dossier PUBBLICO IMPIEGO
(N.B.: nel presente dossier non sono
ricomprese le news pubblicate nel
dossier
Dipartimento della Funzione Pubblica nonché nel
dossier SINDACATI & ARAN) |
norme principali di riferimento:
D.P.R. 10.01.1957 n. 3
(Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati
civili dello Stato)
*
D.Lgs.
30.03.2001 n. 165
(Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche)
*
D.Lgs.
08.04.2013 n. 39
(Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di
incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in
controllo pubblico, a norma dell'articolo 1, commi 49 e 50, della legge
06.11.2012, n. 190)
*
D.P.R. 16.04. 2013 n. 62
(Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a
norma dell’articolo 54 del d.lgs. 30.03.2001, n. 165)
*
C.C.N.L. 21.05.2018 del comparto FUNZIONI LOCALI (triennio 2016-2018)
Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del comparto FUNZIONI LOCALI -
periodo 2016-2018 - Raccolta sistematica delle disposizioni non disapplicate
(CGIL-FP di Bergamo, 22.05.2018). |
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luglio 2023 |
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PUBBLICO IMPIEGO: Per
il Consiglio di Stato una «bugia» val bene i buoni rapporti tra colleghi di
lavoro.
In relazione a un invito extralavorativo e non a circostanze relative alla
sfera professionale.
Nelle
selezioni del personale i test situazionali servono a valutare abilità e
competenze trasversali dei candidati. Mentre i quesiti tecnici si
concentrano
sulle conoscenze necessarie al profilo professionale richiesto, le
competenze trasversali riguardano le abitudini e gli atteggiamenti che si
assumono in diverse situazioni all'interno di un ambiente di lavoro.
Nella
vicenda trattata dal Consiglio di Stato-Sez. VII (sentenza
07.07.2023 n. 6661) il quesito
controverso descriveva di un collaboratore che aveva avuto una bambina
ma aveva invitato solo la concorrente alla festa.
La candidata aveva
indicato
la risposta secondo cui non era opportuno invitare solo lei; mentre la
Commissione aveva considerato giusto un rifiuto con scusa. In primo grado
il Tar aveva accolto il ricorso: illogico premiare un comportamento poco
trasparente.
Di diverso avviso invece il Consiglio di Stato secondo cui
nella
Pa, nelle relazioni con i colleghi, utilizzare una piccola bugia non è
sbagliato
quando lo scopo è quello di evitare futuri attriti e l'apparenza di rapporti
interpersonali privilegiati.
Nel caso di specie il quesito censurato mirava
a
valutare le abilità relazionali del candidato e quindi la comprensione
interpersonale, la capacità di lavoro di squadra e di esercitare un impatto
o un'influenza sugli altri; la consapevolezza
organizzativa e, cioè, le capacità di gestire criticità emergenti in
relazione ad una determinata situazione e posizione
lavorativa.
Nella prospettiva delineata, in relazione a un invito
extralavorativo e non a circostanze relative alla sfera
professionale, utilizzare una bugia non presenta caratteri di
irragionevolezza o illogicità in quanto il fine è quello di
non mettere in imbarazzo il collaboratore e le sue buone relazioni
lavorative interpersonali.
Sotto il profilo ora
enunciato, quindi, l'operato della Commissione d'esame non era stato
caratterizzato da incomprensibilità o
irragionevolezza.
Esso per il Consiglio di Stato risulta all'opposto
conforme ai canoni di coerenza con gli approdi
della disciplina specialistica applicabile e di più generale saggezza
operativa, che nel loro complesso presiedono allo
svolgimento di ogni attività tecnico-discrezionale dell'amministrazione
pubblica (articolo
NT+Enti Locali & Edilizia del 14.07.2023).
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SENTENZA
1. Con il motivo di appello l’amministrazione deduce l’erroneità della
sentenza impugnata, per superamento dei limiti del sindacato giudiziale sui
quesiti c.d. “situazionali”.
Evidenzia che la pronuncia impugnata era errata in quanto il Giudice di
primo grado si era spinto a censurare le valutazioni dell’Amministrazione,
statuendo l’erroneità del quesito situazionale oggetto di ricorso e della
relativa attribuzione del punteggio eccedendo i limiti del proprio sindacato
in una materia connotata da amplissima discrezionalità.
2. Le censure svolte con l’appello sono da accogliere, laddove con esse si
deduce la correttezza dell’esercizio della discrezionalità
dell’amministrazione nella fissazione dei contenuti delle prove di concorso
e l’ingiustificato sconfinamento del sindacato svolto dal Tar. Come si
deduce nell’appello, la sentenza ha infatti considerato errata la risposta
considerata come la più efficace dall’amministrazione in assenza di elementi
tratti dalla «scienza specialistica di settore» sulla cui base è
stato formulato il quesito contestato.
3. Deve premettersi che i c.d. “test situazionali” sono quesiti il
cui scopo è valutare le abilità e competenze trasversali (cd. soft skills),
richieste per coprire la determinata posizione lavorativa indagando se un
candidato è in grado di intraprendere le azioni più appropriate in un
determinato scenario ipotizzabile nella sua specifica situazione lavorativa.
Mentre i quesiti tecnici si concentrano sulle conoscenze necessarie al
profilo professionale richiesto, le competenze trasversali riguardano le
abitudini e gli atteggiamenti che si assumono in diverse situazioni
all’interno di un ambiente di lavoro.
Per effettuare correttamente la valutazione richiesta, il quesito proposto
dalla pubblica amministrazione deve indicare tutti i dettagli rilevanti per
consentire ai candidati di analizzare lo scenario di contesto e maturare una
capacità di giudizio che, tra le tante azioni possibili, individui quella
maggiormente efficace sicché, all’evidenza, non esiste una risposta
astrattamente sbagliata, ma la risposta più o meno efficace nella situazione
descritta.
In tale contesto l’ambito di discrezionalità dell’amministrazione è
particolarmente ampio e la scelta delle domande da somministrare ai
candidati come la successiva valutazione delle risposte fornite sono
sindacabili dal giudice amministrativo a condizione che risulti evidente
l’assoluta incomprensibilità del quiz o la irragionevolezza della risposta
prescelta come più efficace oppure che sia fornita la prova o quanto meno un
principio di prova per contestare la correttezza della soluzione proposta
dall’amministrazione.
4. Tutto ciò precisato, nel caso di specie il quesito censurato mirava a
valutare le abilità relazionali del candidato e quindi la comprensione
interpersonale, la capacità di lavoro di squadra e di esercitare un impatto
o un’influenza sugli altri, la consapevolezza organizzativa e, cioè, le
inerenti capacità di gestire criticità emergenti in relazione ad una
determinata situazione e posizione lavorativa.
Nella prospettiva delineata, l’appello pone fondatamente in rilievo la
maggiore rispondenza alle abilità in questione di un rifiuto ad un
comportamento contrario a regole di buona creanza non espresso, ma celato da
una scusa atta a prevenire una possibile situazione di conflittualità.
Infatti, in relazione a un invito extralavorativo e non a circostanze
relative alla sfera professionale, utilizzare una scusa non presenta
caratteri di irragionevolezza o illogicità in quanto lo scopo è quello, da
un lato, di non mettere in imbarazzo il collaboratore o di creare comunque
motivi di futuro attrito con un espresso rimprovero circa l’inopportunità di
un invito ad personam e, dall’altro, di non creare, agli occhi degli
altri collaboratori, l’apparenza di rapporti personali privilegiati.
Sotto il profilo ora enunciato, quindi, l’operato dell’amministrazione non è
certo caratterizzato da una evidente incomprensibilità o irragionevolezza.
Esso risulta invece conforme ai canoni di coerenza con gli approdi della
disciplina specialistica applicabile e di più generale ragionevolezza, che
nel loro complesso presiedono allo svolgimento di un’attività
tecnico-discrezionale dell’amministrazione.
5. La ricorrente di primo grado non ha per contro fornito una prova o un
principio di prova a supporto della propria tesi, e dunque non ha assolto
all’onere probatorio su di essa gravante, ai sensi degli artt. 63, comma 1,
e 64, comma 1, cod. proc. amm. (cfr., sul punto, di recente: Cons. Stato, IV,
08.05.2023, n. 4596; 02.12.2022, n. 10592; V, 27.07.2022, n. 6605; VI,
24.03.2023, n. 3023; 10.10.2022, n. 8653; 21.06.2022, n. 5090; 05.04.2022,
n. 2523; 31.03.2022, n. 2360).
Parimenti la sentenza ha sovrapposto la propria personale valutazione a
quella dell’amministrazione senza la previa acquisizione di un adeguato
supporto scientifico specialistico. In contrapposizione alla scelta
amministrativa contestata nel presente giudizio, fondata sugli elementi di
carattere specialistico sopra richiamati, a base della sentenza di
accoglimento si pone nello specifico una valutazione di tipo soggettivo
sulla maggiore efficacia della risposta al quesito, erroneamente fondata su
considerazioni di carattere etico.
Ciò è reso manifesto dal richiamo ai principi di lealtà e trasparenza
enunciati dal codice di comportamento dei dipendenti pubblici di cui al DPR
16.04.2013, n. 62, con specifico riguardo alla figura dei dirigenti (art.
13, comma 4), quando invece nel caso di specie il quesito era diretto a
valutare un comportamento extrafunzionale ma comunque avente un potenziale
impatto sul contesto lavorativo.
6. In mancanza di elementi forniti dalla parte ricorrente in grado di
confutare quelli tratti dalla scienza specialistica utilizzati
dall’amministrazione per la formulazione del quesito non vi sono infine i
presupposti per svolgere in via ufficiosa un approfondimento istruttorio.
7. In accoglimento dell’appello ed in riforma della sentenza di primo grado
il ricorso e i motivi aggiunti devono quindi essere respinti. |
PUBBLICO IMPIEGO:
Assolta la dipendente che risponde al capo.
Altro che diffamazione: il fatto non sussiste. È definitivamente assolta la
funzionaria che risponde contrattaccando alla reprimenda del dirigente nella
mail letta in copia dei vertici aziendali: la lavoratrice, infatti, esercita
un legittimo di diritto di critica così come è legittima l'iniziativa del
capo che ritiene di rimetterla in riga.
La replica, d'altronde, ha toni contenuti e comunque non si risolve in
un'aggressione gratuita al superiore, anzi rientra in «una fisiologica
interlocuzione in ambito lavorativo». Condannare la lavoratrice equivarrebbe
invece ad azzerare «il diritto al dissenso in ambito professionale».
Così la Corte di Cassazione,
sentenza 04.07.2023 n.
28771 della V Sez. penale.
Il ricorso della dipendente è accolto dopo una doppia sconfitta in sede di
merito: la condanna è annullata senza rinvio, mentre il sostituto
procuratore generale concludeva per la mancanza di una valida condizione di
procedibilità. Non vale, in effetti, la querela spedita via Pec con la carta
d'identità di chi la sporge ma senza firma autenticata.
Ma il punto è che «evidente» l'insussistenza del reato ex articolo
595 Cp. Teatro dei fatti è l'Università, materia del contendere il
regolamento per le attività autogestite degli studenti: la funzionaria
responsabile dell'ufficio riceve la mail del direttore generale che la
invita a non esprimere valutazioni estranee alla sua competenza e a
rispettare la gerarchia nelle comunicazioni amministrative; leggono in copia
la segreteria del rettore e altri interni all'Ateneo.
La funzionaria risponde a tutti gli indirizzi ripercorrendo il proprio
operato con alcune pregresse vicende. E definisce «incomprensibile il
contenuto e il tono» della mail del dg, «del tutto in linea, spiace dire,
con la condotta e le azioni perpetrate a mio danno -chiosa- dalla Sua
persona nell'ultimo periodo».
Non si capisce, osservano gli “ermellini”, in che senso possa
ritenersi diffamatorio il riferimento alle precedenti condotte del
direttore: la funzionaria esercita il diritto di critica senza ricorrere a
espressioni aspre, che sarebbero comunque legittime purché compatibili con
il principio della continenza verbale
(articolo ItaliaOggi del 07.07.2023).
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SENTENZA
Il ricorso di Gi.Ca. è fondato.
Come si evince dalla sentenza impugnata, la ricorrente, funzionario
amministrativo dell'Università di Macerata, responsabile dell'Ufficio
didattica, orientamento e servizi agli studenti, a seguito della redazione
di uno schema di regolamento, funzionale a disciplinare le attività
autogestite dagli studenti, aveva ricevuto una comunicazione via mail dal
dott. Ma.Gi., Direttore generale dell'Ateneo, con cui veniva invitata a non
esprimere valutazioni non di sua competenza ed a seguire le vie gerarchiche
per le comunicazioni amministrative; tale mail era indirizzata anche alla
segreteria del Rettore e ad altri destinatari interni all'Ateneo.
In risposta a tale mail, la Ca. aveva inviato al Gi., ed agli altri
destinatari, una mail di risposta in cui -ripercorrendo il proprio operato
ed altresì alcune pregresse vicende amministrative- inseriva la frase
incriminata, secondo quanto risulta dal capo di imputazione, ritenuta a
contenuto diffamatorio: ".... e pertanto risulta incomprensibile il
contenuto ed il tono della Sua comunicazione, del tutto in linea, spiace
dire, con la condotta e le azioni perpetrate a mio danno dalla Sua persona
nell'ultimo periodo."
Quanto al primo motivo di ricorso, va osservato che -all'esito della
consultazione degli atti processuali, cui il Collegio può accedere,
trattandosi di questione processuale relativa alla condizione di
procedibilità del reato- la querela risulta spedita a mezzo pec
istituzionale ...@pec.unimc.it in data 24/04/2019 con allegata carta di
identità del querelante, la cui firma, tuttavia, non è autenticata.
Ne discende che, senza alcun dubbio, la querela non risulta soddisfare i
requisiti richiesti, posto che l'art. 337, comma 1, cod. proc. pen.,
richiede che quando la querela sia recapitata da un incaricato o spedita per
posta, la sottoscrizione del querelante sia autenticata, il che implica il
rispetto delle forme previste dall'art. 2703 cod. civ., secondo cui
l'autenticazione consiste nell'attestazione da parte del pubblico ufficiale
-notaio o altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato- che la sottoscrizione
sia stata apposta in sua presenza, previo accertamento dell'identità della
persona che sottoscrive.
A norma del d.p.r. 513/1997 -"Regolamento per la formazione,
l'archiviazione e la trasmissione di documenti con strumenti informatici e
telematici"- anche la firma digitale può essere autenticata da un notaio
o altro pubblico ufficiale competente, con effetto pari al riconoscimento ai
sensi dell'art. 2702 cod. civ. in tema di scrittura privata; tale
possibilità è stata poi ribadita dal d.lgs. 07.03.2005, n. 82 -"Codice
dell'amministrazione digitale"-,
che ha stabilito come il pubblico ufficiale attesti che l'apposizione della
firma digitale delle parti sia avvenuta in sua presenza e conclude
l'autenticazione apponendo anche la sua firma digitale, sempre in
riferimento all'efficacia della scrittura privata, ai sensi del predetto
art. 2702 cod. civ. (sulla necessità di sottoscrizione autenticata in
calce alla querela: Sez. U, n. 26268 del 28/03/2013, Cavalli, Rv. 255583;
Sez. 6, n. 13813 del 26/03/2015, P.G. in proc. Recce, Rv. 262966; Sez. 5, n.
39049 del 09/10/2007, P.M. in proc. Delmonte Rv. 238192).
Nel caso in esame, quindi, certamente non può essere confusa la modalità di
trasmissione della querela con la formalità della stessa in riferimento
all'autenticazione della sottoscrizione.
La posta elettronica certificata, senza alcun dubbio, costituisce un veicolo
di trasmissione, alla stregua della mail e, prima ancora, del fax, che ha
affiancato la modalità di spedizione a mezzo posta; essa è stata di recente
utilizzata diffusamente per la trasmissione degli atti giudiziari, in
occasione della disciplina emergenziale da Covid-19, per assumere, poi, il
crisma di "ordinaria" modalità di veicolazione degli atti stessi, nei
casi e con la modalità disciplinate dalle legge.
Tale impiego, quindi, non può essere in alcun modo confuso con il piano, del
tutto diverso, relativo alle formalità dell'atto da trasmettere; in tal
senso, ad esempio, Sez. 1, n. 32123 del 16/10/2020, Aspillaga Pere2: Ronald
Guillermo, Rv. 279894, ha affermato, in un caso in cui la nomina del
difensore era contenuta su una copia trasmessa tramite posta elettronica
certificata da imputato detenuto all'estero, ed il difensore aveva
successivamente autenticato la relativa sottoscrizione, che tale
sottoscrizione poteva essere anche autenticata dal difensore, benché non
effettuata in sua presenza e apposta su di una copia inviatagli, anziché
sull'originale dell'atto, in quanto con la consegna o la spedizione
dell'atto all'autorità giudiziaria procedente il difensore si assume la
piena responsabilità della provenienza della dichiarazione e della relativa
sottoscrizione.
Per quanto, nel caso, in esame, si verta in tema di querela e non di
sottoscrizione di mandato difensivo, il principio che emerge palese da tale
pronuncia -applicabile anche al caso in esame- riguarda la posta elettronica
certificata come semplice mezzo di spedizione dell'atto, che, come tale, non
può in alcun modo incidere sulle modalità di autenticazione richieste dalla
normativa per la validità dell'atto stesso.
Pur a fronte di una querela non validamente proposta, tuttavia, nel caso in
esame, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio, perché il fatto non
sussiste, ai sensi dell'art. 129, comma 2, cod. proc. pen., risultando
evidente l'insussistenza del reato di diffamazione.
La motivazione della sentenza impugnata non solo si limita ad una
elencazione delle pronunce di questa Corte -di cui peraltro omette di fare
corretta applicazione- ma risulta, in realtà, priva di qualsiasi seria
analisi della vicenda in esame.
In ogni caso, attraverso un percorso motivazione che denota un disagio
concettuale in riferimento alle categorie giuridiche di riferimento, la
sentenza impugnata giunge ad un azzeramento non solo del diritto di critica,
ma anche del diritto al dissenso in ambito professionale e lavorativo.
In coerenza con il principio secondo cui, in materia di diffamazione, la
Corte di cassazione può conoscere e valutare l'offensività delle frasi che
si assumono lesive della altrui reputazione, in quanto è compito del giudice
di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno
della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata
offensiva delle frasi ritenute diffamatorie (Sez. 5, n. 2473 del 10/10/2019,
dep. 22/01/2020, Fabi Miriam, Rv. 278145; Sez. 5, n. 832 del 21/06/2005,
dep. 12/01/2006, Travaglio, Rv. 233749), non può non rilevarsi come, in
maniera percettivamente chiara ed evidente, la frase ascritta alla Ca. si
inserisca in una fisiologica interlocuzione in ambito lavorativo, derivante
da una diversa, lecita e fisiologica interpretazione
dei compiti svolti dalla funzionaria.
Così come la persona offesa ha legittimamente ritenuto di dolersi per il
ruolo -a suo giudizio improprio- che la Ca. aveva svolto, manifestando tale
opinione in ambito lavorativo, in coerenza con il suo ruolo, altrettanto
legittimamente, e nel contesto della medesima interlocuzione, la Ca. poteva
dolersi -peraltro in maniera estremamente contenuta e per nulla aggressiva,
né irrispettosa o inutilmente virulenta o acrimoniosa- del comportamento del
Gi..
Né si comprende in che senso possa ritenersi diffamatorio l'aver evocato, in
quel contesto, le precedenti condotte della persona offesa, ritenute dalla
Ca. non giustificate, posto che con l'affermazione in oggetto la ricorrente
si è limitata ad esercitare il proprio diritto di critica, peraltro senza
fare neanche ricorso ad espressioni aspre, che, in ogni caso, sarebbero
risultate del tutto legittime, purché compatibili con il principio della
continenza verbale.
Non si comprende, infatti, in che senso, nel caso di specie, l'esercizio del
diritto di critica si sia risolto in un pretesto ed in uno strumento
illecito di aggressione all'altrui reputazione, non funzionale alla denuncia
di un fatto vero o ragionevolmente supposto tale.
Ne discende, pertanto, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata,
perché il fatto non sussiste, con revoca delle statuizioni civili. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Ferie monetizzabili solo se la mancata fruizione non è dipesa
dalla volontà del lavoratore. Il dipendente che non ne abbia fatto espressa
richiesta non ha diritto al compenso sostitutivo.
Il diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute spetta solo quando
sia certo che la loro mancata fruizione non sia stata determinata dalla
volontà del lavoratore e non gli sia comunque imputabile.
Lo afferma la I Sez. del Consiglio di Stato con il
parere 03.07.2023 n. 982.
Il fatto
Il Consiglio di Stato si pronuncia su un ricorso straordinario al Presidente
della Repubblica proposto per l'annullamento del provvedimento di rigetto di
una istanza volta a ottenere la monetizzazione di ferie non fruite da parte
di un carabiniere, il quale ha eccepito che la mancata fruizione era stata
dovuta al fatto di non avere potuto fruirne per esigenze di servizio,
essendo impegnato nella guida della stazione in vista dell'avvicendamento
con il nuovo comandante.
La censura viene ritenuta infondata in quanto il provvedimento impugnato
contiene l'esplicitazione chiara e univoca della ragione posta a fondamento
del diniego di monetizzazione delle ferie, ossia la riconducibilità della
loro mancata fruizione non ad esigenze di servizio ma a una libera scelta
del ricorrente, il quale non ha presentato l'istanza per il loro godimento,
nonostante l'amministrazione l'abbia a tanto invitato.
Il principio
Ricordano i giudici di Palazzo Spada che, per consolidata giurisprudenza, il
diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute spetta quando sia
certo che la loro mancata fruizione non sia stata determinata dalla volontà
del lavoratore e non sia ad esso comunque imputabile.
Nel caso di specie, osservano, il dipendente ha avuto la possibilità di
fruire delle ferie e per questo si applica il divieto ancora vigente di
monetizzazione di cui all'articolo 5, comma 8, del Dl 95/2012, che si
applica per il solo fatto che il dipendente non ne abbia fatto espressa
richiesta.
È solo con la formalizzazione della richiesta di ferie che il dipendente può
invocare a posteriori le esigenze di servizio, dal momento che spetta solo
all'amministrazione formalizzare il provvedimento di diniego (articolo
NT+Enti Locali & Edilizia del 19.07.2023). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Sulla impossibilità di monetizzare le ferie non godute per
causa imputabile al lavoratore.
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Carabinieri e Corpo forestale – Ferie – Omessa
presentazione istanza - Monetizzazione – Esclusione.
Il diritto al compenso sostitutivo
delle ferie non godute spetta solo quando sia certo che la
loro mancata fruizione non sia stata determinata dalla
volontà del lavoratore e non sia ad esso comunque imputabile
(1).
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(1) Cons. Stato, sez. IV, 30.03.2022, n. 2349, sez. IV, 13.03.2018,
n. 1580, sez. III, 17.05.2018, n. 2956.
Difformi: non risultano precedenti
difformi.
Nel caso di specie, un carabiniere in congedo aveva
impugnato, con ricorso straordinario al Presidente della
Repubblica, il provvedimento con cui la p.a. gli aveva
negato la monetizzazione delle ferie non godute.
Il Consiglio di Stato ha espresso il parere nel senso
dell’infondatezza del ricorso, atteso che era incontestata
la circostanza in forza della quale la p.a. aveva invitato
il ricorrente a presentare la domanda di ferie, e che il
ricorrente non aveva a tanto provveduto: “La giurisprudenza
di questo Consiglio di Stato –in linea con la giurisprudenza
costituzionale (sentenza n. 95 del 2016) e quella della
Corte di giustizia (prima sezione, sentenza 25.06.2020,
C-762/18 e C-37/19)– è ormai consolidata nel senso di
ritenere che il diritto al compenso sostitutivo delle ferie
non godute spetta quando sia certo che la loro mancata
fruizione non sia stata determinata dalla volontà del
lavoratore e non sia ad esso comunque imputabile (Consiglio
di Stato, sezione seconda, sentenza 30.03.2022, n. 2349,
sezione quarta, sentenza 13.03.2018, n. 1580, sezione terza,
sentenze 17.05.2018, n. 2956, e 21.03.2016, n. 1138).
Ove invece il dipendente abbia avuto la possibilità di
fruire delle ferie (e quindi in assenza di una indicazione
di senso contrario proveniente dal datore di lavoro), vige
il divieto di monetizzazione di cui all’art. 5, comma 8, del
decreto-legge 06.07.2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la
revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai
cittadini), convertito, con modificazioni, nella legge
07.08.2012, n. 135, che pertanto opera laddove il dipendente
medesimo non abbia fatto espressa richiesta delle ferie
medesime (Consiglio di Stato, sezione seconda, sentenza
30.03.2022, n. 2349, sezione quarta, sentenze 12.10.2020, n.
6047, e 02.03.2020, n. 1490)”
(Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 03.07.2023 n. 982 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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PARERE
Premesso.
1.- Con ricorso straordinario al Presidente della
Repubblica, presentato direttamente a questo Consiglio di
Stato, ai sensi dell’art. 11, comma 2, del d.P.R.
24.11.1971, n. 1199 (Semplificazione dei procedimenti in
materia di ricorsi amministrativi), il luogotenente in
congedo -OMISSIS-, già comandante della stazione dei
Carabinieri di -OMISSIS-, ha impugnato il provvedimento in
epigrafe meglio indicato, con cui gli è stata negata la
monetizzazione di 42 giorni di ferie non godute negli anni
2016 e 2017 (39 dei quali relativi all’anno 2016).
Il provvedimento impugnato è stato adottato sul rilievo di
fondo che «la mancata fruizione del residuo della licenza
ordinaria di cui si richiede la monetizzazione appare
imputabile ad una volontaria e consapevole scelta» del
ricorrente, posto che:
a) quest’ultimo è stato «destinatari[o] di reiterati inviti da
parte del Comandante di Compagnia affinché osservasse le
norme che regolano la fruizione della licenza ordinaria»;
b) «agli atti d’ufficio non risulta si siano verificati
impedimenti […] di natura sanitaria, cause di forza maggiore
e/o eventi eccezionali e non prevedibili che abbiano
impedito la fruizione della licenza non fruita»;
c) «non risulta alcun diniego da parte del Comandante pro
tempore della Compagnia di -OMISSIS- alla fruizione di
periodi di licenza sopra menzionati»;
d) «non risulta che le esigenze di servizio invocate
dall’istante, all’epoca Comandante della Stazione di
-OMISSIS-, fossero di tale natura da richiedere
l’obbligatoria presenza del titolare delle funzioni di
Comando e, nel contempo, condivise con il Superiore diretto».
Con una prima censura (rubricata «violazione del
d.P.R. n. 395 del 1995, del d.P.R. n. 254 del 1999, del d.l.
06.07.2012, n. 95 e dell’art. 36 della Costituzione. Errata
interpretazione della normativa di riferimento»), il
ricorrente contesta il menzionato assunto di fondo,
sostenendo, in sostanza, di non avere potuto fruire delle
ferie per esigenze di servizio, essendo impegnato nella
guida della stazione in vista dell’avvicendamento con il
nuovo comandante.
Con una seconda censura (rubricata «violazione
dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990»), il ricorrente
lamenta il difetto di motivazione, non essendo chiaro, da
un lato, perché l’Amministrazione abbia affermato, nel
provvedimento impugnato, che le esigenze di servizio
invocate dall’istante «non fossero di tale natura da
richiedere l’obbligatoria presenza del titolare delle
funzioni di Comando», e, dall’altro, risolvendosi
in una probatio diabolica a suo carico la dimostrazione
della presenza di una valida causa di servizio.
2.- Nella relazione con cui ha chiesto il parere di questo
Consiglio di Stato, il Ministero della difesa ha espresso
l’avviso che il ricorso sia infondato, poiché la mancata
fruizione delle ferie non sarebbe riconducibile ad esigenze
di servizio ma ad una scelta dell’interessato, avendo
peraltro l’Amministrazione invitato formalmente il medesimo
a godere delle ferie (con note del 27.08.2016 e del
30.01.2017).
3.- Con memoria fatta pervenire al Ministero della difesa,
il ricorrente ha replicato alla relazione ministeriale,
ulteriormente illustrando i motivi posti a sostegno
dell’atto introduttivo.
Considerato.
4.- La censura di difetto di motivazione è infondata, poiché
il provvedimento impugnato contiene l’esplicitazione chiara
e univoca della ragione posta a fondamento del diniego di
monetizzazione delle ferie, ossia la riconducibilità della
loro mancata fruizione non ad esigenze di servizio ma ad una
libera scelta dell’odierno ricorrente, il quale non ha
presentato l’istanza per il loro godimento, nonostante
l’Amministrazione l’abbia a tanto invitato.
Tale assunto è contestato dal ricorrente con la prima
censura, anch’essa, tuttavia, infondata.
La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato –in linea con
la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 95 del 2016) e
quella della Corte di giustizia (prima sezione, sentenza
25.06.2020, C-762/18 e C-37/19)– è ormai consolidata nel
senso di ritenere che il diritto al compenso sostitutivo
delle ferie non godute spetta quando sia certo che la loro
mancata fruizione non sia stata determinata dalla volontà
del lavoratore e non sia ad esso comunque imputabile
(Consiglio di Stato, sezione seconda, sentenza 30.03.2022,
n. 2349, sezione quarta, sentenza 13.03.2018, n. 1580,
sezione terza, sentenze 17.05.2018, n. 2956, e 21.03.2016,
n. 1138).
Ove invece il dipendente abbia avuto la possibilità di
fruire delle ferie (e quindi in assenza di una indicazione
di senso contrario proveniente dal datore di lavoro), vige
il divieto di monetizzazione di cui all’art. 5, comma 8, del
decreto-legge 06.07.2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la
revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai
cittadini), convertito, con modificazioni, nella legge
07.08.2012, n. 135, che pertanto opera laddove il dipendente
medesimo non abbia fatto espressa richiesta delle ferie
medesime (Consiglio di Stato, sezione seconda, sentenza
30.03.2022, n. 2349, sezione quarta, sentenze 12.10.2020, n.
6047, e 02.03.2020, n. 1490).
Nel caso di specie, è pacifico che il ricorrente non abbia
mai formulato istanza di godimento delle ferie e che, a
fronte di tale inerzia, l’Amministrazione, pur non essendo a
ciò tenuta, lo abbia anche invitato, in due distinte
occasioni, al godimento medesimo.
Deve dunque ritenersi che, a fronte della mancata
presentazione della cennata istanza, il ricorrente non possa
invocare ex post presunte esigenze di servizio, dal
momento che spetta solo all’Amministrazione, datrice di
lavoro, ravvisarle e formalizzarle in un provvedimento di
diniego.
5.- Alla luce delle considerazioni che precedono, deve
ritenersi che il ricorso sia infondato (Consiglio
di Stato, Sez. I,
parere 03.07.2023 n. 982 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
giugno 2023 |
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Monetizzate
le ferie non godute. Se il lavoratore non è invitato per tempo a fruirne.
Alla fine del rapporto il dipendente monetizza le
ferie non godute se il datore non l'ha invitato per tempo a fruirne,
avvisandolo che altrimenti le avrebbe perse. Di più. In giudizio l'azienda
deve provare di aver utilizzato tutta la diligenza necessaria affinché il
lavoratore fosse effettivamente in condizione di godere dei periodi annuali
retribuiti cui ha diritto per il riposo e il relax.
E va disatteso l'orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo
cui la prescrizione del diritto in capo al lavoratore opererebbe anche in
costanza di rapporto: si tratta di un'interpretazione del diritto interno
che si pone in contrasto con quello eurounitario.
È quanto emerge dall'ordinanza 20.06.2023 n. 17643,
pubblicata dalla Sez. lavoro della Corte di Cassazione, che rimanda alla
copiosa giurisprudenza della Corte di giustizia europea in materia.
Tempo utile
Bocciato il ricorso proposto dall'ente pubblico (ma il principio affermato
dagli “ermellini” vale anche per il lavoro privato).
Diventa definitiva la condanna a carico dell'amministrazione: il datore
pagherà alla lavoratrice che ha operato per quarant'anni al suo servizio
l'indennità sostitutiva per quasi 250 giorni di ferie. È l'articolo 7,
paragrafo 2, della direttiva europea 2003/88 a riconoscere al lavoratore il
diritto a un'indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali e i riposi
settimanali non goduti.
Compete al datore dimostrare che il lavoratore ha perso il diritto a
monetizzare perché non ha goduto dei periodi di relax nonostante l'invito a
usufruirne; invito che deve essere formulato in modo accurato e soprattutto
in tempo utile a garantire che ferie e riposi siano ancora in grado di
garantire il riposo e il relax cui sono finalizzati.
Il datore, inoltre, deve avvisare in modo esplicito il dipendente che in
caso di mancato godimento le ferie e i riposi andranno persi alla fine del
periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato.
Parte debole
Per la giurisprudenza eurounitaria, infatti, il lavoratore è la parte debole
del rapporto e bisogna impedire al datore di disporre della facoltà di
imporre al dipendente una restrizione dei diritti.
L'azienda deve assicurarsi in concreto e in piena trasparenza che il
prestatore sia effettivamente in grado di fruire delle ferie annuali
retribuite (articolo ItaliaOggi del
11.07.2023).
---------------
MASSIMA
●
La prescrizione del diritto del lavoratore
all’indennità sostitutiva delle ferie e dei riposi settimanali non goduti
decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro, salvo che il datore di
lavoro non dimostri che il diritto alle ferie ed ai riposi settimanali è
stato perso dal medesimo lavoratore perché egli non ne ha goduto nonostante
l’invito ad usufruirne; siffatto invito deve essere formulato in modo
accurato ed in tempo utile a garantire che le ferie ed i riposi siano ancora
idonei ad apportare all’interessato il riposo ed il relax cui sono
finalizzati, e deve contenere l’avviso che, in ipotesi di mancato godimento,
tali ferie e riposi andranno persi al termine del periodo di riferimento o
di un periodo di riporto autorizzato.
●
La Suprema Corte ha chiarito che:
A) le ferie annuali retribuite costituiscono un diritto
fondamentale ed irrinunciabile del lavoratore e correlativamente un obbligo
del datore di lavoro; il diritto alla indennità finanziaria sostitutiva
delle ferie non godute al termine del rapporto di lavoro è intrinsecamente
collegato al diritto alle ferie annuali retribuite;
B) è il datore di lavoro il soggetto tenuto a provare di avere
adempiuto al suo obbligo di concedere le ferie annuali retribuite;
C) la perdita del diritto alle ferie ed alla corrispondente
indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro può verificarsi
soltanto nel caso in cui il datore di lavoro offra la prova:
- di avere invitato il lavoratore a godere delle ferie, se
necessario formalmente;
- di averlo nel contempo avvisato -in modo accurato ed in tempo
utile a garantire che le ferie siano ancora idonee ad apportare
all’interessato il riposo ed il relax cui esse sono volte a contribuire- del
fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del
periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato.
---------------
1) Con il primo motivo l’INPS lamenta la violazione e falsa
applicazione degli artt. 1218, 2109 e 2946 c.c. per il mancato rispetto
dell’art. 111, comma 7, Cost., letti alla luce dell’art. 6 CEDU.
Parte ricorrente sostiene che, diversamente da quanto affermato dalla corte
territoriale, il diritto all’indennità sostitutiva delle ferie si sarebbe
prescritto in dieci anni anche in corso di rapporto di lavoro.
La doglianza è infondata.
Al riguardo, si osserva che, quando il rapporto di lavoro è cessato, la
fruizione effettiva delle ferie annuali retribuite cui il lavoratore ha
diritto non è più possibile.
Per evitare che, a causa di detta impossibilità, il lavoratore non riesca in
alcun modo a beneficiare di tale diritto, neppure in forma pecuniaria,
l’art. 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88, riconosce al lavoratore il
diritto a un’indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali non goduti
(sentenza del 12.06.2014, Bollacke, C-118/13, EU:C:2014:1755, punto 17 e
giurisprudenza ivi citata).
L’art. 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88 non assoggetta il diritto a
un’indennità finanziaria ad alcuna condizione diversa da quella relativa, da
un lato, alla cessazione del rapporto di lavoro e, dall’altro, al mancato
godimento da parte del lavoratore di tutte le ferie annuali cui aveva
diritto alla data in cui detto rapporto è cessato (sentenza del 20.07.2016,
Maschek, C-341/15, EU:C:2016:576, punto 27 e giurisprudenza ivi citata).
A questo proposito, dalla giurisprudenza della Corte di giustizia UE emerge
che la menzionata normativa osta a disposizioni o pratiche nazionali le
quali prevedano che, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, non
sia versata alcuna indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non
godute al lavoratore che non sia stato in grado di fruire di tutti le ferie
annuali cui aveva diritto prima della cessazione di tale rapporto di lavoro,
in particolare perché era in congedo per malattia per l’intera durata o per
una parte del periodo di riferimento e/o di un periodo di riporto (sentenze
del 20.01.2009, SchultzHoff e a., C-350/06 e C-520/06, EU:C:2009:18, punto
62; del 20.07.2016, Maschek, C-341/15, EU:C:2016:576, punto 31, nonché del
29.11.2017, King, C-214/16, EU:C:2017:914, punto 65).
La Corte di giustizia UE ha dichiarato, inoltre, che l’art. 7 della
direttiva 2003/88 non può essere interpretato nel senso che il diritto alle
ferie annuali retribuite e, pertanto, quello all’indennità finanziaria ex
paragrafo 2 di detto articolo possano estinguersi a causa del decesso del
lavoratore. Ha pure precisato che, se l’obbligo di pagamento di una simile
indennità dovesse estinguersi a causa della fine del rapporto di lavoro
dovuta a decesso del lavoratore, tale circostanza avrebbe la conseguenza che
un avvenimento fortuito comporterebbe retroattivamente la perdita totale
dello stesso diritto alle ferie annuali retribuite (sentenza del 12.06.2014,
Bollacke, C-118/13, EU:C:2014:1755, punti 25, 26 e 30).
Ciò perché l’estinzione del diritto maturato da un lavoratore alle ferie
annuali retribuite o del suo correlato diritto al pagamento di un’indennità
per le ferie non godute in caso di cessazione del rapporto di lavoro, senza
che l’interessato abbia effettivamente avuto la possibilità di esercitare
detto diritto alle ferie annuali retribuite, arrecherebbe pregiudizio alla
sostanza stessa del diritto medesimo (sentenza del 19.09.2013, Riesame
Commissione/Strack, C-579/12 RXII, EU:C:2013:570, punto 32).
La Corte di giustizia UE ha ricordato, altresì, che il pagamento delle ferie
prescritto al paragrafo 1 dell’art. 7 menzionato è volto a consentire al
lavoratore di fruire effettivamente delle ferie cui ha diritto (sentenza del
16.03.2006, Robinson-Steele e a., C-131/04 e C-257/04, EU:C:2006:177, punto
49).
Inoltre, secondo giurisprudenza costante della Corte di giustizia UE, il
diritto alle ferie annuali, sancito dall’art. 7 della direttiva 2003/88, è
volto a consentire al lavoratore, da un lato, di riposarsi rispetto
all’esecuzione dei compiti attribuitigli in forza del suo contratto di
lavoro e, dall’altro, di beneficiare di un periodo di relax e svago
(sentenza del 20.07.2016, Maschek, C-341/15, EU:C:2016:576, punto 34 e
giurisprudenza ivi citata).
Del resto, prevedendo che il periodo minimo di ferie annuali retribuite non
possa essere sostituito da un’indennità finanziaria, salvo in caso di fine
del rapporto di lavoro, l’art. 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88 mira
anche a garantire che il lavoratore possa beneficiare di un riposo
effettivo, per assicurare una tutela efficace della sua sicurezza e della
sua salute (sentenza del 16.03.2006, Robinson-Steele e a., C-131/04 e
C-257/04, EU:C:2006:177, punto 60, e giurisprudenza ivi citata).
In particolare, la Corte di giustizia UE ha chiarito che l’art. 7, paragrafo
1, della direttiva 2003/88 non osta, in linea di principio, a una normativa
nazionale recante modalità di esercizio del diritto alle ferie annuali
retribuite espressamente accordato da detta direttiva, che comprenda anche
la perdita del diritto in questione allo scadere del periodo di riferimento
o di un periodo di riporto, purché, però, il lavoratore che ha perso il
diritto alle ferie annuali retribuite abbia effettivamente avuto la
possibilità di esercitare questo diritto che tale direttiva gli conferisce
(sentenza del 20.01.2009, Schultz-Hoff e a., C350/06 e C-520/06,
EU:C:2009:18, punto 43).
Peraltro, ha affermato che è necessario assicurarsi che l’applicazione di
simili norme nazionali non possa comportare l’estinzione dei diritti alle
ferie annuali retribuite maturati dal lavoratore, laddove quest’ultimo non
abbia effettivamente avuto la possibilità di esercitare tali diritti.
Il lavoratore deve essere considerato, infatti, la parte debole nel rapporto
di lavoro, sicché è necessario impedire al datore di lavoro di disporre
della facoltà di imporgli una restrizione dei suoi diritti. Tenuto conto di
tale situazione di debolezza, un simile lavoratore può essere dissuaso dal
fare valere espressamente i suoi diritti nei confronti del suo datore di
lavoro, dal momento, in particolare, che la loro rivendicazione potrebbe
esporlo a misure adottate da quest’ultimo in grado di incidere sul rapporto
di lavoro in danno di detto lavoratore (sentenza del 25.11.2010, Fuß,
C-429/09, EU:C:2010:717, punti 80 e 81, e giurisprudenza ivi citata).
Ne deriva che il datore di lavoro è tenuto, in considerazione del carattere
imperativo del diritto alle ferie annuali retribuite e al fine di assicurare
l’effetto utile dell’art. 7 della direttiva 2003/88, ad assicurarsi
concretamente e in piena trasparenza che il lavoratore sia effettivamente in
grado di fruire delle ferie annuali retribuite, invitandolo, se necessario
formalmente, a farlo, e nel contempo informandolo -in modo accurato e in
tempo utile a garantire che tali ferie siano ancora idonee ad apportare
all’interessato il riposo e il relax cui esse sono volte a contribuire- del
fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del
periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato.
Inoltre, l’onere della prova, in proposito, incombe al datore di lavoro e,
ove quest’ultimo non sia in grado di dimostrare di avere esercitato tutta la
diligenza necessaria affinché il lavoratore sia effettivamente in condizione
di fruire delle ferie annuali retribuite alle quali aveva diritto, si deve
ritenere che l’estinzione del diritto a tali ferie alla fine del periodo di
riferimento o di riporto autorizzato e, in caso di cessazione del rapporto
di lavoro, il correlato mancato versamento di un’indennità finanziaria per
le ferie annuali non godute violino, rispettivamente, l’art. 7, paragrafo 1,
e l’art. 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88 (sentenza Grande Camera,
06.11.2018, causa C-684/16, MaxPlanck-Gesellschaft zur Förderung der
Wissenschaften eV; per analogia, le sentenze emesse sempre dalla grande
sezione il 6 novembre 2018, cause riunite C-569 e C-570/2016, Stadt
Wuppertal, e causa C-619/2016, Sebastian W. Kreuziger; sentenza del
16.03.2006, Robinson-Steele e a., C-131/04 e C257/04, EU:C:2006:177, punto
68; sul punto, per il diritto interno, soprattutto in motivazione, Cass.,
Sez. L, n. 21780 dell’08.07.2022, per la quale la perdita del diritto alle
ferie, ed alla corrispondente indennità sostitutiva alla cessazione del
rapporto di lavoro, può verificarsi soltanto qualora il datore di lavoro
offra la prova di avere invitato il lavoratore a godere delle ferie -se
necessario formalmente- e di averlo nel contempo avvisato -in modo accurato
ed in tempo utile a garantire che le ferie siano ancora idonee ad apportare
all’interessato il riposo ed il relax cui esse sono volte a contribuire-
che, in caso di mancata fruizione, tali ferie andranno perse al termine del
periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato).
Nella specie, la corte territoriale ha specificamente accertato che l’INPS
non aveva adempiuto all’onere probatorio su di esso incombente, ossia non
aveva provato di avere operato con la massima diligenza in modo da
consentire al lavoratore di godere delle ferie maturate.
Ne consegue che, non avendo il dipendente perso il diritto al godimento del
congedo, al momento della cessazione del rapporto di lavoro egli doveva
percepire l’indennità in esame nella sua interezza, la prescrizione del
detto diritto non potendo decorrere anteriormente a tale cessazione.
Non ignora questo Collegio l’esistenza di una risalente giurisprudenza di
legittimità per la quale, sulla base della natura anche risarcitoria
dell’indennità de qua, la prescrizione del diritto in questione opera pure
in costanza di rapporto (Cass., Sez. L, n. 10341 dell’11.05.2011).
A tale proposito, occorre ricordare, però, che, secondo costante
giurisprudenza eurounitaria, nell’applicare il diritto interno, i giudici
nazionali sono tenuti a interpretarlo per quanto possibile alla luce del
testo e dello scopo del diritto unionale vigente, così da conseguire il
risultato perseguito da quest’ultimo e conformarsi pertanto all’art. 288,
comma 3, TFUE (sentenza del 24.01.2012, Dominguez, C-282/10, EU:C:2012:33,
punto 24 e giurisprudenza ivi citata).
Il principio di interpretazione conforme esige che i giudici nazionali si
adoperino al meglio nei limiti del loro potere, prendendo in considerazione
il diritto interno nel suo insieme e applicando i metodi di interpretazione
riconosciuti da quest’ultimo, al fine di garantire la piena efficacia della
direttiva di cui trattasi e di pervenire a una soluzione conforme allo scopo
perseguito da quest’ultima (sentenza del 24.01.2012, Dominguez, C-282/10,
EU:C:2012:33, punto 27 e giurisprudenza ivi citata).
Come altresì dichiarato dalla Corte di giustizia UE, l’esigenza di
un’interpretazione conforme siffatta include, in particolare, l’obbligo, per
i giudici nazionali, di modificare, se del caso, una giurisprudenza
consolidata se questa si basa su un’interpretazione del diritto nazionale
incompatibile con gli scopi di una direttiva.
Pertanto, un giudice nazionale non può ritenere di trovarsi
nell’impossibilità di interpretare una disposizione nazionale conformemente
al diritto dell’Unione per il solo fatto che detta disposizione è stata
costantemente interpretata in un senso che è incompatibile con tale diritto
(sentenza del 17.04.2018, Egenberger, C-414/16, EU:C:2018:257, punti 72 e 73
e giurisprudenza ivi citata).
Nella presente controversia, l’interpretazione del diritto interno proposta
dall’INPS si porrebbe in netto contrasto con quello unionale, con la
conseguenza che il motivo deve essere respinto.
2)
Con il secondo motivo l’INPS denuncia la violazione e falsa
applicazione degli artt. 1362 ss. c.c., anche con riferimento all’art. 18,
nn. 9, 15 e 16 CCNL 1994-1997 enti pubblici non economici, e dell’art. 10
d.lgs. n. 87 del 2003, in relazione all’art. 111, comma 7, Cost., letto alla
luce dell’art. 6 CEDU.
Sostiene parte ricorrente che l’art. 10 del d.lgs. n. 66 del 2003 avrebbe
rinviato, in tema di godimento delle ferie, alla contrattazione collettiva e
che questa avrebbe ricollegato il diritto all’indennità oggetto del
contendere alla mancata fruizione di dette ferie “per esigenze di
servizio”.
