pubblico, non le hanno messe al centro della loro decisione.
Chiarito che il demansionamento c’era stato perché non erano stati assecondati i desiderata del sindaco, il reato, e la conseguente valutabilità dei danni, ci sono, infatti, al di là del diritto al rinnovo dell’incarico e all’indennità. La Cassazione spiega che l’abuso d’ufficio «fa riferimento a una condotta che non è genericamente connotata da abuso, ma deve essere caratterizzata da violazione di norme di legge o di regolamento ovvero dall’omessa astensione».
Il legislatore ha voluto dunque delimitare con più precisione la sfera dell’illecito «in modo che non consentisse indebite interferenze nell’azione amministrativa e implicasse la chiara definizione dei canoni di riferimento». E non si può affermare che il riferimento alla legge non includa le fonti sovraordinate: prima fra tutte la Costituzione. In questo quadro pesa l’articolo , da valutare in sinergia con l’articolo , che impone di esercitare con disciplina e onore le funzioni pubbliche e ai pubblici ufficiali di assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’ amministrazione.
Solo in apparenza la Carta introduce canoni di carattere generale, in realtà le direttive hanno un immediato risvolto applicativo. È chiaro il rilievo dato all’inosservanza del principio di imparzialità che mette “fuori legge” ingiustificate preferenze, favoritismi e vessazioni intenzionali e discriminatorie (articolo Il Sole 24 Ore del 24.05.2019).
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La condotta evidenzia discriminazioni e ritorsioni.
Risponde del reato di abuso di ufficio il sindaco che discrimina e fa ritorsioni nei confronti del responsabile di un settore amministrativo dell'ente locale, non rinnovandogli l'incarico perché non ha seguito le sue indicazioni e procurandogli un danno connesso alla mancata corresponsione di indennità associate alla posizione e a un sostanziale demansionamento.

Così la Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 23.05.2019 n. 22871.
Il delitto di abuso d'ufficio nella formulazione che risulta dalle modifiche introdotte dalla legge 234/1997, fa riferimento a una condotta che non è genericamente connotata da abuso, ma deve essere caratterizzata da violazione di norme di legge o di regolamento ovvero dall'omessa astensione. Il legislatore ha voluto in questo modo delimitare con più precisione la sfera dell'illecito, circoscrivendolo entro un ambito che non consentisse indebite interferenze nell'azione amministrativa e implicasse la chiara definizione dei canoni esterni di riferimento.
Nel caso in esame è stato ravvisato il delitto di abuso di ufficio quando «la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge, poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l'attribuzione».
E nel contempo si comprende che sia stato dato rilievo all'inosservanza del principio costituzionale dell'imparzialità, che preclude ingiustificate preferenze o favoritismi ovvero intenzionali vessazioni o discriminazioni.
Ciò significa che l'articolo 323 del codice penale (reato di abuso di ufficio), pur non essendo di per sé riferibile alla violazione di norme poste da fonti diverse da quelle menzionate, tuttavia ricomprende la violazione di quei canoni costituzionali, che assumono precisa valenza e costituiscono la base stessa dell'esercizio dei pubblici uffici. Ne deriva, affermano i giudici di legittimità, che il riscontro del carattere discriminatorio e ritorsivo dell'azione amministrativa non vale solo a qualificare ab extrinseco il movente, ma rileva sul piano oggettivo, connotando il contenuto di tale azione e rendendo la condotta penalmente tipica.
Per la Cassazione è corretto il ragionamento dei giudici di merito, che hanno ravvisato l'illiceità della condotta del sindaco ricorrente proprio in ragione del suo contenuto discriminatorio e ritorsivo, contrastante non con evanescenti principi generali bensì con una precisa direttiva, sottostante all'azione di qualsiasi pubblico ufficiale, che implica l'osservanza della causa del potere assegnato e il rifiuto di qualsivoglia pregiudiziale discriminazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.05.2019).
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MASSIMA
2. Il secondo motivo è infondato.
2.1. Va in effetti rimarcato che la contestazione di cui al capo B), per la quale è stata pronunciata condanna, nel far riferimento al disposto dell'art. 97 Cost. e dell'art. 1, comma 1, legge 241 del 1990, intendeva far leva essenzialmente sul carattere discriminatorio e ritorsivo della condotta del ricorrente in danno del Sa., indicando in tale quadro alcuni elementi descrittivi, aventi lo scopo di corroborare tale assunto, costituiti dall'utilizzo di una motivazione apparente, dalla nomina di altro soggetto privo di diploma di laurea, in assenza di una procedura comparativa, dal contributo che era stato fornito dal Sa. per l'accertamento della responsabilità contabile del Sindaco e della Giunta per i fatti di cui all'originario capo A), dal fatto che il Sa. aveva contravvenuto alle espresse richieste del Sindaco di non dar corso ad iniziative per presunti illeciti commessi da agenti della Polizia locale.
La Corte ha sul punto condiviso l'impostazione del primo Giudice, che proprio sul carattere discriminatorio e ritorsivo della condotta in danno del Sa. ha fondato il proprio giudizio, nel quale non ha assunto un rilievo centrale il riferimento agli artt. 110 d.lgs. 267 del 2000 e 19 d.lgs. 165 del 2001, pur menzionati nel capo di imputazione.
2.2. Ciò posto, le doglianze del ricorrente non possono trovare accoglimento.
L'art. 323 cod. pen. nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dalla legge 234 del 1997, fa riferimento ad una condotta che non è genericamente connotata da abuso, ma deve essere caratterizzata da violazione di norme di legge o di regolamento ovvero dall'omessa astensione.
Il legislatore ha voluto in tal modo delimitare con più precisione la sfera dell'illecito, circoscrivendolo entro un ambito che non consentisse indebite interferenze nell'azione amministrativa e implicasse la chiara definizione dei canoni esterni di riferimento.
In tale prospettiva la violazione di legge o di regolamento non può che essere intesa come rappresentativa del superamento di quei canoni esterni, posti da fonti ben individuate.
D'altro canto non può in alcun modo affermarsi che il riferimento alla legge non includa altresì quello a fonti sovraordinate, prima di tutto la Carta fondamentale, cioè la Costituzione, ove parimenti in grado di definire in modo preciso i limiti dell'azione amministrativa.
Ed anzi deve al riguardo rimarcarsi come l'intera disciplina di tale azione debba essere collocata nell'ambito costituzionale, in relazione a precise direttive che dalla Costituzione possano desumersi sia sul versante della stretta correlazione tra il potere affidato e la fonte di esso sia su quello dell'effettivo svolgimento dell'azione amministrativa.
In tale quadro viene in evidenza l'art. 97 Cost., da valutare in sinergia con l'art. 54 Cost.: ed invero si desume da tali norme che
le funzioni pubbliche devono essere esercitate con disciplina ed onore e che i pubblici uffici devono essere organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione.
Solo in apparenza per tale via sono introdotti canoni di carattere generale, in quanto in realtà siffatte direttive contengono un immediato risvolto applicativo, imponendo da un lato il rispetto della causa di attribuzione del potere, in modo che lo stesso non sia esercitato al di fuori dei suoi presupposti, e dall'altro l'imparzialità dell'azione, la quale non deve essere contrassegnata da profili di discriminazione e ingiustizia manifesta, aspetti di per sé contrastanti con l'intero assetto costituzionale dei poteri amministrativi, come in concreto poi disciplinati dalla legge.
Ben si comprende su tali basi che sia stato ravvisato il delitto di abuso di ufficio quando «la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge, poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l'attribuzione» (Cass. Sez. U. n. 155 del 29/09/2011, dep. nel 2012, Rossi, rv. 251498; Cass. Sez. 6, n. 27816 del 02/04/2015, Di Febo, rv. 263932).
E nel contempo
si comprende che sia stato dato rilievo all'inosservanza del principio costituzionale dell'imparzialità, che preclude ingiustificate preferenze o favoritismi ovvero intenzionali vessazioni o discriminazioni (Cass. Sez. 6, n. 49549 del 12/06/2018, Laimer, rv. 274225; Cass. Sez. 2, n. 46096 del 27/10/2015, Giorgino, rv. 265464).
Ciò significa che
l'art. 323 cod. pen., pur non essendo di per sé riferibile alla violazione di norme poste da fonti diverse da quelle menzionate, tuttavia ricomprende la violazione di quei canoni costituzionali, che assumono precisa valenza e costituiscono la base stessa dell'esercizio dei pubblici uffici.
Ne deriva che
il riscontro del carattere discriminatorio e ritorsivo dell'azione amministrativa non vale solo a qualificare ab extrinseco il movente, ma rileva sul piano oggettivo, connotando il contenuto di tale azione e rendendo la condotta penalmente tipica.
2.3. Ed allora
deve rilevarsi la correttezza del ragionamento dei Giudici di merito, che hanno ravvisato l'illiceità della condotta del ricorrente proprio in ragione del suo contenuto discriminatorio e ritorsivo, contrastante non con evanescenti principi generali bensì con una precisa direttiva, sottostante all'azione di qualsiasi pubblico ufficiale, implicante l'osservanza della causa del potere assegnato e il rifiuto di qualsivoglia pregiudiziale discriminazione.
In particolare, anche sulla scorta di quanto rilevato dal Giudice del lavoro nel provvedimento del 15/10/2014, è stato osservato:
   - che
l'apertura del procedimento per il mancato rinnovo al Sa. dell'incarico di Responsabile dell'Area Vigilanza era stato caratterizzato da motivazioni (riferite alla necessità di rotazione per ragioni di prevenzione della corruzione) del tutto pretestuose, prive di qualsivoglia riscontro e intrinsecamente contraddittorie rispetto a quanto in diversa occasione rilevato;
   - che
il Sa. si era per contro distinto nel propiziare l'accertamento della responsabilità erariale del Sindaco e della Giunta nella vicenda della nomina di Ci.Ro. (oggetto dell'originario capo A) e nel contravvenire ai pressanti suggerimenti del Sindaco di non dar corso ad iniziative riguardanti presunti illeciti addebitabili all'agente Ch.;
   - che
al momento di procedere alla nomina del nuovo Responsabile dell'Area Sicurezza, il Sindaco aveva del tutto omesso di procedere ad una valutazione comparativa, assegnando l'incarico a Qu.Lu. appena transitato in mobilità nel ruolo del Comune, ma sprovvisto del diploma di laurea, e ponendo il Sa. in posizione addirittura subordinata a colui che era stato il suo vice;
   - che
la richiesta di assegnazione di un'indennità di coordinamento o di maggiorazione dell'indennità di posizione, era stata negata senza una sostanziale motivazione, dopo che nel luglio 2013 il Sindaco, con una mail, aveva mostrato di correlare l'accoglimento della richiesta al modo in cui il Sa. avrebbe gestito la questione riguardante gli illeciti addebitati al Ch..
Tali elementi sono stati tutt'altro che arbitrariamente posti a fondamento del carattere ritorsivo e discriminatorio del trattamento riservato al Sa., non rilevando la circostanza che il predetto avesse o meno uno specifico diritto al rinnovo ovvero al riconoscimento dell'indennità, a fronte del contenuto assunto dall'azione amministrativa e del concreto sviamento del potere, esercitato con modalità contrastanti con le ragioni poste a fondamento di esso.
Prive di rilievo risultano in tale prospettiva anche le deduzioni, peraltro largamente assertive, riguardanti l'interpretazione degli artt. 50, 107, 109 e 110 d.lgs. 267 del 2000, a fronte del carattere assorbente del rilevato profilo di illiceità, qualificato anche dalla mancata adozione di un'adeguata valutazione comparativa, tale da costituire specifica giustificazione della determinazione assunta:
va invero rilevato come tale mancanza costituisca dato sintomaticamente idoneo a rafforzare il giudizio in ordine al contenuto discriminatorio di tale determinazione, così come la sostanziale assenza di una specifica motivazione del mancato riconoscimento dell'indennità, a fronte di quanto precedentemente prospettato in termini di correlazione con i desiderata del Sindaco, suffraga la valenza ritorsiva del diniego, quand'anche legato a valutazione discrezionale (per il rilievo della motivazione deve del resto richiamarsi Cass. Sez. 6, n. 13341 del 27/10/1999, Stagno D'Alcontres, rv. 215278, nonché la più recente Cass. Sez. 6, n. 21976 del 05/04/2013, Paiardini, rv. 256549).
E' del tutto inconferente infine la circostanza che la fonte dell'indennità fosse costituita da una convenzione, non riconducibile né alla legge né al regolamento: in realtà deve ribadirsi come la valutazione di illiceità riposi anche in questo caso sulla valenza discriminatoria e ritorsiva del diniego, nei termini già descritti.
3. E' parimenti infondato il terzo motivo.
3.1.
Con riguardo al tema della c.d. doppia ingiustizia, si rileva in generale che accanto al profilo della violazione di legge o di regolamento (o della violazione dell'obbligo di astensione) che deve connotare la condotta, deve individuarsi il profilo dell'ingiustizia del vantaggio patrimoniale o del danno, che costituiscono, in alternativa, l'evento consumativo del delitto di abuso di ufficio.
Tale ingiustizia può essere individuata sia in base a profili autonomi rispetto a quelli che connotano la condotta sia quale proiezione di quegli stessi profili, ove idonei a qualificare il risultato prodotto (sul punto Cass. Sez. 6, n. 48913 del 04/11/2015, Ricci, rv. 265473; Cass. Sez. 6, n. 11394 del 29/01/2015, Strassoldo, rv. 262793).
D'altro canto
la nozione di danno ingiusto deve essere intesa non solo con riguardo a situazioni patrimoniali e a diritti soggettivi perfetti (Cass. Sez. 6, n. 39452 del 07/07/2016, Brigandì, rv. 268222), dovendosi aver riguardo ad ogni tipo di aggressione arrecata a situazioni soggettive di pertinenza di un soggetto, nel presupposto che la stessa sia giuridicamente ingiustificata e tale da produrre conseguenze lesive.
Assume infatti rilievo la fattispecie di danno ingiusto evocata dall'art. 2043 cod. civ., riferibile anche alla lesione di interessi legittimi (sul punto dopo l'analisi di Cass. Civ. Sez. U., n. 500 del 22/07/1999, rv., si rinvia per più recenti puntualizzazioni del tema a Cass. Civ., Sez. 1, n. 16196 del 20/06/2018, rv. 649479; Cass. Sez. L., n. 7043 del 13/04/2004, rv. 572035), ferma restando la concreta valutabilità della «chance», particolarmente rilevante nel caso di comparazione di poche posizioni.
3.2. In tale prospettiva è all'evidenza infondata la doglianza incentrata sulla non configurabilità di un diritto soggettivo del Sa. a vedersi confermato l'incarico ed a fruire dell'indennità richiesta.
Al contrario deve condividersi l'assunto dei Giudici di merito secondo i quali
la condotta discriminatoria e ritorsiva del ricorrente, sostenuta altresì da quello specifico animus, si è proiettata sul Sa., determinando l'intenzionale pregiudizio della sua posizione, valutabile in termini professionali e patrimoniali, pur a prescindere dalla sussistenza di un vero e proprio diritto soggettivo, in quanto ha compromesso in quello specifico momento la possibilità del Sa. di continuare a svolgere le medesime mansioni, ne ha per contro determinato il sostanziale demansionamento, con sottoposizione a soggetto precedentemente a lui sottoposto, ha significato il mancato riconoscimento dell'indennità, che lo stesso Sindaco aveva mostrato di voler condizionare a comportamenti in linea con i suoi desiderata.
Tali effetti lesivi della condotta sono stati dunque correttamente qualificati come di per sé ingiusti, in quanto tali da pregiudicare la posizione del Sa. e da non trovare alcuna giuridica giustificazione, avuto riguardo alle illecite determinazioni assunte.
Non rileva in senso contrario che in prosieguo di tempo, dopo l'annullamento disposto dal Giudice del lavoro, fosse stato riattivato il procedimento con valutazione comparativa, cui il Sa. aveva omesso di partecipare, e fosse stata assunta una nuova determinazione in merito alla spettanza dell'indennità con esito negativo per lo stesso Sa., avallato questa volta dal Giudice del lavoro, a fronte di addotti persistenti profili di discriminatorietà.
Va infatti rimarcata in questa sede la lesione già prodottasi, in conseguenza dell'illecito esercizio delle funzioni amministrative e del contenuto discriminatorio delle relative determinazioni, tali da arrecare di per sé, «hic et nunc», un pregiudizio contra ius, peraltro assistito dall'intenzionalità, insita nello stesso connotato di ritorsione sotteso all'agire amministrativo.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONessun margine per nuove posizioni organizzative dal riallineamento retributivo negli Enti senza dirigenti.
Il decreto Semplificazioni (Dl 135/2018) ha previsto la possibilità di poter incrementare le retribuzioni di posizione dei titolari di posizione organizzativa, nei soli enti privi di dirigenti, in base ai maggiori valori previsti dal nuovo contratto delle Funzioni locali, ma condizionando questa maggiore spesa a una equivalente riduzione della spesa per assunzioni a tempo indeterminato.
I maggiori importi ottenuti, considerati dal legislatore fuori dai tetti del salario accessorio (articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017), non potranno essere distratti per il pagamento di nuove posizioni organizzative ma solo di quelle esistenti. La equivalente riduzione delle assunzioni a tempo indeterminato richieste dalla normativa non potrà che riferirsi alla capacità assunzionale disponibile e non alle assunzioni attivate mediante la mobilità volontaria neutra, stante la loro soggezione ai soli limiti della spesa media sostenuta nel triennio 2011-2013.

Sono questi i chiarimenti della Corte dei conti della Lombardia nel parere 23.05.2019 n. 210.
Le disposizioni del decreto Crescita
L'articolo 11-bis, comma 2, del Dl 135/2018 ha previsto che, per i soli Comuni privi di posizioni dirigenziali, il limite previsto dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017 (salario accessorio non superiore a quello sostenuto nell'anno 2016), non si applica al trattamento accessorio dei titolari di posizione organizzativa del comparto Funzioni locali «limitatamente al differenziale tra gli importi delle retribuzioni di posizione e di risultato già attribuiti alla data di entrata in vigore del predetto CCNL e l'eventuale maggiore valore delle medesime retribuzioni successivamente stabilito dagli enti ai sensi dell'articolo 15, commi 2 e 3, del medesimo CCNL, attribuito a valere sui risparmi conseguenti all'utilizzo parziale delle risorse che possono essere destinate alle assunzioni di personale a tempo indeterminato che sono contestualmente ridotte del corrispondente valore finanziario».
I dubbi di un Comune
La disposizione legislativa ha generato alcuni dubbi in merito all'utilizzazione del differenziale ottenuto da un possibile riallineamento al nuovo contratto per i titolari di posizione organizzativa, il cui importo massimo è passato da 12.911,42 a 16.000,00 euro, da finanziare mediante una correlata riduzione della spesa per assunzioni a tempo indeterminato.
Il primo dubbio riguarda la possibilità di poter destinare, questo maggior valore, complessivamente ottenuto su tutte le posizioni organizzative presenti alla data di entrata in vigore del nuovo contratto delle funzioni locali (21.05.2018), per finanziare l'acquisizione di una nuova posizione organizzativa. Il secondo dubbio riguarda il termine di assunzione di personale a tempo indeterminato, ossia se il riferimento debba essere fatto alla spesa del personale per assunzioni a tempo indeterminato ivi inclusa la mobilità volontaria.
Le indicazioni del collegio contabile
In merito al differenziale indicato nel decreto Semplificazioni, per il giudici contabili lombardi l'importo non potrà che essere riferito ai soli titolari di posizione organizzativa presenti alla data della stipula del nuovo contratto, finanziando il maggior importo ottenuto con una equivalente riduzione delle assunzioni di personale a tempo indeterminato, nel rispetto del limite della spesa del personale (media spesa sostenuta nel triennio 2011-2013).
Di conseguenza è escluso che questo maggior valore acquisito a seguito del riallineamento ai valori più alti previsti dal nuovo contratto, possa essere separato per poter remunerare una nuova posizione organizzativa, essendo la sua destinazione unicamente vincolata ad aumentare l'importo delle posizioni organizzative presenti alla data del contratto.
Avuto riguardo, invece, alla riduzione della spesa del personale, questa non potrà che riferirsi a una riduzione del valore finanziario del turn-over (ossia alla capacità assunzionale disponibile) mentre la mobilità volontaria, qualora realizzata da due amministrazioni soggette ai vincoli del turn-over (e quindi neutra), incontrerà il solo limite della spesa sostenuta che non potrà in ogni caso superare il valore medio del triennio 2011-2013 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.06.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPosizioni organizzative, aumento della retribuzione solo per incarichi già esistenti.
Negli enti privi di dirigenza, l'esclusione dal computo del tetto del salario accessorio 2016 degli incrementi del costo per la retribuzione di posizione e di risultato dei titolari di posizione organizzativa può avvenire solo per gli incarichi già in essere alla data del 21.05.2018.
Il maggior importo che deriva da questi incrementi può essere compensato solo utilizzando la capacità assunzionale a tempo indeterminato e non anche i risparmi derivanti dalla mancata assunzione mediante l'istituto della «mobilità neutra».

Possono così essere sintetizzate le conclusioni cui giunge la Corte dei conti Lombardia con il parere 23.05.2019 n. 210, in risposta a un ente locale che ha posto alcuni dubbi applicativi sulla corretta applicazione dell'articolo 11-bis, comma 2, del decreto Semplificazioni.
L'esclusione dal tetto del salario accessorio
In primo luogo, l'ente locale ha chiesto se la disposizione di maggior favore introdotta dal Dl 135/2018, a favore degli enti privi di dirigenza, debba essere riferita alla singola posizione organizzativa o all'importo complessivo delle posizioni organizzative dell'ente, con possibilità, ad esempio, di istituirne una nuova. Per i giudici contabili non ci sono dubbi: la disposizione consente una deroga al tetto del salario accessorio 2016 solo per la parte relativa alla differenza tra gli importi già riconosciuti alla data di entrata in vigore del nuovo contratto (21.05.2018) e l'eventuale maggior valore attribuito successivamente alle posizioni già esistenti.
Pertanto, solo questo differenziale potrà essere escluso dal computo del limite stabilito dall'articolo 23, comma 2, del Dl 75/2017. In ogni modo, viene puntualizzato che l'incremento potrà avvenire solo se viene rispettato il limite di spesa di personale che per i Comuni oltre mille abitanti è dato dalla media delle corrispondenti somme del triennio 2011/2013, mentre per i Comuni fino a mille abitanti dal tetto dell'anno 2008.
Il finanziamento
Altro aspetto posto all'attenzione della Corte riguarda la corretta interpretazione nell'inciso utilizzato dalla norma in esame nella parte in cui si stabilisce che i maggiori costi derivanti da questi incrementi sono «a valere sui risparmi conseguenti all'utilizzo parziale delle risorse che possono essere destinate alle assunzioni di personale a tempo indeterminato che sono contestualmente ridotte del corrispondente valore».
La disposizione, viene precisato nella deliberazione, deve essere letta nel senso che la quota destinata alla maggiorazione dell'indennità di posizione e di risultato delle posizioni organizzative ha quale effetto quello di limitare le risorse per le assunzioni di personale a tempo indeterminato a valere sulle capacità assunzionali, come le assunzioni con concorso o con scorrimento di graduatorie, e non anche quelle derivanti da assunzioni di personale mediante l'istituto della mobilità volontaria proveniente da enti soggetti a vincoli assunzionali (mobilità neutra) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.06.2019).
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PARERE
Il Sindaco del comune di San Vittore Olona (MI)
con la nota sopra indicata ha formulato i seguenti quesiti: “in merito all'applicazione del comma 2 dell'art. 11-bis del decreto legge 14.12.2018 n. 135 convertito con legge 11.02.2019, n. 12 per un Comune privo di dirigenza.
In particolare, si chiede:
   - se il possibile aumento dell'indennità di posizione riguarda la singola posizione organizzativa o l'importo complessivo delle posizioni organizzative dell'ente anche ad esempio costituendone una ulteriore;
   - se il "medesimo risparmio sulle assunzioni a tempo indeterminato" riguarda la capacità assunzionale (assunzioni a mezzo di concorsi) o anche le mobilità ex art. 30 d.lgs. 165/2001
”.
...
I quesiti formulati chiedono di interpretare l’art. 11-bis, comma 2, del d.l. 135/2018 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 12/2019 che recita ”Fermo restando quanto previsto dai commi 557-quater e 562 dell'articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296, per i comuni privi di posizioni dirigenziali, il limite previsto dall'articolo 23, comma 2, del decreto legislativo 25.05.2017, n. 75, non si applica al trattamento accessorio dei titolari di posizione organizzativa di cui agli articoli 13 e seguenti del contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) relativo al personale del comparto funzioni locali - Triennio 2016-2018, limitatamente al differenziale tra gli importi delle retribuzioni di posizione e di risultato già attribuiti alla data di entrata in vigore del predetto CCNL e l'eventuale maggiore valore delle medesime retribuzioni successivamente stabilito dagli enti ai sensi dell'articolo 15, commi 2 e 3, del medesimo CCNL, attribuito a valere sui risparmi conseguenti all'utilizzo parziale delle risorse che possono essere destinate alle assunzioni di personale a tempo indeterminato che sono contestualmente ridotte del corrispondente valore finanziario”.
Come è noto, l’art. 23, comma 2, del decreto legislativo n. 75/2017 dispone l’invarianza della spesa al 2016 relativa al trattamento accessorio del personale, comprensiva anche dell’indennità di posizione e di risultato delle posizioni organizzative.
L’art 11-bis, comma 2, del d.l. n. 135/2018 consente una deroga alla disposizione appena ricordata, per i comuni privi di dirigenza, disponendo che
l’invarianza della spesa non si applica alle indennità dei titolari di posizioni organizzative, di cui agli artt. 13 e ss. del CCNL relativo al comparto funzioni locali, limitatamente alla differenza tra gli importi già attribuiti alla data di entrata in vigore del contratto (21.05.2018) e l’eventuale maggior valore attribuito successivamente alle posizioni già esistenti, ai sensi dell’art. 15 del CCNL in parola.
Il differenziale da escludere dal computo di cui all’art. 23, comma 2, del decreto legislativo n. 75/2017 è soltanto la maggiorazione delle indennità attribuite alle posizioni organizzative già in servizio al momento dell’entrata in vigore del contratto collettivo nazionale. Tale maggiorazione deve, in ogni caso, essere contenuta nei limiti di spesa per il personale, prevista dai commi 557-quater e 562 dell’art. 1 della legge n. 296/2006.
Per quanto riguarda il secondo quesito, questa Sezione ritiene che la spesa del personale derivante dall’istituto della mobilità abbia come limite il rispetto dell’art. 1, comma 557-quater ovvero del comma 562 della legge n. 296/2006, stante la neutralità della stessa, sempre che l’ente cedente sia sottoposto a vincoli assunzionali.
Da ultimo, si evidenzia che, una volta che l’ente decida di avvalersi della possibilità prevista dalla normativa in parola la quota destinata alla maggiorazione dell’indennità di posizione e di risultato delle posizioni organizzative negli enti privi di dirigenti ha come effetto di limitare le risorse per le assunzioni di personale a tempo indeterminato (assunzioni che non siano quelle attuate con l’istituto della mobilità che incontrano soltanto il limite sopra richiamato).
Infatti, le suddette risorse ”sono contestualmente ridotte del corrispondente valore finanziario”, ossia del valore finanziario corrispondente al valore della maggiorazione in esame, così come disposto dal predetto art. 11-bis, comma 2, del d.l. n. 135/2018.