Siffatte “esigenze di servizio” avrebbero dovuto essere provate,
però, dal lavoratore, essendo egli il soggetto che agiva in giudizio.
La doglianza è infondata.
La decisione della S.C., Sez. L.,
sentenza 08.07.2022 n. 21780, alla motivazione
della quale si rinvia integralmente, ha chiarito che, dalla interpretazione
del diritto interno in senso conforme al diritto dell’Unione, in particolare
delle sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea della grande
sezione del 06.11.2018, rese in cause riunite C-569 e C-570/2016, Stadt
Wuppertal, in causa C-619/2016, Sebastian W. Kreuziger ed in causa
C-684/2016, Max Planck, nonché dell’art. 7 delle direttive 2003/88 e 93/104
e dell’art. 31 della Carta dei diritti fondamentali della Unione europea,
deriva che:
A) le ferie annuali retribuite costituiscono un diritto
fondamentale ed irrinunciabile del lavoratore e correlativamente un obbligo
del datore di lavoro; il diritto alla indennità finanziaria sostitutiva
delle ferie non godute al termine del rapporto di lavoro è intrinsecamente
collegato al diritto alle ferie annuali retribuite;
B) è il datore di lavoro il soggetto tenuto a provare di avere
adempiuto al suo obbligo di concedere le ferie annuali retribuite, dovendo
sul punto darsi continuità al principio da ultimo affermato da Cass., Sez.
L,
sentenza 14.06.2018 n. 15652;
C) la perdita del diritto alle ferie ed alla corrispondente
indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro può verificarsi
soltanto nel caso in cui il datore di lavoro offra la prova:
- di avere invitato il lavoratore a godere delle ferie, se
necessario formalmente;
- di averlo nel contempo avvisato -in modo accurato ed in tempo
utile a garantire che le ferie siano ancora idonee ad apportare
all’interessato il riposo ed il relax cui esse sono volte a contribuire- del
fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del
periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato.
Inoltre, si osserva che l’art. 10, d.lgs. n. 66 del 2003, nel testo
anteriore al d.lgs. n. 213 del 2004, richiamato dall’INPS a sostegno della
propria tesi, prescrive, al primo comma, dopo avere stabilito che, fermo
restando quanto previsto dall’art. 2109 c.c., il prestatore di lavoro ha
diritto a un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro
settimane, che “I contratti collettivi di lavoro possono stabilire
condizioni di miglior favore”.
Pertanto, la contrattazione collettiva non può essere letta in maniera da
introdurre un trattamento deteriore per la controricorrente. Deve trovare
applicazione, nella specie, quindi, il principio per il quale è il datore di
lavoro, convenuto dal dipendente per ottenere il pagamento dell’indennità
finanziaria sostitutiva delle ferie non godute al termine del rapporto di
lavoro, il soggetto tenuto a provare di avere adempiuto al suo obbligo di
concederle.
...
4) Il ricorso principale è rigettato, in applicazione del seguente principio
di diritto:
“La prescrizione del diritto del lavoratore
all’indennità sostitutiva delle ferie e dei riposi settimanali non goduti
decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro, salvo che il datore di
lavoro non dimostri che il diritto alle ferie ed ai riposi settimanali è
stato perso dal medesimo lavoratore perché egli non ne ha goduto nonostante
l’invito ad usufruirne; siffatto invito deve essere formulato in modo
accurato ed in tempo utile a garantire che le ferie ed i riposi siano ancora
idonei ad apportare all’interessato il riposo ed il relax cui sono
finalizzati, e deve contenere l’avviso che, in ipotesi di mancato godimento,
tali ferie e riposi andranno persi al termine del periodo di riferimento o
di un periodo di riporto autorizzato”. |
maggio 2023 |
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Concorsi pubblici: il criterio della media dei voti
conseguiti nelle prove scritte o pratiche o
teorico-pratiche, stabilito dall'art. 7, comma 3, d.P.R.
487/1994, non è inderogabile.
Anche tenuto conto dell’orientamento
prevalso in giurisprudenza secondo cui il criterio della
media previsto dall’art. 7, comma 3, d.p.r. cit. previsto
per i concorsi per soli esami è applicabile, quale regola di
carattere generale, anche ai concorsi per titoli ed esami,
va rilevato che la detta regola non può essere definita come
un “principio che precluda di per sé l'introduzione di una
regola diversa” dal momento che l’art. 70, comma 13, d.lgs.
30.03.2001 n. 165, prevede che: “in materia di reclutamento,
le pubbliche amministrazioni applicano la disciplina
prevista dal d.p.r. 09.05.1994 n. 487, e successive
modificazioni ed integrazioni, per le parti non
incompatibili con quanto previsto dagli articoli 35 e 36,
salvo che la materia venga regolata, in coerenza con i
princìpi ivi previsti, nell'ambito dei rispettivi
ordinamenti.
---------------
RITENUTO
che può prescindersi dalla disamina delle eccezioni in rito stante
l’infondatezza nel merito del ricorso;
che ai sensi dell’art. 12 del bando la votazione complessiva dei
candidati andava calcolata sommando il voto conseguito nella
valutazione dei titoli (secondo i criteri di cui all’art. 8
che demandava a sua volta al regolamento comunale approvato
con delibera di Giunta n. 12/2010) al voto complessivo
riportato nelle prove d’esame, ove il punteggio massimo per
i titoli era fissato in 10, il punteggio minimo per ciascuna
prova scritta, pratica ed orale era fissato in un minimo di
21 ed un massimo di 30, con la precisazione che l’ammissione
a ciascuna prova richiedeva il conseguimento del punteggio
minimo di 21;
che, analogamente, secondo l’articolo 9 del bando, la graduatoria
andava formata secondo l’ordine decrescente del punteggio
totale espresso in centesimi determinato “sommando il
voto riportato nella valutazione dei titoli (max 10 punti)
con il voto complessivo riportato nelle prove d’esame (max
90 punti)”;
che, all’evidenza, in alcun modo la lex specialis
legittimava l’interpretazione del bando fornita in ricorso
secondo cui il punteggio andava calcolato attraverso la
somma della “media” dei voti conseguiti nelle prove
scritte o pratiche o teorico-pratiche e della votazione
conseguita nel colloquio orale;
che difatti la norma del bando era chiara nel prevedere
l’espressione del punteggio in centesimi, e che il punteggio
massimo era dato dalla somma aritmetica pari a 90 del voto
di 30 riportato in ciascuna delle tre prove “scritta”,
“pratica” ed “orale” e della massima
valutazione di 10 attribuibile per i titoli;
che diversamente il criterio di computo della media tra il voto
della prova scritta e quello della prova pratica invocato
dal ricorrente non consentirebbe l’espressione del voto
finale in centesimi come desumibile peraltro dai calcoli
riportati in ricorso;
che nemmeno può profilarsi la prospettata illegittimità del bando
gravato in parte qua per violazione dell’articolo 7,
comma 3, del d.p.r. n. 487/1994, relativo ai concorsi per
soli esami, nella parte in cui richiama il comma 4 dell’art.
8 d.p.r. cit., relativo ai concorsi per titoli ed esami, a
tenore del quale, il punteggio complessivo è costituito
dalla somma del punteggio conseguito per la valutazione dei
titoli, della media del punteggio realizzato nelle prove
scritte o pratiche o teorico-pratiche e del punteggio
attribuito alla prova orale;
che sul punto anche tenuto conto dell’orientamento prevalso in
giurisprudenza secondo cui il criterio della media previsto
dall’art. 7, comma 3, d.p.r. cit. previsto per i concorsi
per soli esami è applicabile, quale regola di carattere
generale, anche ai concorsi per titoli ed esami (cfr Tar
Lazio sez. II 08/07/2015 n. 9159), va rilevato che la detta
regola non può essere definita come un “principio che
precluda di per sé l'introduzione di una regola diversa”
dal momento che l’art. 70, comma 13, d.lgs. 30.03.2001 n.
165, prevede che: “in materia di reclutamento, le
pubbliche amministrazioni applicano la disciplina prevista
dal d.p.r. 09.05.1994 n. 487, e successive modificazioni ed
integrazioni, per le parti non incompatibili con quanto
previsto dagli articoli 35 e 36, salvo che la materia venga
regolata, in coerenza con i princìpi ivi previsti,
nell'ambito dei rispettivi ordinamenti”; (cfr. in caso
analogo Cons. St. sez. VI 13.03.2013 n. 1520);
che nella specie le parti intimate hanno dedotto che il bando
risponde all’ordinamento proprio dell’amministrazione
intimata in quanto emanato in conformità alla disciplina
regolamentare adottata dal Comune con delibera G.C. n.
12/2020 non oggetto di contestazione in parte qua;
che tra i principi di cui al comma 3 dell’art. 35 d.lgs. n.
165/2001, cui devono uniformarsi le procedure di
reclutamento delle pubbliche amministrazioni, alla lettera
b) è indicata l’adozione di meccanismi oggettivi e
trasparenti, idonei a verificare il possesso dei requisiti
attitudinali e professionali richiesti in relazione alla
posizione da ricoprire, tra i quali non è richiamato il
metodo di calcolo dei punteggi di cui all’art. 7, comma 4,
del d.p.r. n. 487 cit.;
che comunque non può ritenersi arbitraria o discriminatoria, né
contraria al disposto normativo invocato dal ricorrente, o
alla norma di principio di cui all’art. 35, comma 3, del
d.lgs. n. 165 cit., la volontà dell’amministrazione
intimata, resa palese sin dall’emanazione del bando, di
attribuire nella fattispecie alla prova pratica lo stesso
peso ponderale previsto per la prova scritta (in luogo della
media tra prova scritta e prova pratica), tenuto conto della
natura tecnica e operativa del posto messo a concorso, e
della difformità ontologica tra le due prove, scritta e
pratica, volte a verificare attitudini e capacità diverse;
che pertanto alla luce di quanto sopra il ricorso va respinto
siccome infondato e, vista la natura delle questioni
trattate, ricorrono giusti motivi per compensare tra le
parti le spese di giudizio (TAR
Abruzzo-Pescara,
sentenza 08.05.2023 n. 167 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
luglio 2022 |
|
PUBBLICO IMPIEGO: L.
Di Donna,
Illegittima la revoca anticipata dell’incarico di PO non ancorata
esplicitamente a un mutamento dell'assetto organizzativo (17.08.2022
- tratto da e link a www.neopa.it).
Con l’ordinanza 22.07.2022 n. 22926, la Sezione
Lavoro della Corte di Cassazione ha rammentato che la
revoca anticipata dell'incarico di posizione organizzativa incontra i limiti
legislativamente e pattiziamente stabiliti.
In particolare, ricorda la Corte, l'art. 9 del CCNL del comparto Regioni ed
autonomie locali del 31.03.1999 (si v. oggi l’art. 14, comma 3, del CCNL del
comparto Funzioni locali), integrando la disciplina normativa, stabilisce,
al comma 3: «Gli incarichi possono essere revocati prima della scadenza
con atto scritto e motivato, in relazione a intervenuti mutamenti
organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di risultati
negativi».
La suddetta disciplina prevede, dunque, che la revoca di un incarico possa
scaturire o da un procedimento disciplinare o dal mancato raggiungimento
degli obiettivi o da esigenze riorganizzative adeguatamente motivate;
quanto, in particolare alle ragioni riorganizzative, la revoca anticipata
dell'incarico dirigenziale per tali esigenze, pur prevista dalla
contrattazione collettiva, deve essere adottata però con un atto formale e
richiede una motivazione esplicita, fondata su ragioni attinenti al settore
cui è preposto il dirigente (cfr. Cass. 06.10.2020, n. 21482; Cass.
03.02.2017, n. 2972).
Non può pertanto ritenersi legittimamente disposta una revoca anticipata
dell’incarico indirettamente scaturita dal conferimento dello stesso al
segretario comunale per ragioni non riconducibili ad un mutamento
dell'assetto organizzativo (nel caso di specie la revoca è stata motivata
dall'esigenza generica di «assicurare la continuazione della gestione
coordinata del settore "segreteria-affari legali-innovazioni tecnologiche e
sistemi informatici" e del settore "affari istituzionali-personale e
interventi economici"»).
Invero, precisa l’ordinanza, con riguardo all'istituto della revoca
anticipata di cui all'art. 9 del CCNL 31.03.1999, ai fini della salvaguardia
dei principi costituzionali di buon andamento e imparzialità
dell'Amministrazione, la revoca deve essere adottata con un atto formale,
deve essere motivata in modo esplicito e le ragioni organizzative, per
costituire legittimo fondamento della revoca anticipata dell'incarico
dirigenziale, devono attenere allo specifico settore cui è preposto il
dirigente (Cass. n. 2972/2017, cit.; Cass. 02.09.2010, n. 19009). |
PUBBLICO IMPIEGO: La
revoca anticipata dell'incarico di P.O. incontra i limiti legislativamente e pattiziamente
stabiliti.
Muovendo dall'esame della normativa di riferimento, va ricordato
che l'art. 109 del d.lgs. n. 267 del 2000, rubricato «Conferimento di
incarichi dirigenziali», prevede, al primo comma: «Gli incarichi
dirigenziali sono conferiti a tempo determinato [...] con provvedimento
motivato e con le modalità fissate dal regolamento sull'ordinamento degli
uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza professionale, in
relazione agli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o
del presidente della provincia e sono revocati in caso di inosservanza delle
direttive del sindaco o del presidente della provincia, della giunta o
dell'assessore di riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al
termine di ciascun anno finanziario degli obiettivi assegnati nel piano
esecutivo di gestione [..] o per responsabilità particolarmente grave o
reiterata e negli altri casi disciplinati dai contratti collettivi di
lavoro. L'attribuzione degli incarichi può prescindere dalla precedente
assegnazione di funzioni di direzione a seguito di concorsi»; mentre
l'art. 9 del CCNL 31.03.1999, Enti locali, integrando la disciplina
normativa, stabilisce, al comma 3: «Gli incarichi possono essere revocati
prima della scadenza con atto scritto e motivato, in relazione a intervenuti
mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di
risultati negativi».
Ebbene, la suddetta disciplina prevede, dunque, che la revoca di un
incarico possa scaturire o da un procedimento disciplinare o dal mancato
raggiungimento degli obiettivi o da esigenze riorganizzative adeguatamente
motivate; quanto, in particolare alle ragioni riorganizzative, la revoca
anticipata dell'incarico dirigenziale per tali esigenze, pur prevista dalla
contrattazione collettiva, deve essere adottata però con un atto formale e
richiede una motivazione esplicita, fondata su ragioni attinenti al settore
cui è preposto il dirigente.
Invero, con riguardo all'istituto della revoca anticipata di cui
all'art. 9 del CCNL 31.03.1999, ai fini della salvaguardia dei principi
costituzionali di buon andamento e imparzialità dell'Amministrazione, la
revoca deve essere adottata con un atto formale, deve essere motivata in
modo esplicito e le ragioni organizzative, per costituire legittimo
fondamento della revoca anticipata dell'incarico dirigenziale, devono
attenere allo specifico settore cui è preposto il dirigente.
---------------
Rilevato che:
1. con sentenza n. 1091/2015, pubblicata in data 17.11.2015, la
Corte d'appello di Salerno confermava le due statuizioni del Tribunale di
Vallo della Lucania che avevano respinto le domande proposte (con distinti
ricorsi) da Ge.Br. nei confronti del Comune di Aiscea, la prima intesa a
ottenere, previa declaratoria di illegittimità del decreto del Sindaco di
Ascea del 01.10.2015, l'affermazione del suo diritto a dirigere il settore
Affari Istituzionali-Personale-Cultura-Turismo ed Interventi economici, con
reintegra in tale incarico, e, la seconda, diretta ad accertare che, dopo la
revoca dell'incarico di posizione organizzativa, gli erano state assegnate,
con una serie di atti volti a emarginarlo e isolarlo, mansioni inferiori,
donde il diritto al ristoro del danno, patrimoniale e non patrimoniale,
patito;
il Br., in servizio presso l'ente locale con inquadramento D,
posizione giuridica D6, premesso di essere stato nominato responsabile del
settore predetto con disposizione n. 72 del 23.05.2003 e che, dopo
l'insediamento del nuovo Sindaco, avvenuto a giugno 2004, gli era stato
conferito, in data 04.03.2005, un incarico di posizione organizzativa ai
sensi dell'art. 8 e ss. del CCNL 1999 e dell'art. 44 del Regolamento degli
uffici e dei servizi del Comune di Ascea, con termine di scadenza
trimestrale, poi prorogato, aveva dedotto che, nonostante lo scrutinio
d'efficienza del Nucleo di valutazione, il Sindaco aveva illegittimamente
conferito, in data 01.10.2005, la relativa delega al segretario comunale;
aveva soggiunto che, dopo l'entrata in carica della nuova Giunta,
l'ufficio da lui diretto era stato privato di un'unità di personale ed egli
era stato estromesso, con plurime condotte mobbizzanti, dalle decisioni
amministrative programmatiche che coinvolgevano il suo settore, con indebita
attribuzione di mansioni prettamente esecutive e conseguente insorgenza, per
effetto dell'illecita condotta dell'amministrazione, di una sindrome
ansioso-depressiva nonché di patologie ipertensive e ulcerose;
la Corte territoriale, adita dagli eredi del Br. con distinti
gravami, poi riuniti, respingeva i ricorsi ex art. 434 cod. proc. civ.;
osservava in particolare che la revoca dell'incarico di posizione
organizzativa, legittimamente disposta ai sensi dell'art. 9 CCNL 31.03.1999,
era dovuta non a insufficiente rendimento, ma a mutamento dell'assetto
organizzativo dell'ente, e di ciò dava atto il provvedimento del 01.10.2005,
il quale, nel conferire l'incarico in parola al segretario comunale,
evidenziava la necessità di «assicurare la continuazione della gestione
coordinata del settore "segreteria-affari legaliinnovazioni tecnologiche e
sistemi informatici" e del settore "affari istituzionalipersonale e
interventi economici"»;
sulla scorta delle testimonianze assunte in prime cure, la Corte di
merito, in sintonia con le argomentazioni del primo giudice, escludeva
l'esistenza di un comportamento mobbizzante o comunque di violazioni
dell'art. 2103 cod. civ., le quali non potevano dirsi integrate per il sol
fatto della revoca dell'incarico direttivo, stante la non configurabilità di
un diritto soggettivo a conservarlo;
rilevava infine la Corte territoriale che, dopo la revoca
dell'incarico, vissuta dal Br. come un sostanziale «declassamento»,
era insorta «aspra polemica con i vertici politici» culminata nel
rifiuto di accettare pratiche che provenivano dal segretario comunale e indi
nella vicenda del disposto trasferimento interno (impugnato in via
cautelare) al terzo piano, ove il Br. alfine si sistemò «in una posizione
priva di poteri effettivi ma in sostanza, e per così dire, autoindotta»;
2. avverso tale sentenza gli eredi di Br.Ge. hanno proposto ricorso
per cassazione affidato a sette motivi;
3. il Comune di Ascea ha resistito con controricorso illustrato con
memoria ex art. 378 cod. proc. civ., mentre l'Unione Italiana
Lavoro-Federazione Poteri Locali (UIL-FPL) è rimasta intimata.
Considerato che:
1. con il primo motivo i ricorrenti denunciano, in relazione
all'art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa
applicazione degli artt. 2 e 5 del d.lgs. 30.03.2001 n. 165 e dell'art. 9
CCNL 1999 del Comparto Enti Locali; sostengono che i mutamenti organizzativi
cui farebbe riferimento l'art. 9, cit., si riferirebbero agli atti di
macro-organizzazione incidenti sull'assetto organizzativo e strutturale
dell'ente, previsti dall'art. 2 d.lgs. n. 165, cit., mentre nella specie «l'incarico
conferito al segretario comunale, allo stesso modo dell'incarico conferito
al Br., è atto di tipo datoriale, adottato con i poteri del privato datore
di lavoro», di qui l'illegittimità della revoca non consentita per gli
atti di «microorganizzazione » di cui all'art. 5, d.lgs. n. 165„ cit.;
2. con il secondo motivo i ricorrenti denunciano, ex art.
360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., la violazione degli artt. 7 e 32 del
Regolamento Uffici e Servizi del Comune di Ascea approvato con delibera di
Giunta comunale n. 72/03, degli artt. 89, 97, 107 e 109 del TUEL (d.lgs.
18.08.2000 n. 267), dell'art. 9 CCNL del 1999 e dell'art. 15 CCNL 2002
Comparto Enti Locali, dell'art. 52 d.lgs. n. 165/2001, dell'art. 2103 cod.
civ.; assumono che, ove manchino figure dirigenziali, gli uffici sono
affidati alla responsabilità dei dipendenti di cat. D e che al segretario
comunale non potrebbero essere affidati compiti di gestione «se non in
via transitoria, per motivi eccezionali», compiti che sarebbero invece
spettati esclusivamente al Br., siccome titolare di una posizione apicale
all'interno dell'ente, pena, in difetto, il suo inevitabile demansionamento;
3. il primo ed il secondo motivo, trattati
unitariamente, sono fondati nei sensi qui di seguito esposti. Denunciano, in
sostanza, i ricorrenti l'insussistenza dei presupposti della revoca
dell'incarico di posizione organizzativa e l'illegittimità del contestuale
conferimento dello stesso al segretario comunale.
In ragione della funzione del giudizio di legittimità di garantire
l'osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, nonché per omologia
con quanto prevede la norma di cui al secondo comma dell'art. 384 cod. proc.
civ., deve ritenersi che, nell'esercizio del potere di qualificazione in
diritto dei fatti, la Corte di cassazione può ritenere fondata la questione,
sollevata dal ricorso, per una ragione giuridica diversa da quella
specificamente indicata dalla parte e individuata d'ufficio, con il solo
limite che tale individuazione deve avvenire sulla base dei fatti per come
accertati nelle fasi di merito ed esposti nel ricorso per cassazione e nella
stessa sentenza impugnata, senza cioè che sia necessario l'esperimento di
ulteriori indagini di fatto, fermo restando, peraltro, che l'esercizio del
potere di qualificazione non deve inoltre confliggere con il principio del
monopolio della parte nell'esercizio della domanda e delle eccezioni in
senso stretto, con la conseguenza che resta escluso che la Corte possa
rilevare l'efficacia giuridica di un fatto se ciò comporta la modifica della
domanda per come definita nelle fasi di merito o l'integrazione di una
eccezione in senso stretto (Cass. 28.07.2017, n. 18775; Cass. 14.02.2014, n.
3437; 22.03.2007, n. 6935).
3.1 Ciò detto, è pacifico tra le parti che l'incarico del Br. quale
dirigente del settore Affari Istituzionali-Personale-Cultura-Turismo e
Interventi economici fosse stato, da ultimo, confermato in data 25/07/2003 e
che fosse altresì intervenuto un giudizio positivo del Nucleo di
valutazione; era stato poi emesso il decreto sindacale del 01.10.2005, con
il quale il Sindaco del Comune di Ascea aveva conferito l'incarico in parola
al segretario comunale;
la Corte territoriale, nell'assumere l'irrilevanza della durata
(trimestrale) dell'incarico, ha vagliato le determinazioni dell'Ente in
relazione alla sussistenza dei presupposti normativi per la revoca del
conferimento della posizione organizzativa («è irrilevante che l'incarico
dovesse avere la durata individuata dall'art. 19 del d.lgs. n. 165/2001 o
dall'art. 44 del regolamento comunale, ciò che conta è che la revoca sia
stata legittimamente disposta»: così a pag. 6 della sentenza impugnata);
sennonché, la revoca anticipata dell'incarico incontra i limiti
legislativamente e pattiziamente stabiliti;
muovendo dall'esame della normativa di riferimento, va ricordato
che l'art. 109 del d.lgs. n. 267 del 2000, rubricato «Conferimento di
incarichi dirigenziali», prevede, al primo comma: «Gli incarichi
dirigenziali sono conferiti a tempo determinato [...] con provvedimento
motivato e con le modalità fissate dal regolamento sull'ordinamento degli
uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza professionale, in
relazione agli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o
del presidente della provincia e sono revocati in caso di inosservanza delle
direttive del sindaco o del presidente della provincia, della giunta o
dell'assessore di riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al
termine di ciascun anno finanziario degli obiettivi assegnati nel piano
esecutivo di gestione [..] o per responsabilità particolarmente grave o
reiterata e negli altri casi disciplinati dai contratti collettivi di
lavoro. L'attribuzione degli incarichi può prescindere dalla precedente
assegnazione di funzioni di direzione a seguito di concorsi»; mentre
l'art. 9 del CCNL 31.03.1999, Enti locali, integrando la disciplina
normativa, stabilisce, al comma 3: «Gli incarichi possono essere revocati
prima della scadenza con atto scritto e motivato, in relazione a intervenuti
mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di
risultati negativi»;
ebbene, la suddetta disciplina prevede, dunque, che la revoca di un
incarico possa scaturire o da un procedimento disciplinare o dal mancato
raggiungimento degli obiettivi o da esigenze riorganizzative adeguatamente
motivate; quanto, in particolare alle ragioni riorganizzative, la revoca
anticipata dell'incarico dirigenziale per tali esigenze, pur prevista dalla
contrattazione collettiva, deve essere adottata però con un atto formale e
richiede una motivazione esplicita, fondata su ragioni attinenti al settore
cui è preposto il dirigente (cfr. Cass.
ordinanza 06.10.2020 n.
21482; Cass.
sentenza 03.02.2017 n. 2972);
3.2 nel caso di specie, invece, come è pacifico tra le parti, la
revoca era indirettamente scaturita dal conferimento dello stesso incarico
al segretario comunale, per effetto del quale il Br. era privato dei compiti
precedentemente assegnati; ma tale determinazione implicita, motivata
dall'esigenza generica di «assicurare la continuazione della gestione
coordinata del settore "segreteria-affari legali-innovazioni tecnologiche e
sistemi informatici" e del settore "affari istituzionali-personale e
interventi economici"»,
non ancorata esplicitamente a un mutamento dell'assetto organizzativo, non
integra quella «riorganizzazione» richiesta dalla disciplina pattizia
per la revoca anticipata dell'incarico dirigenziale.
Invero, con riguardo all'istituto della revoca anticipata di cui
all'art. 9 del CCNL 31.03.1999, ai fini della salvaguardia dei principi
costituzionali di buon andamento e imparzialità dell'Amministrazione, la
revoca deve essere adottata con un atto formale, deve essere motivata in
modo esplicito e le ragioni organizzative, per costituire legittimo
fondamento della revoca anticipata dell'incarico dirigenziale, devono
attenere allo specifico settore cui è preposto il dirigente (Cass.
sentenza 03.02.2017 n. 2972, cit.; Cass. 02.09.2010, n. 19009).
Pertanto, alla stregua (e nei limiti) dei rilievi suesposti, i
primi due motivi di ricorso devono essere accolti, dovendo la Corte
d'appello in sede di rinvio fare applicazione del principio di diritto
dianzi enunciato
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza
22.07.2022 n. 22926).
---------------
Si legga al riguardo anche:
● L. Oliveri,
Cassazione: illegittima la revoca di incarico di posizione organizzativa per
“esigenze organizzative” fittizie. Non ammissibile incaricare il
segretario comunale senza una effettiva e motivata modifica della
macrostruttura dell’ente, ma in base a decisione ad personam penalizzando il
precedente incaricato (17.08.2022 - link a https://leautonomie.asmel.eu).
...
No alle revoche di incarichi di preposizione ai vertici delle strutture
giustificati da “riorganizzazioni” solo fittizie, ma nella realtà volti
semplicemente ad incidere sull’incaricato che finisce per essere esautorato
a vantaggio di altri.
L’ordinanza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 22.07.2022, n. 22926
interviene opportunamente per stigmatizzare una prassi illegittima ma molto
diffusa nelle amministrazioni locali e non solo: l’abitudine, cioè, di
incidere negativamente sugli incarichi di dirigenti o posizioni
organizzative, destituendo soggetti “non graditi” o non “in linea”, sulla
base di riorganizzazioni che non riorganizzano nulla, ma semplicemente si
limitano a sostituire il precedente incaricato con un altro, senza
rispettare alcuna delle disposizioni appositamente previste dalla legge e
dalla contrattazione collettiva proprio per evitare revoche ad nutum.
(...continua). |
PUBBLICO IMPIEGO: L’ipotesi
di sopravvenuti mutamenti organizzativi non ha attinenza con la procedura di
valutazione annuale né con la ratio, di partecipazione e di garanzia del
dipendente, sottesa all’obbligo del contraddittorio, sicché la previsione
del previo contraddittorio con l’interessato (ex art. 9, comma 4, del CCNL
31.03.1999 Regioni ed Autonome Locali)
riguarda la sola ipotesi di revoca anticipata dell’incarico di posizione
organizzativa in conseguenza dello specifico accertamento di risultati
negativi e non anche in caso di revoca per intervenuti mutamenti
organizzativi.
---------------
RILEVATO CHE
1. Con sentenza del 15.04.2016 la Corte di appello di Roma, in riforma della
sentenza del Tribunale di Tivoli, rigettava la domanda proposta da LU.FI.,
dipendente del Comune di GUIDONIA MONTECELIO (in prosieguo: il COMUNE):
- per l’accertamento della illegittimità della revoca anticipata
della posizione organizzativa conferitale presso l’Area VII del Comune a
seguito del trasferimento, con atto del 13.07.2010, dall’area VII all’area
III, per la dichiarazione di illegittimità dello stesso trasferimento ed il
risarcimento del danno patrimoniale;
- per l’accertamento di una fattispecie di mobbing e per il
risarcimento del conseguente danno non patrimoniale.
2. La Corte territoriale osservava che l’articolo 9 CCNL del Comparto
REGIONI ED AUTONOMIE LOCALI del 31.03.1999 prevedeva due ipotesi di revoca
anticipata della posizione organizzativa, rispettivamente per esigenze
organizzative sopravvenute e per l’accertamento di risultati negativi.
3. Soltanto in questa seconda ipotesi era previsto il previo contraddittorio
con il dipendente interessato e non in caso di revoca per ragioni
organizzative, come confermato anche dalle disposizioni regolamentari.
4. Nella fattispecie di causa, il provvedimento di riassegnazione della FI.,
che non configurava trasferimento, era adeguatamente motivato per
relationem; dalla riorganizzazione disposta dal Comune, di cui dava atto
la stessa dipendente, derivava la necessità di garantire all’area III una
dirigenza tecnica ed un funzionario amministrativo (professionalità
posseduta dalla FI.).
5. Dalla legittimità degli atti impugnati derivava l’accoglimento
dell’appello incidentale del COMUNE e l’assorbimento dell’appello principale
della FI..
6. Ha proposto ricorso per cassazione della sentenza LU.FI., articolato in
sei ragioni di censura ed illustrato con memoria, cui ha resistito il COMUNE
con controricorso.
CONSIDERATO CHE
...
27. Con il quinto motivo la ricorrente ha lamentato ―ai sensi
dell’articolo 360 nr. 3 e nr. 5 cod. proc. civ.― la violazione e falsa
applicazione degli articoli 8 e 9 CCNL 31.03.1999 e dell’articolo 9 del
regolamento delle posizioni organizzative nonché l’omessa motivazione,
censurando la statuizione secondo cui l’obbligo del previo contraddittorio
con il dipendente riguarderebbe soltanto la revoca della posizione
organizzativa in conseguenza dell’ accertamento di risultati negativi e non
anche il caso di revoca per mutamenti organizzativi.
28. Si evidenzia che l’articolo 9 del CCNL REGIONI ED AUTONOMIE LOCALI del
31.03.1999 prevede la procedura in contraddittorio, al comma quattro, «per
la revoca anticipata di cui al comma 3», comma comprendente entrambe le
ipotesi di revoca.
29. Si deduce, altresì, la carenza di motivazione della revoca, in quanto la
sentenza impugnata avrebbe avallato la tesi della revoca della posizione
organizzativa implicita nell’atto di trasferimento ad altra struttura,
laddove l’articolo 9 del regolamento delle posizioni organizzative richiede
la motivazione in ogni caso di revoca della posizione organizzativa.
30. La censura è inammissibile nella parte in cui deduce in via diretta la
violazione del regolamento comunale sulle posizioni organizzative, in quanto
esso non costituisce norma di diritto, ma disposizione adottata dal datore
di lavoro pubblico con i poteri privatistici di gestione del rapporto di
lavoro.
31. La deduzione della violazione dell’obbligo di motivazione della revoca
anticipata della posizione organizzativa ―obbligo previsto dall’articolo 9,
comma tre, CCNL REGIONI ED AUTONOMIE LOCALI 31.03.1999― non si confronta con
la ratio decidendi della sentenza impugnata, che ha ritenuto assolto
l’obbligo di motivazione, in quanto detta motivazione era contenuta nello
stesso atto di riassegnazione della Fi. ad altra area (pagina 5 della
sentenza impugnata, capoverso 4 e capoverso 5).
32. Il motivo è infondato quanto all’assunta necessità del contraddittorio
con il dipendente interessato in caso di revoca della posizione
organizzativa dovuta a «mutamenti organizzativi».
33. Vero è che l’articolo 9, comma quattro, del CCNL REGIONI ED AUTONOMIE
LOCALI del 31.03.1999 prevede la procedura in contraddittorio per la revoca
anticipata dell’incarico «di cui al comma 3» e che il predetto comma
tre si riferisce congiuntamente alla revoca anticipata «in relazione a
intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico
accertamento di risultati negativi».
34. Tuttavia, la disposizione contenuta nell’ultima parte del comma quattro
va letta congiuntamente alle precedenti proposizioni dello stesso comma,
relative alla valutazione annuale dei risultati dell’ attività svolta dai
dipendenti cui sia attribuito un incarico di posizione organizzativa.
35. In particolare, il comma quattro dispone che la valutazione dei
risultati, regolata da criteri e procedure predeterminati dall’ente, se
positiva, dà titolo anche alla corresponsione della retribuzione di
risultato; se non positiva deve essere preceduta dal contraddittorio con il
dipendente interessato. L’ultima parte della stessa disposizione si
riferisce chiaramente ad una terza eventualità― ovvero l’accertamento «specifico»
di risultati negativi― che, a norma del precedente comma tre, determina
anche la revoca anticipata della posizione organizzativa e si limita a
prevedere che anche in questo caso la valutazione deve essere preceduta dal
contraddittorio con il dipendente interessato.
36. Resta invece fuori dalla previsione del comma quattro l’ipotesi di
sopravvenuti mutamenti organizzativi, che non ha alcuna attinenza con la
procedura di valutazione annuale né con la ratio, di partecipazione e di
garanzia del dipendente, sottesa all’obbligo del contraddittorio.
37. In conclusione, l’articolo 9, comma quattro, del CCNL 31.03.1999 REGIONI
ED AUTONOMIE LOCALI prevede l’obbligo del previo contraddittorio con
l’interessato per la sola ipotesi di revoca anticipata dell’incarico di
posizione organizzativa in conseguenza dello specifico accertamento di
risultati negativi e non anche in caso di revoca per intervenuti mutamenti
organizzativi, come correttamente affermato nella sentenza impugnata (Corte
di Cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza 11.07.2022 n. 21930). |
maggio 2022 |
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PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi
dirigenziali esterni, «sì» alla clausola risolutiva del contratto in caso di
soppressione della struttura.
In sede di incarico dirigenziale conferito dalla Pa a un soggetto esterno è
legittima la clausola che prevede una condizione risolutiva al contratto di
lavoro, con riferimento al caso di sopravvenuta soppressione della struttura
o di sostanziale modifica delle competenze alla stessa assegnate.
Tale
condizione risolutiva non incorre nella fattispecie di nullità sancita
dall'articolo 1418 del codice civile per le clausole negoziali di
risoluzione automatica del contratto di lavoro subordinato, né dà luogo a
un'ipotesi di licenziamento o di revoca dell'incarico dirigenziale in
violazione del sistema ordinamentale.
Al contrario, la clausola costituisce la previsione anticipata di un effetto
risolutivo che si produrrebbe comunque secondo l'articolo 1463 del codice
civile (impossibilità totale nel contratto con prestazioni corrispettive).
Con queste motivazioni la Corte di Cassazione (Sezione Lavoro,
sentenza 10.05.2022 n. 14758) ha accolto il ricorso
proposto dalla Regione Marche contro la decisione n. 286/2015 della Corte
d'Appello di Ancona, che:
• aveva dichiarato l'illegittimità della delibera regionale di risoluzione
del contratto di lavoro stipulato nel 2011, avente a oggetto l'affidamento
di un incarico per la dirigenza della struttura «Dipartimento per la salute
e per i servizi sociali»;
• aveva condannato la Regione Marche al ripristino del rapporto di lavoro con
il dirigente interessato e al risarcimento del danno.
La clausola risolutiva del contratto era stata applicata dopo il varo della
legge regionale 45/2012 che disponeva la soppressione del «Dipartimento per
la salute e per i servizi sociali» e la sostituzione di detta struttura con
due nuovi servizi, cioè il «Servizio sanità» e il «Servizio politiche
sociali», sempre incardinati nell'organizzazione regionale del settore. Di
qui la risoluzione del rapporto con il dirigente del disciolto Dipartimento
e l'avvio del contenzioso giunto poi all'esame della Suprema Corte.
La cassazione ha sostenuto che il divieto di clausole negoziali di
risoluzione automatica del contratto non può essere automaticamente
trasposto, nel pubblico impiego, al rapporto di lavoro subordinato a termine
per lo svolgimento di un incarico dirigenziale.
Questo perché secondo il testo unico in materia negli incarichi dirigenziali
si distinguono due momenti, ossia il conferimento dell'incarico, che ha
luogo per atto unilaterale della Pa, e la fissazione del trattamento
economico, che viene disciplinato con contratto (articolo 19 del Dlgs
165/2001).
In tale contesto, la revoca ante tempus è consentita dall'articolo 21 del
decreto nella sola ipotesi di responsabilità dirigenziale, mentre nel caso
di motivate esigenze organizzative il sistema ha codificato la facoltà della
Pa di disporre il passaggio dei dirigenti ante tempus ad altro incarico.
Nel caso di specie, la clausola apposta al contratto dirigenziale si
riferiva all'ipotesi di una soppressione della struttura o di una modifica
delle sue competenze «effettuate nelle stesse forme previste dalla vigente
normativa per la sua istituzione», facendo rinvio a un evento non solo
futuro e incerto, ma anche indipendente dalla volontà delle parti.
Tutto ciò ha indotto la Suprema Corte a concludere che la sentenza impugnata
ha operato un'indebita sovrapposizione della disciplina del licenziamento a
quella della risoluzione dell'incarico dirigenziale per la sopravvenuta
modifica della struttura organizzativa della Pa
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 23.05.2022). |
PUBBLICO IMPIEGO: In caso di soppressione della struttura
è legittima la clausola risolutiva
del contratto di lavoro del dirigente esterno.
In caso di sopravvenuta soppressione della struttura o di sostanziale
modifica delle competenze assegnate alla stessa è legittima la clausola che
preveda una condizione risolutiva del contratto di lavoro relativo ad un
incarico dirigenziale conferito dalla P.A. ad un soggetto esterno.
Tanto, ai sensi dell’art. 1463 c.c. per impossibilità sopravvenuta nel
contratto con prestazioni corrispettive, non ricorrendo né la fattispecie
della nullità ex art. 1418 c.c. per le clausole negoziali di risoluzione
automatica del contratto di lavoro subordinato, né un'ipotesi di
licenziamento o di revoca dell'incarico dirigenziale in violazione del
sistema ordinamentale.
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7. Il ricorso, i cui motivi possono essere trattati congiuntamente per la
loro connessione, è fondato.
8. Giova premettere che il RU. venne incaricato dalla REGIONE MARCHE, con il
contratto del 14.01.2011, quale soggetto esterno, di dirigere il ««DIPARTIMENTO
PER LA SALUTE E PER I SERVIZI SOCIALI»; tale dipartimento era stato
istituito con la Legge Regionale Marche 22.11.2010 nr. 17, articolo 4,
nell'ambito delle strutture organizzative della Giunta Regionale.
9. Secondo l'articolo 9 del contratto di lavoro, il rapporto si sarebbe
risolto di diritto «in caso di soppressione della struttura o di
sostanziale modifica delle competenze alla stessa assegnate, effettuate
nelle stesse forme previste dalla vigente normativa per la sua istituzione».
La L.R. MARCHE 27.12.2012 nr. 45, articolo 19, sostituì al «DIPARTIMENTO
PER LA SALUTE E PER I SERVIZI SOCIALI» due servizi, il SERVIZIO SANITA'
ed il SERVIZIO POLITICHE SOCIALI, sempre incardinati nell'ambito delle
strutture organizzative della Giunta Regionale. Di qui il rilievo del
suddetto articolo 9 del contratto di lavoro.
10. La Corte di merito ha ritenuto nulla tale previsione contrattuale
applicando un principio— la nullità ex articolo 1418 cod. civ. delle
clausole negoziali di risoluzione automatica del contratto di lavoro
subordinato— enunciato da questa Corte (ex aliis, Cass. sez. un.
07.08.1998 n. 7755; Cassazione civile sez. lav., 04/06/1999, n. 5501) in
riferimento ai rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato di
diritto privato; si è, infatti, affermato che ammettere fattispecie di
estinzione del rapporto di lavoro non sottoposte ai limiti generali del
sistema dei licenziamenti significherebbe ridurre arbitrariamente l'ambito
di operatività del sistema stesso.
11. Tale principio, per quanto di seguito verrà illustrato, non può essere
automaticamente trasposto, nel pubblico impiego privatizzato, al rapporto di
lavoro subordinato a termine che si instaura per lo svolgimento di un
incarico dirigenziale.
12. Va, infatti, ricordato che —secondo la generale disciplina dell'articolo
19 D.Lgs. 165/2001—nel conferimento degli incarichi dirigenziali si
distinguono due momenti: il conferimento dell'incarico, per atto unilaterale
della amministrazione e la fissazione del trattamento economico, in via
contrattuale. Nel caso in cui l'incarico venga conferito ad un soggetto
esterno all'amministrazione, con il contratto si costituisce anche un
rapporto di lavoro, autonomo (si pensi alle cariche di vertice delle Aziende
Sanitarie Locali) o dipendente, comunque a termine, in quanto collegato alla
durata, ex lege temporanea, dell'incarico; nella specie, per quanto è
pacifico in causa, il rapporto di lavoro era di natura subordinata.
13. Alla unilateralità del conferimento dell'incarico dirigenziale non
corrisponde una generale discrezionalità di revoca da parte della pubblica
amministrazione: la revoca ante tempus è consentita dal D.Lgs. nr.
165/2001, articolo 21, nell'ipotesi di responsabilità dirigenziale. La
contrattazione collettiva— (per i dirigenti dell'Area II- Regioni ed
autonomie locali, articolo 22 CCNL 1994/1997 ed articolo 13 CCNL 1998/2001)—
ha disciplinato, invece, una revoca per ragioni organizzative di natura
oggettiva, che ha trovato poi riconoscimento a livello legislativo
nell'articolo 1, comma diciotto, D.L. nr. 138/2011, conv. in L. nr.
148/2011.
La norma ha codificato la facoltà delle amministrazioni pubbliche di
disporre il passaggio dei dirigenti ante tempus ad altro incarico per
motivate esigenze organizzative.
14. Del resto, la possibilità di revoca dell'incarico dirigenziale per
ragioni organizzative, prima ancora di essere prevista dalla contrattazione
collettiva e dal legislatore del 2011, derivava dal potere della pubblica
amministrazione di determinare le linee fondamentali di organizzazione dei
propri uffici (articolo 2, comma uno e articolo 5, comma uno, D.Lgs. nr.
165/2001) e, perciò, eventualmente di sopprimerli, con riflessi indiretti
sulle relative posizioni di responsabilità.
15. Nell'ipotesi ordinaria, in cui l'incarico dirigenziale è affidato ad un
dirigente di ruolo della amministrazione che lo conferisce, la cessazione
dell'incarico —e del contratto che ad esso accede— non incide sul rapporto
di lavoro subordinato a tempo indeterminato del dirigente; quando l'incarico
è assegnato, invece, ad un soggetto esterno —come nella fattispecie di
causa— con la revoca dell'incarico si risolve anche il rapporto di lavoro.
16. Dalla esposizione sin qui svolta risulta che il rapporto di lavoro a
termine che si instaura in caso di incarico dirigenziale esterno cessa
anticipatamente, in caso di subordinazione, non solo per effetto di
licenziamento per giusta causa, ex articolo 2119 cod. civ. (nelle ipotesi di
responsabilità disciplinare) ma anche per revoca dell'incarico, all'esito
dell'accertamento della responsabilità dirigenziale (responsabilità, quest'ultima,
distinta da quella disciplinare) ovvero per ragioni organizzative.
17. Nelle ipotesi di revoca dell'incarico esterno, la cessazione del
rapporto di lavoro dirigenziale a termine è effetto della dipendenza di tale
rapporto dall'incarico conferito.
18. Un meccanismo analogo si verifica nelle ipotesi in cui la soppressione
di una struttura amministrativa si verifichi— invece che per atto di
riorganizzazione della stessa amministrazione— in forza di una disposizione
di legge.
19. In detta eventualità, come già chiarito da questa Corte nell'arresto del
07.09.2021 nr. 24079, la risoluzione del rapporto di lavoro si verifica
secondo lo schema civilistico della impossibilità sopravvenuta della
prestazione, ex articolo 1463 cod. civ. (il caso esaminato nella pronuncia
citata riguardava la risoluzione del rapporto di lavoro del direttore
generale di una ASL a seguito della riorganizzazione del servizio sanitario
per legge regionale, con soppressione della Azienda sanitaria). Si è, in
particolare, evidenziato che il conferimento dell'incarico dirigenziale dà
luogo ad un rapporto sinallagmatico in cui la prestazione di ciascuna celle
parti trova la sua causa nella prestazione dell'altra ed operano i principi
generali per cui la sopravvenuta impossibilità assoluta della prestazione
importa, con il venir meno della causa del contratto, la risoluzione dello
stesso e, di conseguenza, la risoluzione del rapporto.
20. Nella fattispecie di causa, l'ipotesi della soppressione dell'ufficio
dirigenziale è stata anticipatamente regolata dalle parti a livello
negoziale, con la previsione della automatica risoluzione del rapporto di
lavoro.
Trattandosi di ufficio istituito per legge regionale, l'ipotesi della sua
soppressione o della modifica delle sue competenze «effettuate nelle
stesse forme previste dalla vigente normativa per la sua istituzione»,
rinviava al verificarsi di un fatto sopravvenuto oggettivo ed indipendente
dalla volontà delle parti, incerto nell'an e nel quando. La clausola,
dunque, apponeva una condizione risolutiva al contratto di lavoro.
21. Detta condizione non è illecita, in quanto non prevede una ipotesi di
licenziamento o di revoca dell'incarico dirigenziale in deroga al sistema
ordinamentale, ma costituisce la anticipata previsione di un effetto che, in
assenza della clausola accessoria, si sarebbe comunque prodotto secondo la
previsione dell'articolo 1463 cod. civ.
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza
10.05.2022 n. 14758). |
aprile 2022 |
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PUBBLICO IMPIEGO: Svolgimento
di attività incompatibile con il pubblico impiego.
La Corte dei Conti, sezione giurisdizionale Lazio, nella
sentenza
26.04.2022 n.
329, ha concluso che il pubblico dipendente che usufruisca dei permessi
ex legge 104/1992 per assistere un famigliare disabile grave risponde del
danno erariale, conseguente alla non prestazione dell'assistenza e
contestualmente alla mancanza di prestazione lavorativa, solo quando tale
fruizione illegittima risulti provata.