PUBBLICO IMPIEGOLa formazione obbligatoria in materia di anticorruzione, trasparenza, privacy e codici di comportamento.
Domanda
La formazione in materia di anticorruzione, trasparenza e privacy è obbligatoria in ogni anno? È possibile prevederla ad anni alterni?
Risposta
Gli obblighi di formazione in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza, sono previsti da specifiche disposizioni, contenute nell’articolo 1, della legge 06.11.2012, n. 190 (cd Legge Severino). In particolare, meritano l’attenzione degli operatori:
   • il comma 5, lettera b);
   • il comma 8;
   • il comma 10, lettera c);
   • il comma 11.
In materia di attività formative è necessario, inoltre, tenere a mente anche il contenuto dell’articolo 15, comma 5, del decreto Presidente della Repubblica 16.04.2013, n. 62
[1], che testualmente recita:
5. Al personale delle pubbliche amministrazioni sono rivolte attività formative in materia di trasparenza e integrità, che consentano ai dipendenti di conseguire una piena conoscenza dei contenuti del codice di comportamento, nonché un aggiornamento annuale e sistematico sulle misure e sulle disposizioni applicabili in tali ambiti.
Sull’argomento è intervenuta in più occasioni anche l’ANAC
[2], ribadendo che la formazione riveste un ruolo strategico nella prevenzione della corruzione e deve essere rivolta al personale dipendente, prevedendo due livelli differenziati:
   a) livello generale, rivolto a tutti i dipendenti: riguardante l’aggiornamento delle competenze e le tematiche dell’etica e della legalità;
   b) livello specifico, rivolto al responsabile della prevenzione, ai referenti, ai componenti degli organismi di controllo, ai dirigenti e funzionari addetti alle aree di rischio. In questo caso la formazione dovrà riguardare le politiche, i programmi e i vari strumenti utilizzati per la prevenzione e tematiche settoriali, in relazione al ruolo svolto da ciascun soggetto dell’amministrazione.
Ogni ente, nell’apposito capitolo dedicato alla formazione del Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT), dovrà quantificare le ore/giornate annue dedicate allo svolgimento dell’attività formativa, definendo anche le categorie di lavoratori a cui la stessa viene indirizzata.
Per quanto riguarda il Livello Generale, è possibile valutare l’opzione di erogare la formazione anche con cadenza biennale, a tutto il personale, mentre la formazione di Livello Specifico è necessario che venga prevista per ogni anno, nei confronti di tutte le figure che intervengono nell’attuazione delle misure previste in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza.
Le modalità su come si sia svolta l’attività formativa nell’ente, risultano oggetto di una specifica sezione della Relazione che deve essere compilata e pubblicata nel sito web, da parte del Responsabile prevenzione corruzione e trasparenza (RPCT).
Se si affronta la questione della trasparenza e degli obblighi di pubblicità, occorre, necessariamente, ragionare anche di tutela dei dati personali. In particolare ciò è necessario dopo la piena attuazione del Regolamento (UE) n. 2016/679, che è decorsa dal 25.05.2018.
Così come previsto dall’articolo 32, paragrafo 4, del medesimo Regolamento, occorre prevedere un obbligo di formazione per tutte le figure (dipendenti e collaboratori) presenti nell’organizzazione degli enti.
Sono direttamente interessati alla formazione:
   1. i Responsabili del trattamento;
   2. i Sub-responsabili del trattamento;
   3. gli incaricati del trattamento;
   4. il Responsabile Protezione Dati.
Una efficace attività formativa in materia di privacy costituisce un tassello rilevante del sistema di gestione della tutela dei dati personali, in grado di dare concretezza al principio di accontuability, inteso come capacità di dimostrare di aver adottato misure di sicurezza idonee ed efficaci.
Le Pubbliche amministrazioni, pertanto, dovranno organizzarsi per:
   • pianificare un percorso di formazione per tutte le figure coinvolte, inserendolo nel Piano Formativo annuale, tenendo conto della struttura dell’ente, i profili organizzativi, le finalità di ciascun corso, la possibilità di associare, con altri enti, l’attività formativa;
   • prevedere idonee risorse in sede di approvazione del bilancio;
   • prevedere prove finali di verifica del percorso formativo e sessioni di aggiornamento sulla base delle modifiche normative, organizzative e tecniche che interverranno;
   • stabilire aree di priorità nell’attività formativa partendo –ad esempio– dal Responsabile Protezione dei Dati (RPD) e dai suoi collaboratori; dalle figure apicali presenti nell’ente; i neo assunti; gli amministratori di sistema e tutto il personale autorizzato al trattamento.
Negli enti locali, la formazione in materia di privacy deve essere integrata con la digitalizzazione dei processi, con la riforma del Codice di Amministrazione digitale, con i codici di comportamento degli enti e con le ultime recenti novità normative in materia di trasparenza, prevenzione della corruzione, Foia e whistleblowing.
La formazione non deve essere considerata un mero adempimento burocratico, ma un’opportunità per:
   • rendere consapevoli gli operatori dei rischi connessi al trattamento dei dati, delle misure di sicurezza;
   • migliorare i processi organizzativi e i servizi erogati;
   • evitare danni reputazionali;
   • ridurre i rischi di sanzioni amministrative e rendere più competitiva l’organizzazione.
Riassumendo:
   a) la formazione in materia di prevenzione della corruzione, trasparenza e privacy è obbligatoria per ogni anno e le eventuali relative spese stanno fuori da tutti i tetti per la formazione;
   b) le ore/giornate annue vanno indicate nel PTPCT;
   c) è possibile valutare (indicandolo nel Piano) di somministrare la formazione di Livello generale ad anni alterni.
Da ultimo si sottolinea che anche l’Aggiornamento al PNA del 2018
[3], ribadisce che "sarebbe necessario garantire una maggiore formazione, a tutti i livelli, in materia di prevenzione della corruzione e della trasparenza”.
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[1] Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’articolo 54 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165.
[2] Delibera n. 72/2013; Determinazione n. 12 del 28/10/2015, paragrafo 5.
[3] Delibera ANAC n. 1074 del 21.11.2018
(21.05.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPa responsabile del danno anche quando il dipendente agisce a scopo personale.
Lo Stato o l’ente pubblico rispondono del danno subìto dal terzo per l’illecito del dipendente, anche quando agisce solo per scopi personali, estranei ai fini dell’amministrazione. La corresponsabilità scatta purché l’azione illecita sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni svolte dal dipendente infedele. E dunque se questa non sarebbe stata possibile senza l’esercizio del ruolo, per quanto svolto in modo illecito.
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A. Inquadramento della fattispecie.
1. La sentenza impugnata ha rigettato la domanda risarcitoria della vittima del peculato del cancelliere in base all'orientamento della giurisprudenza di legittimità (richiamando: Cass. 21/11/2006, n. 24744; Cass. 17/09/1997, n. 9260; Cass. 06/12/1996, n. 10896; Cass. 13/12/1995, n. 12786; Cass. 03/12/1991, n. 12960) secondo cui, affinché ricorra la responsabilità della P.A. per un fatto lesivo posto in essere dal proprio dipendente, poiché il fondamento di quella risiede nel rapporto di immedesimazione organica, deve sussistere, oltre al nesso di causalità fra il comportamento e l'evento dannoso, anche la riferibilità all'Amministrazione del comportamento stesso, la quale presuppone che l'attività posta in essere dal dipendente si manifesti come esplicazione dell'attività dell'ente pubblico e cioè tenda, pur se con abuso di potere, al conseguimento dei fini istituzionali di questo nell'ambito delle attribuzioni dell'ufficio o del servizio cui il dipendente è addetto; tale riferibilità viene meno, invece, quando il dipendente agisca come un semplice privato per un fine strettamente personale ed egoistico, che si riveli del tutto estraneo all'amministrazione o perfino contrario ai fini che essa persegue ed escluda ogni collegamento con le attribuzioni proprie dell'agente, atteso che in tale ipotesi cessa il rapporto organico fra l'attività del dipendente e la P.A. (militando nello stesso senso anche Cass. 12/04/2011, n. 8306, nonché, in precedenza e tra le altre: Cass. 08/10/2007, n. 20986; Cass. 18/03/2003, n. 3980).
2. Il ricorrente si affida ad un unitario motivo, con cui denuncia, in riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell'art. 28 Cost. e dell'art. 2049 cod. civ., dolendosi dell'esclusione della responsabilità del Ministero; nega che «ai fini dell'applicazione dell'art. 28 Cost., oltre al nesso di causalità fra il comportamento del funzionario e l'evento dannoso, debba necessariamente ricorrere anche l'ulteriore, troncante presupposto della "riferibilità all'amministrazione di quel comportamento"»; contesta che debba «ricadere esclusivamente sul danneggiato la scelta dell'Amministrazione di affidare la direzione di un ufficio a soggetto rivelatosi privo dei requisiti morali»; chiede che risponda del «danno ... occasionato dalla mancanza o inefficienza dei controlli».
3. Sostiene, ancora, il Di Be. che il principio secondo cui la responsabilità dell'Amministrazione, nelle ipotesi previste dall'art. 28 Cost., debba ritenersi esclusa ogni qual volta l'agente, profittando delle sue precipue funzioni, abbia dolosamente commesso il fatto per ritrarre egli stesso utilità, non troverebbe giustificazione nel dettato costituzionale, né in norme di legge, integrando un «disparitario postulato assolutamente privo di sostrato logico e giuridico, che non solo svuota di ogni contenuto quella norma di garanzia (evidentemente posta a tutela dell'amministrato), ma ne sbilancia smaccatamente gli effetti a tutto favore dell'Amministrazione»; sicché la Corte di merito avrebbe dovuto piuttosto aderire al diverso orientamento espresso con la sentenza di questa Corte, VI Sez. Pen., n. 13799 del 31.03.2015, secondo cui «è configurabile la responsabilità civile della P.A. anche per le condotte dei dipendenti pubblici dirette a perseguire finalità esclusivamente personali mediante la realizzazione di un reato doloso, quando le stesse sono poste in essere sfruttando, come premessa necessaria, l'occasione offerta dall'adempimento di funzioni pubbliche, e costituiscono, inoltre, non imprevedibile sviluppo dello scorretto esercizio di tali funzioni, in applicazione di quanto previsto dall'art. 2049 cod. civ.» (annullato così il rigetto della domanda risarcitoria nei confronti di imputato che, quale agente di Ufficio notifiche esecuzioni e protesti, si era appropriato di titoli di credito ed effetti cambiari a lui consegnati per il protesto, commettendo i reati di peculato, falso e truffa).
4. Pertanto, per il ricorrente la responsabilità del Ministero si fonda sul fatto che, come emerso nelle fasi di merito, lo Sc. aveva esplicato l'attività criminosa, non imprevedibile in assoluto, nella qualità di funzionario di cancelleria e che solo grazie a quella veste istituzionale gli era stato possibile accedere alla cassaforte ove i libretti vincolati erano custoditi, falsificare i mandati di pagamento e conseguirne di persona l'incasso.
5. Dal canto suo il Ministero, eccepita la tardività del ricorso, invoca la giurisprudenza di legittimità sulla necessità, ai fini della responsabilità diretta dell'Amministrazione, della riferibilità a questa della condotta del funzionario o del dipendente, come esplicazione dell'attività di quella in virtù del rapporto organico, ricollegabile ad attribuzioni proprie di lui: tanto da escludere ogni responsabilità nel caso, come quello in esame, di condotta sorretta da un fine strettamente personale ed egoistico del funzionario o dipendente ed anzi contrario agli scopi istituzionali perseguiti dall'Amministrazione.
6. Con la memoria depositata per l'udienza del 09/04/2019, poi, il Ministero nega la rilevanza dell'invocata giurisprudenza di legittimità penale, da un lato perché anch'essa postula i caratteri dell'assoluta imprevedibilità ed eterogeneità della condotta dell'agente rispetto ai suoi compiti istituzionali (in modo da non consentire un collegamento con essi) e dall'altro perché la stessa P.A. avrebbe potuto costituirsi parte civile nel procedimento penale per peculato contro il suo funzionario evidentemente infedele, attesa la natura plurioffensiva del delitto di peculato per il quale quello è stato poi condannato.
7. Il Pubblico Ministero, infine, nella requisitoria scritta con ampiezza di riferimenti ricostruisce i termini della questione, iniziando dalla disamina della natura della responsabilità di Stato ed Enti pubblici per i fatti illeciti commessi dai propri dipendenti e funzionari; illustra una prima impostazione ermeneutica, propria della prevalente odierna giurisprudenza civilistica e di quella penalistica più risalente (ma pure di quella amministrativa), per la quale la responsabilità dello Stato per il fatto illecito dei propri dipendenti sussiste solo in applicazione di criteri pubblicistici e quindi esclusivamente in caso di attività corrispondente ai fini istituzionali e, in virtù del rapporto organico, allorché quella vada imputata direttamente all'ente (con orientamento definito consolidato da Cass. n. 15930/2002, seguita poi, tra le altre, da Cass. nn. 2089 e 27246 del 2008, 8306 e 29727 del 2011, 21408/2014 e 8991/2015); ma ricorda pure una seconda interpretazione, propria soprattutto della giurisprudenza penalistica (Cass. pen. nn. 21195/2011, 40613/2013, 13799 e 44760 del 2015) e di una giurisprudenza civilistica ora più remota e poi superata, ora minoritaria (Cass. nn. 20928/2015 e 17836/2007), ora riferita a rapporti di preposizione privatistici (Cass. nn. 2226/1990, 20924/15, 22058/2017, 4298/2019) e quindi non assimilabili al rapporto che lega il pubblico dipendente allo Stato o all'ente pubblico, la quale riconosce la responsabilità di questi pure in applicazione di criteri privatistici, corrispondenti a quelli elaborati per la responsabilità del preponente ai sensi dell'art. 2049 cod. civ., ammettendola così in ipotesi di nesso di occasionalità necessaria tra condotta illecita e danno.
8. Nella stessa requisitoria scritta si dubita poi della sussistenza di un effettivo contrasto: da un lato, per la costanza nella configurazione di una responsabilità diretta e, dall'altro, per la sussistenza di questa esclusivamente in caso di condotta del dipendente strumentalmente connessa con l'attività d'ufficio, benché non esclusa in ipotesi di condotta dolosa o con abuso di poteri o con violazione di legge o di un ordine, purché si innesti nell'attività dell'ente e sia anche soltanto indirettamente collegabile alle sue attribuzioni e non sia connotata dal carattere dell'imprevedibilità ed eterogeneità rispetto a queste ultime, sì da escluderne ogni collegamento con le medesime, dovendo rimettersi il superamento delle discrasie all'apprezzamento di fatto delle circostanze concrete. Per l'errore di diritto consistente nella violazione di tale principio si chiede così l'accoglimento del ricorso.
B. L'ordinanza di rimessione.
9. L'ordinanza di rimessione (05/11/2018, n. 28079), esclusa la tardività del ricorso in base al testo dell'art. 327 cod. proc. civ. applicabile in ragione della data di instaurazione del giudizio in primo grado, identifica come oggetto della controversia la questione della sussistenza o meno della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione per i danni cagionati dal fatto penalmente illecito del dipendente quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee all'amministrazione di appartenenza; ed individua la ragione della sua devoluzione a queste Sezioni Unite nella rilevata non univocità, sul punto, delle conclusioni della giurisprudenza di legittimità.
10. Da un lato, la prevalente giurisprudenza civile di legittimità ha ravvisato il fondamento della responsabilità di Stato ed enti pubblici nell'art. 28 della Costituzione -la cui ratio è quella di un più agevole od ampio conseguimento del risarcimento da parte del danneggiato- e, basandosi tale norma sul rapporto di immedesimazione organica, solo in virtù del quale l'attività posta in essere dal funzionario (o dipendente) è sempre imputabile all'ente di appartenenza, ne ha desunto la configurazione di una responsabilità diretta o per fatto proprio, ma soltanto se l'attività dannosa si atteggi come esplicazione dell'attività dello Stato o dell'ente pubblico e cioè tenda, sia pur con abuso di potere, al conseguimento dei suoi fini istituzionali, nell'ambito delle attribuzioni dell'ufficio o del servizio cui il dipendente è addetto (richiamando: Cass. 12/08/2000, n. 10803; Cass. 30/01/2008, n. 2089; Cass. 17/09/1997, n. 9260). 
Ne conseguirebbe l'esclusione di quella responsabilità in tutti i casi in cui la condotta sia sorretta da un fine esclusivamente privato od egoistico, o a maggior ragione se contrario ai fini istituzionali dell'ente (Cass. 12/04/2011, n. 8306; Cass. 8/10/2007, n. 20986, Cass. 21/11/2006, n. 24744; Cass. 18/03/2003, n. 3980; Cass. 12/08/2000, n. 10803; Cass. 13/12/1995, n. 12786).
11. Dall'altro lato, però, almeno in tempi recenti la giurisprudenza penale di legittimità configura la responsabilità civile della pubblica amministrazione pure per le condotte dei pubblici dipendenti dirette a perseguire finalità esclusivamente personali e mercé la realizzazione di un reato doloso, ove poste in essere sfruttando l'occasione necessaria offerta dall'adempimento delle funzioni pubbliche cui essi sono preposti, nonché integranti il non imprevedibile od eterogeneo sviluppo di un non corretto esercizio di tali funzioni, in applicazione del criterio previsto dall'art. 2049 cod. civ. (Cass. pen., 20/01/2015, n. 13799 -poi richiamata da Cass. pen. 03/04/2017, n. 35588, ma preceduta da Cass. pen. 11/06/2003, n. 33562- in consapevole contrasto con l'orientamento precedente, di cui è stata ulteriore espressione la più recente Cass. pen. 04/06/2015, n. 44760).
12. Ad analoga estensione della responsabilità civile si assiste nella giurisprudenza civile di legittimità in altri ambiti di preposizione, meramente privatistici, quali quelli propri dei funzionari di banche o dei promotori di queste o di società di intermediazione finanziaria, in ordine ai quali è stata riconosciuta la responsabilità dei preponenti anche nei casi in cui sussista un nesso di occasionalità necessaria tra le incombenze attribuite al preposto e il danno arrecato a terzi: nesso che è presupposto indispensabile della responsabilità del preponente ex art. 2049 cod. civ. e non viene meno in caso di commissione da parte del preposto di un illecito penale per finalità di carattere esclusivamente personale (v. già Cass. 06/03/2008, n. 6033; successivamente, v.: Cass. 16/04/2009, n. 9027; Cass. 24/07/2009, n. 17393; Cass. 25/01/2011, n. 1741; Cass. 24/03/2011, n. 6829; Cass. 13/12/2013, n. 27925; Cass. 04/03/2014, n. 5020; Cass. 10/11/2015, n. 22956).
Di qui il rilievo della non univocità della giurisprudenza in materia e la rimessione della relativa questione a queste Sezioni Unite.
C. La normativa applicabile.
13. Pertinenti per la risoluzione della questione sono:
   - l'art. 28 della Costituzione, per il quale, com'è noto: «I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici»;
   - l'art. 2049 cod. civ., rubricato «responsabilità dei padroni e dei committenti», per il quale «i padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti».
14. Sostanzialmente neutri ai fini che qui interessano, per il rinvio espresso che operano ai principi ed alle norme vigenti, si rivelano invece alcuni articoli del t.u. 10.01.1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), in particolare gli artt. 22 e 23, i cui rispettivi primi commi prevedono:
   - «l'impiegato che, nell'esercizio delle attribuzioni ad esso conferite dalle leggi o dai regolamenti, cagioni ad altri un danno ingiusto ai sensi dell'art. 23 è personalmente obbligato a risarcirlo. L'azione di risarcimento nei suoi confronti può essere esercitata congiuntamente con l'azione diretta nei confronti dell'Amministrazione qualora, in base alle norme ed ai principi vigenti dell'ordinamento giuridico, sussista anche la responsabilità dello Stato»;
   - «è danno ingiusto, agli effetti previsti dall'art. 22, quello derivante da ogni violazione dei diritti dei terzi che l'impiegato abbia commesso per dolo o per colpa grave; restano salve le responsabilità più gravi previste dalle leggi vigenti».
D. La normativa costituzionale.
15. È noto l'ampio dibattito, soprattutto in dottrina e all'indomani dell'entrata in vigore della Carta fondamentale, sulla portata dell'art. 28 della Costituzione: superate le prime tesi sulla natura meramente sussidiaria della responsabilità di Stato od ente pubblico rispetto a quella dell'agente, è invalso il riconoscimento della natura concorrente o solidale delle due responsabilità, ricostruita quella dello Stato od ente pubblico come diretta, in forza dei principi sull'immedesimazione organica dovendo escludersi che l'attività posta in essere al di fuori dei compiti istituzionali dal pubblico funzionario o dipendente potesse imputarsi allo Stato o ente pubblico.
16. Non ha incontrato il favore degli interpreti la ricostruzione della responsabilità della Pubblica Amministrazione per l'illecito del suo dipendente quale responsabilità indiretta (o per fatto altrui, dovendo la Pubblica Amministrazione sopportare i rischi delle conseguenze dannose degli atti posti in essere da coloro che agiscono per suo conto), né altra tesi eclettica, che ha prospettato la natura composita di quella stessa responsabilità, dovendo l'Amministrazione rispondere in via diretta per i danni causati nello svolgimento dell'attività provvedimentale (l'unica rispetto alla quale si configurerebbe un'immedesimazione organica, in quanto esplicazione della funzione diretta al perseguimento del pubblico interesse e posta in essere da funzionari dotati del potere rappresentativo -organi in senso stretto- attraverso cui l'Ente esprime la sua volontà ed agisce nei rapporti esterni) ed in via indiretta per i danni causati
nell'espletamento di ogni altra attività, tra cui quella materiale.
17. Nella prevalente dottrina pubblicistica la tesi della responsabilità diretta da rapporto organico in funzione limitativa si fonda sulla tesi del contenimento dell'innovazione portata dalla norma costituzionale: questa non starebbe nell'immutazione della natura della responsabilità dell'Ente, che andrebbe sempre qualificata, come nel sistema anteriore all'entrata in vigore della Costituzione, in termini di responsabilità diretta o per fatto proprio; essa invece starebbe nella previsione, accanto alla responsabilità diretta della pubblica amministrazione, di una concorrente responsabilità, sempre diretta, del funzionario o del dipendente, che invece, nel sistema previgente, poteva essere chiamato a rispondere, in solido con l'Ente di appartenenza, solo ove tale responsabilità solidale fosse prevista da specifiche disposizioni di legge; la norma costituzionale avrebbe cioè disegnato un sistema fondato su due responsabilità concorrenti e solidali, entrambe dirette, spettando esclusivamente al danneggiato la scelta se far valere l'una o l'altra od entrambe.
19. La giurisprudenza amministrativa è, poi, ferma nel ritenere interrotta l'imputazione giuridica dell'attività posta in essere da un organo della pubblica amministrazione nei casi in cui siano posti in essere fatti di reato (Cons. Stato, Sez. 6, 14/11/2014, n. 5600), o di atti adottati in ambienti collusivi penalmente rilevanti (Cons. Stato, Sez. 5, 04/03/2008, n. 890; TAR Reggio Calabria, Sez. 1, 11.08.2012, n. 536), o comunque allorché il soggetto agente, legato alla P.A. da un rapporto di immedesimazione organica, abbia posto in essere il provvedimento amministrativo, frutto del reato contro la P.A., nell'ambito di un disegno criminoso e quindi perseguendo un interesse personale del tutto avulso dalle finalità istituzionali dell'Ente (TAR Sicilia-Catania 25/07/2013, n. 2166, per il quale il venir meno dell'imputabilità dell'atto all'Amministrazione, per interruzione del rapporto organico, determina la nullità dell'atto stesso, per mancanza di uno degli «elementi essenziali» -ex art. 21-septies, l. n. 241 del 1990- individuabile nel soggetto o per mancanza di volontà in capo alla stessa P.A., escludendosi che l'atto de quo possa dirsi posto in essere da una P.A. nell'esplicazione di un'attività amministrativa).
20. E la stessa Corte costituzionale ha reiteratamente statuito (tra le altre: Corte cost. n. 64 del 1992, con richiami a Corte cost. n. 18 del 1989, n. 26 del 1987, n. 148 del 1983, n. 123 del 1972) che l'art. 28 Cost. stabilisce la responsabilità diretta per violazione di diritti tanto dei dipendenti pubblici per gli atti da essi compiuti, quanto dello Stato o degli enti pubblici, rimettendone la disciplina dei presupposti al legislatore ordinario, con la precisazione che (Corte cost. nn. 18 del 1989 e 88 del 1963) la responsabilità dello Stato o dell'ente pubblico può esser fatta valere anteriormente o contestualmente a quella dei funzionari e dei dipendenti, non avendo carattere sussidiario.
E. La normativa codicistica.
21. Il codice civile regola la responsabilità dei padroni e committenti, mutuandola pedissequamente dalla previsione del Code civil francese (ed in particolare dal suo originario art. 1384, che oggi corrisponde all'art. 1242, in forza dell'Ordonnance n. 2016-31 del 10/02/2016, in vigore dal 01/10/2016), a mente del quale «les maitres et les commettants ... sont solidairement responsables du dommage causé ... par leurs domestiques et préposés dans les fonctions auxquelles ils les ont employés»; in tale fattispecie si conferma, analogamente ad altre ipotesi di responsabilità civile senza colpa, la deroga al principio ohne Schuld keine Haftung, che permea sia l'altro ordinamento cardine dei sistemi romanisti (quello tedesco in punto di Deliktsrecht, benché in via di graduale superamento e solo in determinati settori, mediante la ricostruzione di obblighi derivanti direttamente, prima della riforma del 2002, dalla norma sulla buona fede e, poi, dalla novella del BGB sulla sussistenza di obblighi di protezione più ampi rispetto a quelli di prestazione, tali da riverberare i loro effetti anche a favore di chi non è parte del contratto), sia il sistema originario di common law (in cui la Tort Law presuppone appunto ed almeno in linea generale un difetto di due diligence).
22. Il concetto di padrone o committente, in origine riferito ad economie rudimentali e connotate da rapporti assai stretti di preposizione, è stato via via ampliato in forza di un'interpretazione evolutiva, per essere esteso a molte figure di soggetti che, per conseguire i propri fini, si avvalgono dell'opera di altri a loro legati in forza di vincoli di varia natura (e non necessariamente di dipendenza: su tale specifico punto, tra le prime, v. Cass. 16/03/2010, n. 6325).
23. Si è, al riguardo, superata l'originaria configurazione della responsabilità in esame come soggettiva o per fatto proprio, quando questo si identificava almeno in una colpa in eligendo o in vigilando: il testo normativo non concede al responsabile alcuna prova liberatoria, cosicché il ricorso alla fictio della presunzione assoluta di colpa si risolve nell'introduzione artificiosa nella norma di un presupposto che le è irrilevante; al contrario (benché in dottrina si parli anche di responsabilità diretta o per il fatto proprio di essere il preponente), si è dinanzi ad una responsabilità oggettiva per fatto altrui.
24. Si tratta (per tutte: Cass. 09/06/2016, n. 11816, ove ulteriori richiami giurisprudenziali; più di recente: Cass. ord. 12/10/2018, n. 25373; Cass. 14/02/2019 n. 4298; quanto al rapporto tra ente pubblico concedente e concessionario, Cass. 20/02/2018, n. 4026, espressamente fonda la responsabilità del primo sull'inserimento del secondo nell'apparato organizzativo della P.A.) di un'applicazione moderna del principio cuius commoda eius et incommoda, in forza del quale l'avvalimento, da parte di un soggetto, dell'attività di un altro per il perseguimento di propri fini comporta l'attribuzione al primo di quella posta in essere dal secondo nell'ambito dei poteri conferitigli.
25. Ma una tale appropriazione di attività deve comportarne l'imputazione nel suo complesso e, così, sia degli effetti favorevoli che di quelli pregiudizievoli: un simile principio risponde ad esigenze generali dell'ordinamento di riallocazione dei costi delle condotte dannose in capo a colui cui è riconosciuto di avvalersi dell'operato di altri (poco importa se per scelta od utilità, come nel caso delle persone fisiche, o per necessità, come in ogni altro caso, in cui è indispensabile il coinvolgimento di persone fisiche ulteriori e distinte per l'imputazione di effetti giuridici ad entità sovraindividuali).
26. Dalla correlazione di tale specifica forma di responsabilità ai vantaggi che sia lecito per il preponente attendersi dall'avvalimento dell'altrui operato la giurisprudenza civile di legittimità per i rapporti privatistici di preposizione e quella più recente penale di legittimità hanno ricavato la necessità di un nesso di occasionalità necessaria tra esercizio delle incombenze e danno al terzo (quale ultimo elemento costitutivo della fattispecie, oltre al rapporto di preposizione ed all'illiceità del fatto del preposto): nesso che è stato ritenuto sussistente non solamente se il fatto dannoso derivi dall'esercizio delle incombenze, ma pure nell'ipotesi in cui tale esercizio si limiti ad esporre il terzo all'ingerenza dannosa del preposto ed anche se questi abbia abusato della sua posizione od agito per finalità diverse da quelle per le quali le incombenze gli erano state affidate.
27. Alla stregua di tale elaborazione, il nesso di occasionalità necessaria (e la responsabilità del preponente) sussiste nella misura in cui le funzioni esercitate abbiano determinato, agevolato o reso possibile la realizzazione del fatto lesivo, nel qual caso è irrilevante che il dipendente abbia superato i limiti delle mansioni affidategli, od abbia agito con dolo e per finalità strettamente personali (tra molte: Cass. 24/09/2015, n. 18860; Cass. 25/03/2013, n. 7403); alla condizione però che la condotta del preposto costituisca pur sempre il non imprevedibile sviluppo dello scorretto esercizio delle mansioni, non potendo il preponente essere chiamato a rispondere di un'attività del preposto che non corrisponda, neppure quale degenerazione od eccesso, al normale sviluppo di sequenze di eventi connesse all'espletamento delle sue incombenze (Cass. 11816/2016, cit.).
28. Non ha infatti giuridico fondamento accollare a chicchessia le conseguenze dannose di condotte del preposto in alcun modo collegate alle ragioni, anche economiche, della preposizione, ove cioè non riconducibili al novero delle normali potenzialità di sviluppo di queste -anche sotto forma di deviazione dal fine perseguito o di contrarietà ad esso o di eccesso dall'ambito dei poteri conferiti- secondo un giudizio oggettivo di probabilità di verificazione.
29. L'appropriazione dei risultati delle altrui condotte deve, in definitiva, essere correlata (e, corrispondentemente, limitata) alla normale estrinsecazione delle attività del preponente e di quelle oggetto della preposizione ad esse collegate, sia pure considerandone le violazioni o deviazioni oggettivamente probabili: sicché chi si avvale dell'altrui operato in tanto può essere chiamato a rispondere, per di più senza eccezioni e la rilevanza del proprio elemento soggettivo, delle sue conseguenze dannose in quanto egli possa ragionevolmente raffigurarsi, per prevenirle, le violazioni o deviazioni dei poteri conferiti o almeno tenerne conto nell'organizzazione dei propri rischi; e così risponde di quelle identificate in base ad un giudizio oggettivizzato di normalità statistica, cioè riferita non alle peculiarità del caso, ma alle ipotesi in astratto definibili come di verificazione probabile o -secondo i principi di causalità adeguata elaborati da questa Corte fin da Cass. Sez. U. 11/01/2008, n. 576- «più probabile che non», in un dato contesto storico.
F. La natura della responsabilità dello Stato e degli enti pubblici.
30. Deve allora constatarsi una non piena coerenza tra le impostazioni ermeneutiche di questa Corte di legittimità: una prima, propria della prevalente odierna giurisprudenza civilistica e di quella preponderante penalistica più risalente (e, per la verità, anche quella amministrativa), per la quale la responsabilità dello Stato (o degli enti pubblici) per il fatto illecito dei propri dipendenti (o funzionari) è diretta e sussiste, in forza di criteri pubblicistici, esclusivamente in caso di attività corrispondente ai fini istituzionali, quando cioè, in virtù del rapporto organico, quella vada imputata direttamente all'ente; una seconda, propria soprattutto della giurisprudenza penalistica più recente e di parte di quella civilistica (ora più remota e poi superata, ora minoritaria, ora riferita in prevalenza a rapporti di preposizione privatistici), in base alla quale sussiste la responsabilità dello Stato o dell'ente pubblico in applicazione di criteri privatistici, corrispondenti sostanzialmente a quelli in tema di responsabilità del preponente ai sensi dell'art. 2049 cod. civ., sol che sussista un nesso di occasionalità necessaria tra condotta illecita e danno.
31. Ritengono queste Sezioni Unite di comporre la disomogeneità tra dette impostazioni rilevando che nessuna ragione giustifichi più, nell'odierno contesto socio-economico, un trattamento differenziato dell'attività dello Stato o dell'ente pubblico rispetto a quello di ogni altro privato, quando la prima non sia connotata dall'esercizio di poteri pubblicistici: e che, così, vada riconsiderato il preponderante orientamento civilistico dell'esclusione della responsabilità in ipotesi di condotte contrastanti coi fini istituzionali o sorrette da fini egoistici.
32. In particolare, deve ammettersi la coesistenza dei due sistemi ricostruttivi, quello della responsabilità diretta soltanto in forza del rapporto organico e quello della responsabilità indiretta o per fatto altrui: entrambi sono validi, poiché il primo non esclude il secondo ed ognuno viene in considerazione a seconda del tipo di attività della P.A. di volta in volta posta in essere.
33. Infatti, il comportamento della P.A. che può dar luogo, in violazione dei criteri generali dell'art. 2043 cod. civ., al risarcimento del danno (secondo la compiuta definizione di Cass. Sez. U. 22/07/1999, n. 500) o si riconduce all'estrinsecazione del potere pubblicistico e cioè ad un formale provvedimento amministrativo, emesso nell'ambito e nell'esercizio di poteri autoritativi e discrezionali ad essa spettanti, oppure si riduce ad una mera attività materiale, disancorata e non sorretta da atti o provvedimenti amministrativi formali (sulla distinzione, determinante prima di tutto in materia di giurisdizione, v. da ultimo Cass. Sez. U. ord. 13/12/2018, n. 32364; tra le altre più remote, v. Cass. Sez. U. 25/11/1982, n. 6363).
34. Orbene, nel primo caso (attività provvedimentale o, se si volesse generalizzare, istituzionale in quanto estrinsecazione di pubblicistiche ed istituzionali potestà), l'immedesimazione organica -di regola- pienamente sussiste e bene è allora ammessa la sola responsabilità diretta in forza della sicura imputazione della condotta all'ente; del resto, con l'introduzione dell'art. 21-septies legge n. 241 del 1990 pure la carenza di un elemento essenziale -in genere esclusa se l'atto integra l'elemento oggettivo di un reato- comporta la mera nullità e non più l'inesistenza dell'atto, come invece voleva la dottrina tradizionale (col che potrebbe forse sostenersi l'attribuibilità all'ente dell'atto nullo poiché delittuoso, sia pure a certe condizioni).
35. Nel secondo caso, di attività estranea a quella istituzionale o comunque materiale, ove pure vada esclusa l'operatività del criterio di imputazione pubblicistico fondato sull'attribuzione della condotta del funzionario o dipendente all'ente (questione non immediatamente rilevante ai fini che qui interessano e che si lascia impregiudicata), non può però negarsi l'operatività di un diverso criterio: non vi è alcun motivo per limitare la responsabilità extracontrattuale dello Stato o dell'ente pubblico -se correttamente ricostruita, pure ad evitarne strumentali distorsioni o improprie sconsiderate dilatazioni- al di fuori dell'esercizio di una pubblica potestà quando ricorrano gli altri presupposti validi in caso di avvalimento dell'operato di altri.
36. Ogni diversificazione di trattamento, per di più nel senso di evidente favore, si risolverebbe in un ingiustificato privilegio dello Stato o dell'ente pubblico, in palese contrasto con il principio di uguaglianza formale di cui all'art. 3, comma primo, Cost. e col diritto di difesa tutelato dall'art. 24 Cost. e riconosciuto anche a livello sovranazionale dall'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo (firmata a Roma il 04/11/1950, ratificata con legge 04.08.1955, n. 848, pubblicata sulla G.U. n. 221 del 24/09/1955 ed entrata in vigore il 10/10/1955) e dall'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (adottata a Nizza il 07/12/2000 e confermata con adattamenti a Strasburgo il 12/12/2007; pubblicata, in versione consolidata, sulla G.U. dell'U.E. del 30/03/2010, n. C83, pagg. 389 ss.; efficace dalla data di entrata in vigore del Trattato di Lisbona -ratificato in Italia con L. 02.08.2008, n. 130- e cioè 01/12/2009): poiché escluderebbe quella più piena tutela risarcitoria, invece perseguibile con la concorrente responsabilità del preponente.
37. Ed una tale diversificazione neppure potrebbe difendersi in base a generiche esigenze finanziarie pubbliche, poiché la tutela dei diritti non può mai a queste essere -se non altro sic et simpliciter o in linea di principio- sacrificata (come, in campo sovranazionale, riconosce da sempre, perfino in tema di esecuzione coattiva contro lo Stato, la Corte di Strasburgo: da ultimo, Corte eur. dir. Uomo 14/11/2017, IV sez., Spahie e aa. c. Bosnia-Erzegovina, in ric. n. 20514/15 e altri) e poiché in ogni caso va garantita, affinché possa dirsi apprestato un rimedio effettivo, almeno un'adeguata tutela risarcitoria in caso di violazione dei diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione, incombendo il relativo onere a ciascuno Stato ed ai suoi organi, primi fra tutti quelli giurisdizionali (per tutte, sui relativi principi generali: Corte eur. dir. Uomo 11/06/2010, Grande Camera, GMgen c/ Germania, ric. 22978/05, pp. 115 a 119).
38. In definitiva, non può più accettarsi, perché in insanabile contrasto con tali principi fondamentali e da superarsi con una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, la conclusione che, quando gli atti illeciti sono posti in essere da chi dipende dallo Stato o da un ente pubblico (e cioè da chi è legittimo attendersi una particolare legalità della condotta), la tutela risarcitoria dei diritti della vittima sia meno effettiva rispetto al caso in cui questi siano compiuti dai privati per mezzo di loro preposti.
39. Si tratta, riprendendo una tesi non ignota alla stessa dottrina pubblicistica (sopra, punto 16), della ricostruzione sistematica di un regime di responsabilità articolato, corrispondente alla composita natura delle condotte dello Stato e degli enti pubblici: a seconda che cioè esse siano poste in essere nell'esercizio, pur se eccessivo o illegittimo, delle funzioni conferite agli agenti ed oggettivamente finalizzate al perseguimento di scopi pubblicistici, oppure che siano poste in essere da costoro quali singoli, ma approfittando della titolarità o dell'esercizio di quelle funzioni (o poteri o attribuzioni), sia pur piegandole al perseguimento di fini obiettivamente estranei o contrari a quelli pubblicistici in vista dei quali erano state conferite.
40. Nel primo caso, l'illecito è riferito direttamente all'Ente e questi ne risponderà, altrettanto direttamente, in forza del generale principio dell'art. 2043 cod. civ.; nel secondo caso, con le precisazioni di cui appresso, la responsabilità civile dell'Ente deve invece dirsi indiretta, per fatto del proprio dipendente o funzionario, in forza di principi corrispondenti a quelli elaborati per ogni privato preponente e desunti dall'art. 2049 cod. civ.
41. Tale conclusione comporta che debba prescindersi in modo rigoroso da ogni colpa del preponente anche pubblico e lascia intatta la concorrente e solidale responsabilità del funzionario o dipendente (salvo eventuali limitazioni espressamente previste indotte dalla peculiarità di determinate materie, come nel caso del personale scolastico -ex art. 61 cpv. legge 11.07.1980, n. 312, su cui v. Corte cost. n. 64 del 1992- o dei magistrati ex lege 113/1987, su cui v. tra le altre Corte cost. n. 18 del 1989); e ad essa, beninteso, deve farsi eccezione quando vi sia un'esplicita diversa previsione normativa che, ad esempio per la peculiarità della specifica materia, mandi esente da responsabilità l'ente pubblico e mantenga esclusivamente quella dell'agente o viceversa.
42. Ritengono queste Sezioni Unite che debba allora superarsi la rigida alternatività, con rapporto di mutua esclusione, fra i criteri di imputazione pubblicistico o diretto e privatistico o indiretto: l'art. 28 Cost. non preclude l'applicazione della normativa del codice civile, piuttosto essendo finalizzata all'esclusione dell'immunità dei funzionari per gli atti di esercizio del potere pubblico ed alla contemporanea riaffermazione della responsabilità della P.A.; ne consegue che la concorrente responsabilità della P.A. e del suo dipendente per i fatti illeciti posti in essere da quest'ultimo al di fuori delle finalità istituzionali di quella deve seguire, in difetto di deroghe normative espresse, le regole del diritto comune.
43. Del resto, più non osta all'applicabilità dell'art. 2049 cod. civ. l'originaria sua ricostruzione come estrinsecazione di una colpa in eligendo vel in vigilando, la quale sarebbe esclusa in tesi nel rapporto organico in forza della predeterminazione normativa dei criteri di selezione e di un sistema pubblicistico di controlli, entrambi estrinsecazione di poteri discrezionali: infatti, la norma in esame prescinde, nella sua corrente ricostruzione, da ogni profilo di colpa.
44. Nemmeno l'ontologica differenza tra rapporto di preposizione institoria e rapporto organico tra Stato od ente pubblico e suo funzionario o dipendente osta alla generalizzazione del principio dell'art. 2049 cod. civ., poiché questo è solamente espressione di un generale criterio di imputazione di tutti gli effetti, non solo favorevoli ma anche pregiudizievoli, dell'attività non di diritto pubblico dei soggetti di cui ci si avvale; e che la P.A. possa rivestire la qualità di parte lesa nel procedimento penale avente ad oggetto la condotta del dipendente infedele non muta la responsabilità della prima nei confronti dei terzi, soltanto rilevando nei rapporti interni con quello.
45. Ancora, solo in caso di responsabilità indiretta è pienamente coerente col sistema generale (se non derogato da discipline speciali) di imputazione, nei rapporti interni, del carico dell'obbligazione risarcitoria l'attribuzione (talora normativamente prevista: v. ad es. l'art. 22, cpv., del richiamato d.P.R. 10.01.1957, n. 3) di questo per intero al dipendente colpevole (in armonia con il sistema appunto di cui all'art. 2049 cod. civ.: da ultimo, Cass. 05/07/2017, n. 16512), salva per quest'ultimo la prova della colpa pure dell'amministrazione.
G. L'occasionalità necessaria.
46. Alla puntualizzazione dell'ambito di operatività del criterio di imputazione ricondotto ai principi dell'art. 2049 cod. civ. va premesso un richiamo ai principi in tema di causalità nel diritto civile.
47. A partire dalla fondamentale elaborazione di queste Sezioni Unite di cui alle sentenze nn. 576 ss. del dì 11/01/2008 (alla cui esauriente motivazione, tuttora valida e meritevole di piena condivisione, qui basti un richiamo), ai fini della definizione della causalità materiale nell'ambito della responsabilità extracontrattuale va fatta applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., sicché un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non).
48. Tuttavia, il rigore del principio dell'equivalenza delle cause, posto dall'art. 41 cod. pen. (per il quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale), trova un temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dal capoverso della medesima disposizione, in base al quale l'evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all'autore della condotta sopravvenuta, solo se quest'ultima risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle regolari linee di sviluppo della serie causale già in atto.
49. Al contempo, neppure è sufficiente tale relazione per dar luogo ad una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che appaiano ex ante idonee a determinare l'evento secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale: quest'ultima, a sua volta, individua come conseguenza normale imputabile quella che -secondo l'id quod plerumque accidit e così in base alla regolarità statistica o ad una probabilità apprezzabile ex ante- integra gli estremi di una sequenza costante dello stato di cose originatosi da un evento originario (ivi compresa la condotta umana), che ne costituisce l'antecedente necessario e sufficiente. E, sempre secondo i citati precedenti di queste Sezioni Unite, la sequenza costante deve essere prevedibile non da un punto di vista soggettivo, cioè da quello dell'agente, ma in base alle regole statistiche o scientifiche (se non proprio, in sostanza, di empiria reiterata e verificata) e quindi per così dire oggettivizzate, da cui inferire un giudizio di probabilità di verificazione dell'evento.
50. Il principio della regolarità causale, rapportato ad una valutazione ex ante, diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra evento generatore del danno ed evento dannoso (nesso causale), da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale va più propriamente ad iscriversi entro l'elemento soggettivo dell'illecito (la colpevolezza), ove questo per l'ordinamento rilevi; ma non potendo escludersi una loro efficienza peculiare nel senso dell'elisione, a certe condizioni, del nesso causale tra l'illecito ed il danno, come precisato dalle sezioni semplici di questa Corte (su cui vedi, per tutte, Cass. ord. 01/02/2018, nn. 2478, 2480 e 2482).
51. Non è questa la sede per esaminare le differenze tra causa ed occasione o concausa, né per sanare la contradictio in adiecto della nozione di occasionalità necessaria: infatti, basta qui rilevare che questa coinvolge una peculiare specie di relazione di causalità, visto che, nella concreta elaborazione che finora se ne è operata e con le precisazioni di cui appresso, una tale occasionalità necessaria si identifica con quella peculiare relazione tra l'uno e l'altro tale per cui la verificazione del danno- onseguenza non sarebbe stata possibile senza l'esercizio dei poteri conferiti da altri, che assurge ad antecedente necessario anche se non sufficiente; ma qui va affermata la necessità che tale valutazione di impossibilità sia operata in base ai principi della causalità adeguata appena riassunti e così ad un giudizio controfattuale, oggettivizzato ex ante, di regolarità causale atta a determinare l'evento, vale a dire di normalità -in senso non ancora giuridico, ma naturalistico-statistico- della sua conseguenza.
52. Ne consegue che il preponente pubblico, con tale espressione potendo descrittivamente identificarsi lo Stato o l'ente pubblico nella fattispecie di interesse, risponde del fatto illecito del proprio funzionario o dipendente ogni qual volta questo non si sarebbe verificato senza l'esercizio delle funzioni o delle attribuzioni o dei poteri pubblicistici: e ciò a prescindere dal fine soggettivo dell'agente (non potendo dipendere il regime di oggettiva responsabilità dalle connotazioni dell'atteggiamento psicologico dell'autore del fatto), ma in relazione all'oggettiva destinazione della condotta a fini diversi da quelli istituzionali o -a maggior ragione- contrari a quelli per i quali le funzioni o le attribuzioni o i poteri erano stati conferiti.
53. La conseguenza è l'integrale applicazione della disciplina della responsabilità extracontrattuale, che implica a sua volta un'adeguata delimitazione di tale conclusione: in primo luogo, valgono i principi e le regole in tema di accertamento del nesso causale secondo le regole sopra ricordate; in secondo luogo, vige l'elisione del nesso in ipotesi di fatto naturale o del terzo o del danneggiato che sia di per sé solo idoneo a determinare l'evento; in terzo luogo, si applica la regola generale dell'art. 1227 cod. civ. in tema di concorso del fatto colposo del danneggiato (su cui v., tra le altre, le già richiamate Cass. ord. nn. 2478, 2480 e 2482 del 2018).
54. Soprattutto, però, è insito nel concetto stesso di causalità adeguata che la sequenza tra premesse e conseguenze sia rigorosa e riferita a quelle tra queste che appaiano, con giudizio controfattuale di oggettivizzazione ex ante della probabilità o di regolarità causale, come sviluppo non anomalo, anche se implicante violazioni o deviazioni od eccessi in quanto anch'esse oggettivamente prevenibili, di attività rese possibili solo da quelle funzioni, attribuzioni o poteri.
55. In tanto può giustificarsi, infatti, la scelta legislativa di far carico al preponente degli effetti delle attività compiute dai preposti, in quanto egli possa raffigurarsi ex ante quali questi possano essere e possa prevenirli o tenerli in adeguata considerazione nell'organizzazione della propria attività quali componenti potenzialmente pregiudizievoli: e quindi in quanto possa da lui esigersi di prefigurarsi gli sviluppi che possono avere le regolari (in quanto non anomale od oggettivamente improbabili) sequenze causali dell'estrinsecazione dei poteri (o funzioni o attribuzioni) conferiti al suo preposto, tra i quali rientra la violazione aperta del dovere di ufficio la cui cura è stata affidata, non per nulla quello essendo circondato di garanzie o meccanismi di salvaguardia anche interni alla stessa organizzazione del preponente (come rileva Cass. pen. n. 13799 del 2015 cit.).
56. Ne deriva che quest'ultimo andrà esente dalle conseguenze dannose di quelle condotte, anche omissive, poste in essere dal preposto in estrinsecazione dei poteri o funzioni o attribuzioni conferiti, che fosse inesigibile prevenire o raffigurarsi oggettivamente come sviluppo non anomalo, secondo un giudizio controfattuale oggettivizzato ex ante, di quell'estrinsecazione, quand'anche distorta o deviata o vietata: in tanto assorbita od a tanto ricondotta, almeno quanto alla sola qui rilevante fattispecie dei danni causati dall'illecito del pubblico funzionario, ogni altra conclusione sull'occasionalità necessaria, tra cui l'estensione alla mera agevolazione della commissione del fatto.
H. Sintesi.
57. Per sintetizzare quanto fin qui esposto, occorre dunque postulare una natura composita della responsabilità dello Stato o dell'ente pubblico per il fatto illecito del dipendente o funzionario, per applicare i principi della responsabilità indiretta elaborati per l'art. 2049 cod. civ. all'attività non provvedimentale (o istituzionale) della pubblica amministrazione; e, in base ad essi, affermarne la concorrente e solidale responsabilità per i danni causati da condotte del preposto pubblico definibili come corrispondenti ad uno sviluppo oggettivamente non improbabile delle normali condotte di regola inerenti all'espletamento delle incombenze o funzioni conferite, anche quale violazione o come sviamento o degenerazione od eccesso, purché anche essi prevenibili perché oggettivamente non improbabili.
58. Sono pertanto fonte di responsabilità dello Stato o dell'ente pubblico anche i danni determinati da condotte del funzionario o dipendente, pur se devianti o contrarie rispetto al fine istituzionale del conferimento del potere di agire, purché:
   - si tratti di condotte a questo legate da un nesso di occasionalità necessaria, tale intesa la relazione per la quale, in difetto dell'estrinsecazione di detto potere, la condotta illecita dannosa - e quindi, quale sua conseguenza, il danno ingiusto - non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base al giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta; nonché
   - si tratti di condotte raffigurabili o prevenibili oggettivamente, sulla base di analogo giudizio, come sviluppo non anomalo dell'esercizio del conferito potere di agire, rientrando nella normalità statistica pure che il potere possa essere impiegato per finalità diverse da quelle istituzionali o ad esse contrarie e dovendo farsi carico il preponente delle forme, non oggettivamente improbabili, di inesatta o infedele estrinsecazione dei poteri conferiti o di violazione dei divieti imposti agli agenti.
59. Infine, adeguata protezione del preponente dal rischio di rispondere del fatto del proprio ausiliario o preposto al di là dei generali principi in tema di risarcimento del danno extracontrattuale si ravvisa nell'applicazione anche in materia di danni da attività non provvedimentale della P.A. dei principi in tema di elisione del nesso causale in ipotesi di caso fortuito o di fatto del terzo o della vittima di per sé solo idoneo a reciderlo e di quelli in tema di riduzione del risarcimento in caso di concorso del fatto almeno colposo di costoro.
60. La questione sottoposta a queste Sezioni Unite dall'ordinanza interlocutoria va così risolta alla stregua del seguente principio di diritto: «
lo Stato o l'ente pubblico risponde civilmente del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del dipendente anche quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee a quelle dell'amministrazione di appartenenza, purché la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che il dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita dannosa -e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi- non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza l'esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviato o abusivo od illecito, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo»
(Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 16.05.2019 n. 13246).

PUBBLICO IMPIEGOCalcolo congedo parentale.
Domanda
Come va calcolato il congedo parentale quando vi sono dei giorni festivi nel periodo di riferimento? E quando invece viene chiesto un solo giorno della settimana?
Risposta
L’art. 43, comma 5, del CCNL del 21.05.2018, prevede che i periodi di assenza di congedo parentale, nel caso di fruizione continuativa, comprendono anche gli eventuali giorni festivi che ricadano all’interno degli stessi. Tale modalità di computo trova applicazione anche nel caso di fruizione frazionata, ove i diversi periodi di assenza non siano intervallati dal ritorno al lavoro del lavoratore o della lavoratrice.
Nel caso in cui la lavoratrice usufruisca per l’intero mese di congedo parentale, il computo dei giorni di congedo parentale deve tenere conto delle domeniche nella modalità sopra indicata, mancando la ripresa in servizio.
Non avendo specificato il mese di riferimento non è possibile confermare il numero dei giorni. Il conteggio va fatto calendario alla mano.
Nel caso in cui la dipendente usufruisca del congedo tutte le settimane per il solo giorno lavorativo del sabato, il computo tiene conto dei soli sabati ricadenti in quel mese, escludendole domeniche, in quanto rinvenibile la ripresa in servizio tra i sue periodi di congedo parentale richiesti.
In pratica tra un sabato e quello successivo la lavoratrice deve rientrare in servizio affinché il conteggio tenga conto della sola giornata del sabato.
Per ogni ulteriore dettaglio si rimanda al messaggio INPS n. 28379 del 25.10.2006.
La frazionabilità va intesa nel senso che tra un periodo (anche solo di un giorno per volta) e l’altro di congedo parentale deve essere effettuata una ripresa effettiva del lavoro (a questo fine le ferie non sono utili INPDAP circ. n. 24 del 29/05/2000, Dipartimento FP circ. n. 14/00 del 16/11/2000, INPS circ. n. 109 del 06/06/2000) (16.05.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: D. Pusceddu, E dopo il 20 maggio come vengono retribuite le Posizioni Organizzative? (16.05.2019 - link a www.fpcgilbergamo.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl termine del 20 maggio entro il quale incaricare le posizioni organizzative non è vincolante (15.05.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

PUBBLICO IMPIEGOIl datore di lavoro è tenuto a lavare la divisa degli addetti alla manutenzione e pulitura di parchi e giardini?
Domanda
Il datore di lavoro è tenuto a lavare la divisa degli addetti alla manutenzione e pulitura di parchi e giardini?
Risposta
La materia non riceve disciplina nella fonte contrattuale, pertanto è necessario ricorrere alla prevalente giurisprudenza che offre uno strumento di guida, soprattutto quando si muove uniformemente, come nel caso specifico.
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 29964/2017 conferma un principio ormai consolidato, secondo il quale il datore di lavoro dell’Ente Locale non è tenuto a far lavare le tute quando non siano “dispositivi di protezione individuale” ma servano, semplicemente, ad evitare l’usura degli abiti civili.
La vicenda ha riguardato gli addetti ai servizi di manutenzione e pulitura di parchi e giardini di un Comune, convocato in giudizio. La pretesa era quella di vedersi riconosciuto il diritto all’indennità per il lavaggio delle tute adoperate per lo svolgimento del lavoro.
Il giudice di primo grado e la Corte d’Appello respingono le richieste in ragione della natura della divisa, non riconducibile ad un dispositivo di protezione individuale (Dpi) così come declinato all’art. 74 del d.lgs. n. 81/2008.
La disposizione di legge stabilisce che per “dispositivo di protezione individuale” debba intendersi qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciare la sicurezza o la salute durante il lavoro.
La norma esclude espressamente da tale categoria gli indumenti di lavoro ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la sicurezza e la salute del lavoratore.
La Corte ha in questo caso escluso l’assimilazione tra le tute fornite dal Comune ai dipendenti e i Dpi, negando ogni nesso con la tutela della salute e dell’igiene dei lavoratori.
In definitiva, le tute sono estranee al tema della salute e hanno come unica funzione quella di preservare gli abiti civili dall’usura dovuta allo svolgimento dell’attività.
L’obbligo di lavaggio sussiste solo ove finalizzato alla tutela della salute e sicurezza del lavoratore (09.05.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO: M. T. Desideri, Mancata promozione del procedimento disciplinare e responsabilità dirigenziale (09.05.2019 - link a www.filodirito.com).

PUBBLICO IMPIEGODanno da disservizio per il dipendente che si allontana senza timbrare.
Pochi minuti di allontanamento dal posto di lavoro, senza autorizzazione, non sempre comportano il licenziamento ma possono rientrare in una sanzione disciplinare conservativa, disciplinata dal contratto di lavoro degli enti locali in caso di violazione dei doveri di servizio. Il danno erariale, invece, corrisponde sicuramente ai minuti di allontanamento non registrati cui si aggiunge anche il danno da disservizio, corrispondente alle risorse inutilmente spese per l'attivazione e la conclusione della procedura disciplinare, mentre non si configura danno all'immagine previsto dalla disposizione di legge.

Queste sono le conclusioni cui è giunta la Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. per la Basilicata, sentenza 08.05.2019 n. 18).
Il caso
La vicenda è quella del dipendente di un ente locale, con funzioni di autista, che nei periodi nei quali non era impiegato nelle sue funzioni, si rifiutava di svolgere attività di ufficio dimostrando incapacità di attendere ai suoi compiti di servizio. Convocato dal responsabile per chiarire questa continua situazione di inoperatività lavorativa, era risultato assente dalla sede.
A seguito della ricostruzione delle sue assenze dal servizio, nei periodi di non impiego come autista, l'ente aveva attivato una procedura disciplinare dalla quale emergeva che molte delle ore venivano passate presso il collega al centralino, mentre l'allontanamento dal servizio, senza autorizzazione, pur ammesso dall'interessato, si riducevano a soli 23 minuti di omessa timbratura.
L'Ufficio dei procedimento disciplinari non ha, tuttavia, giudicato sufficienti i minuti di allontanamento dall'ufficio, per irrogare la sanzione disciplinare espulsiva -sanzione tesa a reprimere la falsificazione dei dati di presenza in servizio- ritenendo invece congrua quella conservativa prevista dall'articolo 3, comma 6, lettera d) (persistente insufficiente rendimento), lettera g) (comportamento di elusione dei sistemi di rilevamento elettronico della presenza) e lettera i) (comportamenti che cagionino danno grave all'ente) del contratto Regioni-Enti Locali del 11.04.2008, quale frutto di noncuranza e trascuratezza dei doveri di ufficio.
A seguito di segnalazione, da parte dell'Ufficio dei procedimenti disciplinari, alla Procura della Corte dei conti, in presenza di avvio della procedura disciplinare del licenziamento con sospensione immediata del dipendente -poi terminata con la sanzione conservativa della sospensione dal servizio di quattro mesi- il dipendente è stato rinviato a giudizio per responsabilità erariale.
Il Pm ha quantificato il danno erariale in tre separate poste. La prima corrispondente alla mancata presenza in servizio, per violazione del sistema di rilevazione delle presenze, pari al pagamento delle prestazioni non rese. La seconda posta di danno, qualificata da disservizio, è stata considerata pari al alla spesa sostenuta per l'impiego dei soggetti coinvolti nel procedimento disciplinare distolti dai loro compiti di istituto. L'ultima posta di danno erariale, quantificabile ex lege, qualificabile come danno all'immagine, è stata quantificata pari a sei mensilità così come previsto dall'articolo 55-quater del Dlgs 165/2001. Il dipendente ha confutato la tesi del Pm evidenziando che l'allontanamento per pochi minuti era dovuto a una dimenticanza.
Le indicazioni del collegio contabile
Il collegio contabile ha osservato che, dalla documentazione i del procedimento disciplinare, è emerso che lo stesso dipendente abbia ammesso di aver sbagliato per non avere timbrato l'uscita, ritenendo per questo motivo configurabile la piena responsabilità del dipendente anche se per soli 23 minuti, sia pure di natura non fraudolenta, che ha cagionato un nocumento di lieve entità e tuttavia suscettibile di essere commisurato in termini risarcitori per una somma pari a 9,50 euro.
Anche l'altra posta di danno erariale da disservizio è applicabile, in considerazione del procedimento disciplinare che ha impiegato dipendenti pubblici distogliendoli dai loro compiti istituzionali per causa dei comportamenti negligenti del dipendente. Mentre l'ultima posta di danno, qualificata dalla Procura come danno all'immagine, direttamente previsto dalla normativa, nel caso di specie non risulta applicabile in quanto la condotta del dipendente non è stata considerata dalla stessa amministrazione come effettuata in modo fraudolento ma per trascuratezza nell'assolvimento dei doveri di ufficio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.05.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOEnti senza dirigenti, incarichi fino a 5 anni.
Incarichi fino a cinque anni per le posizioni organizzative nei comuni senza dirigenza. Mancano pochi giorni alla data del 20 maggio 2019, entro la quale occorre riattribuire gli incarichi di posizione organizzativa, a seguito dell'adeguamento della connessa disciplina alle regole contenute nel Ccnl 21/05/2018. Sulla durata degli incarichi, come anche sui criteri per la loro assegnazione, proprio il Ccnl induce a un equivoco.

L'articolo 14, comma 1, dispone che «gli incarichi relativi all'area delle posizioni organizzative sono conferiti dai dirigenti per un periodo massimo non superiore a tre anni, previa determinazione di criteri generali da parte degli enti». Questa disposizione induce molti a ritenere conseguentemente che la durata degli incarichi sia stata ridotta dai 5 anni espressamente previsti dal precedente Ccnl 31/03/1999, al più breve triennio.
Tuttavia, questa chiave di lettura non appare soddisfacente. L'articolo 14 del Ccnl 21/05/2018 contiene una regolamentazione degli incarichi delle posizioni organizzative riferita con ogni evidenza agli enti nei quali sono presenti i dirigenti. Non a caso il comma uno precisa che gli incarichi «sono conferiti dai dirigenti». Negli enti privi di dirigenza, dunque, la disciplina non può che essere differente. E la conferma si trova nella disposizione contenuta nell'articolo 17, comma 1, sempre del Ccnl 21/05/2018: «negli enti privi di personale con qualifica dirigenziale, i responsabili delle strutture apicali, secondo l'ordinamento organizzativo dell'ente, sono titolari delle posizioni organizzative disciplinate dall'art. 13».
Come si nota, mentre negli enti in cui siano presenti qualifiche dirigenziali l'articolo 14 attribuisce ai dirigenti il compito di conferire gli incarichi, nel caso di enti senza qualifiche dirigenziali il Ccnl dedica una previsione speciale e precisa, quella dell'articolo 17, comma 1. Che è da considerarsi esclusiva; negli enti senza dirigenti, dunque, non si applicano le previsioni dei primi due commi dell'articolo 14, ma il diverso meccanismo stabilito dal comma 1 dell'articolo 17.
Si tratta di un automatismo: l'articolo 17, semplificando, dispone che i funzionari ai quali i sindaci abbiano attribuito le funzioni dirigenziali ai sensi dell'articolo 109, comma 2, del dlgs 267/2000 e che in conseguenza di ciò siano stati nominati come responsabili dei servizi ai sensi dell'articolo 50, comma 10, sempre del dlgs 267/2000, sono necessariamente posizioni organizzative. Quindi, negli enti privi di dirigenti non occorre nessun atto di assegnazione dell'incarico nell'area delle posizioni organizzative, essendo detto incarico connesso al precedente provvedimento amministrativo di competenza sindacale di nomina come responsabile di servizio, al vertice di una struttura amministrativa.
Così stando le cose, poiché negli enti privi di dirigenza non si applica l'articolo 14, comma 1, del Ccnl 21/05/2018, allora non si può considerare operante nemmeno il limite temporale di tre anni ivi previsto.
A ben vedere, in questa tipologia di enti, l'incarico nell'area delle posizioni organizzative non può che avere la identica durata dell'incarico di funzioni dirigenziali e di preposizione al vertice di una struttura gestionale. Se, quindi, un sindaco incarichi un funzionario di funzioni dirigenziali ai sensi dell'articolo 109, comma 2, del Tuel e lo preponga ad una struttura di vertice per una durata anche superiore ai tre anni, non si può non concludere che il funzionario resta incaricato come posizione organizzativa per tutta la durata dell'efficacia degli atti adottati dal sindaco ai sensi degli articoli 109, comma 2, e 50, comma 10, del Tuel: norme, queste, che per altro non contengono alcun termine specifico di durata degli incarichi; solo il comma 1 dell'articolo 109, applicabile per analogia, precisa che detti incarichi debbano essere a tempo determinato. Una durata massima di 5 anni degli incarichi di funzioni dirigenziali la si può desumere sempre per analogia, riferendosi alle previsioni dell'articolo 19, comma 2, del dlgs 165/2001 (articolo ItaliaOggi del 03.05.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl conferimento degli incarichi di posizione organizzativa.
Nei giorni scorsi Anci ha diffuso il proprio quaderno operativo (Istruzioni tecniche, linee guida, note e modulistica) sul «Regolamento sugli incarichi di posizione organizzativa. Aggiornamento al CCNL 21/05/2018. Criteri generali di conferimento e sistema di graduazione della retribuzione di posizione». L'occasione si presta ad alcune riflessioni.
Il contratto del comparto Funzioni locali per il periodo 2016-2018 introduce, tra le altre, una novità particolarmente significativa: la possibilità di attribuire alle posizioni organizzative deleghe delle funzioni dirigenziali che comportino anche la firma di provvedimenti finali aventi rilevanza esterna. Si viene, così, a delineare una figura intermedia tra il dirigente e il funzionario, dotata di un elevato grado di autonomia gestionale e organizzativa o preposta ad attività ad alto contenuto professionale, comprese quelle per le quali è richiesta l'iscrizione ad un albo professionale oppure un'elevata competenza specialistica (conseguita attraverso titoli universitari o pregresse esperienze professionali, in posizioni di responsabilità o di alta qualificazione professionale). Questa figura, così ridefinita e innovata rispetto al passato, rappresenta un importante punto di raccordo tra le decisioni politico-amministrative e la gestione operativa dell'ente, in quanto finalizzata a garantire e monitorare direttamente lo svolgimento dei processi esecutivi.
Il nuovo contratto collettivo offre, quindi, ai Comuni, una maggiore autonomia organizzativa e, nell'esercizio della potestà regolamentare, permette di incentivare e premiare le posizioni organizzative.
In questa prospettiva vanno lette, quindi, le disposizioni che prevedono la possibilità di riservare una quota non inferiore al 15% delle risorse stanziate, a favore di queste figure, per la retribuzione di risultato. È, inoltre, introdotta la possibilità di conferire incarichi a interim alle figure che siano già titolari di posizione organizzativa per ricoprire funzioni di altra posizione organizzativa, prevedendo una ulteriore incentivazione economica, sempre a titolo di retribuzione di risultato.
Il quadro sulla natura «semi-dirigenziale», che questa figura ha assunto con la novità contrattuale descritta, si completa con la previsione secondo cui le risorse per la sua remunerazione sono ricavate dal fondo per il trattamento economico accessorio del personale del comparto e che sono stanziate in bilancio.
Per gli enti i tempi sono ormai brevi per adeguarsi a questa nuova realtà contrattuale. Il contratto impone infatti che i nuovi regolamenti contenenti la disciplina relativa ai criteri per il conferimento degli incarichi, alla graduazione della retribuzione di posizione e ai criteri per l'attribuzione della retribuzione di risultato siano adottati entro il 20 maggio. E gli incarichi di posizioni organizzative già conferiti sulla base del previgente contratto? È logico presumere che decadano a tale data.
È quindi in atto una piccola rivoluzione: si tratta, infatti, di figure che devono perdere il loro carattere di «fiduciarietà». Devono essere attribuite dal dirigente (dal sindaco solo in quei Comuni in cui non vi sono dirigenti) a funzionari di categoria D (alla categoria C ove la predetta categoria sia mancante) secondo criteri oggettivi e trasparenti, oltre che opportunamente graduati. Su quest'aspetto interviene egregiamente l'Anci che suggerisce dei «criteri generali per il conferimento degli incarichi di P.O. e per la graduazione della loro retribuzione», definendo una metodologia che è in grado di esprimere la coerenza tra la rilevanza del ruolo assegnato alla posizione e la relativa retribuzione. Nelle note dell'Anci, il criterio della cosiddetta «trasversalità» è interpretato come finalizzato a valorizzare la complessità e la misura dei rapporti interni ed esterni che la posizione organizzativa incaricata dovrà gestire nello svolgimento dei propri compiti tecnici.
La «complessità operativa e organizzativa» è interpretata con riferimento non solo alla composizione numerica dell'unità organizzativa, cui è preposta la figura in esame, ma anche all'inquadramento contrattuale della stessa. In parole semplici, il livello di complessità si presume maggiore ove l'unità sia composta da dipendenti di categoria D. Il parametro potrebbe essere legato anche «alla graduazione della struttura dirigenziale ove la PO è incardinata, ove, ad esempio, si ritenga non affidabile il solo riferimento al personale assegnato». Ma si guarda anche al numero e alla difficoltà (soprattutto in termini di tempistica e di attività istruttoria) dei passaggi per arrivare al risultato finale del procedimento affidato alla posizione organizzativa.
Riguardo al «rischio contenzioso», l'Anci non può che rinviare, del tutto correttamente, al Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza. In particolare, «viene valutata l'intensità e la rilevanza dell'incidenza del prodotto finale nei confronti del destinatario in relazione agli interessi coinvolti». Mentre la responsabilità finanziaria non può che essere rapportata al budget assegnato, «a livello di entrata e di spesa».
Diversamente graduata è, logicamente, la strategicità a seconda che l'ente disponga o meno di figure dirigenziali. Nel primo caso, infatti, è valutata la significatività delle deleghe dirigenziali; nel secondo, invece, a essere valutato è il peso delle funzioni conferite rispetto all'attuazione del programma di mandato del Sindaco. La previsione dell'area delle posizioni organizzative come delineata dal nuovo contratto del comparto funzioni locali 2016-2018 presuppone, in sostanza, un'equilibrata differenziazione del peso e quindi anche dei valori economici delle diverse posizioni, ricercando soluzioni che sfruttino appieno l'ampio ventaglio reso disponibile dalle nuove previsioni anche al fine di offrire serie prospettive di miglioramento di carriera e di apprezzamento economico al personale. Sarà quindi necessaria l'adozione di nuovi regolamenti, tesi allo sviluppo delle potenzialità organizzative e gestionali dei singoli che potranno essere premiate mediante il progressivo affidamento di incarichi sempre più importanti e maggiormente remunerati.
È necessario quindi, a tal fine, adottare un sistema flessibile volto a privilegiare un'esatta corrispondenza del punteggio agli elementi qualitativi e quantitativi che caratterizzano la singola posizione organizzativa, e che tenga conto delle peculiarità organizzative e gestionali del singolo ente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 02.05.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOUtilizzo graduatorie triennio 2010-2013.
Domanda
È possibile avviare il reclutamento degli idonei che figurano nelle graduatorie approvate dal 2010 al 2013 pubblicando nel sito web dell’ente un avviso per manifestazione di interesse rivolto in generale a tutti coloro che sono collocati in tali graduatorie, per poi trasmettere l’invito a partecipare ai corsi di formazione previsti dall’art. 1, comma 362, della l. 145/2018 solamente a coloro che avranno manifestato il loro interesse?
Risposta
Come noto, la legge di bilancio per l’anno 2019 ha prorogato fino al 30.09.2019 la validità delle graduatorie approvate dal 01.01.2010 al 31.12.2013, ma ne ha subordinato l’utilizzo ai seguenti adempimenti:
   1) frequenza obbligatoria, da parte degli idonei, di corsi di formazione e aggiornamento organizzati da ciascuna amministrazione, nel rispetto dei princìpi di trasparenza, pubblicità ed economicità e utilizzando le risorse disponibili a legislazione vigente;
   2) superamento, da parte degli idonei, di un apposito esame-colloquio diretto a verificarne la perdurante idoneità.
Naturalmente, anche in questi casi devono essere rispettati i principi generali in materia di graduatorie concorsuali, tra i quali, in particolare, l’obbligo di interpellare individualmente tutti gli idonei, nell’ordine in cui sono collocati in graduatoria. Una volta che l’ente, sulla base del piano dei fabbisogni di personale, abbia deciso di reclutare personale mediante scorrimento di graduatoria concorsuale, è quindi necessario procedere come segue:
   • in primo luogo deve essere individuata la graduatoria da scorrere, secondo le consuete regole: coincidenza di categoria, profilo, requisiti di accesso e articolazione oraria a tempo pieno/parziale dei posti oggetto del concorso rispetto al posto/ai posti da coprire, precedenza alle graduatorie efficaci dell’ente, per poi valutare accordi con altri enti titolari di graduatorie (applicando gli eventuali criteri di scelta che l’ente si è dato autonomamente), precedenza alle graduatorie più datate rispetto a quelle più recenti;
   • nel caso in cui si tratti di graduatoria di altro ente, dovrà essere stipulato il relativo accordo/convenzione;
   • dopo avere individuato la graduatoria oggetto di scorrimento e una volta data evidenza pubblica a tale decisione con il provvedimento che dà avvio alla procedura, l’ente deve sempre interpellare individualmente tutti gli idonei non ancora chiamati.
Nel caso particolare in cui sia stato deciso lo scorrimento di una graduatoria approvata dal 2010 al 2013, sarà necessario:
   • trasmettere a ciascuno degli idonei (con modalità che consentano di provarne la ricezione) un invito a manifestare l’interesse all’assunzione, invito che dovrà anche illustrare le successive fasi della procedura e le relative modalità di notificazione;
   • una volta ricevute le manifestazioni di interesse, organizzare il corso di formazione e aggiornamento;
   • pubblicare, nel sito web dell’ente (Amministrazione Trasparente, sezione dedicata al personale) un avviso contenente:
   • le date, gli orari, i contenuti e le modalità di frequenza al corso di formazione e aggiornamento;
   • la disciplina delle assenze rispetto al calendario del corso: casistica, modalità di giustificazione, numero di assenze oltre il quale è prevista la non ammissione all’esame finale;
  • le modalità di svolgimento dell’esame-colloquio finale.
   • In adempimento agli obblighi di trasparenza, l’invito e l’avviso dovranno infine riportare:
   • le principali informazioni riguardanti l’”offerta assunzionale”: numero di posti per i quali la graduatoria viene scorsa, unità organizzative di assegnazione, eventuali altri dettagli sulle figure che si intendono reclutare (mansioni, sede di prima assegnazione, articolazione prevista dell’orario di lavoro, ecc.);
   • le conseguenze della mancata partecipazione alla procedura per quanto riguarda la posizione giuridica degli idonei.
Lo scorrimento della graduatoria consisterà nella chiamata di coloro che avranno regolarmente frequentato il corso di formazione e superato l’esame finale, nell’ordine in cui figurano nella graduatoria, fino ad esaurimento dei posti disponibili (o per l’unico posto da coprire).
Se si tratta di graduatoria di altro ente, occorrerà informare l’ente titolare circa gli esiti dello scorrimento (02.05.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

aprile 2019

PUBBLICO IMPIEGOIl regolamento comunale non può prevedere compensi extra per l'avvocatura.
Il decreto legge 90/2014 ha previsto che all'avvocature degli enti pubblici siano versati compensi professionali (così dette propine) in caso di sentenza favorevole dell'ente, sia in caso di vittoria delle spese sulla parte soccombente, sia in caso di pronunciata compensazione delle spese. A di fuori delle ipotesi tipizzate dalla legge, il regolamento dell'ente che estenda i compensi professionali ad altre fattispecie è da considerare illegittimo, come ad esempio in caso di provvedimenti decisori pur apparentemente favorevoli all'ente locale ma che non presuppongono una pronuncia sulle questioni processuali e di merito e che, talora, nemmeno comportano una decisione sulle spese.

Queste sono le indicazioni puntualizzate dalla Corte dei conti siciliana (parere 29.04.2019 n. 88).
Il dubbio del Comune
Il Commissario straordinario di un Comune ha chiesto ai magistrati contabili un parere sulla possibile coerenza tra il regolamento dell'ente e la normativa legislativa che prevede la corresponsione dei compensi professionali agli avvocati pubblici esclusivamente in presenza di una sentenza favorevole all'ente con spese poste a carico della parte soccombente o con compensazione delle spese.
Il dubbio nasce dalla disposizione regolamentare sulle propine agli avvocati interni, che estenderebbe la loro remunerazione anche in diversi casi di provvedimenti decisori pronunciati dagli organi giudiziari, nonché in presenza dell'estinzione del giudizio per perenzione, rinuncia di controparte o abbandono della controversia o, in generale, per inattività della controparte in qualsiasi fase del giudizio cautelare, di merito o di esecuzione che comporti la completa salvaguardia dei beni e diritti dell'ente, oltre che di abbandono o rinuncia con onere delle spese.
Le precisazioni del collegio contabile
I giudici contabili siciliani hanno premesso che la figura dell'avvocato pubblico, all'interno delle singole amministrazioni, ha una natura ibrida compresa tra il lavoratore dipendente e il professionista tanto da essere al contempo, il proprio cliente, ma anche il suo datore di lavoro. Questa duplice funzione si riflette anche sulla struttura del suo trattamento economico composto, pur nella varietà delle situazioni, per una quota, dallo stipendio tabellare e dalle relative voci integrative e accessorie e, per altra quota, da compensi aggiuntivi correlati all'esito favorevole delle liti. Da questa condizione discende che i compensi professionali, considerati aggiuntivi, potranno essere erogati esclusivamente nelle ipotesi tassativamente previste dalla legge.
È indubbio che le disposizioni del Dl 90/2014 prevedono questa remunerazione aggiuntiva esclusivamente in caso di esito vittorioso della lite, riscontrabile nelle sentenze che definiscono la fase di giudizio respingendo le domande di controparte per ragioni processuali o di merito, ma certamente non nei casi di estinzione del giudizio per perenzione, rinuncia di controparte o abbandono della controversia o, in generale, per inattività della controparte in qualsiasi fase del giudizio cautelare, di merito o di esecuzione che comporti la completa salvaguardia dei beni e diritti dell'ente, oltre che di abbandono o rinuncia con onere delle spese. In queste ultimi casi l'attività dell'avvocato interno trova ristoro nello stipendio tabellare erogato quale dipendente pubblico.
Questa indicazione trova la sua ragione nella stessa disposizione legislativa che ha previsto il compenso aggiuntivo anche in caso di transazione ma solo qualora questa faccia seguito a una «sentenza favorevole». A maggior ragione nei casi evidenziati dall'ente locale se non si è in presenza di una sentenza favorevole nulla sarà dovuto all'avvocato interno, essendo le sue attività remunerate con lo stipendio tabellare. Qualsiasi regolamento predisposto dall'ente locale al di fuori dell'ipotesi legislativa è, pertanto, da considerare illegittimo per violazione di norma imperativa (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 08.05.2019).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIDichiarazione di inconferibilità e incompatibilità.
Domanda
In presenza di affidamento di un incarico, ai sensi dell’art. 110 del TUEL 267/2000, quando è necessario acquisire la dichiarazione prevista dal d.lgs. 39/2013?
Risposta
Nell’ambito delle strategie per prevenire la corruzione nella pubblica amministrazione, uno dei provvedimenti attuativi della legge Severino (legge 06.11.2012, n. 190) è il decreto legislativo 08.04.2013, n. 39, recante “Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell’articolo 1, commi 49 e 50, della legge 06.11.2012, n. 190”.
Per gli enti locali, le disposizioni normative contenute nel d.lgs. 39/2013 si applicano, solamente, al segretario comunale e ai dirigenti. Negli enti locali, privi di figure dirigenziali, la norma si applica anche alle posizioni organizzative
[1] a cui vengono attribuite le funzioni dirigenziali, a mente degli articoli 50, comma 10; 107 e 109, comma 2, del TUEL 18.08.2000, n. 267.
Delimitato l’ambito applicativo della norma, va chiarito che la questione della dichiarazione sull’insussistenza della cause di inconferibilità e incompatibilità trova la sua disciplina nell’articolo 20, del d.lgs. 39/2013, laddove si prevede che:
   a)
all’atto del conferimento dell’incarico –quindi prima che esso abbia inizio– l’interessato presenta una dichiarazione sulla insussistenza di una delle cause di inconferibilità del decreto (comma 1);
   b)
nel corso dell’incarico l’interessato presenta annualmente una dichiarazione sulla insussistenza di una delle cause di incompatibilità di cui al presente decreto (comma 2);
   c)
le dichiarazioni di cui sopra sono pubblicate nel sito web dell’ente che ha conferito l’incarico (comma 3), nella sezione Amministrazione trasparente > Personale;
   d)
la dichiarazione sulla insussistenza delle cause di inconferibilità è condizione per l’acquisizione dell’efficacia dell’incarico (comma 4).
Per gli incarichi dirigenziali presenti in un ente locale le situazioni in cui non è possibile conferire l’incarico (inconferibilità, appunto) sono essenzialmente tre, disciplinate rispettivamente:
   – nell'articolo 3, comma 1;
   – nell'articolo 4 comma 1;
   – nell'articolo 7, comma 2, del decreto.
Nel primo caso (art. 3, comma 1) si tratta di soggetti condannati, anche con sentenza non passata in giudicato, per uno dei reati previsti dal capo I del titolo II del libro secondo del codice penale
[2], anche nel caso di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale (c.d. patteggiamento).
Nel secondo caso (art. 4, comma 1) riguarda soggetti che, nei due anni precedenti, abbiano svolto incarichi e ricoperto cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati dall’amministrazione che conferisce l’incarico, ovvero abbiano svolto in proprio attività professionali, se queste sono regolate, finanziate o comunque retribuite dall’amministrazione o ente che conferisce l’incarico.
L’ultimo caso (art. 7, comma 2), riguarda:
   a) i soggetti che nei due anni precedenti siano stati componenti della Giunta o del Consiglio della provincia, del comune o della forma associativa tra comuni che conferisce l’incarico (le inconferibilità di cui al presente articolo non si applicano ai dipendenti della stessa amministrazione che, all’atto di assunzione della carica politica, erano titolari di incarichi);
   b) i soggetti che nell’anno precedente abbiano fatto parte della Giunta o del Consiglio di una provincia, di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione, nella stessa regione dell’amministrazione locale che conferisce l’incarico, nonché a coloro che siano stati presidente o amministratore delegato di enti di diritto privato in controllo pubblico da parte di province, comuni e loro forme associative della stessa regione.
All’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), in virtù dell’art. 16 del decreto, spetta il compito di vigilare sul rispetto, da parte delle amministrazioni pubbliche delle disposizioni di cui al d.lgs. 39/2013, anche con l’esercizio di poteri ispettivi e di accertamento di singole fattispecie di conferimento degli incarichi. In questi anni l’ANAC, in più circostanze, ha avuto modo di intervenire, con propri atti, sulla delicata materia del conferimento di incarichi in presenza di situazioni conclamate o a rischio di inconferibilità o incompatibilità.
Le principali disposizioni dell’ANAC –per coloro che intendessero approfondire la questione– sono:
   – Orientamento n. 4/2014;
   – Orientamento n. 99/2014;
   – Delibera n. 1001 del 21.09.2016;
   – Delibera n. 613 del 31.05.2016;
   – PNA 2016, approvato con delibera n. 831 del 03.08.2016, paragrafo 3.7;
   – Delibera n. 833 del 03.08.2016;
   – Delibera n. 925 del 13.09.2017;
   – Delibera n. 207 del 13.03.2019.
Premesso quanto sopra, la risposta al quesito è la seguente:
- la dichiarazione prevista dall’art. 20, comma 1, del d.lgs. 39/2013, relativa all’insussistenza di cause di inconferibilità dell’incarico di:
   – segretario comunale;
   – dirigente di ente locale;
   – posizione organizzativa, in enti senza la dirigenza;
   – incarico ex art. 110 TUEL 267/2000 (enti con o senza dirigenti);
deve essere acquisita prima del conferimento dell’incarico e pubblicata, in modo tempestivo, nel sito web dell’ente che conferisce l’incarico.
In assenza della dichiarazione di cui al comma 1, dell’art. 20, d.lgs. 39/2013, l’atto di nomina non acquisisce efficacia, con tutte le negative conseguenza che ne consegue (23.04.2019 - tratto da e link a www.publika.it).
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[1] Cfr. art. 2, comma 2, d.lgs. 39/2013
[2] Capo I - Dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione
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Art. 314 — Peculato
  
Art. 315 — Malversazione a danno di privati [ABROGATO] 
  
Art. 316 — Peculato mediante profitto dell'errore altrui
  
Art. 316-bis — Malversazione a danno dello Stato
  
Art. 316-ter — Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato
  
Art. 317 — Concussione
  
Art. 317-bis — Pene accessorie
  
Art. 318 — Corruzione per l'esercizio della funzione
  
Art. 319 — Corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio
  
Art. 319-bis — Circostanze aggravanti
  
Art. 319-ter — Corruzione in atti giudiziari
  
Art. 319-quater — Induzione indebita a dare o promettere utilità
  
Art. 320 — Corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio
  
Art. 321 — Pene per il corruttore
  
Art. 322 — Istigazione alla corruzione
  
Art. 322-bis — Peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri delle Corti internazionali o degli organi delle Comunità europee o di assemblee parlamentari internazionali o di organizzazioni internazionali e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri
  
Art. 322-ter — Confisca
  
Art. 322-ter 1 — Custodia giudiziale dei beni sequestrati
  
Art. 322-quater — Riparazione pecuniaria
  
Art. 323 — Abuso d'ufficio
  
Art. 323-bis — Circostanze attenuanti
  
Art. 323-ter — Causa di non punibilità
  
Art. 324 — Interesse privato in atti di ufficio [ABROGATO]
  
Art. 325 — Utilizzazione d'invenzioni o scoperte conosciute per ragione di ufficio
  
Art. 326 — Rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio
  
Art. 327 — Eccitamento al dispregio e vilipendio delle istituzioni, delle leggi o degli atti dell'autorità [ABROGATO]
  
Art. 328 — Rifiuto di atti d'ufficio. Omissione
  
Art. 329 — Rifiuto o ritardo di obbedienza commesso da un militare o da un agente della forza pubblica
  
Art. 330 — Abbandono collettivo di pubblici uffici, impieghi, servizi o lavori [ABROGATO]
  
Art. 331 — Interruzione d'un servizio pubblico o di pubblica necessità
  
Art. 332 — Omissione di doveri di ufficio in occasione di abbandono di un pubblico ufficio o di interruzione di un pubblico servizio [ABROGATO]
  
Art. 333 — Abbandono individuale di un pubblico ufficio, servizio o lavoro [ABROGATO]
  
Art. 334 — Sottrazione o danneggiamento di cose sottoposte a sequestro disposto nel corso di un procedimento penale o dall'autorità amministrativa
  
Art. 335 — Violazione colposa di doveri inerenti alla custodia di cose sottoposte a sequestro disposto nel corso di un procedimento penale o dall'autorità amministrativa 
  
Art. 335-bis — Disposizioni patrimoniali

PUBBLICO IMPIEGOI permessi orari per motivi personali o familiari.
DOMANDA:
La nuova enunciazione dell’art. 32 CCNL 2018, che subordina l'autorizzazione di permessi retribuiti alla indicazione di particolari motivi personali o familiari, ha convinto molti dipendenti che tale giustificativo sia di fatto il riconoscimento di ulteriori tre giorni di ferie.
Pervengono pertanto richieste di fruizione di tali permessi o con indicazioni generiche “per motivi personali” o con le più originali motivazioni. L’unico passaggio previsto nell'art. 32 per negare il permesso è l’inciso “compatibilmente con le esigenze di servizio” con una formulazione che sembra invertire l’onere della giustificazione.
Non è il dipendente a dover giustificare l’assenza, ma il datore di lavoro a dover giustificare quali esigenze di servizio impediscano il riconoscimento del diritto all'assenza.
Onde evitare confusione si chiede se sia possibile all’ente disciplinare la materia, magari dopo un confronto ex art. 5 CCNL con le organizzazioni sindacali, individuando le fattispecie/motivazioni per le quali verrà autorizzato il permesso ed escludendo tutte le altre (prevedendo ovviamente qualche margine di discrezionalità per casi non previsti) sulla base che il riconoscimento del permesso è comunque subordinato al bilanciamento di interessi ed anche la semplice presenza in servizio è da considerarsi una "esigenza di servizio" prevalente su altre motivazioni.
RISPOSTA:
Si riportano, sul punto, le osservazioni formulate dall’Aran con parere CFL27 del 30 ottobre scorso. La formulazione dell’art. 32 del CCNL Funzioni Locali 21.05.2018 in materia di permessi retribuiti non prevede più la necessità di documentare i motivi e le ragioni per le quali viene richiesto il permesso, anche se la motivazione, che consente di ricondurre tale tutela alle esigenze personali e familiari dell’interessato, va, comunque, indicata nella richiesta avanzata dal dipendente, in quanto la stessa resta il presupposto legittimante per la concessione del permesso.
Ove la suddetta richiesta non appaia del tutto motivata o adeguatamente giustificata, a seguito della comparazione degli interessi coinvolti (interesse del lavoratore evidenziato nella domanda alla fruizione dei permessi e ragioni organizzative e di servizio), il datore di lavoro potrà far valere la prevalenza delle esigenze di servizio, negando la concessione del permessi.
L’ente, tuttavia, non è chiamato in alcun modo a valutare nel merito la giustificatezza o meno della ragione addotta, ma solo la sussistenza di ragioni organizzative od operative che impediscano la concessione del permesso.
Quello che emerge dal parere dall’Aran è che -anche nell'ambito della nuova disciplina dell’istituto- il lavoratore non è titolare di un diritto soggettivo perfetto alla fruizione dei permessi ed il datore di lavoro pubblico non è in nessun caso obbligato a concedere gli stessi. Quest’ultimo, ben può, nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede, anche negarne la fruizione, ma solo in presenza di ragioni organizzative od operative che ne impediscano la concessione.
Al fine di evitare comportamenti e risposte difformi a fronte di richieste analoghe, è possibile, e anche opportuno, regolamentare -non le fattispecie per le quali verrebbe autorizzato il permesso, perché in questo caso si andrebbe a limitare l’ambito della norma contrattuale- bensì le ragioni organizzative in cui tale permesso può essere negato (tratto da e link a www.ancirisponde.ancitel.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGORegolamento incentivi sponsorizzazioni.
Domanda
Chi approva il Regolamento per la disciplina delle sponsorizzazioni, in cui si prevede anche un incentivo per i dipendenti, così come previsto dall’art. 67, comma 3, lettera a), del CCNL 21/05/2018?
Risposta
Il Testo Unico degli Enti Locali (TUEL), approvato con il decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, fa risalire la competenza esclusiva del Consiglio comunale nell’approvazione dei regolamenti comunali, così come previsto all’art. 42, comma 2, lettera a). Il potere regolamentare dei comuni risulta disciplinato anche nell’art. 7 del medesimo TUEL.
Gli unici regolamenti che sono di competenza della Giunta sono i Regolamenti per l’Organizzazione Uffici e Servizi (ROUS), così come espressamente previsto dall’art. 48, comma 3, del TUEL.
Anche in questo caso, tra l’altro, la Giunta deve disciplinare l’organizzazione degli uffici e servizi, sulla base di criteri generali, propedeuticamente emanati dal Consiglio (ancora art. 48, co. 3, TUEL). Le materie che si possono disciplinare all’interno del ROUS sono analiticamente indicate nell’art. 89, comma 2, del TUEL e, con tutta evidenza, non vi è prevista la disciplina delle sponsorizzazioni, la cui fonte normativa va rinvenuta nell’art. 19 del Codice dei contratti (d.lgs. 18.04.2016, n. 50); nell’articolo 119 del TUEL e, prima ancora, nell’articolo 43, della legge 27.12.1997, n. 449.
All’interno di tali regolamenti, gli enti, possono anche prevedere la possibilità di riconoscere delle incentivazioni di carattere economico nei confronti del proprio personale dipendente (dirigenti e non dirigenti), come previsto nei vari contratti nazionali del comparto.
Il parere dell’ANCI, citato nel quesito, si riferisce ad un comune che, nell’anno 2007, aveva disciplinato l’“Approvazione dei criteri per la disciplina e la gestione delle sponsorizzazioni”, con deliberazione di Giunta.
L’escamatoge
[1] di chiamarli “criteri”, anziché regolamento, a nostro modesto parere, rientra tra le varie e multiformi “tecniche elusive”, applicate negli enti per sottrarre alla competenza del Consiglio (massimo organo di indirizzo e controllo politico-amministrativo), la possibilità di poter esaminare e votare un regolamento di carattere generale, nel quale sono previste anche delle ricadute economiche per il personale.
A completamento informativo, si fa presente che gli ispettori del MEF-RGS, nello loro verifiche amministrative-contabili presso i comuni, verificano sempre che le somme previste nella parte variabile del fondo, relative ai proventi delle sponsorizzazioni, siano precedute dall’approvazione di un regolamento in Consiglio comunale.
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[1] Trovata ingegnosa, trucco, sotterfugio messo in atto con abilità e astuzia, spesso al limite della disonestà, per risolvere una situazione compromessa o uscire da una posizione difficile (17.04.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Doppi criteri con dirigenti o senza. La pesatura dei settori determina la retribuzione aggiuntiva al tabellare.
Regole per conferire e revocare gli incarichi di posizione organizzativa e criteri per graduare le aree.

Sono questi i due aspetti per i quali l’Anci, nel nuovo Quaderno sul tema, propone soluzioni operative per un facile utilizzo da parte degli enti locali. D’altronde la scadenza è alle porte: entro il 20 maggio vanno adottati i nuovi sistemi, pena il divieto di confermare, prorogare o attribuire nuovi incarichi.
Il contratto nazionale 21.05.2018 ha riscritto le regole dell’istituto e quindi, come anche già contenuto in alcuni recenti pareri dell’Aran sono tre gli adempimenti urgenti: revisione dell’assetto organizzativo, approvazione dei criteri di nomina e revoca e definizione dei parametri di graduazione dei settori.
Il primo aspetto va da sé. Ciascun ente deve individuare dove sono collocate le posizioni organizzative nella propria struttura, tenendo conto delle uniche due possibilità di incarichi: di direzione di aree o di alta professionalità.
Dopo queste precisazioni, l’Anci si concentra sul secondo aspetto. Nella proposta del regolamento contenuto nel Quaderno, si trovano quindi alcuni punti essenziali tra cui: la durata (che non può essere superiore ai tre anni), i requisiti che devono avere i soggetti che verranno nominati e le procedure di individuazione dei dipendenti più idonei a ricoprire gli incarichi.
A questo proposito, va ricordata la forte differenza tra enti con la dirigenza, nei quali sono appunto i dirigenti a nominare le posizioni organizzative attraverso anche un avviso esplorativo, rispetto a quanto invece previsto dall’articolo 17, comma 1, del contratto nazionale del 21.05.2018, ovvero che negli enti privi di posizioni dirigenziali i responsabili delle strutture apicali sono posizioni organizzative.
Terzo elemento chiave: i criteri per graduare le aree. L’azione serve per pesare i settori anche per corrispondere la retribuzione di posizione che va dai 5mila ai 16mila euro per i dipendenti di categoria D e dai 3mila ai 9.500 per i dipendenti di categoria C. Su questo aspetto l’Associazione dei Comuni fornisce esempi concreti sia di graduazione sia di raccordo tra quanto pesato e retribuzioni.
I criteri che vengono proposti sono la complessità relazione e la complessità operativa e organizzativa a cui si aggiunge la verifica delle attività soggette a rischio-contenzioso e la responsabilità finanziaria.
Ulteriore differenza tra piccoli e grandi enti: laddove non c’è la dirigenza l’Anci propone come ulteriore elemento la strategicità, mentre negli enti con le posizioni dirigenziali il criterio aggiuntivo, obbligatorio per contratto nazionale, è quello della delega delle funzioni dirigenziali. Il Nucleo o l’Oiv, quindi, pesano le varie aree. A questo punto è necessario correlare i punteggi con le retribuzioni da corrispondere.
Nel Quaderno operativo si trovano interessanti soluzioni che, partendo dal garantire il minimo previsto contrattualmente (5mila euro), con valori proporzionali di pesatura quantificano il valore finale della retribuzione di posizione. La retribuzione di risultato, invece, andrà contrattata all’interno del decentrato (articolo Il Sole 24 Ore del 15.04.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONuovi incarichi, tempi stretti per le regole di nomina e revoca.
Dall’Anci il Quaderno operativo con le istruzioni e gli schemi di delibera. Disciplina da approvare entro il 20 maggio dopo il confronto con i sindacati.