Ne consegue che una pronuncia di
assoluzione in sede penale, per assenza di dimostrazione dei fatti, ha
effetto inibitorio del risarcimento del danno patrimoniale, dal momento che
resta nel campo della mera probabilità quanto supposto in sede istruttoria,
in ordine allo "sviamento" dell'utilizzo dei predetti permessi.
Analogamente, la violazione del principio di esclusività del rapporto di
pubblico impiego (articolo 53 del Dlgs 165/2001) per svolgimento di attività
incompatibile, quale l'esercizio di impresa –fatta salva la rilevanza
disciplinare– effettuata nei giorni in cui il dipendente fruiva dei
permessi sopra citati (per i quali sia risultata assente la dimostrazione
dell'assistenza al congiunto), non comporta un danno patrimoniale per la
pubblica amministrazione (anche in questo caso quando non sia data
dimostrazione del contrario), ma unicamente un pregiudizio alle suddette
finalità tutelate dalla norma in questione
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 26.05.2022).
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SENTENZA
La domanda della Procura attrice non può trovare, ad avviso del Collegio,
accoglimento.
Per quanto attiene alla prima posta di danno azionato, relativa all’illecita
percezione della retribuzione connessa ai permessi di cui alla l. n.
104/1992, in misura pari a euro 2.819,80, come emerso anche nella
discussione nell’odierna udienza, appare dirimente quanto accertato, in modo
divenuto irrevocabile, dal Tribunale penale di Roma, con sentenza n.
3076/2021.
Nella richiamata pronuncia, infatti, nell’assolvere l’odierno convenuto con
la formula “perché il fatto non sussiste” in riferimento ai medesimi
fatti su cui si fonda la citazione in esame, si è statuito che “non è
stato dimostrato che il Pa. nei trenta giorni (contestati nel capo
d’imputazione) per i quali ha ottenuto il permesso ex L. 104/1992 non abbia
prestato assistenza al suocero”, rimanendo, dunque, nel campo della mera
probabilità quanto supposto in sede istruttoria, in ordine allo ‘sviamento’
dell’utilizzo dei predetti permessi.
Nella medesima sentenza, vi è, altresì, una seconda statuizione che riveste
rilievo anche in questo giudizio. Nel valutare la necessità o meno di
trasmettere gli atti al p.m. penale per procedere per il reato di truffa, in
riferimento alla violazione del divieto di svolgimento di altre professioni
o impieghi previsto per i pubblici impiegati dall'art. 53 d.lgs. 165/2001,
si afferma, infatti, che “nel caso di specie non è provato che tale
violazione -impregiudicata la sua valenza a fini disciplinari- abbia
comportato un danno economico per l'amministrazione, rilevante, come tale,
ai fini dell'art. 640 c.p. Invero, è emerso che il Pa. si è assentato
dall'ufficio per recarsi presso la sede della Ce.Of. s.n.c. di Pa. & co.
solo nelle giornate in cui aveva ottenuto il permesso ex L. 104/1992:
pertanto, in quei giorni legittimamente il prevenuto non si è recato a
lavorare (non essendo stato dimostrato, come detto, che non abbia prestato
assistenza al suocero), cosicché la violazione dell’art. 53 d.lgs. 165/2001
non avrebbe comportato un danno patrimoniale per la p.a. (o almeno non è
stato dimostrato il contrario), ma unicamente un pregiudizio alle suddette
finalità tutelate dalla norma in questione”.
Venendo, dunque, alla correlata posta di danno azionata dalla Procura
erariale nel presente giudizio, nella citazione nulla si aggiunge in ordine
a tale profilo rispetto agli elementi di fatto già analizzati dal Giudice
penale, limitandosi ad osservare che “le energie lavorative da destinare
in via esclusiva al lavoro pubblico sono state dirottate all’espletamento di
un’attività di impresa vietata al dipendente pubblico”.
La ricostruzione svolta da parte attrice in ordine alla configurabilità di
una responsabilità risarcitoria scaturente ex se dallo svolgimento di
attività assolutamente incompatibile non appare condivisibile dal Collegio,
alla luce dell’orientamento già più volte ribadito da questa Sezione (ex
plurimis sentenza n. 663/2020).
E’ stato, infatti, già rilevato, che “a differenza della meno grave
fattispecie avente a oggetto lo svolgimento di incarichi non autorizzati per
omessa richiesta, non emerge un’analoga tipizzazione del danno da mancata
entrata ex se derivante dallo svolgimento di incarichi incompatibili. Per
quest’ultimi, tra i quali sono sussumibili anche quelli oggetto del presente
giudizio, dunque, risulta necessario provare che il loro illegittimo
esercizio abbia determinato in concreto un danno erariale”.
Tale prova è mancata nell’odierno giudizio, non potendo inferirsi un danno
in concreto dalla mera “prova documentale” del solo svolgimento di
un’attività incompatibile, ovvero farsi riferimento alla valutazione
equitativa ex art. 1226 c.c., presupponendo quest’ultima la preventiva
dimostrazione di un nocumento effettivo a carico dell’amministrazione.
Nel caso di specie, peraltro, come sopra già ricordato vi sono elementi,
valorizzati nella stessa sentenza penale sopra ricordata, che militano nel
senso della mancata dimostrazione da parte del requirente di una prestazione
da parte del convenuto qualitativamente o quantitativamente inferiore a
quella prevista in favore dell’amministrazione di appartenenza, in
conseguenza dello svolgimento dell’ulteriore attività in questione. |
PUBBLICO IMPIEGO: Cassazione,
il mancato rinnovo dell'incarico di posizione organizzativa non è demansionamento.
Il conferimento di una posizione organizzativa non assume rilievo in termini
di apicalità di mansioni in quanto determina un mutamento non del profilo
professionale ma delle sole funzioni -con l'attribuzione di una posizione
di responsabilità e correlato beneficio economico- le quali cessano alla
naturale scadenza dell'incarico senza che per questo di determini un demansionamento.
Lo afferma la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione con l'ordinanza
08.04.2022 n. 11503.
Il demansionamento
La Corte di appello ha negato la configurabilità di una ipotesi di
demansionamento in danno di un lavoratore a cui non era stato rinnovato
l'incarico di posizione organizzativa e ha rigettato la richiesta
risarcitoria.
Questi ricorre in cassazione per violazione e falsa
applicazione dell'articolo 52 del Dlgs 165/2001, deducendo il
demansionamento che sarebbe stato operato nei suoi confronti, con
riconduzione delle attività attraverso la sottrazione del ruolo di
coordinamento fino ad allora gestite.
La suprema corte demolisce questa tesi, considerando che le categorie C e D
delineate nell'allegato A al Ccnl del 31.03.1999 sono distinte non per la
funzione di coordinamento -che sarebbe rinvenibile nella seconda e non
invece nella prima, sicché la sottrazione di detta funzione produrrebbe
ineluttabilmente in una ipotesi di demansionamento- quanto per il fatto che
la categoria C è connotata da competenze monospecialistiche mentre la D ne
ha di plurispecialistiche.
Inoltre la responsabilità dei risultati attiene a
diversi processi produttivi e non a uno solo di essi per la categoria D e
solo quest'ultima è deputata alla risoluzione di problemi di elevata
complessità.
L'equivalenza
A sostegno della propria tesi la Cassazione propone due considerazioni.
La
prima è che nel pubblico impiego privatizzato l'articolo 52 del Dlgs
165/2001 assegna rilievo solo al criterio dell'equivalenza delle mansioni,
con riferimento alla classificazione prevista dai contratti,
indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il
giudice possa sindacarne la natura equivalente, inapplicabile essendo nel
pubblico impiego l'articolo 2103 del codice civile.
La seconda è che il
conferimento della posizione organizzativa non assume rilievo in termini di apicalità
di mansioni -differenziandosi dalle altre posizioni della
categoria, nella specie, proprio la D, non caratterizzata dallo svolgimento
di compiti di responsabilità di un servizio, solo sotto il profilo economico- non determinandosi un mutamento di profilo professionale, bensì soltanto
di funzioni, comportanti unicamente l'attribuzione di una posizione di
responsabilità con correlato beneficio economico, le quali cessano alla
naturale scadenza dell'incarico, con la conseguenza che la privazione di
esse non costituisce una ipotesi di demansionamento
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 22.04.2022).
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SENTENZA
1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta la violazione e falsa
applicazione dell’art. 52 d.lgs. n. 165 del 2001 in relazione all’Allegato A
del c.c.n.l. del 31.03.1999.
In estrema sintesi, ci si duole che il lavoratore, ufficiale di Polizia
Municipale con il grado di tenente, inquadrato nella cat. D1, avrebbe invece
svolto mansioni e compiti propri del mero agente, appartenente alla
categoria C.
Si lamenta pertanto l’impossibilità di ricondurre detta ipotesi all’alveo
dell’art. 52 d.lgs. n. 165 del 2001 e comunque si contesta che di detta
disposizione possa darsi “una interpretazione del tutto formale slegata
da un concetto di reale difesa del patrimonio professionale del lavoratore”.
2. Con il secondo mezzo si censura il mancato esame di un fatto
decisivo ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.
La questione centrale, riproposta sotto altro profilo, resta quella del
dedotto demansionamento che sarebbe stato operato, con riconduzione delle
attività del tenente La. a quelle del mero agente di polizia municipale e
quindi nell’alveo della categoria C e non D, attraverso la sottrazione del
ruolo di coordinamento della viabilità e del comando della Polizia
ambientale.
Viene sottolineato che il tratto differenziale tra le due categorie C e D è
rappresentato proprio dal coordinamento, venendo meno il quale non vi è
alcuna possibilità di distinguere tra le mansioni, le funzioni e i compiti
propri delle due sopraindicate categorie.
3. I due motivi possono essere trattati congiuntamente perché entrambi
riferiti alla questione del dedotto demansionamento.
Orbene, l’esame dei tratti descrittivi delle due categorie come delineati
nel c.c.n.l. del 31.03.1999, all. A -che questa Corte può conoscere
indipendentemente dalle allegazioni delle parti, atteso che costituisce
principio consolidato (fra le ultimissime si veda, Cass. n. 7641/2022)
quello secondo il quale il contratto collettivo nazionale di lavoro del
pubblico impiego è conoscibile d’ufficio dal giudice, il quale procede con
mezzi propri, secondo il principio “iura novit curia”, al suo
reperimento, a prescindere dall’iniziativa di parte- consente di evidenziare
l’infondatezza della deduzione secondo cui il segno distintivo tra le due
categorie consisterebbe nella funzione di coordinamento rinvenibile nella
categoria D e non invece nella C, sicché la sottrazione di detta funzione
ridonderebbe ineluttabilmente in una ipotesi di demansionamento.
L’assunto è infondato, perché il discrimine fra le due categorie risiede non
già nelle funzioni di coordinamento (potenzialmente attribuibili anche a
personale inquadrato in categoria C), ma nel rilievo che la categoria C è
connotata da competenze monospecialistiche, mentre plurispecialistiche sono
quelle della categoria D; inoltre la responsabilità dei risultati attiene a
diversi processi produttivi e non ad uno solo di essi per la categoria D e
solo quest’ultima è deputata alla risoluzione di problemi di elevata
complessità.
Per il resto, le ulteriori doglianze svolte nei due motivi di ricorso -con
le quali si chiede di fatto al giudice di legittimità di rivalutare gli
ordini di servizio dai quali la Corte territoriale ha desunto che il
lavoratore è sempre stato assegnato a compiti e mansioni conferenti il suo
grado e la categoria D di appartenenza- sono inammissibili perché si
traducono in una richiesta di rivalutazione del materiale probatorio che non
può essere compiuta in questa sede.
Corroborano e consolidano le ragioni del rigetto anche altre due
considerazioni.
In primo luogo va data continuità al principio, più volte affermato da
questa S.C. (v., ex aliis, Cass. n. 18817/2018), secondo cui in tema
di pubblico impiego privatizzato l'art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001
assegna rilievo solo al criterio dell'equivalenza delle mansioni, con
riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti
collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita,
senza che il giudice possa sindacarne la natura equivalente, inapplicabile
essendo nel pubblico impiego l'art. 2103 c.c.
In secondo luogo, in disparte quanto si è già innanzi detto in ordine alla
funzione di coordinamento ed al rilievo che essa non costituisce
connotazione distintiva della categoria D rispetto alla C, si deve
aggiungere in termini più generali (si veda, tra le altre, Cass. n.
22405/2020) che il conferimento della posizione organizzativa (ex c.c.n.l.
del 31.03.1999) non assume rilievo in termini di apicalità di mansioni,
differenziandosi dalle altre posizioni della categoria, nella specie,
proprio la D, non caratterizzata dallo svolgimento di compiti di
responsabilità di un servizio, solo sotto il profilo economico - non
determinandosi un mutamento di profilo professionale, bensì soltanto di
funzioni, comportanti unicamente l'attribuzione di una posizione di
responsabilità con correlato beneficio economico, le quali cessano alla
naturale scadenza dell'incarico, con la conseguenza che la privazione di
esse non costituisce una ipotesi di demansionamento.
Ne consegue l’infondatezza del ricorso. |
PUBBLICO IMPIEGO: P.A,
demansionamento a maglie strette.
CASSAZIONE SULLA MANCATA CONFERMA DELL'INCARICO NELL'AREA DELLE P.O.
La mancata conferma dell'incarico nell'area delle posizioni organizzative
non è demansionamento.
E' la Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, a tornare a chiarirlo con
ordinanza 08.04.2022 n. 11503, relativa
proprio alla vicenda di un dipendente di ente locale vistosi privato
dell'incarico e, per questa ragione, indotto a rivolgersi all'autorità
giudiziaria.
Gli spunti che offre la sentenza sono diversi. La conclusione che propone
appare chiara ed inequivocabile: l'attribuzione ai dipendenti locali
dell'incarico nell'area delle posizioni organizzative non implica “un
mutamento di profilo professionale, bensì soltanto di funzioni”. Con la
conseguenza dell'attribuzione “di una posizione di responsabilità con
correlato beneficio economico, le quali cessano alla naturale scadenza
dell'incarico, con la conseguenza che la privazione di esse non costituisce
una ipotesi di demansionamento”.
La circostanza, cioè, che l'incarico nell'area delle posizioni organizzative
sia di per sé precario, a tempo determinato e, comunque, soggetto ad una
serie di condizioni (come la valutazione positiva o anche il mantenimento
nel dell'assetto organizzativo nel quale la PO è prevista) impedisce di
considerarlo come un'acquisizione di status giuridico ed economico
definitiva, alla stregua del passaggio ad un inquadramento contrattuale
superiore.
E' proprio questo il tratto distintivo tra la disciplina delle Posizioni
Organizzative nella pubblica amministrazione e l'area Quadri (alla quale
spesso le PO sono gergalmente assimilate) nel privato. L'accesso all'area
Quadri, infatti, comporta l'acquisizione definitiva di una qualifica, cosa
che non avviene con l'incarico nell'area delle PO. Infatti, proprio per
questo la tornata della contrattazione collettiva del triennio 2019-2021
intende istituire la cosiddetta nuova “quarta area”, cioè l'Area delle
elevate professionalità, che costituirà, al contrario delle PO, una nuova e
qualifica: i dipendenti che saranno inquadrati in tale area, l'acquisiranno
definitivamente.
Non convince, invece, la sentenza della Cassazione laddove poco prima
afferma che l'incarico come PO “non assume rilievo in termini di apicalità
di mansioni, differenziandosi dalle altre posizioni della categoria, nella
specie, proprio la D, non caratterizzata dallo svolgimento di compiti di
responsabilità di un servizio”.
E' esattamente il contrario. Negli enti locali privi di dirigenti, già
l'articolo 11 del Ccnl 31.03.1999 (vigente al momento dell'instaurazione
della vertenza) disponeva che gli incarichi in PO potessero essere assegnati
“esclusivamente a dipendenti cui sia attribuita la responsabilità degli
uffici e dei servizi formalmente individuati secondo il sistema
organizzativo autonomamente definito e adottato”, in applicazione della
previsione dell'articolo 109, comma 2, del d.lgs 267/2000. Tale previsione
nel Ccnl 21.05.2018 è stata confermata ed ulteriormente precisata con un
riferimento espresso all'apicalità, nell'articolo 17, comma 1: “Negli enti
privi di personale con qualifica dirigenziale, i responsabili delle
strutture apicali, secondo l'ordinamento organizzativo dell'ente, sono
titolari delle posizioni organizzative disciplinate dall'art. 13”.
Negli enti in cui siano presenti qualifiche dirigenziali soltanto la
posizione organizzativa non è connessa ad incarichi apicali, riservati ai
dirigenti, ma va comunque riconnessa allo svolgimento di funzioni connesse
ad una responsabilità specifica di risultato alla guida di strutture a
rilevanza interna.
Le sentenza, infine, fornisce un canone per distinguere la categoria C dalla
D. La Cassazione ritiene che il discrimine fra le due categorie risiede non
consiste nell'esercizio di funzioni di coordinamento, perché esse sono
potenzialmente attribuibili anche a personale inquadrato in categoria C
(ovviamente, per coordinare altro personale di pari categoria o inferiore).
Il tratto distintivo, allora, consiste nella circostanza che “la categoria C
è connotata da competenze monospecialistiche” e le responsabilità da
risultato riguardano un solo specifico processo produttivo. Al contrario, ai
dipendenti in categoria D si richiedono competenze plurispecialistiche e “la
responsabilità dei risultati attiene a diversi processi produttivi”; per
altro, solo la categoria D “è deputata alla risoluzione di problemi di
elevata complessità”
(articolo ItaliaOggi del 16.04.2022). |
marzo 2022 |
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PUBBLICO
IMPIEGO: Decadenza
da incarichi dirigenziali, per la PA si tratta di poteri datoriali di
gestione paritetica del rapporto di lavoro.
Il TAR Puglia-Bari, Sez. I, con la
sentenza
30.03.2022 n. 460,
ha chiarito che negli atti di decadenza degli incarichi dirigenziali,
l'amministrazione non esercita potestà pubblicistiche in posizione di
supremazia speciale, ma attua poteri datoriali di gestione paritetica del
rapporto di lavoro, che rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario,
in quanto non sussiste (articolo 63 del Dlgs 165/2001), la speciale (e
residuale) ipotesi di giurisdizione amministrativa.
Il fatto
Il Tar pugliese si è occupato dell'impugnazione di un provvedimento
amministrativo, adottato dal segretario comunale in qualità di responsabile
per la prevenzione della corruzione e della trasparenza, con cui, applicando
i precetti del Dlgs 39/2013, aveva dichiarato la nullità del conferimento
dell'incarico dirigenziale, poiché il dirigente era destinatario di una
sentenza penale per reati contro la Pa.
La sentenza in esame, pur
dichiarando il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo a favore
di quello ordinario, pone in evidenza la natura del potere datoriale
esercitato nel caso di specie.
La decisione
Il collegio giudicante ha osservato che le causali degli atti di decadenza
presuppongono non già l'esercizio di poteri autoritativi discrezionali da
parte dell'Amministrazione, ma l'esercizio di un potere basato
sull'accertamento di specifici inadempimenti o di fatti specifici, rispetto
ai quali la posizione dell'interessato non è certamente qualificabile come
interesse legittimo, quanto piuttosto come un vero e proprio diritto
soggettivo alla conservazione dell'incarico.
In altri termini, gli atti di
decadenza non possono considerarsi espressione di poteri pubblicistici
riguardanti la copertura di un ufficio pubblico, rispetto ai quali la
correlata posizione del privato è di interesse legittimo. Essi sono stati
emanati dall'Amministrazione, in applicazione di norme di legge, sulla
scorta della responsabilità fatta gravare sull'ente dal Dlgs 39/2013 sul
rispetto delle norme sull'incompatibilità (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 02.05.2022).
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SENTENZA
Come puntualmente premesso in fatto dal Tar Lazio-Roma, con ordinanza
declinatoria di competenza -OMISSIS-, con sentenza -OMISSIS- il Tribunale di
Frosinone ha condannato l’odierno ricorrente, dirigente presso il Comune di
Cerignola, per il reato di associazione per delinquere di cui all'art. 416
c.p. finalizzato alla commissione di più delitti contro la pubblica
amministrazione e, in particolare, delitti di cui agli artt. 353, 353-bis,
318, 319, 321 c.p., a tre anni di reclusione con interdizione temporanea dai
pubblici uffici per cinque anni, dichiarando contestualmente «il non
doversi procedere» nei confronti dello stesso imputato in relazione ad
alcuni reati scopo (tra cui quello di corruzione) per intervenuta
prescrizione degli stessi.
A seguito di tale pronuncia e dell’intervenuto parere dell’ANAC (per la
puntuale indicazione delle interlocuzioni con l’Autorità e delle
determinazioni dell’Ente nelle more intervenute si rinvia alla predetta
ordinanza che ripercorre puntualmente gli eventi in fatto), il Segretario
Generale del Comune di Cerignola, con atto del 09.12.2021, -OMISSIS-,
gravato in questa sede –adottato a seguito della necessaria istruttoria e
previo contraddittorio con l’interessato– ha, quindi, dichiarato la nullità,
ai sensi dell’art. 17, d.lgs. n. 39/2013, dell’atto di «Conferimento
incarico dirigenziale di responsabile settore Sicurezza» adottato dal
Comune con decreto 30.06.2021, n. -OMISSIS-.
Gravato tale atto e quelli connessi in epigrafe indicati, all’udienza
cautelare del 23.03.2022 la causa è stata trattenuta in decisione, previa
sottoposizione alle parti, ex art. 73 cpa, di possibili profili di difetto
di giurisdizione, per come evidenziati anche nell’ordinanza già citata
-OMISSIS-.
Il ricorso è inammissibile per difetto di giurisdizione.
Sul punto la Sezione condivide l’orientamento, puntualmente riportato dalla
predetta pronuncia, secondo cui “le causali degli atti di decadenza
presuppongono non già l’esercizio di poteri autoritativi discrezionali da
parte dell’Amministrazione, ma l’esercizio di un potere basato
sull'accertamento di specifici inadempimenti o di fatti specifici, rispetto
ai quali la posizione dell'interessato non è certamente qualificabile come
interesse legittimo, quanto piuttosto come un vero e proprio diritto
soggettivo alla conservazione dell'incarico. In altri termini, gli atti di
decadenza in questione non possono considerarsi espressione di poteri
pubblicistici riguardanti la copertura di un ufficio pubblico, rispetto ai
quali la correlata posizione del privato è di interesse legittimo, come ha
affermato il Consiglio di Stato. Essi sono stati emanati
dall'Amministrazione, in applicazione di norme di legge, il primo sulla
scorta della responsabilità fatta gravare sull’ente dal d.lgs. 08.04.2013,
n. 39 in merito al rispetto delle norme sull'incompatibilità etc. e il
secondo per il fatto estrinseco rappresentato dall'intervenuto termine di
scadenza dell'incarico; pertanto con essi non è stata esercitata alcuna
discrezionalità amministrativa” (Cass. Civ., SS.UU., n. 1869/2020).
Inoltre, condivisibile è anche l’assimilazione tra gli atti di decadenza
(quale quello in questa sede gravato) e quelli di revoca (od anche
conferimento) degli incarichi dirigenziali, per i quali l’amministrazione
non esercita potestà pubblicistiche in posizione di supremazia speciale, ma
attua poteri datoriali di gestione paritetica del rapporto di lavoro,
rientranti nella giurisdizione del G.O., in quanto per essi non sussiste, ai
sensi dell’art. 63 d.lgs. n. 165/2001, la speciale (e residuale) ipotesi di
giurisdizione amministrativa.
Sulla scorta di tali argomenti, va declinata la giurisdizione di questo
Giudice in favore di quello ordinario, dinanzi al quale il ricorso andrà
riassunto nei termini di legge. |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
Consiglio di Stato disegna il profilo del funzionario in «conflitto
d'interessi».
Nel quadro normativo del nostro Paese non esiste una definizione univoca di
conflitto d'interessi del pubblico funzionario. I profili di tale condizione
si trovano per così dire allo "stato diffuso" in varie leggi e disposizioni
di settore; e ciò determina non di rado l'insorgenza di zone d'ombra,
incertezze operative, e persino irrazionali rallentamenti dei procedimenti
amministrativi.
Con la
sentenza 22.03.2022 n. 2069, il Consiglio di Stato -Sez. VI- ha
declinato questa definizione generale. E lo ha fatto rievocando le norme
operative di riferimento più calzanti. Per il massimo giudice amministrativo
tale anomalia si verifica quando lo svolgimento di una attività sia
assegnata a chi affidatario della cura dell'interesse generale sia titolare
nella vicenda anche di interessi personali, con conseguente "riduzione"
del soddisfacimento dell'interesse pubblico. In tale evenienza il
funzionario deve astenersi da pratiche e incartamenti, e informare al più
presto della situazione i propri superiori gerarchici.
La legge sul procedimento amministrativo del '90 prevede che il responsabile
del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri,
le valutazioni tecniche, gli atti e il provvedimento finale devono astenersi
in caso di conflitto di interessi anche se solo potenziale. Questa regola è
espressione del principio costituzionale di imparzialità della Pa il quale
impone che le scelte adottate dall'organo vanno compiute nel rispetto della
regola della "equidistanza" da tutti coloro che vengano a contatto
con il potere pubblico.
Ulteriori lineamenti del divieto in parola sono contenuti nel Codice di
comportamento dei dipendenti pubblici del 2013 secondo il quale il
dipendente deve astenersi dal partecipare alla adozione di decisioni o
attività che possano coinvolgere interessi propri, di suoi parenti, del
coniuge ovvero di soggetti con cui sia in una situazione di «grave
inimicizia».
Alla medesima esigenza di equidistanza si ispira la disciplina relativa alle
incompatibilità presente nel Testo unico del 2001 sull'ordinamento del
lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche; nonché quella del
2013 in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le
pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico.
Altra importante disciplina di settore è contenuta nel Codice del 2016 in
materia di procedure di affidamento dei contratti pubblici.
Secondo il massimo giudice amministrativo, dalla lettura d'insieme della
richiamata normativa va dedotto univocamente che la mancata astensione del
funzionario pubblico in condizioni di conflitto d'interessi comporta una
illegittimità procedimentale che ricade sulla stessa validità dell'atto
finale della pubblica amministrazione. Ciò a meno che non venga
scrupolosamente dimostrato che la situazione d'incompatibilità del
funzionario non ha in alcun modo influenzato il contenuto del provvedimento
deviandolo dalla sua meta: l'interesse pubblico
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 05.04.2022).
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SENTENZA
5.‒ Il motivo di appello incentrato sulla situazione di asserita
incompatibilità, nella quale avrebbe operato la dottoressa Ma.Gi., è
destituito di fondamento.
5.1.‒ L’art. 6-bis della legge n. 241 del 1990 prevede che «il
responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad
adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il
provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi,
segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale».
Tale regola è espressione del principio generale di imparzialità di cui
all’art. 97 Cost., il quale impone che «le scelte adottate dall’organo
devono essere compiute nel rispetto della regola dell’equidistanza da tutti
coloro che vengano a contatto con il potere pubblico» (cfr. Consiglio di
Stato, comm. spec., n. 667 del 2019, sullo schema di Linee guida ANAC in
materia di conflitti di interesse nell'affidamento dei contratti pubblici).
Una declinazione del principio è contenuta anche nell’art. 7 del decreto del
Presidente della Repubblica 16.04.2013, n. 62 (Regolamento recante codice di
comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell'articolo 54 del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165), il quale prevede che: «il dipendente si
astiene dal partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano
coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il
secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali
abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od
organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave
inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti
od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero
di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o
stabilimenti di cui sia amministratore o gerente».
Alla medesima esigenza si ispira la disciplina relativa alle incompatibilità
nell’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche
(art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, nonché il
d.lgs. n. 39 del 2013, in
materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le
pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico).
Una specifica disciplina è prevista, in materia di procedure di affidamento
dei contratti pubblici, dall’art. 42 del d.lgs. n. 50 del 2016.
Per quanto non esista, all’interno del quadro normativo appena richiamato,
una definizione univoca che preveda analiticamente tutte le ipotesi e gli
elementi costitutivi di tale fattispecie, il conflitto di interessi può
definirsi quella condizione giuridica che si verifica quando, all’interno di
una pubblica amministrazione, lo svolgimento di una determinata attività sia
affidato ad un funzionario che ha contestualmente titolare di interessi
personali o di terzi, la cui eventuale soddisfazione implichi
necessariamente una riduzione del soddisfacimento dell’interesse
funzionalizzato. Operare in conflitto di interessi significa agire
nonostante sussista una situazione del genere e, quindi, sorge l’obbligo del
dipendente di informare l'Amministrazione e di astenersi.
La mancata astensione del funzionario comporta una illegittimità
procedimentale che refluisce sulla validità dell’atto finale, a meno che non
venga rigorosamente dimostrato (dall’Amministrazione procedente) che la
situazione d’incompatibilità del funzionario non ha in alcun modo
influenzato il contenuto del provvedimento facendolo divergere con il fine
di interesse pubblico.
5.2.‒ Nel caso in esame, non è emerso che la dottoressa Gi. fosse portatrice
di un interesse personale confliggente con quello all’imparziale
finanziamento delle iniziative culturali sul territorio.
In primo luogo, dalla carica di membro del Comitato culturale
dell’Associazione Te.Cr., la dottoressa si è dimessa in data 13.06.2019,
prima quindi della presentazione in data 27.09.2019 delle due domande di
contributo straordinario oggetto del presente ricorso.
Il Comitato culturale di cui si parla, peraltro, è un organo meramente
consultivo del Consiglio Direttivo dell’Associazione Te.Cr. che fornisce
pareri in merito alla qualità della proposta artistica e dove i componenti
non percepiscono nessuna indennità o emolumento di altro genere.
Sotto altro profilo, dalla documentazione prodotta in giudizio si ricava che
la dottoressa Gi. non era il titolare dell’organo competente a decidere
sull’ammissione dei contributi, spettando tale attribuzione al Direttore di
Ripartizione provinciale Cultura italiana (la dottoressa Ma.Gi. rilasciava
invece il visto, ai sensi dell’art. 13 della legge della Provincia di
Bolzano n. 17 del 1993, sulla responsabilità tecnica, amministrativa e
contabile).
Va pure rimarcato che, in ordine ad analoghe accuse sollevate in sede
penale, il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bolzano, con
provvedimento del 15.03.2021, ha accolto la richiesta di archiviazione
avanzata dal pubblico ministero.
L’ulteriore affermazione, secondo cui la dottoressa Gi. avrebbe ricevuto
negli anni abbonamenti gratuiti a tutta la programmazione del Te.Cr., è
rimasta poi sfornita di qualsivoglia riscontro. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Danno erariale per l'anticipazione dei contenuti delle prove d'esame ai
candidati.
La Corte dei conti, sezione giurisdizionale Umbria, nella
sentenza 21.03.2022 n.
12 ha affermato che il
Presidente/componente della commissione di concorso, che abbia avuto
contatti con alcuni partecipanti al pubblico concorso ai quali abbia
anticipato i contenuti delle prove d'esame, risponde di danno erariale.
Danno erariale corrispondente alle spese sostenute dall'ente per la
procedura nonché per disservizio, valutato in via equitativa.
Siffatto
comportamento è in aperto contrasto con i principi generali dell'azione
amministrativa (articolo 1 legge 241/1990) nonché con quelli di non
discriminazione, trasparenza, correttezza e buona fede, cui si aggiunge una
gestione inefficiente, opaca e criminosa della procedura concorsuale.
Accertato il carattere intenzionale della condotta, il danno da disservizio
può ritenersi equamente calcolato nel 20 per cento delle retribuzioni
percepite nel periodo in cui la stessa è stata posta in essere
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 07.04.2022). |
gennaio 2022 |
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ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: L’art.
6-bis l. 241/1990 (peraltro ratione temporis
inapplicabile alla fattispecie, perché in vigore dal 28.12.2012) impone al
responsabile del procedimento ed ai titolari degli uffici competenti ad
adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il
provvedimento finale, il dovere di astensione nel caso di conflitto di
interessi.
La predetta situazione di conflitto di interessi viene intesa dalla
giurisprudenza come coincidente con le ipotesi di incompatibilità di cui
all’art.
51 c.p.c. (disposizione questa, considerata da sempre applicabile alla
Pubblica Amministrazione: cfr., ex multis, C.d.S., Sez. VI, 11.01.1999, n.
8).
Orbene, tra le ipotesi tassative di incompatibilità in cui sorge in capo al
preposto all’organo il dovere di astensione, l’art.
51, primo comma, n. 3, c.p.c. elenca la “grave inimicizia”: sennonché,
per giurisprudenza consolidata, la situazione di “grave inimicizia”,
rilevante ai sensi dell’art.
51 c.p.c., presuppone la reciprocità, inoltre deve trovare fondamento
solo in rapporti personali ed estrinsecarsi in documentate e inequivocabili
circostanze di conflittualità.
La giurisprudenza ha quindi escluso che la presentazione di una denuncia o
di un atto di impulso idoneo a dare inizio a un procedimento giudiziale
possa bastare alla configurazione di una situazione di “grave inimicizia”,
dovendo questa riferirsi a ragioni private di rancore o di avversione sorte
nell’ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali; né la
presentazione di una denuncia è idonea a creare una situazione di causa
pendente, attesa la natura oggettiva della giurisdizione penale.
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8.4. In merito, poi, alla pretesa che il menzionato Comandante
interregionale si astenesse, in quanto in situazione di conflitto di
interessi e difetto di terzietà, perché sottoposto a due procedimenti penali
avviati su impulso dell’odierno appellato, osserva il Collegio che la
censura non trova conforto negli atti di causa.
8.4.1. L’art.
6-bis l. 241/1990 (peraltro
ratione temporis inapplicabile alla fattispecie, perché in vigore dal
28.12.2012) impone al responsabile del procedimento ed ai titolari degli
uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti
endoprocedimentali e il provvedimento finale, il dovere di astensione nel
caso di conflitto di interessi. La predetta situazione di conflitto di
interessi viene intesa dalla giurisprudenza (cfr. TAR Calabria, Catanzaro,
Sez. II, 09.06.2021, n. 1152) come coincidente con le ipotesi di
incompatibilità di cui all’art.
51 c.p.c. (disposizione questa, considerata da sempre applicabile alla
Pubblica Amministrazione: cfr., ex multis, C.d.S., Sez. VI,
11.01.1999, n. 8).
8.4.2. Orbene, tra le ipotesi tassative di incompatibilità in cui sorge in
capo al preposto all’organo il dovere di astensione, l’art.
51, primo comma, n. 3, c.p.c. elenca la “grave inimicizia”:
sennonché, per giurisprudenza consolidata, la situazione di “grave
inimicizia”, rilevante ai sensi dell’art.
51 c.p.c., presuppone la reciprocità (cfr., ex multis, Cass. civ.,
Sez. II, 31.10.2018, n. 27923; C.d.S., Sez. V, 20.12.2018, n. 7170; Sez. III,
02.04.2014, n. 1577), inoltre deve trovare fondamento solo in rapporti
personali ed estrinsecarsi in documentate e inequivocabili circostanze di
conflittualità (v. C.d.S., Sez. V, n. 7170/2018, cit., e Sez. III, n.
1577/2014, cit.).
La giurisprudenza ha quindi escluso che la presentazione di una denuncia o
di un atto di impulso idoneo a dare inizio a un procedimento giudiziale
possa bastare alla configurazione di una situazione di “grave inimicizia”,
dovendo questa riferirsi a ragioni private di rancore o di avversione sorte
nell’ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali (Cass. civ., Sez.
III, 13.04.2005, n. 7683); né la presentazione di una denuncia è idonea a
creare una situazione di causa pendente, attesa la natura oggettiva della
giurisdizione penale (TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, n. 1152/2021, cit.) (Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 31.01.2022 n. 667 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'ufficio
personale di questa Regione è venuto a conoscenza della situazione di una
dipendente risultata positiva al covid-19. La stessa, però non ha presentato
alcun certificato medico attestante la sua condizione.
Può lavorare da casa in smart working?
Tra i doveri del prestatore di lavoro sanciti sia dal Testo Unico del
Pubblico Impiego (D.Lgs. 30.03.2001, n. 165) sia dalla contrattazione
collettiva vi è sicuramente quello di dover informare il datore di lavoro
circa il proprio stato di salute qualora questo impedisca il regolare
svolgimento della prestazione lavorativa (malattia).
La dipendente, pertanto, aveva il dovere di comunicare tempestivamente il
suo stato di positività all'amministrazione e la mancata comunicazione la
espone al rischio di una infrazione disciplinare.
La possibilità di prestare la propria attività lavorativa in modalità agile
è oggi fortemente legata alle condizioni poste dal DM 08.10.2021 e vanno
distinti i casi di quarantena precauzionale e di positività conclamata al
Covid-19.
Fermo restando che anche con l'ultima Circ. 05.01.2022 congiunta del
Ministero della Funzione Pubblica e del Ministero del lavoro e delle
politiche sociali u.s. (rinvenibile
qui) i Ministri invitano a "usare al meglio la flessibilità già
consentita dalle regole vigenti", con il Msg. 09.10.2020, n. 3653 l'INPS
ha chiarito che, nei casi in cui il lavoratore in quarantena o in
sorveglianza precauzionale perché soggetto fragile continui a svolgere, in
accordo con il proprio datore di lavoro, l'attività lavorativa presso il
proprio domicilio, non è possibile ricorrere alla tutela previdenziale della
malattia ed in questi casi infatti non ha luogo la sospensione dell'attività
lavorativa con la correlata retribuzione.
Di contro, con riferimento agli eventi certificati come malattia conclamata
da Covid-19, (art. 26, comma 6, D.L. 17.03.2020, n. 18) le indicazioni
ricevute da parte del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali
autorizzano il riconoscimento della tutela della malattia secondo
l'ordinaria gestione pertanto sembra escluso che il dipendente positivo al
Covid-19 possa continuare a rendere la propria prestazione lavorativa in "smart
working".
Per ciò che concerne la peculiarità del pubblico impiego evidenziamo come
sia altresì da escludere che un dipendente possa essere collocato in
modalità agile per consentirgli di espletare la prestazione lavorativa nel
caso risulti positivo al COVID-19 in quanto le amministrazioni nel
programmare e consentire l'accesso al lavoro agile devono "garantire
un'adeguata rotazione del personale che può prestare lavoro in modalità
agile, dovendo essere prevalente, per ciascun lavoratore, l'esecuzione della
prestazione in presenza".
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Riferimenti normativi e contrattuali
Msg. 09.10.2020, n. 3653 dell’INPS - DM 08.10.2021 della Presidenza del
Consiglio dei Ministri Dip. funz. pubbl.
Documenti allegati
Circ. 05.01.2022 del Ministero della Funzione Pubblica e del Ministero del
lavoro e delle politiche sociali
(26.01.2022 - tratto da https://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mobilità
obbligatoria, verifiche a tutto campo.
Dalla
sentenza
07.01.2022 n. 29 del TAR Sicilia–Catania si ricavano
precise istruzioni in merito all'espletamento della cosiddetta mobilità
obbligatoria disciplinata dall'articolo 34-bis del Dlgs 165/2001.
Come noto,
la disposizione obbliga tutte le amministrazioni a verificare l'eventuale
presenza di dipendenti collocati in esubero da poter inserire nei propri
organici prima di procedere con assunzioni dall'esterno. Il mancato
adempimento comporta la nullità delle assunzioni. Data la gravità della
sanzione è fondamentale muoversi correttamente, tenuto anche conto di una
difformità diffusa nei comportamenti a livello territoriale.
La sentenza del Tar in esame spiega nel dettaglio quali sono i passaggi e
come è necessario muoversi anche quando sono coinvolti comparti diversi.
Viene innanzitutto chiarito che qualsiasi pubblica amministrazione, stante
il chiaro tenore letterale dell'articolo 34-bis, comma 2, del Dlgs 165/2001,
è tenuta ad effettuare la comunicazione sia al Dipartimento della Funzione
Pubblica (articolo 34, comma 2) che alle competenti strutture regionali e
provinciali (articolo 34, comma 3).
A tal proposito non c'è alcuna ragione
per ritenere che la comunicazione possa essere indirizzata esclusivamente
all'ente che forma e gestisce l'elenco a seconda della tipologia di
amministrazione (statale o locale). Nel caso degli enti locali, tipicamente,
è la struttura regionale preposta che provvede a verificare l'eventuale
presenza di soggetti da ricollocare nelle proprie liste, nonché a inoltrare
al Dipartimento, per le verifiche di competenza ministeriale, la nota
ricevuta dalle amministrazioni.
Infatti, la base di tutta la normativa
risiede nella volontà di evitare la cessazione definitiva del rapporto di
lavoro e di realizzare, in termini globali, un contenimento della spesa per
il personale a carico del sistema pubblico. Questi principi erano già stati
affermati in più occasioni sia dalla Corte costituzionale, sentenze 15.12.2004, n. 388, 21.07.2016, n. 2020 e 10.07.2019, n. 170
nonché dal Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza 26.05.2010, n. 3340.
Un altro messaggio importante che si può ricavare dalla sentenza riguarda
l'esistenza di soggetti da ricollocare afferenti ad un comparto diverso
rispetto all'ente richiedente. A tal proposito, il Collegio ha ricordato che
la ricollocazione del personale in disponibilità può avvenire sia nel
comparto di provenienza come in uno differente. È quindi priva di base
normativa l'interpretazione secondo la quale dalle diverse modalità di
redazione e tenuta degli elenchi possa desumersi la conseguenza dell'obbligo
di ricollocazione nell'ambito del medesimo comparto; interpretazione,
peraltro, smentita dalla circolare dello stesso Dipartimento della Funzione
pubblica (Uppa) prot. n. 14115/05/1.2.3.1 dell'11.04.2005.
La gestione separata degli elenchi è pertanto finalizzata esclusivamente
alla possibilità di assegnazione da parte del Dipartimento della Funzione
pubblica o da parte delle strutture regionali o provinciali, a seconda
dell'elenco in cui sia inserito il personale da ricollocare, ma non
giustifica un divieto di assegnazione di personale ad un comparto diverso da
quello di provenienza
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 14.01.2022).
---------------
SENTENZA
La domanda annullatoria è fondata, secondo quanto a seguire.
Questione dirimente è che sia stato violato l’obbligo di dare la
comunicazione di cui al citato art. 34-bis, comma 1, del D.lgs. 165/2001
alle strutture regionali e provinciali di cui all’art. 34, comma 3, dello
stesso decreto legislativo.
Dispone sul punto il citato comma 1 dell’art. 34-bis, che le amministrazioni
pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2 (fra le quali sono indicate le
Istituzioni universitarie), «…prima di avviare le procedure di assunzione
di personale, sono tenute a comunicare ai soggetti di cui all'articolo 34,
commi 2 e 3, l'area, il livello e la sede di destinazione per i quali si
intende bandire il concorso nonché, se necessario, le funzioni e le
eventuali specifiche idoneità richieste…».
Ora, una piana lettura consente di poter interpretare in via letterale la
norma come comportante l’obbligo di dare comunicazione sia ai soggetti di
cui all’art. 34, comma 1, che ai soggetti di cui all’art. 34, comma 2.
L’uso della disgiuntiva “e” nell’ambito della locuzione “commi 2 e 3”
comporta infatti che la comunicazione debba essere inviata ad entrambe le
tipologie di soggetti; diversamente, avrebbe dovuto essere adoperata la
congiunzione avversativa “o”.
Tale interpretazione letterale appare peraltro coerente con il condivisibile
orientamento giurisprudenziale che ravvisa la ratio delle norme di cui si
tratta nelle coerenti esigenze di evitare la cessazione definitiva del
rapporto di lavoro e di realizzare, in termini globali, un contenimento
della spesa per il personale a carico del sistema pubblico (Corte cost.,
sentenze 15.12.2004, n. 388, 21.07.2016, n. 202, e 10.07.2019, n. 170; Cons.
Stato, Sez. VI, 26.05.2010, n. 3340).
Né appare condivisibile l’interpretazione delle norme prospettata dalle
amministrazioni resistenti, fondata sull’assunto che i soggetti inseriti
negli elenchi del personale in disponibilità possano essere ricollocati
esclusivamente presso amministrazioni del medesimo comparto, fatta eccezione
per i soggetti in disponibilità dipendenti dalle amministrazioni dello Stato
e dagli enti pubblici non economici che, ai sensi dell’art. 34, comma 2,
d.lgs. 30.03.2001 n. 165, potrebbero essere ricollocati presso
amministrazioni di diverso comparto, qualora le strutture regionali e
provinciali accertassero l’assenza nei loro elenchi di personale da
assegnare.
Tale assunto si fonda a sua volta sulla considerazione che la tenuta di
elenchi diversi tenuti dal Dipartimento della funzione pubblica e dalle
strutture regionali comporti necessariamente la ricollocazione del personale
nell’ambito del comparto di provenienza (fatta salva la citata possibilità
di ricollocare presso gli enti territoriali personale proveniente dalle
amministrazioni dello Stato e dagli enti pubblici non economici).
Ora, tale considerazione non è sorretta da base normativa ed è inficiata da
un salto logico: non si comprende infatti per quale motivo dalle modalità di
redazione e tenuta degli elenchi possa desumersi la conseguenza dell’obbligo
di ricollocazione nell’ambito del medesimo comparto.
Tale considerazione appare infatti priva di base normativa e smentita dalla
citata circolare prot. n. 14115/05/1.2.3.1 del giorno 11.04.2005, che nel
passaggio richiamato dalla difesa erariale precisa che la ricollocazione
debba avvenire «…mediante assegnazione da parte del Dipartimento della
funzione pubblica, di concerto con il Ministero dell’economia e delle
finanze, o delle strutture regionali o provinciali competenti, a seconda che
il personale in disponibilità sia proveniente da amministrazioni dello Stato
o da enti pubblici nazionali ovvero da altre amministrazioni…».
La tenuta separata degli elenchi, se giustifica quindi la possibilità di
assegnazione da parte del Dipartimento della funzione pubblica o da parte
delle strutture regionali o provinciali competenti, a seconda dell’elenco in
cui sia inserito il personale da ricollocare, non giustifica un divieto di
assegnazione di personale ad un comparto diverso da quello di provenienza.
Diversamente, non può essere accolta la domanda risarcitoria.
La giurisprudenza amministrativa ha avuto condivisibilmente modo di
affermare che:
- «…L’annullamento di un atto dal quale consegue una riedizione
del potere amministrativo, per vizi che non comportano un giudizio
definitivo in ordine alla spettanza o meno del bene da conseguire, comporta
l’impossibilità di accogliere la domanda di risarcimento del danno…» (Cons.
Stato, Sez. V, 15.07.2016, n. 3152);
- «…la Giurisprudenza ha, condivisibilmente, affermato che
l’illegittimità di un atto amministrativo per vizi che consentono il
rinnovato esercizio del potere comporta che la richiesta di risarcimento del
danno non possa essere valutata se non all’esito della nuova manifestazione
di volontà dell’ente, poiché la facoltà di rideterminazione immanente in
capo al soggetto pubblico esclude la cristallizzazione del rapporto, quale
necessario presupposto dell’azione risarcitoria (TAR Emilia Romagna, sez. I
Bologna, 30/07/2015, n. 696), e che -mancando un accertamento in ordine
all’effettiva spettanza del bene della vita richiesto- l’accoglimento
dell’impugnazione non può costituire il presupposto per l’accoglimento della
domanda di risarcimento del danno (TAR Lombardia, sez. II Milano,
03/07/2015, n. 1541)…» (TAR Sicilia–Catania, Sez. III, 25.03.2016, n.
891);
- «…La giurisprudenza, anche di questo TAR, ha avuto modo di
affermare più volte che l’annullamento di un atto dal quale consegue una
riedizione del potere amministrativo, per vizi che non comportano un
giudizio definitivo in ordine alla spettanza o meno del bene da conseguire,
ha come conseguenza che la domanda di risarcimento del danno causato da
detto illegittimo provvedimento non può essere accolta, ove, come nel caso
in esame, persistano in capo alla P.A. significativi spazi di
discrezionalità amministrativa, in sede di riesercizio del potere…» (TAR
Sicilia–Catania, Sez. I, 19.09.2013, n. 2242).
Nel caso di specie, l’amministrazione dovrà procedere, sulla base
dell’effetto conformativo della presente sentenza, ove ciò ritenga ancora
necessario, e ricorrendone i presupposti, alla riedizione del potere,
attraverso procedimenti che siano emendati dai vizi che hanno condotto
all’accoglimento in questa sede della domanda annullatoria.
Né il Collegio ritiene di poter procedere prescindendo dalla riedizione del
potere, non essendo certo in questa fase che il ricorrente sarebbe
necessariamente stato assunto, potendo essere ricompresi nell’ambito degli
elenchi di cui si tratta anche altri soggetti collocati in posizione
poziore del ricorrente. |
dicembre 2021 |
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: D.L.
172/2021. Estensione dell’obbligo vaccinale, come introdotto dal D.L.
172/2021, al personale della polizia locale.
L’obbligo vaccinale, come introdotto dalle recenti
disposizioni normative, è previsto soltanto per il personale che svolge
l’attività lavorativa, con la conseguenza che il predetto obbligo non
dovrebbe sussistere in tutte le situazioni di sospensione del rapporto
di lavoro (intervenute prima dell'entrata in vigore del citato obbligo), in
cui detta attività non viene svolta (come, ad esempio, nel caso di fruizione
del congedo straordinario per assistenza a disabili).
In base all'ordinamento regionale (cfr. l.r. 5/2021), il personale (di
categoria B-C o D) che svolge attività amministrative per la polizia locale,
non è “personale della polizia locale” in senso stretto, con la conseguenza
che allo stesso non si dovrebbe applicare l’obbligo vaccinale introdotto
dall’art. 2 del DL 172/2021.
L’Ente chiede alcuni pareri in ordine all’estensione dell’obbligo vaccinale,
come introdotto dal d.l. 26.11.2021, n. 172, anche ai dipendenti inseriti
nell’area della polizia locale. In particolare, gradirebbe conoscere se
l’Amministrazione sia tenuta ad invitare il dipendente, che sta usufruendo
di un congedo straordinario per assistenza a familiare con grave disabilità
ex art. 42, comma 5, del d.lgs. 151/2001, a produrre la documentazione di
cui all’art. 4-ter, comma 3, secondo e terzo periodo, del d.l. 44/2021,
ovvero se tale richiesta debba essere inoltrata in occasione del rientro in
servizio dello stesso. Inoltre chiede conferma del fatto che l’obbligo
vaccinale non sussiste per il personale amministrativo della Polizia Locale,
inquadrato in altre categorie (B-C e D).
È doveroso premettere che allo stato attuale non sono state fornite dalle
Autorità competenti in materia interpretazioni univoche della normativa in
esame; pertanto, in assenza di una maggiore chiarezza e in attesa di un
definitivo chiarimento e in via meramente collaborativa, si esprimono le
seguenti considerazioni.
Com’è noto, l’art. 2, comma 1, del citato decreto ha inserito, dopo
l’articolo 4-bis del decreto legge 01.04.2021, n. 44, convertito, con
modificazioni, dalla legge 28.05.2021, n. 76, l’articolo 4-ter.
Detta norma, al comma 1, dispone che, dal 15.12.2021, l’obbligo vaccinale
per la prevenzione dell’infezione da SARS-CoV-2 si applica a determinate
categorie di lavoratori, nel dettaglio individuate.
La lettera b) del comma in esame prevede espressamente che detto obbligo
riguardi il personale del comparto della difesa, sicurezza e soccorso
pubblico, nonché il personale della polizia locale.
Il successivo comma 2 stabilisce inoltre che la vaccinazione costituisce
requisito essenziale per lo svolgimento delle attività lavorative dei
soggetti obbligati ai sensi del comma 1.
Pertanto, stante la formulazione delle richiamate norme, l’obbligo vaccinale
è previsto soltanto per il personale che svolge l’attività lavorativa
[1], con la conseguenza
che il predetto obbligo non dovrebbe sussistere in tutte le situazioni di
sospensione del rapporto di lavoro, in cui detta attività non viene svolta.
Si consideri che in tale posizione rientra sicuramente anche chi usufruisce
del congedo per l’assistenza a familiari disabili gravi, come disciplinato
dall’art. 42, comma 5, del d.lgs. 151/2001. A mente di quanto disposto anche
dall’art. 4, comma 2, della l. 53/2000, infatti, durante il periodo di
congedo per gravi e documentati motivi familiari, il dipendente conserva il
posto di lavoro, non ha diritto alla retribuzione (ma a un’indennità
corrispondente [2])
e non può svolgere alcun tipo di attività lavorativa.
Si aggiunge che, nelle fattispecie in cui la legge prevede in modo specifico
la sospensione del rapporto con diritto a conservare il posto di lavoro e a
percepire la retribuzione o (come nel caso del congedo straordinario) un
analogo compenso di natura indennitaria, ritenere che l’obbligo di
vaccinazione sussista anche durante il periodo di assenza dal servizio, con
applicazione delle conseguenti sanzioni in caso di inadempimento
[3], produrrebbe
conseguenze irragionevoli, atteso che di fatto risulterebbero vanificate le
disposizioni che stabiliscono espressamente ipotesi di sospensione
lavorativa legittima con diritto al mantenimento del trattamento
retributivo.
Per quanto concerne il secondo quesito formulato, si osserva che l’art. 20,
comma 5, della LR 5/2021 recita testualmente: “Al fine di favorire lo
svolgimento delle funzioni operative sul territorio, le attività
amministrative connesse allo svolgimento dei compiti di polizia locale sono
svolte dal personale amministrativo degli enti locali, salvo che,
eccezionalmente, ricorra almeno una delle seguenti condizioni:
a) le attività siano immediatamente correlate alle violazioni
accertate;
b) le attività riguardino l'acquisizione di dotazioni strumentali
dello stesso personale di vigilanza finalizzate allo svolgimento del
servizio".
Pertanto, in base al nostro ordinamento, il personale (di categoria B-C o D)
che svolge attività amministrative per la polizia locale, non è “personale
della polizia locale”, con la conseguenza che allo stesso non si
dovrebbe applicare l’obbligo vaccinale introdotto dall’art. 2 del DL
172/2021.
Un tanto pare confermato anche dal tenore delle vigenti previsioni
contrattuali (ad esempio, l’art. 30 del CCRL del 01.08.2002), ove per “personale
della polizia locale” si intende propriamente “il personale
dipendente appartenente all’area della polizia locale”, articolato nelle
tre categorie PLA, PLB e PLC.
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[1] Conferma di un tanto si ricava anche da altre disposizioni contenute
nella norma in esame. Ad esempio, al comma 3 dell’art. 2 è previsto che
“l’atto di accertamento dell’inadempimento determina l’immediata sospensione
dal diritto di svolgere l’attività lavorativa…….; al successivo comma 4 si
fa riferimento allo “svolgimento dell’attività lavorativa in violazione
dell’obbligo vaccinale…..”.
[2] Ossia sospensione dal lavoro senza retribuzione né altro compenso o
emolumento, comunque denominati (art. 4-ter, comma 3, DL 44/2021).
[3] L’art. 42, comma 5-ter, del d.lgs. 151/2001 prevede che il dipendente,
durante il periodo di congedo, ha diritto a percepire un’indennità
corrispondente all’ultima retribuzione, con riferimento alle voci fisse e
continuative del trattamento
(28.12.2021 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Concorsi,
niente compensi ai commissari dipendenti, dirigenti o segretari dell'ente
locale che bandisce la prova.
I componenti delle commissioni di concorso pubblico che
sono dipendenti, dirigenti o segretari nello stesso ente locale che bandisce
la prova non possono essere remunerati per questo incarico.
É questa l'indicazione fornita dal
parere 02.12.2021
n. 174 della sezione regionale di controllo della Corte dei conti
della Puglia, che riprende quanto sostenuto dai giudici contabili della
Lombardia nel
parere 03.11.2021 n. 253 (si veda NT+ Enti locali & edilizia del
5 novembre).
Posizioni che contraddicono radicalmente il
parere 04.06.2021 n. 77558 di prot. del Capo del Dipartimento
della Funzione Pubblica, che ha invece sostenuto la spettanza di questi
compensi in tutte le Pa, anche ai dirigenti, consentendo ai singoli enti
locali, con una propria deliberazione, di recepire la misura stabilita per i
componenti delle commissioni di concorso statali.
É evidente la condizione, per lo meno di imbarazzo o difficoltà che questi
pareri stanno determinano nelle singole amministrazioni locali e regionali,
soprattutto nelle tante che hanno recepito nei propri regolamenti il parere
della Funzione Pubblica e che ora si trovano tra l'incudine e il martello di
due orientamenti opposti, con il rischio -se negano i compensi- di dovere
fronte a contenziosi.
A questo punto si deve sollecitare l'intervento del legislatore, unico modo
per dirimere il contrasto. Sicuramente, la limitazione del beneficio ai soli
dipendenti e dirigenti delle pubbliche amministrazioni statali, al di là
della interpretazione formale della norma, appare quanto mai discutibile e
ingiustificato.
Ricostruiamo la vicenda.
La legge 56/2019 ha escluso per tutti i dipendenti pubblici, anche di altre
amministrazioni, la remunerazione per lo svolgimento degli incarichi di
presidente o di componente delle commissioni di concorso. Tale disposizione
è stata abrogata dal Dl 162/2019, articolo 18, comma 1-ter, lettera b, che
ha dato mandato alla Funzione pubblica di disciplinare i compensi che
spettano per lo svolgimento di tali attività. Successivamente, l'articolo
247, comma 10, del Dl 34/2020 ha stabilito che questi compensi spettano ai
componenti le commissioni di concorso che sono state nominate dopo l'entrata
in vigore della norma.
Per le sezioni di controllo della magistratura contabile la modifica
legislativa, con la connessa deroga al principio della onnicomprensività del
trattamento economico accessorio, si applica solamente ai concorsi indetti
dalle pubbliche amministrazioni statali. La deroga a tale principio di
carattere generale dell'ordinamento in materia di disciplina del rapporto di
lavoro dei dipendenti pubblici deve essere espressa in modo formale, per cui
non si può dare corso a interpretazioni estensive o analogiche.
Il tema non è stato in alcun modo affrontato nel parere della Funzione
pubblica, che si è invece concentrato sulla estensione del beneficio ai
dirigenti e sulla sua applicazione anche ai dipendenti e dirigenti
dell'ente, oltre che a quelli di altre amministrazioni pubbliche, dando per
scontata l'applicabilità delle nuove regole a tutti gli enti pubblici e non
solo a quelli statali
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 07.12.2021).
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MASSIMA
A seguito delle modifiche apportate dall’art. 18, comma
1-ter, lettere b) e c), del d.l. n. 162/2019, la disciplina prevista dall’art.
3, commi 13 e 14, della legge n. 56/2019 in materia di compensi dovuti
per l’attività di presidente o di membro della commissione esaminatrice dei
concorsi per l’accesso a un pubblico impiego indetti dalle amministrazioni
dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, e degli enti pubblici non
economici nazionali, non può essere estesa ai concorsi indetti dagli enti
locali, trattandosi di disposizioni eccezionali non suscettibili di
interpretazione estensiva né analogica.
La deroga al principio di onnicomprensività di cui all'art. 3, comma 14, del
d.l. n. 162 del 2019 trova applicazione solo nei confronti delle
amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici non economici nazionali e
non anche nei confronti degli enti locali.
---------------
Con la nota in epigrafe il sindaco del Comune di Ascoli Satriano (FG) ha
formulato a questa Sezione di controllo territoriale la seguente
richiesta di parere: “Il Segretario comunale, dal Sindaco nominato
presidente di commissione di concorso pubblico per titoli ed esami per
l’accesso a posti programmati dal Comune della cui sede di segreteria
comunale è titolare, può ricevere un compenso aggiuntivo di cui al D.P.C.M.
24.04.2020 per tale prestazione oppure vige la regola della
onnicomprensività della retribuzione di posizione ancorché maggiorata?”.
...
2. La legge n. 56 del 2019, recante “Interventi per la concretezza delle
azioni delle pubbliche amministrazioni e la prevenzione dell'assenteismo”,
stabilisce all’articolo 6, comma 1, che “Le disposizioni di cui agli
articoli 1 e 3 recano norme di diretta attuazione dell'articolo 97 della
Costituzione e costituiscono principi generali dell'ordinamento”, quale
corollari del buon andamento ed imparzialità dell’amministrazione; in tal
modo postulando, per quel che qui occupa, che anche gli incarichi nelle
commissioni esaminatrici di pubblici concorsi per l’accesso ad un pubblico
impiego, vengano espletati con piena efficienza e speditezza, favorendone la
partecipazione.
Si premette che il
comma 12 dell’art. 3 della legge 19.06.2019, n. 56, disciplinante il
conferimento al dipendente pubblico degli incarichi di presidente, di membro
o di segretario di una commissione esaminatrice, è stato abrogato dall’art.
18, comma 1-ter, lett. b) del decreto legge 30.12.2019, n. 162, convertito
con modificazioni dalla L. 28.02.2020, n. 8.
L’art. 18, comma 1-ter, del citato decreto legge, alla lett. c), ha poi
aggiunto al comma 13 dell’art. 3 della stessa legge 19.06.2019, n. 56
-secondo cui ”Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri o del
Ministro per la pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro
dell'economia e delle finanze, da adottare entro trenta giorni dalla data di
entrata in vigore della presente legge, si provvede all'aggiornamento, anche
in deroga all'articolo 6, comma 3, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78,
convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122, dei compensi
da corrispondere al presidente, ai membri e al segretario delle commissioni
esaminatrici dei concorsi pubblici per l'accesso a un pubblico impiego
indetti dalle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, e
dagli enti pubblici non economici nazionali, nonché al personale addetto
alla vigilanza delle medesime prove concorsuali, secondo i criteri stabiliti
con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23.03.1995,
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 134 del 10.06.1995. I compensi
stabiliti con il decreto di cui al precedente periodo sono dovuti ai
componenti delle commissioni esaminatrici dei concorsi pubblici per
l’accesso a un pubblico impiego nominate successivamente alla data di
entrata della presente legge. All'attuazione del presente comma si provvede
nei limiti delle risorse disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o
maggiori oneri a carico della finanza pubblica.”- il seguente periodo: ”Tali
incarichi si considerano attività di servizio a tutti gli effetti di legge,
qualunque sia l'amministrazione che li ha conferiti".
Successivamente, l’art. 247, comma 10, del decreto legge n. 34 del 2020,
convertito con modificazioni dalla legge n. 77 del 2020 ha soppresso le
parole “I compensi stabiliti con il decreto di cui al precedente periodo
sono dovuti ai componenti delle commissioni esaminatrici dei concorsi
pubblici per l’accesso a un pubblico impiego nominate successivamente alla
data di entrata della presente legge.“, di cui al comma 13 che precede.
Dalla lettura comparata delle disposizioni previgenti, che avevano
legittimato una lettura estensiva della interpretazione normativa alle
amministrazioni locali (Sezione regionale di controllo per la Lombardia,
parere 18.12.2019 n. 440) e di quelle attualmente in vigore,
emerge che il legislatore abbia inteso restringere il campo dei destinatari
delle previsioni, limitandolo alle sole amministrazioni nazionali.
Quanto precede trova conferma negli atti parlamentari e, in particolare nel
Dossier del 21.02.2020 - schede di lettura D.L. 162/2019 – A.S. 1729 –
Volume II), in cui a pag. 137, trovasi: “Le novelle di cui alle
lettere b) e c) dello stesso comma 1-ter [art. 18] concernono la natura
dell'attività degli incarichi di presidente, di membro e di segretario delle
commissioni esaminatrici dei concorsi per il reclutamento di personale nelle
pubbliche amministrazioni. Si prevede che tali incarichi, qualora riguardino
concorsi indetti dalle amministrazioni dello Stato (anche ad ordinamento
autonomo) e dagli enti pubblici (non economici) nazionali, siano considerati
a tutti gli effetti di legge attività di servizio, qualunque sia
l'amministrazione che li abbia conferiti, e si abroga la disposizione
vigente, che pone il medesimo principio in via generale, mentre la nuova
norma fa esclusivo riferimento ai concorsi indetti dalle suddette
amministrazioni nazionali”.
Pertanto, a seguito dell’entrata in vigore del decreto legge n. 162/2019, la
deroga al principio di onnicomprensività di cui all’art.
24, comma 3, del decreto legislativo n. 165/2001, introdotta dall’art.
3, comma 14, della legge n. 56/2019, trova applicazione solo nei
confronti delle amministrazioni statali e degli enti pubblici (non
economici) nazionali. Tale interpretazione si fonda sul dato letterale delle
disposizioni esaminate, siccome novellate nei precitati termini, ed appare
pienamente coerente con la lettura sistematica dell’articolo 3 della legge
n. 56/2019, volto ad accelerare le assunzioni gestite a livello centrale.
Ed invero, come di recente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte: “un’interpretazione
estensiva del citato comma 14, che ne consentisse l’applicabilità anche agli
enti locali, non può essere ammissibile in quanto solo la legge può derogare
al principio cardine di onnicomprensività della retribuzione dei dipendenti
della PA sancito dagli artt. 2, comma 3 e 24, comma 3 del Dlgs. 165/2001”
(cfr. Sezione regionale di controllo per la Lombardia,
parere 03.11.2021 n. 253).
Ne consegue che, in risposta al quesito in epigrafe, a
seguito delle modifiche apportate dall’art. 18, comma 1-ter, lettere b) e
c), del decreto legge n. 162/2019, la disciplina prevista dall’art.
3, commi 13 e 14, della legge n. 56/2019 in materia di compensi dovuti
per l’attività di presidente o di membro della commissione esaminatrice dei
concorsi per l’accesso a un pubblico impiego indetti dalle amministrazioni
dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, e degli enti pubblici non
economici nazionali, non può essere estesa ai concorsi indetti dagli enti
locali, trattandosi di disposizioni eccezionali non suscettibili di
interpretazione estensiva né analogica; e che la deroga al principio di
onnicomprensività di cui al citato art. 3, comma 14, del decreto legge n.
162 del 2019, trova applicazione solo nei confronti della amministrazioni
dello Stato e degli enti pubblici non economici nazionali
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 02.12.2021
n. 174). |
novembre 2021 |
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ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Osserva
il Collegio come le cause di incompatibilità abbiano specifica natura
tassativa; pertanto, gli obblighi di astensione non operano laddove non
ricorrano gli specifici presupposti indicati dal legislatore.
Nel caso di specie, non costituisce ex se causa di incompatibilità l’eventuale
difforme avviso espresso dai funzionari comunali rispetto a precedenti
pareri. Inoltre, la presunta incompatibilità non è, certamente, dimostrata
dalla sola diversità dell’avviso in difetto di indici inferenziali che
consentano di ritenere la causa pendente ragione effettiva del mutamento di
avviso dedotto.
---------------
Nel caso di specie, non può ritenersi sussistente la condizione di “grave
inimicizia” tra l’operatore ed i funzionari pubblici.
Pur prescindendo
dal tema della legittimazione a proporre una simile ragione di
incompatibilità, il Collegio osserva come la grave inimicizia attenga a “ragioni
private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai
compiti istituzionali”
e non ricorra qualora il funzionario abbia posto in essere condotte
istituzionali che abbiano dato vita a “molteplici provvedimenti
pregiudizievoli tali da determinare l'insorgere di diverse controversie
giurisdizionali”.
---------------
H. Sull’incompatibilità dei funzionari (primo motivo del
ricorso introduttivo).
15. Prendendo l’abbrivo dal primo motivo si rammenta che, con esso, i
ricorrenti deducono l’illegittimità dei provvedimenti impugnati in ragione
della pendenza di un giudizio avanti il Tribunale civile di Pavia tra la
società Es. e taluni amministratori e funzionari comunali, tra cui anche il
responsabile del procedimento e il dirigente dell’ufficio tecnico comunale.
Tale giudizio ha ad oggetto una domanda di risarcimento del danno
personalmente diretta ai funzionari e agli amministratori per il diniego di
approvazione di una precedente istanza di piano attuativo proposta dalla
società Es. sulle medesime aree oggetto del presente giudizio. Gli atti
impugnati sarebbero, quindi, emessi in violazione degli obblighi di
astensione gravanti sui funzionari pubblici.
15.1. Osserva il Collegio che il giudizio al quale fanno riferimento i
ricorrenti termina in data anteriore alla presentazione dell’istanza. La
sentenza del Tribunale ordinario di Pavia n. 860/2019 è pubblicata in data
16.05.2019 e notificata nella stessa data (doc. n. 24 dell’Amministrazione
comunale). La sentenza transita in rem iudicatam in data 15.06.2019,
e, quindi, prima della presentazione dell’istanza di piano attuativo di
Es., depositata in data 08.07.2019. Pertanto, al momento di approvazione
del Piano la causa di incompatibilità consistente nella pendenza di una lite
non sussiste.
15.2. I ricorrenti evidenziano, tuttavia, come i due funzionari comunali
coinvolti nel giudizio civile redigano un parere preliminare in data
21.12.2018 e che tale parere abbia contenuto difforme dalla posizione
assunta nel 2013 e nel 2014 (f. 24 della memoria di merito dei ricorrenti).
15.3. Osserva il Collegio come le cause di incompatibilità abbiano specifica
natura tassativa; pertanto, gli obblighi di astensione non operano laddove
non ricorrano gli specifici presupposti indicati dal legislatore. Nel caso
di specie, non costituisce ex se causa di incompatibilità l’eventuale
difforme avviso espresso dai funzionari comunali rispetto a precedenti
pareri. Inoltre, la presunta incompatibilità non è, certamente, dimostrata
dalla sola diversità dell’avviso in difetto di indici inferenziali che
consentano di ritenere la causa pendente ragione effettiva del mutamento di
avviso dedotto.
15.4. Inoltre, il parere del 21.12.2018 ha effettivamente carattere
preliminare e, come tale, non solo non impegna l’Ente ma neppure costituisce
il punto di riferimento istruttorio dei provvedimenti adottati. Infatti, il
parere è reso in relazione alla “documentazione presentata in data
24.09.2018, prot. 44078”, e, quindi, su una rappresentazione ancora
astratta dell’ipotesi progettuale che si sostanzia nella successiva istanza.
15.4.1. Lo confermano le risposte ai vari quesiti all’attenzione
dell’Ufficio.
15.4.2. In relazione al tema della realizzazione delle strutture di vendita
il parere conclude: “la proposta di realizzare 13 medie strutture di
vendita è ammissibile, sempre che la stessa trovi fondamento, circostanza da
dimostrare nel corso del procedimento di approvazione del piano sia con
elaborati grafici che descrittivi, nell’attuazione dell’obiettivo affidato
all’ambito di trasformazione, quello cioè di realizzare una città mista,
attraverso uno sviluppo rispettoso dei principi di tutela e di
valorizzazione della salute e dell’ambiente”. Il parere ha, quindi, un
esito istruttorio rinviando alle evidenze da acquisire nel procedimento di
approvazione del Piano.
15.4.3. In relazione al tema della “autonomia realizzativa e gestionale
delle medesime medie strutture di vendita” il parere conclude: “il
progetto di piano attuativo che sarà sviluppato dovrà dare piena e concreta
dimostrazione di quanto rappresentato nella documentazione in esame, anche
per la dimostrazione degli indici e grandezze urbanistiche, nonché
dell’indipendenza delle superfici fondiarie e permeabili”. Anche in tal
caso vi è, quindi, un rinvio alla necessità di una piena e concreta
dimostrazione di quanto rappresentato nell’ambito dello specifico
procedimento di approvazione del Piano.
15.4.4. In relazione al tema del “rispetto del principio di contestualità
dei procedimenti urbanistico, edilizi e commerciali” il parere chiarisce che
“l’istruttoria della richiesta di autorizzazione commerciale verrà sospesa
sino alla conclusione del procedimento di adozione/approvazione del piano attuativo, il rilascio dell’autorizzazione potrà avvenire successivamente
all’approvazione e/o stipula della convenzione urbanistica”. Il parere ha,
quindi, contenuto meramente esplicativo della normativa di riferimento.
15.4.5. In relazione al tema del “rilascio di autorizzazioni commerciali
intestate a Es. srl in qualità di proprietario degli immobili o suo
eventuale avente titolo” il parere, dopo aver chiarito la normativa di
riferimento, espone alcuni aspetti di carattere propriamente urbanistico da
approfondire nell’apposito procedimento.
15.5. E’, inoltre, indimostrata la tesi secondo la quale il parere
definirebbe la fase istruttoria atteso che il provvedimento impugnato fa
espresso riferimento non a tale parere ma alla diversa “relazione”
redatta dall’Ufficio e, quindi, ad un atto istruttorio formatosi nel
procedimento e in relazione allo specifico progetto concretamente presentato
dopo il parere preliminare. Né tale conclusione è suscettibile di smentita
in quanto “il parere 21.12.2018 del resto già indica il contenuto del Pa
quanto a dimostrazione delle superfici, dell’autonomia e via dicendo”
(f. 25 della memoria difensiva dei ricorrenti). Infatti, il parere non è,
comunque, sostitutivo dell’istruttoria ed è espresso su uno scenario
progettuale la cui conferma nell’apposita istanza non è circostanza che muta
la natura preliminare del parere.
15.6. In ultimo, non può ritenersi sussistente la condizione di “grave
inimicizia” tra l’operatore ed i funzionari pubblici. Pur prescindendo
dal tema della legittimazione a proporre una simile ragione di
incompatibilità, il Collegio osserva come la grave inimicizia attenga a “ragioni
private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai
compiti istituzionali” (Cassazione civile, Sez. II, 31.10.2018 n. 27923)
e non ricorra qualora il funzionario abbia posto in essere condotte
istituzionali che abbiano dato vita a “molteplici provvedimenti
pregiudizievoli tali da determinare l'insorgere di diverse controversie
giurisdizionali” (Consiglio di Stato, Sez. V, 20.12.2018, n. 7170).
15.7. In definitiva il primo motivo di ricorso è infondato e deve,
pertanto, respingersi (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 19.11.2021 n. 2570 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: La
giurisprudenza anche della Cassazione ai fini della configurabilità
dell'obbligo di astensione (art.
51, n. 3, c.p.c.) in sede disciplinare per "grave inimicizia” richiede,
oltre la reciprocità, la riferibilità a ragioni private di rancore o di
avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali.
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6.- Non miglior sorte merita il terzo motivo di gravame.
A prescindere da ogni altra considerazione il semplice alterco intervenuto
tra il ricorrente ed il Comandante di Stazione non appare sufficiente a
giustificare la sussistenza a carico di quest’ultimo di un obbligo di
astensione, essendo pressoché fisiologica all’interno di ogni ambiente
lavorativo l’insorgenza di contrasti verbali tra il personale in merito
all’organizzazione ed all’adempimento degli obblighi lavorativi, senza che
ciò comporti una “grave inimicizia” tale ai sensi dell’art.
51, n. 3, c.p.c. da imporre
l’astensione del superiore gerarchico.
Infatti la giurisprudenza anche della Cassazione ai fini della
configurabilità del predetto obbligo di astensione (art.
51, n. 3, c.p.c.) in sede
disciplinare per "grave inimicizia” richiede, oltre la reciprocità,
la riferibilità a ragioni private di rancore o di avversione sorte
nell'ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali (Cassazione civile
sez. II, 31.10.2018, n. 27923; id. n. 7683/2005) circostanza non rinvenibile
nel caso di specie (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 19.11.2021 n. 948 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Conferire l'incarico all'ex coniuge è in conflitto d'interessi.
Il principio di imparzialità deve permeare l'attività amministrativa in ogni
suo svolgimento. Ciò comporta il divieto di qualsiasi forma di favoritismo e
l'obbligo di astenersi dal partecipare a quegli atti in cui il dipendente
abbia, direttamente o per interposta persona, un interesse. Ecco perché la
legge anticorruzione del 2012 ha precisato che il responsabile del
procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare pareri,
valutazioni, atti, devono astenersi in ogni caso di conflitto di interessi;
anche se solo potenziale.
Su queste basi il Consiglio di Stato - Sez. VI (sentenza
16.11.2021 n.
7628) ha chiarito che lo status di coniugi ancorché separati da
molto tempo (nella vicenda ben 14 anni) comporta la persistenza di un
rapporto di frequentazione per l'esercizio della responsabilità genitoriale
che rende abusivo il conferimento di un incarico fiduciario al proprio "ex".
Neppure rileva la natura gratuita dell'incarico o la brevità dello stesso
poiché da un matrimonio da cui sono nati figli perdurano obblighi congiunti
in capo ai due vecchi compagni quantomeno sotto il profilo economico.
La nozione di conflitto di interessi riguarda la tensione del dipendente
verso un obiettivo che soddisfi un suo desiderio. La nozione non si
riferisce pertanto a comportamenti ma a stati della persona. Tale regola è
espressione del principio costituzionale di neutralità dell'azione pubblica
il quale impone che le scelte adottate dall'organo debbano essere compiute
nel rispetto di effettiva «equidistanza» da tutti coloro che vengano a
contatto con il potere pubblico. Dal lato dei cittadini l'interesse è
sostanziale perché garantisce la giustizia attraverso la uguaglianza delle
posizioni, la parità di trattamento, e la tutela della concorrenza. Dal lato
della Pa, oltre ai casi penalmente rilevanti, il tornaconto è anche
l'immagine concreta di un potere pubblico al di sopra delle parti.
L'obbligo di astensione figura tra i doveri che il codice di comportamento
pone a carico dei dipendenti; la violazione, ferme le ipotesi di
responsabilità civile, penale e amministrativa, è fonte di responsabilità
disciplinare. In particolare il dipendente deve astenersi da attività che
possano coinvolgere interessi non solo propri ma anche del coniuge o di
persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale;
riconoscendosi valore a quelle situazioni suscettibili -anche solo in
potenza- di influenzare il procedimento burocratico. L'area applicativa dei
richiamati principi va ricondotta alle scelte discrezionali che implicano
valutazioni soggettive che ben possono, anche solo in astratto, essere
condizionate
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 24.11.2021). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
PUBBLICO IMPIEGO: L’art.
6-bis della legge n. 241 del 1990 prevede che «il responsabile del
procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le
valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale
devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni
situazione di conflitto, anche potenziale».
La nozione di “conflitto di interessi” riguarda gli interessi e, dunque, la
tensione verso un bene giuridico che soddisfi un bisogno. La nozione non si
riferisce, pertanto, a comportamenti ma a stati della persona.
Tale regola è espressione del principio generale di imparzialità di cui
all’art. 97 Cost., il quale impone che «le scelte adottate dall’organo
devono essere compiute nel rispetto della regola dell’equidistanza da tutti
coloro che vengano a contatto con il potere pubblico».
L’interesse è, dal lato dei cittadini, “sostanziale” «perché
garantisce la giustizia attraverso la uguaglianza delle posizioni, la parità
di trattamento, e la conseguente tutela della concorrenza»; dal lato
della pubblica amministrazione “immateriale”, «perché tutela anche
l’immagine imparziale del potere pubblico».
La declinazione più specifica delle fattispecie di conflitto di interessi è
contenuta nell’art. 7 del dPR 16.04.2013, n. 62, il quale prevede che: «il
dipendente si astiene dal partecipare all’adozione di decisioni o ad
attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti,
affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di
persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di
soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o
grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di
soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o
agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati,
società o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente».
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8.- Con un secondo motivo si assume l’erroneità della sentenza nella
parte in cui è stata ritenuta sussistente una situazione di conflitto di
interessi. In particolare, si è messo in rilievo come la prof.ssa Ma. e il
prof. Sc. fossero separati da quattordici anni e l’incarico fosse a titolo
gratuito, con la conseguente insussistenza di una situazione di conflitto di
interessi rilevante.
Il motivo non è fondato.
L’art. 6-bis della legge n. 241 del 1990 prevede che «il responsabile del
procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le
valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale
devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni
situazione di conflitto, anche potenziale».
La nozione di “conflitto di interessi” riguarda gli interessi e,
dunque, la tensione verso un bene giuridico che soddisfi un bisogno. La
nozione non si riferisce, pertanto, a comportamenti ma a stati della persona
(Cons. Stato, comm. spec., 05.03.2019, n. 667).
Tale regola è espressione del principio generale di imparzialità di cui
all’art. 97 Cost., il quale impone che «le scelte adottate dall’organo
devono essere compiute nel rispetto della regola dell’equidistanza da tutti
coloro che vengano a contatto con il potere pubblico» (Cons. Stato,
comm. spec., n. 667 del 2019, cit.).
L’interesse è, dal lato dei cittadini, “sostanziale” «perché
garantisce la giustizia attraverso la uguaglianza delle posizioni, la parità
di trattamento, e la conseguente tutela della concorrenza»; dal lato
della pubblica amministrazione “immateriale”, «perché tutela
anche l’immagine imparziale del potere pubblico» (Cons. Stato, comm.
spec., n. 667 del 2019, cit.).
La declinazione più specifica delle fattispecie di conflitto di interessi è
contenuta nell’art. 7 del decreto del Presidente della Repubblica
16.04.2013, n. 62, il quale prevede che: «il dipendente si astiene dal
partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere
interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del
coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di
frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli
o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o
debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia
tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche
non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore
o gerente».
Nella fattispecie in esame, la sussistenza dello status di coniugi
separati determina, sulla base di massime di esperienza, l’insorgenza di un
rapporto di frequentazione e collaborazione anche per l’esercizio della
responsabilità genitoriale, che impone l’obbligo di astensione, che, nella
specie, non è stato osservato. Non rileva la natura formalmente gratuita
dell’incarico, avendo la parte appellante un evidente interesse
all’espletamento dell’incarico stesso
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 16.11.2021 n. 7628 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Compensi
ai dipendenti nelle commissioni di concorso.
Niente compensi ai dipendenti dell'ente locale impegnati nelle commissioni
dei concorsi indetti dal medesimo ente.
E' la Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia a
chiarire, col
parere
03.11.2021 n. 253, la
non spettanza dei compensi.
I compensi ai componenti delle commissioni di concorso sono regolati
dall'articolo 3, commi 13 e 14, della legge 56/2019. Secondo i magistrati
contabili lombardi, tuttavia, la disciplina normativa introdurrebbe una
generalizzata deroga al principio di onnicomprensività e, in secondo luogo,
varrebbe solo per i concorsi indetti dalle amministrazioni dello Stato,
anche ad ordinamento autonomo, e degli enti pubblici non economici
nazionali, sicché non può essere estesa ai concorsi indetti dagli enti
locali, trattandosi di disposizioni eccezionali che non possono essere
interpretate estensivamente, né in analogia.
A ben vedere, tuttavia, tali affermazioni appaiono in contrasto con le
previsioni ordinamentali. Con specifico riferimento all'esclusione degli
enti locali dal campo di applicazione della norma, si reperisce proprio
dalla lettura del
comma 14 dell'articolo 3 della legge 56/2019 un precetto
del tutto opposto alla lettura offerta dalla Sezione Lombardia.
Il comma 13 dispone che i compensi siano disciplinati da un decreto
ministeriale secondo i «criteri stabiliti con il
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23.03.1995». Tale ultima norma, tuttavia,
all'articolo 8 estende la propria portata anche agli enti locali. Dunque,
per affermare che le nuove regole sui compensi ai componenti delle
commissioni di concorso non sono efficaci per gli enti locali, occorrerebbe
dimostrare l'abolizione anche implicita del dpcm. Il che né appare
possibile, né è comunque oggetto del parere della Sezione.
Non appare, comunque, nemmeno corretto sostenere, come si adombra nel
parere, che l'effetto dell'articolo 3, commi 13 e 14, della legge 56/2019
consista nell'eliminazione totale del principio di onnicomprensività del
rapporto.
La Corte dei conti, come moltissime amministrazioni, si lascia trarre in
inganno dall'ultimo periodo del comma 13, ai sensi del quale gli incarichi
di commissari e presidente delle commissioni di concorso «si considerano
attività di servizio a tutti gli effetti di legge, qualunque sia
l'amministrazione che li ha conferiti». L'errore è ritenere che tale
norma autorizzi l'ente a retribuire i propri dipendenti componenti delle
commissioni. Ma, la funzione di tale precetto è un'altra: quella di favorire
la formazione delle commissioni.
Negli anni scorsi, si era constatato una forte difficoltà degli enti a
comporre gli organi selettivi, per due cause: i bassi compensi e,
soprattutto, la necessità, sia per i dipendenti pubblici incaricati come
commissari esterni all'ente, sia per i dipendenti dell'ente medesimo che
indice il concorso, di mettersi in ferie o di attivare altre cause
giustificative di assenza. La legge 56/2019 ha voluto semplicemente chiarire
che la funzione di commissario di concorso è attività di servizio e, come
tale, dunque, non richiede la collocazione in ferie o permessi. Il
dipendente pubblico commissario esterno non deve fare altro che essere
autorizzato anche alla missione.
Così stando le cose, è allora chiaro che i compensi non possono spettare se
non ai componenti esterni, ma non certo ai medesimi dipendenti dell'ente. Il
presidente, il componente o il segretario della commissione, poiché svolgono
una funzione connessa al proprio ufficio, sono da considerare a tutti gli
effetti in servizio ed adibiti correttamente ad una prestazione lavorativa,
che, per quanto difforme da quella generalmente svolta, può essere
liberamente pretesa dal datore di lavoro e comunque potenzialmente attinente
sempre alle proprie mansioni.
Di conseguenza, contrariamente alla prassi che era molto in voga tempo
addietro presso le pubbliche amministrazioni, il dipendente dell'ente che ha
indetto il concorso, non deve essere considerato assente dal servizio e
tenuto a timbrare per la durata dell'attività della commissione.
Del resto, come chiarito dal Tar Veneto, Sez. II, con
sentenza 08.02.2007 n. 700 (udienza), "la
partecipazione alle commissioni giudicatrici per i componenti interni
rientra nell'ordinario contenuto del rapporto di impiego con
l'Amministrazione che ha indetto il concorso, il quale ben può comprendere
anche prestazioni lavorative occasionali (che, proprio per tale loro
specifica natura, non sono previste dalla contrattazione collettiva di
settore). Ed è evidente come, in tale contesto, quelle prestazioni
occasionali non possano che essere remunerate con la normale retribuzione se
svolte durante l'orario di servizio, ovvero, al di fuori di esso, con il
compenso aggiuntivo previsto per il lavoro straordinario".
Se l'ente attribuisse compensi al proprio dipendente per l'espletamento di
un'attività comunque rientrante nei propri doveri, ancorché si tratti di
attività svolta solo in occasione di concorsi, si violerebbe senza alcun
dubbio il principio di onnicomprensività, operante, ovviamente, solo nel
rapporto contrattuale tra ente e proprio dipendente. Dunque, è ammissibile
il compenso a dipendenti pubblici non appartenenti alla medesima PA che
indice il concorso, ma non ai dipendenti di tale PA
(articolo ItaliaOggi del 19.11.2021). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nuovi
compensi delle commissioni di concorso: «no» della Corte dei conti agli enti
locali.
La complessa vicenda della remunerazione dei componenti delle commissioni di
concorso alla luce dell'articolo 3, commi 13 e 14, della legge 56/2019, si
arricchisce di nuovi elementi e si allontana ancora da un chiarimento
definitivo.
La Corte dei conti per la Lombardia, con la
parere
03.11.2021 n. 253, risponde ai quesiti posti da un Comune ritenendo
inapplicabile la norma agli enti locali e facendo traballare le timide
certezze alimentate dal recente
parere
04.06.2021 n. 77558 di prot. del Dipartimento per la Funzione
pubblica. Ma andiamo per ordine.
Il Comune ha chiesto di sapere se i compensi per la partecipazione alle
commissioni concorsuali di cui alla legge richiamata possano essere erogati
anche in favore dei dipendenti della stessa amministrazione che bandisce il
concorso; se essi siano da considerarsi trattamento accessorio e quindi
debbano transitare per il fondo risorse decentrate e, discendendo da ciò, se
siano soggetti al limite 2016; se sia necessaria l'autorizzazione per la
loro attività ex articolo 53 del Tupi; infine, come debbano essere
remunerati i dipendenti di terze amministrazioni.
La norma in esame ha introdotto alcune novità in tema di partecipazione dei
pubblici dipendenti alle commissioni di concorso e loro remunerazione.
Tra
gli aspetti salienti l'inquadramento della prestazione dei dipendenti
nell'attività di servizio a tutti gli effetti di legge, qualsiasi sia
l'amministrazione che bandisce il concorso, nonché l'annuncio di un Dpcm (D.P.C.M.
24.04.2020, ndr)
contenente l'aggiornamento dei compensi relativi. La norma, nel frattempo, è
stata modificata dal Dl 162/2019, che ha abrogato il comma 12, il quale, tra
l'altro, prevedeva la necessità di autorizzazione da parte dell'ente di
appartenenza in caso di coinvolgimento di dipendenti altrui.
Proprio partendo dall'esame delle modifiche apportate del Decreto "Milleproroghe",
la Corte dei conti lombarda evidenzia come il comma 13, nel ragionare
dell'aggiornamento dei compensi, si rivolga solo alle amministrazioni dello
Stato, anche a ordinamento autonomo, e agli enti pubblici non economici
nazionali. Da ciò, abrogato il comma 12, che invece ragionava in modo
soggettivamente più ampio, riferendosi in generale alle "amministrazioni" e
all'accesso "al pubblico impiego", i magistrati lombardi ricavano che
l'intenzione del legislatore sia stata quella di circoscrivere la portata
della norma a quelle specifiche amministrazioni centrali e che pertanto essa
non possa essere applicata agli enti locali. Inclusa la deroga al principio
di onnicomprensività fissato dall'articolo 24, comma 3, del Dlgs 165/2001.
In sostanza, partendo da una lettura sistematica dell'intero
articolo 3
della legge "Concretezza", la norma avrebbe lo scopo «di accelerare le
procedure assunzionali gestite a livello centrale». Rafforzativo di questa
lettura, rimarcano i giudici, il contenuto degli atti parlamentari del Dl
162/2019.
La sezione respinge gli altri quesiti: stabilire se i compensi (a questo
punto si ragionerebbe, per gli enti locali, di quelli applicabili in forza
della vecchia normativa) siano trattamento accessorio è competenza dell'Aran.
Da ciò discende, ovviamente, l'impossibilità di pronunciarsi sul loro
assoggettamento al limite ex articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017. La
questione della necessità o meno dell'autorizzazione, infine, non ha rilievo
contabile e risulta quindi inammissibile, così come la modalità di
remunerazione dei dipendenti di terze amministrazioni, che «non può essere
sganciata dalle questioni già affrontate».
Recentemente il Dipartimento per la Funzione Pubblica, rendendo
il
parere
04.06.2021 n. 77558 di prot. a
un Comune, aveva ritenuto la norma applicabile anche ai Comuni, e che i
compensi debbano essere riconosciuti, evitando ingiuste sperequazioni tra
personale dirigente e no, anche al personale della stessa amministrazione
che bandisce il concorso. Il tutto per compiti da svolgersi nell'orario di
servizio, aderendo alla lettera della norma che li vuole, come visto,
attività di servizio a tutti gli effetti. Il Dfp aveva anche evidenziato
come il
D.P.C.M. 24.04.2020 attuativo del comma 13, che la Corte conti riferisce alle sole
amministrazioni centrali, preveda la possibilità per gli enti locali di
recepirne il contenuto.
Gli enti locali restano nel dubbio sia sulla natura dei compensi, sia sulla
loro debenza o meno ai propri dipendenti, sia ancor prima, a questo punto,
sull'applicabilità della norma al loro caso. Urge un intervento
chiarificatore del legislatore
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 05.11.2021).
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MASSIMA
A seguito delle modifiche apportate dall’art. 18,
comma 1-ter, lettere b) e c), del d.l. n. 162/2019, la disciplina
prevista dall’art. 3, commi 13 e 14, della legge n. 56/2019 in materia di
compensi dovuti per l’attività di presidente o di membro della commissione
esaminatrice dei concorsi per l’accesso a un pubblico impiego indetti dalle
amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, e degli enti
pubblici non economici nazionali, non può essere estesa ai concorsi indetti
dagli enti locali, trattandosi di disposizioni eccezionali che non possono
essere interpretate estensivamente, né in analogia.
...
Il sindaco del comune di Settala (MI) ha presentato alla Sezione una
richiesta di parere sul tema dei compensi spettanti ai componenti delle
commissioni di concorso. In particolare, si chiede:
1. se tali compensi possano essere erogati anche a favore dei
dipendenti della Pubblica Amministrazione che bandisce il concorso;
2. se il compenso, legato ad attività svolta in orario di
lavoro, per specifiche disposizioni di legge, sia da considerarsi
trattamento economico accessorio e, di conseguenza, rientri nel Fondo
risorse decentrate di cui agli articoli 67 e 68 del CCNL Funzioni Locali
2016/2018 sottoscritto in data 21/05/2018 e sia soggetto al limite previsto
dall’articolo 23, comma 2, d.lgs. 25/05/2017, n. 75 e s.m.i.;
3. in caso di risposta affermativa, se l’eventuale
assoggettamento al limite previsto dalla predetta norma risulti d’obbligo
anche con riferimento ai compensi all’uopo erogati, ai propri dipendenti, da
altre Pubbliche Amministrazioni e ciò in considerazione del fatto che, in
tal caso, nessun esborso graverebbe direttamente sul bilancio della Pubblica
Amministrazione di effettiva appartenenza del dipendente (risorse di
provenienza esterna all’Ente, con vincolo di destinazione all’origine:
principio di neutralità finanziaria);
4. se sia necessaria l’autorizzazione ai sensi dell’articolo 53
del d.lgs. 30/03/2001, n. 165 e s.m.i., per i dipendenti di altre Pubbliche
Amministrazioni facenti parte delle commissioni concorsuali;
5. quali siano le modalità per retribuire i dipendenti di altre
Pubbliche Amministrazioni facenti parte delle commissioni concorsuali.
Nella richiesta l’Amministrazione comunale richiama il
parere 18.12.2019 n. 440 con cui questo Collegio, sulla base di
un’interpretazione sistematica della normativa dettata dall’art. 3, commi
12-14, della l. 19.06.2019, n. 56, ha ritenuto che ”ai componenti delle
commissioni di concorsi pubblici banditi da un’amministrazione diversa da
quella di appartenenza, privi di qualifica dirigenziale, spetti il compenso
per l’attività di presidente, di componente o di segretario di concorso”,
ammettendo, quindi, che anche nei confronti di tale personale trovi
applicazione la deroga al principio di onnicomprensività di cui all’art. 24,
comma 3, del d.lgs. n. 165/2001, prevista dall’art. 3, comma 14, l. n.