Stringono i tempi per aggiornare le regole sulle nuove posizioni organizzative. Sul tema arrivano le istruzioni dell’Anci, con un nuovo Quaderno operativo pubblicato questa mattina.
Il contratto nazionale del 21.05.2018 ha totalmente rivisto le modalità di affidamento degli incarichi e le regole per la graduazione delle aree. Lo strumento dell’Associazione porta con sé, quindi, molto interesse tenuto conto che le posizioni organizzative in essere verranno meno il 20 maggio prossimo.
Nel documento si parte proprio da questa scadenza e viene da subito ricordato che il contratto ha previsto delle precise relazioni sindacali che devono partire al più presto. Per determinare i criteri di nomina e di revoca delle posizioni organizzative e quelli per la graduazione delle aree è infatti necessario avviare il confronto con i sindacati. La procedura prevede che vi sia un’informazione preventiva alle organizzazioni sindacali e che queste abbiano cinque giorni di tempo per avviare il confronto. Il tutto deve però chiudersi entro trenta giorni. Agenda alla mano, quindi, per essere pronti con tutto al 20 maggio gli enti devono accelerare i tempi inviando ai sindacati i criteri generali per la costruzione dei sistemi proprio in questi giorni.
L’Anci ricorda poi che ci sono altri importanti passaggi da fare ai tavoli con le rappresentanze sindacali. In sede di contrattazione integrativa, ad esempio, saranno da contrattare i criteri per l’erogazione della retribuzione di risultato, mentre vengono ulteriormente precisate le dinamiche sulle risorse stanziate per l’istituto nel delicato rapporto con il fondo del trattamento accessorio. Infatti, se l’ente stanzia per le posizioni organizzative somme equivalenti a quelle del 2017 non ci sono problemi. Se però l’ente dovesse stanziare più somme, e queste comportano la riduzione del fondo per rispettare il tetto dell’anno 2016 previsto dall’articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017, si deve per forza passare dalla contrattazione. Nel caso contrario, invece, cioè stanziando meno risorse per le posizioni organizzative, si creerebbe la possibilità di aumentare il fondo; azione che però deve transitare dal confronto.
Gli enti senza la dirigenza hanno però beneficiato di un’ulteriore possibilità: scomputare dalle capacità assunzionali eventuali incrementi di valore degli importi dovuti al fatto che il valore massimo della retribuzione di posizione è salito con il nuovo contratto nazionale a 16mila euro. La soluzione è prevista all’articolo 11-bis del Dl 135/2018 e l’Anci si è impegnata di chiedere che la norma diventi applicabile anche negli enti con la dirigenza.
Il documento dell’Associazione propone quindi due strumenti operativi. Da una parte si trova una bozza di deliberazione di Giunta per l’approvazione dei criteri e dall’altra un vero e proprio regolamento, ovviamente adattabile da parte di ciascun ente, che si suddivide in due ulteriori sotto sezioni: i criteri per la nomina e la revoca delle posizioni organizzative e quelli per la graduazione delle aree. Secondo l’Anci, è opportuno porre quest’ultima azione in capo a un soggetto terzo: il nucleo o l’organismo indipendente di valutazione (articolo Il Sole 24 Ore del 15.04.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORisoluzione unilaterale.
Domanda
È obbligatorio procedere alla risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro al compimento dei 65 anni di età del dipendente, limite ordinamentale per gli enti pubblici ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. d), della Legge 70/1975?
Risposta
Al compimento dei 65 anni di età occorre appurare l’anzianità contributiva del dipendente anche tenendo conto delle contribuzioni presenti in altre casse pensionistiche ed eventualmente non ricongiunte.
Il primo controllo da effettuare è verificare se il dipendente al 31.12.2011 aveva raggiunto requisito a pensione di cui alla Legge 247/2007 (Pre-Fornero):
   – anzianità contributiva pari a 40 anni (39 anni, 11 mesi e 16 giorni);
   – quota 96 (60 anni e 6 mesi di età con 35 anni e 6 mesi di contributi).
In caso positivo occorre collocare a riposo d’ufficio il dipendente.
Se il dipendente non ha raggiunto nessuno dei requisiti sopra esposti alla data del 31.12.2011, l’Amministrazione lo accompagna al primo traguardo utile che dovrà verificarsi al raggiungimento del diritto a pensione anticipata oppure pensione di vecchiaia (11.04.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIncentivi, le risorse vanno nella contrattazione decentrata e a preventivo.
La Corte di Appello di Catanzaro, Sez. lavoro, con sentenza 14.02.2019 n. 1972, si è occupata delle conseguenze della richiesta di liquidazione degli incentivi legati ad un progetto obiettivo in assenza della copertura finanziaria.
Nel confermare la sentenza di primo grado vengono evidenziate e confermate alcune regole che presiedono alla corretta attivazione dei progetti obiettivo, con l’utilizzo delle risorse previste dall’articolo 15 del Ccnl 01.04.1999, che meritano di essere commentate anche alla luce del nuovo Ccnl delle funzioni locali del 21.05.2018.
La sentenza risulta particolarmente interessante in quanto si occupa, anche solo incidentalmente, ma in modo efficace, della sostanziale differenza tra il lavoro straordinario, che è fondamentalmente legato alla quantità della prestazione lavorativa, e gli incentivi, inclusi quelli connessi ai progetti obiettivo, che, invece, concernono la qualità della prestazione e sono inscindibilmente legati al conseguimento dei risultati, preventivamente definiti attraverso opportuni indicatori.
La pronuncia del Giudice di appello
Il giudice di appello ha constatato che le risorse necessarie per finanziare lo specifico progetto obiettivo non erano presenti e, comunque, i ricorrenti non sono riusciti a dimostrarne la loro preventiva definizione attraverso il fondo risorse accessorie e la contrattazione decentrata e, quindi, il progetto incentivante non trovava copertura nell’ambito dei principi sanciti dagli artt. 40 e 45 , Dlgs 165/2001, in base ai quali “gli oneri di tutti i trattamenti economici accessori del personale devono trovare integrale copertura nelle generali risorse destinate al finanziamento della contrattazione integrativa”, anzi proprio consci di tale specifica situazione interdittiva i ricorrenti azionavano in subordine una richiesta di indebito arricchimento ex art. 2041 Cc che, comunque, veniva rigettata, sia perché improponibile -in quanto esisteva una causa connessa ad un rapporto contrattuale (lo svolgimento del lavoro straordinario) che, tuttavia, non veniva attivata- sia perché i dipendenti non hanno fornito prova della perdita patrimoniale subita; relativamente a tale ultimo aspetto, infatti, risulta insufficiente l’aver dimostrato di aver conseguito gli obiettivi del progetto e, quindi, aver generato una utilità per l’ente.
Peraltro già il giudice di primo grado aveva eccepito, in tema di ingiustificato arricchimento, che i ricorrenti non avevano dimostrato l’attività svolta al di fuori dell’orario di lavoro e la estraneità rispetto alle mansioni proprie dei ricorrenti (che, evidentemente, l’avrebbero attratto nella causa del contratto a titolo di prestazione straordinaria solo nella ipotesi di svolgimento della prestazione lavorativa al di fuori dell’orario di lavoro); tutto ciò, peraltro, si collega perfettamente alla vigenza del principio della onnicomprensività del trattamento retributivo del dipendente pubblico che “lasciano emergere la chiara mancanza dei fatti costitutivi della domanda”.
L’ente si è opposto dimostrando che la contrattazione decentrata per l’anno di riferimento (il 2013) non prevedeva, in alcun modo, risorse variabili destinate a finanziare lo specifico progetto obiettivo, circostanza che i ricorrenti non sono stati in grado di contestare ed il tentativo di dimostrare che, comunque, le risorse erano previste nella contrattazione decentrata relativa all’anno successivo (il 2014) “è del tutto inconferente perché è pacifico dagli stessi atti a firma del dirigente (…) che si trattava di un progetto” incentivante sviluppatosi dal mese di aprile al mese dicembre del 2013.
Inoltre, già il giudice di primo grado aveva ritenuto ininfluente il riferimento alle indicazioni metodologiche formulate dall’Organismo Indipendente di Valutazione, al fine di poter correttamente svolgere il compito di validazione dei risultati, affidatogli dall’ordinamento interno; l’Oiv, infatti, si era limitato a stabilire che il progetto doveva essere preventivamente approvato e dovevano essere indicati preventivamente i risultati ai fini dell’erogazione dell’incentivo; ma tali affermazioni non inficiano minimamente l’esigenza che le risorse siano preventivamente individuate in modo certo e nel rispetto dei vincoli finanziari vigenti.
D’altra parte proprio l’Oiv aveva avuto modo di precisare, richiamando un noto e consolidato orientamento dell’Aran, che comunque al “fine dell’erogazione delle relative spettanze, l’iter dovrà essere completato con la verifica, a cura degli uffici competenti, (…) degli aspetti di natura finanziario-contabile, con particolare riferimento ai seguenti elementi:
   1. risorse quantificate secondo criteri trasparenti e ragionevoli, analiticamente illustrati nella relazione da allegare al contratto decentrato;
   2. risorse previste nel bilancio annuale;
   3. quantificazione delle spettanze in ragione della verifica dei risultati del progetto
”.
Gli orientamenti Aran
Nel precedente assetto contrattuale, proprio per perimetrare correttamente tali istituti incentivanti, l’Aran era intervenuto con il parere n. 499-15L per indicare le condizioni necessarie per la corretta applicazione dell’istituto ed aveva avuto modo di pronunciarsi su tali tipologie di progetti e sulle risorse variabili che li finanziano, ex art. 15, comma 5, del Ccnl 01.04.1999. In particolare venivano evidenziate alcune specificità, tra le quali:
   1. l'incremento delle risorse deve essere comunque correlato ad uno o più obiettivi di miglioramento della performance organizzativa o di attivazione di nuovi processi, relativi ad uno o più servizi, individuati dall'ente nel piano della performance o in altri analoghi strumenti di pianificazione della gestione;
   2. deve trattarsi, comunque, di obiettivi che richiedano il concreto, diretto e prevalente apporto del personale dell'ente;
   3. la quantificazione dell'incremento deve essere correlata alla rilevanza dei risultati attesi nonché al maggiore impegno richiesto al personale coinvolto;
   4. le risorse possono essere rese disponibili solo a consuntivo e sono erogate al personale in funzione del grado di effettivo conseguimento degli obiettivi di performance organizzativa ai quali l'incremento è stato correlato, come risultante dalla relazione sulla performance o da altro analogo strumento di rendicontazione adottato dall'ente.
   5. quanto sopra detto non vale, tuttavia, ad escludere che gli obiettivi di performance organizzativa, individuati per giustificare l'incremento, possano essere anche "obiettivi di mantenimento" di risultati positivi già conseguiti l'anno precedente, fermo restando, in ogni caso, il rispetto delle condizioni sopra evidenziate, con particolare riferimento alla necessità che, anche per il perseguimento dell'obiettivo di mantenimento, continui ad essere richiesto un maggiore, prevalente e concreto impegno del personale dell'ente alla cui incentivazione le risorse sono destinate, oltre ad essere necessario uno specifico apparato motivazionale in grado di spiegare, in relazione alle condizioni di contesto, le ragioni di misure di incentivazione allo scopo di mantenere i livelli di servizio già raggiunti.
L’autorizzazione del dirigente
Un ultimo aspetto, di non secondaria importanza, è il fatto che il progetto sia stato autorizzato dal dirigente dell’unità operativa di appartenenza dei ricorrenti; a tal proposito l’autorizzazione del dirigente, a parte eventuali profili di responsabilità non oggetto del giudizio, come quelle di natura disciplinare o patrimoniale, non può in alcun modo sanare l’inesistenza della provvista e non è neppure in grado di caratterizzare come incentivanti attività che, comunque, rientrino nell’ambito delle prestazioni esigibili dall’amministrazione e per le quali i ricorrenti non azionavano la richiesta di remunerazione a titolo di lavoro straordinario, se non in primo grado, ma senza aver dimostrato lo svolgimento della prestazione al di fuori dell’ordinario orario di lavoro.
Il Ccnl Funzioni locali
Il Ccnl Funzioni locali 21.05.2018, in attesa di nuovi orientamenti dell’Aran, pone gli enti di fronte al dilemma circa la possibilità di attivare i cosiddetti “progetti-obiettivo” che nel Ccnl 01.04.1999 potevano essere finanziati con il ricorso a risorse variabili ex art. 15, comma 5, del richiamato Ccnl.
Il tema è di estrema attualità ed alcuni aspetti essenziali di quanto appena esposto tornano utili per definire un corretto inquadramento nell’ambito del più recente Ccnl delle funzioni locali sottoscritto il 21.05.2018, nel rispetto delle prerogative dell’amministrazione in materia di disciplina del sistema di misurazione e valutazione della performance, prerogative previste dall’art. 7, Dlgs 150/2009, e dei confini di operatività dei due modelli di relazioni sindacali che, in materia, hanno rilievo: il confronto e la contrattazione integrativa; di questi aspetti sono certamente di rilievo la connessione con la performance organizzativa, con il piano della performance e con la relazione sulla performance; aspetti già trattati in un apposito contributo sulle pagine di questa rivista.
Infine, è utile segnalare come anche le linee guida n. 1/2017 (“Linee guida per il Piano della performance”) del Dipartimento della Funzione Pubblica specificano che, tra le tipologie di unità di riferimento della rilevazione della performance organizzativa, rientrano anche quelle “iniziative, che possono essere identificate come progetti e sono caratterizzate da un inizio e una fine (a differenza delle attività ricorrenti)”, che “promuovono innovazioni rilevanti, che potranno modificare e migliorare nel tempo il portafoglio delle attività ricorrenti e ripetute e rivestono, quindi, una rilevanza strategica” (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.04.2019).

PUBBLICO IMPIEGO: Gli incarichi spettano al sindaco. Sua la competenza a reclutare dirigenti a contratto. Corte conti Molise: è una delle poche attribuzioni gestionali assegnate al primo cittadino.
Spetta in via esclusiva al sindaco la competenza ad incaricare i dirigenti a contratto, mentre sull'apparato amministrativo incombe il dovere di compiere l'istruttoria preventiva, la sottoscrizione del contratto e il compimento degli adempimenti successivi.

La sentenza 08.04.2019 n. 10 della Corte dei conti, sezione giurisdizionale Molise fornisce indicazioni molto utili sul piano operativo sulla complessa procedura intesa al reclutamento di dirigenti a contratto ai sensi dell' articolo 110 del dlgs 267/2000.
Competenze del sindaco. La sentenza ha escluso l'illegittimità del conferimento dell'incarico, e di conseguenza dell'illiceità dell'esborso connesso al compenso erogato, derivante dalla circostanza che la nomina sia stata disposta con decreto del sindaco.
I giudici della sezione Molise hanno avuto facilmente modo di dimostrare la legittimità del decreto sindacale di nomina, richiamando la previsione piuttosto chiara dell' articolo 50, comma 10, del dlgs 267/2000: «Il sindaco e il presidente della provincia nominano i responsabili degli uffici e dei servizi, attribuiscono e definiscono gli incarichi dirigenziali e quelli di collaborazione esterna secondo le modalità ed i criteri stabiliti dagli articoli 109 e 110, nonché dai rispettivi statuti e regolamenti comunali e provinciali».
Si tratta, dunque, di una delle poche competenze in qualche misura gestionali che l'ordinamento degli enti locali attribuisce direttamente al sindaco, invece che a dirigenza giunta o consiglio.
La sentenza evidenzia piuttosto chiaramente che si tratta di una competenza gestionale vera e propria: infatti, i giudici considerano possibile assimilare in qualche misura il decreto sindacale ad una determinazione dirigenziale, perché l' attribuzione di un incarico dirigenziale a contratto comporta anche l'impegno di spesa.
Il sindaco, dunque, nell'adottare il decreto di incarico, non solo può, ma anche deve impegnare contestualmente la spesa necessaria, per finanziare la connessa retribuzione.
Competenze dell'apparato. Se al sindaco, quindi, compete incaricare con proprio decreto il dirigente a contratto, all'apparato amministrativo spetta svolgere tutta l'attività istruttoria connessa, che va dall'elaborazione dell'avviso pubblico alla gestione della selezione, all'espressione di avvisi e pareri sulla legittima adozione dell' iniziativa.
Secondo la sentenza, non necessariamente occorrono i pareri di regolarità amministrativa e contabile, previsti dall'articolo 49 del Tuel, il quale li impone solo per le proposte di deliberazione di giunta e consiglio.
Tuttavia, la pronuncia della magistratura contabile ritiene che non sia un vizio di legittimità nemmeno l'assenza del visto di regolarità contabile attestante la copertura finanziaria: esso, infatti, si limita ad attestare l'effettiva disponibilità in bilancio delle somme, senza potersi esprimere in alcun modo sulla legittimità dell' atto.
Tocca ancora all'apparato (sulla base dell'organizzazione interna di ciascun ente) adottare, poi, tutti gli atti attuativi dell'incarico.
In particolare, la Sezione Molise avverte che compete al dirigente o responsabile preposto sottoscrivere il contratto che regola l'incarico assegnato dal sindaco, così come compete ovviamente all'ufficio stipendi erogare materialmente il compenso. Né il decreto sindacale di incarico può considerarsi illegittimo se successivamente il contratto non venga sottoscritto.
È, quindi, sia nella fase istruttoria preliminare, sia nella fase attuativa successiva, che eventualmente l'apparato amministrativo può e deve evidenziare vizi giuridico-contabili. Nel caso di specie, la Procura regionale aveva attivato l'azione di responsabilità perché i dirigenti a contratto erano stati assunti pur avendo il comune violato il patto di stabilità: ma, di tale violazione il sindaco ebbe cognizione sei mesi dopo l'adozione dei decreti, senza che mai prima né revisori dei conti, né ragioniere o apparato amministrativo avessero mai espresso in atti problemi connessi al rispetto del patto.
Per questa ragione, la sentenza ha assolto il sindaco, lasciando intendere sullo sfondo che eventuali responsabilità erariali andrebbero ricercati non in capo al primo cittadino, ma alla compagine amministrativa: era essa a dover avvertire il sindaco della condizione finanziaria e comunque a tenerne conto nel momento in cui dovesse stipulare il contratto o erogare lo stipendio  (articolo ItaliaOggi del 19.04.2019).

PUBBLICO IMPIEGO: Pluralità di condotte lesive e intento persecutorio.
È configurabile il “mobbing” lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo è onere del lavoratore che lo denunci e che chieda di essere risarcito provare l’esistenza di tale danno, ed il nesso causale con il contesto di lavoro (respinta, nella specie, la richiesta di risarcimento avanzata da un dipendente, di un Caf; mancava, infatti, la prova che le singole condotte tenute dalla struttura avessero avuto come obiettivo quello di emarginare e ledere il lavoratore) (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 05.04.2019 n. 9664 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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6.3. La sentenza della Corte territoriale non è incorsa infatti nella violazione delle disposizioni in tema di distribuzione dell'onere della prova (2697 cod. civ.).
Premesso che è configurabile il "mobbing" lavorativo ove ricorra l'elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo dell'intendimento persecutorio del datore medesimo è onere del lavoratore che lo denunci e che chieda di essere risarcito provare l'esistenza di tale danno, ed il nesso causale con il contesto di lavoro (cfr. Cass. 06/08/2014 n. 17698, 21/05/2018 n. 12437).
La Corte territoriale esattamente applicando tale regola e sulla base delle allegazioni e delle prove acquisite in giudizio ha escluso che fosse stata offerta la prova che le singole condotte denunciate fossero connotate da un'emarginazione o di un intento persecutorio del datore di lavoro, nella sostanza escludendo che il comportamento datoriale sia stato caratterizzato da iniziative che potessero ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l'adozione di condizioni lavorative "stressogene".

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONon autorizzazione stipula CCDI.
Domanda
Può l’organo di governo non condividere l’ipotesi di Contratto integrativo e, quindi, non autorizzare il presidente della delegazione trattante di parte pubblica alla sottoscrizione del contratto definitivo?
Risposta
Il CCNL prevede una precisa procedura per la stipulazione del contratto decentrato integrativo, che si articola nelle fasi sotto riportate:
   • Nomina delegazione di parte pubblica
   • Direttive dell’organo politico: spetta al competente organo di direzione politica (giunta o altro analogo organo, in relazione alla tipologia degli enti del comparto), necessariamente ed in via preventiva, la formulazione delle direttive alla delegazione trattante, per definirne gli obiettivi strategici ed i vincoli anche di ordine finanziario.
   • Prima convocazione per l’avvio del negoziato
   • Svolgimento delle trattative
   • Firma dell’Ipotesi di contratto decentrato integrativo
   • Verifica della compatibilità degli oneri finanziari: tale controllo, di competenza dell’organo di revisione, è finalizzato non solo alla verifica della compatibilità degli oneri delle clausole del contratto decentrato con i vincoli posti dal contratto nazionale e dal bilancio dell’ente, ma anche del rispetto delle disposizioni inderogabili di norme di legge che incidono sulla misura e sulla corresponsione dei trattamenti accessori.
   • Esame dell’organo di direzione politica: Il presidente della delegazione di parte pubblica trasmette l’Ipotesi di accordo e le relative relazioni (illustrativa e tecnico-finanziaria), corredate del parere positivo dell’organo di controllo, all’organo di direzione politica per la necessaria verifica, sulla base di una propria e autonoma valutazione di merito, di alcuni specifici contenuti dell’ipotesi di contratto integrativo:
a) corrispondenza alle indicazioni delle direttive, con particolare riferimento al raggiungimento dei risultati ed obiettivi ivi espressamente indicati;
b) conformità dei contenuti contrattuali anche agli obiettivi ed ai programmi generali dell’ente;
c) convergenza con le linee di politica sindacale e del personale perseguite dall’ente;
d) utilizzo efficiente, efficace ed economico delle risorse disponibili;
e) adeguamento del contratto integrativo alla soluzione di problemi organizzativi e funzionali dell’ente;
f) coerenza dei costi del contratto integrativo con le indicazioni di carattere finanziario contenute nelle direttive e compatibilità degli stessi con i vincoli di bilancio e con le altre norme contrattuali in materia di quantificazione delle risorse;
g) rispetto delle disposizioni inderogabili che incidono sulla misura e sulla corresponsione dei trattamenti accessori;
   • Sottoscrizione definitiva del contratto decentrato integrativo
   • Adempimenti successivi alla sottoscrizione definitiva: invio del contratto decentrato sottoscritto definitivamente all’ARAN e al CNEL.
Quindi, di fatto, poiché l’ipotesi prima di diventare “definitiva” torna all’organo di governo, sarà sempre possibile, da parte di quest’ultimo indicare di non procedere alla stipula. Ovviamente, dovranno essere individuate precise motivazioni nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede, più volt invocati dal CCNL 21.05.2018 (04.04.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGODanno erariale al sindaco che dà la posizione organizzativa prima del pensionamento.
Responsabilità contabile al sindaco che abbia nominato una posizione organizzativa prima del suo pensionamento. In questo caso il danno erariale è equivalente al totale delle somme maggiorate, pagate sulla pensione del dipendente in quiescenza, fino alla data del rinvio a giudizio. Spetterà, invece, all'Inps attivare le eventuali procedure per la riduzione della pensione futura, data l'attribuzione della maggiorazione stipendiale avvenuta in modo illegittimo e illecito.

Queste sono le conclusioni della Corte dei conti, sezione giurisdizionale, dell'Umbria (sentenza 03.04.2019 n. 21).
La vicenda
In un ente privo di posizioni dirigenziali, il sindaco aveva conferito a una dipendente la posizione organizzativa e, solo dopo quattro giorni dal conferimento dell'incarico, aveva ricevuto dalla medesima la domanda di collocamento a riposo. Il pensionamento veniva successivamente disposto, grazie ai requisiti posseduti dalla richiedente, anche se a soli undici giorni dalla sua nomina a responsabile del servizio.
La Procura contabile ha rinviato a giudizio il sindaco per il danno erariale procurato alla pubblica amministrazione per aver attuato una scelta arbitraria, mediante assegnazione della posizione organizzativa alla dipendente, permettendo alla medesima di fruire di un maggior importo del suo trattamento pensionistico.
L'importo della pensione della dipendente, infatti, è stato calcolato comprendendo una indennità di posizione parametrata non al periodo di esercizio effettivo della responsabilità del servizio ma su base annua. In altri termini il Primo cittadino, con dolo o almeno colpa grave, non avrebbe fatto gli interessi dell'ente ma esclusivamente procurato un vantaggio alla dipendente per la maggiore pensione ricevuta.
Il vantaggio pensionistico della dipendente, pari a circa 3mila euro annui, corrisponde al danno erariale che andrà pertanto moltiplicato per gli anni di indebita fruizione. Inoltre, in considerazione della certezza dei pagamenti per gli anni successivi, dalla data del rinvio a giudizio, la Procura ha anche proceduto alla quantificazione del maggior danno stimato sulla vita media della pensionata.
Il sindaco si è difeso da una lato in quanto a suo dire la nomina sarebbe avvenuta a seguito della richiesta di esonero della precedente titolare di posizione organizzativa per motivi personali, mentre dall'altro lato ha stigmatizzato la posizione della Procura che non avrebbe tenuto conto delle responsabilità specifiche del segretario comunale e del responsabile del personale. Il primo per aver inoltrato al sindaco la richiesta di dimissioni immediate della precedente titolare di posizione organizzativa, con obbligo di procedere all'assegnazione della titolarità dell'ufficio ad altra dipendente con i requisiti previsti dal contratto, essendo all'oscuro della successiva sua decisione di essere collocata a riposo. Il secondo per aver predisposto la determinazione di collocamento a riposo della dipendente senza alcuna informazione preventiva sui requisiti pensionistici posseduti dalla medesima.
La decisione del collegio contabile
Le eccezioni del sindaco non sono state considerate meritevoli di tutela da parte del collegio contabile in quanto, negli enti privi di dirigenti, la nomina dei responsabili dei servizi spetta in via esclusiva al sindaco, cui è automaticamente associata, per disposizione contrattuale, la posizione organizzativa con relativa retribuzione di posizione.
In merito alla richiesta di dimissioni presentate dalla precedente titolare di posizione organizzativa, il sindaco non ha tenuto conto della sua naturale scadenza che, non per caso, coincideva con la data della successiva richiesta della dipendente nominata di essere collocata a riposo. In questo caso, stante il breve periodo di vacanza del posto di responsabile del servizio, il sindaco avrebbe ben potuto attribuire ad interim le funzioni ad altra posizione organizzativa.
Sulla quantificazione del danno erariale, oltre al potere riduttivo spettante alla Corte per la compartecipazione di altri soggetti che hanno assunto un ruolo passivo nella vicenda, l'ulteriore danno richiesto dalla Procura, sul calcolo del valore attuale degli esborsi futuri basati sulla vita media della dipendente, non può trovare accoglimento, non essendosi il danno ancora prodotto.
Tuttavia, al fine di evitare ulteriori danni alle finanze pubbliche, l'illegittimità e l'illiceità dell'attribuzione della posizione organizzativa sarà comunicata all'Inpc che opererà le dovute valutazioni sulla pensione reale dovuta alla dipendente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 07.05.2019).
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SENTENZA
3. Nel merito, la responsabilità del convenuto va affermata in relazione all’adozione, realizzata a propria firma e nella sua qualità di vertice dell’Amministrazione comunale, dei provvedimenti di sostituzione della dott.ssa Ru. con la dott.ssa Vo., di cui ai decreti n. 5 e n. 6 del 20.12.2011 (rispettivamente aventi ad oggetto “revoca dell’incarico di responsabile del servizio UMD 7 e conferimento incarico responsabile del servizio UMD 7 anno 2011” e “pesatura posizione organizzativa UMD 7”), per conferire a quest’ultima, per appena otto giorni, la posizione organizzativa comprensiva della relativa indennità pensionabile da durare per l’intero periodo di corresponsione del trattamento pensionistico.
La competenza all’adozione di questi atti, concernenti la nomina dei responsabili dei servizi e degli uffici e all’attribuzione degli incarichi dirigenziali, è chiaramente attribuita al Sindaco (art. 50, comma 10, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267-TUEL) e tale disposizione di legge risulta, peraltro, espressamente richiamata nei due decreti sindacali (numero 5 e numero 6) citati.
Né possono valere, in contrario avviso, le giustificazioni addotte in ordine ad una asserita “autorevolezza” e “solennità” della richiesta avanzata per il tramite del segretario comunale che avrebbe preceduto la decisione finale di competenza del sindaco Buschi, ovvero le analoghe giustificazioni in ordine ai successivi passaggi amministrativi conseguenti alle decisioni da costui assunte.
La questione della legittimità del conferimento avvenuto assume, dunque, un rilievo del tutto particolare rispetto alla condotta gravemente colposa del convenuto. Infatti, l’incarico originariamente conferito sarebbe scaduto naturalmente il 31.12.2011 e non vi era pertanto alcuna reale urgenza di provvedere alla sostituzione fino a tale data.
Inoltre, come sottolineato dalla Procura, nell’ipotesi dell’asserita urgenza egli ben avrebbe potuto affidare l’incarico ad interim, per i pochi giorni restanti fino al 31.12.2011, a uno degli altri soggetti che ricoprivano posizioni organizzative, senza che si addivenisse all’esborso dell’ulteriore indennità da parte del Comune di San Giustino.
Viceversa, la condotta del sindaco Bu. si è rivelata essere preordinata alla costituzione di un trattamento stipendiale più favorevole nei confronti della dott.ssa Vo., con conseguenze permanenti sul connesso trattamento pensionistico e con la realizzazione di un danno reale e concreto a carico dell’INPS, come quantificato nella parte dispositiva della presente sentenza.
4. Il periodo per il quale calcolare il danno va dall’inizio dell’anno 2013 fino a tutto il novembre 2018, per un importo pari ad € 17.728,53 (2.996,54 moltiplicato per sei anni, meno un mese), che il Collegio ritiene congruo abbattere del cinquanta per cento, considerando che l’azione del sindaco, determinante l’attuale e concreto pregiudizio danno patrimoniale ai danni dell’istituto di previdenza -tuttora protratto nel tempo- sia stata agevolata nel percorso amministrativo anche dalla mancata attivazione di altri soggetti facenti parte dell’apparato amministrativo comunale, in fase di controllo, ovvero esterni ad esso, in fase di esecuzione dei provvedimenti in questione.
In questi limiti può provvedere il Collegio, non potendo invero disporre l’estensione del contraddittorio nel presente giudizio, come richiesto dal convenuto (art. 83 CGC).
5. Con riguardo alla quantificazione del danno va altresì precisato che non può trovare accoglimento la richiesta –avanzata da parte attrice– della condanna per il danno relativo alle prestazioni economiche del trattamento pensionistico che troveranno realizzazione successiva.
Tale richiesta, riguardando la previsione di un danno futuro, esula dalla competenza di questa Sezione a conoscere della domanda relativa ad un danno concreto ed attuale. Come risulta dalla giurisprudenza contabile e come ricordato anche dalla Corte di Cassazione, questa Corte, in sede giurisdizionale, non ha la titolarità di poteri di prevenzione del danno erariale: “né d’altra parte alla Corte dei conti in sede giurisdizionale è affidato il compito di prevenire danni erariali non ancora prodotti” (Cass., Sez. Un., 22.12.2009, n. 27092).
Nel respingere tale richiesta, tuttavia questo Collegio ritiene di rimettere gli atti alla Amministrazione previdenziale interessata, che opererà le dovute valutazioni.
6. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale regionale per l’Umbria, disattesa ogni contraria istanza, eccezione e deduzione, definitivamente pronunciando,
condanna Bu.Fa. al pagamento della somma di € 8.864,76 (euro ottomilaottocentosessantaquattro,76) in favore dell’INPS, più rivalutazione monetaria con decorrenza dalle date di pagamento dei singoli ratei di pensione e, sul totale risultante, interessi dalla data di pubblicazione della sentenza.
Condanna altresì il convenuto al pagamento delle spese di giudizio, che si liquidano in € 122,33 (centoventidue/33).
Manda alla Segreteria per la trasmissione della presente sentenza alla competente sede INPS e per tutti gli ulteriori adempimenti.

PUBBLICO IMPIEGODanno erariale per dirigente e funzionario che abbelliscono il conto dei residui attivi.
Il dirigente finanziario e il funzionario contabile che hanno alterato la situazione contabile reale attraverso una sovrastima dei residui attivi mediante opportune «correzioni», per quanto spinti dall'organo di indirizzo politico, contribuiscono al danno erariale procurato all'ente pubblico. L'alterazione delle poste di bilancio «corrette» avendo lo scopo di dissimulare il disavanzo, oltre a indurre in errore l'organo di indirizzo politico che approva il bilancio, incide sulle scelte gestionali e impedisce l'adozione di misure di risanamento, ingannando allo stesso tempo i terzi, creditori, dipendenti, organi di controllo sulla reale situazione finanziaria dell'ente.

Sono le indicazioni contenute nella sentenza 02.04.2019 n. 140 della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale Toscana.
La vicenda
A seguito dell'indagine penale che ha condotto il dirigente dell'area contabile e il funzionario responsabile dell'ufficio del bilancio al patteggiamento della pena per falso ideologico, la Procura contabile ha convenuto in giudizio entrambi per dichiarare il danno erariale prodotto alle casse comunali avendo dissimulato la reale situazione finanziaria dell'ente. Il Pm contabile ha, infatti, contestato ai convenuti di aver dolosamente coperto lo stato di deficit finanziario dell'ente attraverso la correzione contabile dei residui attivi, rispetto alla loro reale consistenza.
Questo ha permesso di creare un consistente deficit finanziario mediante l'omesso versamento di contributi previdenziali Inpdap, irregolari stabilizzazioni di personale a tempo determinato, indebita corresponsione di somme integrative. Entrambi i convenuti si sono difesi in via principale denunciando la prescrizione del danno erariale, essendo trascorsi i cinque anni previsti dalla normativa rispetto all'invito a dedurre.
Si sono ritenuti, inoltre, estranei al danno erariale, in quanto l'alterazione dei dati contabili era avvenuta a causa delle pressioni esercitate dall'organo di indirizzo politico nonché del direttore amministrativo, cui avrebbero dovuto essere addebitate in via esclusiva le responsabilità contabili, per aver omesso di attivare procedure idonee per risanare i conti pur conoscendo l'entità del disavanzo finanziario dissimulato.
Il funzionario, in via subordinata ha chiesto che fosse considerata una diversa ripartizione del danno erariale, in funzione del diverso ruolo decisionale.
La conferma del danno erariale
In merito alla prescrizione, il Collegio contabile ha disatteso l'eccezione in quanto, per giurisprudenza consolidata, in presenza di dolo accertato in sede penale, la prescrizione decorre solo a partire dalla data di richiesta di rinvio a giudizio in sede penale e , a quella data, la prescrizione non era maturata.
La condanna dei convenuti al danno erariale deve essere confermata in quanto esecutori materiali di un piano ideato e promosso dal rettore e dal direttore amministrativo, per presentare, a fronte del grave disavanzo, un bilancio che risultasse in pareggio o in attivo. Le falsificazioni commesse dai convenuti consistevano nel "correggere" le poste di bilancio, proprio allo scopo di occultare il grave disavanzo e indurre in errore il consiglio di amministrazione dell'Università che approvava i bilanci, confidando nell'esattezza dei dati.
Il collegio contabile ha ricordato che il bilancio è lo strumento per determinare il reddito dell'esercizio e la situazione patrimoniale e finanziaria dell'ente, con la conseguenza che la sua non veridicità, oltre a ingannare i terzi, creditori, dipendenti, organi di controllo eccetera, incide sulle scelte gestionali e impedisce l'adozione di misure di risanamento.
Il danno, calcolato in via equitativa, deve tuttavia essere posto in misura prevalente a carico del dirigente e in minore misura a carico del funzionario in considerazione del diverso ruolo rivestito nell'amministrazione e alla posizione di inferiorità gerarchica (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.05.2019).
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SENTENZA
1. In via preliminare deve essere esaminata l’eccezione di prescrizione sollevata dai convenuti.
L’art. 1, comma 2, L. 20/1994 prevede che la prescrizione decorre dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso “ovvero in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta”. Secondo la giurisprudenza l’attività intenzionale di occultamento è rinvenibile laddove il responsabile si sia adoperato per impedire la conoscibilità del fatto dannoso (sez. II app., 11.10.2018 n. 588; sez. II app., 03.10.2017 n. 655).
Quanto alla nozione di “scoperta”, si è affermato che “non è sufficiente la conoscenza o conoscibilità ipotetica di un illecito, ma occorre la conclusione del processo di valutazione istruttoria degli elementi fattuali, con la qualificazione giuridica degli stessi e l’individuazione dei soggetti cui le medesime condotte sono causalmente riconducibili” (sez. II app., 19.10.2018 n. 5979).
La conoscenza del fatto, quindi, si identifica con la conoscibilità giuridica, non con la mera conoscenza, da parte del soggetto danneggiato, dell’illecito (sez. I app., 14.04.2016 n. 149).
In conseguenza di tale principio, secondo la giurisprudenza prevalente, i fatti dannosi aventi rilevanza penale assumono una concreta qualificazione giuridica, tale da potersi dire “scoperti”, solo al momento della richiesta di rinvio a giudizio in sede penale (da ultimo: sez. II app., 04.09.2018 n. 523; sez. III app., 06.10.2016 n. 514; sez. III app., 13.06.2016 n. 228; sez. app. Sicilia, 01.07.2016 n. 85; sez. app. Sicilia, 04.07.2016 n. 94), in quanto “solo dal momento del rinvio a giudizio è maturata l’esatta conoscenza della condotta illecita in tutta la sua gravità e articolazione” (sez. III app., 30.12.2016 n. 1462).
Nella fattispecie, i convenuti sono stati condannati per reati di falso per avere falsamente attestato delle poste contabili al fine di far apparire in pareggio o in attivo il bilancio dell’Ateneo. Tale condotta integra senza ombra di dubbio un occultamento doloso del danno. La data della scoperta dei fatti, nella loro completezza e nell’accezione fatta propria dalla giurisprudenza succitata, deve collocarsi nella data della richiesta di rinvio a giudizio del 29.06.2012.
A questo proposito deve aversi riguardo al fatto che dalle indagini penali è scaturito un processo, per i reati commessi nell’ambito della gestione amministrativa dell’Università nel periodo 2003-2008, con 19 capi di imputazione, nell’ambito del quale sono stati rinviati a giudizio i vertici amministrativi dell’ente in quel periodo e, in particolare i Rettori, i Direttori amministrativi, i componenti del Collegio dei Revisori dei conti, il responsabile dell’Ufficio Economato, oltre ad alcuni soggetti privati, per un totale di 16 imputati, tra i quali gli odierni convenuti.
La condotta di In. e Sa. si inquadra, così, in un più ampio fenomeno di mala gestio, con la conseguenza che solo dal momento del rinvio a giudizio, al termine di complesse indagini penali, si è raggiunto il corretto inquadramento della fattispecie dannosa e la quantificazione del danno.
Come si legge nella sentenza del Tribunale di Siena n. 746/2016 che ha definito in primo grado il processo penale: “Le indagini (prima) ed il processo (poi) sono stati caratterizzati da una forte eterogeneità del loro oggetto, potendosi individuare tre diversi “filoni”, assolutamente distinti tra loro: si tratta sostanzialmente di tre processi autonomi, celebrati in un simultaneus processus, aspetto questo che, se da un lato ha consentito al Tribunale di avere un quadro completo della opaca e dissennata gestione amministrativa di UNISI, dall’altro ha comportato la celebrazione di un complesso ed articolato dibattimento e di una istruttoria caratterizzata da una inevitabile frammentarietà e disomogeneità”.
Il completo disvelamento dei fatti, quindi, non può farsi risalire né al 26.09.2008, data di presentazione alla Procura della Repubblica dell’esposto del Rettore e del Direttore Amministrativo dell’Università in cui si denunciavano, come si legge nella sentenza penale, i problemi finanziari dell’Università e falsità di alcune soltanto delle voci di bilancio, né al 07.04.2009, data in cui l’Ateneo ha inviato alla Procura della Repubblica e alla Procura Regionale della Corte dei conti la relazione finale della Commissione Ma. “sulla indagine amministrativo-disciplinare circa l’accertamento della crisi finanziaria dell’Università degli studi di Siena”.
E’ vero, infatti, che tale relazione contiene la confessione dei convenuti, come rilevato dalle difese, ma è vero anche che il giudice penale ha ritenuto non attendibili le dichiarazioni di In. e Sa. per una serie di ragioni tra le quali il fatto che: “i dichiaranti non hanno riferito con immediatezza tutti i fatti e le circostanze di cui erano a conoscenza (tacendo quelli più importanti)”.
Solo al termine di “lunghe e complesse indagini da parte della Procura della Repubblica”, sono stati accertati il reale passivo dell’Università, le cause del dissesto finanziario, la falsità dei bilanci, il ruolo assunto dai diversi imputati, la qualificazione giuridica dei fatti e le corresponsabilità.
L’eccezione di prescrizione è, quindi, infondata in quanto l’invito a dedurre è stato notificato nell’agosto del 2017, entro la data di scadenza del termine quinquennale di prescrizione a decorrere dalla data della richiesta di rinvio a giudizio.
2. Venendo al merito del giudizio, pacifico il rapporto di servizio in quanto i convenuti, all’epoca dei fatti, erano, dipendenti in qualità, rispettivamente, di direttore dell’area contabile e di responsabile dell’ufficio contabile dell’Amministrazione danneggiata, ritiene il Collegio che sussista piena prova della condotta illecita di In. e Sa..
Il Tribunale di Siena, Ufficio del G.I.P., con sentenza del n. 103 del 17.05.2013, ha applicato, ai sensi dell’art. 444 e ss. c.p.p., a Interi Salvatore la pena di diciotto mesi e a Sa.Mo. la pena di quattordici mesi di reclusione per reati di falso ideologico in atto pubblico commessi in concorso con il Rettore e il Direttore Amministrativo dell’Università di Siena.
Più in particolare, i convenuti, quali esecutori materiali di un piano ideato e promosso dal Rettore e dal Direttore Amministrativo, per presentare, a fronte del grave disavanzo, un bilancio che risultasse in pareggio o in attivo, o in leggero disavanzo, attestavano falsamente nei bilanci consuntivi 2003, 2004, 2005, 2006, 2007 dati contabili non corrispondenti al vero, facendo risultare residui attivi in parte inesistenti, attraverso la correzione di poste in bilancio, inducendo così in errore il Consiglio di Amministrazione che, sul presupposto dell’esattezza dei dati, approvava il bilancio.
La giurisprudenza ritiene che, ferma restando la potestà del giudice di procedere all’accertamento dei fatti in modo difforme da quello contenuto nella pronuncia ex art. 444 c.p.p., la sentenza di patteggiamento assuma un valore probatorio qualificato, superabile solo attraverso specifiche prove contrarie (sez. II app., 30.07.2018 n. 471; sez. I app., 05.02.2018 n. 35; sez. II app. 26.05.2016 n. 574; sez. Veneto, 11.09.2018 n. 140; sez. Toscana, 25.06.2018 n. 167) che, nella specie, non sono state offerte. In sede penale, peraltro, i convenuti hanno confessato di avere posto in essere la condotta illecita e, in questa sede, non hanno mosso contestazioni in merito.
3. Sussiste anche il nesso causale tra la condotta illecita e il danno. Secondo i convenuti il danno sarebbe stato causato unicamente dalle scelte dei vertici dell’Università, che avrebbero omesso di assumere iniziative per ridurre l’indebitamento e adottato politiche di sperpero delle risorse pubbliche, e non da In. e Sa. i quali lo avrebbero soltanto parzialmente coperto. L’eccezione è destituita di fondamento.
Le falsificazioni commesse dai convenuti consistevano nel “correggere” le poste di bilancio, proprio allo scopo di occultare il grave disavanzo e ad indurre in errore il Consiglio di Amministrazione dell’Università che approvava i bilanci, confidando nell’esattezza dei dati. Poiché il bilancio è lo strumento per determinare il reddito dell’esercizio e la situazione patrimoniale e finanziaria dell’ente, è evidente che la sua non veridicità, oltre ad ingannare i terzi, creditori, dipendenti, organi di controllo ecc., incide sulle scelte gestionali e impedisce l’adozione di misure di risanamento. I convenuti, quindi, con la loro condotta hanno contribuito in maniera diretta a causare l’ingente danno subito dall’Università.
4. La Procura ha chiesto la condanna dei convenuti a risarcire il danno patrimoniale e il danno di immagine causato all’Università.
La domanda di condanna al risarcimento del danno di immagine è inammissibile.
L’art. 17, comma 30-ter, d.l. 78/2009, conv. in l. 102/2009 stabilisce che l’azione per il risarcimento del danno di immagine può essere esercitata solo nei casi e nei modi previsti dall’art. 7 l. 97/2001, ossia per i delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione previsti dal Capo I del Titolo II del Libro secondo del codice penale, accertati con sentenza penale irrevocabile di condanna.
Le Sezioni Riunite hanno risolto i contrasti interpretativi sorti nell’ambito della giurisprudenza contabile affermando che l’art. 17, comma 30-ter, va inteso nel senso che le Procure della Corte dei conti possono esercitare l’azione per il risarcimento del danno all’immagine solo per i delitti di cui al Capo I del Titolo II del Libro secondo del codice penale (SS.RR., 19.03.2015 n. 8/QM). L’art. 1, comma 1-sexies, l. 20/1994, inserito dall’art. 1, comma 62, l. 190/2012, in tema di quantificazione del danno all’immagine della Pubblica Amministrazione, fa anch’esso riferimento al danno derivante dalla commissione di un reato contro la stessa Pubblica Amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato.
In questo quadro normativo è sopraggiunto il D.Lgs. 26.08.2016 n. 174 il quale all’art. 4, comma 1, lett. g) dell’Allegato 3 al Codice di Giustizia Contabile ha abrogato l’art. 7 l. 97/2001 e all’art. 4, comma 1, lett. h), il primo periodo dell’art. 17, comma 30-ter, d.l. 78/2009. All’art. 51, comma 7, infine, il Codice di Giustizia Contabile stabilisce che la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni per i delitti commessi ai danni delle stesse, è comunicata al Procuratore Regionale della Corte dei conti affinché promuova l’eventuale azione di responsabilità.
Parte della giurisprudenza contabile ha affermato che, a seguito delle predette abrogazioni e dell’introduzione dell’art. 51, comma 7, C.G.C. i presupposti dell’azione per danno all’immagine sarebbero stati ridefiniti con la conseguenza che le condizioni per promuovere l’azione sarebbero che si tratti di un reato contro la Pubblica Amministrazione, e non più soltanto dei delitti di cui al Capo I del Titolo II del Libro secondo del codice penale, oltre che tale reato sia stato accertato con sentenza passata in giudicato (sez. app. Sicilia, 28.11.2016 n. 183; sez. Emilia Romagna, 05.01.2018 n. 7; sez. Veneto, 12.9.2017 n. 101).
Questa sezione ha ritenuto, invece, con orientamento dal quale non vi è motivo di discostarsi che, pur a seguito dell’ingresso in vigore del D.Lgs. 174/2016, siano tuttora vigenti le limitazioni al perseguimento del risarcimento del danno di immagine già previste dall’art. 17, comma 30-ter, d.l. 78/2009 e art. 7 l. 97/2001 (sez. Toscana, 10.07.2018 n. 174, con ampia motivazione cui si rinvia). Nella specie sono assenti entrambe le condizioni di proponibilità della domanda di risarcimento del danno di immagine. I convenuti, infatti, sono stati condannati con sentenza del Tribunale di Siena-ufficio del G.I.P., n. 103 del 17.05.2013 per i delitti di cui all’art. 479 in relazione all’art. 476 comma 2, c.p. i quali non sono ricompresi nel Capo I del Titolo II del Libro secondo del codice penale. La sentenza prodotta, inoltre, è priva del timbro di irrevocabilità, cosicché non vi è nemmeno la prova che la stessa sia irrevocabile.
5. Il danno patrimoniale complessivo subito dall’Università di Siena è stato quantificato dalla Guardia di Finanza in € 63.857.125,41 (per debiti fiscali e previdenziali e relativi interessi e sanzioni, irregolari stabilizzazioni di personale a tempo determinato, indebita corresponsione di somme integrative ai Collaboratori ed Esperti Linguistici).
La condotta illecita dei convenuti, come sopra esposto, ha contribuito a causare tale danno e, visto il ruolo della condotta dei convenuti nel programma delittuoso, il Collegio reputa equo, ex art. 1226 c.c., quantificare il danno loro addebitabile in complessivi € 400.000,00, in solido, con ripartizione interna di € 300.000,00 a carico di In.Sa. e di € 100.000,00 a carico di Sa.Mo. in considerazione del diverso ruolo rivestito nell’Amministrazione e alla posizione di inferiorità gerarchica di Sa..
Sull’importo per cui è condanna, già comprensivo di rivalutazione, dovranno essere corrisposti gli interessi legali dal deposito della sentenza al soddisfo.
6.Le spese di giudizio, da suddividersi in quote uguali tra i convenuti, seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
la Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Toscana, in composizione collegiale, definitivamente pronunciando:
RESPINGE l’eccezione di prescrizione sollevata da entrambi i convenuti;
DICHIARA inammissibile la domanda di condanna al risarcimento del danno all’ immagine dell’Università;
CONDANNA In.Sa. e Sa.Mo. al risarcimento del danno patrimoniale in favore dell’Università degli studi di Siena della somma di € 400.000,00 in solido, con ripartizione interna di € 300.00,00 a In.Sa. e di € 100.000,00 a Sa.Mo., inclusa rivalutazione monetaria, oltre interessi legali dal deposito della sentenza al soddisfo;
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano in € 324,66 (Euro trecentoventiquattro/66).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: PERSONALE/ Programmazione, conta la spesa. La dotazione organica coincide con il budget massimo. Le recenti delibere della Corte conti riconoscono più flessibilità agli enti.
Programmazione del personale in base alla spesa.
Sono sempre più numerose le deliberazioni della Corte dei conti che ribadiscono il venire meno del tradizionale concetto di dotazione organica a seguito dell'emanazione del dlgs n. 75/2017 e delle relative Linee di indirizzo ministeriali.
Tale evoluzione apre scenari interessanti rispetto alla programmazione del personale, che gli enti possono già sfruttare in sede di revisione del piano triennale 2019-2021, oltre che a maggior ragione in sede di definizione del piano triennale 2020-2022, da inserire nel prossimo Dup.

La prima pronuncia che merita di essere richiamata è il parere 20.12.2018 n. 548 della Sezione regionale di controllo per il Veneto.
Essa evidenzia che nella nuova impostazione la dotazione organica si traduce di fatto nella definizione di una «dotazione di spesa potenziale massima» per l'attuazione del piano triennale dei fabbisogni di personale.
Secondo il collegio, l'obiettivo è quello di rendere più duttile l'azione della pubblica amministrazione e di superare l'automatismo nel mantenimento dei posti in organico nella struttura dell'ente anche nel momento della cessazione dei dipendenti che veniva a prodursi nelle circostanze, in verità molto diffuse, nelle quali le amministrazioni non adeguavano la dotazione organica alle mutate esigenze emergenti dalla programmazione.
A trarre le conseguenze operative di questa impostazione è, innanzitutto, la deliberazione 01.04.2019 n. 4 della sezione autonomie. Essa afferma che le amministrazioni, all'interno del limite finanziario massimo (spesa potenziale massima), «ottimizzando l'impiego delle risorse pubbliche, perseguendo obiettivi di performance organizzativa, efficienza, economicità e qualità dei servizi ai cittadini mediante l'adozione del piano triennale dei fabbisogni di personale (in coerenza con la pianificazione pluriennale delle attività e della performance, nonché con le apposite linee di indirizzo) possono procedere all'eventuale rimodulazione della dotazione organica in base ai fabbisogni programmati «garantendo la neutralità finanziaria della rimodulazione».
La pronuncia ha quindi ritenuto che gli enti fino a 1.000 abitanti possano utilizzare la propria capacità assunzionale senza essere strettamente vincolati al rispetto della regola «per teste», che consentirebbe solo una assunzione per ogni cessazione indipendentemente da ogni considerazione sulla spesa.
Secondo la Sezione, invece, si può prescindere dalla corrispondenza numerica tra personale cessato e quello assumibile, a condizione che permanga l'invarianza della spesa e, quindi, venga rispettato il tetto di spesa. Conseguentemente, purché si verifichino dette condizioni, il limite assunzionale può ritenersi rispettato anche quando, a fronte di un'unica cessazione a tempo indeterminato e pieno, l'ente, nell'esercizio della propria capacità assunzionale, proceda a più assunzioni a tempo parziale che ne assorbano completamente il monte ore.
Tale autorevole conclusione si presta a essere applicata ad altre fattispecie attinenti non solo agli enti di minori dimensioni.
Ad esempio, gli enti che non avevano posti dirigenziali nella ex dotazione organica ma solo plurime posizioni organizzative, potrebbero procedere alla soppressione di alcune di queste e dalla loro sostituzione, in termini di correlativa spesa di personale, con una posizione dirigenziale di nuova istituzione.
Oppure, caso inverso, enti che sopprimono una posizione dirigenziale paiono legittimati ad utilizzare le relative economie per finanziare l'istituzione di nuove p.o. e finanche a rimodulare il fondo per il pagamento del salario accessorio del personale non dirigente, sempre nel rispetto della spesa potenziale massima
(articolo ItaliaOggi del 17.05.2019).

marzo 2019

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOComma 557 e limiti lavoro flessibile.
Domanda
Il cosiddetto “scavalco di eccedenza” di cui all’art. 1, comma 557, della legge 311/2004 è da ricomprendere tra le limitazioni sul lavoro flessibile?
Risposta
Occorre evidenziare che già la Sezione delle Autonomie con la citata deliberazione n. 23/2016/QMIG ha chiarito che «se l’Ente decide di utilizzare autonomamente la prestazione di un dipendente a tempo pieno presso altro ente locale al di fuori del suo ordinario orario di lavoro, la prestazione aggiuntiva andrà ad inquadrarsi all’interno di un nuovo rapporto di lavoro autonomo o subordinato a tempo parziale, i cui oneri dovranno essere computati ai fini del rispetto dei limiti di spesa imposti dall’art. 9, comma 28, per la quota di costo aggiuntivo».
Quindi l’assunzione de qua, al di fuori dell’ordinario orario di lavoro del dipendente utilizzato, soggiace al limite di spesa del lavoro flessibile che ha dei parametri temporali di riferimento ben definiti. Il riferimento è la spesa sostenuta per le medesime finalità nell’anno 2009 o, per le amministrazioni che nel 2009 non abbiano sostenuto spese per lavoro flessibile, il limite è computato con riferimento alla media sostenuta per la stessa finalità nel triennio 2007–2009.
Il limite di cui al predetto comma 28, dell’art. 9, D.L. n. 78/2010, conv. Legge n. 122/2010, è stato più volte confermato dal legislatore (vedasi ad esempio modifiche art. 11, comma 4-bis, D.L. n. 90/2014) con il precipuo fine di ridurre il fenomeno del precariato.
Occorre dunque distinguere tale limite, riferito all’utilizzo di forme di lavoro flessibile con l’imputazione al fondo delle risorse decentrate del salario accessorio in godimento al soggetto utilizzato parzialmente.
L’Aran, in un parere piuttosto risalente, n. 104-33C1, in risposta alla domanda rivolta da un ente per sapere se anche la quota dell’indennità di comparto del personale a tempo determinato debba essere a carico delle risorse decentrate stabili, o se potesse essere posta a carico del bilancio, ha chiarito che il personale a tempo determinato è destinatario delle stesse regole del CCNL previste per il personale a tempo indeterminato. Pertanto anche in caso di personale utilizzato ai sensi della Legge n. 311/2004 vale il criterio dell’imputazione del salario accessorio al fondo delle risorse decentrate (28.03.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMobilità per interscambio.
Domanda
Come funzione la mobilità per interscambio o compensazione?
Risposta
Il Dipartimento della Funzione Pubblica, con la nota prot. n. 20506 del 27.03.2015, al fine di chiarire alcuni dubbi interpretativi in tema di ricollocazione del personale degli enti di area vasta, ha inserito, tra gli altri argomenti, anche un paragrafo dedicato alla mobilità per interscambio (o per compensazione).
Il Dipartimento prevede che la stessa possa essere mutuata dal d.p.c.m. 325/1988 che, all’articolo 7, dispone che è consentita in ogni momento, nell’ambito delle dotazioni organiche, la mobilità dei singoli dipendenti presso la stessa o altre pubbliche amministrazioni, anche di diverso comparto, nei casi di domanda congiunta di compensazione con altri dipendenti.
Si deve, in ogni caso, trattare di corrispondente categoria e profilo professionale e l’operazione può concludersi previo nulla osta dell’amministrazione di provenienza e di quella di destinazione. Ciò che si realizza è solamente una reciproca sostituzione di dipendenti che ricoprono un determinato ruolo, sostanzialmente neutra, in quanto non copre fabbisogni evidenziati nel piano occupazionale, né genera nuovi fabbisogni.
Il contesto normativo che riguarda tale istituto è sicuramente quello della mobilità volontaria disciplinato dall’art. 30 del TUPI, con la sola eccezione, puntualizzata anche dal Dipartimento citato, che si possa prescindere dall’adozione di veri e propri avvisi pubblici di mobilità.
È però indispensabile che le amministrazioni coinvolte accertino che non vi siano controinteressati al passaggio, nel rispetto dei principi di imparzialità e trasparenza, eventualmente ricorrendo, a seconda della dimensione organizzativa e del numero di dipendenti, ad un interpello interno finalizzato a verificare l’eventuale contestuale interesse alla mobilità di altri dipendenti da sottoporre a valutazione (può essere semplicemente un’e-mail destinata ai lavoratori appartenenti alla medesima categoria e profilo professionale oggetto della mobilità in parola).
Non è necessario che l’ente si doti di apposita regolamentazione in materia, potendo far riferimento ai comportamenti e/o regole già in uso per la mobilità, dato che l’esigenza rimane quella di individuare, nell’ambito del personale delle pubbliche amministrazioni, il soggetto più idoneo per titoli e competenze possedute (non è mai una graduatoria), alla copertura della posizione di lavoro interessata, in risposta comunque al criterio di buon andamento dell’azione amministrativa (05.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Danno all'immagine della PA, la sanzione al dipendente assenteista dev'essere proporzionata.
Per contrastare i furbetti del cartellino, la specifica (e rilevante) normativa sanzionatoria prevede la quantificazione del danno all'immagine accanto agli aspetti disciplinari della procedura che accelera il licenziamento. La mancanza di proporzionalità del danno all'immagine è questione sulla quale la magistratura contabile ha sollevato la questione di legittimità costituzionale (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 17.10.2018).

La Corte dei conti siciliana, invece, nella sentenza 27.03.2019 n. 213 ha preferito azzerare il danno all'immagine di un dipendente per le poche ore di violazione della propria presenza in ufficio, non essendo stata fornita puntuale dimostrazione del clamore mediatico necessario per la quantificazione equitativa del danno subito dall'ente.
La vicenda
Essendo stata accertata l'assenza ingiustificata, perché non autorizzata, di un dipendente comunale, il dirigente avviava la procedura del licenziamento senza preavviso con invio della documentazione alla competente procura della Corte dei conti. Il Pm contabile quantificava in 81,54 euro il danno erariale, corrispondente alle ore indebitamente fruite dal dipendente, e in circa 10mila euro il danno all'immagine, pari a sei mensilità dello stipendio del dipendente.
Nelle proprie memorie difensive, non accolte dal Pm, il dipendente ha evidenziato la sproporzione tra il danno delle ore addebitate e la quantificazione automatica del danno all'immagine, confutando la mancata dimostrazione del pregiudizio subito dall'ente, anche in termini di notizie mediatiche del tutto assenti nel caso di specie.
La posizione del Corte
La contestazione riguarda la nuova disposizione dell'articolo 55-quater del Dllgs n. 165/2001 che ha previsto, nei casi di assenteismo fraudolento «la denuncia al pubblico ministero e la segnalazione alla competente procura regionale della Corte dei conti entro 15 giorni dall'avvio del procedimento disciplinare», precisando, inoltre, che «la procura della Corte dei conti, quando ne ricorrono i presupposti, emette invito a dedurre per danno d'immagine entro tre mesi dalla conclusione della procedura di licenziamento».
La nuova norma ha anche stabilito che «l'ammontare del danno risarcibile è rimesso alla valutazione equitativa del giudice anche in relazione alla rilevanza del fatto per i mezzi di informazione e comunque l'eventuale condanna non può essere inferiore a sei mensilità dell'ultimo stipendio in godimento, oltre interessi e spese di giustizia».
Il collegio contabile siciliano, tuttavia, contesta la legittimità della quantificazione automatica elaborata dalla procura, in quanto a fronte di 81,54 euro di danno erariale, corrispondenti alla falsa attestazione della propria presenza in servizio, il Pm non ha dimostrato il pregiudizio subito dall'ente, anzi, risulta che la vicenda non ha avuto alcuna diffusione mediatica.
Per il Collegio contabile, infatti, va accolta un'interpretazione che ammette una nozione unitaria del danno all'immagine come davvero compromettente la reputazione dell'ente danneggiato, ipotizzabile solo in presenza di una propagazione di notizie da cui sia potuto derivare uno scadimento dell'opinione pubblica sulla correttezza dell'operato delle amministrazioni, escludendo la presunzione di dannosità intrinseca o in re ipsa.
Ora, se tale non fosse la lettura, la medesima sarebbe censurabile sotto il profilo dell'esorbitanza dalla delega, dato che la legge 04.03.2009 n. 15 non contiene alcun principio che possa giustificare un simile intervento da parte del legislatore delegato.
Conclusioni
In conclusione, l'inserimento della quantificazione del danno in sei mensilità previsto dal legislatore, in conclusione, può solo considerarsi quale parametro utile alla quantificazione del danno che il legislatore ha inteso fornire, stante la natura estremamente astratta e intangibile del bene leso, per assicurare proporzionalità, certezza e omogeneità delle decisioni.
Il dipendente, pertanto, deve essere condannato per il solo danno erariale pari alle ore indebitamente percepite, senza addebito per danno all'immagine non essendo stato provato dalla procura (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.04.2019).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALILa presenza del RPCT nel Nucleo di valutazione.
Domanda
Siamo un comune con meno di 15.000 abitanti e dobbiamo rinnovare la composizione del Nucleo di Valutazione, attraverso una modifica al Regolamento di Organizzazione degli Uffici e Servizi.
A un corso ci è stato detto che sarebbe bene non prevedere la presenza Segretario comunale, che è anche RPCT, in tale organismo. Sapete dirci qualcosa a riguardo?
Risposta
Con le modifiche apportate alla legge Severino (legge 06.11.2012, n. 190), dall’art. 41, comma 1, lettera h), del d.lgs. 25.05.2016, n. 97, sono state meglio precisate le funzioni e i compiti dell’Organismo di Valutazione (OIV) o altra struttura analoga presente negli enti locali (il Nucleo di valutazione), nell’ambito del più vasto quadro di interventi di prevenzione della corruzione.
Con le nuove disposizioni compete all’OIV o NdV:
   • validare la relazione sulle performance (art. 10, d.lgs. 150/2009), dove sono riportati i risultati raggiunti rispetto a quelli programmati e alle risorse, anche per gli obiettivi sulla prevenzione della corruzione e trasparenza;
   • verificare la coerenza tra gli obiettivi di trasparenza e quelli indicati nel Piano della performance;
   • attestare l’assolvimento, da parte degli enti, degli obblighi di trasparenza (griglie annuali);
   • verificare che i PTPCT siano coerenti con gli obiettivi di programmazione strategico-gestionale;
   • esaminare la Relazione annuale del RPCT, recante i risultati dell’attività svolta in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza. Per tale verifica l’OIV può chiedere al RPCT informazioni e documenti aggiuntivi;
   • l’ANAC, nell’ambito della propria attività di vigilanza può coinvolgere l’OIV, per acquisire ulteriori informazioni sulla trasparenza.
Come si può notare, sono molte le occasioni, durante l’anno, in cui il Nucleo di valutazione, deve valutare gli atti e i documenti prodotti dal Responsabile della Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPCT), tenendo conto che, negli enti locali, di norma, il ruolo di RPCT coincide con quello di segretario comunale
[1].
Proprio per evitare possibili situazioni di conflitto d’interesse è certamente buona cosa evitare, quanto più possibile, che il segretario comunale, se è anche RPCT, faccia parte del Nucleo di Valutazione.
Tale precauzione è stata, da ultimo, ribadita dall’ANAC nell’Aggiornamento 2018, del Piano Nazionale Anticorruzione, approvato con delibera n. 1074 del 21.11.2018 (in vigore dal 05.01.2019).
Nella Parte IV della citata delibera, rubricata “Semplificazioni per i piccoli comuni”, Paragrafo 4 – Le nuove proposte di semplificazione
[2], viene ribadito il principio che l’ANAC “ritiene non compatibile prevedere nella composizione del Nucleo di Valutazione, la figura del RPCT, in quanto verrebbe meno l’indefettibile separazione di ruoli in ambito di prevenzione del rischio corruzione che la norma riconosce a soggetti distinti ed autonomi, ognuno con responsabilità e funzioni diverse Il Responsabile si troverebbe nella veste di controllore e controllato, in quanto, in qualità di componente del Nucleo di valutazione è tenuto ad attestare l’assolvimento degli obblighi di pubblicazione, mentre in qualità di Responsabile anche per la trasparenza è tenuto a svolgere stabilmente un’attività di controllo proprio sull’adempimento dei suddetti obblighi da parte dell’amministrazione.”
Nello stesso documento l’ANAC, introduce una sorta di deroga per i piccoli comuni (quelli sotto 5.000 abitanti), prevedendo testualmente: “Tenuto conto delle difficoltà applicative che i piccoli comuni, in particolare, possono incontrare nel tenere distinte le funzioni di RPCT e di componente del nucleo di valutazione, l’Autorità auspica, comunque, che anche i piccoli comuni, laddove possibile, trovino soluzioni compatibili con l’esigenza di mantenere separati i due ruoli. Laddove non sia possibile mantenere distinti i due ruoli, circostanza da evidenziare con apposita motivazione, il ricorso all’astensione è possibile solo laddove il Nucleo di valutazione abbia carattere collegiale e il RPCT non ricopra il ruolo di Presidente”.
Premesso quanto sopra e rispondendo allo specifico quesito, alla luce delle normative sopra meglio richiamate e degli orientamenti dell’Autorità Anticorruzione, si consiglia di non prevedere la figura del segretario comunale all’interno del Nucleo di valutazione, considerando valida e logica, tale indicazione, anche nei piccoli comuni con popolazione sotto i 5.000 abitanti.
---------------
[1] Articolo 1, comma 7, legge 190/2012, come modificato dall’art. 41, comma 1, lett. f), d.lgs. 97/2016.
[2] Pagina 154
(26.03.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa rotazione straordinaria, tra obbligo normativo e scelta di opportunità.
Domanda
Un dipendente del Comune, responsabile di procedimento nel Settore appalti e gare, è stato iscritto nel registro delle notizie di reato nell’ambito di un procedimento penale per corruzione in atti di gara.
Pur non essendo ancora intervenuto il rinvio a giudizio, è obbligatorio per l’ Amministrazione rimuovere il dipendente dall’incarico svolto, o resta una scelta di mera opportunità?
Risposta
Il 07.02.2019 è stata pubblicata sul sito dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, per la fase di consultazione e ricezione di osservazioni, la “bozza di delibera in materia di applicazione della misura della rotazione straordinaria di cui all’art. 16, comma 1, lettera l-quater, del d.lgs. n. 165 del 2001”. Le disposizioni ivi contenute, ancorché non ancora efficaci, offrono interessanti spunti per rispondere al quesito, il cui tema giuridico sotteso, oltre ad essere disciplinato dal Testo unico per il pubblico impiego, trova oggi ampia trattazione –come chiaramente descritto da ANAC– all’interno del Piano Nazionale Anticorruzione 2013 e dei successivi aggiornamenti 2016, 2017 e 2018.
Ai sensi del predetto articolo, i dirigenti di uffici dirigenziali generali, comunque denominati, “provvedono al monitoraggio delle attività nell’ambito delle quali è più elevato il rischio corruzione svolte nell’ufficio a cui sono preposti, disponendo, con provvedimento motivato, la rotazione del personale nei casi di avvio di procedimenti penali o disciplinari per condotte di natura corruttiva.”
E’ previsto, pertanto, l’obbligo per l’amministrazione di assegnare il personale sospettato di “condotte di natura corruttiva” che abbiano o meno rilevanza penale, ad altro servizio. Nella logica del sistema anticorruzione della legge Severino (legge 06.11.2012, n. 190), si tratta di una misura di natura non sanzionatoria dal carattere cautelare e preventivo, finalizzata a garantire che, negli ambiti dove si sono verificati i fatti oggetto del procedimento penale o disciplinare, siano attivate idonee misure di prevenzione del rischio corruttivo, al fine di tutelare l’immagine di imparzialità dell’amministrazione.
La rotazione straordinaria della fase di avvio del procedimento penale, è da tenere ben distinta dall’istituto del “trasferimento ad altro ufficio” di cui all’art. 3, comma 1 della legge 27.03.2001, n. 97 recante “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni”; la disposizione prevede, infatti, che quando nei confronti di un dipendente “è disposto il giudizio per alcuni dei delitti previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter e 320 del codice penale e dall’articolo 3 della legge 09.12.1941, n. 1383, l’amministrazione di appartenenza lo trasferisce ad un ufficio diverso da quello in cui prestava servizio al momento del fatto, con attribuzione di funzioni corrispondenti, per inquadramento, mansioni e prospettive di carriera, a quelle svolte in precedenza”.
Pertanto, in caso di formale rinvio a giudizio i dipendenti accusati di una serie specifica di reati, devono essere trasferiti ad ufficio diverso da quelli in cui prestavano servizio.
A livello normativo emergono, quindi, due sostanziali differenza tra i suddetti istituti:
   1. la “rotazione straordinaria” è strumento utilizzabile in prima battuta già al momento della conoscenza dell’iscrizione nel registro degli indagati, di cui all’art. 335 c.p.p., mentre il “trasferimento a seguito di rinvio a giudizio” segue, per l’appunto, il formale atto del giudice per le indagini preliminari;
   2. nel caso del “trasferimento a seguito di rinvio a giudizio”, diversamente da quanto accade per la “rotazione straordinaria” –dove vi è un generico rinvio a “condotte di tipo corruttivo”– il legislatore individua, quale presupposto per l’applicazione della misura, specifiche fattispecie di reato, sebbene in numero ridotto rispetto all’intera gamma di reati previsti dal Titolo II Capo I del Libro secondo del Codice Penale.
A ciò aggiungasi, tuttavia, in relazione all’ambito oggettivo di applicazione della “rotazione straordinaria”, che ANAC nel documento in consultazione –rivedendo una posizione precedentemente assunta (PNA 2016 e Aggiornamento 2018 al PNA)– ha stabilito che “l’elencazione dei reati (delitti rilevanti previsti dagli articoli 317, 338, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353 e 353-bis del codice penale), di cui all’art. 7 della legge n. 69 del 2015, per “fatti di corruzione” possa essere adottata anche ai fini della individuazione delle “condotte di natura corruttiva” che impongono la misura della rotazione straordinaria”.
Ne discende che:
   a) per i reati previsti dai richiamati articoli del codice penale (tra gli altri concussione, corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio, corruzione in atti giudiziari, induzione indebita a dare o promettere utilità), è da ritenersi obbligatoria l’adozione di un provvedimento motivato, con il quale viene valutata la condotta “corruttiva” del dipendente ed eventualmente disposta la rotazione straordinaria;
   b) per gli altri reati contro la pubblica amministrazione, di cui al Capo I, Titolo II, Libro secondo del Codice Penale (delitti rilevanti nel d.lgs. 08.04.2013, n. 39 in materia di incompatibilità e inconferibilità e d.lgs. 31.12.2012, n. 235 in materia di incandidabilità), la rotazione è solo facoltativa, restando in capo all’amministrazione la valutazione circa la gravità del delitto.
Alla luce del sopra descritto quadro normativo è possibile fornire risposta al quesito indicando i passaggi che dovranno essere posti in essere dall’Amministrazione, tenendo anche conto che a breve diverranno efficaci le direttive ANAC, ora in consultazione:
   1. verificare nello specifico se “la condotta corruttiva” per cui è stato iscritto nel registro degli indagati il dipendente integri, in astratto, una delle fattispecie di cui agli artt. 317, 338, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353 e 353-bis del codice penale;
   2. in caso di esito positivo –come pare dedursi nel caso di specie, avendo il responsabile del procedimento in astratto commesso il reato, ex art. 319 c.p. “corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio”– predisporre obbligatoriamente il provvedimento di rotazione straordinaria, adeguatamente motivato (deve essere stabilito che la condotta corruttiva imputata può pregiudicare l’immagine di imparzialità dell’amminsitrazione), con il quale viene individuato il diverso ufficio al quale il dipendente viene trasferito.
   3. trattandosi di provvedimento temporaneo, fissare il termine di efficacia in massimo cinque anni (come suggerito da ANAC tramite rinvio alla legge 97/2001) e comunque nell’eventuale rinvio a giudizio del dipendente; momento in cui l’amministrazione potrà nuovamente disporre il trasferimento, o limitarsi a confermare quello già disposto (19.03.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Sul reato di abuso d'ufficio.
L'inosservanza dell'art. 13 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, secondo il quale "il permesso di costruire è rilasciato dal dirigente o responsabile dello sportello unico nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e degli strumenti urbanistici" integra il requisito della violazione di legge rilevante ai fini della configurabilità del reato di abuso di ufficio.
Per quanto riguarda, poi, l'elemento soggettivo, si è affermato che esso consiste nella consapevolezza dell'ingiustizia del vantaggio patrimoniale e nella volontà di agire per procurarlo e può essere desunta dalla macroscopica illiceità dell'atto.

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Entrambi i motivi di ricorso riguardano il reato di abuso d'ufficio contestato all'imputato e la sua sussistenza sotto i profili oggettivo e soggettivo.
Ancora una volta deve richiamarsi preliminarmente quanto in precedenza osservato circa la smaccata evidenza della abusività dell'immobile costruito, nonché delle plurime irregolarità, per contrasto a specifiche disposizioni normative, che hanno caratterizzato il rilascio della concessione edilizia.
Va a tale proposito ricordato che l'inosservanza dell'art. 13 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, secondo il quale "il permesso di costruire è rilasciato dal dirigente o responsabile dello sportello unico nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e degli strumenti urbanistici" integra il requisito della violazione di legge rilevante ai fini della configurabilità del reato di abuso di ufficio (Sez. 3, n. 39462 del 19/06/2012, Rullo, Rv. 254015).
Per quanto riguarda, poi, l'elemento soggettivo, si è affermato che esso consiste nella consapevolezza dell'ingiustizia del vantaggio patrimoniale e nella volontà di agire per procurarlo e può essere desunta dalla macroscopica illiceità dell'atto (così, da ultimo, Sez. 6, n. 31 594 del 19/04/2017, Pazzaglia, Rv. 270460)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.03.2019 n. 11505).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Tetto spesa polizia locale.
Domanda
Le assunzioni delle polizia locale avvalendosi della deroga di cui all’art. 35-bis del d.l. 113/2018, devono comunque rispettare il “tetto” di spesa di personale in valore assoluto?
Risposta
Le assunzioni extra di polizia municipale, effettuate ai sensi dell’articolo 35-bis del decreto sicurezza, non possono essere fatte in deroga ai vincoli di spesa di personale contenuti nell’articolo 1, commi 557 e 562, della legge 296/2006, che, ricordiamo, per i Comuni oltre i mille abitanti è dato dalla media delle spese di personale del triennio 2011/2013, mentre per i Comuni fino a mille abitanti dal “tetto” del 2008.
Questa è la conclusione cui giungono i magistrati contabili della Lombardia con due diverse, ma identiche nei contenuti, deliberazioni: la n. 49/2019/PAR (depositata il 13.02.2019) e la n. 61/2019/PAR (depositata il 26.02.2019).
Il dubbio posto dagli Enti richiedenti il parere nasce nell’osservare che nella formulazione dell’articolo 35-bis del decreto legge 113/2018 viene previsto espressamente che le assunzioni possono essere fatte “… fermo restando il conseguimento degli equilibri di bilancio …” ma non anche il rispetto dei vincoli in materia di spesa di personale contenuti nell’articolo 1, commi 557 e 562, della legge 296/2006, e, pertanto, si chiede se il valore della spesa destinata alle assunzioni di personale appartenente alla polizia municipale possa essere fatta in deroga ai predetti vincoli di spesa di personale.
Nelle deliberazioni in esame viene chiarito che i vincoli imposti dal legislatore statale sulla spesa del personale rappresentano un principio di coordinamento della finanza pubblica, salvo eventuali deroghe previste dalla legge.
Pertanto, le assunzioni extra di polizia municipale, che i Comuni intendono effettuare avvalendosi del decreto sicurezza, devono avvenire nel rispetto dei vincoli di spesa di personale contenuti nell’articolo 1, commi 557 e 562, della legge 296/2006.
Il summenzionato principio vale anche nel caso in cui all’assunzione si provveda tramite l’istituto della mobilità (14.03.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPosizioni organizzative: la durata dell'incarico non deve coincidere con quella del mandato del sindaco (13.03.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il diritto alle ferie.
Il divieto di monetizzazione delle ferie di cui all’art. 5, comma 8, d.l. 06.07.2012 n. 95, convertito con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, l. 07.08.2012 n. 135, va interpretato nel senso che tale disciplina non pregiudica il diritto alle ferie ove prevede che non si possano corrispondere in nessun caso trattamenti economici sostitutivi, giacché correla il contestato divieto a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentono di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo.
Ciò al fine specifico di reprimere il ricorso incontrollato alla monetizzazione delle ferie non godute, contrastandone gli abusi, e a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie, per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro
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Come risulta dalla esposizione in fatto, la questione giuridica sottoposta all’attenzione del Collegio verte su un unico punto. Si tratta di comprendere se sia dovuta la monetizzazione del periodo di ferie non goduto nel caso in cui il mancato godimento sia dipeso da assenza continuativa del dipendente dovuta a malattia.
L’amministrazione intimata, in sintesi, difende la correttezza del diniego opposto affermando di avere liquidato il compenso sostitutivo in favore del ricorrente, facendo corretta applicazione della disciplina di riferimento e, segnatamente, dell’art. 14 d.P.R. 31.07.1995, n. 395, dell’art. 18 d.P.R. 16.03.1999 n. 254 e dell’art. 11 d.P.R. 11.09.2007, n. 170.
Il ricorrente contesta, argomentando con ampi svolgimenti, l’interpretazione e l’applicazione che l’amministrazione ha fornito delle sopra citate disposizioni.
In particolare, nella memoria depositata il giorno 11.01.2019, in vista dell’udienza pubblica, la difesa del ricorrente afferma, in sintesi, che ciascuna delle disposizioni richiamate dall’amministrazione, in assenza di una lettura costituzionalmente orientata, collide con il principio della indisponibilità del diritto alle ferie sancito nell'art. 36, ultimo comma, della Costituzione.
Il precetto costituzionale, secondo il ricorrente, deve essere inteso nel senso che ove il lavoratore abbia prestato ininterrottamente la propria opera nel periodo di riferimento delle ferie, il compenso sostitutivo delle stesse spetta in ogni caso, a nulla rilevando l’esistenza di disposizioni che concedano, limitino o escludano il diritto all’equivalente pecuniario.
La pretesa del ricorrente è fondata.
Alcune premesse di carattere generale.
Il diritto costituzionale indisponibile ad un periodo annuale di ferie retribuito, connotato, al pari del diritto al riposo settimanale, dal requisito dell'irrinunciabilità, rinviene il proprio fondamento giuridico tanto nell'interesse, meramente privatistico, comune ad entrambe le parti del rapporto, di conservare le energie fisiche del lavoratore al fine di una più razionale utilizzazione delle stesse, quanto nell'interesse, eminentemente pubblico, alla tutela della persona del lavoratore.
La dottrina, in modo unanime, ha da tempo affermato che nel caso delle ferie annuali risultano prevalenti proprio gli interessi etico-sociali rispetto a quelli fisiologici, cui sono, invece, essenzialmente preordinate le altre pause, di minore durata e di maggiore frequenza.
In materia di ferie, l'intervento della Corte costituzionale è stato ripetuto e sempre molto incisivo nel riservare una tutela particolarmente intensa al diritto al riposo feriale, attraverso un consolidato filone giurisprudenziale che parte dal 1963 (con la celebre sentenza n. 66) per arrivare alla storica sentenza n. 158 del 2001 che ha affermato che la garanzia costituzionale del riposo annuale, espressamente sancita nel 3° comma dell'art. 36 della Costituzione, non consente deroghe e va per ciò assicurata ad ogni lavoratore senza distinzione di sorta.
Anche la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea ha sancito, al paragrafo 2 dell'art. 31, il diritto del lavoratore a una limitazione della durata massima del lavoro e a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie annuali retribuite, utilizzando una formula che riprende quasi letteralmente quella contenuta nelle Costituzioni italiana e portoghese.
Venendo alla questione della monetizzazione delle ferie occorre rilevare che ha avuto modo di pronunciarsi recentemente il Consiglio di Stato affermando che “il diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute dal pubblico dipendente, anche in mancanza di una norma espressa che preveda la relativa indennità, discende direttamente dallo stesso mancato godimento delle ferie, in armonia con l'art. 36 Cost., quando sia certo che tale vicenda non sia stata determinata dalla volontà del lavoratore e non sia a lui comunque imputabile, e dunque anche in caso di cessazione dal servizio per infermità; ciò in quanto il carattere indisponibile del diritto alle ferie non esclude l'obbligo della stessa Amministrazione di corrispondere il predetto compenso per le prestazioni effettivamente rese, non essendo logico far discendere da una violazione imputabile all'Amministrazione il venir meno del diritto all'equivalente pecuniario della prestazione effettuata; analoga conclusione deve trarsi ove le ferie non siano state fruite per cessazione dal servizio per infermità” (Consiglio di Stato sez. IV, 13.03.2018, n. 1580).
In definitiva, il mancato godimento delle ferie, non imputabile all'interessato, non preclude di suo l'insorgenza del diritto alla percezione del compenso sostitutivo. Si tratta, infatti, di un diritto che per sua natura prescinde dal sinallagma prestazione lavorativa-retribuzione che governa il rapporto di lavoro subordinato e non riceve, quindi, compressione in presenza di altra causa esonerativa dall'effettività del servizio.
Da tale carattere di indisponibilità e irrinunciabilità discende il diritto al compenso sostitutivo, ogni qual volta la fruibilità del congedo stesso sia oggettivamente esclusa per causa indipendente dalla volontà del lavoratore o per fatto specifico della P.A. datrice di lavoro (in materia, Tar Calabria, Catanzaro, sez. I, 25.06.2015, Tar Sardegna 13.02.2013 n. 116; Tar Calabria, Catanzaro, sez. II, 03.05.2011 n. 598; Consiglio di Stato, sez. IV, 24.02.2009 n. 1084).
La giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di pronunciarsi anche sulla portata del divieto di monetizzazione delle ferie di cui all'art. 5, comma 8, d.l. 06.07.2012 n. 95, convertito con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, l. 07.08.2012 n. 135.
Esso va interpretato nel senso che tale disciplina non pregiudica il diritto alle ferie ove prevede che non si possano corrispondere in nessun caso trattamenti economici sostitutivi, giacché correla il contestato divieto a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentono di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo, sicché la norma in parola va interpretata come diretta a reprimere il ricorso incontrollato alla monetizzazione delle ferie non godute, contrastandone gli abusi, e a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie, per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro, senza arrecare pregiudizio al lavoratore incolpevole (Tar Emilia Romagna, Parma sez. I, 17.01.2017, n. 14).
E, per il pubblico impiego contrattualizzato, la giurisprudenza del giudice del lavoro è costante nell’affermare che in tema di pubblico impiego e monetizzazione delle ferie non fruite, sussiste il diritto del ricorrente al pagamento delle ferie e dei riposi non goduti quando lo stesso abbia provato di essere lavoratore in malattia. Difatti, l'art. 5, comma 8, d.l. 95/2012 deve essere interpretato nel senso che il divieto di monetizzazione delle ferie residue non si applica nel caso in cui il dipendente non sia stato nella possibilità di fruire delle stesse a causa di malattia (ex multis, Tribunale Torino sezione lavoro, 22.12.2016, n. 1861).
In conclusione, il ricorso deve essere accolto con conseguente annullamento dell'atto impugnato, nella parte in cui è stato negato il compenso sostitutivo per i giorni di congedo ordinario non fruito negli anni 2013 e precedenti e 2014, e conseguente condanna dell'Amministrazione al pagamento del compenso sostitutivo (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 08.03.2019 n. 211 - massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nei procedimenti di tipo concorsuale, l'impugnazione del provvedimento endoprocedimentale lesivo … deve successivamente estendersi agli ulteriori atti pregiudizievoli quale l'approvazione definitiva della graduatoria di concorso ai pubblici impieghi, determinandosi altrimenti l'inutilità dell'eventuale decisione di accoglimento del ricorso proposto contro l'esclusione.
Fermo restando quindi l'onere di impugnazione immediata dell’atto endoprocedimentale di carattere direttamente ed autonomamente lesivo, rimane l'onere di estendere il gravame anche al provvedimento conclusivo del procedimento concorsuale, ovverosia l'atto di approvazione della graduatoria finale da parte del concorrente escluso, in quanto, diversamente opinando, dovrebbe riconoscersi effetto caducante e non meramente viziante all'eventuale annullamento del provvedimento endoprocedimentale, tesi che risulta seguita in giurisprudenza da orientamento di segno decisamente minoritario … e che non appare condivisibile, non ravvisandosi un rapporto di presupposizione-consequenzialità immediato, diretto e necessario tra l’atto endoprocedimentale impugnato e l’approvazione della graduatoria finale.