56/2019.
Il comune di Settala richiama, inoltre, il
parere
04.06.2021 n. 77558 di prot. reso dal Dipartimento della funzione
pubblica al comune di Lucca secondo il quale “la corresponsione dei
compensi previsti dall’art. 3, c. 14, l. n. 56/2019 riguardi tutti i
componenti delle commissioni di concorso, a prescindere dall’appartenenza o
meno degli stessi ai ruoli dell’amministrazione che bandisce il concorso”.
...
2.1 Deve in primo luogo chiarirsi che il richiamo al
parere 18.12.2019 n. 440 di questa Sezione è ininfluente ai fini
della risposta al primo dei quesiti formulati dal comune di Settala, diretto
a conoscere se tali compensi possano essere erogati anche a favore dei
dipendenti della Pubblica Amministrazione che bandisce il concorso, non
tanto perché, in quell’occasione, il Collegio si è pronunciato in ordine
alla retribuibilità degli incarichi dei componenti delle commissioni di
concorso indetto da amministrazione diversa da quella di appartenenza,
quanto piuttosto perché, medio tempore, sono intervenute
significative novità nel quadro normativo di riferimento.
Ci si riferisce alle modifiche apportate all’art. 3 della legge n. 56/2019
dall’art. 18, comma 1-ter lettere b) e c), del decreto legge 30.12.2019, n.
162 (convertito, con modificazioni, dalla legge 28.02.2020, n. 8), i cui
effetti non sono considerati nel parere reso dal Dipartimento della funzione
pubblica richiamato dal comune istante.
In particolare, la lett. b) del sopra richiamato art. 18, comma 1-ter, ha
abrogato l’art. 3, comma 12, della legge n. 56/2019 che così recitava “Gli
incarichi di presidente, di membro o di segretario di una commissione
esaminatrice di un concorso pubblico per l'accesso a un pubblico impiego,
anche laddove si tratti di concorsi banditi da un'amministrazione diversa da
quella di appartenenza e ferma restando in questo caso la necessità
dell'autorizzazione di cui all'articolo 53 del decreto legislativo
30.03.2001, n. 165, si considerano ad ogni effetto di legge conferiti in
ragione dell'ufficio ricoperto dal dipendente pubblico o comunque conferiti
dall'amministrazione presso cui presta servizio o su designazione della
stessa”.
La lettera c) ha, invece, disposto l’aggiunta di un periodo alla fine del
comma 13, il cui testo –al netto delle ulteriori modifiche apportate
dall’art. 247, comma 10, del decreto legge 19.05.2020, n. 34 (convertito con
modificazioni, dalla legge 17.07.2020, n. 77), non rilevanti ai fini che qui
interessano– risulta essere il seguente: “con decreto del Presidente del
Consiglio dei ministri o del Ministro per la pubblica amministrazione, di
concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, da adottare entro
trenta giorni dalla data di entrata in vigore della predetta legge, si
provvede all'aggiornamento, anche in deroga all'art. 6, comma 3, del
decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge
30.07.2010, n. 122, dei compensi da corrispondere al presidente, ai membri e
al segretario delle commissioni esaminatrici dei concorsi pubblici per
l'accesso a un pubblico impiego indetti dalle amministrazioni dello Stato,
anche ad ordinamento autonomo, e dagli enti pubblici non economici
nazionali, nonché al personale addetto alla vigilanza delle medesime prove
concorsuali, secondo i criteri stabiliti con il
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23.03.1995,
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 134 del 10.06.1995. Tali incarichi si
considerano attività di servizio a tutti gli effetti di legge, qualunque sia
l'amministrazione che li ha conferiti".
Dalla lettura comparata delle disposizioni previgenti e di quelle attuali
emerge chiaramente come il legislatore abbia inteso restringere il campo dei
destinatari delle norme in parola, limitandolo alle sole amministrazioni
nazionali.
Che questa sia la voluntas legis trova conferma negli atti
parlamentari e, in particolare nel “Dossier
21.02.2020 - schede di lettura D.L. 162/2019 – A.S. 1729)” dove
si legge che: “Le novelle di cui alle lettere b) e c) dello stesso comma
1-ter concernono la natura dell'attività degli incarichi di presidente, di
membro e di segretario delle commissioni esaminatrici dei concorsi per il
reclutamento di personale nelle pubbliche amministrazioni. Si prevede che
tali incarichi, qualora riguardino concorsi indetti dalle amministrazioni
dello Stato (anche ad ordinamento autonomo) e dagli enti pubblici (non
economici) nazionali, siano considerati a tutti gli effetti di legge
attività di servizio, qualunque sia l'amministrazione che li abbia
conferiti, e si abroga la disposizione vigente, che pone il medesimo
principio in via generale, mentre la nuova norma fa esclusivo riferimento ai
concorsi indetti dalle suddette amministrazioni nazionali”.
Sulla scorta di quanto evidenziato, ne consegue che a seguito dell’entrata
in vigore del decreto legge n. 162/2019, la deroga al principio di
onnicomprensività di cui all’art. 24, comma 3, del decreto legislativo n.
165/2001, introdotta dall’art. 3, comma 14, della legge n. 56/2019, trova
applicazione solo nei confronti delle amministrazioni statali e degli enti
pubblici (non economici) nazionali. Tale interpretazione, fondata sul dato
letterale delle disposizioni esaminate, fra di loro intrinsecamente
connesse, appare funzionale anche all’obiettivo del legislatore, emergente
da una lettura sistematica di tutto l’articolo 3 della legge n. 56/2019, di
accelerare le procedure assunzionali gestite a livello centrale.
Ciò posto, questa Sezione ritiene che un’interpretazione estensiva del
citato comma 14, che ne consentisse l’applicabilità anche agli enti locali,
non può essere ammissibile in quanto solo la legge può derogare al principio
cardine di onnicomprensività della retribuzione dei dipendenti della PA
sancito dagli artt. 2, comma 3, e 24, comma 3, del Dlgs. 165/2001.
Come ben chiarito dalla Sezione regionale per il Veneto (cfr.
parere
05.01.2018 n. 1) “In virtù di tale
principio, nulla è dovuto, oltre al trattamento economico fondamentale ed
accessorio stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che ha svolto
una prestazione che rientra nei suoi doveri d’ufficio (cfr. Corte dei Conti
Puglia, Sezione giurisdizionale, sentenze nn. 464, 475 e 487 del 2010).
Il principio si coniuga con quello, previsto parimenti dalle norme citate,
della riserva alla contrattazione collettiva in tema di determinazione del
corrispettivo delle prestazioni dei dipendenti: ne consegue, da un lato, che
solo il contratto collettivo nazionale, può fissare onnicomprensivamente il
trattamento economico, mentre quello decentrato assume rilevanza nei limiti
di quanto disposto dalle fonti nazionali. In ambo i casi, solo la legge può
derogare a tale sistema, prevedendo talora ulteriori specifici compensi (Sez.
Autonomie
deliberazione 15.04.2014 n. 7 e Corte dei conti SS.RR.QM
deliberazione 04.10.2011 n. 51) o addirittura la
possibilità di una diversa strutturazione del trattamento economico (cfr.,
ad esempio, gli artt. 24 e 45 del Dlgs. n. 165 del 2001), sia sul piano
qualitativo che su quello quantitativo: con la conseguenza che, in quanto
tale, esso costituisce un’eccezione di stretta interpretazione, con divieto
di analogia (art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile:
Sezione Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008,
essendo regola generale quella secondo cui il contratto individuale o una
determinazione unilaterale dell’ente (ad esempio un regolamento) non possono
determinare il corrispettivo e, dall’altro, che tale corrispettivo
retribuisce ogni attività che ricade nei doveri d’ufficio (principio di
onnicomprensività)”.
2.2 Con il secondo quesito il comune di Settala chiede “se il
compenso in parola, legato ad attività svolta in orario di lavoro, per
specifiche disposizioni di legge, sia da considerarsi trattamento economico
accessorio e, di conseguenza, rientri nel Fondo risorse decentrate di cui
agli articoli 67 e 68 del CCNL Funzioni locali 2016/2018”.
Si rileva, al riguardo che, alla luce della costante giurisprudenza della
Corte dei conti, tale quesito debba ritenersi inammissibile. Come è noto,
infatti, esula dall’ambito di competenza della Corte l’interpretazione, in
sede consultiva, delle norme dei Contratti Collettivi Nazionali di lavoro (cfr.
Sezioni Riunite in sede di controllo deliberazione n. 56/2011), e, nello
specifico, dell’applicazione delle disposizioni contenute in uno di essi per
colmare eventuali lacune della legge poiché, come più volte specificato,
l'interpretazione delle norme contrattuali rientra nelle funzioni che il
legislatore ha attribuito all’ARAN. (cfr., da ultimo, Sezione regionale
controllo Lombardia, n. 113/2021).
2.3 Tenuto conto delle soluzioni adottate deve ritenersi superato il
terzo quesito, subordinato, dalla stessa amministrazione, all’esito
positivo dei precedenti.
2.4 Quanto alla quarta questione posta dal comune di Settala, tesa a
conoscere se sia necessaria l’autorizzazione ai sensi dell’articolo 53 del
d.lgs. 30.03.2001, n. 165 e s.m.i., per i dipendenti di altre pubbliche
amministrazioni facenti parte delle commissioni concorsuali, il collegio
ribadisce che, come affermato dalle Sezioni riunite, la materia del
personale per rientrare nella nozione di contabilità pubblica, deve
coinvolgere “la previsione legislativa di limiti e divieti idonei a
riflettersi, come detto, sulla sana gestione finanziaria degli Enti e sui
pertinenti equilibri di bilancio” (Sezioni riunite in sede di controllo,
deliberazione n. 54/2010). Poiché, nel caso in esame non si rinviene tale
rilievo contabile, il quesito deve dichiararsi inammissibile.
2.5 Con riferimento all’ultimo interrogativo rivolto a questa Sezione
regionale dal comune di Settala, diretto a conoscere quali siano le modalità
per retribuire i dipendenti di altre Pubbliche Amministrazioni facenti parte
delle commissioni concorsuali, il collegio osserva che la tematica non può
essere sganciata dalle questioni già affrontate e, pertanto, deve anch’essa
essere ritenuta inammissibile.
P.Q.M.
La Corte dei conti –Sezione regionale di controllo per la Lombardia– esprime
il seguente principio di diritto sull’unica questione ritenuta ammissibile
fra quelle prospettate dal comune di Settala (MI):
“A seguito delle modifiche apportate dall’art. 18, comma
1-ter, lett. b) e c), del decreto legge n. 162/2019, la disciplina
prevista dall’art. 3, commi 13 e 14, della legge n. 56/2019 in materia di
compensi dovuti per l’attività di presidente o di membro della commissione
esaminatrice dei concorsi per l’accesso a un pubblico impiego indetti dalle
amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, e degli enti
pubblici non economici nazionali, non può essere estesa ai concorsi
indetti dagli enti locali, trattandosi di disposizioni eccezionali che non
possono essere interpretate estensivamente, né in analogia”
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere
03.11.2021 n. 253). |
settembre 2021 |
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ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: B.
Amuro,
Pausa caffè: è reato? (06.09.2021 - link a
www.filodiritto.com).
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Pausa caffè e sosta in tabaccheria senza timbrare il tesserino per la
pausa. Azione fraudolenta o semplice consuetudine tutta italiana?
La
sentenza 29.07.2021 n.
29674 della Sez. III penale della Corte di
Cassazione propende la prima e rinvia alla Corte d’appello solo per la
valutazione circa l’eventuale non punibilità per particolare tenuità del
fatto (articolo 131-bis Codice Penale). (...continua). |
luglio 2021 |
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Rischi
penali per le pause caffè senza timbrare. Solo episodi singoli possono
evitare la maxi-sanzione grazie alla «lieve tenuità».
La «lieve tenuità» può evitare le sanzioni penali, ma le indicazioni
offerte dalla
sentenza 29.07.2021 n.
29674 della Cassazione
(Sole 24 Ore del 26 agosto) dettano principi piuttosto rigidi
sull’applicazione delle norme anti-assenteismo. L’allontanamento
dall’ufficio per la pausa caffè senza la timbratura dell’uscita integra per
i giudici il reato della falsa attestazione della presenza, anche se è stato
commesso una volta sola, tranne che si dimostri la particolare tenuità del
fatto.
Non è necessaria la presenza di un dolo specifico, quindi è sufficiente che
i dipendenti siano a conoscenza dell’esistenza di un vincolo della
timbratura; maturano le condizioni per contestare l’aggravante dell’essere
pubblico ufficiale, anche se si tratta di una circostanza non strettamente
collegata all’esercizio delle attività; la condotta determina la maturazione
del danno all’immagine.
La Corte dà inoltre conto del fatto che vi sono letture contrastanti sulla
scelta di subordinare la sospensione della condanna al risarcimento del
danno, posto che in caso di risposta positiva va dimostrato che il
dipendente è nelle condizioni economiche di poter dare corso al
risarcimento. La sentenza evidenzia quanto la scelta legislativa sia rigida
e figlia della volontà di punire duramente comportamenti che creano
disservizi e danneggiano la credibilità delle Pa, ma che il tutto va
ricondotto ai principi generali dell’ordinamento penale.
La prima indicazione netta è che non è necessario, per irrogare la sanzione
penale della reclusione e della multa prevista dall’articolo 55-quinquies
del Dlgs 165/2001 (reclusione da uno a cinque anni e sanzione da 400 a 1.600
euro), dimostrare che la condotta è stata caratterizzata da continuità,
abitualità o reiterazione. Anche un singolo episodio integra gli estremi del
reato. Che matura per la semplice mancata timbratura dell’uscita e non sono
necessari l’alterazione o la manomissione del sistema di rilevazione delle
presenze. La mancanza prevista dal legislatore si determina per il fatto che
il dipendente non è in ufficio e che la sua assenza non è registrata.
Un’altra indicazione rigida deriva dalla scelta legislativa: è sufficiente a
integrare il reato il dolo generico e non serve la dimostrazione di una
volontà specifica. I dipendenti vanno sanzionati se conoscono l’esistenza di
un vincolo all’uso del badge e non ci sono giustificazioni convincenti.
Dalla rigidità della disposizione scaturisce l’aggravante dell’essere un
pubblico ufficiale: la norma non richiede «un nesso funzionale tra tali
poteri o doveri e il compimento del reato». Il fatto di essere un
dipendente di Pa determina un «maggior disvalore penale del reato».
La sentenza ricorda che la norma prevede il risarcimento da parte del
dipendente del danno provocato all’ente, sia di natura patrimoniale per la
retribuzione che ha percepito indebitamente, sia all’immagine, con
quantificazione della misura minima. In applicazione dei principi di
carattere generale e segnatamente dell’articolo 131-bis del Codice penale,
matura la non punibilità nel caso di «particolare tenuità del fatto».
Il che richiede che la mancanza sia una sola, che abbia determinato effetti
di lieve entità e che le modalità della condotta consentano questo giudizio
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.09.2021). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Rischi
penali per le pause caffè senza timbrare.
L'allontanamento dall'ufficio per la cosiddetta pausa caffè senza la
timbratura dell'uscita integra il reato della falsa attestazione della
presenza, anche se è stato commesso una volta sola, tranne che si dimostri
la particolare tenuità del fatto.
Non è necessaria la presenza di un dolo
specifico, quindi è sufficiente che i dipendenti siano a conoscenza della
esistenza di un vincolo della timbratura; maturano le condizioni per
contestare l'aggravante dell'essere pubblico ufficiale, anche se si tratta
di una circostanza che non è strettamente collegata all'esercizio delle
attività; tale condotta determina la maturazione del danno all'immagine.
Sono queste le principali
indicazioni contenute nella
sentenza 29.07.2021 n.
29674 della III Sez. penale della Corte di Cassazione.
La stessa dà inoltre conto del fatto che ci sono letture contrastanti sulla
scelta di subordinare la sospensione della condanna al risarcimento del
danno, posto che in caso di risposta positiva sull'utilizzazione di questa
possibilità occorre dimostrare che il dipendente è nelle condizioni
economiche di potere dare corso al risarcimento. La sentenza evidenzia
quanto la scelta legislativa sia rigida e sia figlia della volontà di punire
duramente comportamenti che creano disservizi e determinano danni rilevanti
alla credibilità delle Pa, ma che il dettato legislativo deve essere
comunque ricondotto nel rispetto dei principi di carattere generale dettati
dall'ordinamento penale.
La prima indicazione molto netta è che non è necessario, per potere irrogare
la sanzione penale della reclusione e della multa prevista dall'articolo
55-quinquies del Dlgs 165/2001 dimostrare che la condotta del dipendente è
stata caratterizzata dalla continuità o dalla abitualità o dalla
reiterazione. Di conseguenza, anche un singolo episodio integra gli estremi
per la maturazione del reato. Intimamente connessa a tale principio è la
considerazione che il reato matura per la semplice mancata timbratura della
uscita e non sono necessari l'alterazione o la manomissione del sistema di
rilevazione delle presenze. La mancanza prevista dal legislatore si
determina per il semplice fatto che il dipendente non è in ufficio e che la
sua assenza non risulta registrata dal sistema di rilevazione delle
presenze.
Un'altra indicazione che possiamo definire come rigida e che deriva
direttamente dalla scelta legislativa è la seguente: è sufficiente a
integrare il reato il dolo generico e non è necessaria la dimostrazione di
una volontà specifica. Quindi, i dipendenti vanno sanzionati se sono a
conoscenza della esistenza di un vincolo alla utilizzazione del badge e se
non vi sono elementi di giustificazione convincenti.
Dalla rigidità della disposizione scaturisce l'elemento per cui si deve
contestare la circostanza aggravante dell'essere il dipendente un pubblico
ufficiale: il dettato legislativo non richiede che vi sia «un nesso
funzionale tra tali poteri o doveri ed il compimento del reato». In
altri termini, il semplice fatto di essere un dipendente di Pa determina un
«maggior disvalore penale del reato».
La sentenza ricorda che la disposizione prevede che il dipendente debba
risarcire il danno che ha provocato all'ente, sia di natura patrimoniale per
la retribuzione che ha percepito indebitamente, sia alla immagine della Pa,
con la quantificazione della misura minima.
In applicazione dei principi di carattere generale e segnatamente
dell'articolo 131-bis del codice penale, matura la non punibilità nel caso
di «particolare tenuità del fatto». Il che richiede che la mancanza sia una
sola, che essa abbia determinato degli effetti di lieve entità e che le
modalità della condotta consentano la maturazione di tale giudizio
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 06.09.2021). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
La Cassazione chiude un occhio sulla fuga per la pausa caffè.
Resta reato ma punibile solo se sono provati abitualità e danno rilevante
per la Pa. I dipendenti non timbravano il badge e confidavano su prassi e
tolleranza.
I futili motivi che inducono i furbetti del cartellino a
uscire per la pausa caffè e le sigarette non bastano a escludere la non
punibilità, per la particolare tenuità del fatto. Per negare il beneficio,
previsto dall’articolo 131-bis del Codice penale serve, infatti, la prova
dell’abitualità del comportamento e del danno rilevante per la pubblica
amministrazione. Due elementi
che la Corte d’appello, disattesa dalla Cassazione (sentenza 29.07.2021 n.
29674), aveva rilevato.
Per la Corte territoriale erano punibili due impiegati del Comune, finiti
nelle maglie della giustizia, perché assenti ingiustificati durante un
controllo dei Carabinieri. Un’uscita, senza timbrare il badge, per
comprare le sigarette e andare al bar. In realtà a metterli davvero nei guai
erano state le loro giustificazioni. Il bevitore di caffè aveva parlato di
necessità, non essendoci in ufficio un distributore e di prassi seguita in
tutti i luoghi di lavoro. Il dipendente che era andato dal tabaccaio, aveva
maledetto la cattiva sorte, perché in 36 anni di servizio non gli era mai
capitata una cosa del genere.
Frasi che, per la Corte territoriale, provavano l’abitualità dei
comportamenti. Dello stesso parere il Pubblico ministero, secondo il quale
il beneficio era stato giustamente negato, anche ai fini delle attenuanti
generiche, perché era stato violato il principale dovere di un lavoratore:
la presenza sul posto di lavoro. Gli imputati avevano agito con noncuranza
verso l’utenza tendendo a sminuire l’azione commessa.
Sulla stessa linea sia il Tribunale sia la corte d’Appello, che avevano
messo l’accento sulla futilità dei motivi delle uscite, e sulla gravità
dell’allontanamento non registrato. Una condotta idonea «ad incrementare
un diffuso malumore verso la categoria dei pubblici dipendenti e cagionare
un danno all’immagine della casa Comunale». E questo per assecondare
«bisogni della vita del tutto accessori».
In più, dalle dichiarazioni degli imputati, risultava che l’allontanamento
non era occasionale, anzi , una prassi «una consuetudine mattutina,
radicata e addirittura abituale».
Diversa la lettura della Suprema corte, secondo la quale le affermazioni, «incriminate»
dai giudici di merito, non provavano affatto l’abitualità. E i giudici di
legittimità richiamano alla necessità di stare ai fatti.
I due ricorrenti non avevano timbrato il badge in uscita e dunque, in
base all’orario di entrata, potevano essere stati via dai cinque minuti a
un’ora. Né è corretta l’affermazione sull’ostacolo al beneficio dato dalla
futilità dei motivi.
Una causa ostativa che la Corte di merito ha tratto dal comma 2
dell’articolo 131-bis, in base al quale l’offesa non può essere considerata
di particolare tenuità se l’autore ha agito per motivi abietti o futili. Nel
caso specifico, però, ad avviso della Cassazione, l’errore non nasce da un
istinto criminale, ma da una sorta di affidamento nella prassi o nella
tolleranza dei superiori. Detto questo, i giudici di legittimità confermano
il reato, previsto dalla cosiddetta legge Brunetta (Dlgs 150/2009, articolo
55-quinquies). Una norma, rivista dal Dlgs 116/2016, secondo la quale la
falsa attestazione scatta qualunque modalità venga usata per far risultare
in servizio chi è assente.
Viene dunque confermata anche la condanna a risarcire il danno alla Pa. Ma
la Corte d’Appello è invitata a rivedere il no alla non punibilità
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.08.2021). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIAGO: Il
badge anche per la pausa caffè. Non sufficiente l’autorizzazione orale del
capo ufficio. La Corte di cassazione ha confermato il reato di attestazione
fraudolenta della presenza.
L'allontanamento dal posto di lavoro, per fruire
della pausa caffè, deve essere accertato dal sistema di rilevazione delle
presenze, anche in presenza dell'autorizzazione orale del capo ufficio. In
questo caso, infatti, il dipendente incorre nel reato falsa attestazione
della presenza, essendo sufficiente che, ai fini dell'integrazione del
reato, la situazione di fatto (presenza in ufficio) sia diversa da quella
reale (allontanamento al bar).
Con queste indicazioni la Corte di Cassazione, Sez. III penale (sentenza 29.07.2021 n.
29674) ha, da un lato, confermato la fattispecie del reato
ma, dall'altro lato, ha accolto il ricorso dei ricorrenti sulla
possibile applicazione della particolare tenuità del reato, anche in caso di
reiterazione, rinviando al giudice di merito la relativa decisione.
La vicenda. Il
Tribunale di primo grado e la Corte di appello hanno confermato il reato, di
attestazione fraudolenta della presenza, di due dipendenti che, a seguito
del riscontro effettuato dalle forze dell'ordine, si erano allontananti
dall'ufficio, il primo per una pausa caffè ed il secondo per recarsi al
tabaccaio.
Trattandosi di pochi minuti di allontanamento, tra la fase di uscita, in
assenza della timbratura al cartellino marcatempo, e quella in entrata, i
convenuti hanno, tra l'altro evidenziato la particolare tenuità del fatto.
Uno dei ricorrenti ha, inoltre, precisato che l'allontanamento dall'ufficio,
per pochi minuti, era stato in ogni caso preventivamente autorizzato dal
capo ufficio, in assenza del distributore automatico di bevande.
Le indicazioni della Cassazione.
Il delitto di "false attestazioni o certificazioni" si consuma, a
dire dei giudici di legittimità, con la realizzazione di qualsiasi
comportamento fraudolento che, consista nell'irregolare utilizzo dei sistemi
di rilevazione delle presenze e che, il reato in questione concorre con la
truffa aggravata, in tutti i casi nei quali la condotta del dipendente
pubblico provoca un danno all'amministrazione (decreto legislativo n.
165/200).
Ricorda la Cassazione che, il nuovo testo dell'art. 55-quater riguardante il
licenziamento disciplinare, ha precisato al comma 1-bis, che costituisce
falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta
posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente
in servizio o trarre in inganno l'amministrazione circa il rispetto
dell'orario di lavoro.
Nel caso di specie, il delitto si consuma con la realizzazione, da parte dei
pubblici dipendenti, di un comportamento fraudolento consistente
nell'irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle presenze, poiché
in ragione della funzione autocertificativa che la timbratura del cartellino
elettronico assume, qualsiasi condotta manipolativa delle risultanze di
quella attestazione, è di per sé idonea a trarre in inganno
l'amministrazione presso la quale presta servizio.
Pertanto, nessun rilievo può assumere la circostanza sollevata, in ordine
alla "pausa caffè", considerato che la stessa non integra uno stato
di necessità neanche in assenza di distributori automatici e qualsiasi pausa
o permesso implicano necessariamente che, l'allontanamento non solo deve
essere autorizzato, ma deve trovare traccia nell'utilizzo del badge che
segna l'uscita del dipendente. È stata, invece, accolta l'eccezione della
difesa sulla particolare tenuità del fatto.
Infatti, anche in presenza di ipotesi di reiterazioni, l'applicabilità
dell'art. 131 c.p. è stata fondata sulla lieve entità delle singole
condotte, isolatamente considerate. Tale soluzione poggia sulla mancata
ripetizione, nell'articolo citato, dell'inciso "anche se ciascun fatto,
isolatamente considerato, sia di lieve entità".
In altri termini, tale scelta del legislatore lascerebbe aperta la
possibilità, in caso di "reati che abbiano ad oggetto condotte plurime,
abituali e reiterate", di applicare l'art. 131-bis c.p., all'esito di
una valutazione di particolare tenuità delle singole condotte o dei singoli
fatti. Spetterà al giudice di appello, cui la causa è rinviata, verificare
se gli illeciti non siano espressivi di una tendenza o inclinazione al
crimine, dovendo essere soppesata l'incidenza della continuazione in tutti i
suoi aspetti, quali gravità del reato, capacità a delinquere, precedenti
penali, durata temporale della violazione, numero delle leggi violate,
effetti della condotta antecedente, contemporanea o susseguente al reato,
interessi lesi o perseguiti dal reo e motivazioni, anche indirette, sottese
alla condotta (articolo ItaliaOggi del
05.08.2021).
---------------
SENTENZA
4. Entrambi i motivi sono infondati.
4.1. In primo luogo, per la soluzione del ricorso in esame, occorre
individuare
il perimetro in cui è applicabile la fattispecie risultante dall'art.
55-quinquies,
D.Lgs. n. 165/2001. La giurisprudenza di legittimità ha delineato, in
particolare,
l'ambito di applicabilità della norma, tenendo conto, da un lato, dei
profili di concorrenza
con il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato e, dall'altro, delle
conseguenze della condotta nei casi di particolare tenuità, ovvero quando le
violazioni
non siano state reiterate e ripetute ma limitate. Al riguardo, la norma
evidenzia
in modo preciso una condotta che sembra essere di per sé punibile e non
richiede continuità o abitualità.
In generale, il delitto di "false
attestazioni o certificazioni"
si consuma con la realizzazione di qualsiasi comportamento fraudolento
che consista nell'irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione delle
presenze e che
il reato in questione concorre con la truffa aggravata, disciplinata
dall'art. 640, co.
2, n. 1, c.p. in tutti i casi nei quali la condotta del dipendente pubblico
provoca
un danno all'Amministrazione poiché al primo comma del citato art.
55-quinquies
è espressamente previsto "fermo quanto previsto dal Codice penale" (Sez. III,
n.
45698 del 27/10/ 2015).
Contrariamente a quanto dedotto dai ricorrenti, la Corte di appello ha
rigettato
le tesi difensive, secondo cui le condotte contestate agli imputati, di
essersi
allontanati dal luogo di lavoro senza timbrare il badge all'uscita, non
sarebbero
riconducibili all'art. 55- quinquies citato, non essendovi stata
un'alterazione dei sistemi
di rilevamento delle presenze e non essendo riconnprese nelle altre modalità
fraudolente, che in quanto non sufficientemente tipizzate devono essere
interpretate
restrittivamente nel senso di altre modalità di alterazione del sistema di
registrazione.
Ed infatti, la condotta contemplata dal D.lgs. n. 165 del 2001, art. 55-quinquies non viola il principio di tassatività, poiché sanziona chi attesta
falsamente
la presenza in servizio, utilizzando svariate modalità fraudolente non a
priori predeterminate dal legislatore. Non sussiste alcun contrasto con il
principio
di tassatività e determinatezza delle fattispecie penali, previsto all'art.
25 Cost.,
in quanto l'enunciazione della condotta del reato, pur descritta
genericamente,
consente al giudice, avuto riguardo anche alla finalità di incriminazione ed
al contesto
ordinamentale in cui si colloca, di stabilire con precisione il significato
delle
parole, che isolatamente considerate potrebbero anche apparire non
specifiche,
ed al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente
chiara ed
immediata del valore precettivo di essa.
Né è legittimo fare ricorso all'interpretazione analogica con le modalità
indicate
da ciascun ricorrente, poiché è sufficiente utilizzare il criterio di
interpretazione
letterale per attribuire alla norma un significato univoco.
4.2. Occorre ricordare inoltre che il nuovo testo dell'art. 55-quater che
tratta del licenziamento disciplinare, precisa al comma 1-bis, con una
integrazione
effettuata con D.lgs. n. 116 del 2016, che costituisce falsa attestazione
della presenza
in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche
avvalendosi
di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno
l'amministrazione
circa il rispetto dell'orario di lavoro.
La fattispecie disciplinare di
fonte
legale si realizza, dunque, non solo nel caso di alterazione/manomissione
del sistema,
ma in tutti i casi in cui la timbratura, o altro sistema di registrazione
della
presenza in ufficio, miri a far risultare falsamente che il lavoratore è
rimasto in
ufficio durante l'intervallo temporale compreso tra le
timbrature/registrazioni in
entrata ed in uscita.
Sul punto, si è espressa la giurisprudenza di
legittimità in
sede civile (Sez. lav., n. 24574 del 01/12/2016) precisando che a
prescindere
dall'intervento riformatore dell'art. 55-quater cit., la ricostruzione
innanzi effettuata
era, comunque, evincibile dal tenore letterale della disposizione, dal quale
non si ricava alcun elemento che consenta di affermare che, invece, nel
passato
la condotta tipizzata fosse individuabile nei soli casi di alterazione
intesa come
manomissione del sistema di rilevazione delle presenze (Cass. Civ. n.
17637/2016,
17259/2016; Cass. Civ. Sez. lav., n. 257508 del 14/12/2016).
Pertanto, la formulazione del Dlgs. n. 165 del 2001, art. 55-quater, comma
1, lett. a), ed anche la sua "ratto" (potenziamento del livello di efficienza
degli uffici pubblici e di contrastare i fenomeni di scarsa produttività e
di assenteismo), inducono
ad affermare che la registrazione effettuata attraverso l'utilizzo del
sistema
di rilevazione della presenza sul luogo di lavoro è corretta e non falsa
solo se
nell'intervallo compreso tra le timbrature in entrata ed in uscita il
lavoratore è
effettivamente presente in ufficio, mentre è falsa e fraudolentemente
attestata nei
casi in cui miri a far emergere, in contrasto con il vero, che il lavoratore
è presente
in ufficio dal momento della timbratura in entrata a quello della timbratura
in
uscita.
Ed infatti, secondo consolidata giurisprudenza, il delitto previsto
dall'art.
55-quinquies si consuma con la realizzazione da parte dei pubblici
dipendenti di
un comportamento fraudolento consistente nell'irregolare utilizzo dei
sistemi di
rilevazione delle presenze (Sez. III, n. 47043 del 27/10/2015), poiché in
ragione
della funzione autocertificativa che la timbratura del cartellino
elettronico assume,
qualsiasi condotta manipolativa delle risultanze di quella attestazione, è
di per sé
idonea a trarre in inganno l'amministrazione presso la quale presta servizio
in
merito alle circostanze di fatto che quella attestazione è intesa a
dimostrare, ossia
la presenza del dipendente sul luogo di lavoro.
4.3. Peraltro, come già correttamente chiarito dal Tribunale, anche se nel
caso in esame non è stato contestato dalla Procura della Repubblica il reato
di cui
all'art. 640 c.p., è configurabile il concorso materiale tra il reato di
truffa aggravata
e quello di false attestazioni o certificazioni previsto dall'art.
55-quinquies (sul
rapporto tra l'art. 640 cpv. c.p. e il D.lgs. n. 165 del 2001, art.
55- quinquies: Sez.
III, n. 47043 del 27/10/2015; Id. n. 45696 del 27/10/2015; Id. n. 45698 del
27/10/2015; Id., n. 45947 del 10/10/2019).
In sintesi, è stato sottolineato
che
l'illecito descritto al D.lgs. n. 165 del 2001, art. 55-quinquies,
diversamente dalla
truffa, si consuma con la mera falsa attestazione da parte del dipendente
pubblico
della presenza in servizio attraverso un'alterazione dei sistemi di
rilevamento delle
presenze. Il fine perseguito dalla norma in esame è evidentemente quello di
prevenire
o contrastare, nell'interesse della funzionalità dell'ufficio pubblico, le
condotte
assenteistiche.
Il comma 2 del medesimo articolo disciplina invece la responsabilità
amministrativa
e civile del pubblico dipendente: egli sarà obbligato a tenere indenne la
P.A. dal danno derivante dalla corresponsione della retribuzione per i
periodi per i
quali sia stata accertata la mancata prestazione, nonché a risarcire anche
il danno
non patrimoniale (ad es. quello all'immagine subito dall'amministrazione
stessa).
Appare evidente come il comportamento fraudolento del dipendente, il quale
si sia concretizzato nell'irregolare utilizzo dei sistemi di rilevazione
delle presenze, possa
costituire prova della mancata erogazione della prestazione lavorativa.
Il legislatore quindi pone l'attenzione sulle modalità esplicative del
comportamento
illecito, non invece sulle conseguenze da esso in concreto scaturenti, ossia
l'induzione in errore della P.A. e/o il profitto ingiusto conseguito
dall'agente i
quali, pertanto, non possono essere ritenuti elementi costitutivi della
fattispecie di
cui all'art. 55-quinquies prefato.
...
10. Vanno trattati congiuntamente
anche il secondo motivo del Ca. e
il secondo motivo del Se., in quanto entrambi afferiscono al tema del
mancato
riconoscimento della causa di non punibilità ex art. 131-bis c.p., motivi,
come
anticipato, da ritenersi invece fondati.
10.1. Una recente pronuncia di questa Corte ha affrontato la questione della
sussistenza del reato nei casi di lieve entità della violazione.
È stato affermato che la clausola generale di "non punibilità per
particolare
tenuità del fatto" prevista dall'art. 131-bis c.p. è applicabile solamente
nei casi nei
quali la condotta di allontanamento fraudolento dal posto di lavoro sia
stata del
tutto episodica e, comunque, l'offesa sia di particolare tenuità (Sez. II,
n. 38997
del 27/08/2018).
In tutti gli altri casi nei quali vi sia abitualità o
reiterazione del
comportamento, anche se di lieve entità, non è applicabile la clausola di
non punibilità.
In sostanza, in presenza di un unico episodio e di effetti limitati è
possibile
applicare l'esimente mentre nel caso di episodi ripetuti, anche di lieve
entità, è
configurabile e sanzionabile la condotta con l'applicazione della pena
prevista per
il delitto di "false attestazioni o certificazioni".
Si rammenta poi che l'art. 131-bis c.p. stabilisce che la punibilità è
esclusa
quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del
pericolo,
valutate ai sensi dell'art. 133 c.p., comma 1, l'offesa è di particolare
tenuità e il comportamento risulta non abituale. Sul punto, deve richiamarsi
la giurisprudenza
di questa Corte in base alla quale la causa di esclusione della punibilità
per particolare
tenuità del fatto non può essere applicata ai reati necessariamente abituali
ed a quelli eventualmente abituali che siano stati posti in essere mediante
reiterazione
della condotta tipica (Sez. III, n. 30134 del 05/04/2017), in quanto viene
a configurarsi una ipotesi di "comportamento abituale" ostativa al
riconoscimento
del beneficio (Sez. VI, n. 18192 del 20/03/2019).
Tuttavia, in ipotesi di
reiterazione
non sono mancate decisioni nelle quali l'applicabilità dell'art. 131-bis
c.p. è
stata fondata sulla lieve entità delle singole condotte, isolatamente
considerate.
Tale soluzione poggia sulla mancata ripetizione nell'articolo summenzionato
dell'inciso "anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di lieve
entità".
In sostanza, tale scelta del legislatore lascerebbe aperta la possibilità,
in caso di
"reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate", di
applicare
l'art. 131-bis c.p., all'esito di una valutazione di particolare tenuità
delle singole
condotte o dei singoli fatti (Sez. III, n. 38849 del 5/04/2017).
Per il reato continuato, similmente, è stato richiesto che gli illeciti non
siano
espressivi di una tendenza o inclinazione al crimine, dovendo essere
soppesata
l'incidenza della continuazione in tutti i suoi aspetti, quali gravità del
reato, capacità
a delinquere, precedenti penali e giudiziari, durata temporale della
violazione,
numero delle disposizioni di legge violate, effetti della condotta
antecedente, contemporanea
o susseguente al reato, interessi lesi o perseguiti dal reo e motivazioni,
anche indirette, sottese alla condotta (Sez. II, n. 41011 del 6/06/2018).
Si è chiarito, peraltro, che per escludere la causa di non punibilità per
particolare
tenuità del fatto è da ritenersi adeguata la motivazione che dia conto
dell'assenza di uno soltanto dei presupposti richiesti dall'art. 131-bis
c.p. ritenuto,
evidentemente, decisivo (Sez. III, n. 34151 del 18/06/2018; Sez. VI, n. 55107
del 08/11/2018) secondo cui il giudizio sulla tenuità dell'offesa dev'essere
effettuato
con riferimento ai criteri di cui all'art. 133 c.p., comma 1, ma non è
necessaria la
disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, essendo sufficiente
l'indicazione
di quelli ritenuti rilevanti (Sez. II, n. 25234 del 14/05/2019).
...
12. Può quindi esaminarsi il residuo motivo di ricorso proposto nell'interesse
del Ca..
12.1. Si tratta del terzo motivo, che si appalesa inammissibile.
Quanto alla ritenuta ricorrenza della circostanza aggravante di cui all'art.
61 c.p., n. 9, giova precisare che la condotta del Ca., ovvero
l'allontanarsi dal
luogo di lavoro omettendo di timbrare il badge all'uscita, integra la
violazione dei
doveri inerenti al pubblico servizio (Sez. V n. 44689 del 03/06/2005; Sez. II,
n. 22972 del 16/02/2018).
Peraltro, in adesione ai principi sanciti dalla
citata pronuncia
n. 44689/2005, nel momento in cui detto dipendente timbra il cartellino di
presenza lavorativa, pur rimanendo parte di un rapporto pubblico di
servizio, agisce
come privato-lavoratore e fa divenire irrilevante la mansione concretamente
esercitata. Tuttavia, si legge in motivazione, la qualità di privato di
ciascun dipendente,
non ha fatto venir meno l'aggravante dell'art. 61 c.p., n. 9 in quanto, la
condotta tenuta (nella specie smarcamento del badge proprio ed altrui con
finalità
fraudolente per far risultare una presenza del soggetto sul luogo di lavoro
in realtà
inesistente), ai fini della configurazione del reato in contestazione,
risulta essere
stata originata e favorita dal contesto lavorativo di appartenenza e in
"palese violazione
di precise direttive superiori".
La medesima condotta ha comunque integrato
la violazione, da parte del lavoratore, di un dovere inerente il pubblico
servizio,
la cui qualità pubblica rimane immanente alla figura del soggetto-lavoratore
indipendentemente dalle funzioni concretamente esercitate dallo stesso.
Del resto, si è affermato che l'aggravante di aver commesso il fatto con
abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica
funzione o ad
un pubblico servizio è configurabile anche quando il pubblico ufficiale
abbia agito
al di fuori dell'ambito delle sue funzioni, essendo sufficiente che la sua
qualità
abbia comunque facilitato la commissione del reato (Sez. V, n. 50586 del
07/11/2013) e non essendo necessaria l'esistenza di un nesso funzionale tra
tali
poteri o doveri ed il compimento del reato (ex plurimis, Sez. II, n. 20870
del
30/04/2009; Sez. V, n. 50586 del 07/11/2013; Id. n. 13057 del 28/10/2015; Sez.
III, n. 24979 del 22/12/2017; Sez. V, n. 9102 del 16/10/2019; Sez. III, n. 17386
del
28/01/2021).
Inoltre, tra le circostanze concernenti le "qualità personali" del colpevole
rientra certamente quella dell'aver commesso il fatto con abuso dei poteri
inerenti
a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, di cui all'art. 61 c.p.,
n. 9, che é
di natura oggettiva, in quanto non si applica a taluno perché pubblico
ufficiale, ma
perché ha abusato dei propri poteri, e, quindi, riguarda una modalità
dell'azione,
con la conseguenza che la stessa si comunica ad eventuali concorrenti, ai
sensi
dell'art. 118 c.p. (Sez. VI, n. 53687 del 25/11/2014).
12.2. Ciò precisato, il maggior disvalore penale del reato in tal modo
commesso
attiene al vulnus arrecato alla funzione della quale il pubblico ufficiale
ha
abusato, ovvero i cui doveri ha violato, con lesione del sottostante
rapporto pubblicistico:
si tutela, cioè, il corretto svolgimento della pubblica funzione.
In ogni caso, il motivo di impugnazione sollevato dal Caterino non risulta
essere stato proposto con i motivi di appello, con la conseguenza che la
doglianza,
non essendo consentita, non può essere sollevata per la prima volta nel
giudizio
di legittimità.
...
13.2. La condotta illecita del dipendente, come è noto, presenta anche
significativi
riflessi patrimoniali.
Tuttavia, oltre al danno patrimoniale riferito alle retribuzioni
indebitamente
erogate, le assenze ingiustificate, oltretutto poste in essere con condotte
fraudolente
di alterazione dei mezzi di rilevazione delle presenze, creano
all'Amministrazione
un ulteriore danno, dato dal discredito conseguente al fatto illecito che
investe
l'autorevolezza e la credibilità dell'Amministrazione Pubblica, in generale,
e
dell'Ente interessato. Pertanto, il Legislatore del 2009 ha riconosciuto che
l'attestazione
falsa di presenza in servizio lede l'immagine dell'Amministrazione ed ha
determinato la misura minima del risarcimento che è indipendente dalla
gravità o
dalla reiterazione della condotta.
La giurisprudenza contabile ha rilevato
che l'art.
55-quinquies, D.lgs. n. 165/2001 ha introdotto una peculiare tipologia di
danno
all'immagine e, parimenti, una specifica tipizzazione del danno patrimoniale
diretta
a determinare l'importo della lesione erariale, consistente nella condotta
del dipendente
pubblico che abbia attestato falsamente la propria presenza nel luogo di
lavoro o, altrimenti, che abbia occultato l'interruzione della prestazione
attraverso
il mancato o illecito utilizzo dei sistemi di attestazione della presenza in
servizio
(Corte dei conti, Sez. giurisd. Basilicata, n. 8 del 06/03/2019; Corte dei
conti, Sez.
giurisd. Abruzzo, n. 110 del 06/09/2018).
Si è precisato che il legislatore ha inteso
prevedere un diverso e più rigoroso trattamento contro il fenomeno
dell'assenteismo
pubblico, fissando espressamente il principio per cui le condotte cosiddette
assenteistiche sono causa di lesione all'immagine" (Corte dei conti, n. 163
del
17/05/2018).
In proposito, la nozione di danno all'immagine deve essere
considerata
unitaria e, in ogni caso, espressiva di un'effettiva compromissione della
reputazione
dell'Ente danneggiato, ipotizzabile solo in presenza di una propagazione di
notizie da cui sia potuto derivare uno scadimento dell'opinione dei
consociati in
merito alla correttezza dell'operato delle Pubbliche Amministrazioni.
Ne consegue che la condanna al risarcimento dei danni subiti dalla P.A. in
conseguenza della condotta illecita accertata trova proprio fondamento
nell'art.
55-quinquies, comma 2 sopra citato, in forza del quale "Nei casi di cui
al comma
1, il lavoratore, ferme la responsabilità penale e disciplinare e le
relative sanzioni,
è obbligato a risarcire il danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto
a titolo
di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata
prestazione, nonché
il danno d'immagine di cui all'art. 55-quater, comma 3-quater".
Avendo il ricorrente commesso l'illecito di cui all'art. 55-quinquies, il
medesimo
è stato legittimamente condannato al risarcimento dei danni cagionati alla
P.A., essendo stato accertato che si era allontanato dal luogo del lavoro
omettendo
di timbrare il badge all'uscita (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.07.2021 n.
29674). |
ENTI LOCALI -
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE - PUBBLICO IMPIEGO: Il
trattamento economico negli incentivi per funzioni tecniche.
Alla Corte dei conti dell'Abruzzo sono stati posti alcuni quesiti inerenti
gli incentivi per funzioni tecniche, (art. 113 del Dlgs 50/2016).
Nel
parere 16.07.2021 n. 280, i magistrati
contabili dell'Abruzzo hanno espresso il proprio avviso, ricordando che
la
giurisprudenza ha già avuto modo di chiarire in diverse pronunce (Corte dei
conti Puglia
parere 06.02.2014 n. 33; Corte dei conti
Lombardia
parere 18.03.2016 n. 98),
che per trattamento
accessorio di qualunque natura, fissa e variabile, debba intendersi
l'importo degli emolumenti per i quali maturi –nell'anno considerato– il
diritto alla percezione in base al suddetto trattamento, non rilevando la
fase del pagamento (cosiddetto criterio di cassa) e dovendo essere esclusa
la quota derivante da altri incentivi per la progettazione.
Deve, poi,
precisarsi che «il limite, essendo rapportato a un'annualità, è apposto
non solo alla misura dell'incentivo del singolo incarico, ma anche alla
sommatoria degli incentivi relativi agli incarichi eseguiti, anche
parzialmente, nel corso dell'anno. […] L'eventuale eccedenza dell'incentivo
rispetto al limite normativo costituisce economia acquisita definitivamente
al bilancio dell'ente e non redistribuibile al personale destinatario
dell'incentivo né, tanto meno, alla medesima unità di personale nell'anno
successivo a quello di esecuzione dell'incarico» (Corte dei conti Puglia
parere 06.02.2014 n. 33).