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Il ricorso è improcedibile per l’omessa impugnazione dei provvedimenti di approvazione delle graduatorie del concorso impugnato.
Secondo un costante e pacifico orientamento giurisprudenziale “nei procedimenti di tipo concorsuale, l'impugnazione del provvedimento endoprocedimentale lesivo … deve successivamente estendersi agli ulteriori atti pregiudizievoli quale l'approvazione definitiva della graduatoria di concorso ai pubblici impieghi, determinandosi altrimenti l'inutilità dell'eventuale decisione di accoglimento del ricorso proposto contro l'esclusione (Consiglio Stato nn. 1347/2012, 4320/2003 e 4241/2008); fermo restando quindi l'onere di impugnazione immediata dell’atto endoprocedimentale di carattere direttamente ed autonomamente lesivo, rimane l'onere di estendere il gravame anche al provvedimento conclusivo del procedimento concorsuale, ovverosia l'atto di approvazione della graduatoria finale da parte del concorrente escluso, in quanto, diversamente opinando, dovrebbe riconoscersi effetto caducante e non meramente viziante all'eventuale annullamento del provvedimento endoprocedimentale, tesi che risulta seguita in giurisprudenza da orientamento di segno decisamente minoritario … e che non appare condivisibile, non ravvisandosi un rapporto di presupposizione-consequenzialità immediato, diretto e necessario tra l’atto endoprocedimentale impugnato e l’approvazione della graduatoria finale” (Cons. St., sez. VI, 11.06.2018, n. 3530).
Nel caso in esame, i ricorrenti non hanno provveduto a impugnare le graduatorie di merito formatesi a seguito della conclusione del concorso, con la conseguenza che il ricorso è improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse (TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, sentenza 06.03.2019 n. 2955 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOL'art. 6-bis della legge n. 241 del 1990 prevede l'obbligo di astensione dell'organo amministrativo in conflitto di interessi "anche potenziale".
Poiché l'aggettivo "potenziale" rende ambigua la qualificazione della situazione di conflitto di interessi che impone l'obbligo di astensione dell'organo che deve svolgere una determinata attività all’interno dell’ufficio pubblico, e l’espressione gravi ragioni di convenienza è ancora generica, è opportuno osservare-precisare che possono configurarsi ipotesi di potenziale conflitto di interessi, con conseguente obbligo di astensione, solo quando ragionevolmente l'organo amministrativo chiamato a svolgere una determinata attività si trovi in una posizione personale e/o abbia relazioni con terzi che possono, anche astrattamente, inquinare l'imparzialità dell’azione amministrativa, con riferimento alla potenzialità del verificarsi di una situazione tipizzata di conflitto.
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2.4. Il conflitto di interessi ‘potenziale’ e le “gravi ragioni di convenienza”.
L'art. 6-bis della legge n. 241 del 1990 (introdotto come visto dall’art. 1, co. 41, della legge n. 190 del 2012 e applicabile come norma generale anche al settore dei contratti pubblici) prevede l'obbligo di astensione dell'organo amministrativo in conflitto di interessi "anche potenziale". Similmente l’art. 53 del d.lvo n. 165 del 2001, nel testo modificato dalla legge n. 190 del 2012, prevede la verifica o la dichiarazione di situazioni di conflitto di interesse anche potenziale. Ed ancora, l’art. 7 del d.P.R. n. 62 del 16.04.2013 prevede l’obbligo di astensione anche nel caso in cui sussistano “gravi ragioni di convenienza”. Infine l’art. 51 c.p.c. contiene anche esso ipotesi tipizzate di conflitto che conduce all’obbligo di astensione e le medesime “gravi ragioni di convenienza” di cui all’art. 7. In sintesi nell’ordinamento è presente il concetto di conflitto di interessi non tipizzato.
Preliminarmente occorre porsi la domanda se alle fattispecie di cui ci occupiamo, cioè i conflitti nel settore dei contratti, si applichino anche gli art. 6-bis, 53, 7 e 51 citati, atteso che essi costituiscono norma generale mentre l’art. 42 del codice è norma speciale, destinata a prevalere, come afferma la stessa ANAC al paragrafo 1.2 delle Linee Guida. Poiché l’art. 42 richiama solo l’art. 7 del D.P.R 16.04.2013, n. 62 e non anche l’art. 6-bis della legge n. 241 né l’art. 53 del d.lvo n. 165 del 2001 né l’art. 51 c.p.c., senza operare quindi alcun riferimento esplicito alla categoria del conflitto “anche potenziale” né alle “gravi ragioni di convenienza” ma solo a quella dell’“interesse finanziario, economico o altro interesse personale”, se ne dovrebbe dedurre la inapplicabilità di tali norme nella parte riferita ad una tale categoria di conflitto potenziale o derivante dalle gravi ragioni di convenienza. Tale conclusione sarebbe errata, perché il rapporto di specialità accennato al paragrafo 2.1 di questo parere opera solo ove sussista un conflitto tra norme, mentre nella specie le disposizioni di cui agli art. 6-bis, 53, 7 e 51 citati non sono in contrasto con l’art. 42 ma sono ad esso complementari.
Sorge piuttosto il problema di individuare esattamente la portata delle norme e il significato esatto dell’aggettivo “potenziale”, e dell’espressione “gravi ragioni di convenienza”.
Si deve tenere presente, infatti, che l’art. 6-bis della legge n. 241 recita semplicemente: “Il responsabile del procedimento e i titolari .. etc. … devono astenersi in caso di conflitto di interessi segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale”. Similmente l’art. 53 del d.lvo n. 165 del 2001. La norma, quindi, non definisce le situazioni di conflitto di interessi la cui nozione non può che essere ricavata dall’art. 7 del d.P.R. n. 62 del 2013 che riguarda specificatamente il conflitto a carico dei dipendenti pubblici. Dal canto suo l’art. 7 citato contiene la elencazione di conflitti tipizzati (rapporto di coniugio, parentela, tutoraggio etc.) e vi aggiunge una norma di chiusura riguardante “gravi ragioni di convenienza”, non utilizzando il concetto di conflitto potenziale. Anche le “gravi ragioni” sono quindi sussunte dall’art. 42 nel concetto di conflitto di interessi.
Per sciogliere il nodo giova rammentare che il confluito di interessi è una situazione di pericolo in sé, e qualunque pericolo è per sua natura una potenza e non un atto. Il danno all’interesse funzionalizzato non si è ancora verificato (salvo quello all’immagine). Qualificare la natura del pericolo, e quindi del conflitto, come “situazione potenziale”, cioè ritenere che il Legislatore si sia voluto riferire a un “conflitto potenziale”, sarebbe quindi una tautologia. Dunque, altro è il significato della norma per la cui ricerca occorre compiere una attività interpretativa che attribuisca all’aggettivo “potenziale” un significato suo proprio e autonomo.
Una seconda interpretazione è che l’aggettivo riferisca a un “potenziale conflitto” (non a un “conflitto potenziale”), cioè a una situazione in grado di determinare essa il conflitto, cioè una interferenza tra l’interesse funzionalizzato e quello privato.
Tale interpretazione, però, si appalesa, se ristretta in questi semplici termini, troppo generica e generalizzata. Essa finirebbe col comprendere un numero infinito di situazioni razionalmente, ma solo astrattamente, individuabili a tavolino, misurabile utilizzando la categoria del possibile piuttosto che quella del probabile, con conseguente impossibilità di fornire elementi precisi di valutazione. Questa è la strada percorsa dalla UE con la definizione che si è sopra criticata e occorre guardarsi dal pericolo di percorrerla utilizzando categorie di situazioni troppo generiche ed indeterminate. Con ulteriore affinamento si può concludere che in primo luogo occorra distinguere situazioni di conflitto di interessi da un lato conclamate, palesi e soprattutto tipizzate (quali ad esempio i rapporti di parentela o coniugio) che sono poi quelle individuate dall’art. 7 del d.P.R. n. 62 del 2013 citato; dall’altro non conosciuti o non conoscibili, e soprattutto non tipizzati (che si identificano con le “gravi ragioni di convenienza” di cui al penultimo periodo del detto art. 7 e dell’art. 51 c.p.c.). Si tratta, ad avviso della Sezione, di situazioni da definire (non tipizzate ma) qualificate teleologicamente, come meglio si vedrà avanti al paragrafo 3 di questo parere.
In sostanza, rilevano sia palesi situazioni di conflitto di interessi, sia situazioni di conflitto di interessi (in questo senso) potenziali, perché tale nozione include non soltanto le ipotesi di conflitto attuale e concreto, ma anche quelle che potrebbe derivare da una condizione non tipizzata ma ugualmente idonea a determinare il rischio.
Ritiene la Sezione che tali situazioni non possano essere individuate con riferimento a un numero aperto, indeterminato e indefinito di rapporti e relazioni del soggetto pubblico (come emergerebbe dalla definizione del reg. UE sopra citato), ma debbano essere indagate, come già accennato, solo alla luce dell’art. 7 del d.P.R. n. 62 del 2013 e dell’art. 51 c.p.c. La struttura delle due norme è, infatti, identica e complementare. Nel primo comma l’art. 51, con parole diverse, ripercorre le ipotesi di cui all’art. 7, primo periodo, nel secondo comma si riferisce esattamente alle “gravi ragioni di convenienza” come il penultimo comma del citato art. 7.
Le situazioni di “potenziale conflitto” sono, quindi, in primo luogo, quelle che, per loro natura, pur non costituendo allo stato una delle situazioni tipizzate, siano destinate ad evolvere in un conflitto tipizzato (ad es. un fidanzamento che si risolva in un matrimonio determinante la affinità con un concorrente). Ciò con riferimento alle previsioni esplicite riguardanti sia il rapporto di coniugio, parentela, affinità e convivenza, sia alla possibile insorgenza di una frequentazione abituale, sia al verificarsi delle altre situazioni contemplate nel detto art. 7 (pendenza di cause, rapporti di debito o credito significativi, ruolo di curatore, procuratore o agente, ovvero di amministratore o gerente o dirigente di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti)
Si devono inoltre aggiungere quelle situazioni le quali possano per sé favorire l’insorgere di un rapporto di favore o comunque di non indipendenza e imparzialità in relazione a rapporti pregressi, solo però se inquadrabili per sé nelle categorie dei conflitti tipizzati. Si pensi a una situazione di pregressa frequentazione abituale (un vecchio compagno di studi) che ben potrebbe risorgere (donde la potenzialità) o comunque ingenerare dubbi di parzialità (dunque le gravi ragioni di convenienza).
Entrambi i tipi di situazione, quelle che evolvono de futuro verso il conflitto e quelle favorenti de praeterito il conflitto, costituiscono la declinazione delle gravi ragioni di convenienza di cui agli art. 7 e 51 citati in cui si risolvono, ed anche del “potenziale conflitto” di cui agli articoli 6-bis e 53 citati. In sostanza la qualificazione “potenziale” e le “gravi ragioni di convenienza” sono espressioni equivalenti perché teleologicamente preordinate a contemplare i tipi di rapporto destinati, secondo l’id quod plerumque accidit, a risolversi (potenzialmente) nel conflitto per la loro identità o prossimità alle situazioni tipizzate.
Tuttavia, proprio poiché l'aggettivo "potenziale" rende ambigua la qualificazione della situazione di conflitto di interessi che impone l'obbligo di astensione dell'organo che deve svolgere una determinata attività all’interno dell’ufficio pubblico, e l’espressione gravi ragioni di convenienza è ancora generica, è opportuno osservare-precisare che possono configurarsi ipotesi di potenziale conflitto di interessi, con conseguente obbligo di astensione, solo quando ragionevolmente l'organo amministrativo chiamato a svolgere una determinata attività si trovi in una posizione personale e/o abbia relazioni con terzi che possono, anche astrattamente, inquinare l'imparzialità dell’azione amministrativa, con riferimento alla potenzialità del verificarsi di una situazione tipizzata di conflitto (Consiglio di Stato, Sez. Consultiva per gli Atti Normativi, parere 05.03.2019 n. 667 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOMobbing risarcito in via transattiva, il superiore è responsabile per danno indiretto.
Vessazioni, denigrazioni e demansionamenti che se protratti costituiscono mobbing o se occasionali costituiscono straining sono fonte di responsabilità amministrativo-contabile. Ciò anche quando si addivenga ad accordo transattivo sul risarcimento da corrispondere alla vittima degli abusi.

La Corte dei Conti del Piemonte con la sentenza 05.03.2019 n. 25 si è espressa sul danno indiretto derivante dall'accordo transattivo tra un Comune e un suo dipendente. In quanto il comportamento dei superiori gerarchici nei confronti del dipendente hanno comportato un danno biologico, morale, esistenziale e professionale, risarciti dall'ente in via transattiva a seguito di sentenza del giudice del lavoro.
Le condotte mobbizzanti
Al dipendente era stata assegnata quale nuova sede di lavoro un angusto locale sito nel cimitero, che esternamente somigliava a una tomba di famiglia, ricavato nella parte superiore dell'ossario, ancora in uso, del cimitero. Il locale aveva le dimensioni di circa tre metri per tre e non era dotato di collegamento telefonico esterno, né di collegamento alla rete informatica del Comune, oltre a essere isolato da tutti i restanti uffici amministrativi dell'ente.
Dagli atti non era emersa alcuna concreta esigenza organizzativa collegata alla nuova e improvvisa ricollocazione del dipendente. Presso la sede cimiteriale, il comportamento vessatorio da parte dei superiori gerarchici era proseguito. Il dipendente era rimasto del tutto privo di mansioni proprie della categoria di appartenenza, per qualità, quantità, forma e sostanza.
Le prove del giudizio civile
Mentre il giudice civile giunge a condannare l'amministrazione a risarcire il privato utilizzando i parametri del danno e della colpa, nella consecutiva azione di rivalsa per danno indiretto, il giudice contabile deve indagare la colpa grave del dipendente pubblico che ha agito in nome e per conto della medesima, valutandone il comportamento dannoso tenuto nell'esercizio delle funzioni a esso affidate.
La ricostruzione operata dal Giudice in sede civile, stante aderenza e congruità rispetto alle risultanze istruttorie acquisite, è stata ritenuta dalla Corte dei conti, persuasiva e lineare, dunque condivisibile. Da ciò la valutazione della Corte dei conti, di adeguatezza e ragionevolezza della scelta dell'ente di addivenire a transazione con il dipendente.
La responsabilità dei superiori
Numerosi elementi hanno fatto ritenere la vicenda direttamente imputabile alla responsabilità dei superiori gerarchici. In questi casi la responsabilità sussiste quando una pluralità di atteggiamenti anche se non singolarmente illeciti, convergono in un intento univoco: perseguitare il dipendente coinvolto con forme di emarginazione, prevaricazione, mortificazione, cui consegue il crescente pregiudizio dell'equilibrio psicofisico del dipendente. Le condizioni di svolgimento del servizio impongono al datore di lavoro di tutelare oltre che l'integrità fisica, anche la personalità morale del lavoratore.
La condotta del datore di lavoro nei confronti del dipendente integra in questi casi mobbing: condotta protratta nel tempo, consistente nel compimento di una pluralità di atti giuridici o meramente materiali, anche leciti, tuttavia finalizzati alla segregazione e oppressione del dipendente.
Nondimeno, anche in caso di mancata allegazione di prova di un preciso intento persecutorio, e posto che lo straining è una forma attenuata di mobbing perché mancante del carattere di continuità delle condotte vessatorie, non è preclusa la possibilità di ottenere il risarcimento del danno con conseguente imputazione di responsabilità amministrativo-contabile.
Il datore di lavoro deve sempre, in ogni caso, scongiurare condotte che per gravità e caratteristiche della frustrazione arrecata possono ricondurre a un danno ingiusto (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.06.2019).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGOL’obbligo di astensione sancito dall’art. 51 c.p.c. sussiste solo allorché la grave inimicizia sia reciproca, trovi fondamento esclusivamente in rapporti personali, derivi da vicende estranee allo svolgimento delle funzioni e si estrinsechi in dati di fatto concreti, precisi e documentati; la grave inimicizia non equivale alla mera presentazione di una denuncia o comunque di un atto di impulso idoneo a dare inizio ad un procedimento giudiziale, né può, in linea di principio, originare dall'attività consiliare del componente il collegio per questioni comunque inerenti all'esercizio professionale, ma deve riferirsi a ragioni private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali.
Sul carattere tassativo delle cause di incompatibilità di cui al richiamato articolo 51 c.p.c. si è ripetutamente espressa la giurisprudenza che ha chiarito come esse sfuggano “ad ogni tentativo di manipolazione analogica all'evidente scopo di tutelare l'esigenza di certezza dell'azione amministrativa e la stabilità della composizione delle commissioni giudicatrici. Tanto soprattutto per evitare interferenze o interventi esterni, preordinati, con effetto parimenti abusivo a quello dell'omessa astensione di chi versi in patente conflitto d'interessi, a determinare, mediante usi forzati o infondati di detti obblighi, una composizione gradita o intimorita dell'organo giudicante”.
Il Consiglio di Stato ha, altresì, evidenziato che tali precisazioni sono ancora più necessarie “sol che si pensi alla regola evincibile dall'art. 51, I c., n. 3), c.p.c., per cui il Giudice (e per analogia il commissario di concorso) ha l'obbligo di astenersi "...se egli stesso... ha causa pendente... con una delle parti...". In altre parole, la norma, come s'è visto applicabile per analogia nell'esercizio del pubblico potere, individua come causa sufficiente, per l'astensione e la richiesta di ricusazione, il solo fatto oggettivo della pendenza di una lite tra il Presidente o il commissario di concorso ed uno dei candidati, senza necessità di verifica di elementi ulteriori. Ebbene, nella specie si trattò d'un esposto che l'appellato indirizzò a vari soggetti tra cui la predetta Procura in relazione a certi fatti anteriori, ma il TAR non s'avvede anzitutto che già l'asserita (o attuata) presentazione di denuncia in sede penale da parte del ricusante nei confronti del Giudice (o, per analogia, del commissario di concorso) non costituisce causa di legittima ricusazione perché essa non è di per sé idonea a creare una situazione di causa pendente (per la natura oggettiva della giurisdizione penale) o di grave inimicizia”.
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7. Parimenti infondato è il motivo di ricorso con cui il ricorrente deduce la illegittimità della delibera impugnata per violazione del principio di imparzialità, in ragione del fatto che il Commissario Straordinario che ha adottato il provvedimento impugnato (dott. In.) versava in una situazione di incompatibilità nei confronti del Me., che aveva proposto contro di lui più esposti e denunce “nell’adempimento di preciso obbligo di rapporto” (pag. 5 del ricorso).
Anche tale rilievo è del tutto destituito di fondamento alla luce del consolidato orientamento secondo il quale l’obbligo di astensione sancito dall’art. 51 c.p.c. sussiste solo allorché la grave inimicizia sia reciproca, trovi fondamento esclusivamente in rapporti personali, derivi da vicende estranee allo svolgimento delle funzioni e si estrinsechi in dati di fatto concreti, precisi e documentati (Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n. 7170/2018); la grave inimicizia non equivale alla mera presentazione di una denuncia o comunque di un atto di impulso idoneo a dare inizio ad un procedimento giudiziale, né può, in linea di principio, originare dall'attività consiliare del componente il collegio per questioni comunque inerenti all'esercizio professionale, ma deve riferirsi a ragioni private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali (Cassazione, sez. II, sentenza n. 27923/2018).
Sul carattere tassativo delle cause di incompatibilità di cui al richiamato articolo 51 c.p.c. si è ripetutamente espressa la giurisprudenza che ha chiarito come esse sfuggano “ad ogni tentativo di manipolazione analogica (arg. ex Cons. St., VI, 03.03.2007 n. 1011; id., 26.01.2009 n. 354; id., 19.03.2013 n. 1606) all'evidente scopo di tutelare l'esigenza di certezza dell'azione amministrativa e la stabilità della composizione delle commissioni giudicatrici. Tanto soprattutto per evitare interferenze o interventi esterni, preordinati, con effetto parimenti abusivo a quello dell'omessa astensione di chi versi in patente conflitto d'interessi, a determinare, mediante usi forzati o infondati di detti obblighi, una composizione gradita o intimorita dell'organo giudicante” (Consiglio di Stato, sez. III, sentenza n. 1577/2014).
Il Consiglio di Stato ha, altresì, evidenziato che tali precisazioni sono ancora più necessarie “sol che si pensi alla regola evincibile dall'art. 51, I c., n. 3), c.p.c., per cui il Giudice (e per analogia il commissario di concorso) ha l'obbligo di astenersi "...se egli stesso... ha causa pendente... con una delle parti...". In altre parole, la norma, come s'è visto applicabile per analogia nell'esercizio del pubblico potere, individua come causa sufficiente, per l'astensione e la richiesta di ricusazione, il solo fatto oggettivo della pendenza di una lite tra il Presidente o il commissario di concorso ed uno dei candidati, senza necessità di verifica di elementi ulteriori. Ebbene, nella specie si trattò d'un esposto che l'appellato indirizzò a vari soggetti tra cui la predetta Procura in relazione a certi fatti anteriori, ma il TAR non s'avvede anzitutto che già l'asserita (o attuata) presentazione di denuncia in sede penale da parte del ricusante nei confronti del Giudice (o, per analogia, del commissario di concorso) non costituisce causa di legittima ricusazione perché essa non è di per sé idonea a creare una situazione di causa pendente (per la natura oggettiva della giurisdizione penale) o di grave inimicizia (cfr. Cons. St., IV, 02.04.2012 n. 1958)” (Consiglio di Stato, sez. III, sentenza n. 1577/2014).
Il Collegio non ravvisa, nel caso di specie, la sussistenza dei presupposti, così come individuati dalla giurisprudenza sopra richiamata, necessari per poter configurare la contestata causa di incompatibilità. Il ricorrente, invero, fa riferimento ad esposti e denunce che, oltre ad attenere al rapporto lavorativo tra i due soggetti e non a rapporti personali, non sono idonei a dimostrare la reciprocità dell’assunta inimicizia. Si osserva, peraltro, che non risulta neanche dimostrato che dalle suddette denunce siano derivati condanne o procedimenti penali a carico del dott. In. (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 04.03.2019 n. 416 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

febbraio 2019

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOInvio PTFP sindacati.
Domanda
Il Piano triennale dei fabbisogni di un comune va inviato per informazione preventiva ai sindacati?
Risposta
L’art. 6 del d.lgs. 165/2001 prevede al comma 4 che “nell’adozione degli atti di cui al presente comma, è assicurata la preventiva informazione sindacale, ove prevista nei contratti collettivi nazionali”.
La risposta, quindi, va cercata all’interno del CCNL 21.05.2018 delle Funzioni Locali e a nostro parere non vi è alcuna indicazione esplicita a tal proposito. Quindi la risposta al quesito è negativa.
Riteniamo, inoltre, che non sia possibile individuare eventuali diverse “aperture” nella direzione dell’obbligo di informazione preventiva in altri contesti del CCNL citato, ma che l’elenco delle materie oggetto di informazione, contrattazione o confronto sia tassativo.
Ricordiamo, inoltre, proprio per fare un esempio di un CCNL che ha previsto una relazione sindacale che nel Comparto Istruzione e Ricerca all’art. 68 comma 10 vi è scritto: Sono oggetto di informazione […] “il piano dei fabbisogni di personale”.
Quindi, in quel contratto è stata voluta la relazione sindacale, nel CCNL Funzioni Locali, evidentemente no (28.02.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Danno alla salute a causa dell’attività lavorativa.
Incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 27.02.2019 n. 5749 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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4. Il primo motivo è connotato da assoluta genericità delle critiche mosse alla decisione impugnata.
Peraltro, la decisione si pone in linea con i principi reiteratamente affermati da questa Corte in tema di responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c. e di riparto dell'onere della prova, principi secondo i quali tale norma "non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro -di natura contrattuale- va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento; ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare, oltre all'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'una e l'altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno" (cfr. Cass. 19.10.2018 n. 26495, Cass. 08.10.2018 n. 24742 e, da ultimo, Cass. 122808/2018).
5. In tema di malattie ed eziologia plurifattoriali, la prova della causa di lavoro o della speciale nocività dell'ambiente di lavoro, che grava sul lavoratore, deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la mera possibilità dell'origine professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità (cfr. Cass. 08.05.2013 n. 10818).
Né la riconosciuta dipendenza delle malattie da una "causa di servizio" implica necessariamente, o può far presumere, che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell'ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento dell'organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori dall'ambito dell'art. 2087 cod. civ., che riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici (cfr. Cass. 29.01.2013 n. 2038).
6. Infine, le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale, in quanto riconducibili alla generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell'art. 2110 c.c., sono normalmente computabili nel previsto periodo di conservazione del posto, mentre, affinché l'assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, non è sufficiente che la stessa abbia un'origine professionale, ossia meramente connessa alla prestazione lavorativa, ma è necessario che, in relazione ad essa ed alla sua genesi, sussista una responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. (cfr. Cass. 27.06.2017 n. 15972). 
Ciò che nella specie è stato escluso dal giudice del gravame con motivazioni che, come sopra precisato, non sono state idoneamente contrastate dai rilievi mossi in questa sede.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Limite spesa lavoro flessibile.
Domanda
La condizione per poter utilizzare il 100% della spesa sostenuta nell’anno 2009 per assunzioni flessibili è l’obbligo di riduzione della spesa previsto dall’art. 1, comma 557, della l. 296/2006 da intendersi riferito al rispetto della spesa del triennio 2001/2013 di cui al comma 557-quater?
Risposta
Il comma 557-quater, dell’art. 1, della legge 27.12.2006, n. 296 (legge finanziaria 2007), è stato aggiunto dal comma 5-bis, dell’art. 3, del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114 e recita quanto segue: "1.557-quater. Ai fini dell’applicazione del comma 557, a decorrere dall’anno 2014 gli enti assicurano, nell’ambito della programmazione triennale dei fabbisogni di personale, il contenimento delle spese di personale con riferimento al valore medio del triennio precedente alla data di entrata in vigore della presente disposizione".
Dal momento che la norma è del 2014, il triennio precedente è quello che comprende gli anni 2011, 2012 e 2013.
La norma che disciplina il “tetto” di spesa per il lavoro flessibile (pari al 100% della spesa del 2009) è quella stabilita all’art. 9, comma 28, del decreto-legge n. 78/2010, convertito nella legge 30.07.2010, n. 122 che, per la parte che ci interessa, dispone: "Le limitazioni previste dal presente comma non si applicano agli enti locali in regola con l’obbligo di riduzione delle spese di personale di cui ai commi 557 e 562 dell’articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296, e successive modificazioni, nell’ambito delle risorse disponibili a legislazione vigente".
Pertanto, la risposta al quesito non può che essere affermativa (21.02.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORelazioni sindacali e indennità, doppio nodo per gli incarichi di posizione organizzativa.
Due nodi assai intricati nella disciplina degli incarichi di posizione organizzativa sono costituiti dalle relazioni sindacali e dal tetto massimo delle risorse che possono essere destinate al finanziamento delle indennità di posizione e di risultato.
Relazioni sindacali
Nelle relazioni sindacali sommiamo il confronto, la contrattazione e la potestà per gli enti di deliberare senza il rispetto di particolari vincoli. Il confronto deve essere effettuato, previa informazione preventiva e tanto su richiesta dei soggetti sindacali quanto per iniziativa diretta dell'ente, sui criteri di conferimento, revoca e graduazione di questi incarichi.
Esso è inoltre necessario per verificare le modalità di implementazione del fondo per la contrattazione decentrata nel caso in cui l'ente decida di tagliare le risorse destinate al salario accessorio delle posizioni organizzative e si ricorda che è questa la forma di relazione sindacale prevista per i criteri generali di valutazione delle performance, compresa quella delle posizioni organizzative.
La contrattazione decentrata è necessaria per decidere i criteri generali per la determinazione della indennità di risultato e per stabilire una eventuale correlazione tra questa indennità e l'erogazione di incentivi previsti da specifiche disposizioni di legge, quindi ad esempio per prevedere una diminuzione dell'indennità nel caso in cui i compensi per i contenziosi condotti con successo dagli avvocati dell'ente o quelli per le funzioni tecniche superino soglie prefissate. Spetta invece alle amministrazioni decidere, senza che siano richieste particolari forme di relazione sindacale, la quota del fondo da riservare al finanziamento dell'indennità di risultato, garantendo comunque che essa non scenda al di sotto del 15%.
Nell'applicazione di questa previsione contrattuale in alcune amministrazioni si sta scegliendo di abbassare questo compenso rispetto al 25% della indennità di posizione, che sulla base del contratto 31.03.1999, era la precedente soglia massima, così da potere utilizzare queste risorse per aumentare la indennità di posizione e/o per aumentare il numero di questi incarichi.
Il tetto delle risorse
Non meno intricato è il nodo del tetto delle risorse che le amministrazioni possono destinare al finanziamento delle posizioni organizzative. Il contratto prende atto che l'articolo 23 del Dlgs 75/2017 stabilisce che le risorse del salario accessorio non devono superare quelle del 2016, vincolo che si applica non solo al fondo per la contrattazione decentrata, ma anche ai compensi per i titolari di posizioni organizzativa.
Per il finanziamento di queste risorse è previsto che negli enti con la dirigenza lo stesso sia a carico del bilancio dell'ente, come avviene da sempre negli enti senza la dirigenza, con contestuale taglio di queste somme dalla parte stabile del fondo. Una disposizione che vuole rendere più flessibili gli spazi di autonomia organizzativa, consentendo alle amministrazioni di deliberare senza doversi preoccupare di acquisire il consenso sindacale per il finanziamento degli eventuali oneri aggiuntivi.
Possibilità che è vanificata dal tetto delle risorse per il salario accessorio, fatta salva che si arrivi la possibilità –di scuola nella gran parte delle realtà- che i soggetti sindacali accettino una decurtazione del fondo per il salario accessorio per finanziare aumenti per le posizioni organizzative.
Le novità del Dl semplificazioni
Con l'articolo 11-bis, comma 2, del Dl 135/2018, Dl semplificazione, come risulta dopo la conversione, è consentito ai Comuni senza dirigenti di aumentare le risorse destinate al salario accessorio delle posizioni organizzative diminuendo nella stessa misura le capacità assunzionali a tempo indeterminato, cioè quelle dell'anno e i resti del triennio precedente, capacità che peraltro molto spesso non sono interamente utilizzate.
Il testo accoglie in modo assai parziale la richiesta dell'Anci, visto che questa possibilità è preclusa agli enti con i dirigenti, cioè a quelli che hanno una dimensione maggiore (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.02.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni organizzative, si parte dal confronto sindacale ma la decisione è dell'Ente.
Le amministrazioni devono ridefinire l’assetto delle posizioni organizzative e devono farlo entro il 20 maggio prossimo, pena l’impossibilità di procedere al conferimento dei relativi incarichi. Ciò deve avvenire agendo su due aspetti entrambi oggetto di confronto sindacale: la definizione dei criteri generali per il conferimento e per la revoca e la definizione dei criteri per la graduazione ai fini dell’attribuzione della indennità di posizione.
Si tratta di materie che le amministrazioni possono disciplinare autonomamente in quanto decorso il termine di 30 giorni dal momento dell’avvio del confronto sindacale le materie rientrano nella piena disponibilità delle amministrazioni.
Il confronto, che deve essere richiesto entro 5 giorni dall’informativa o proposto dall’Ente, non implica che le parti debbano raggiungere un accordo ma rappresenta una modalità relazionale attraverso la quale le parti esprimono le proprie valutazioni e consentono loro di partecipare alla definizione delle misure che l’ente intende adottare; il confronto si conclude con la redazione di una sintesi delle posizioni emerse che vengono offerte alle Amministrazioni cui compete la decisione finale.
Istituzioni delle posizioni organizzative
L’istituzione delle posizioni organizzative deve avvenire con riferimento a posizioni di lavoro che presentino le seguenti caratteristiche:
   a) deve trattarsi di funzioni di direzioni di unità organizzative che presentino particolare complessità;
   b) le funzioni di direzioni devono caratterizzarsi per l’elevato grado di autonomia gestionale e organizzativa.
In alternativa l’istituzione di posizioni organizzative può riguardare attività ad alto contenuto professionale per le quali è richiesta una elevata competenza specialistica (maturata o mediante titoli di livello universitario o attraverso rilevanti e consolidate esperienze professionali, in posizioni di responsabilità o di alta qualificazione professionale), che deve essere verificata in sede di conferimento attraverso l’esame del curriculum.
Non è pertanto possibile prevedere l’istituzione di posizioni organizzative al di fuori delle caratteristiche sopra enunciate e, quindi, le amministrazioni non possono limitarsi alla mera individuazione ma devono specificamene motivare la presenza, rispetto alle posizioni individuate e indipendentemente dalla persona cui l’incarico verrà conferito, di tali caratteristiche. L’assenza di un idoneo apparato motivazionale che consenta di ricondurre le posizioni istituite alla caratteristiche previste dall’art. 13 del Ccnl funzioni locali espone gli atti di macro organizzazione al rischio di declaratoria di illegittimità.
Criteri generali per il conferimento degli incarichi
L’amministrazione deve, quindi, disciplinare le regole per il conferimento degli incarichi di posizione organizzativa che, nei comuni con dirigenti sono conferiti da quest’ultimi, i quali devono attenersi ai criteri generali definiti dall’Ente.
Il criteri generali devono da un lato dettagliare, per ciascuna posizione organizzativa istituita, i requisiti culturali, le attitudini, la capacità professionale e l’esperienza acquisita e dall’altro considerare la natura e la caratteristica dei programmi da realizzare.
Tra i criteri da utilizzare per il conferimento dell’incarico l’Amministrazione deve tenere in adeguata considerazione anche gli esiti delle valutazioni individuali in attuazione dell’art. 3, comma 5, e dell’art. 25, comma 2, del Dlgs 150/2009.
Nei comuni senza dirigenza le posizioni organizzative sono conferite ai responsabili delle strutture apicali e le disposizioni contrattuali devono essere lette unitamente alla previsione di sui all’art. 50, comma 10, Dlgs 267/2000 secondo il quale la nomina dei responsabili degli uffici e dei servizi è affidata alla competenza del Sindaco e al successivo art. 109, comma 2, del medesimo Decreto secondo il quale ai responsabili dei servizi vengono affidate le funzioni tipicamente dirigenziali previste dall’articolo 107, commi 2 e 3.
La graduazione della posizioni
La graduazione delle posizioni è fondamentalmente finalizzata a definire l’entità della retribuzione di posizione nei limiti minimi e massimi previsti dall’articolo 15 del Ccnl funzioni locali.
Il valore medio delle retribuzioni di posizione è legato all’entità delle risorse complessivamente disponibili per retribuzione di posizione e di risultato che non deve superare l’importo destinato a tale finalità nel 2016 e di questo importo il valore complessivo massimo destinato alla retribuzione di posizione non può superare l’80%; l’altro elemento che incide sul valore medio è il numero di posizioni istituite. Il valore complessivo 2016 può essere superato previa riduzione del fondo risorse decentrate e solo previa contrattazione decentrata.
Ai fini della graduazione gli aspetti che devono essere considerati sono i seguenti: a) la complessità organizzativa; b) la rilevanza delle responsabilità amministrative e gestionali; rispetto questi macrocriteri l’amministrazione definisce i criteri di dettaglio e le metriche di valutazione pervenendo ad una graduatoria.
Il valore della retribuzione di posizione dipenderà dal numero di graduazioni che si intendono attivare e dal numero di posizioni che si intendono istituire; una eccessiva frammentazione delle graduazioni in presenza di un numero ridotto di posizioni rischia di rendere poco gestibile il sistema delle graduazioni. Per cui è corretto che all’aumentare del posizioni istituite possa aumentare il numero delle graduazioni; il trade-off tra questi due elementi (numero di posizioni e numero delle graduazioni) deve essere risolto con criteri di ragionevolezza e tenendo ben presente l’applicabilità in concreto dei criteri, che devono essere predeterminati e indipendenti dal dipendente al quale sarà conferito l’incarico.
A tale proposito i criteri utilizzati per declinare i macro fattori previsti dal Ccnl devono essere tali da essere concretamente applicabili in relazione alle caratteristiche e alle responsabilità connesse a ciascuna posizione istituita. Per esempio, in relazione alla complessità organizzativa possono essere parametri significativi il numero dei servizi e uffici che rientrano nella direzione della posizione nonché il numero dei dipendenti. Con riferimento alla rilevanza può essere utile il riferimento alla significatività dei processi presidiati e al livello di rischio definito nell’ambito del Piano triennale di prevenzione delle corruzione.
Occorre prestare attenzione nel valutare la rilevanza all’utilizzo di criteri di incerta applicazione; a titolo di esempio stabilire come uno dei criteri per valutare la rilevanza il numero dei pareri può rendere incerta l’applicazione per quelle posizioni in cui l’entità effettiva dei pareri non è predeterminabile o comunque dipende da specifiche situazioni di contesto che possono cambiare da un anno all’altro (mentre la graduazione deve avere una sua stabilità e robustezza).
Negli enti con dirigenza, nell’ambito dei criteri per la graduazione, l’articolo 15 del Ccnl richiede di considerare anche l’ampiezza e il contenuto delle eventuali funzioni delegate con attribuzioni di poteri di firma di provvedimenti finali a rilevanza esterna; tuttavia tali ultimi aspetti attengono a misure che dipendono dallo stile organizzativo e manageriale del dirigente che conferisce gli incarichi e non sono predeterminabili in quanto ciò significherebbe imporre al dirigente, per specifiche posizioni organizzative, una sorta di “obbligo” di delega, quando previsto in sede di graduazione, che nel nostro assetto normativo non è configurabile e comunque lederebbe l’autonomia organizzativa, gestionale e manageriale del dirigente medesimo (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.02.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPosizioni organizzative, il tempo stringe per gli Enti Locali alle prese con le delibere.
Rimangono appena otto o nove settimane alle amministrazioni locali e regionali per adottare i criteri di istituzione, conferimento, revoca e graduazione della retribuzione per le posizioni organizzative.

La mancata adozione di queste disposizioni regolamentari entro il 21 maggio, cioè entro un anno dall'entrata in vigore del contratto del personale delle funzioni locali per il triennio 2016/2018, stipulato il 21.05.2018, determina infatti la decadenza delle posizioni organizzative. Come chiarito dall'Aran, anche se la loro scadenza "naturale" fissata dalle amministrazioni fosse successiva.
Ma si deve aggiungere che, per non rischiare di superare il termine nelle more dello svolgimento delle relazioni sindacali, le bozze di deliberazione devono essere trasmesse ai soggetti sindacali entro la metà del mese di aprile.
Informazione preventiva dei soggetti sindacali
Cominciamo proprio da questo aspetto: i criteri di conferimento, revoca e graduazione delle posizioni organizzative, che l'ente adotta con una deliberazione della giunta avente natura regolamentare, sono oggetto di informazione preventiva e, a richiesta dei soggetti sindacali, di confronto.
Ricordiamo che il confronto deve essere chiesto dai rappresentanti dei lavoratori (oltre che potere essere avviato direttamente da parte degli enti) entro 5 giorni dalla ricezione della informazione e che esso, in assenza di una intesa, inibisce all'ente la possibilità di deliberare prima di un mese dal suo avvio: per cui prudenzialmente, salvo che i suoi contenuti siano stati preventivamente concordati, si deve considerare che si può arrivare a 40 giorni circa dalla comunicazione iniziale per potere assumere la deliberazione.
Istituzione
Sulla base del nuovo contratto le amministrazioni devono decidere quali e quante posizioni organizzative istituire, scegliendo in questo ambito tra quelle preposte alla direzione di unità organizzative e le alte professionalità, senza poterne più istituire per gli uffici di staff.
Devono inoltre disciplinare i criteri di conferimento sulla base dei principi dettati dal nuovo contratto nazionale e che continuano a essere gli stessi fissati nel 1999: «le funzioni ed attività da svolgere, la natura e caratteristiche dei programmi da realizzare, i requisiti culturali posseduti, le attitudini e la capacità professionale».
Criteri che lasciano ampi spazi di discrezionalità ma che non consentono scelte di tipo esclusivamente fiduciario. In questo ambito occorre anche disciplinare le procedure -ad esempio se le scelte sono precedute da un avviso e dalla presentazione di candidature-e la durata –che per gli enti con dirigenti non può essere superiore a 3 anni.
Revoca
Le amministrazioni devono disciplinare le procedure di revoca, intendendo come tale solo quella anticipata, essendo possibile la mancata conferma alla scadenza e il conferimento ad altro dipendente. La revoca in tutti gli enti può essere disposta sulla base del contratto per mutamenti organizzativi e/o per una valutazione negativa; si deve aggiungere che, sulla base delle previsioni della legge 190/2012 (anticorruzione), può essere disposta in caso di rotazione straordinaria, cioè a seguito di procedimenti penali e che, sulla scorta del Dlgs 267/2000, ma solamente negli enti senza dirigenti, può essere motivata dalla inosservanza delle direttive impartite dall'organo di governo.
Graduazione degli incarichi
Gli enti devono disciplinare i criteri di graduazione degli incarichi di posizione organizzativa nella forcella compresa tra 5.000 e 16.000 euro. Occorre chiarire che non è obbligatorio per le amministrazioni fissare la misura considerando che il tetto debba necessariamente essere fissato in 16.000 euro: questa è la soglia massima, per cui le amministrazioni possono anche scegliere una cifra più bassa.
Il contratto prevede 2 criteri per tutti gli enti, la rilevanza delle responsabilità e la complessità; per gli enti con la dirigenza ne viene aggiunto un terzo: l'ampiezza e il contenuto dei compiti delegati, con la connessa attribuzione della titolarità ad assumere atti a rilevanza esterna (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.02.2019).