Inoltre dalla deliberazione, si ricava la necessità che non vengano
considerati nell'individuazione del parametro del trattamento economico
complessivo annuo lordo, da considerare come visto dimidiato, sub specie di
trattamento accessorio di qualunque natura, i corrispettivi percepiti a
titolo di incentivi per la progettazione, data dal fatto che, altrimenti,
«verrebbe meno la funzione di limite di spesa chiaramente e espressamente
assegnata allo stesso. Il predetto limite, così calcolato, non sarebbe
fisso, ma aumentando nella misura corrispondente agli stessi compensi […]
maturati nell'anno di riferimento, risulterebbe di fatto irraggiungibile in
aperta e manifesta contraddizione con la lettera e con la finalità della
legge che prevede espressamente un tetto retributivo individuale specifico
[…] in aggiunta al tetto generale legislativamente parametrato, viceversa,
alla remunerazione del primo presidente della Corte di cassazione. Ciò in
una prospettiva generale di contenimento dei compensi corrisposti ai
dipendenti pubblici per l'esercizio di particolari attività in deroga al
principio generale dell'onnicomprensività della retribuzione (Corte dei
conti Lombardia, deliberazione n. 469/2015/PAR)»
(Corte dei conti Lombardia
parere 18.03.2016 n. 98)
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 05.08.2021).
---------------
Il Presidente della Provincia di Pescara, dopo aver richiamato la
disciplina relativa alla liquidazione degli incentivi per funzioni tecniche
di cui all’art. 113, comma 3, del d.lgs. n. 50 del 18.04.2016, nonché i
correlati principi interpretativi fissati dalla giurisprudenza di questa
Corte, ha posto a questa Sezione i seguenti quesiti:
1. «Un parere sulla corretta interpretazione da attribuire
alle voci rientranti nella nozione di “trattamento accessorio di qualunque
natura, fissa e variabile” da prendere a riferimento ai fini della loro
corretta individuazione per la successiva erogazione»;
2. «Un parere circa il criterio temporale di riferimento per
il calcolo del limite del 50% del trattamento economico lordo annuo, ossia
se debba prendersi a riferimento il principio di competenza o di cassa ai
fini della corretta erogazione».
...
2. Giova preliminarmente ricordare come l’istituto degli incentivi per
funzioni tecniche di cui all’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 18.04.2016 è
stato oggetto di precipuo approfondimento da parte della giurisprudenza
contabile. Con la recentissima
deliberazione
07.06.2021 n. 10, la
Sezione delle Autonomie di questa Corte ha avuto modo di evidenziare che:
- la suddetta norma ha previsto «un fondo non superiore al 2%
degli stanziamenti, per incentivare le funzioni tecniche di programmazione
della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di
predisposizione e controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei
contratti pubblici, oltre a quelle, già incentivate in passato, del
responsabile unico del procedimento, della direzione dei lavori e del
collaudo tecnico-amministrativo, abbandonando, di fatto, l’incentivazione
della progettazione e dei piani per la sicurezza; inoltre, a seguito della
modifica introdotta dall’art. 76 del d.lgs. 19.04.2017, n. 56, il sistema
incentivante è stato esteso, poi, oltre il perimetro degli appalti di
lavori, comprendendo anche gli appalti di servizi e forniture, per i quali,
tuttavia, la normativa risulta applicabile solo nel caso in cui è nominato
il direttore dell'esecuzione»;
- «la ratio della norma, come già evidenziato dalle Sezioni
riunite in sede di controllo della Corte dei conti con
deliberazione 04.10.2011 n. 51
(valutazione ancora attuale) va ricercata nell’esigenza di destinare una
quota di risorse pubbliche a favore del personale dipendente, in servizio
presso l’Amministrazione pubblica, che svolge prestazioni professionali
specialistiche in virtù della particolare qualificazione dello stesso»;
- gli incentivi tecnici trovano «applicazione, sulla base di
un’interpretazione sistematica e letterale della voluntas legis, solo per i
contratti che rientrino nel campo di applicazione della parte seconda del
Codice: ossia i contratti di appalto, nei quali l’onere finanziario è
sostenuto dalla stazione appaltante pubblica (con conseguente assunzione del
rischio relativo agli effetti dell’operazione contrattuale), con imputazione
della spesa sullo “specifico stanziamento” previsto per il lavoro,
fornitura, servizio, sul quale gravano anche gli incentivi tecnici. Trattasi
di uno stanziamento, è bene precisare, qualificato e non di un qualsiasi
stanziamento con cui far fronte ad alcuni oneri relativi allo schema
contrattuale prescelto. … la necessità che lo stanziamento finalizzato al
riconoscimento degli incentivi non può che essere quello stanziamento
qualificato, destinato a finanziare l’intervento, previsto dall’art. 113 del
Codice dei contratti».
2.1. Ciò posto, venendo all’esame del primo quesito formulato dalla
Provincia di Pescara, si chiede di chiarire la nozione di “trattamento
accessorio di qualunque natura, fissa e variabile”, essendo fissato
dalla norma in esame quale tetto per la percepibilità degli incentivi per
funzioni tecniche “l'importo del 50 per cento del trattamento economico
complessivo annuo lordo”, che risulta composto, come noto, dal
trattamento fondamentale unitamente al predetto trattamento accessorio.
Si rileva preliminarmente che il quesito può essere trattato congiuntamente
al secondo, relativo al criterio temporale di riferimento per il
calcolo del limite del 50 per cento del trattamento economico lordo annuo,
ossia se debba prendersi a riferimento il principio di competenza o quello
di cassa.
2.2. Infatti, in riferimento ad entrambi i quesiti, unitariamente già
affrontati in sede consultiva, la giurisprudenza contabile ha avuto modo di
chiarire in diverse pronunce (Sez. contr. Puglia
parere 06.02.2014 n. 33; Sez. contr. Lombardia
parere 18.03.2016 n. 98),
adottate su fattispecie analoghe a quella all’odierno esame, che per
trattamento accessorio di qualunque natura, fissa e variabile, debba
intendersi l’importo degli emolumenti per i quali maturi –nell’anno
considerato- il diritto alla percezione in base al suddetto trattamento, non
rilevando la fase del pagamento (c.d. criterio di cassa) e dovendo essere
esclusa la quota derivante da altri incentivi per la progettazione.
Deve, poi, precisarsi che “il limite, essendo rapportato ad un’annualità,
è apposto non solo alla misura dell’incentivo del singolo incarico, ma anche
alla sommatoria degli incentivi relativi agli incarichi eseguiti, anche
parzialmente, nel corso dell’anno. … L’eventuale eccedenza dell’incentivo
rispetto al limite normativo costituisce economia acquisita definitivamente
al bilancio dell’ente e non redistribuibile al personale destinatario
dell’incentivo né, tanto meno, alla medesima unità di personale nell’anno
successivo a quello di esecuzione dell’incarico” (Sez. contr. Puglia
parere 06.02.2014 n. 33).
2.3. La necessità che non vengano considerati nell’individuazione del
parametro del trattamento economico complessivo annuo lordo, da considerare
come visto dimidiato, sub specie di trattamento accessorio di qualunque
natura, i corrispettivi percepiti a titolo di incentivi per la
progettazione, è data dal fatto che, altrimenti, “verrebbe meno la
funzione di limite di spesa chiaramente ed espressamente assegnata allo
stesso. Il predetto limite, così calcolato, non sarebbe fisso, ma aumentando
nella misura corrispondente agli stessi compensi … maturati nell’anno di
riferimento, risulterebbe di fatto irraggiungibile in aperta e manifesta
contraddizione con la lettera e con la finalità della legge che prevede
espressamente un tetto retributivo individuale specifico … in aggiunta al
tetto generale legislativamente parametrato, viceversa, alla remunerazione
del Primo Presidente della Corte di Cassazione. Ciò in una prospettiva
generale di contenimento dei compensi corrisposti ai dipendenti pubblici per
l’esercizio di particolari attività in deroga al principio generale
dell’onnicomprensività della retribuzione (Cfr. Sezione regionale di
controllo per la Lombardia, deliberazione n. 469/2015/PAR)” (così Sez.
contr. Lombardia
parere 18.03.2016 n. 98)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Abruzzo,
parere 16.07.2021 n. 280). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: La
relazione di parentela entro il quarto grado tra il responsabile
dell’U.T.C. che ha rilasciato il titolo a costruire e il progettista dei
lavori –che sono cugini- vale a determinare una situazione generativa di un
potenziale conflitto di interessi.
Giova premettere che, come noto, in materia di conflitto
di interessi il legislatore è intervenuto a più riprese:
- con l’art. 1, comma 41, della legge 06.11.2012 n. 190, ha
novellato la legge 07.08.1990 n. 241 introducendo nella stessa l’articolo
6-bis (conflitto di interessi);
- al comma 54 dello stesso articolo 1 ha previsto, altresì, che “il
Governo stabilisce un codice di comportamento dei dipendenti delle P.A. al
fine di assicurare la qualità dei servizi, la prevenzione dei fenomeni di
corruzione, il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà,
imparzialità e servizio esclusivo della cura dell’interesse pubblico”;
- al comma 8 dello stesso articolo 1 ha previsto che l’organo di
indirizzo politico adotta entro il 31 gennaio di ogni anno il piano
triennale di prevenzione della corruzione;
- con il DPR 62/2013 ha introdotto il “regolamento recante il
codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’art. 54 del
d.lgs. 30.03.2001 n. 165”, che all’articolo 7 disciplina l’obbligo di
astensione, nei termini in precedenza illustrati.
E’ appena il caso di evidenziare che il dovere di astensione dei pubblici
dipendenti e degli amministratori vale a preservare anzitutto la credibilità
e la fiducia dell’Amministrazione, scattando, perciò, a fronte di situazioni
di mero pericolo e verificandosi in tutti i casi in cui sussistano
condizioni che, avuto riguardo al particolare oggetto della decisione da
assumere, appaiano anche potenzialmente idonee a porre in pericolo
l’assoluta imparzialità e la serenità di giudizio dei titolari dell’ente
stesso, a prescindere dai profili o dalle conseguenze penali che possono
implicare. La prevenzione del conflitto di interessi è, infatti, ad oggi
volta non solo a garantire l’imparzialità della singola decisione pubblica,
ma più in generale a tutelare il profilo dell’immagine di imparzialità
dell’Amministrazione.
Nel caso di specie, la relazione di parentela entro il quarto grado
tra il responsabile dell’U.T.C. che ha rilasciato il titolo a costruire e il
progettista dei lavori –che, come si è evidenziato, sono cugini- vale, a
parere del Collegio a determinare una situazione generativa di un potenziale
conflitto di interessi che avrebbe imposto al funzionario pubblico di
astenersi dall’adozione dell’atto in parola.
Non è, infatti, condivisibile l’argomentazione del Comune a mente della
quale dal disposto dell’art. 7 del DPR 61/2013 dovrebbe trarsi il rilievo,
ai fini dell’attivazione del dovere di astensione, dei soli rapporti di
parentela entro il secondo grado.
Una lettura attenta della norma rivela, infatti, che il limite del “secondo
grado” è riferito esclusivamente al rapporto di affinità e non
anche al rapporto di parentela, come evidenziato dalla virgola che separa le
due espressioni: “Il dipendente si astiene dal partecipare all'adozione di
decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di
suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi…”.
Le conclusioni cui è possibile pervenire secondo un’interpretazione
letterale del testo convergono con quelle raggiunte indagando sulla ratio
della disposizione: è logico e coerente con il fine perseguito (e cioè
escludere ogni lesione, anche potenziale, dell’imparzialità dell’agere
amministrativo) introdurre un vincolo più stringente in presenza di un
legame più intenso tra i soggetti coinvolti, quale quello di parentela, e
limitare invece (fino al secondo grado) il rilievo di un legame che
si instaura tra soggetti non consanguinei, quale quello di affinità.
---------------
Con il ricorso in disamina la Sig.ra Bo. ha impugnato il permesso di
costruire rilasciato dal Comune di Peschiera del Garda in relazione a un
intervento di demolizione e ricostruzione da effettuarsi sull’immobile
confinante con quello nella titolarità della ricorrente.
Avverso tale titolo a costruire sono stati articolati i seguenti motivi di
gravame:
1) con il primo motivo si lamenta che sarebbe stata
autorizzata l’edificazione (mediante demolizione e ricostruzione ex novo del
preesistente edificio) in violazione delle norme poste a tutela della fascia
di rispetto stradale e in particolare degli artt. 39, comma 3, lett. F, 84 e
86 delle n.t.a. del P.I.), laddove, si afferma, la costruzione preesistente
osservava nei confronti della strada una distanza addirittura superiore a
quella di legge;
2) si contesta, inoltre, la violazione dell’art. 6, n. 50, delle
n.t.a. del P.I. comunale, il quale prevede che il “verde profondo”
non possa avere una percentuale di superficie inferiore al 35% da calcolarsi
su quella fondiaria complessiva del lotto, al netto delle aree riservate a
passaggi veicolari e ai parcheggi pertinenziali, laddove dal progetto
presentato si ricaverebbe una superficie vincolata a verde di estensione
inferiore;
3) con il terzo motivo si lamenta l’illegittima concessione
all’istante di un bonus volumetrico supplementare pari al 5%, in
applicazione dell’art. 12 del D.lgs. 28/2011, oltre al bonus del 70%
assicurato dall’art. 3 L.R. 14/2009: tale supplemento, tuttavia, non sarebbe
previsto per gli interventi di demolizione e ricostruzione; si osserva,
inoltre, che la formulazione dell'art. 3 della L.R. 14/2009, come novellato
dalla L.R. 32/2013, terrebbe già conto, ai fini della concessione del bonus,
delle finalità legate al risparmio energetico;
4) con il quarto motivo si osserva che non si rinverrebbero,
nel progetto e/o delle relative tavole, gli elementi minimi indispensabili
per poter beneficiare dello scomputo di parte dello spessore dei solai ai
fini della determinazione dell’altezza dell’edificio;
5) con il quinto motivo si lamenta che la misurazione “a
mano” con scalimetro del sedime destinato a parcheggio risulterebbe
inferiore rispetto alla superficie indicata nell’elaborato “dimostrazione
parcheggi”;
6) con il sesto motivo si evidenzia che il permesso di
costruire risulterebbe firmato dal Responsabile dell’Area tecnica Edilizia
Privata e Urbanistica del Comune di Peschiera del Garda, Geom. Ma.Cr.,
mentre il progetto in generale, gli elaborati e l’istanza di rilascio del
titolo sarebbero firmati dall’Arch. Pa.Cr.: tanto in violazione del disposto
dell’art. 6-bis L. 241/1990;
7) con il settimo motivo (indicato in ricorso come I motivo
della Parte II dell’atto) si lamenta la carenza di motivazione e il difetto
di istruttoria degli atti gravati in punto di valutazione della
compatibilità paesaggistico/ambientale dell’intervento;
8) si contesta, infine, la mancata sottoposizione del progetto
all’esame istruttorio preliminare della apposita “Commissione locale per
il paesaggio”, secondo quanto previsto dall’art. 16-bis del Regolamento
Edilizio adottato in occasione della variante urbanistica approvata con
D.G.R. n. 181 del 29.01.2008.
...
1. Con il ricorso in disamina la Sig.ra Bo. ha chiesto l’annullamento del
permesso di costruire rilasciato dal Comune di Peschiera del Garda in
relazione ad un intervento di demolizione e ricostruzione con ampliamento da
effettuarsi ai sensi del cd. Piano Casa su terreno prossimo a quello di
proprietà della ricorrente; la Sig.ra Bo. ha chiesto, altresì,
l’annullamento dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata in riferimento
al medesimo intervento.
...
2. Ciò posto, nel merito il ricorso è fondato sotto il profilo assorbente
della violazione dell’art. 6-bis della L. 241/1990 lamentata con il sesto
motivo di impugnazione (indicato come settimo nell’atto introduttivo del
giudizio).
E’ pacifico tra le parti in causa che il geom. Ma.Cr., Responsabile
dell’Area Tecnica Edilizia Privata e Urbanistica del Comune di Peschiera del
Garda, che ha firmato il permesso di costruire impugnato è cugino, e dunque
parente di quarto grado, del progettista dell’intervento di cui si discute,
Arch. Pa.Cr..
Il Comune ha dedotto sul punto che l’art. 6-bis della L. 241/1990 (norma che
prevede: “Il responsabile del procedimento ed i titolari degli uffici
competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti
endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di
conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche
potenziale”) andrebbe letto in combinato disposto con quanto previsto
dall’art. 7 del DPR 16.04.2013, n. 62 (Codice di comportamento dei
dipendenti pubblici), che stabilisce: “Il dipendente si astiene dal
partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere
interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del
coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di
frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli
o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o
debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia
tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche
non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore
o gerente o dirigente. Il dipendente si astiene in ogni altro caso in cui
esistano gravi ragioni di convenienza. Sull'astensione decide il
responsabile dell'ufficio di appartenenza”.
Sostiene il Comune che la norma, come formulata, darebbe rilievo ai fini del
dovere di astensione ai soli rapporti di parentela entro il secondo grado:
in tal senso, si aggiunge, si era del resto espresso il Responsabile
Trasparenza e Anticorruzione del Comune in un parere reso in data 21.02.2019
(cfr. doc. 21 della produzione di parte resistente).
Dall’esame di tale parere emerge infatti che il Responsabile, nella premessa
dell’avvenuto recepimento dell’art. 7 del DPR 62/2013 nel Piano triennale di
prevenzione della corruzione adottato dal Comune con delibera di G.M. n.
19/2019, osservava che la norma in commento “cita il secondo grado”:
il Responsabile concludeva, dunque, nel senso di escludere l’esistenza di
una situazione generativa del divieto di astensione con riguardo al rapporto
di parentela tra il geom. Ma.Cr. e l’Arch. Pa.Cr..
Il Collegio ritiene che l’interpretazione che il Comune propone della norma
in commento non sia condivisibile.
Giova premettere che, come noto, in materia di conflitto di interessi il
legislatore è intervenuto a più riprese:
- con l’art. 1, comma 41, della legge 06.11.2012 n. 190, ha
novellato la legge 07.08.1990 n. 241 introducendo nella stessa l’articolo
6-bis (conflitto di interessi), il cui testo è stato già riportato;
- al comma 54 dello stesso articolo 1 ha previsto, altresì, che “il
Governo stabilisce un codice di comportamento dei dipendenti delle P.A. al
fine di assicurare la qualità dei servizi, la prevenzione dei fenomeni di
corruzione, il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà,
imparzialità e servizio esclusivo della cura dell’interesse pubblico”;
- al comma 8 dello stesso articolo 1 ha previsto che l’organo di
indirizzo politico adotta entro il 31 gennaio di ogni anno il piano
triennale di prevenzione della corruzione;
- con il DPR 62/2013 ha introdotto il “regolamento recante il
codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’art. 54 del
d.lgs. 30.03.2001 n. 165”, che all’articolo 7 disciplina l’obbligo di
astensione, nei termini in precedenza illustrati.
E’ appena il caso di evidenziare che il dovere di astensione dei pubblici
dipendenti e degli amministratori vale a preservare anzitutto la credibilità
e la fiducia dell’Amministrazione, scattando, perciò, a fronte di situazioni
di mero pericolo e verificandosi in tutti i casi in cui sussistano
condizioni che, avuto riguardo al particolare oggetto della decisione da
assumere, appaiano anche potenzialmente idonee a porre in pericolo
l’assoluta imparzialità e la serenità di giudizio dei titolari dell’ente
stesso, a prescindere dai profili o dalle conseguenze penali che possono
implicare. La prevenzione del conflitto di interessi è, infatti, ad oggi
volta non solo a garantire l’imparzialità della singola decisione pubblica,
ma più in generale a tutelare il profilo dell’immagine di imparzialità
dell’Amministrazione.
Nel caso di specie, la relazione di parentela entro il quarto grado
tra il responsabile dell’U.T.C. che ha rilasciato il titolo a costruire e il
progettista dei lavori –che, come si è evidenziato, sono cugini- vale, a
parere del Collegio a determinare una situazione generativa di un potenziale
conflitto di interessi che avrebbe imposto al funzionario pubblico di
astenersi dall’adozione dell’atto in parola.
Non è, infatti, condivisibile l’argomentazione del Comune a mente della
quale dal disposto dell’art. 7 del DPR 61/2013 dovrebbe trarsi il rilievo,
ai fini dell’attivazione del dovere di astensione, dei soli rapporti di
parentela entro il secondo grado.
Una lettura attenta della norma rivela, infatti, che il limite del “secondo
grado” è riferito esclusivamente al rapporto di affinità e non anche
al rapporto di parentela, come evidenziato dalla virgola che separa le due
espressioni: “Il dipendente si astiene dal partecipare all'adozione di
decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di
suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi…”.
Le conclusioni cui è possibile pervenire secondo un’interpretazione
letterale del testo convergono con quelle raggiunte indagando sulla ratio
della disposizione: è logico e coerente con il fine perseguito (e cioè
escludere ogni lesione, anche potenziale, dell’imparzialità dell’agere
amministrativo) introdurre un vincolo più stringente in presenza di un
legame più intenso tra i soggetti coinvolti, quale quello di parentela, e
limitare invece (fino al secondo grado) il rilievo di un legame che
si instaura tra soggetti non consanguinei, quale quello di affinità.
La fondatezza del motivo in disamina comporta l’accoglimento del ricorso, e
risulta assorbente rispetto alle ulteriori censure proposte avverso il
titolo edilizio; quanto ai motivi di gravame svolti in riferimento
all’autorizzazione paesaggistica rilasciata in relazione al medesimo
intervento edilizio, il Collegio ritiene che l’annullamento del permesso di
costruire, in conseguenza di quanto in precedenza osservato, implichi il
venir meno dell’interesse alla relativa disamina.
3. Conclusivamente, il ricorso deve trovare accoglimento nei termini
indicati: deve, dunque, disporsi l’annullamento del permesso di costruire
annullato; il ricorso deve invece essere dichiarato improcedibile nella
parte in cui con esso si impugna l’autorizzazione ambientale
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 09.07.2021 n. 908 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
giugno 2021 |
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ENTI LOCALI -
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE - PUBBLICO IMPIEGO: Incentivi
ex art. 113 dlgs 50/2016 e spazi assunzionali.
Le spese sostenute per gli incentivi tecnici non costituiscono spesa per il
personale, ai fini della determinazione della capacità assunzionale, secondo
la normativa di cui all' art. 33, comma 2, del Dl 34/2019.
Indipendentemente dalle modalità di doppia contabilizzazione di cui al
principio contabile, infatti, tali incentivi gravano su risorse autonome e
predeterminate del bilancio diverse dalle risorse ordinariamente rivolte
all'erogazione di compensi accessori al personale.
---------------
Il Sindaco del Comune di Avezzano (AQ), con nota n. 27893 del 13.05.2021,
ha chiesto se “i compensi da corrispondere al personale dipendente a
titolo di incentivi tecnici di cui all’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016
debbano essere considerati spesa del personale ai sensi dell’art. 33, comma 2,
del d.l. n. 34/2019 e pertanto influenti nel rapporto spesa del personale ed
entrate correnti per la determinazione della capacità assunzionale
dell’Ente”.
L’art. 33 del d.l. 30.04.2019, n. 34 («Misure urgenti di crescita
economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi», c.d.
“Decreto crescita”, convertito con modificazioni dalla legge 28.06.2019,
n. 58), nel dettare disposizioni in tema di «assunzione di personale nelle
regioni a statuto ordinario e nei comuni in base alla sostenibilità
finanziaria», ha parametrato le capacità assunzionali a valori soglia
puntualmente individuati, differenziati per fasce demografiche e basati sul
rapporto tra la spesa per il personale e la media delle entrate correnti
relative agli ultimi tre rendiconti approvati. A tale norma è stata data
attuazione con l’emanazione del decreto 17.03.2020 della Presidenza del
Consiglio dei Ministri - Dipartimento della Funzione pubblica, recante
“Misure per la definizione delle capacità assunzionali di personale a tempo
indeterminato dei comuni”.
Fatte queste premesse d’inquadramento normativo, si rileva che la
fattispecie rappresentata dal Comune di Avezzano attiene agli incentivi
tecnici, per i quali il comma 5-bis dell’art. 113 del Codice degli appalti
stabilisce che “gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al
medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e
forniture”. Nelle forme dettagliate dallo stesso art. 113, gli incentivi
tecnici traggono origine dagli stanziamenti previsti per
i singoli appalti di lavori, servizi e forniture, nei limiti previsti dal
comma 2, e ad essi vanno considerati legati, non sussistendo una specifica
spesa per il personale in assenza di appalti e degli stanziamenti ad essi
relativi.
Di recente la Sezione regionale di controllo della Lombardia, con
parere 07.05.2021 n. 73, si è pronunciata, con motivazioni da ritenersi
condivisibili, in merito ad un quesito analogo ed ha evidenziato che
l’inserimento del comma 5-bis ad opera dell’art. 1, comma 526, della legge n.
205 del 2017 è l’elemento importante che è stato oggetto di approfondimento
della Sezione delle autonomie che, proprio per la prescrizione specifica,
stabilisce nella sua
deliberazione 26.04.2018 n. 6 “una diretta
corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in termini di
prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività
tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla
realizzazione di specifiche procedure. L’avere correlato normativamente la
provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a
base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la
contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro
allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di
personale.”
Al tempo stesso, si rileva che “tali compensi non sono rivolti
indiscriminatamente al personale dell’ente, ma mirati a coloro che svolgono
particolari funzioni (“tecniche”) nell’ambito di specifici procedimenti e ai
loro collaboratori (in senso conforme: SRC Lombardia
parere 16.11.2016 n. 333)”.
Al riguardo la Sezione delle autonomie ha rilevato, come evidenziato “dalla
Sezione remittente lombarda, che gli incentivi per le funzioni tecniche
sono, per loro natura, estremamente variabili nel corso del tempo e, come
tali, difficilmente assoggettabili a limiti di finanza pubblica a carattere
generale, che hanno come parametro di riferimento un predeterminato anno
base (qual è anche l’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017). Il
riferimento, infatti, ad un esercizio precedente diviene, in modo del tutto
casuale, favorevole o penalizzante per i dipendenti dei vari enti pubblici”.
In senso conforme si erano pronunciate sia la Sezione regionale di controllo
per il Friuli-Venezia Giulia (parere
02.02.2018 n. 6), la quale ha
ritenuto che dalla novella legislativa “si evince che gli incentivi non
fanno carico ai capitoli della spesa del personale ma devono essere ricompresi nel costo complessivo dell’opera”, sia la Sezione regionale di
controllo per l’Umbria (parere
05.02.2018 n. 14), la quale ha affermato
che “il legislatore è intervenuto sulla questione della rilevanza degli
incentivi tecnici ai fini del rispetto del tetto di spesa per il trattamento
accessorio, escludendoli dal computo rilevante ai fini dall'articolo 23,
comma 2, d.l.gs n. 75 del 2017. Il legislatore ha voluto, pertanto, chiarire
come gli incentivi non confluiscono nel capitolo di spesa relativo al
trattamento accessorio (sottostando ai limiti di spesa previsti dalla
normativa vigente), ma fanno capo al capitolo di spesa dell’appalto”.
Va segnalata, altresì, la
parere 09.04.2019 n. 72
della Sezione di controllo della Regione Veneto che pronunciandosi sulla spesa per il pagamento
degli incentivi per lo svolgimento di funzioni tecniche quale rientrante o
meno nell'ammontare complessivo della spesa del personale ai sensi dell'art.
1, co. 557, della L. n. 296/2006 ha affermato: “In merito alla questione
questa Sezione si è già espressa con
parere 25.07.2018 n. 265 e
parere 14.11.2018 n. 429, dove, richiamando la
deliberazione 26.04.2018 n. 6
della Sezione delle Autonomie, è stato
chiarito che l’onere relativo ai compensi incentivanti le funzioni tecniche
non transita nell’ambito dei capitoli dedicati alla spesa del personale, e
dunque non può essere soggetto ai vincoli posti alla relativa spesa da parte
degli enti territoriali (in senso conforme anche Sezione regionale di
controllo per il Lazio,
parere 06.07.2018 n. 57).”
La conclusione della suddetta deliberazione della Sezione delle autonomie è
stata riassunta nel seguente principio di diritto: “Gli incentivi
disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato
dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse
finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali
gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono
soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio
dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75
del 2017”.
La Sezione regionale di controllo della Lombardia, con il sopra richiamato
parere 07.05.2021 n. 73, ha soggiunto che il decreto del Ragioniere
generale dello Stato del 01.08.2019, pubblicato in G.U. il 22.08.2019, ha aggiornato gli allegati al d.lgs.
n. 118 del 2011, inserendo, al paragrafo 5.2, lett. a), una particolare rappresentazione contabile per
gli incentivi tecnici.
Esso recita, infatti, così: “Gli impegni di spesa
riguardanti gli incentivi per le funzioni tecniche di cui all’articolo 113
del d.lgs. 50 del 2016, compresi i relativi oneri contributivi ed erariali,
sono assunti a carico degli stanziamenti di spesa riguardanti i medesimi
lavori, servizi e forniture cui si riferiscono, nel titolo II della spesa
ove si tratti di opere o nel titolo I, nel caso di servizi e forniture.
L’impegno è registrato, con imputazione all’esercizio in corso di gestione,
a seguito della formale destinazione al fondo delle risorse stanziate in
bilancio, nel rispetto dell’articolo 113, comma 2 e seguenti, ed è
tempestivamente emesso il relativo ordine di pagamento a favore del proprio
bilancio, al Titolo terzo delle entrate, tipologia 500 “Rimborsi e altre
entrate correnti”, categoria 3059900 “Altre entrate correnti n.a.c.”, voce
del piano dei conti finanziario E.3.05.99.02.001 Fondi incentivanti il
personale (art. 113 del d.lgs. 50/2016). La spesa riguardante gli incentivi
tecnici è impegnata anche tra le spese di personale, negli stanziamenti
riguardanti il fondo per la contrattazione integrativa, nel rispetto dei
principi contabili previsti per il trattamento accessorio e premiale del
personale. La copertura di tale spesa è costituita dall’accertamento di
entrata di cui al periodo precedente, che svolge anche la funzione di
rettificare il doppio impegno, evitando gli effetti della duplicazione della
spesa”.
Indipendentemente dalle modalità di doppia contabilizzazione di cui al
principio contabile, Allegato 4/2, paragrafo 5.2, del d.lgs. n. 118 del 2011
nel testo risultante dal decreto ministeriale 01.08.2019, la Sezione
regionale di controllo della Lombardia ha indicato la spesa per gli
incentivi tecnici in quella risultante dal comma 5-bis dell’art. 113 del
codice degli appalti, come chiaramente evidenziato nella richiamata
deliberazione 26.04.2018 n. 6
dalla Sezione delle autonomie che ha
sottolineato come il legislatore, con norma innovativa contenuta nella legge
di bilancio per il 2018, ha stabilito che i predetti incentivi gravano su
risorse autonome e predeterminate del bilancio (indicate proprio dal comma
5-bis dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016) diverse dalle risorse
ordinariamente rivolte all’erogazione di compensi accessori al personale.
Tale orientamento viene condiviso da questa Sezione ritenendosi, pertanto,
che le spese sostenute per gli incentivi tecnici non costituiscono spesa per
il personale, ai fini della determinazione della capacità assunzionale,
secondo la normativa di cui all’art. 33, comma 2, decreto-legge 30.04.2019, n. 34, convertito con modificazioni dalla legge 28.06.2019, n. 58
(Corte dei Conti, Sez. controllo Abruzzo,
parere 21.06.2021 n. 249). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
La giurisprudenza di legittimità, con riferimento al
reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, commesso mediante esecuzione
di
lavori sulla base di permesso di costruire illegittimo, ha precisato che la
"macroscopica illegittimità" dello stesso titolo, da un lato, rappresenta un
significativo indice sintomatico della sussistenza dell'elemento soggettivo
dell'illecito, e, dall'altro, non costituisce nemmeno una condizione
essenziale per
l'oggettiva configurabilità del reato.
---------------
E'
configurabile il concorso nel reato di cui all'art. 44 del d.P.R.
n. 380 del 2001 a carico del funzionario comunale nominato responsabile del
procedimento che, procedendo ad istruire la pratica edilizia, abbia
colposamente
espresso parere favorevole al rilascio di un titolo abilitativo illegittimo,
in tal modo apportando un contributo causale rilevante ai fini della
determinazione dell'evento illecito.
---------------
8. Manifestamente infondate, di seguito, sono anche le censure relative alla
configurabilità dell'art. 44 in esame sotto il profilo soggettivo, esposte
ancora negli
atti da ultimo citati, i quali contestano l'affermazione della colpevolezza
per
l'opinabilità del quadro normativo e la diffusa prassi amministrativa.
8.1. La giurisprudenza di legittimità, con riferimento al reato di cui
all'art. 44,
comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, commesso mediante esecuzione
di
lavori sulla base di permesso di costruire illegittimo, ha precisato che la
"macroscopica illegittimità" dello stesso titolo, da un lato, rappresenta un
significativo indice sintomatico della sussistenza dell'elemento soggettivo
dell'illecito, e, dall'altro, non costituisce nemmeno una condizione
essenziale per
l'oggettiva configurabilità del reato (così Sez. 3, n. 56678 del 21/09/2018, Iodice,
Rv. 275565, nonché, in termini sostanzialmente identici, Sez. 3, n. 3979 del
21/09/2018, Cerra s.r.I., Rv. 275850).
8.2. Nella specie, la sentenza impugnata ha ravvisato la sussistenza dei
reati
edilizio (e paesaggistico) a fronte di una macroscopica violazione della
disciplina,
realizzata impiegando l'istituto della cessione di cubatura per eludere
elementari
principi in materia urbanistica e, in particolare, per incrementare la
volumetria
assentibile, in spregio dei vincoli, in zona di sicuro pregio ambientale
(zona
dichiarata di notevole interesse pubblico, proprio per le sue
caratteristiche).
8.3. Ebbene, si tratta di una conclusione immune da vizi, a maggior ragione
se si considera che l'illegittimità del ricorso all'istituto della cessione
di cubatura,
per difetto del requisito della "reciproca prossimità" tra i fondi, già
all'epoca del
rilascio del permesso di costruire (2011) era stata a più riprese affermata
dalla
giurisprudenza amministrativa (si richiamano le decisioni Cons. Stato, Sez.
5, n.
400 del 01/04/1998; Cons. Stato, Sez. 5, n. 1172 del 03/03/2003; Cons.
Stato,
Sez. 5, n. 6734 del 30/10/2003).
9. Con riguardo, poi, alle posizioni dei singoli ricorrenti, queste
conclusioni
valgono per certo nei confronti di Ca., Pe. e Ri., tecnici
esperti
della materia (il primo quale progettista, il secondo come responsabile del
procedimento ed il terzo come tecnico comunale che aveva rilasciato il
permesso
di costruire n. 122/2011).
A questo proposito, peraltro, non possono essere
ammesse le doglianze sollevate da Ri. e Pe. con il primo motivo,
nel
quale sostengono di non aver ricoperto il ruolo di responsabile del
procedimento
edilizio (Ri.) o paesaggistico (R. e Pe.), così come di
non aver
rilasciato il permesso di costruire (Ri.), né l'autorizzazione
paesaggistica
(Ri. e Pe.); queste censure, infatti, si fondano su profili di
puro merito,
propri della sola fase della cognizione e non proponibili innanzi alla Corte
di
legittimità, specie in assenza di adeguata allegazione documentale.
Deve
ritenersi
acquisito, dunque, il dato obiettivo riportato nella sentenza, in forza del
quale il
permesso di costruire illegittimo -documento cardine per la consumazione
delle
contravvenzioni ex capi A) e B)- era stato rilasciato dal Pe.,
all'esito di un
procedimento del quale era stato responsabile il Ri..
Con riguardo a
quest'ultimo, peraltro, non può accogliersi neppure la tesi secondo la
quale,
quand'anche riscontrata la carica formale, l'istruttoria non avrebbe
comunque
dimostrato alcun ruolo sostanziale nell'emissione del provvedimento; deve
qui
ribadirsi, infatti, che è configurabile il concorso nel reato di cui
all'art. 44 del d.P.R.
n. 380 del 2001 a carico del funzionario comunale nominato responsabile del
procedimento che, procedendo ad istruire la pratica edilizia, abbia
colposamente
espresso parere favorevole al rilascio di un titolo abilitativo illegittimo,
in tal modo
apportando un contributo causale rilevante ai fini della determinazione
dell'evento
illecito (tra le altre, Sez. 3, n. 7765 del 07/11/2013, Benigni, Rv. 258300;
Sez. 3,
n. 8225 del 18/12/2020, Pettina+altri, non massimata).
E che, nel caso di
specie,
il responsabile del procedimento Ri. avesse espresso parere favorevole, il
19/10/2010, lo afferma lo stesso ricorso (pag. 5) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.06.2021 n. 22832). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO - URBANISTICA:
In primo luogo, occorre evidenziare che, secondo la giurisprudenza
di legittimità, è sicuramente configurabile il concorso del pubblico
ufficiale che emette il provvedimento amministrativo illegittimo nel reato
di cui all'art. 44, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001.
In effetti, è controverso se sia ammissibile, nel caso di rilascio di
un
permesso di costruire illegittimo, una responsabilità ex art. 40 cod. pen.
per il
reato edilizio di cui all'art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R.
06.06.2001, n. 380, in capo al dirigente o responsabile dell'ufficio
urbanistica del Comune, in quanto titolare di una posizione di garanzia e
dunque dell'obbligo di impedire l'evento.
Tuttavia, anche le decisioni contrarie alla configurabilità di una
responsabilità omissiva del dirigente o responsabile dell'ufficio
urbanistica del
Comune ritengono giuridicamente corretta l'ipotesi del concorso commissivo
del
medesimo pubblico ufficiale nella fattispecie di cui all'art. 44, comma 1,
lett. b) e
c), d.P.R. n. 380 del 2001, qualora si accerti che «l'extraneus abbia
apportato,
nella realizzazione dell'evento, un contributo causale rilevante e
consapevole
(sotto il profilo del dolo o della colpa)», come accertato nel caso in esame.
In secondo luogo, poi, deve ritenersi corretta anche l'affermazione
della
permanenza del concorso del pubblico ufficiale nel reato di cui all'art. 44,
comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, fino al compimento
dell'attività edificatoria.
A tal fine, va premesso che, secondo un principio assolutamente consolidato
nella giurisprudenza di legittimità, la permanenza del reato urbanistico
cessa con l'ultimazione dei lavori del manufatto, in essa essendo comprese
le rifiniture, ovvero al momento della desistenza definitiva dagli stessi,
da dimostrare in base a dati obiettivi ed univoci.
Va poi rilevato che il concorrente nel reato permanente, almeno quando
dà impulso alla commissione della fattispecie„ risponde dell'intero fatto
costituente
l'illecito penale, posto che la responsabilità concorsuale, a norma
dell'art. 110 cod. pen., è fondata sul principio di causalità. Significativamente, infatti, la
Relazione
al progetto definitivo del codice penale prevede: «Anche nell'ipotesi che il
fatto sia
oggetto dell'attività di più persone, l'evento deve essere messo a carico di
tutti i concorrenti che con la propria azione contribuirono a determinarlo: il
legame,
invero, che avvince l'attività dei vari concorrenti, si realizza in una
associazione di
cause coscienti, alle quali è dovuto l'evento e, perciò, a ciascuno dei
compartecipi
deve essere attribuita la responsabilità dell'intero».
In questo senso, del resto, è orientata, in linea generale, la
giurisprudenza di legittimità, come si evince, paradigmaticamente, dalle
soluzioni
accolte con riguardo alla fattispecie di lottizzazione abusiva.
Secondo
l'indirizzo più
rigoroso, il momento consumativo della lottizzazione abusiva "mista" si
individua,
per tutti coloro che concorrono o cooperano 'nel reato, nel compimento
dell'ultimo
atto integrante la condotta illecita, che può consistere nella stipulazione
di atti di
trasferimento, nell'esecuzione di opere di urbanizzazione o nell'ultimazione
dei
manufatti che compongono l'insediamento; con la conseguenza, per tutti i
concorrenti, ai fini del calcolo del tempo necessario per la prescrizione,
della
irrilevanza del momento in cui è stata tenuta la condotta di partecipazione,
e della
rilevanza, invece, di quello di consumazione del reato, pur potendo quest'ultimointervenire anche a notevole distanza di tempo.
Anche secondo la tesi opposta, peraltro, il concorso del venditore
lottizzatore
permane sino a quando continua l'attività edificatoria eseguita dagli
acquirenti nei
singoli lotti, siccome lo stesso, avendo dato causa alla condotta
edificatoria dei
concorrenti, risponde, a norma dell'art. 41 cod. pen., dell'evento, e
soltanto per i singoli acquirenti che non hanno dato causa alla
lottizzazione la permanenza cessa con la conclusione della attività da
ognuno di essi posta in essere sul proprio lotto.
Di conseguenza, ove si ravvisi il concorso commissivo del pubblico ufficiale
nel reato edilizio, per aver dato colpevolmente causa all'attività
edificatoria con il
rilascio di un permesso di costruire illegittimo, è ragionevole affermare
che anche
nei suoi confronti la consumazione del reato si verificherà alla data
dell'ultimazione
dei lavori indebitamente assentiti, ovvero al momento della desistenza
definitiva
dagli stessi.
In terzo luogo, ancora, identiche conclusioni sono da affermare in
relazione al concorso del pubblico ufficiale nel reato di cui all'art. 181,
comma 1,
d.lgs. n. 42 del 2004.
Innanzitutto, non sembra vi siano ostacoli alla configurabilità del
concorso del pubblico ufficiale che emette colpevolmente atti amministrativi
illegittimi, costituenti antecedente causale della valutazione di conformità
paesaggistica nel reato di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004.
Anche
in questo caso, infatti, quando si accerta che il soggetto, sebbene extraneus
rispetto al reato, abbia apportato, nella realizzazione dell'evento, un
contributo
causale rilevante e consapevole, sotto il profilo del dolo o della colpa,
sono
applicabili gli ordinari principi in tema di responsabilità concorsuale.
Va poi osservato che anche il reato di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs.
n. 42 del 2004, secondo l'assolutamente consolidata giurisprudenza di
legittimità,
ha natura permanente e si consuma con l'esaurimento della condotta, o con il
sequestro del bene ovvero, in mancanza, con la sentenza di primo grado,
quando
la contestazione è di natura "aperta".
Con la conclusione che, anche con riferimento a questa
contravvenzione, non vi sono ragioni per derogare al principio generale
secondo
cui il concorrente nel reato permanente, almeno quando dà impulso alla
commissione della fattispecie, risponde dell'intero fatto costituente
l'illecito
penale.
---------------
13. Manifestamente infondate, di seguito, sono peraltro anche le censure
riguardanti il concorso dei pubblici ufficiali nel reato edilizio e nel
reato
paesaggistico, esposte nei ricorsi Ri. e Pe., che contestano sia
la
configurabilità della responsabilità concorsuale per detti reati a carico
dei soggetti
responsabili del rilascio del permesso di costruire, sia l'affermazione
della
persistenza della condotta illecita dei medesimi anche dopo il momento del
rilascio
di tale titolo autorizzatorio.
13.1. In primo luogo, occorre evidenziare che, secondo la giurisprudenza di
legittimità, è sicuramente configurabile il concorso del pubblico ufficiale
che
emette il provvedimento amministrativo illegittimo nel reato di cui all'art.
44,
comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001.
13.2. In effetti, è controverso se sia ammissibile, nel caso di rilascio di
un
permesso di costruire illegittimo, una responsabilità ex art. 40 cod. pen.
per il
reato edilizio di cui all'art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. 06.06.2001, n.
380, in capo al dirigente o responsabile dell'ufficio urbanistica del
Comune, in
quanto titolare di una posizione di garanzia e dunque dell'obbligo di
impedire
l'evento (cfr., per la soluzione affermativa, Sez. 3, n. 4911 del
14/07/2016,
Scarpa, Rv. 269260, e Sez. 3, n. 19566 del 25/03/2004, D'Ascanio, Rv.
228888,
nonché, per la tesi opposta, Sez. 3, n. 5439 del 25/10/2016, Colasante, Rv.
269247, e Sez. 3, n. 9281 del 26/01/2011, Bucolo, Rv. 249785).
13.3. Tuttavia, anche le decisioni contrarie alla configurabilità di una
responsabilità omissiva del dirigente o responsabile dell'ufficio
urbanistica del
Comune ritengono giuridicamente corretta l'ipotesi del concorso commissivo
del
medesimo pubblico ufficiale nella fattispecie di cui all'art. 44, comma 1,
lett. b) e
c), d.P.R. n. 380 del 2001, qualora si accerti che «l'extraneus abbia
apportato,
nella realizzazione dell'evento, un contributo causale rilevante e
consapevole
(sotto il profilo del dolo o della colpa)», come accertato nel caso in esame
(così,
testualmente, sia Sez. 3, n. 5439 del 2017, Colasante, cit., sia Sez. 3, n.
9281 del
2011, Bucolo, cit.; cfr. ancora, nel senso della configurabilità del
concorso
commissivo del pubblico ufficiale nel reato "proprio" di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380
del 2001, Sez. 3, n. 42105 del 19/06/2019, D'Alterio, con riferimento ad un
componente della commissione edilizia).
13.4. In secondo luogo, poi, deve ritenersi corretta anche l'affermazione
della
permanenza del concorso del pubblico ufficiale nel reato di cui all'art. 44,
comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, fino al compimento
dell'attività edificatoria.
A tal fine, va premesso che, secondo un principio assolutamente consolidato
nella
giurisprudenza di legittimità, la permanenza del reato urbanistico cessa con
l'ultimazione dei lavori del manufatto, in essa essendo comprese le
rifiniture,
ovvero al momento della desistenza definitiva dagli stessi, da dimostrare in
base
a dati obiettivi ed univoci (così, tra le tante, Sez. 3, n. 13607 del
08/02/2019,
Martina, Rv. 275900, e Sez. 3, n. 29974 del 06/05/2014, Sullo, Rv. 260498).
13.5. Va poi rilevato che il concorrente nel reato permanente, almeno quando
dà impulso alla commissione della fattispecie„ risponde dell'intero fatto
costituente
l'illecito penale, posto che la responsabilità concorsuale, a norma
dell'art. 110 cod.
pen., è fondata sul principio di causalità. Significativamente, infatti, la
Relazione
al progetto definitivo del codice penale prevede: «Anche nell'ipotesi che il
fatto sia
oggetto dell'attività di più persone, l'evento deve essere messo a carico di
tutti i concorrenti che con la propria azione contribuirono a determinarlo: il
legame,
invero, che avvince l'attività dei vari concorrenti, si realizza in una
associazione di
cause coscienti, alle quali è dovuto l'evento e, perciò, a ciascuno dei
compartecipi
deve essere attribuita la responsabilità dell'intero».
13.6. In questo senso, del resto, è orientata, in linea generale, la
giurisprudenza di legittimità, come si evince, paradigmaticamente, dalle
soluzioni
accolte con riguardo alla fattispecie di lottizzazione abusiva.
Secondo
l'indirizzo più
rigoroso, il momento consumativo della lottizzazione abusiva "mista" si
individua,
per tutti coloro che concorrono o cooperano 'nel reato, nel compimento
dell'ultimo
atto integrante la condotta illecita, che può consistere nella stipulazione
di atti di
trasferimento, nell'esecuzione di opere di urbanizzazione o nell'ultimazione
dei
manufatti che compongono l'insediamento; con la conseguenza, per tutti i
concorrenti, ai fini del calcolo del tempo necessario per la prescrizione,
della
irrilevanza del momento in cui è stata tenuta la condotta di partecipazione,
e della
rilevanza, invece, di quello di consumazione del reato, pur potendo quest'ultimointervenire anche a notevole distanza di tempo' (Sez. 3, n. 48346 del
20/09/2017,
Bortone, Rv. 271330, e Sez. 3, n. 35968 del 14/07/2010, Rusani, Rv. 248483).
Anche secondo la tesi opposta, peraltro, il concorso del venditore
lottizzatore
permane sino a quando continua l'attività edificatoria eseguita dagli
acquirenti nei
singoli lotti, siccome lo stesso, avendo dato causa alla condotta
edificatoria dei
concorrenti, risponde, a norma dell'art. 41 cod. pen., dell'evento, e
soltanto per i
singoli acquirenti che non hanno dato causa alla lottizzazione la permanenza
cessa
con la conclusione della attività da ognuno di essi posta in essere sul
proprio lotto
(cfr. in questo senso, in particolare, Sez. 3, n. 20671 del 20/03/2012,
D'Alessandro, Rv. 252914, e Sez. 3, n. 1966 del 05/12/2001, Venuti, Rv.
220853).
Di conseguenza, ove si ravvisi il concorso commissivo del pubblico ufficiale
nel reato edilizio, per aver dato colpevolmente causa all'attività
edificatoria con il
rilascio di un permesso di costruire illegittimo, è ragionevole affermare
che anche
nei suoi confronti la consumazione del reato si verificherà alla data
dell'ultimazione
dei lavori indebitamente assentiti, ovvero al momento della desistenza
definitiva
dagli stessi.
14. In terzo luogo, ancora, identiche conclusioni sono da affermare in
relazione al concorso del pubblico ufficiale nel reato di cui all'art. 181,
comma 1,
d.lgs. n. 42 del 2004.
14.1. Innanzitutto, non sembra vi siano ostacoli alla configurabilità del
concorso del pubblico ufficiale che emette colpevolmente atti amministrativi
illegittimi, costituenti antecedente causale della valutazione di conformità
paesaggistica nel reato di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004.
Anche
in questo caso, infatti, quando si accerta che il soggetto, sebbene
extraneus
rispetto al reato, abbia apportato, nella realizzazione dell'evento, un
contributo
causale rilevante e consapevole, sotto il profilo del dolo o della colpa,
sono
applicabili gli ordinari principi in tema di responsabilità concorsuale.
14.2. Va poi osservato che anche il reato di cui all'art. 181, comma 1,
d.lgs.
n. 42 del 2004, secondo l'assolutamente consolidata giurisprudenza di
legittimità,
ha natura permanente e si consuma con l'esaurimento della condotta, o con il
sequestro del bene ovvero, in mancanza, con la sentenza di primo grado,
quando
la contestazione è di natura "aperta" (cfr., tra le tantissime, Sez. 3, n.
43173 del
05/07/2017, Zanella, Rv. 271336, e Sez. 3, n. 30130 del 30/03/2017, Dinnella,
Rv. 270254).
14.3. Con la conclusione che, anche con riferimento a questa
contravvenzione, non vi sono ragioni per derogare al principio generale
secondo
cui il concorrente nel reato permanente, almeno quando dà impulso alla
commissione della fattispecie, risponde dell'intero fatto costituente
l'illecito
penale.
14.4. Facendo applicazione dei canoni indicati, risulta dunque corretta
l'affermazione di responsabilità penale di Ri., Pe. e Ca.
anche
per il reato di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004. Quanto,
invece, a
Sc., si richiamano le stesse considerazioni già espresse in ordine alla
contravvenzione sub A), non riscontrandosi una diversa o più approfondita
motivazione sulla diversa fattispecie paesaggistica (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.06.2021 n. 22832). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Provvedimento amministrativo
illegittimo – Concorso del pubblico ufficiale nei reati
urbanistici, edilizi e paesaggistici – Presupposti –
Permanenza e cessazione del reato – Giurisprudenza.
Si configura il reato del pubblico
ufficiale nell’ipotesi di concorso commissivo nella
fattispecie di cui all’art. 44, comma 1, lett. b) e c),
d.P.R. n. 380 del 2001, qualora si accerti che l’extraneus
abbia apportato, nella realizzazione dell’evento, un
contributo causale rilevante e consapevole (sotto il profilo
del dolo o della colpa)
(si veda, Cass. Sez. 3, n. 42105 del 19/06/2019, D’Alterio,
sulla configurabilità del concorso commissivo del pubblico
ufficiale nel reato “proprio” di cui all’art. 44 d.P.R. n.
380 del 2001, con riferimento ad un componente della
commissione edilizia).
Di conseguenza, anche la permanenza del
concorso del pubblico ufficiale nel reato di cui all’art.
44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001, fino al
compimento dell’attività edificatoria cessa con
l’ultimazione dei lavori del manufatto, in essa essendo
comprese le rifiniture, ovvero al momento della desistenza
definitiva dagli stessi, da dimostrare in base a dati
obiettivi ed univoci.
...
PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – Reato di falso ideologico –
Responsabile dell’ufficio tecnico competente (dirigente o
responsabile dell’UTC) – Posizione di garanzia – Obbligo di
impedire l’evento – Limiti ai criteri di valutazione ed
attività è assolutamente discrezionale – Rilascio di
autorizzazione paesaggistica.
Il reato di falso si configura con il
rilascio di autorizzazione paesaggistica, da parte del
responsabile dell’ufficio tecnico competente, nella
consapevolezza della falsità di quanto attestato dal
richiedente circa la sussistenza dei presupposti
giuridico-fattuali per l’accoglimento della relativa
domanda, essendo l’organo competente obbligato a svolgere in
qualunque modo, e non necessariamente con un sopralluogo, le
necessarie preventive verifiche in merito alla sussistenza
delle relative condizioni.
Sicché, è configurabile il delitto di falso ideologico nella
valutazione tecnica formulata in un contesto implicante
l’accettazione di parametri normativamente predeterminati o
tecnicamente indiscussi.
In altri termini, se pure è vero che nel caso in cui il
pubblico ufficiale sia libero nella scelta dei criteri di
valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale
e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è
destinato a provare la verità di alcun fatto, tuttavia, se
l’atto da compiere fa riferimento, come è nel caso di
specie, a previsioni normative che dettano criteri di
valutazione, si è in presenza di un esercizio di
discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una
verifica di conformità della situazione fattuale a parametri
predeterminati, con conseguente integrazione della falsità
se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai
parametri cui esso è implicitamente vincolato
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.06.2021 n. 22832 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Sul tema della configurazione dei reato di falso, con riguardo ad atti
implicanti valutazioni in un contesto nel quale si deve avere riguardo
l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi, questa
Suprema Corte ha ripetutamente affermato che lo stesso si configura con il rilascio di autorizzazione
paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente,
nella
consapevolezza della falsità di quanto attestato dal richiedente circa la
sussistenza
dei presupposti giuridico-fattuali per l'accoglimento della relativa
domanda,
essendo l'organo competente obbligato a svolgere in qualunque modo, e non
necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive verifiche in
merito
alla sussistenza delle relative condizioni.
Su questa linea interpretativa,
dunque,
si è affermato il principio secondo il quale è configurabile il delitto di
falso
ideologico nella valutazione tecnica formulata in un contesto implicante
l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente
indiscussi.
In
altri
termini, se pure è vero che nel caso in cui il pubblico ufficiale sia libero
nella scelta
dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e,
come
tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la
verità di
alcun fatto, tuttavia, se l'atto da compiere fa riferimento, come è nel caso
di
specie, a previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si è in
presenza
di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad
una verifica
di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, con
conseguente integrazione della falsità se detto giudizio di conformità non
sia rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato.
Come peraltro è stato evidenziato
in una
vicenda del tutto simile,
nell'autorizzazione paesaggistica vengono attestate la conformità
urbanistica e la
compatibilità ambientale delle opere da edificare, esprimendosi, quindi, un
giudizio
in base alla rispondenza dell'intervento edilizio ad oggettivi e
preesistenti criteri
normativi, in quanto tale non caratterizzato da mera discrezionalità tecnica
quanto, piuttosto, da una verifica oggettiva.
---------------
15. Del tutto infondate, infine, sono le censure che attengono alla
configurabilità, sotto il profilo oggettivo, del reato di falsità ideologica
in certificati
commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità, di cui
all'art. 481 cod. pen., per come riqualificata l'originaria imputazione di
cui all'art. 479
cod. pen.
15.1. Il reato di falso ideologico è stato ritenuto sussistente dai Giudici
del
merito in relazione al permesso a costruire, rilasciato da Ri. e
Pe. nei
termini richiamati, laddove questi hanno attestato la compatibilità
paesaggistica
dell'intervento edilizio -descritto nella relazione paesaggistica, allegata
all'istanza
redatta dal tecnico Ca. (e recepita nel permesso di costruire)- per
effetto
dell'illegittimo accorpamento di fondi non contigui e, dunque, atti
ideologicamente
falsi perché fondati su falsi presupposti per la sua emanazione.
15.2. Sul tema della configurazione dei reato di falso, con riguardo ad atti
implicanti valutazioni in un contesto nel quale si deve avere riguardo
l'accettazione
di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi, questa
Suprema Corte ha ripetutamente affermato (Sez. 3 n. 46239 del 12/07/2018,
Rv. 274207; Sez. 3, n. 38838 del 09/07/2018, Morciano, non mass.; Sez. 3, n.
28713 del 19/04/2017, Colella ed altri, non massimata, Sez. 3, n. 42064 del
30/06/2016, Quaranta e altri, Rv. 268083; Sez. 5, n. 35556 del 26/04/2016,
Renna,
Rv. 267953), che lo stesso si configura con il rilascio di autorizzazione
paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente,
nella
consapevolezza della falsità di quanto attestato dal richiedente circa la
sussistenza
dei presupposti giuridico-fattuali per l'accoglimento della relativa
domanda,
essendo l'organo competente obbligato a svolgere in qualunque modo, e non
necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive verifiche in
merito
alla sussistenza delle relative condizioni.
Su questa linea interpretativa,
dunque,
si è affermato il principio secondo il quale è configurabile il delitto di
falso
ideologico nella valutazione tecnica formulata in un contesto implicante
l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente
indiscussi (Sez. 3, n. 56085 del 18/10/2017, Morciano e altri, non mass.;
Sez. 3,
n. 52605 del 04/10/2017, Renna, non mass.; Sez. 3, n. 41373 del 17/07/2014, P.M
in proc. Pasteris e altri, Rv. 260968, non massimata sul punto, che a sua
volta
richiama Sez. 1, n. 45373 del 10/06/2013, Capogrosso e altro, Rv. 257895).
In
altri
termini, se pure è vero che nel caso in cui il pubblico ufficiale sia libero
nella scelta
dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e,
come
tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la
verità di
alcun fatto, tuttavia, se l'atto da compiere fa riferimento, come è nel caso
di
specie, a previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si è in
presenza
di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad
una verifica
di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, con
conseguente integrazione della falsità se detto giudizio di conformità non
sia
rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato (cfr. anche
Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, p.c. in proc. Platamone e altro, Rv. 254305;
si vedano anche
Sez. 5, n. 39360 del 15/07/2011, Gulino, Rv. 251533; Sez. 5, n. 14486 del
21/02/2011, Marini e altro, Rv. 249858).
Come peraltro è stato evidenziato
in una
vicenda del tutto simile (Sez. 3, n. 8844 del 18/01/2018, Renna ed altro, non
massimata, la quale a sua volta richiama Sez. 3, n. 57108 del 17/05/2017,
Renna,
cit. e Sez. 3, n. 8852 del 18/01/2018, Dilonardo ed altri, non massimata),
nell'autorizzazione paesaggistica vengono attestate la conformità
urbanistica e la
compatibilità ambientale delle opere da edificare, esprimendosi, quindi, un
giudizio
in base alla rispondenza dell'intervento edilizio ad oggettivi e
preesistenti criteri
normativi, in quanto tale non caratterizzato da mera discrezionalità tecnica
quanto, piuttosto, da una verifica oggettiva.
15.3. Tanto premesso in generale, la Corte territoriale ha condiviso e
seguito
l'indirizzo qui riportato, così ritenendo che il provvedimento edilizio
rilasciato da
Ri. e Pe. fosse fondato su presupposti paesaggistici falsi,
contenuti
nella relazione redatta dal Ca., come tale anch'essa falsa.
15.4. In particolare, il Giudice di appello ha verificato che gli imputati
avevano
attestato la compatibilità ambientale di un intervento avente una volumetria
superiore a quella sviluppabile dal fondo interessato all'edificazione,
senza alcun
riferimento alla sussistenza dei presupposti legittimanti l'accorpamento di
fondi,
sebbene non contigui, anzi avallando esplicitamente la piena legittimità
dell'applicazione dell'istituto al fine di conseguire l'aumento geometrico
della
volumetria assentibile nell'area interessata all'edificazione.
Consegue,
sempre
secondo la sentenza impugnata, che proprio l'omessa considerazione in tutti
gli
atti della pratica edilizia, sia riconducibili al tecnico "privato" sia a
quello comunale,
delle condizioni di legittimità dell'accorpamento ed anzi l'esplicito avallo
della
legittimità di tale istituto era compatibile esclusivamente con la scelta,
preordinata
consapevole e condivisa, di realizzare l'opera in zona agricola con
l'indicazione di
dati ed informazioni apparentemente veridiche ma, in realtà, frutto di
mistificazione degli elementi fattuali al fine di esprimere valutazioni
conclusiva
platealmente false.
15.5. E' dunque evidente che la valutazione di compatibilità ambientale
espressa nell'autorizzazione paesaggistica era fondata su presupposti
contrastanti
con i parametri normativi, giacché si rappresentava un intervento edilizio
realizzato, previa cessione di cubatura in favore di un fondo agricolo su
fascia
costiera, illegittimo non essendo i fondi contigui, parametro che viene in
rilievo sia
ai fini del rispetto degli strumenti urbanistici che ai fini ambientali e
sul giudizio di
valorizzazione del sito.
15.6. La maggior volumetria del manufatto da realizzare in zona agricola e
di
pregio, per effetto dell'illegittimo accorpamento di fondi non confinanti,
l'assenza di un intervento volto alla realizzazione di aziende agricole e
finalizzato allo
sviluppo e al recupero del patrimonio produttivo, la realizzazione di una
civile
abitazione, costituivano i dati maggiormente significativi sulla scorta dei
quali
doveva essere formulato il giudizio di compatibilità (anche) paesaggistica,
di talché debbono ritenersi falsi i provvedimenti che si esprimono su tali basi in
contrasto con i parametri normativi.
Sia l'attestazione paesaggistica che il
permesso a costruire erano, così, la diretta conseguenza dei falsi parametri
contenuti nella relazione paesaggistica redatta dal Ca., e come tale
anch'essa falsa (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.06.2021 n. 22832). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: La
presentazione di denunce, come anche le pubbliche accuse di scorretta
amministrazione dell’urbanistica comunale, non possono essere considerate
motivo di astensione obbligatoria del funzionario.
Per opinione consolidata, infatti, il conflitto d’interessi, rilevante ai
sensi dell’art.
6-bis l. 241/1990, coincide con le ipotesi d’incompatibilità di cui all’art.
51 cod. proc. civ., che rivestono carattere tassativo e sfuggono, di
conseguenza, a ogni tentativo di manipolazione analogica.
Pertanto, la presentazione di denuncia in sede penale non costituisce causa
di legittima ricusazione perché inidonea a creare una situazione di causa
pendente –per la natura oggettiva della giurisdizione penale– o di grave
inimicizia –che deve essere reciproca, trovare fondamento esclusivamente in
rapporti personali ed estrinsecarsi in documentate e inequivocabili
circostanze di conflittualità.
---------------
(III) Con il terzo motivo, i ricorrenti hanno dedotto che il
responsabile del procedimento avrebbe dovuto astenersi per incompatibilità
(art. 6-bis l. 241/1990), in quanto destinatario –assieme ad altri
funzionari del Comune– di una serie di denunce penali presentate da Il.Ma.
nel 2020 nonché di pubbliche lamentele effettuate da quest’ultimo in ordine
all’illegittimità di alcune lottizzazioni.
...
6. Nel merito, deve essere dapprima analizzato il terzo motivo di
ricorso, stante la riconducibilità dell’incompatibilità del funzionario al
vizio d’incompetenza. La fondatezza di tale motivo inibirebbe la valutazione
delle restanti censure sostanziali, essendo impedito al giudice di
pronunciarsi su poteri non ancora esercitati (art. 34, comma 2, cod. proc.
amm.), tali dovendosi considerare le valutazioni di spettanza dell’organo
competente cui il procedimento dovrebbe essere assegnato in caso di
annullamento dell’atto per incompetenza (per tutte, Cons. Stato, Ad. Plen.,
27.04.2015, n. 5).
La relativa doglianza è infondata, giacché la presentazione di denunce, come
anche le pubbliche accuse di scorretta amministrazione dell’urbanistica
comunale, non possono essere considerate motivo di astensione obbligatoria
del funzionario.
Per opinione consolidata, infatti, il conflitto d’interessi, rilevante ai
sensi dell’art.
6-bis l. 241/1990, coincide con le ipotesi d’incompatibilità di cui all’art.
51 cod. proc. civ., che rivestono carattere tassativo e sfuggono, di
conseguenza, a ogni tentativo di manipolazione analogica.
Pertanto, la presentazione di denuncia in sede penale non costituisce causa
di legittima ricusazione perché inidonea a creare una situazione di causa
pendente –per la natura oggettiva della giurisdizione penale– o di grave
inimicizia –che deve essere reciproca, trovare fondamento esclusivamente in
rapporti personali ed estrinsecarsi in documentate e inequivocabili
circostanze di conflittualità (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 02.04.2014, n.
1577; TAR Ancona, Sez. I, 26.03.2019, n. 175) (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 09.06.2021 n. 1152 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: Commissione di concorso pubblico – Partecipazione membri interni
al Comune – Compenso spettante e deroga principio onnicomprensività
retribuzione (parere
04.06.2021 n. 77558 di prot.).
---------------
Si fa riferimento alla nota prot. 42356/2021, con la quale codesto Comune
chiede il parere di questo Dipartimento relativamente ai compensi spettanti
ai componenti interni delle commissioni di concorso, ai sensi dell’articolo
3 della legge 19.06.2019, n. 56. In particolare, si chiede:
1. se “i membri interni delle Commissioni di concorso in
trattazione, benché dipendenti dall’Ente titolare del concorso, hanno
diritto a percepire il compenso, così come stabilito dalla novella del 2019,
in deroga al principio di onnicomprensività”;
2. “ove fosse accertato l’an debeatur, si chiede conferma che il
quantum sarebbe dovuto nelle misure previste dal
DPCM 24.04.2020, previo recepimento con idonei atti comunali”.
(... continua). |
maggio 2021 |
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Godimento
delle ferie dipendente da causa non imputabile al lavoratore.
L’istituto della c.d. monetizzazione delle ferie è stato sostanzialmente
abolito o quanto meno fortemente ridimensionato per effetto dell’art. 5, co.
8, del d.l. n. 95/2012, convertito con legge n. 135/2012, in forza del quale
le ferie, i riposi ed i permessi nel settore del lavoro pubblico sono
obbligatoriamente goduti secondo quanto stabilito dai rispettivi
ordinamenti, con divieto di corresponsione di «trattamenti economici
sostitutivi».
Il carattere tutto sommato eccezionale e residuale della monetizzazione
è stato ribadito sia dalla prassi amministrativa sia dalla
giurisprudenza ordinaria e da quella costituzionale.
---------------
Il gravame non appare fondato, per le ragioni che seguono.
2.1 Il sig. Ve. cessava dal servizio presso la Squadra Mobile di Sondrio a
far tempo dal 15.01.2018 (cfr. il doc. 1 del resistente) e già in precedenza
depositava una domanda di congedo ordinario per 123 giorni consecutivi, che
non era accolta dall’Amministrazione, vista la lunga durata del periodo (cfr.
sul punto il doc. 3 del resistente).
In seguito presentava un’istanza di monetizzazione per un numero più ridotto
di giorni di congedo ordinario, che era respinta con la già citata nota
della Prefettura di Sondrio del 18.04.2019 (si veda il doc. 3 del
resistente) che in maniera compiuta esponeva gli argomenti ostativi alla
monetizzazione richiesta, vale a dire l’accumulo dei giorni non fruiti in
oltre vent’anni di servizio in luogo del graduale smaltimento dei medesimi,
la presentazione di una domanda di dimissioni volontarie prima di avere
goduto dell’intero congedo ordinario, oltre all’assenza di documentate
esigenze di servizio o di altre situazioni straordinarie tali da rendere
impossibile la fruizione delle ferie.
2.2 Sulla c.d. monetizzazione delle ferie preme evidenziare che l’istituto è
stato sostanzialmente abolito o quanto meno fortemente ridimensionato per
effetto dell’art. 5, comma 8, del DL n. 95/2012, convertito con legge n.
135/2012, in forza del quale le ferie, i riposi ed i permessi nel settore
del lavoro pubblico sono obbligatoriamente goduti secondo quanto stabilito
dai rispettivi ordinamenti, con divieto di corresponsione di «trattamenti
economici sostitutivi».
Il carattere tutto sommato eccezionale e residuale della monetizzazione è
stato ribadito sia dalla prassi amministrativa (si veda la Circolare del
Ministero dell’Intero prot. 333-G/I/Sett. 2°/mco/N°12/10) sia dalla
giurisprudenza ordinaria (cfr. Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza
n. 15652/2018) e da quella costituzionale (si veda Corte Costituzionale,
sentenza n. 95/2016, che ha ritenuto costituzionalmente legittima la
previsione del succitato art. 5, comma 8, del DL n. 95/2012, riconoscendo al
lavoratore il diritto a un’indennità soltanto in caso di mancato godimento
delle ferie per causa a lui non imputabile).
Sul punto sia consentito altresì il richiamo alla recentissima sentenza del
TAR Lazio, Roma, Sezione I-quater n. 3426/2021, nella quale si afferma che
l’obbligo di legge (ex art. 5, comma 8, del DL n. 95/2012) di godere delle
ferie senza alcun trattamento economico sostitutivo «…mira a “reprimere il
ricorso incontrollato alla “monetizzazione” delle ferie non godute.
Affiancata ad altre misure di contenimento della spesa, la disciplina in
questione mira a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle
ferie, per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e
favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro. In
questo contesto si inquadra il divieto rigoroso di corrispondere trattamenti
economici sostitutivi, volto a contrastare gli abusi, senza arrecare
pregiudizio al lavoratore incolpevole” (Corte cost., n. 95 del 2016)».
2.3 Nel caso di specie il sig. Ve. presentava domanda di dimissioni (cfr. il
doc. 1 del resistente), per cui cessava dal servizio volontariamente e non
per fatti sopravvenuti ed imprevedibili, tali da impedire la programmazione
e l’utilizzo delle ferie residue prima del pensionamento.
Quanto alla richiesta di congedo del 05.06.2017 (cfr. il doc. 3 del ricorrente
e il doc. 2 del resistente) la stessa aveva ad oggetto un periodo di ben 123
giorni consecutivi –come già sopra ricordato (cfr. il doc. 6 del ricorrente
e il doc. 3 del resistente)– e non poteva certo essere accolta, a fronte di
un così lungo e continuativo periodo di assenza.
Inoltre, dall’esame del prospetto delle ferie redatto dalla Questura di
Sondrio nel mese di aprile 2020 (cfr. il doc. 4 del resistente), risulta che
l’esponente ha potuto godere fra il 2015 ed il 2018 di diversi periodi di
ferie, talora di una sola giornata ma anche per tempi più lunghi, per cui
non appare dimostrato un presunto atteggiamento ostativo dell’Ufficio, che
avrebbe impedito la fruizione del congedo ordinario.
Si badi che le ferie furono concesse anche dopo che, nel mese di giugno
2017, era stata respinta la più volte citata richiesta di un periodo di
congedo di 123 giorni, a conferma della volontà dell’Amministrazione di
consentire una ordinata fruizione del residuo tempo feriale, nel rispetto
degli accordi sindacali di settore (si vedano, ad esempio, l’art. 14 del DPR
n. 395/1995 e gli articoli 18 e 55 del DPR n. 254/1999).
Non vi è quindi alcuna prova concreta dell’impossibilità di mancato
godimento delle ferie per fatto non imputabile al sig. Verga.
Il ricorso in epigrafe deve quindi interamente rigettarsi
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 13.05.2021 n. 1186 - massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Onere
probatorio incombente sul lavoratore vessato.
L’elemento qualificante del mobbing non va ravvisato nella legittimità o
illegittimità dei singoli atti, bensì nell’intento persecutorio che li
unifica. La relativa prova è a carico di chi assume di avere subito la
condotta vessatoria.
Di conseguenza il lavoratore che agisce chiedendo il
risarcimento dei danni subiti a causa del mobbing deve provare tutti gli
elementi costitutivi della fattispecie, quindi in primis la molteplicità di
comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti ove
considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo
sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio (TRIBUNALE di Torino, Sez. V, sentenza 10.05.2021 n. 724 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
ENTI LOCALI -
INCENTIVI FUNZIONI TECNICHE - PUBBLICO IMPIEGO:
Incentivi tecnici, spesa di personale. La
delibera della Corte dei Conti Lombardia non convince.
Gli incentivi per le funzioni tecniche sono certamente spesa di personale e
vanno necessariamente considerate nel rapporto con la media triennale delle
entrate per determinare le facoltà assunzionali dei comuni.
E' visibilmente erroneo e da non considerare il
parere 07.05.2021 n. 73
della Corte
dei conti Lombardia (si
veda ItaliaOggi dell'11 maggio) secondo cui le spese per incentivi tecnici
non sarebbero da considerare come spese di personale. La sezione si fa
trarre visibilmente in inganno dall'esclusiva considerazione della spesa per
incentivi sulla base della sua natura. Il parere afferma che «la natura
della spesa per gli incentivi tecnici sia quella risultante dal comma 5-bis
dell'art. 113 del codice degli appalti, come chiaramente evidenziato dalla
sezione autonomie nella richiamata
deliberazione 26.04.2018 n. 6».
Tale ultima deliberazione ha chiarito che le spese connesse agli incentivi
per le funzioni tecniche «erogati su risorse finanziarie individuate ex lege
facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli
lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al
complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti
pubblici dall'art. 23, comma 2, del dlgs n. 75/2017».
Tuttavia, l'esclusione di una voce di spesa dal computo del tetto
complessivo del trattamento accessorio disposto dall'articolo 23, comma 2,
del dlgs 75/2017 (norma sulla cui persistente vigenza v'è molto da dubitare,
per altro), non ha nulla a che vedere con i conteggi necessari per
determinare il rapporto spesa/entrate previsto dall'articolo 33, comma 2,
del dl 34/2019, convertito in legge 58/2019.
Sfugge ancora a molti, tra cui anche la magistratura contabile, che nel
nuovo sistema di determinazione delle facoltà assunzionali ogni spesa che
defluisce verso i dipendenti è spesa di personale senza eccezione ed a
prescindere dalla sua natura o dal finanziamento. A meno che, in quest'ultimo
caso, non sia il legislatore ad escludere espressamente tali voci, come
disposto dall'articolo 57, comma 3-septies, del dl 104/2020, convertito in
legge 126/2020, per il caso di assunzioni eterofinanziate.
La circostanza
che gli incentivi per le funzioni tecniche sfuggano al tetto di spesa del
2016, (cosa del tutto normale, trattandosi di risorse variabili del fondo
della contrattazione decentrata) non sta affatto a significare che non si
tratti di spesa di personale. Al contrario: proprio perché gli incentivi per
le funzioni tecniche sono componente della parte variabile del fondo
contrattuale delle risorse decentrate, essi debbono obbligatoriamente essere
qualificati come spesa di personale, influente senz'altro nel rapporto tra
questa spesa e la media triennale delle entrate al netto del fondo crediti
di dubbia esigibilità.
Le conclusioni della sezione Lombardia per altro porterebbero a conseguenze
operative inaccettabili. Ad esempio, un comune non virtuoso, come quello che
ha espresso il quesito alla Sezione, potrebbe proprio, tra le altre misure
adottabili, fare leva esattamente su risorse variabili del fondo,
riducendole, per adempiere al dovere di ridurre annualmente l'incidenza
della spesa di personale e quindi riportare il rapporto spesa/entrate ad un
livello tale da rientrare nei parametri di virtuosità.
Le indicazioni del
parere 07.05.2021 n. 73
della
sezione Lombardia, invece, finirebbero per far mancare un margine di manovra
utile ed importante. E, comunque, finirebbero per indurre gli enti non
virtuosi a ritenere possibile il risultato paradossale perfino di un
incremento complessivo della spesa di personale, se determinato dagli
incentivi per le funzioni tecniche: ciò in plateale contrasto con l'obbligo
normativo di considerare tutta la spesa di personale ai fini della riduzione
annuale del rapporto di questa con le entrate
(articolo ItaliaOggi del 14.05.2021). |
ENTI LOCALI -
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni,
incentivi tecnici fuori dai costi di personale.
Secondo la Funzione pubblica e il Mef (che hanno interpretato le nuove
regole introdotte dal decreto crescita), ai fini delle assunzioni dei
comuni, rientrano tutte le spese del personale, nessuna esclusa.
Per la Corte dei conti della Lombardia (parere
07.05.2021 n. 73) la spesa del personale, collegata agli incentivi tecnici,
deve essere esclusa, a seguito dell'inserimento del comma 5-bis all'art. 113
del codice dei contratti secondo cui «gli incentivi di cui al presente
articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per singoli
lavori, servizi e forniture».
Il dubbio del sindaco
Premette il sindaco che il comune non rientra tra quelli virtuosi, ossia
coloro che hanno un rapporto tra spesa del personale e media delle entrate
correnti, al netto del fondo crediti di dubbia esigibilità, che li collocano
nella tabella 1 per la fascia demografica di appartenenza. Di qui la
richiesta volta a capire se le spese per incentivi tecnici rientrino o meno
nella spesa del personale.
Secondo la circolare esplicativa del decreto attuativo del 13.05.2020, infatti, la spesa del personale da prendere in
considerazione sarebbe quella totale, ossia comprensiva anche delle spese
del personale riguardanti gli incentivi tecnici, con l'evidente pericolo, in
assenza di assunzioni, di non corrispondere gli importi di tali incentivi
tecnici per non superare la spesa del personale.
La risposta della Corte
A prescindere da quanto previsto nella circolare citata dal sindaco e dalla
modalità della doppia contabilizzazione, prevista dal dm 01.08.2019 del
principio contabile di cui all'allegato 4/2, paragrafo 5.2, gli incentivi
tecnici non rientrano nella spesa del personale per due rilevanti
motivazioni.
La prima è il richiamo letterale del comma 5-bis, inserito dall'art. 1,
comma 526, della legge n. 205 del 2017, secondo cui «gli incentivi di cui al
presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i
singoli lavori, servizi e forniture». Infatti, in assenza degli stanziamenti
previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture, non vi
sarebbero incentivi da pagare al personale.
La seconda motivazione è quella indicata dalla sezione delle Autonomie (deliberazione
26.04.2018 n. 6) che ha espresso il principio di diritto secondo cui «gli
incentivi disciplinati dall'art. 113 del dlgs n. 50 del 2016 nel testo
modificato dall'art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su
risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli
sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non
sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico
accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall'art. 23, comma 2, del
dlgs n. 75 del 2017».
In conclusione, le spese sostenute per gli incentivi tecnici non
costituiscano spesa per il personale ai fini della determinazione della
capacità assunzionale, secondo la nuova normativa dell'art. 33, comma 2, del
dl 34/2019
(articolo ItaliaOggi dell'11.05.2021). |
ENTI LOCALI -
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE - PUBBLICO IMPIEGO: Incentivi
funzioni tecniche e spese di personale per margini assunzionali.
Le spese sostenute per gli incentivi tecnici non costituiscano spesa per il
personale ai fini della determinazione della capacità assunzionale, secondo
la nuova normativa dell'art. 33, comma 2, del Dl 34/2019.
Secondo i principi contabili gli impegni di spesa riguardanti gli incentivi
per le funzioni tecniche previsti dall'art. 113 del Dlgs 50/2016, compresi i relativi
oneri contributivi ed erariali, sono assunti a carico degli stanziamenti di
spesa riguardanti i medesimi lavori, servizi e forniture cui si riferiscono,
nel titolo II della spesa ove si tratti di opere o nel titolo I, nel caso di
servizi e forniture.
La natura degli incentivi è legata in diretta
corrispondenza tra incentivo e attività compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche, nell'ambito dello svolgimento di attività tecniche e
amministrative analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di
specifiche procedure.
L'avere correlato normativamente la provvista delle
risorse a ogni singola opera con riferimento all'importo a base di gara
commisurato al costo preventivato dell'opera, àncora quindi la
contabilizzazione di queste risorse a un modello predeterminato per la loro
allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di
personale.
---------------
Il Sindaco del Comune di Samarate (VA) richiama in premessa
alcune norme di riferimento per la destinazione di risorse finanziarie ad un
fondo per incentivi tecnici, erogabili a favore di dipendenti, anche alla
luce della diversa determinazione degli spazi assunzionali degli enti
locali, introdotta dall’art. 33, comma 2, del d.l. 30.04.2019, n. 34 con
successive modifiche intervenute in sede di conversione e a seguito
dell’approvazione della l. 27.12.2019, n. 162 (legge di bilancio
2021).
La richiesta di parere è articolata su due quesiti:
"1. se, secondo il principio contabile di prevalenza della sostanza sulla
forma (Principio contabile n. 18), la spesa riguardante gli incentivi
tecnici rientra tra la spesa di personale da considerare nel rapporto tra
media delle entrate e spesa di personale per determinare la capacità assunzionale degli enti locali;
2. se, in caso di risposta affermativa al punto precedente, considerato che,
secondo la nuova normativa, i comuni mediani come quello istante, con un
rapporto entrate correnti/spesa di personale compreso fra il valore soglia
medio e il valore soglia superiore (o "valore soglia di rientro della
maggiore spesa"), devono mantenere sotto controllo e quindi costante detto
rapporto, non potendolo incrementare rispetto a quello corrispondente
registrato nell'ultimo rendiconto della gestione approvato, sono tenuti a
liquidare gli incentivi per le funzioni tecniche anche nel caso in cui
questo determinerebbe l'incremento di tale rapporto.”.
...
Sulla novella normativa introdotta dal comma 2 dell'art. 33 del
decreto-legge n. 34 del 2019 (come modificato dal comma 853, art. 1 della
legge del 27.12.2019, n. 160) anche alla luce dell’approvazione (il 17.03.2020, successivamente pubblicato in G.U. il 27.04.2020), del DPCM
interministeriale (funzione pubblica, economia e finanze e interno), recante
“Misure per la definizione delle capacità assunzionali di personale a tempo
indeterminato dei comuni”, questa Sezione si è espressa più volte in tempi
recenti (su vari aspetti di rilievo, con le delibere nn. 74/2020/PAR, 93/2020/PAR, 98/2020/PAR, 109/2020/PAR, 125/2020/PAR, 24/2021/PAR, 65/2021/PAR).
La fattispecie prospettata dal Comune di Samarate (VA) riguarda la natura
degli incentivi tecnici, per i quali il comma 5-bis dell’art. 113 del Codice
degli appalti stabilisce che “(g)li incentivi di cui al presente articolo
fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori,
servizi e forniture”.
Nelle forme dettagliate dallo stesso articolo 113, gli
incentivi tecnici traggono origine dagli stanziamenti previsti per i singoli
appalti di lavori, servizi e forniture, nei limiti previsti dal comma 2, e
ad essi vanno considerati legati, non sussistendo una specifica spesa per il
personale in assenza di appalti e degli stanziamenti ad essi relativi.
L’inserimento del comma 5-bis ad opera dell’art. 1, comma 526, della legge n.
205 del 2017 è l’elemento importante che è stato oggetto di approfondimento
da parte della Sezione delle Autonomie che, proprio per la prescrizione
specifica, stabilisce nella sua
deliberazione 26.04.2018 n. 6 “una diretta
corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in termini di
prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività
tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla
realizzazione di specifiche procedure. L’avere correlato normativamente la
provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a
base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la
contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro
allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di
personale.” Al tempo stesso, si rileva che “tali compensi non sono rivolti
indiscriminatamente al personale dell’ente, ma mirati a coloro che svolgono
particolari funzioni (“tecniche”) nell’ambito di specifici procedimenti e ai
loro collaboratori (in senso conforme: SRC Lombardia
parere 16.11.2016 n. 333)”.
La conclusione della suddetta deliberazione della Sezione delle Autonomie è
riassunta nel seguente principio di diritto: “Gli incentivi disciplinati
dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1,
comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie
individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli
oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al
vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti
degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
Va soggiunto che il decreto del Ragioniere Generale dello Stato del 01.08.2019, pubblicato in G.U. il 22.08.2019, ha aggiornato gli
allegati al d.lgs. 118 del 2011, aggiungendo, al paragrafo 5.2, lettera a),
una particolare rappresentazione contabile per gli incentivi tecnici. Esso
recita, infatti,
“Gli impegni di spesa riguardanti gli incentivi per le funzioni tecniche di
cui all’articolo 113 del d.lgs. 50 del 2016, compresi i relativi oneri
contributivi ed erariali, sono assunti a carico degli stanziamenti di spesa
riguardanti i medesimi lavori, servizi e forniture cui si riferiscono, nel
titolo II della spesa ove si tratti di opere o nel titolo I, nel caso di
servizi e forniture. L’impegno è registrato, con imputazione all’esercizio
in corso di gestione, a seguito della formale destinazione al fondo delle
risorse stanziate in bilancio, nel rispetto dell’articolo 113, comma 2 e
seguenti ed è tempestivamente emesso il relativo ordine di pagamento a
favore del proprio bilancio, al Titolo terzo delle entrate, tipologia 500
“Rimborsi e altre entrate correnti”, categoria 3059900 “Altre entrate
correnti n.a.c.”, voce del piano dei conti finanziario E.3.05.99.02.001
Fondi incentivanti il personale (art. 113 del d.lgs. 50/2016). La spesa
riguardante gli incentivi tecnici è impegnata anche tra le spese di
personale, negli stanziamenti riguardanti il fondo per la contrattazione
integrativa, nel rispetto dei principi contabili previsti per il trattamento
accessorio e premiale del personale. La copertura di tale spesa è costituita
dall’accertamento di entrata di cui al periodo precedente, che svolge anche
la funzione di rettificare il doppio impegno, evitando gli effetti della
duplicazione della spesa.”
Nella richiesta di parere è stata richiamata anche la Circolare sul decreto
del Ministro per la pubblica amministrazione, attuativo dell’articolo 33,
comma 2, del decreto-legge n. 34 del 2019, convertito, con modificazioni,
dalla legge n. 58 del 2019, in materia di assunzioni di personale da parte
dei comuni (13.05.2020, emanata, di concerto, dai Ministri della
Funzione Pubblica, dell’Economia e delle Finanze e dell’Interno).
Ebbene, prescindendo dalla suddetta circolare, non rilevante ai fini della
determinazione della natura della spesa per incentivi tecnici, e
indipendentemente dalle modalità di doppia contabilizzazione di cui al
principio contabile, Allegato 4/2, paragrafo 5.2, nel testo risultante dal
D.M 01.08.2019, ritiene il Collegio che la natura della spesa per gli
incentivi tecnici sia quella risultante dal comma 5-bis dell’art. 113 del
codice degli appalti, come chiaramente evidenziato dalla Sezione delle
Autonomie nella richiamata
deliberazione 26.04.2018 n. 6 (cfr. anche la
deliberazione 30.10.2019 n. 26
e il
parere 14.12.2020 n. 120 della Sez. Emilia Romagna).
In sintesi, quindi, la Sezione ritiene che si debba dare risposta negativa
al primo quesito e che le spese sostenute per gli incentivi tecnici non
costituiscano spesa per il personale ai fini della determinazione della
capacità assunzionale, secondo la nuova normativa dell’art. 33, c. 2, del d.l.
34/2019 e ss.mm.ii.
Il secondo quesito posto dal Comune di Samarate (VA) risulta assorbito dalla
risposta al primo (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 07.05.2021 n. 73). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Nella
specie non è configurabile l’ipotesi della «grave inimicizia» dei due
componenti del collegio giudicante nei confronti del menzionato difensore,
dovendo questa essere reciproca sicché non è sufficiente ad integrarla la
mera presentazione di una denuncia o, comunque, di un atto di impulso idoneo
a dare inizio ad un procedimento giudiziale o disciplinare, ma la grave
inimicizia deve ricondursi a ragioni private di rancore o di avversione
sorte nell’ambito di rapporti estranei ai compiti istituzionali e alla
realtà processuale, con l’indicazione di correlativi fatti circostanziati,
concreti e specifici.
---------------
Ebbene, premesso che s’intendono qui richiamate, per ragioni di sinteticità
imposte dall’art. 3 cod. proc. amm., le esposizioni in fatto contenute a pp.
3-9 nella menzionata ordinanza n. 245/2019 del TRGA, reiettiva dell’istanza
di ricusazione, si rileva che il TRGA, nel respingere l’istanza –fondata
sulle ipotesi di «causa pendente» e di «grave inimicizia» tra
due dei magistrati componenti il collegio e uno dei difensori dei
ricorrenti, ai sensi degli artt. 18, comma 1, cod. proc., amm. e 51, comma
1, numero 3), cod. proc. civ.–, ha fatto corretta applicazione dei principi
giurisprudenziali elaborati da questo Consiglio di Stato in tema di
ricusazione, in quanto:
- l’ipotesi della «causa pendente», con riferimento al
processo penale, in applicazione del criterio interpretativo restrittivo e
tassativo sopra enunciato, deve ritenersi integrata soltanto con l’esercizio
dell’azione penale ai sensi degli artt. 60 e 405 cod. proc. pen.;
- infatti, la pendenza del giudizio penale presuppone la richiesta
del pubblico ministero di rinvio a giudizio a norma dell’art. 416 cod. proc.
pen. e con gli altri atti con i quali si chiede al giudice di decidere sulla
pretesa punitiva (v., ex plurimis –seppur con riferimento ed
fattispecie diverse dalla ricusazione–, Cons. Stato, Sez. VI, 13.03.2019, n.
1666; Cons. Stato, Sez. III, 22.01.2016, n. 206);
- nel caso di specie il procedimento penale iscritto sub R.G.N.R.
n. 813/2018 dinanzi al Tribunale di Bolzano, Sezione penale, a carico del
difensore degli originari ricorrenti su denuncia dei giudici ricusati
–peraltro, per ragioni che trovano la loro origine in un precedente processo
svoltosi dinanzi allo stesso TRGA, e quindi attinenti all’esercizio di
attività istituzionali–, non può essere considerato alla stregua di «causa
pendente» ai fini di cui al citato art. 51, comma 1, numero 3), cod. proc.
civ., poiché tale procedimento all’epoca della decisione di primo grado si
trovava nella fase di opposizione alla richiesta di archiviazione ai sensi
dell’art. 409 e ss. cod. proc. pen., formulata dai due magistrati ricusati,
e l’azione penale non risultava ancora esercitata dal pubblico ministero ai
sensi degli artt. 50 e 60 cod. proc. pen. (v., sul punto, Cons. Stato, Sez.
IV, 19.06.2003, n. 3658, secondo cui l’opposizione al decreto che abbia
disposto l’archiviazione dell’esposto penale, ai sensi del combinato
disposto degli artt. 50, comma 1, 405, comma 1, e 409, comma 5, cod. proc.
pen., non integra l’avvenuto esercizio dell’azione penale ed inibisce, di
conseguenza, che si configuri il presupposto della «causa pendente»
ex art. 51 cod. proc. civ., da intendere in senso tecnico-giuridico);
- anticipare la ‘soglia’ dei procedimenti penali, ai fini di
cui all’art. 51, comma 1, numero 3), cod. proc. civ., alla fase anteriore
all’esercizio dell’azione penale, comporterebbe, per un verso, il
pericolo di impedire e/o aggravare l’esercizio, da parte dell’organo
giudicante e/o dei suoi componenti, dei doveri istituzionali di presentare
rapporti o esposti ai competenti organi sia giurisdizionali (quali le
Procure presso i Tribunali o la Corte dei conti) sia disciplinari (quali i
Consigli degli ordini professionali), e, per altro verso, il rischio
di una possibile strumentalizzazione delle denunzie o degli esposti ad opera
delle parti private in funzione della creazione di situazioni di
incompatibilità per eludere il principio della precostituzione del giudice
naturale sancito dall’art. 25 Cost.;
- né nella specie è configurabile l’ipotesi della «grave
inimicizia» dei due componenti del collegio giudicante nei confronti del
menzionato difensore, dovendo questa essere reciproca sicché non è
sufficiente ad integrarla la mera presentazione di una denuncia o, comunque,
di un atto di impulso idoneo a dare inizio ad un procedimento giudiziale o
disciplinare, ma la grave inimicizia deve ricondursi a ragioni private di
rancore o di avversione sorte nell’ambito di rapporti estranei ai compiti
istituzionali e alla realtà processuale, con l’indicazione di correlativi
fatti circostanziati, concreti e specifici (v. in tal senso, ex plurimis,
Cass. civ., 31.10.2018, n. 27923; Cass. civ., ord. 24.09.2015, n. 18976; id.,
ord. 24.11.2014), nella specie né allegati né tanto meno provati.
Conclusivamente, il motivo all’esame deve essere disatteso (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 06.05.2021 n. 3556 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
aprile 2021 |
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: I compensi previsti dall’art. 32, comma 40, della L. n. 326/2003,
possono essere erogati, indipendentemente dal tempo trascorso tra la
presentazione della pratica di condono, il momento dell’avvenuta istruttoria
e il conseguenziale rilascio del titolo edilizio, presupposto legittimante
l’erogazione del relativo compenso, fermo restando l’avvenuto introito dei
relativi diritti e degli oneri.
Conditio sine qua non per la loro erogazione
è che i progetti finalizzati, da svolgere oltre l’orario di lavoro
ordinario, presentino i requisiti di cui al vigente CCNL delle “Funzioni
locali “(art. 68, comma 2), siano inseriti nel ciclo di gestione della
performance e siano ancorati ad un rigido e oggettivo sistema di misurazione
e valutazione dei risultati perseguiti
---------------
Il Sindaco del Comune di Pogliano Milanese (MI), con la richiesta sopra
citata, chiede un parere in merito alla legittima possibilità di riconoscere
un compenso ex art. 32, comma 40, della L. n. 326/2003, ove sia trascorso un
notevole lasso di tempo, tra la presentazione della pratica di condono, il
momento dell’avvenuta istruttoria e il conseguenziale rilascio del titolo
edilizio, presupposto legittimante l’erogazione del relativo compenso.
...
Passando alla trattazione nel merito della questione sottoposta all’esame di
questo Collegio, occorre, preliminarmente, precisare che con l. n. 662 del
23/12/1996, recante “Misure di razionalizzazione della finanza pubblica”,
- all’art. 2, c. 48, è stato previsto che “I comuni sono tenuti ad iscrivere
nei propri bilanci le somme versate a titolo di oneri concessori per la
sanatoria degli abusi edilizi in un apposito capitolo del titolo IV
dell’entrata. Le somme relative sono impegnate in un apposito capitolo del
titolo II della spesa. I comuni possono utilizzare le relative somme per far
fronte ai costi di istruttoria delle domande di concessione o di
autorizzazione in sanatoria, per anticipare i costi per interventi di
demolizione delle opere (…), per le opere di urbanizzazione primaria e
secondaria, per interventi di demolizione delle opere non soggette a
sanatoria entro la data di entrata in vigore della presente legge, nonché
per gli interventi di risanamento urbano ed ambientale delle aree
interessate dall’abusivismo. (…)”;
- al c. 49 è, quindi, previsto che “Per
l’attività istruttoria connessa al rilascio delle concessioni in sanatoria i
comuni possono utilizzare i fondi all’uopo accantonati, per progetti
finalizzati da svolgere oltre l’orario di lavoro ordinario, ovvero
nell’ambito dei lavori socialmente utili. I comuni possono anche avvalersi
di liberi professionisti ( ….)”.