PUBBLICO IMPIEGO: Tassazione pensioni complementari.
Domanda
Le pensioni complementari integrative dei dipendenti pubblici sono tassate come quelle dei privati?
Risposta
Le regole in materia di previdenza complementare pagano il conto di quella che dal punto di vista giuridico viene definita dicotomia delle fonti del diritto.
La riforma Maroni del 2005 ha riscritto e novellato la previdenza complementare con il d.lgs. 252/2005, tuttavia, non essendo occorsa l’armonizzazione con il pubblico impiego, dette regole non sono mai valse per i lavoratori pubblici, ma soltanto per i lavoratori dipendenti di aziende private. Questo almeno fino alla Legge di Bilancio del 2018 che ha introdotto dei correttivi e livellato alcune differenze.
La disparità di trattamento tra lavoratori privati e pubblici si faceva sentire in diversi ambiti: si pensi alla diversa libertà di destinazione delle quote di TFR nella modalità di finanziamento della previdenza complementare, alle diverse regole di accesso alle prestazioni pensionistiche (anticipazioni), al diverso limite di deducibilità fiscale dei contributi versati a previdenza complementare, e, in particolare, al diverso regime di tassazione delle prestazioni previdenziali.
In questo ultimo caso, le differenze producevano una disparità di trattamento al limite della legittimità costituzionale.
In tema di tassazione delle prestazioni, le regole applicate ai dipendenti pubblici erano quelle contenute nel d.lgs. 124/1993 che prevedevano l’assoggettamento a tassazione progressiva (IRPEF a scaglioni).
Le pensioni complementari dei privati sono assoggettate, dal 2005, ad una tassazione a titolo di imposta del 15%, ridotta di una quota pari allo 0,30% per ogni anno eccedente il 15° di partecipazione a forme di previdenza complementare, fino ad un massimo di 6 punti percentuali di riduzione.
La legge di Bilancio del 2018, al comma 156, fa valere anche per i lavoratori pubblici, le regole in materia di tassazione delle prestazioni, contenute nel d.lgs. 252/2005.
La riforma non ha coinvolto il passato e i montanti già accumulati, ma solo il futuro, talché:
   • posizione maturata dal 01/2018: assoggettate a una tassazione a titolo d’imposta del 15% ridotta di una quota pari allo 0,30% per ogni anno eccedente il 15° di partecipazione a forme di previdenza complementare, con il limite massimo del 6%.
   • posizione maturata prima del 01/2018: assoggettate a tassazione progressiva (14.02.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mancato godimento delle ferie imputabile alla volontà del lavoratore.
Vige il divieto di monetizzazione delle ferie nel Pubblico Impiego nei soli casi in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, licenziamento disciplinare, mancato superamento del periodo di prova) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età) che comunque consentano di pianificare per tempo la fruizione delle ferie residue e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito al periodo di godimento delle ferie (TRIBUNALE di Foggia, Sez. lav., sentenza 12.02.2019 n. 5193 - massima tratta da www.laleggepertutti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOProcedure per progressioni verticali e pubblicazione in GU.
Domanda
Le procedure per le progressioni verticali vanno pubblicate in Gazzetta Ufficiale?
Risposta
In riferimento alle procedura di cui all’art. 22, comma 15, del D.Lgs. 75/2017 si ricorda che gli elementi che caratterizzano questa selezione sono:
   a) limite costituito dalla facoltà assunzionale;
   b) procedure selettive;
   c) possesso dei titoli di studio richiesti per l’accesso dall’esterno;
   d) riserva limitata al 20% dei posti, per ciascuna categoria, destinati a nuove assunzioni nel piano dei fabbisogni;
   e) prove;
   f) valutazione positiva per almeno tre anni, attività svolta e risultati conseguiti.
Se tali requisiti sono soddisfatti si prescinde, a nostro parere, dalla pubblicazione del bando nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, in quanto trattasi di procedura riservate a personale già reclutato nella P.A.
L’obbligo di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana dei bandi di concorso nel pubblico impiego, previsto dall’articolo 4 del d.p.r. 487/1994, integra la previsione generale dell’art. 35, terzo comma, del d.lgs. 165/2001 e s.m.i., recante principi in materia di procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni.
La regola generale, che impone l’obbligo di pubblicazione sulla GURI è attuativa dell’art. 51, primo comma, e dell’art. 97, comma due e quattro, della Costituzione, ove vengono garantiti nell’accesso agli uffici pubblici condizioni di uguaglianza, buon andamento, imparzialità dell’amministrazione e accesso mediante concorso.
Nella procedura di cui trattasi tali condizioni non devono essere garantite, ad eccezione della selettività, in quanto la procedura è riservata alle professionalità interne, già reclutate nella PA.
Per quanto sopra illustrato si ritiene che sia sufficiente la pubblicazione del bando sul sito dell’ente, nell’area dell’Amministrazione Trasparente, dedicata al personale (07.02.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOConflitto d’interessi per presidente commissione di concorso.
Domanda
Il nostro comune ha bandito un concorso per due posti di categoria D, di cui uno riservato ad un interno, ex art. 24, comma 1, del d.lgs. 150/2009. Tra i candidati ammessi al concorso c’è un dipendente di categoria C, in possesso di laurea, in servizio presso il 1° Settore. La Commissione di concorso è presieduta dal funzionario P.O., responsabile del medesimo settore.
Ci si interroga se il funzionario si trovi in situazione di conflitto d’interesse, con obbligo di astensione.
Risposta
La questione oggetto del quesito, riguarda una ipotesi di conflitto d’interessi tra il presidente della Commissione di concorso pubblico e un candidato, interno, che partecipa alla procedura concorsuale. Non v’è dubbio che tra i due soggetti, per ragioni di lavoro, siano intercorsi ed intercorrano tutt’ora dei rapporti professionali, per cui è corretto porsi l’interrogativo.
Per redimere la vicenda, il primo consiglio da fornire è quello di verificare le norme, in materia di conflitto d’interessi, rinvenibili negli atti regolamenti del comune. A tal riguardo può essere utile andare a rivedere cosa si è previsto:
   a) nello Statuto del comune;
   b) nel regolamento dei concorsi;
   c) nel regolamento di organizzazione degli uffici e servizi (ROUS);
   d) nel Codice di comportamento di ente;
   e) nel Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione e Trasparenza.
Per ciò che concerne i riferimenti legislativi nazionali, occorre prendere in considerazione le disposizioni dell’art. 6-bis, della legge 07.08.1990, n. 241 e agli articoli 6 e 7, del Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, approvato con DPR 62/2013.
Detto delle regole di tipo “generale” che soprassiedono alla non semplice questione del conflitto d’interessi, anche di natura potenziale, nel caso specifico è bene tenere in debita considerazione, anche, le posizioni assunte, nel tempo, dal giudice amministrativo, il quale ha provveduto ad identificare alcune ipotesi di concreta applicazione, con riferimento alla composizione delle commissione di concorso, in ambito universitario (ma il caso è assimilabile), sostenendo che:
   – l’appartenenza allo stesso ufficio del candidato e il legame di subordinazione o di collaborazione tra i componenti della commissione e il candidato stesso non rientrano nelle ipotesi di astensione di cui all’art. 51 c.p.c. (Consiglio di Stato, sez. III, 28.04.2016, n. 1628, Consiglio di Stato, sez. V, 17.11.2014 n. 5618; sez. VI, 27.11. 2012, n. 4858);
   – i rapporti personali di colleganza o di collaborazione tra alcuni componenti della commissione e determinati candidati non sono sufficienti a configurare un vizio della composizione della commissione stessa, non potendo le cause di incompatibilità previste dall’art. 51 (tra le quali non rientra l’appartenenza allo stesso ufficio e il rapporto di colleganza) essere oggetto di estensione analogica, in assenza di ulteriori e specifici indicatori di una situazione di particolare intensità e sistematicità, tale da dar luogo ad un vero e proprio sodalizio professionale (Consiglio di Stato, sez. VI, 23.09.2014 n. 4789);
   – «la conoscenza personale e/o l’instaurazione di rapporti lavorativi ed accademici non sono di per sé motivi di astensione, a meno che i rapporti personali o professionali non siano di rilievo ed intensità tali da far sorgere il sospetto che il candidato sia giudicato non in base al risultato delle prove, bensì in virtù delle conoscenze personali (Cons. Stato, VI, n. 4015 del 2013, cit.)» (Consiglio di Stato, VI, 26.1.2015, n. 327 e da ultimo Consiglio di Stato, sez. III, 28.04.2016, n. 1628);
   – «perché i rapporti personali assumano rilievo, deve trattarsi di rapporti diversi e più saldi di quelli che di regola intercorrono tra maestro ed allievo o tra soggetti che lavorano nello stesso ufficio, essendo rilevante e decisiva la circostanza che il rapporto tra commissario e candidato, trascendendo la dinamica istituzionale delle relazioni docente/allievo, si sia concretato in un autentico sodalizio professionale, in quanto tale “connotato dai caratteri della stabilità e della reciprocità d’interessi di carattere economico” (Cons. Stato, Sez. VI, n. 4015 del 2013), in “un rapporto personale di tale intensità da fare sorgere il sospetto che il giudizio non sia stato improntato al rispetto del principio di imparzialità” (Cons. Stato, Sez. VI, 27.04.2015, n. 2119)» (Consiglio di Stato, sez. III, 28.04.2016, n. 1628);
   – «sussiste una causa di incompatibilità –con conseguente obbligo di astensione– per il componente di una commissione giudicatrice di concorso universitario ove risulti dimostrato che fra lo stesso e un candidato esista un rapporto di natura professionale con reciproci interessi di carattere economico ed una indubbia connotazione fiduciaria» (Cons. Stato Sez. VI, 31.05.2013, n. 3006, TAR Lazio, Roma, 21.02.2014 n. 2173);
   – in sede di pubblico concorso l’incompatibilità tra esaminatore e concorrente si può realmente ravvisare non già in ogni forma di rapporto professionale o di collaborazione scientifica, ma soltanto in quei casi in cui tra i due sussista un concreto sodalizio di interessi economici, di lavoro o professionali talmente intensi da ingenerare il sospetto che la valutazione del candidato non sia oggettiva e genuina, ma condizionata da tale cointeressenza (TAR Lazio, Roma, 21.02.2014 n. 2173, TAR Lazio, Roma Sez. III-bis, 11.07.2013, n. 6945).
Sempre sul medesimo argomento anche l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) è stata chiamata ad esprimersi e lo ha fatto con:
   a) delibera n. 209 del 01.03.2017;
   b) delibera n. 384 del 29.03.2017;
   c) delibera n. 1186 del 19.12.2018.
La condivisibile posizione dell’ANAC, relativamente a una fattispecie simile a quella prospettata nel quesito, prevede che “ai fini della sussistenza di un conflitto di interessi fra il Segretario generale valutatore e un candidato, la collaborazione professionale, per assurgere a causa di incompatibilità, così come disciplinata dall’art. 51 c.p.c., deve presupporre una comunione di interessi economici o di vita tra gli stessi di particolare intensità e tale situazione può ritenersi esistente solo se detta collaborazione presenti i caratteri della sistematicità, stabilità, continuità tali da dar luogo ad un vero e proprio sodalizio professionale”.
In conclusione, rispondendo al quesito, è possibile sostenere che –in assenza di specifiche disposizioni normative comunali, previste in atti regolamentari e statutari o norme del Piano Anticorruzione– non si ravvisa un conflitto d’interessi e il conseguente obbligo di astensione, tra il candidato, dipendente interno, e il presidente della commissione di un concorso pubblico, a meno che, tra i due soggetti, non sia presente una comunione di interessi economici o di vita di particolare intensità che possa dar luogo a un sodalizio professionale (05.02.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO: L'art. 12, primo comma, del d.P.R. n. 487 del 1994 stabilisce che <<Le commissioni esaminatrici, alla prima riunione, stabiliscono i criteri e le modalità di valutazione delle prove scritte>>.
La giurisprudenza ritiene, al riguardo, che non vi sia vizio invalidante qualora tali criteri, pur se non nella prima seduta della commissione, vengano comunque definiti prima che si proceda alla correzione delle prove scritte. Ciò che conta infatti è che venga garantita la trasparenza nell’espletamento della prova concorsuale, risultato questo che si ottiene qualora la determinazione e la verbalizzazione dei criteri avvenga in un momento nel quale non possa sorgere il sospetto che questi ultimi siano volti a favorire o sfavorire alcuni concorrenti.
Né può ritenersi che la fissazione e la pubblicizzazione dei criteri di valutazione sarebbero necessarie per consentire ai candidati di poter meglio calibrare le proprie risposte. L’unica funzione svolta dalla prescrizione contenuta nel richiamato articolo 12 è, come detto, quella di garantire la trasparenza ed imparzialità nella fase di correzione e di verificare ex post la correttezza e congruità delle operazioni valutative; è dunque estranea alla sua ratio la funzione di orientamento ex ante dei candidati nello svolgimento delle prove concorsuali.
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Per pacifico orientamento giurisprudenziale, in materia di pubblici concorsi, le commissioni esaminatrici, chiamate prima a fissare i parametri di valutazione e poi a giudicare le prove svolte dai candidati, non effettuano una ponderazione di interessi, ma esercitano un'amplissima discrezionalità tecnica, sulla quale il sindacato di legittimità del giudice amministrativo è limitato al riscontro del vizio di eccesso di potere in particolari ipotesi limite, riscontrabili dall'esterno e con immediatezza dalla sola lettura degli atti (errore sui presupposti, travisamento dei fatti, manifesta illogicità o irragionevolezza).
Anche la scelta concernente l'individuazione dei criteri di massima per la valutazione delle prove è quindi sindacabile dal giudice amministrativo solo qualora appaia evidente che l'esercizio del potere discrezionale sia trasmodato in uno o più dei vizi sintomatici dell'eccesso di potere.
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Come noto, l’invalidità ad effetto caducante –che comporta l’automatico travolgimento dell'atto consequenziale– si verifica solamente quando l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale, quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi (cfr. sul punto Consiglio di Stato, sez. V, 05.11.2014, n. 5463 che esclude che l’annullamento del bando di concorso abbia effetto caducante sugli atti successivi; si veda anche più in generale Consiglio di Stato, sez. VI, 27.04.2011, n. 2482).
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Con altra censura viene dedotta la violazione degli artt. 3 e 97 Cost. nonché dell’art. 12 del d.P.R. n. 487 del 1995, in quanto la griglia di valutazione delle prove scritte sarebbe stata approvata dopo l’effettuazione delle stesse.
In proposito si osserva quanto segue.
L'art. 12, primo comma, del d.P.R. n. 487 del 1994 stabilisce che <<Le commissioni esaminatrici, alla prima riunione, stabiliscono i criteri e le modalità di valutazione delle prove scritte>>.
La giurisprudenza ritiene tuttavia che non vi sia vizio invalidante qualora tali criteri, pur se non nella prima seduta della commissione, vengano comunque definiti prima che si proceda alla correzione delle prove scritte. Ciò che conta infatti è che venga garantita la trasparenza nell’espletamento della prova concorsuale, risultato questo che si ottiene qualora la determinazione e la verbalizzazione dei criteri avvenga in un momento nel quale non possa sorgere il sospetto che questi ultimi siano volti a favorire o sfavorire alcuni concorrenti (cfr. Consiglio di Stato, VI, 19.03.2015, n. 1411; id. 26.01.2015, n. 325; id. VI, 03.03.2014, n. 990).
Né può ritenersi che la fissazione e la pubblicizzazione dei criteri di valutazione sarebbero necessarie per consentire ai candidati di poter meglio calibrare le proprie risposte. L’unica funzione svolta dalla prescrizione contenuta nel richiamato articolo 12 è, come detto, quella di garantire la trasparenza ed imparzialità nella fase di correzione e di verificare ex post la correttezza e congruità delle operazioni valutative; è dunque estranea alla sua ratio la funzione di orientamento ex ante dei candidati nello svolgimento delle prove concorsuali (cfr. Consiglio di Stato, VI, 19.03.2015, n. 1411).
Ciò premesso, risulta dagli atti depositati in giudizio che, nella vicenda in esame, i criteri di valutazione delle prove scritte sono stati definiti prima dell'inizio della correzione. Ne consegue che la censura in esame non può essere accolta.
Infine, con l’ultimo motivo del ricorso introduttivo, i ricorrenti lamentano il peso eccessivo attribuito dalla Commissione all’indicatore “originalità”, rilevando che tale indicatore sarebbe del tutto inadeguato per valutare prove di carattere matematico-scientifico quali quelle da essi espletate.
A questo proposito il Collegio osserva che, per pacifico orientamento giurisprudenziale, in materia di pubblici concorsi, le commissioni esaminatrici, chiamate prima a fissare i parametri di valutazione e poi a giudicare le prove svolte dai candidati, non effettuano una ponderazione di interessi, ma esercitano un'amplissima discrezionalità tecnica, sulla quale il sindacato di legittimità del giudice amministrativo è limitato al riscontro del vizio di eccesso di potere in particolari ipotesi limite, riscontrabili dall'esterno e con immediatezza dalla sola lettura degli atti (errore sui presupposti, travisamento dei fatti, manifesta illogicità o irragionevolezza). Anche la scelta concernente l'individuazione dei criteri di massima per la valutazione delle prove è quindi sindacabile dal giudice amministrativo solo qualora appaia evidente che l'esercizio del potere discrezionale sia trasmodato in uno o più dei vizi sintomatici dell'eccesso di potere (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 28.02.2018, n. 1218; id. sez. IV, 30.08.2017, n. 4107).
Ciò premesso, è opinione del Collegio che gli interessati non abbiano sufficientemente illustrato le ragioni per le quali l’indicatore originalità sarebbe del tutto inadeguato per procedere alla valutazione delle prove da loro in concreto espletate, essendosi gli stessi limitati a formulare una affermazione generale ed indimostrata secondo cui l’originalità sarebbe sempre estranea alle materie matematiche e scientifiche. Non sono stati pertanto evidenziati quegli elementi di irragionevolezza nella scelta in concreto operata dall’Amministrazione che soli avrebbero potuto giustificare il sindacato di questo giudice.
Per questi motivi, anche la censura in esame è infondata.
Si può ora passare all’esame dei motivi aggiunti con i quali è stata impugnata la graduatoria finale di merito del concorso di cui è causa.
I ricorrenti deducono in questa sede il vizio di invalidità derivata riproponendo le stesse censure già dedotte nel ricorso introduttivo.
Come visto, però, le censure contenute nel ricorso introduttivo sono tutte infondate; non può pertanto sussistere il vizio di invalidità derivata.
Con altra censura contenuta nei motivi aggiunti, i ricorrenti rilevano che il TAR del Lazio, con sentenze n. 1376 del 2017 e n. 1121 del 2017, ha annullato l’art. 8, comma 4, del d.m. n. 95 del 2016, norma applicata nel caso in esame che disciplinava le modalità di calcolo del punteggio complessivo da attribuirsi a prova scritta e prova pratica. Secondo gli stessi ricorrenti queste pronunce produrrebbero effetto favorevole anche nei loro confronti in quanto trattasi di sentenze aventi efficacia erga omnes.
A questo proposito il Collegio deve innanzitutto rilevare che, essendo il primo atto lesivo della posizione dei ricorrenti quello che ha disposto la loro mancata ammissione alla prova orale, l’illegittimità dell’art. 8, comma 4, del d.m. n. 95 del 2016 (o comunque l’illegittimità del criterio di calcolo del punteggio complessivo di prova scritta e prova pratica) avrebbe potuto e dovuto essere dedotta nell’atto introduttivo del presente giudizio con il quale è stato appunto impugnato il provvedimento che ha disposto la mancata ammissione alla prova orale.
Ciò posto, si deve escludere che l’efficacia erga omnes delle pronunce rese dal TAR del Lazio possa automaticamente ricadere a favore dei ricorrenti.
Va difatti osservato che l’annullamento della norma regolamentare contenuta nell’art. 8, comma 4, del d.m. n. 95 del 2016, seppur recepita dal bando di concorso, non ha comportato l’automatico travolgimento dei provvedimenti di mancata ammissione dei concorrenti alla prova orale, e ciò in quanto, come noto, l’invalidità ad effetto caducante –che comporta l’automatico travolgimento dell'atto consequenziale– si verifica solamente quando l'atto successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale, quale inevitabile conseguenza dell'atto anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi (cfr. sul punto Consiglio di Stato, sez. V, 05.11.2014, n. 5463 che esclude che l’annullamento del bando di concorso abbia effetto caducante sugli atti successivi; si veda anche più in generale Consiglio di Stato, sez. VI, 27.04.2011, n. 2482) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 04.02.2019 n. 251 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOTroppo su Facebook: licenziato. Condotta grave rubare tempo alle attività di servizio. Sentenza della Cassazione. La notifica telematica è valida anche con l’invio in Word.
Licenziato il dipendente che sta sempre su Facebook. Decisiva la cronologia del pc, l’incolpato non può smentire i 4.500 accessi con password al social in 18 mesi: «condotta contraria all’etica comune». Anche senza il pdf conta che lo scopo sia raggiunto.

Tempi duri per i dipendenti che stanno sempre su Facebook dal pc aziendale. Scatta il licenziamento disciplinare: rubare tempo alle attività di servizio costituisce una condotta «grave» perché in contrasto con «l'etica comune» e finisce per incrinare la fiducia del datore. Ancora. È valida la notifica telematica anche se alcuni documenti sono inviati in Word: conta il risultato della conoscenza dell'atto.
È quanto emerge dalla sentenza 01.02.2019 n. 3133 della Sez. lavoro della Corte di Cassazione.
Condotte estranee
Bocciato il ricorso della segretaria assunta part-time presso lo studio medico: gran parte della giornata lavorativa risulta trascorsa su Internet per motivi privati; lo dimostrano i circa 4.500 accessi soltanto sul social network blu, sui circa 6 mila totali al web, effettuati nel corso di diciotto mesi dal computer della sua postazione. E risulta «senza dubbio grave» la condotta addebitata perché la lavoratrice approfitta della fiducia del datore che non sottopone il pc della dipendente a rigide verifiche.
A inchiodarla è la semplice cronologia degli accessi alla rete, dunque non un particolare dispositivo di controllo installato sul pc, ma semplici dati che sono registrati da qualsiasi computer: risulta esclusa ogni violazione dell'articolo 4 dello statuto dei lavoratori perché non si configura una verifica sulla produttività o l'efficienza ma finiscono nel mirino condotte estranee alla prestazione.
Credenziali e riferibilità
In effetti la dipendente incolpata non contesta la navigazione in rete durante l'orario di servizio per motivi estranei all'ambito lavorativo: d'altronde al social creato da Mark Zuckerberg si accede solo con password e con l'inserimento delle credenziali la lavoratrice non riesce a smentire che gli accessi contestati siano riferibili a lei.
Inutile dolersi, poi, per la mancata ammissione della consulenza tecnica d'ufficio richiesta per ricostruire l'assetto del personal computer: l'istanza è un mezzo puramente esplorativo, al di là dei dubbi che in assoluto suscita l'ipotesi di identificare chi ha utilizzato il pc con un esame tecnico postumo. Non può poi essere esaminata la violazione delle regole della privacy: è una questione che non risulta sollevata nel corso dei gradi di merito.
Difformità dirimente
Veniamo alla questione processuale. È esclusa la nullità nonostante la violazione delle regole del processo telematico che impongono di notificare atti in formato pdf: risulta dirimente che sia comunque raggiunto lo scopo legale della notificazione. Né rileva che il documento notificato con estensione doc o docx potrebbe essere modificato, diversamente dal pdf: in effetti il ricorso di legittimità deve essere depositato in formato cartaceo e dunque conta soltanto che non vi siano difformità tra quanto notificato in via telematica e ciò che risulta agli atti della Suprema corte.
Alla lavoratrice non resta che pagare le spese di giudizio e il contributo unificato aggiuntivo
(articolo ItaliaOggi del 02.02.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni organizzative, aumenti di stipendio fino ai nuovi tetti contrattuali solo negli Enti senza dirigenti.
Ha resistito alla falcidia degli emendamenti in fase di conversione del decreto semplificazioni il possibile incremento della remunerazione delle posizioni organizzative, ma solo per gli enti privi di dirigenza. Il finanziamento degli aumenti, decisi in via autonoma da questi enti, dovrà avvenire all'interno delle risorse previste dal contratto nazionale (articolo 15, commi 2 e 3, del contratto 21.05.2018), ma dovrà essere coperto, se sussiste la capacità di spesa in bilancio, con una riduzione per equivalente della capacità assunzionale.
Le indicazioni dell'emendamento approvato
L'emendamento ha accolto la richiesta elaborata dall'Anci, limitandone l'applicazione ai soli enti privi di dirigenti, in considerazione delle maggiori responsabilità connesse agli incaricati di posizione organizzativa, dove il sindaco attribuisce a questo personale anche le funzioni dirigenziali (articolo 107 del testo unico degli enti locali). Non sono state, invece, considerate sufficienti le indicazioni strategiche contenute nel contratto del 21.05.2018 che ha previsto in modo innovativo, ai titolari di posizione organizzativa negli enti con dirigenza, il possibile conferimento di deleghe dirigenziali.
I limiti all'incremento economico
La possibilità riconosciuta agli enti privi di dirigenti, tuttavia, rimane condizionata a una serie di verifiche di neutralità finanziaria della spesa.
Il primo limite è dato dall'obbligatoria, correlata e identica riduzione delle capacità assunzionali, ossia riducendo il ricorso alle assunzioni esterne (concorsi, scorrimento di graduatorie, passaggio da tempo parziale a tempo pieno e mobilità non neutre). Si ricorda che le capacità assunzionali per l'anno 2019 sono pari al 100% del valore economico delle cessazioni avvenute nell'anno 2018, alle quali andranno aggiunti gli eventuali resti assunzionali non utilizzati nel triennio precedente, pari agli importi delle cessazioni, degli anni 2017, 2016 e 2015, non utilizzate.
Altro limite è rappresentato dalla spesa complessiva del personale che non potrà essere superiore alla spesa media sostenuta nel triennio 2011-2013 (comma 557-quater dell'articolo 1 della legge 296/2006) ovvero, per gli enti con popolazione inferiore a 1.000 abitanti, alla spesa sostenuta nell'anno 2008 (comma 562 della legge finanziaria 2007).
La terza e ultima condizione, essendo la maggiore spesa corrente finanziata dal bilancio, riguarda pur sempre il mantenimento degli equilibri di parte corrente.
Qualora queste condizioni fossero rispettate, allora i maggiori importi erogati ai titolari di posizioni organizzative (nel limite massimo di 16.000 euro per il personale di categoria D e 9.500 per quello di categoria C), rispetto a quelli corrisposti alla data di entrata in vigore della legge di conversione, non sarà soggetta al limite stabilito dall'articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017 che prevede di non superare i valori del salario accessorio stanziati nell'anno 2016 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'01.02.2019).

gennaio 2019

PUBBLICO IMPIEGORisarcibile il danno da mancata assunzione se il bando di concorso è illegittimo.
L'annullamento del bando di concorso per selezionare personale destinato alla Provincia di Campobasso, ritenuto illegittimo, può determinare la condanna della pubblica amministrazione al risarcimento per perdita di chance soprattutto nel caso in cui risulti fondata la possibilità di accedere (anche per i curricula dei partecipanti) all'assunzione.

Questo, in sintesi, l'importante approdo al quale giunge il TAR Molise con la sentenza 31.01.2019 n. 46.
La richiesta di risarcimento
Il giudice molisano ha affronta la questione della legittimità della richiesta di risarcimento danni per mancata assunzione. Nel caso specifico, i ricorrenti hanno impugnato innanzi al Capo dello Stato un bando di assunzione a tempo determinato (indetto dalla Provincia di Campobasso) annullato per la presenza di una clausola (illegittima) che impone il requisito della residenza in un Comune della Regione.
Successivamente, su ricorso della Provincia, il decreto presidenziale è stato annullato in primo grado, mentre il Consiglio di Stato (appello promosso dai ricorrenti) ha ribadito l'illegittimità del bando. Il lungo decorso dei tempi, però, ha impedito ai ricorrenti di partecipare alle selezioni e per effetto di quanto, gli stessi, si sono determinati a chiedere il risarcimento dei danni per mancata assunzione.
La Provincia, chiamata in causa, nelle proprie memorie ha chiesto al giudice di respingere l'istanza stante il «mancato assolvimento dell’onere della prova sulla condotta illegittima e sul danno ingiusto» nonché per «mancanza di una perdita di chance risarcibile, stante la non elevata possibilità dei ricorrenti di risultare vincitori nella selezione, trattandosi, (…), di una mera aspettativa di fatto».
La decisione
Il giudice accoglie invece le istanze risarcitorie fondando il proprio ragionamento sulla circostanza per cui «l’imposizione quale requisito» di partecipazione alla selezione della «residenza dei concorrenti (…), censurata perché contraria alla legge e ai principi costituzionali, è rilevante ai fini dell’invocata tutela e spiega il nesso di causalità tra la condotta antigiuridica (colposa o dolosa) e il procurato pregiudizio patito dagli aspiranti che hanno subito l’esclusione dal bando per via della mancanza del requisito di residenza».
«Tale pregiudizio, si legge in sentenza, deve ritenersi sicuramente risarcibile ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile norma che impone il dovere primario di non cagionare danni ingiusti».
L'elemento soggettivo della responsabilità civile, prosegue il giudice, deve ritenersi «insito nel comportamento colpevole, derivato dalla scelta inopinata di violare, nella procedura, i fondamentali parametri della Costituzione e della legge (art. 1 legge n. 241/1990), vale a dire i principi di uguaglianza, imparzialità, trasparenza, pari opportunità, proporzionalità, ragionevolezza, adeguatezza, non discriminazione, nonché il principio di legalità di cui all’articolo 51, comma primo, della Costituzione, a tenore del quale tutti i cittadini italiani possono accedere agli uffici pubblici, secondo i requisiti stabiliti dalla legge».
L'utilizzo del requisito della residenza –pur consentito in limitatissime ipotesi dal decreto legislativo 165/2001– nel caso di specie è stato utilizzato in maniera fuorviante e non appropriata in quanto non necessario «all’assolvimento di servizi altrimenti non attuabili o almeno non attuabili con identico risultato».
Il risarcimento
L'accertata illegittimità dell'azione amministrativa, integra pertanto «ex se l’illiceità della condotta» (Cassazione civile, sezioni unite n. 500/1999, n. 13164/2005; n. 20358/2005; Cons. Stato n. 3169/2001, n. 1261/2004, n. 5500/2004, n. 478/2005) aprendo al risarcimento per danno ingiusto.
In questo senso, il danno da perdita di chance «si verifica tutte le volte in cui il venir meno di un’occasione favorevole, cioè la perdita della possibilità di conseguire un risultato utile, è determinato e causato dell’adozione di un atto illegittimo da parte della Pa determinando un mancato guadagno». Nel caso di specie, in base ai curricula risultava «provata» l'elevata possibilità di risultare vincitori della selezione.
Il giudice, infine, non condivide però il calcolo del quantum del risarcimento fondato sulla mancata percezione delle retribuzioni dovendo questa, caso mai, essere ricalibrata tenendo conto del numero degli aspiranti che –senza il criterio della residenza– avrebbero potuto essere più numerosi. Pertanto, conclude il giudice, la determinazione del risarcimento deve avvenire «secondo una valutazione equitativa, ex articolo 1226 del codice civile, commisurandola ove possibile al grado di probabilità che quel risultato favorevole avrebbe potuto essere conseguito» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.02.2019).

PUBBLICO IMPIEGORisarcimento per perdita di chance all'escluso dal concorso per il requisito della residenza in Regione.
Va risarcito a titolo di perdita di chance il concorrente escluso da una selezione per mancanza del requisito della residenza in un Comune della Regione, requisito dichiarato illegittimo a seguito della decisione di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
Lo ha stabilito il TAR Molise con la sentenza 31.01.2019 n. 46.
Si trattava di bando della Provincia di Campobasso per l'istaurazione di rapporti di lavoro a tempo determinato per il profilo professionale di istruttore direttivo - categoria D1.
La prova del danno
Secondo il Tar non vi è necessità di una ulteriore prova della condotta che ha causato il danno ingiusto (articolo 2043 del codice civile) né sussiste margine per la scusabilità dell'errore della Pa dal momento che non poteva giustificabilmente sfuggire all'Amministrazione (e ai suoi funzionari) il dato palese e inequivocabile dell'illegittimità radicale della clausola di preclusione territoriale contenuta nel bando.
È evidente e non necessita di prova il fatto che dal comportamento illegittimo della Provincia sia derivato un danno patrimoniale, qualificabile in termini di pregiudizio per la perdita di chance, da parte dei ricorrenti. È palese la sussistenza del rapporto causale tra il fatto ostativo (l'esclusione dalla selezione) e il pregiudizio della perdita di una ragionevole probabilità di conseguimento del risultato atteso dai ricorrenti, di collocarsi, previo superamento della prova, in una posizione non solo idonea ma utile nello scorrimento di una delle sei graduatorie di concorso definitivamente approvate.
La perdita di chance
I giudici molisani hanno poi ricordato che il danno da perdita di chance si verifica tutte le volte in cui il venir meno di un'occasione favorevole, cioè la perdita della possibilità di conseguire un risultato utile, è determinato e causato dell'adozione di un atto illegittimo da parte della Pa, determinando un mancato guadagno. La chance è un bene giuridico autonomo, integrante il patrimonio del soggetto.
Va così risarcita la perdita di chance, ove sussista la lesione di un interesse giuridicamente tutelato, avendo la pretesa di risarcimento a oggetto non un danno futuro e incerto ma un danno attuale, quale è appunto la perdita dell'occasione favorevole. La lesione della chance, quindi, comporta un danno valutabile in relazione alla probabilità perduta, piuttosto che al vantaggio sperato.
No al danno esistenziale
Il Tar ha poi considerato che non può essere, nella fattispecie, riconosciuta la sussistenza di un danno esistenziale, poiché non vi è prova alcuna che dall'evento dannoso (l'esclusione dal concorso) sia derivata una compromissione dell'integrità psico-fisica dei ricorrenti e, non essendo stato provato alcun danno emergente (quale potrebbe essere stata, ad esempio, un'eventuale spesa sostenuta da ciascun ricorrente per acquisire la possibilità di partecipare alla selezione), il Tar ha quindi verificato la misura del mancato guadagno (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.02.2019).

PUBBLICO IMPIEGO: Malattia e congedo straordinario per assistenza familiare.
Domanda
La malattia interrompe il congedo straordinario retribuito per assistenza a familiare portare di handicap grave?
Risposta
La fonte del diritto che disciplina il congedo straordinario retribuito è l’art. 42, comma 5 e seguenti, del d.lgs. 151/2001. Si tratta di uno strumento rivolto a tutelare il diritto indisponibile della persona disabile di ricevere assistenza da parte dei soggetti legittimati indicati dalla norma.
Appare evidente che il presupposto affinché questo possa accadere, siano le buone condizioni di salute del soggetto che realizza l’intento assistenziale. Ma cosa accade se durante il congedo retribuito, il richiedente si ammala?
Va ricordato che la misura del congedo retribuito è pari a due anni (art. 42, comma 5-bis, d.lgs. 151/2001), fruibili continuativamente ma anche in modo frazionato (a giorni interi, ma non ad ore).
Sono pertanto molto diverse le situazioni di fronte alle quali ci si può imbattere.
Può accadere che nei due anni di congedo occorra un episodio morboso di lunga durata, ma può anche accadere che in un periodo frazionato molto breve di congedo straordinario, occorra un evento morboso che attraversa gli stessi periodi di congedo in precedenza programmati.
È indubbio che il giustificativo dell’assenza di un dipendente deve essere riconducibile ad un solo istituto giuridico: malattia o congedo straordinario?
Il dipartimento della Funzione Pubblica, organo competente in materia, non offre soluzioni interpretative che invece l’INPS ha fornito nella circolare n. 64 del 15.03.2001 come segue: “Il verificarsi, per lo stesso soggetto, durante il “congedo straordinario”, di altri eventi che di per sé potrebbero giustificare una astensione dal lavoro, non determina interruzione nel congedo straordinario. In caso di malattia o maternità è però fatta salva una diversa esplicita volontà da parte del lavoratore o della lavoratrice volta ad interrompere la fruizione del congedo straordinario, interruzione che può comportare o meno, secondo le regole consuete, l’erogazione di indennità a carico dell’INPS; in tal caso la possibilità di godimento, in momento successivo, del residuo del congedo straordinario suddetto, è naturalmente subordinata alla presentazione di nuova domanda. A proposito della indennizzabilità o meno dell’evento di malattia o di maternità che consente l’interruzione del congedo straordinario si sottolinea in particolare che, considerato che la fruizione del congedo straordinario comporta la sospensione del rapporto di lavoro, l’indennità è riconoscibile solo se non sono trascorsi più di 60 giorni dall’inizio della sospensione (in linea di massima coincidente, come è noto, con l’ultima prestazione lavorativa)”.
Le indicazioni fornite dall’Inps valgono sicuramente per le aziende private, per le quali l’Inps indennizza il congedo straordinario. Diversa è la condizione della Pubblica Amministrazione, che si fa carico dell’indennità di congedo straordinario e che può cautamente assumere gli indirizzi forniti dall’Inps non trascurando la ratio degli istituti e la valenza sociale degli interessi tutelati (31.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGOL'assoluzione piena del dipendente pubblico non basta da sola per il rimborso delle spese legali.
La costituzione dell'ente come parte civile e la tipologia di reato contestato contrario ai doveri d’ufficio possono essere rilevanti per escludere il rimborso delle spese legali sostenute per la difesa del dipendente pubblico, perché da sola sufficiente l'assoluzione piena non è sufficiente.
Queste in sintesi le conclusioni della Corte di Cassazione - Sez. I civile (ordinanza 29.01.2019 n. 2475).
I fatti
La vicenda riguarda l'assoluzione piena, disposta dal giudice penale, per il reato di corruzione e con costituzione di parte civile da parte dell'ente. Pur riguardando un amministratore regionale, la disciplina applicabile, per espressa previsione delle legge regionale, è quella dei dipendenti delle amministrazioni statali (articolo 18, comma 1, del Dl 67/1997). La richiesta di rimborso delle spese legali sostenute da parte dell'amministratore ha fatto seguito alla piena assoluzione del dipendente ma con rifiuto da parte dell'ente.
Il Tribunale di primo grado ha confermato la non rimborsabilità delle spese legali, in considerazione del conflitto di interessi reso evidente dalla costituzione di parte civile dell'ente. Sulla stessa linea la sentenza della Corte d’appello che, nonostante la piena formula assolutoria dai reati ascritti, ha ritenuto che il reato di corruzione non potesse avere alcun riferimento diretto a un espletamento di un servizio o all'assolvimento di obblighi istituzionali. Infatti, il reato di corruzione è di per sé sufficiente a ritenere che si versasse in una condotta contraria ai doveri d'ufficio, di qui il conflitto di interessi con l'ente di appartenenza che esclude la rimborsabilità delle spese.
Il ricorso in Cassazione è stato motivato per una non corretta interpretazione, a dire dell'amministratore regionale, della normativa sul conflitto di interessi, dove l'assoluzione piena nel giudizio penale ne cancella sin dall'origine gli effetti, a nulla rilevando la costituzione di parte civile dell'ente. Se ciò non fosse vero le funzioni del dipendente verrebbero incise sin dall'inizio a prescindere dall'esito del procedimento penale.
Le precisazioni della Cassazione
Secondo i giudici di legittimità il rimborso delle spese legali, reclamate dal dipendente all'ente di appartenenza, devono obbligatoriamente trovare la loro causa in un interesse della pubblica amministrazione. Questo interesse si realizza solo qualora sussista un legame inscindibile con l'attività espletata dal dipendente pubblico e un fine pubblico della funzione svolta. Questo principio implica, pertanto, che ci sia un nesso di strumentalità tra l'adempimento del dovere e il compimento dell'atto, nel senso che il dipendente non avrebbe assolto i suoi compiti se non compiendo quel fatto o quell'atto.
In conclusione, se l'accusa è quella di aver commesso un reato che contempli l'ente locale come parte offesa (e, quindi, in oggettiva situazione di conflitto di interessi), il diritto al rimborso non sorge affatto, escludendo dunque che esso emerga solo nel momento in cui il dipendente sia stato, in ipotesi, assolto dall'accusa.
Anche a voler escludere la costituzione di parte civile dell'ente, il rimborso delle spese è stato negato in quanto l'imputazione penale ha riguardato fatti di grave violazione dei doveri d'ufficio -delitto di corruzione- che avrebbero potuto, qualora accertati positivamente, legittimare l'ente a chiedere il risarcimento dei danni al dipendente.
L'assoluzione piena ha, invece, impedito che l'ente potesse reclamare un risarcimento, non potendo in questo caso il dipendente chiedere anche il rimborso delle spese sopportate in presenza di questi interessi contrapposti (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'11.02.2019).
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MASSIMA
I primi due motivi, da esaminare congiuntamente poiché connessi, sono infondati.
La Corte d'appello ha fatto corretta applicazione dei principi in materia a tenore dei quali (v. Cass. n. 2366/2016)
l'Amministrazione è legittimata a contribuire alla difesa del suo dipendente imputato in un procedimento penale sempre che sussista un interesse specifico al riguardo e tale interesse è ravvisabile qualora sussista l'imputabilità dell'attività all'Amministrazione stessa e dunque una diretta connessione di tale attività con il fine pubblico (così anche Cass. n. 5718/2011; n. 24480/2013; Cass. n. 27871/2008; Cass., n. 20561/2018).
La connessione dei fatti con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali va intesa nel senso che tali atti e fatti devono essere riconducibili all'attività funzionale del dipendente stesso in un rapporto di stretta dipendenza con l'adempimento dei propri obblighi, dovendo trattarsi di attività che necessariamente si ricollegano all'esercizio diligente della pubblica funzione, nonché occorre che vi sia un nesso di strumentalità tra l'adempimento del dovere e il compimento dell'atto, nel senso che il dipendente non avrebbe assolto ai suoi compiti se non compiendo quel fatto o quell'atto (Consiglio di Stato, 26.02.2013, n. 1190, e 22.12.1993, n. 1392).
Quanto all'ulteriore requisito costituito dall'assenza di un conflitto di interessi con l'Amministrazione di appartenenza, preme rilevare che questa Corte ha affermato che
il conflitto d'interessi è rilevante indipendentemente dall'esito del giudizio penale e dalla relativa formula di assoluzione; ne consegue che al dipendente comunale, assolto dall'imputazione, non compete il rimborso delle spese legali qualora il giudice penale abbia evidenziato che i fatti ascrittigli esulavano dalla funzione svolta e costituivano grave violazione dei doveri d'ufficio (Cass. n. 2297/2014).
Pertanto, i motivi in esame non hanno fondamento in quanto vertono esclusivamente sulla censura della decisione impugnata che non avrebbe tenuto conto dell'assoluzione con la formula "perché il fatto non sussiste", formula ritenuta erroneamente, di per sé, legittimante il rimborso delle spese legali della difesa nel processo penale; invece, il presupposto cui è subordinato tale rimborso consiste nel fatto che la condotta di reato, come ascritta all'imputato, si ponga in violazione dei doveri d'ufficio, con conseguente dissoluzione del rapporto d'immedesimazione organica del dipendente con l'Ente di appartenenza.
In altri termini, ai fini del rimborso richiesto è necessario che il fatto di reato oggetto dell'imputazione penale non configuri una fattispecie ontologicamente in conflitto con i doveri d'ufficio che determini ipso facto la legittimazione dello stesso Ente di costituirsi parte civile.
Da tale argomentazione discende che
l'assoluzione, ancorché con la formula "piena", non legittima il richiesto rimborso; il principio è stato ribadito da questa Corte, secondo il cui orientamento se l'accusa è quella di aver commesso un reato che contempli l'ente locale come parte offesa (e, quindi, in oggettiva situazione di conflitto di interessi), il diritto al rimborso non sorge affatto, escludendo dunque che esso emerga solo nel momento in cui il dipendente sia stato, in ipotesi, assolto dall'accusa (Cass., ord. n. 18256/2018; in termini anche Cass. S.U., 04.06.2007 n. 13048).

PUBBLICO IMPIEGO: Congedo papà anno 2019.
Domanda
Il congedo obbligatorio dei papà è fruibile anche dai lavoratori pubblici o solo dai privati? E cosa cambia nel 2019?
Risposta
Il congedo obbligatorio dei padri lavoratori nasce nella legge Fornero n. 92 del 26.06.2012 e riceve successiva disciplina nelle diverse Leggi di Bilancio che hanno di volta in volta prorogato la disciplina sperimentale, ampliando il congedo di anno in anno.
Si tratta di uno strumento di sostegno alla genitorialità che mira a promuovere una cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli all’intero della coppia.
Tuttavia, come ha avuto modo di chiarire anche il Dipartimento della Funzione Pubblica con nota del 20.02.2013, la disciplina che regolamenta questo istituto non è direttamente applicabile ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
Esistono due diversi tipi di congedo dei padri: quello obbligatorio e quello facoltativo.
La disciplina di dettaglio dell’istituto, contenuta nel decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 22.12.2012, ha precisato che, mentre i giorni di congedo obbligatorio sono aggiuntivi rispetto al congedo di maternità, la fruizione, da parte del padre, del congedo facoltativo, è invece condizionata alla scelta della madre lavoratrice di non fruire di altrettanti giorni del proprio congedo di maternità, con conseguente anticipazione del termine finale del congedo post partum della madre, di un numero di giorni pari al numero di giorni fruiti dal padre.
Quindi l’attenzione va rivolta a quei casi in cui un padre lavoratore dipendente di un’azienda privata, goda del congedo facoltativo, “accorciando” in questo modo di pari durata, il congedo obbligatorio della mamma dipendente pubblica.
La disciplina vigente fino al 31.12.2018 è rappresentata in questo modo:

L. n. 92 del 28.06.2012 - Art. 24, comma a)
  
2013-2014-2015: 1 GIORNO OBBLIGATORIO - 2 GIORNI FACOLTATIVI

L. n. 208 del 28.12.2015 - Art. 1, comma 205
  
2016: 2 GIORNI OBBLIGATORI - 2 GIORNI FACOLTATIVI

Legge di Bilancio 2017 - Art. 1, comma 354
  
2017: 2 GIORNI OBBLIGATORI
  
2018: 4 GIORNI OBBLIGATORI - 1 GIORNO FACOLTATIVO

La legge di Bilancio del 2019, modifica e novella il contenuto del comma 354, art. 1, della Legge di Bilancio 2017, prevedendo per l’
anno 2019 quanto segue:
   • 5 giorni di congedo obbligatorio per il padre lavoratore dipendente;
   • 1 giorno di congedo facoltativo per il padre lavoratore dipendente (24.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGOAssenteisti, truffa aggravata anche se il danno è lieve.
È configurabile il reato di truffa aggravata per il dipendente che attesti la sua presenza malgrado si sia allontanato dall'ufficio, anche se il danno economico causato all'ente sia di per sé poco rilevante dal punto di vista economico. Difatti, la condotta incide sull'organizzazione dell'ente stesso e lede gravemente il rapporto fiduciario tra il singolo impiegato e il datore di lavoro pubblico. In queste ipotesi può, eventualmente, configurarsi l'attenuante della speciale tenuità del danno.

Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, Sez. II penale, con la sentenza 23.01.2019 n. 3262.
Il caso
Al centro della vicenda c'è l'ennesimo caso di furbetti del cartellino. Questa volta il protagonista è un solo dipendente pubblico, indagato per truffa aggravata perché quasi quotidianamente, aggirando il sistema di rilevazione dell'orario di presenza, decurtava minuti dalle sue giornate lavorative. Per questo motivo il Gip aveva disposto la misura interdittiva della sospensione dall'esercizio dei pubblici uffici per la durata di due mesi.
Il dipendente pubblico però ha impugnato la decisione ottenendo dal tribunale del riesame la revoca della misura. Per quest'ultimo, infatti, il raggiro contestato era sì quasi quotidiano, ma di fatto inconsistente perché avrebbe prodotto nel complesso assenze di pochi minuti quantificabili in termini retributivi in poco più di 50 euro, traducendosi perciò in un danno poco apprezzabile per la pubblica amministrazione.
La decisione
La Cassazione, con una sentenza concisa e ben argomentata, boccia totalmente la decisione del riesame. Il Tribunale, infatti, ha escluso la configurabilità della truffa valorizzando elementi che, al più, evidenziano la sua non particolare gravità ma non ne impediscono la configurabilità. La Corte ricorda che la falsa attestazione del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, in qualunque modo essa avvenga, integra il reato di truffa aggravata, sempre che i periodi di assenza siano economicamente apprezzabili.
In quest'ottica, anche una indebita percezione di poche centinaia di euro costituisce un danno economicamente apprezzabile per il datore di lavoro pubblico, potendo l'esiguità della somma integrare l'attenuante della speciale tenuità (articolo 62, comma 4, codice penale) non certo impedire la configurabilità del reato previsto dall'articolo 640, comma 2, n. 1, del codice penale.
Il Collegio rincara poi la dose affermando che per valutare l'entità del danno non basta avere riguardo alla perdita economica ma assume rilievo anche l'incidenza della condotta delittuosa sull'organizzazione dell'ente pubblico, il quale potrebbe aver subito un pregiudizio rilevante per effetto delle pur minime assenze, non tanto sotto un profilo quantitativo, ma sul piano dell'efficienza degli uffici.
Per i giudici di legittimità, infatti, le singole assenze incidono sull'organizzazione dell'ufficio «alterando la preordinata dislocazione delle risorse umane» e «modificando arbitrariamente le prestabilite modalità di prestazione della propria opera».
In sostanza, chiosa il Collegio, lo svolgimento della quotidiana attività amministrativa è «messa a repentaglio dalle personali iniziative di quei dipendenti che mutino a proprio piacimento i prestabiliti orari di presenza in ufficio» e che forniscono una «prestazione diversa da quella doverosa» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.01.2019).
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MASSIMA
2. Ciò premesso, come osservato dal P.M. ricorrente, il Tribunale ha erroneamente escluso la configurabilità della contestata truffa, valorizzando elementi atti ad evidenziarne la non particolare gravità, ma che non ne impedivano la configurabilità.
2.1. Questa Corte (Sez. 5, sentenza n. 8426 del 17/12/2013, dep. 2014, Rv. 258987 - 01) ha già osservato che
la falsa attestazione del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, integra il reato di truffa aggravata ove il soggetto si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza, sempre che questi ultimi siano economicamente apprezzabili, osservando che anche una indebita percezione di poche centinaia di euro, corrispondente alla porzione di retribuzione conseguita in difetto di prestazione lavorativa, costituisce un danno economicamente apprezzabile per l'amministrazione pubblica.
2.2.
L'affermazione può essere condivisa, ma con la precisazione che la speciale tenuità del danno arrecato alla PA potrebbe al più legittimare il riconoscimento della circostanza attenuante di cui all'art. 62, comma 1, n. 4, c.p. (tenuto anche conto dell'entità del profitto percepito), non certo impedire la configurabilità del reato.
2.3. Questa Corte (Sez. 6, sentenza n. 30177 del 04/06/2013, Rv. 256643) ha già chiarito che,
anche ai fini della configurabilità della circostanza attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità, rilevano, oltre al valore economico del danno, anche gli ulteriori effetti pregiudizievoli cagionati alla persona offesa dalla condotta delittuosa complessivamente valutata (fattispecie relativa ad una truffa commessa in danno di Poste Italiane S.p.A. attraverso l'utilizzo abusivo dei cartellini di ingresso e la conseguente alterazione dei dati sulle presenze in ufficio, in cui è stata esclusa l'attenuante, richiamando la grave lesione del rapporto fiduciario determinata dalla condotta delittuosa).
2.4. Osserva, in proposito, il collegio che
assume all'uopo rilievo anche l'incidenza dell'accertata condotta delittuosa sull'organizzazione dell'ente interessato, che ben potrebbe aver subito pregiudizio rilevante per effetto delle pur minime assenze de quibus, poiché esse (ed il danno che ne consegue a carico della PA interessata) vanno valutate non soltanto sotto un profilo quantitativo, in riferimento al quantum di retribuzione in ipotesi indebitamente percepito dal deceptor, ma anche in quanto mettano in pericolo l'efficienza degli uffici: le singole assenze incidono, infatti, sull'organizzazione dell'ufficio, alterando la preordinata dislocazione delle risorse umane, nella quale il singolo funzionario non può ingerirsi, modificando arbitrariamente le prestabilite modalità di prestazione della propria opera quanto agli specifici orari di presenza.
La dislocazione degli impiegati nei singoli uffici è, infatti, predisposta dai dirigenti a ciò preposti curando l'utile e razionale impiego delle risorse disponibili, al fine di assicurare la proficuità (anche in favore dell'utenza) dello svolgimento della quotidiana attività amministrativa, certamente messa a repentaglio dalle personali iniziative di quei dipendenti che mutino a proprio piacimento i prestabiliti orari di presenza in ufficio (con il rischio di creare nocive scoperture ed inutili accavallamenti, e comunque fornendo una prestazione diversa da quella doverosa, non soltanto per durata, ma anche quanto all'orario di inizio e di fine).
3. Il provvedimento impugnato va, pertanto, annullato, con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Reggio Calabria (Sezione per il riesame delle misure coercitive), che valuterà nuovamente gli elementi acquisiti, uniformandosi al seguente principio di diritto: «
la falsa attestazione del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, integra il reato di truffa aggravata ove il soggetto si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza, che rilevano di per sé -anche a prescindere dal danno economico cagionato all'ente truffato fornendo una prestazione nel complesso inferiore a quella dovuta- in quanto incidono sull'organizzazione dell'ente stesso, modificando arbitrariamente gli orari prestabiliti di presenza in ufficio, e ledono gravemente il rapporto fiduciario che deve legare il singolo impiegato all'ente; di tali ultimi elementi è necessario tenere conto anche ai fini della valutazione della configurabilità della circostanza attenuante di cui all'art. 62, comma 1, n. 4 c.p.».

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Progressioni verticali.
Domanda
Quali sono le modalità per realizzare le progressioni di carriera?
Risposta
A legislazione vigente esistono due normative che ammettono le progressioni di carriera. La prima è l’art. 24 del d.lgs. 150/2009 (Brunetta):
   Art. 24. Progressioni di carriera
1. Ai sensi dell’articolo 52, comma 1-bis, del decreto legislativo n. 165 del 2001, come introdotto dall’articolo 62 del presente decreto, le amministrazioni pubbliche, a decorrere dal 1° gennaio 2010, coprono i posti disponibili nella dotazione organica attraverso concorsi pubblici, con riserva non superiore al cinquanta per cento a favore del personale interno, nel rispetto delle disposizioni vigenti in materia di assunzioni.
2. L’attribuzione dei posti riservati al personale interno è finalizzata a riconoscere e valorizzare le competenze professionali sviluppate dai dipendenti, in relazione alle specifiche esigenze delle amministrazioni
”.
La seconda è l’art. 22, comma 15, del d.lgs. 75/2017 (Madia):
   Art. 22, comma 15
Per il triennio 2018-2020, le pubbliche amministrazioni, al fine di valorizzare le professionalità interne, possono attivare, nei limiti delle vigenti facoltà assunzionali, procedure selettive per la progressione tra le aree riservate al personale di ruolo, fermo restando il possesso dei titoli di studio richiesti per l’accesso dall’esterno. Il numero di posti per tali procedure selettive riservate non può superare il 20 per cento di quelli previsti nei piani dei fabbisogni come nuove assunzioni consentite per la relativa area o categoria. In ogni caso, l’attivazione di dette procedure selettive riservate determina, in relazione al numero di posti individuati, la corrispondente riduzione della percentuale di riserva di posti destinata al personale interno, utilizzabile da ogni amministrazione ai fini delle progressioni tra le aree di cui all’articolo 52del decreto legislativo n. 165 del 2001”.
Nel primo caso la norma fa riferimento ai concorsi pubblici e ammette una riserva non superiore al 50% a favore del personale interno.
In altre parole, l’ente può bandire un concorso per la copertura di due posti (ad esempio: Istruttore Direttivo Amministrativo, Cat. D), di cui uno riservato a personale interno che risulta idoneo nella graduatoria. In questo caso, quindi, la riserva –per forza– deve essere calcolata sui posti messi a concorso svolgendo prima le procedure di mobilità di cui all’art. 34-bis e all’art. 30 del d.lgs. 165/2001.
Nel secondo caso il riferimento è al 20% dei posti previsti nei piani triennali dei fabbisogni 2018/2020, ma non si parla di posti messi a concorso pubblico.
In questo caso, quindi, la riserva del 20% si può applicare sui posti che l’ente, in base al Piano Triennale del fabbisogni, può assumere nel triennio. Quindi, se i posti sono CINQUE, uno può essere coperto con una procedura selettiva riservata al personale interno.
Ne restano quattro. Se di questi 4 posti, uno viene ricoperto con la mobilità di cui all’art. 30, comma 2-bis, del d.lgs. 165/2001, ciò non inficia la regolarità della procedura. Il riferimento è all’art. 30, comma 2-bis, perché quella è la procedura di mobilità che è propedeutica all’indizione del concorso pubblico. Si ricorda, infine, che la norma “Madia” è valida solo per il triennio 2018/2020 (17.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGODirigenti, niente compenso extra per gli incarichi in più.
Gli incarichi aggiuntivi che comportano la reggenza ad interim di altre unità organizzative diverse da quella di cui il dirigente è titolare non implicano la duplicazione della retribuzione, trattandosi di funzioni rientranti nei compiti istituzionali del dirigente pubblico e non di funzioni diverse ed ulteriori per le quali esista una precisa e specifica previsione che attribuisca il relativo potere e preveda un compenso aggiuntivo.
Lo afferma la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con l'ordinanza 15.01.2019 n. 836 .
Il caso
Il caso riguarda il dirigente di una Asl il quale aveva chiesto in sede giudiziale il riconoscimento, in aggiunta al trattamento retributivo percepito, dell'indennità di posizione e di risultato per il periodo in cui aveva ricoperto altri incarichi dirigenziali in aggiunta a quello di cui era titolare. Richiesta accolta dal Tribunale, secondo cui l’attività non rientra nei compiti e nelle funzioni proprie del dirigente.
L'appello proposto dall'Asl, che ha invocato l'applicazione del principio di onnicomprensività della retribuzione dei dirigenti, è stato rigettato dalla Corte d'appello, la quale ha a sua volta ritenuto che l'attività svolta dal dirigente non rientrava tra i compiti istituzionali strettamente connessi all'incarico conferito, per cui non avrebbe potuto trovare applicazione il principio di onnicomprensività.
L'onnicomprensività
Di tutt'altro avviso la Corte di cassazione, chiamata in causa dalla Asl secondo cui il contratto ha definito la struttura della retribuzione prevedendo, oltre allo stipendio tabellare, solo la retribuzione di posizione e di risultato, per cui anche in relazione al conferimento di incarichi ad interim deve valere il principio di onnicomprensività.
La Suprema Corte ha richiamato il principio ormai consolidato secondo cui nel pubblico impiego privatizzato vige il principio di onnicomprensività della retribuzione dirigenziale, in ragione del quale il trattamento economico remunera tutte le funzioni e i compiti attribuiti ai dirigenti secondo il contratto individuale o collettivo, nonché qualsiasi incarico conferito dall'amministrazione di appartenenza o su designazione della stessa.
Nel caso specifico, anche se la reggenza ad interim comportasse contemporaneamente l'assunzione di responsabilità di due distinte unità operative, secondo i giudici della Cassazione non può spettare la duplicazione della retribuzione, trattandosi sempre di funzioni rientranti nei compiti istituzionali del dirigente pubblico e non di funzioni diverse ed ulteriori per le quali esista una precisa e specifica previsione che attribuisca il relativo potere e preveda un compenso aggiuntivo.
La posizione dell'Aran
Più aperta la posizione dall'Aran, espressa più volte in sede di orientamenti applicativi dei contratti della dirigenza. L'Agenzia sostiene che è da escludere radicalmente che a un dirigente possano essere erogate due o più retribuzioni di posizione. Tuttavia, sfruttando le clausole contrattuali che impongono di utilizzare integralmente le risorse destinate al finanziamento della retribuzione di posizione e destinare quelle eventualmente residue per la retribuzione di risultato, l'Agenzia ritiene che sia possibile utilizzare tali risorse per valorizzare il risultato dei dirigenti incaricati ad interim in modo da tenere conto anche delle responsabilità connesse alla gravosità della situazione determinatasi per effetto dell'affidamento di più incarichi contemporaneamente.
La valorizzazione deve essere realizzata tenendo conto dei criteri di determinazione del valore della retribuzione di risultato adottati dai singoli enti che tengano conto anche del “peso” dell'incarico ad interim e del maggiore impegno che complessivamente grava sul dirigente per effetto del doppio incarico.
La retribuzione di risultato erogata al dirigente dovrà dunque tenere conto della valutazione complessiva dei risultati conseguiti dallo stesso nell'espletamento degli incarichi conferiti, secondo le modalità stabilite dal sistema di valutazione adottato, escludendo che si possa operare un semplice riproporzionamento del maggiore importo della retribuzione di risultato stabilito in relazione alla durata temporale dell'incarico ad interim (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.02.2019).
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MASSIMA
1. Con unico motivo di ricorso la Asl denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2, terzo comma, e 24, terzo comma, e dell'art. 58 d.lgs. 165/2001 in relazione all'art. 360 n. 3 cod. proc. civ. per erronea applicazione del principio di onnicomprensività della retribuzione dei dipendenti pubblici.
Sostiene che la pronuncia impugnata si pone in contrasto con l'indirizzo consolidato sia della giurisprudenza ordinaria che di quella contabile, che proprio nella specifica materia si è più volte pronunciata in relazione al profilo del danno erariale conseguente all'illegittima duplicazione della retribuzione di posizione in favore del dirigente.
In particolare, la contrattazione collettiva dirigenziale del comparto sanità ha definito la struttura della retribuzione prevedendo, oltre allo stipendio tabellare, solo la retribuzione di posizione e di risultato, per cui anche in relazione al conferimento di incarichi ad interim vige il principio di onnicomprensività. In ogni caso, poi, gli incarichi di dirigenza ad interim affidati al dott. Sa. mai potrebbero ritenersi incarichi extraistituzionali, ai sensi e per gli effetti dell'art. 58 d.lgs. 165 del 2001.
2. Il ricorso merita accoglimento.
3. In via generale, va osservato che la giurisprudenza di legittimità formatasi negli ultimi anni ha affermato il principio -da ritenere ormai consolidato- secondo cui
nel pubblico impiego privatizzato vige il principio di onnicomprensività della retribuzione dirigenziale, in ragione del quale il trattamento economico dei dirigenti remunera tutte le funzioni e i compiti loro attribuiti secondo il contratto individuale o collettivo, nonché qualsiasi incarico conferito dall'amministrazione di appartenenza o su designazione della stessa. Così è stato ritenuto che il dirigente ministeriale, cui sia stato conferito un incarico aggiuntivo di reggenza presso un altro ufficio pubblico, non ha diritto ad una maggiore remunerazione, né, in caso di conferimento illegittimo di tale incarico, può trovare applicazione l'art. 2126 cod. civ., riferibile alle ipotesi in cui la prestazione lavorativa sia eseguita in assenza di titolo per la nullità del rapporto di lavoro e non a quelle in cui i compiti attribuiti, sia pure sulla base di determinazioni amministrative illegittime, siano comunque riconducibili alla qualifica posseduta (Cass. n. 3094 del 2018).
3.1. Specificamente, quanto alla dirigenza medica, è stato chiarito che il principio dì onnicomprensività della retribuzione, affermato dagli artt. 24, comma 3, e 27, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, nonché dall'art. 60, comma 3, del c.c.n.l. comparto dirigenza sanitaria dell'08.06.2000, opera inderogabilmente in tutti i casi in cui l'attività svolta sia riconducibile a funzioni e poteri connessi all'ufficio ricoperto, ed a mansioni cui il dirigente è obbligato rientrando nei normali compiti di servizio, salvi i soli incarichi retribuiti a titolo professionale dall'Amministrazione sulla base di una norma espressa che gliene attribuisca il potere, sempre che ciò non costituisca comunque espletamento di compiti di istituto (Cass. n. 8261 del 2017).
4. Poiché nel caso in esame è pacifico che gli incarichi aggiuntivi concernevano la reggenza ad interim di altre unità operative diverse da quella di cui il Santoro era titolare, ancorché ciò comportasse contemporaneamente l'assunzione di (responsabilità di due distinte unità operative, non può 'spettare la duplicazione della retribuzione, trattandosi sempre di funzioni rientranti nei compiti istituzionali del dirigente pubblico e non di funzioni diverse ed ulteriori per le quali esista una precisa e specifica previsione che attribuisca il relativo potere e preveda un compenso aggiuntivo.
5. Il ricorso va dunque accolto e la sentenza va cassata.

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Responsabile Trasparenza e Responsabile Protezione Dati.
Domanda
Nel nostro comune (sopra 15.000 abitanti) è stato nominato Responsabile della Prevenzione della Corruzione, il segretario comunale, che è anche Responsabile della Trasparenza.
Dopo il nuovo Regolamento Europeo sulla privacy, abbiamo nominato anche il Responsabile per la Protezione dei Dati che è un dipendente dell’ente.
Che rapporto ci deve essere tra le due figure? È possibile nominare RPD il RPCT?
Risposta
Prima di entrare nel merito specifico del quesito è bene fornire qualche indicazione di contesto.
Quello appena trascorso, si potrebbe definire come l’anno della privacy, dal momento che hanno trovato attuazione le seguenti disposizioni legislative:
   1. Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27.04.2016 “relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (Regolamento generale sulla protezione dei dati)” pienamente operativo dal 25.05.2018;
   2. Decreto legislativo 18.05.2018, n. 51, in vigore dal 08.06.2018, recante Attuazione della direttiva (UE) 2016/680 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27.04.2016, relativa alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la decisione quadro 2008/977/GAI del Consiglio, (trattamento dei dati giudiziari);
   3. Decreto legislativo 10.08.2018, n. 101, in vigore dal 19.09.2018, recante “Disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27.04.2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati)”.
Per ciò che riguarda il trattamento dei dati personali da parte di soggetti pubblici, ai fini della trasparenza, così come disciplinata dal d.lgs. 33/2013, è necessario sottolineare che l’art. 2-ter, del d.lgs. 196/2003 –aggiunto dal d.lgs. 101/2018– dispone che la base giuridica per il trattamento dei dati, effettuato per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico “è costituita esclusivamente da una norma di legge o, nei casi previsti dalla legge, di regolamento”.
Il regime normativo del trattamento dei dati delle persone fisiche, da parte dei soggetti pubblici, pertanto, è rimasto sostanzialmente inalterato, venendo ribadito il principio che il trattamento dei dati risulta consentito unicamente se ammesso da una norma di legge o di regolamento, dove previsto da una legge.
Per i comuni, quindi, resta acclarato che, prima di pubblicare nel proprio sito web (Albo pretorio on-line e/o Amministrazione trasparente) dati e documenti contenenti dati personali (sia in forma integrale o in estratto, compresi gli allegati), occorre verificare che la disciplina in materia di trasparenza contenuta nel d.lgs. n. 33/2013 o in altre normative, anche di settore, preveda un espresso obbligo di pubblicazione.
A completamento della presente premessa, è bene ricordare, tuttavia, che l’attività di pubblicazione dei dati sui siti web per finalità di trasparenza –anche se effettuata in presenza di idoneo presupposto normativo– deve sempre avvenire nel rispetto di tutti i principi applicabili al trattamento dei dati personali
[1], quali quelli di liceità, correttezza e trasparenza; minimizzazione dei dati; esattezza; limitazione della conservazione; integrità e riservatezza tenendo anche conto del principio di “responsabilizzazione” del titolare del trattamento.
In particolare, assumono rilievo i principi di adeguatezza, pertinenza e limitazione a quanto necessario, rispetto alle finalità per le quali i dati personali sono trattati («minimizzazione dei dati») e quelli di esattezza e aggiornamento dei dati, con il conseguente dovere di adottare tutte le misure ragionevoli per cancellare o rettificare tempestivamente i dati inesatti rispetto alle finalità per le quali sono trattati.
Per ciò che attiene ai rapporti tra Responsabile della Trasparenza e Responsabile della Protezione dei Dati, alcuni spunti di sicuro interesse sono rinvenibili nella delibera ANAC n. 1074 del 21/11/2018 (pubblicata sulla GU n. 296 del 21/12/2018), al Paragrafo 7, rubricato “Trasparenza e nuova disciplina della tutela dei dati personali (Reg. UE 2016/679)”.
In sintesi, nel documento citato che contiene “Approvazione definitiva dell’Aggiornamento 2018 al Piano Nazionale Anticorruzione”, l’ANAC sostiene che:
   a) se si tratta di due soggetti interni (si ricorda che il RPD potrebbe anche essere soggetto esterno all’ente), è bene le due figure non siano coincidenti nella stessa persona (il Segretario comunale, nei comuni), dal momento che la sovrapposizione dei due ruoli potrebbe determinare una limitazione allo svolgimento delle due attività, tenuto conto dei numerosi compiti e responsabilità che le norme attribuiscono al RPCT e al RPD;
   b) Eventuali eccezioni possono essere ammesse solo in enti di piccoli dimensioni (comuni sotto 5.000 abitanti, per esempio) qualora la carenza di personale renda, da un punto di vista organizzativo, non possibile tenere distinte le due funzioni. In tali casi, le amministrazioni, con motivato e specifico provvedimento (del Sindaco), potranno attribuire allo stesso soggetto il ruolo di RPCT e RPD;
   c) Il RPD, per le questioni di carattere generale riguardanti il trattamento e la protezione dei dati personali, può certamente rappresentare una figura di riferimento anche per il RPCT, anche se non potrà mai sostituirsi ad esso nell’esercizio delle sue specifiche prerogate, stabilite dalle legge 190/2012 e dalle successive disposizioni. Si pensi, al riguardo, alla stesura della sezione Trasparenza del Piano Anticorruzione o alla definizione delle istanze di riesame, nell’ambito dell’accesso civico generalizzato (cd. FOIA), qualora la decisione del servizio detentore dell’atto o del documento, riguardi profili attinenti alla protezione dei dati. In tali casi, infatti, per obbligo di legge, il RPCT deve richiedere un parere al Garante Privacy italiano ed è tenuto ad attenersi a quanto da esso stabilito, a prescindere da una eventuale e preventiva consultazione che l’ufficio, in prima istanza, possa aver intrattenuto con il RPD.
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[1] Vedi art. 5, Regolamento UE 2016/679 (15.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Cumulo congedo biennale e permessi l. 104/1992.
Domanda
Un dipendente è stato collocato in congedo straordinario ex art. 42, comma 5, del d.lgs. 151/2001 per il periodo dal 1 gennaio al 28 gennaio.
Lo stesso ha fatto pervenire all’ente una richiesta di permessi ex art. 33 della l. 104/1992 per i giorni 29, 30 e 31 gennaio. È possibile accogliere la summenzionata richiesta?
Risposta
Occorre in primis rilevare che il d.lgs. 119/2011 ha parzialmente riordinato la normativa in materia del congedo (parentale e straordinario) e di permessi per l’assistenza a persone con disabilità grave modificando l’articolo 42, comma 5, del d.lgs. 151/2001.
Infatti, fino all’entrata in vigore del d.lgs. 119/2011, permessi e congedo straordinario erano considerati due benefici aventi la medesima finalità, ragion per cui non era prevista la possibilità di contemporanea fruizione (cumulabilità invece ammessa esplicitamente per i permessi l. 104/1992 e congedo parentale ordinario o congedo per la malattia del figlio).
Con l’entrata in vigore del citato d.lgs. 119/2011 il cumulo è invece possibile.
Possibilità che è stata recepita dal Dipartimento della Funzione Pubblica con circolare n. 1 del 03/02/2012.
Si segnala che di recente l’INPS è ritornata sull’argomento con il messaggio n. 3114 del 07.08.2018, nella quale al punto 4 ha avuto modo di precisare che “è possibile cumulare nello stesso mese, purché in giornate diversi, i periodi di congedo straordinario ex art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151/2001 con i permessi ex art. 33 della legge n. 104/1992 ed ex art. 33, comma 1, del d.lgs. n. 151/2001 (3 giorni di permesso mensili, prolungamento del congedo parentale e ore di riposo alternative al prolungamento del congedo parentale). Si precisa, al riguardo, che i periodi di congedo straordinario possono essere cumulati con i permessi previsti dall’articolo 33 della legge n. 104/1992 senza necessità di ripresa dell’attività lavorativa tra la fruizione delle due tipologie di benefici. Quanto sopra può accadere anche a capienza di mesi interi e indipendentemente dalla durata del congedo straordinario” (10.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGOIncarichi a contratto, niente spoils system nei Comuni.
L'incarico dirigenziale a contratto secondo quanto previsto dall'articolo 110 del Tuel deve avere durata minima triennale e non cessa automaticamente alla scadenza del mandato elettivo del sindaco o del presidente della Provincia.
Lo sostiene il TAR Puglia-Lecce, Sez. III, con l'ordinanza 09.01.2019 n. 14.
La questione
Il ricorrente ha chiesto l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia, dell'avviso pubblico di selezione indetta dalla Provincia di Taranto per il conferimento di incarico a tempo determinato di un dirigente secondo l’articolo 110, comma 1, del Tuel. Sulla materia esistono due riferimenti normativi:
   • quello generale, applicabile a tutte le Pa, espresso dall'articolo 19 del Dlgs 165/2001, il cui comma 6 dispone che la durata degli incarichi non può eccedere il termine di tre per quelli di livello generale anni, di cinque per gli altri;
   • e quello speciale per gli enti locali, contenuto all'articolo 110 del Tuel, che al comma 3 lega la durata degli incarichi dirigenziali al mandato elettivo del sindaco o del presidente della Provincia in carica.
Il termine
Facendo riferimento a un apparato giurisprudenziale espresso dalla sezione lavoro della Cassazione, il Tar Puglia rammenta che negli enti locali si deve applicare il Dlgs 165/2001 e non già il Tuel. E questo perché la disciplina statale integra quella degli enti locali: la prima, con la predeterminazione della durata minima dell'incarico, è volta a evitare il conferimento di incarichi troppo brevi e a consentire al dirigente di esercitare il mandato per un tempo sufficiente a esprimere le sue capacità e a conseguire i risultati per i quali l'incarico gli è stato affidato; la seconda ha la funzione di fornire al sindaco/presidente uno strumento per affidare incarichi di rilievo sulla base dell'intuitus personae, anche al di fuori di un rapporto di dipendenza stabile e oltre le dotazioni organiche e di garantire la collaborazione del funzionario incaricato per tutto il periodo del mandato, fermo restando il rispetto del suddetto termine minimo nell'ipotesi di cessazione di tale mandato.
Questo è tanto più vero alla luce delle modifiche introdotte all'articolo 110, comma 1, dall'articolo 11, comma 1, lettera a), del Dl 90/2014, in base al quale gli incarichi a contratto devono essere conferiti previa selezione pubblica volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell' incarico.
Niente spoils system
Sulla base di questa posizione espressa dalla Suprema Corte, i giudici del Tar Puglia concludono che l'incarico dirigenziale deve avere durata minima triennale e non può interrompersi automaticamente alla scadenza del mandato elettivo del presidente della provincia, come diretta applicazione dell'articolo 19 del Dlgs 165/2001, applicabile agli enti locali anche nel caso degli incarichi dirigenziali a soggetti esterni in base all’articolo 110.
Rilevano dunque i presupposti per la sospensione dell'efficacia dell'avviso pubblico di selezione per il conferimento dell'incarico e disapplicano, in via incidentale e cautelare, il decreto di nomina. Per la sentenza occorrerà attendere il prossimo 2 ottobre, data fissa dal collegio per la trattazione di merito del ricorso (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.01.2019).
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MASSIMA
Ritenuto, ad una sommaria delibazione propria della presente fase cautelare del giudizio:
   - che non sembrano fondate le eccezioni preliminari formulate dalla Provincia di Taranto e che, in particolare, appare sussistere la giurisdizione del Giudice Amministrativo, in quanto, nella fattispecie concreta in esame, la gravata determinazione dirigenziale n. 178 del 21.11.2018 (di approvazione dell’avviso pubblico per il conferimento di incarico a tempo determinato, ex art. 110 del Decreto Legislativo n. 267/2000) e, quindi, il relativo avviso pubblico sono stati adottati in data successiva e non già antecedente rispetto agli atti impugnati connessi (decreto del Presidente della Provincia di Taranto n. 99 del 15.11.2018 e atto dirigenziale prot. n. 35837 del 19.11.2018), sicché i provvedimenti macro-organizzativi in questione, in quanto consequenziali, non possono configurarsi quali atti presupposti degli atti gestionali di che trattasi;
   - che il ricorso risulta assistito dal necessario fumus boni iuris, considerato:
   - che “
In tema di affidamento, negli enti locali, di incarichi dirigenziali a soggetti esterni all’amministrazione si applica il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 19, nel testo modificato dal D.L. n. 155 del 2005, art. 14-sexies, convertito con modificazioni nella L. n. 168 del 2005, secondo cui la durata di tali incarichi non può essere inferiore a tre anni né eccedere il termine di cinque, e non già il D.Lgs. n. 257 del 2000, art. 110, comma 3 (T.U. Enti locali), il quale stabilisce che la incarichi a contratto non possono avere durata superiore al mandato elettivo del Sindaco in carica. La disciplina statale integra quella degli enti locali: la prima, con la predeterminazione della durata minima dell'incarico, è volta ad evitare il conferimento di incarichi troppo brevi ed a consentire al dirigente di esercitare il mandato per un tempo sufficiente ad esprimere le sue capacità ed a conseguire i risultati per i quali l’incarico gli è stato affidato; la seconda ha la funzione di fornire al Sindaco uno strumento per affidare incarichi di rilievo sulla base dell’intuitus personae, anche al di fuori di un rapporto di dipendenza stabile e oltre le dotazioni organiche, e di garantire la collaborazione del funzionario incaricato per tutto il periodo del mandato del Sindaco, fermo restando il rispetto del suddetto termine minimo nell’ipotesi di cessazione di tale mandato” (Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 13.01.2014, n. 478, tuttora e vieppiù condivisibile alla luce delle modifiche introdotte al testo del citato art. 110 T.U.E.L. dall’art. 11, comma 1, lett. a), del Decreto Legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla Legge 11.08.2014, n. 114 - obbligo di previa selezione pubblica; si veda, anche, per analoghe considerazioni, Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 05.05.2017, n. 11015);
   - che, quindi, appare fondata ed assorbente la prima censura, in quanto l’incarico dirigenziale del ricorrente (dirigente del Settore Pianificazione e Ambiente, incarico non apicale, ma di tipo tecnico-professionale, involgente lo svolgimento di funzioni gestionali e di esecuzione rispetto agli indirizzi politici deliberati dagli Organi di governo degli Enti di riferimento, pure attribuito all’esito di selezione pubblica) deve avere durata minima triennale (e, pertanto, con scadenza il 20.11.2020), anziché (automaticamente) alla scadenza del mandato elettivo del Presidente della Provincia, ai sensi dell’art. 19 del Decreto Legislativo n. 165/2001 e successive modifiche ed integrazioni, applicabile agli Enti Locali anche nel caso degli incarichi dirigenziali a soggetti esterni ex art. 110 del Decreto Legislativo n. 267/2000;
   - sussistono, pertanto, i presupposti per la invocata sospensione dell’efficacia della determinazione dirigenziale n. 178 del 21.11.2018 della Provincia di Taranto e del relativo avviso pubblico di selezione per il conferimento di incarico a tempo determinato di Dirigente, ex art. 110, comma 1, del Decreto Legislativo n. 267/2000, con disapplicazione, in via incidentale e cautelare, ai sensi dell’art. 8, comma 1 del c.p.a., dell’atto dirigenziale prot. n. 35837 del 19.11.2018 e del Decreto del Presidente della Provincia di Taranto n. 99 del 15.11.2018, in parte qua e nei limiti dell’interesse del ricorrente (e, peraltro, con ordinanza n. 174/2019, il Tribunale Civile di Taranto - Sezione Lavoro ha accolto il ricorso proposto ex art. 700 c.p.c., ordinando, per l’effetto, in via provvisoria alla Provincia di Taranto di riconoscere al ricorrente il diritto a svolgere, fino al 20.11.2020, l’incarico di Dirigente del Settore Pianificazione e Ambiente, conferitogli ex art. 110 del Decreto Legislativo n. 267/2000);
Rilevata, altresì, la sussistenza del danno grave ed irreparabile;

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Codice di comportamento.
Domanda
Il nostro comune ha approvato il codice di comportamento di ente a gennaio 2014, secondo le indicazioni del d.p.r. 62/2013 e la delibera ANAC n. 75 del 24.10.2013. Dobbiamo procedere all’approvazione di un nuovo codice?
Risposta
Tra le numerose misure previste dalla legge Severino (legge 06.11.2012, n. 190) in materia di prevenzione della corruzione, l’adozione del Codice di comportamento di amministrazione, rappresenta una delle misure più significative e pregnanti, dal momento che riguarda lo strumento con cui vengono regolate le condotte dei dirigenti e dei dipendenti, finalizzandole verso una migliore attenzione per l’interesse pubblico e l’imparzialità della pubblica amministrazione, prevista dall’art. 97 della costituzione.
La materia risulta, ad oggi, disciplinata dal nuovo articolo 54 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, rubricato, appunto, “Codice di comportamento”.
La vigente normativa prevede, infatti:
   a) un codice nazionale, definito dal Governo e approvato con decreto del Presidente della Repubblica (DPR 16.04.2013, n. 62), la cui violazione è “fonte di responsabilità disciplinare”;
   b) un codice per ogni amministrazione pubblica, definito con “procedura aperta alla partecipazione” e con parere obbligatorio dell’OIV o NdV, la cui violazione è anch’essa fonte di responsabilità disciplinare.
Entrambi i codici devono essere pubblicati, nel sito web istituzionale, nella sezione Amministrazione trasparente> Disposizioni generali> Atti generali.
È bene, inoltre, ricordare (art. 2, DPR 62/2013) che i codici di comportamento, per quanto compatibili, si applicano anche:
   – a tutti i collaboratori e consulenti con qualsiasi tipologia di contratto o incarico e a qualsiasi titolo;
   – ai titolari di organi e di incarichi negli uffici di diretta collaborazione delle autorità politiche;
   – ai collaboratori, a qualsiasi titolo, di imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell’amministrazione.
Sulla pratica e concreta applicazione delle norme contenute nei due codici (nazionale e di ente) devono vigilare i dirigenti o le posizioni organizzative, negli enti senza la dirigenza, nonché le strutture di controllo interno (art. 147, TUEL 267/2000) e gli UPD (Uffici Provvedimenti Disciplinari, art. 55-bis, d.lgs. 165/2001).
Chiarito ciò, rispondendo al quesito, è possibile sostenere che, al momento attuale, nessuna norma di legge prevede l’obbligo di procedere alla revisione del codice di comportamento approvato nell’ente, qualche anno fa.
Possiamo aggiungere, però, che la materia è oggetto di specifico studio da parte dell’ANAC, che sta svolgendo un doveroso approfondimento sui punti più rilevanti della disciplina, partendo dalla constatazione della scarsa innovatività dei codici di amministrazione “di prima generazione”, approvati – come prevedeva la norma – entro sei mesi dall’emanazione del DPR 62/2013.
Secondo l’ANAC, infatti, nella stragrande maggioranza dei casi, il codice di ente si è limitato a riprodurre le previsioni del codice nazionale, omettendo di individuare quegli obiettivi di lunga durata, finalizzati alla riduzione del rischio corruttivo. Per tale ragione l’ANAC (delibera n. 1074 del 21/11/2018, Parte Generale, Paragrafo 8 “I codici di comportamento”), ha previsto di emanare delle apposite Linee guida sull’adozione dei nuovi codici di comportamento di amministrazione (definiti “di seconda generazione”), preannunciando che le suddette Linee guida saranno emanate nei primi mesi dell’anno 2019.
Alla luce del manifestato intendimento dell’ANAC, è consigliabile procedere all’approvazione del Piano triennale Anticorruzione e Trasparenza 2019/2012, secondo la normale scadenza di legge del 31.01.2019, riservandosi di “mettere mano” al nuovo codice di comportamento di amministrazione –che dovrà essere approvato sempre previo svolgimento della procedura aperta– appena saranno applicabili le Linee guida dell’ANAC sulla specifica materia (08.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it).