Il legislatore è, successivamente, intervenuto nuovamente in materia, con il
D.L. n. 269 del 30/9/2003, recante “Disposizioni urgenti per favorire lo
sviluppo e la correzione dei conti pubblici”, convertito nella legge n. 326/2003,
il quale,
- all’art. 32, c. 40, dispone che “Alla istruttoria della domanda di
sanatoria si applicano i medesimi diritti e oneri previsti per il rilascio
dei titoli abilitativi edilizi. Come disciplinati dalle amministrazioni
comunali per le medesime fattispecie di opere edilizie. Ai fini
dell’istruttoria delle domande di sanatoria edilizia può essere determinato
dall’amministrazione comunale un incremento dei predetti diritti ed oneri
fino ad un massimo del 10% da utilizzare con le modalità di cui all’articolo
2, comma 46, della legge 23/12/1996, n. 662. Per l’attività istruttoria
connessa al rilascio delle concessioni in sanatoria i comuni possono
utilizzare i diritti e oneri di cui al precedente periodo, per progetti
finalizzati da svolgere oltre l’orario di lavoro ordinario”;
- il successivo
c. 41 dispone, infine, che “Al fine di incentivare la definizione delle
domande di sanatoria presentate ai sensi del presente articolo (…), il 50 %
delle somme riscosse a titolo di conguaglio dell’oblazione (ai sensi
dell’art. 35, c. 14, della l. 47 del 1985) è devoluto al comune interessato.
Con decreto interdipartimentale del Ministero delle infrastrutture e dei
trasporti e del Ministero dell’economia e delle finanze sono stabilite le
modalità di applicazione del presente comma”.
Dal dettato normativo sopra richiamato, a parere di questo Collegio, non si
evince un limite temporale entro cui l’attività istruttoria, a pena di
decadenza, deve espletarsi e/o avviarsi, ma il legislatore si limita a
prevedere il valore massimo di incremento dei diritti e degli oneri di
sanatoria (10%), nonché a precisare la tipologia di prestazione lavorativa
(progetti finalizzati) che ne legittima, quale conditio sine qua non,
l’erogazione.
Proprio in riferimento a tale profilo, cioè la sussistenza di “progetti
finalizzati da svolgere oltre l’orario di lavoro”, e non a quello della data
di avvio dell’istruttoria, deve valutarsi la compatibilità della predetta
previsione normativa, con il vigente ordinamento in tema di compensi
erogabili al personale dipendente.
Sotto questo aspetto, il Collegio ritiene compatibile la disposizione
normativa de qua, stante che il vigente CCNL delle “Funzioni locali”,
sottoscritto il 21.05.2018, all’ art. 68, comma 2, prevede l’erogazione di
“premi per la produttività individuale e di gruppo”, costituenti parte
variabile del trattamento accessorio del personale, finalizzati a
migliorare la produttività, l’efficienza e l’efficacia dei servizi,
all’interno dei quali va ricondotto, senza ombra di dubbio, il caso di
specie.
Presupposto legittimante l’erogazione, dunque, non è il maggior o minor
tempo decorso tra la data di presentazione della domanda di condono e
l’attività istruttoria, bensì che tali progetti finalizzati, da svolgere
oltre l’orario di lavoro ordinario, presentino i requisiti di cui CCNL sopra
richiamato, siano inseriti nel ciclo di gestione della performance e siano
ancorati ad un rigido e oggettivo sistema di misurazione e valutazione dei
risultati perseguiti.
P.Q.M.
La Corte dei conti –Sezione regionale di controllo per la Lombardia– si
pronuncia come segue sulla richiesta di parere della Regione Lombardia:
“I compensi previsti dall’art. 32, comma 40, della L. n. 326/2003,
possono essere erogati, indipendentemente dal tempo trascorso tra la
presentazione della pratica di condono, il momento dell’avvenuta istruttoria
e il conseguenziale rilascio del titolo edilizio, presupposto legittimante
l’erogazione del relativo compenso, fermo restando l’avvenuto introito dei
relativi diritti e degli oneri.
Conditio sine qua non per la loro erogazione
è che i progetti finalizzati, da svolgere oltre l’orario di lavoro
ordinario, presentino i requisiti di cui al vigente CCNL delle “Funzioni
locali “(art. 68, comma 2), siano inseriti nel ciclo di gestione della
performance e siano ancorati ad un rigido e oggettivo sistema di misurazione
e valutazione dei risultati perseguiti”
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere
12.04.2021 n. 54). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Divieto di monetizzazione delle ferie e cessazione del rapporto di lavoro.
Nel rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, il
mero fatto del mancato godimento delle ferie non dà titolo ad un
corrispondente ristoro economico: vige, cioè, il divieto di monetizzazione
delle ferie maturate e non godute, anche nei casi di cessazione del rapporto
di lavoro, con conseguente disapplicazione delle clausole contrattuali più
favorevoli per il dipendente
(CORTE di Appello di Roma, Sez. I, sentenza 06.04.2021 n. 1383 -
massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ferie, riposi e permessi non fruiti nei termini.
In base all’art. 5, comma 8, della legge 07.08.2012 n. 135 le ferie, i
riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica
dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche sono obbligatoriamente fruiti
secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in
nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi, anche
nel caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni,
risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età.
Il divieto di
corresponsione dell’indennità sostitutiva non risulta, infatti, applicabile
nell’ipotesi in cui il lavoratore non abbia potuto godere delle ferie per
malattia o per altra causa non imputabile.
---------------
Il ricorrente, militare transitato nei ruoli civili per ragioni di salute,
si duole del fatto che l’Amministrazione intimata abbia negato il suo
diritto a percepire l’indennità sostitutiva della licenza ordinaria di cui
egli non ha potuto fruire in corso di malattia per gli anni 2013, 2014 e
2015.
A seguito del decesso del Sig. -OMISSIS- il ricorso è stato riassunto dalla
Sig.ra -OMISSIS- in proprio e anche in qualità di genitore del figlio
minorenne -OMISSIS-, nonché per la Sig.ra -OMISSIS- in qualità di eredi.
Il Ministero fonda la sua decisione sull’art. 5, comma 8, della legge
07.08.2012 n. 135 in base al quale le ferie, i riposi ed i permessi
spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle
amministrazioni pubbliche sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto
previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla
corresponsione di trattamenti economici sostitutivi anche nel caso di
cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione,
pensionamento e raggiungimento del limite di età.
La predetta disposizione, sulla scorta dei pronunciamenti delle corti
superiori nazionali e sovranazionali, deve, tuttavia interpretarsi nel senso
che il divieto di corresponsione dell’indennità sostitutiva non risulta
applicabile tutte le volte che, come accaduto nella specie, il lavoratore
non abbia potuto fruire quando il lavoratore non abbia potuto godere delle
ferie per malattia o per altra causa non imputabile.
Ciò, in particolare, è quanto, dopo ampia disamina, ha di recente stabilito
in sede di ricorso straordinario la I Sezione del Consiglio di Stato con il
parere n. 154 del 20/01/2020 che il Collegio condivide soprattutto in merito
alla necessità di non porre l’ordinamento nazionale in contrasto con quanto
stabilito dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza in causa 341/15 del
20/07/2016 che ha fatto applicazione dell'articolo 7, paragrafo 2, della
direttiva 2003/88 in base al quale l’inderogabile diritto alle ferie
retribuite è surrogato da una indennità finanziaria tutte le volte che il
lavoratore per causa a lui non imputabile non riesca a beneficarne.
Il ricorso deve essere, quindi, accolto con conseguente obbligo del
Ministero di erogare l’indennità sostitutiva richiesta
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 06.04.2021 n. 477 - massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
febbraio 2021 |
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Diritto
alla monetizzazione delle ferie non godute.
Il diritto alla monetizzazione del congedo ordinario (non fruito) matura
ogni qualvolta il dipendente non ne abbia fruito (ovvero non abbia potuto
disporre e godere delle sue ferie) a cagione di obiettive esigenze di
servizio e comunque per cause da lui non dipendenti o a lui non imputabili.
Quindi, il divieto di monetizzazione delle ferie di cui all’art. 5, comma 8,
d.l. 06.07.2012 n. 95 va interpretato nel senso che tale disciplina non
pregiudica il diritto alle ferie ove prevede che non si possano
corrispondere in nessun caso trattamenti economici sostitutivi, giacché
correla il contestato divieto a fattispecie in cui la cessazione del
rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o un comportamento del
lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento,
raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentono di pianificare
per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario
contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le
preferenze manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo, sicché
la norma in parola va interpretata come diretta a reprimere il ricorso
incontrollato alla monetizzazione delle ferie non godute, contrastandone gli
abusi, e a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie,
per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e favorire
comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro, senza arrecare
pregiudizio al lavoratore incolpevole.
---------------
Il ricorso è fondato.
La monetizzazione delle ferie non godute è stata, di recente, oggetto di
intervento legislativo relativamente recente atto a vietare l’applicazione
dell’istituto in avvenire per esigenze di carattere finanziario.
L’art. 5, comma 8, del d.l. 95 del 2012, convertito con modificazioni dalla
legge 07.08.2012, n. 135, prevede che “Le ferie, i riposi ed i permessi
spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle
amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della
pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di
statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 2, della legge
31.12.2009, n. 196, nonché delle autorità indipendenti ivi inclusa la
Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob), sono
obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti
e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti
economici sostitutivi. La presente disposizione si applica anche in caso di
cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione,
pensionamento e raggiungimento del limite di età. Eventuali disposizioni
normative e contrattuali più favorevoli cessano di avere applicazione a
decorrere dall’entrata in vigore del presente decreto. La violazione della
presente disposizione, oltre a comportare il recupero delle somme
indebitamente erogate, è fonte di responsabilità disciplinare ed
amministrativa per il dirigente responsabile. Il presente comma non si
applica al personale docente e amministrativo, tecnico e ausiliario
supplente breve e saltuario o docente con contratto fino al termine delle
lezioni o delle attività didattiche, limitatamente alla differenza tra i
giorni di ferie spettanti e quelli in cui è consentito al personale in
questione di fruire delle ferie.“
La giurisprudenza amministrativa ha, tuttavia, inteso la norma sopra citata
nel senso che “Il diritto alla monetizzazione del congedo ordinario (non
fruito) matura ogni qualvolta il dipendente non ne abbia fruito (ovvero non
abbia potuto disporre e di godere delle sue ferie) a cagione di obiettive
esigenze di servizio e comunque per cause da lui non dipendenti o a lui non
imputabili. Quindi, il divieto di monetizzazione delle ferie di cui all'art.
5, comma 8, d.l. 06.07.2012 n. 95 va interpretato nel senso che tale
disciplina non pregiudica il diritto alle ferie ove prevede che non si
possano corrispondere in nessun caso trattamenti economici sostitutivi,
giacché correla il contestato divieto a fattispecie in cui la cessazione del
rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o un comportamento del
lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento,
raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentono di pianificare
per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario
contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le
preferenze manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo, sicché
la norma in parola va interpretata come diretta a reprimere il ricorso
incontrollato alla monetizzazione delle ferie non godute, contrastandone gli
abusi, e a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie,
per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e favorire
comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro, senza arrecare
pregiudizio al lavoratore incolpevole” (TAR Roma, (Lazio) sez. I,
10/02/2020, n. 1712).
Nel caso di specie, il ricorrente, pur avendo manifestato in maniera
inequivocabile la volontà di usufruire del residuo periodo di ferie per
l’anno 2013, non è stato materialmente posto nella condizione di
beneficiarne. Tanto è accaduto perché, in maniera inaspettata, il ricorrente
è stato portato a conoscenza, solo in data 10.12.2013, dell’abbassamento
delle note caratteristiche, circostanza che ha determinato il suo
collocamento obbligatorio in congedo.
La mancata fruizione dei 36 giorni di ferie è pertanto dipesa da un evento
non imputabile a colpa del dipendente. In presenza di queste circostanze, il
diniego opposto dall’amministrazione alla monetizzazione del congedo
ordinario non fruito è connotato da illegittimità non essendosi tenuto conto
della non imputabilità della mancata fruizione del congedo ordinario da
parte del ricorrente.
Alla stregua delle argomentazioni che precedono, il ricorso è accolto; ne
consegue l’annullamento del provvedimento impugnato e l’accertamento del
diritto del ricorrente (dei suo eredi) a conseguire la monetizzazione di 36
giorni di ferie non godute relativamente all’anno 2013 (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 24.02.2021 n. 326 -
massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: P.
L. Portaluri,
Pensieri scomposti sugli incarichi
dirigenziali (24.02.2021 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Abstract: Il tema degli incarichi dirigenziali si muove su un
crinale indeterminato tra pubblico e privato. Nonostante l’orientamento
ormai noto e granitico della Cassazione, resta invero irrisolto il problema
della loro esclusiva funzionalizzazione alla cura degli interessi pubblici,
che ne esclude la loro equiparazione a uffici di diritto comune.
Ciò rileva non solo nell’ambito della nomina e della revoca di questi
incarichi, ancora caparbiamente radicate nell’ambito giuslavoristico e
invece meglio confacenti al genus degli atti amministrativi, ma anche
nell’ambito della responsabilità e del danno erariale. Gli aspetti che
legano inestricabilmente la dirigenza agli interessi pubblici rendono
pertanto ancor oggi il giudice ordinario poco attrezzato nel tutelare le
posizioni giuridiche che si avvicendano nelle controversie concernenti gli
incarichi dirigenziali: lo scritto riflette –nel solco di attenta dottrina–
sulla opportunità di radicare la giurisdizione innanzi al Giudice
amministrativo.
---------------
Sommario: 1. Revoca degli incarichi dirigenziali: i profili dubbi. 2.
Riflessi giurisdizionali della privatizzazione del pubblico impiego. 3.
L’incarico dirigenziale tra ius commune e ius publicum. 4. Sulla natura
pubblica della revoca (e del conferimento) degli incarichi dirigenziali. 5.
L’interesse pubblico quale elemento decisivo per la natura giuridica degli
incarichi e per le forme di tutela. |
gennaio 2021 |
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PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing: presupposti.
L’elemento oggettivo della fattispecie del mobbing è integrato dai
ripetuti soprusi legati tra loro dall’intento persecutorio nei confronti
della vittima (Consiglio di Stato, Sez. II,
sentenza 19.01.2021 n. 591
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
11.1 Lamenta il ricorrente di aver subìto nel
tempo atti e comportamenti vessatori, alcuni dei quali concretizzatisi nella
dequalificazione delle mansioni, ad opera dei vari Dirigenti o comunque dei
superiori gerarchici succedutisi ai vertici del Reparto di appartenenza. In
altri termini, nei suoi confronti sarebbe stata portata avanti una strategia
complessiva da una pluralità di soggetti, finalizzata a danneggiarlo ed
isolarlo dal contesto, integrante gli estremi del cosiddetto mobbing.
12. L'individuazione della cornice definitoria del fenomeno, in assenza di
indicazioni normative, è ormai agevolata dai numerosi arresti
giurisprudenziali, penali, civili, amministrativi e contabili,
sostanzialmente convergenti verso l’enucleazione di principi comuni.
La Sezione ritiene sufficiente qualche cenno al riguardo, onde attualizzare
il paradigma giuridico rispetto alla già chiara ricostruzione del Tar,
allo scopo di valutare la correttezza della valutazione effettuata di
insussistente sovrapponibilità degli accadimenti in esame rispetto allo
stesso. Il Giudice amministrativo ha dunque confermato, con considerazioni
cui ci si riporta, che “l’elemento oggettivo
della fattispecie del mobbing è integrato dai ripetuti soprusi legati tra
loro dall'intento persecutorio nei confronti della “vittima”” (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV,
07.02.2019, n. 910).
La tradizionale
distinzione tra c.d. mobbing verticale o bossing, e c.d. mobbing
orizzontale, in ragione del soggetto attuatore delle condotte vessatorie (il
superiore gerarchico o un collega), nel caso di specie parrebbe non
rilevare, venendo in evidenza entrambe le componenti. Il ricorrente,
infatti, non si diffonde nella ricerca delle responsabilità soggettive, con
ciò accomunando nella narrazione condotte e atti posti in essere da autori
diversi per i quali la riconducibilità ad un unitario disegno persecutorio
appare tutt’altro che provata.
13. Il Collegio rileva, infatti, come sotto il profilo dell’elemento
psicologico si renda necessario che gli accadimenti siano tutti sussumibili
sotto l’egida unificante del dolo generico o specifico di danneggiare
psicologicamente la personalità del lavoratore, emarginandolo, sulla base di
un’unica strategia. Singoli atti riconducibili all’ordinaria dinamica del
rapporto di lavoro, perfino se conflittuale a cagione di antipatia,
sfiducia, scarsa stima professionale, ove non caratterizzati da tale
volontà, non assumono rilievo nella necessaria visione d’insieme del
fenomeno. La ricorrenza di un’ipotesi di condotta mobbizzante deve essere
pertanto esclusa allorquando la valutazione complessiva dell'insieme di
circostanze addotte ed accertate nella loro materialità, pur se idonea a
palesare singulatim elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro,
non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il
richiamato carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei
confronti del singolo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 15.10.2018, n. 5905).
Nelle premesse, l’appellante ripercorre i profili della vicenda esaminati
dal verificatore nel corso del giudizio di prime cure al fine di coglierne
pretesi errori, ma l’intento che ispira la parte non può dirsi raggiunto
avendo l’istruttoria disposta dal Tar consentito di appurare
l’inconsistenza degli episodi enumerati nel ricorso originario al fine di
integrare la prospettata condotta mobbizzante. A nulla rileva la
circostanza, evidenziata in appello, del mancato compiuto godimento del
periodo di congedo straordinario, comunque consentito dall’Ufficio così come
non si evince l’effettivo pregiudizio patito dal ricorrente per effetto
della mancata iniziativa assunta dall’Ufficio ai fini dell’invio della
pratica alla Commissione Medica Ospedaliera (mancanza alla quale ha
sopperito lo stesso ricorrente) o al difetto di informazione in ordine alla
indizione degli interpelli nel periodo in cui il dipendente era in malattia.
14. Chiarito quanto sopra, il Collegio può passare a vagliare la complessa
vicenda sottesa alle deduzioni del ricorrente, avuto riguardo peraltro alla
dualità delle richieste avanzate: in primo luogo, il danno da quello da
mobbing; indi da mancata adozione delle misure a tutela della salute del
lavoratore.
Ora, è noto che l’analisi del mobbing, per la particolare sensibilità della
relativa tematica, impone al giudice di evitare di assumere acriticamente
l’angolo visuale prospettato dal lavoratore che asserisce di esserne
vittima: da un lato, infatti, è possibile che i comportamenti del datore di
lavoro (cui siano imputabili in ipotesi le condotte illecite di altri
dipendenti) non siano tali da provocare significative sofferenze e disagi,
se non in personalità dotate di una sensibilità esasperata o addirittura
patologica; dall’altro, che gli atti relativi siano di per sé ragionevoli e
giustificati, in quanto indotti da comportamenti reprensibili dello stesso
interessato, ovvero da sue carenze sul piano lavorativo, o da difficoltà
caratteriali.
In altre parole, non si deve sottovalutare l’ipotesi che
l’insorgere di un clima di cattivi rapporti umani e l’insorgere di
comportamenti oggettivamente sgraditi derivi, almeno in parte, anche da
responsabilità dell’interessato; tale ipotesi può, anzi, essere
empiricamente convalidata dalla considerazione che diversamente non si
spiegherebbe perché solo un determinato individuo percepisca come ostile una
situazione che invece i suoi colleghi trovano normale, pur non essendo tale.
Tale cautela di giudizio si impone particolarmente quando l’ambiente di
lavoro presenta delle peculiarità, come nel caso delle Amministrazioni
militari o gerarchicamente organizzate, quali i Corpi di Polizia,
caratterizzate per definizione da una severa disciplina e nelle quali non
tutti i rapporti possono essere amichevoli, non tutte le aspirazioni possono
essere esaudite, non tutti i compiti possono essere piacevoli e non tutte le
carenze possono essere tollerate.
L’appellante, conseguita la qualifica di Assistente Capo in data 28.08.2003, valorizza una serie di episodi asseritamente idonei ad integrare una
vera e propria condotta persecutoria ai suoi danni a decorrere dal mese di
luglio 2006 per circa un biennio, che tuttavia appaiono slegati fra di loro
invece che essere avvinti da quel filo conduttore che consenta di
riconfigurarli quali tasselli di una fattispecie complessa. Come rammentato,
di recente, dalla Sezione (sentenza 11.03.2020, n. 1746), per costante e
condivisa giurisprudenza (ex aliis Cassazione civile, sez. lav., 11.12.2019, n. 32381) “il mobbing lavorativo è configurabile ove ricorrano due
elementi: quello oggettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del
datore di lavoro, e quello soggettivo, integrato dall'intendimento
persecutorio del datore medesimo; quest'ultimo richiede che siano posti in
essere atti, contro la vittima, in modo miratamente sistematico e prolungato
nel tempo, direttamente dal datore o di un suo preposto o di altri
dipendenti, comunque sottoposti al potere gerarchico dei primi due”. E’
proprio tale indefettibile elemento soggettivo che non trova in alcun modo
riscontro negli atti di causa.
Per quanto riguarda poi l’asserito demansionamento, questo Consiglio di
Stato ha già avuto modo di affermare (v. da ultimo, Cons. Stato, sez. III,
27.02.2019, n. 1371) che “il prestatore di lavoro, che chiede la
condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito a causa della
lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base
alla qualifica professionale rivestita (lesione idonea a determinare la dequalificazione del dipendente stesso), deve fornire la prova
dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento,
prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una
valutazione equitativa (ex multis,Cass. Civ. sez. lav., 05.12.2008, n.
28849)”.
A fronte di ciò parte appellante si limita ad affermare che il
mancato rispetto dell’assetto mansionistico di riferimento si sarebbe
verificato “in svariate occasioni” senza tuttavia esporre un quadro fattuale
più dettagliato, anche di tipo probatorio, anzi invocando l’applicazione del
“principio di cui all’art. 116 c.p.c.” (cfr. pagina 14 dell’appello). Ora, a
prescindere dalla effettiva ricaduta applicativa di tale principio nel
processo amministrativo (in tema, Cons. Stato, sez. VI, 27.02. 2018, n.
1160, secondo cui “il principio di “non contestazione” di cui agli artt. 115
e 116 cod. proc. civ. trova nel processo amministrativo di legittimità
un’applicazione temperata dalla particolare struttura di quest’ultimo, che
di regola fa seguito ad un procedimento amministrativo, le cui risultanze,
tradotte nei relativi atti, vanno tenute per ferme, quanto meno sino a prova
contraria”) è fuor di dubbio che, in caso di proposizione di domanda risarcitoria, l’onere della prova incombe sull’istante secondo il principio
generale previsto dall’art. 2697 c.c. (Cons. Stato, sez. III, 24.12.2019, n. 8813).
Nel caso di specie, alla luce di quanto innanzi esposto, non
risulta integrata la prova della sussistenza del danno, né degli specifici
aspetti riconducibili a responsabilità del datore di lavoro pubblico, che
avrebbero privato il lavoratore dello svolgimento di uno o più dei profili mansionistici afferenti alla propria qualifica, tali da potersi ricollegare
causalmente ad un danno subìto e che, come si è detto, è rimasto non
provato. Parte appellante insiste nel ritenere di essere stato indebitamente
adibito al servizio di sentinella ancorché esso, all’esito dell’istruttoria,
non sia risultato estraneo alle proprie mansioni e comunque non può
escludersi che si sia palesata l’esigenza di provvedere, peraltro per un
ristretto arco temporale, all’adibizione del ricorrente al suo espletamento.
15. Parte appellante insiste, altresì, per la domanda di risarcimento del
danno per la mancata adozione delle misure necessarie alla tutela
dell’integrità psico-fisica del lavoratore ai sensi dell’art. 2087 c.c.
evidenziando l’alterità di tale istanza rispetto a quella di risarcimento
del danno per mobbing.
Per vero, l’art. 2087 c.c. –secondo cui il datore di lavoro è tenuto ad
adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e
la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità
morale dei prestatori di lavoro– può trovare applicazione anche al di fuori
delle ipotesi di mobbing. Ove il lavoratore chieda il risarcimento del danno
patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità
di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura
asseritamente vessatoria, il giudice del merito, pur nella accertata
insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli
episodi addotti dall'interessato e quindi della configurabilità di una
condotta di mobbing, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti
denunciati —esaminati singolarmente, ma sempre in sequenza causale— pur
non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere
considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano
ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato
a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili (Cons. Stato, sez. VI,
12.03.2015, n. 1282).
Orbene, la domanda risarcitoria postula però la
lesione dell’integrità psico-fisica del lavoratore di cui non vi è traccia
negli atti di causa. Anche tale domanda va quindi respinta.
16. Va infine disattesa l’istanza di indagine medico legale sull’effettivo
stato di salute del dipendente sia perché non viene in considerazione alcun
evento potenzialmente traumatico in grado di autonomamente inficiare
l’integrità psico-fisica dell’appellante sia perché il giudice non può
sopperire al mancato espletamento dell’onere probatorio, come detto,
incombente alla parte ricorrente in caso di proposizione di domanda
risarcitoria.
11. In conclusione, l’appello è infondato e deve essere respinto. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA – DIRITTO PROCESSUALE –
Assenza ingiustificata dal servizio – Falsa attestazione
della presenza in servizio di un dipendente della P.A. –
Art. 55-quater D.Lgs. 165 del 2001 – Art. 55-quinquies D.Lgs.
n. 165 del 2001 – Art. 16, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 75
del 2017 – Effetti della sentenza di patteggiamento ex art.
444 c.p.p. – Prova di tipo presuntivo – Art. 651 c.p.p.
Al fine di valutare la sussistenza della
responsabilità erariale, la giurisprudenza contabile ha
ripetutamente affermato che la sentenza di patteggiamento
emessa in sede penale ha un valore probatorio qualificato,
pur non essendo precluso al giudice contabile l’accertamento
e la valutazione dei fatti in modo difforme da quello
contenuto nella sentenza resa ai sensi dell’art. 444 c.p.p.;
tale valore è, di conseguenza, superabile solo attraverso
specifiche prove contrarie.
Va considerato, infatti, che il giudice penale, prima di
applicare la pena su richiesta della parte, deve verificare
di non dovere pronunciare sentenza di proscioglimento
dell’imputato a norma dell’art. 129 c.p.p., ove il fatto non
sussista ovvero per altri motivi sussumibili in altre
formule assolutorie.
Pertanto, pur non essendo assistita dall’efficacia
vincolante che deriva dalle sentenze emesse a seguito di
dibattimento ex art. 651 c.p.p., la sentenza ex art. 444
c.p.p. costituisce una prova di tipo presuntivo, la cui
eventuale affermazione di irrilevanza obbliga il giudice
contabile a dare ampia motivazione sulle ragioni per le
quali l’imputato abbia chiesto di essere condannato e il
giudice penale non abbia disposto il proscioglimento in
assenza della responsabilità penale.
Ciò è confermato dalla costante giurisprudenza della
Cassazione, che ha affermato che la sentenza penale di
applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444
c.p.p. costituisce un indiscutibile elemento di prova per il
giudice di merito.
...
DANNO ERARIALE – Danno all’immagine della P.A. – Danno non
patrimoniale – Art. 2059 c.c. – Lesione dei principi di
imparzialità e di buon andamento della P.A. ex art. 97 Cost.
– Quantificazione del danno all’immagine – Art. 155, comma
2, c.p.c. – Art. 2727 c.c.
La lesione del diritto della P.A.
all’integrità della propria immagine è causa di danno non
patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c. sia
sotto il profilo della sua reputazione presso i consociati
in genere o presso quei settori con i quali l’Ente
interagisce, sia sotto il profilo dell’incidenza negativa
che la sminuita considerazione cagiona nell’agire dei suoi
organi. La tutela dell’immagine è strettamente connessa al
rispetto dei princìpi di imparzialità e di buon andamento
della P.A. sanciti dall’art. 97 Cost.
Secondo la giurisprudenza contabile, pertanto, la violazione
del diritto alla reputazione della P.A., pur trattandosi di
un danno non patrimoniale, può essere oggetto di valutazione
economica, concretizzandosi determinando un onere
finanziario a carico della collettività.
Per quanto concerne, poi, la quantificazione di tale danno
–da compiersi in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226
c.c.– i parametri nel giudizio contabili debbono essere
forniti dall’attore pubblico. In aggiunta, il giudice può
avvalersi anche dei fatti notori (ex art. 115, comma 2,
c.p.c.) e delle presunzioni (ex art. 2727 ss. c.c.) (Corte
dei Conti, Sez. giurisdiz. Sicilia,
sentenza 13.01.2021 n. 38 - link a www.ambientediritto.it). |
dicembre 2020 |
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ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Troppe
pause caffè? È truffa continuata ma il reato è impunito se il danno alla Pa
è lieve.
Particolare tenuità del fatto applicabile anche al reato continuato, se il
pregiudizio, da calcolare in base allo stipendio, non è rilevante e manca
una propensione al crimine da parte degli amanti del break al bar.
Lo stipendio basso evita agli impiegati della pubblica amministrazione,
habitué della pausa caffè al bar, di essere puniti per truffa continuata. A
far scattare, malgrado la continuità, la possibilità di applicare la norma
sulla particolare tenuità del fatto (articolo 131-bis del Codice penale) il
danno lieve provocato e la scarsa propensione al crimine.
Nel caso esaminato
il reato era prescritto, ma la Cassazione (Sez. II penale,
sentenza 31.12.2020 n. 37913) analizza comunque la condotta
prendendo le distanze dalla decisione della Corte d’appello che aveva
condannato per truffa continuata alcuni impiegati di una prefettura.
Le violazioni ripetute
Ai patiti del coffee break in un bar di fronte al luogo di lavoro, era stata
contestata un’assenza di circa 16 ore per un totale di circa 140 euro,
calcolati in base alla retribuzione degli impiegati che uscivano senza
passare il badge. Per la Suprema corte la sentenza della Corte d’Appello era
contraddittoria per più ragioni: gli episodi erano stati contestati come
singoli fatti di reato però era stata affermata la continuazione. In più era
stata negata la particolare tenuità del fatto perché le condotte, in quanto
reiterate, potevano essere definite abituali. Circostanza questa che, ad
avviso dei giudici territoriali, avrebbe impedito di riconoscere la non
punibilità.
L’apprezzabilità del danno
Per quanto riguarda l’apprezzabilità del danno, da tarare sullo stipendio,
la Suprema corte ricorda che la truffa si doveva ritenere consumata al
momento della percezione della retribuzione, quindi gli episodi andavano
spalmati su più mensilità. Sbagliato anche il presupposto in base al quale
era stato negato il beneficio previsto dall’articolo 131-bis. Secondo la
giurisprudenza della Suprema corte più recente, infatti, la continuità tra i
reati non rappresenta più, in astratto, un ostacolo insormontabile.
Il
giudice deve valutare se la condotta sia la manifestazione di una situazione
episodica, se la lesione dell’interesse tutelato è minimale, oltre alla
gravità del reato e alla capacità delinquenziale di chi lo commette.
Considerazioni che giocano a favore dei ricorrenti, la cui ammissibilità del
ricorso consente di affermare anche la prescrizione del reato.
Anche nella
sua complessità il danno era tenue, malgrado il Pm avesse fissato la soglia
massima di “tolleranza” in 50 euro, e certo la caratura criminale dei
patiti della moka non era un elemento che li qualificava.
Visto il metro utilizzato per calcolare il danno magari con le pause caffè
reiterate qualche rischio in più lo possono correre i dirigenti che hanno un
stipendio più pesante
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.01.2021). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: È
truffa ai danni dello Stato l’allontanamento arbitrario dal posto di lavoro
per la pausa caffè.
Pronunciandosi sul ricorso proposto avverso la sentenza
con cui la Corte d’appello, confermando il giudizio di responsabilità penale
nei confronti di quattro impiegati di una Prefettura per il reato di truffa
ai danni dello Stato, la Corte di Cassazione –nel ritenere non
manifestamente infondati i motivi di ricorso proposti dagli imputati- ha
dichiarato estinto per prescrizione il reato ascritto a ciascuno degli
impiegati, ribadendo che nell'ipotesi di truffa, consistente nella
fraudolenta percezione di emolumenti mensili, il reato si consuma all'atto
della riscossione e non quando, per effetto della frode, viene
illegittimamente a maturazione il diritto alla riscossione.
---------------
2.1.1 Partendo dal ricorso proposto nell'interesse del Fl., va rilevato, in
primo luogo, come non possa ritenersi manifestamente infondato il primo
motivo con cui il ricorrente ha lamentato violazione di legge e vizio di
motivazione sul profilo della "apprezzabilità" del pregiudizio patrimoniale
cagionato dalla propria condotta al datore di lavoro; a tal proposito, non
diversamente da quanto aveva segnalato con l'atto di appello, la difesa
rileva come la contestazione avesse avuto ad oggetto una serie di episodi di
allontanamento dal posto di lavoro della durata di pochi minuti ciascuno
connessi alla "pausa caffè" da consumare presso il bar antistante la
Prefettura e per un tempo stimato complessivamente in 16 ore corrispondenti
a 140 Euro di retribuzione; aggiunge che i singoli episodi erano stati
contestati come singoli fatti di reato mentre la truffa avrebbe dovuto
semmai ritenersi consumata al momento della percezione della retribuzione
mensile (comprensiva della quota in ipotesi non dovuta) e, nel caso di
specie, corrispondenti alla percezione delle cinque mensilità interessate
nell'ambito delle quali i singoli allontanamenti avrebbero dovuto essere
sommati; di qui, secondo il ricorrente, la contraddittorietà della
motivazione che, da un lato, ha considerato i singoli allontanamenti come
singole ipotesi di reato per poi parametrare il danno patrimoniale subito
dalla PA in quello complessivamente considerato non tenendo conto, invece,
che esso avrebbe dovuto essere stimato in una media mensile di Euro 28,00
mentre ogni singolo allontanamento, sulla scorta della retribuzione oraria
percepita, sarebbe stato corrispondente ad un importo di Euro 3,00.
Ebbene, i fatti sono stati considerati effettivamente in termini di truffa "continuata"
e, come tali, sanzionati dal Tribunale che aveva operato un doppio aumento
avendo ritenuto la continuazione con il diverso reato di cui all'art.
55-quinquies del D.Lg.vo 165 del 2001 ma, anche, la continuazione "interna"
tra i singoli episodi.
A fronte dei rilievi difensivi, la Corte di Appello (cfr., pag. 113 della
sentenza impugnata) ha sostenuto che la S.C., quando ha parlato della
necessaria esistenza di un danno "apprezzabile", non ha in realtà
individuato una "soglia" di punibilità né, a suo avviso, tale poteva
essere ritenuta la "soglia" utilizzata dal PM per selezionare le
posizioni da archiviare e che era stata fissata in 10 Euro; fatta questa
premessa, ha chiarito che "... un danno non apprezzabile può essere
ritenuto nei casi di assenza francamente limitate al massimo nel complesso
ad alcun ore, indicativamente pari ad una retribuzione inferiore ai 50 Euro"
(cfr., ivi).
In tal modo, perciò, da un lato ha valutato le assenze contestate come
singole ipotesi di reato salvo, poi, quantificare il pregiudizio
patrimoniale arrecato alla P.A. "accorpando" e "cumulando"
tutte le assenza per ciascuno degli imputati nell'intero arco di tempo
vagliato nel corso delle indagini e considerato nella imputazione e, perciò,
superiore al limite indicato.
Il motivo di ricorso, pertanto, non può certamente essere considerato "manifestamente
infondato" meritando considerazione anche alla luce del richiamato
orientamento di questa stessa Corte secondo cui nell'ipotesi di truffa,
consistente nella fraudolenta percezione di emolumenti mensili, il reato si
consuma all'atto della riscossione e non quando, per effetto della frode,
viene illegittimamente a maturazione il diritto alla riscossione (cfr.,
Cass. Pen., 5, 30.05.1985 n. 8.296, Burolo).
2.1.2 Né, del pari, manifestamente infondato può ritenersi il secondo
motivo del ricorso del Fl. con cui la difesa del ricorrente denunzia
violazione di legge con riguardo al disposto di cui all'art. 131-bis cod.
pen..
Rileva, infatti, come la Corte di Appello abbia respinto la richiesta
difensiva ritenendo che si fosse in presenza di condotte reiterate e
pertanto abituali e, in particolare, sulla scorta di un precedente non
conferente al caso di specie segnalando inoltre, l'esistenza, sul punto, di
un contrasto in giurisprudenza sulla possibilità di applicazione della causa
di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen.
Ebbene, la Corte di Appello, replicando a tutti gli imputati che avevano
avanzato richiesta di applicazione della causa di non punibilità di cui
all'art. 131-bis cod. pen., ha replicato (cfr., pagg. 138-139 della sentenza
impugnata) sostenendo di dover condividere la decisione del Tribunale "poiché
in tutti i casi trattati ci si trova di fronte a condotte reiterate che
possono ben essere definite abituali (...)".
La motivazione della sentenza si lega, in realtà, alla questione esaminata
in precedenza e, in particolare, alla qualificazione dei singoli episodi
come singole e specifiche ipotesi di reato tra le quali è stato ravvisato il
vincolo della continuazione che, secondo alcune decisioni di questa Corte,
non consentirebbe di ritenere la causa di non punibilità in esame per
essersi in presenza di una condotta "abituale" (cfr., Cass. Pen., 5,
14.11.2016 n. 4.852, De Marco; Cass. Pen., 2, 15.11.2016 n. 1, Cattaneo;
Cass. Pen., 2, 05.04.2017 n. 28341, Modon; Cass. Pen., 5, 15.05.2017 n.
48352, PG in proc. Mogoreanu; Cass. Pen., 1, 24.10.2017 n. 55450, Greco;
Cass. Pen., 6, 13.12.2017 n. 3353, Lesmo ed altro).
Quest'ultima affermazione, nella sua assolutezza, è certamente discutibile
alla luce del più recente e condivisibile orientamento della Corte secondo
cui la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del
fatto di cui all'art. 131-bis cod. pen. può ben essere ritenuta anche in
presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, purché non
espressivi di una tendenza o inclinazione al crimine (cfr., Cass. Pen., 2,
06.06.2018 n. 41011, Ba Elhadji, in cui la Corte ha precisato che occorre
soppesare l'incidenza della continuazione in tutti i suoi aspetti, quali
gravità del reato, capacità a delinquere, precedenti penali e giudiziari,
durata temporale della violazione, numero delle disposizioni di legge
violate, effetti della condotta antecedente, contemporanea o susseguente al
reato, interessi lesi o perseguiti dal reo e motivazioni -anche indirette-
sottese alla condotta; conf., Cass. Pen., 2, 07.02.2018 n. 9495, PG in proc.
Grasso; Cass. Pen., 5. 26.03.2018 n. 32626, P.; Cass. Pen., 4, 11.12.2018 n.
4649, PG in proc. Xhafa; Cass. Pen., 2, 10.09.2019 n. 42579, D'Ambrosio;
Cass. Pen., 4, 13.11.2019 n. 10111, PG in proc. De Angelis; Cass. Pen., 2,
27.01.2020 n. 11591, T.)
In altri termini, si è affermato il principio per cui, di per sé solo, il
fatto che il reato per il quale si chieda il riconoscimento della causa di
non punibilità sia stato posto in continuazione con altri non osta, in
astratto, alla operatività dell'istituto dovendosi tuttavia valutare, anche
alla luce del suo inserimento in un contesto più articolato, se la condotta
in esame sia espressione di una situazione episodica, se la lesione
all'interesse tutelato sia comunque minimale e, in definitiva, se il "fatto"
nella sua complessità, sia meritevole di un apprezzamento in termini di
speciale tenuità.
Va ricordato che il giudizio sulla tenuità del fatto, quale presupposto per
la applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod.
pen., richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità
della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell'art. 133, primo
comma, (quindi sotto il profilo della oggettività della condotta) cod. pen.,
delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile
e dell'entità del danno o del pericolo (cfr., Cass. SS.UU., 25.02.2016 n.
13681, Tushaj); per altro verso, si è chiarito che, pur dovendosi far
riferimento agli indici di cui all'art. 133 cod. pen., non è necessaria la
disamina di tutti gli elementi di valutazione ivi previsti, essendo
sufficiente l'indicazione di quelli ritenuti rilevanti (cfr., Cass. Pen., 6,
08.11.2018 n. 55107, Milone) e che è da ritenersi adeguata la motivazione
che dia conto dell'assenza di uno soltanto dei presupposti richiesti
dall'art. 131-bis ritenuto, in quanto giudicato, evidentemente, decisivo (cfr.,
Cass. Pen., 3, 18.06.2018 n. 34.151, Foglietta).
Da ultimo, si è pure chiarito che la motivazione con la quale si neghi la
applicazione della causa di non punibilità può risultare anche
implicitamente dall'argomentazione con la quale il giudice d'appello abbia
considerato gli indici di gravità oggettiva del reato e il grado di
colpevolezza dell'imputato, alla stregua dell'art. 133 cod. pen., per
stabilire la congruità del trattamento sanzionatorio irrogato dal giudice di
primo grado (cfr., Cass. Pen., 5, 14.12.2018 n. 15658, D.; Cass. Pen., 5,
08.03.2017 n. 24780, Tempera, in cui la Corte ha ritenuto infondato il
motivo di ricorso relativo all'assenza di motivazione in ordine alla causa
di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen., ravvisando nel
passaggio della motivazione della sentenza della corte di appello relativo
alla sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 61, n. 1, cod. pen., che
l'appellante chiedeva di escludere, un'implicita esclusione della
particolare tenuità del fatto; conf., ancora, Cass. Pen., 3, 11.10.2016 n.
48317, Scopazzo).
Ecco, allora, che la motivazione della Corte di Appello può effettivamente
prestarsi a rilievi di inadeguatezza che non possono di certo ritenersi
manifestamente infondati (Corte di Cassazione, Sez. II penale,
sentenza 31.12.2020 n. 37913). |
novembre 2020 |
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PUBBLICO IMPIEGO: Tutela delle condizioni di lavoro.
In tema di comportamenti datoriali discriminatori, l’art. 40 del d.lgs.
11.04.2006, n. 198 –nel fissare un principio applicabile sia nei casi di
procedimento speciale antidiscriminatorio che di azione ordinaria, promossi
dal lavoratore ovvero dal consigliere di parità– non stabilisce
un’inversione dell’onere probatorio, ma solo un’attenuazione del regime
probatorio ordinario, prevedendo a carico del soggetto convenuto, in linea
con quanto disposto dall’art. 19 della Direttiva CE n. 2006/54, l’onere di
fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, ma ciò solo dopo
che il ricorrente abbia fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche
da dati di carattere statistico, relativi ai comportamenti discriminatori
lamentati, purché idonei a fondare, in termini precisi (ossia determinati
nella loro realtà storica) e concordanti (ossia fondati su una pluralità di
fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto), anche se non
gravi, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti
discriminatori in ragione del sesso (TRIBUNALE di Roma, Sez. I, sentenza 06.11.2020 n. 7274 -
massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
ottobre 2020 |
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PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing: contenzioso e onere della prova.
In tema di mobbing, spetta al lavoratore, ex art. 2697 c.c., fornire la
prova della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro,
della molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, dell’evento
lesivo della salute o della personalità del dipendente, del nesso eziologico
tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il
pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore, nonché la prova
dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio (TRIBUNALE di Mantova, Sez. lavoro, sentenza 28.10.2020 n. 103 -
massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Non è demansionamento la mancata conferma di un incarico di P.O..
«In tema di lavoro pubblico negli enti locali, il
conferimento di una posizione organizzativa non comporta l'inquadramento in
una nuova categoria contrattuale ma unicamente l'attribuzione di una
posizione di responsabilità, con correlato beneficio economico. Ne consegue,
in termini generali, che la revoca di questa posizione non costituisce
demansionamento e non rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 2103 del
codice civile e del l'art. 52 del Dlgs 165/2001, trovando
applicazione il principio di turnazione degli incarichi, in forza del quale
alla scadenza il dipendente resta inquadrato nella categoria di
appartenenza, con il relativo trattamento economico».
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con l'ordinanza
15.10.2020 n. 22405.
Il conferimento di un incarico di posizione organizzativa è possibile
esclusivamente per situazioni tipizzate, descritte nel contratto, può essere
concesso solo a termine, è connotato da una specifica retribuzione
variabile, in quanto sottoposta alla logica del programma da attuare e del
risultato ed è, infine, revocabile.
Pertanto, il rinnovo delle posizioni organizzative costituisce una facoltà
del datore di lavoro pubblico, che, se ritiene di provvedere in tal senso,
deve parimenti disporlo con atto scritto e motivato; pertanto, mentre
l'eventuale revoca dell'incarico prima della scadenza richiede un atto
scritto e motivato e può essere disposta soltanto in relazione a intervenuti
mutamenti organizzativi o in conseguenza di uno specifico accertamento di
risultati negativi, la cessazione dell'incarico conferito alla sua naturale
scadenza non obbliga l'amministrazione ad una qualsivoglia motivata
determinazione
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 29.10.2020).
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SENTENZA
13. Il secondo ed il quarto motivo di ricorso, che possono
essere trattati congiuntamente per la loro connessione, sono fondati, con
conseguente assorbimento del terzo motivo, che sostanzialmente
prospetta le medesime questioni sotto il profilo del vizio di motivazione.
14. Per il comparto regioni ed autonomi e locali, il CCNL del 31.03.1999, di
revisione del sistema di classificazione professionale, introduceva (con
l'articolo 3) l'inquadramento del personale non dirigenziale in quattro
categorie, progressivamente dalla lettera A alla lettera D, prevedendo per
il personale della categoria D la istituzione di un'area delle posizioni
organizzative, secondo la disciplina degli articoli 8 e seguenti. Di qui il
superamento del sistema delle qualifiche funzionali ed il re-inquadramento
del personale in servizio secondo le previsioni di corrispondenza della
tabella C allegata al contratto (articolo 7).
15. Ai sensi del richiamato articolo 8, comma 1, le posizioni organizzative
costituiscono posizioni di lavoro che richiedono, con assunzione diretta di
elevata responsabilità di prodotto e di risultato: lo svolgimento di
funzioni di direzione di unità organizzative di particolare complessità
(lettera a); lo svolgimento di attività con contenuti di alta
professionalità e specializzazione (lettera b); lo svolgimento di attività
di staff e/o di studio, ricerca, ispettive, di vigilanza e controllo
caratterizzate da elevate autonomia ed esperienza (lettera c).
A tenore del successivo comma due, tali posizioni— che non coincidono
necessariamente con quelle già retribuite con l'indennità di cui all'art.
37, comma 4, del CCNL del 06.07.1995— possono essere assegnate
esclusivamente a dipendenti classificati nella categoria D, sulla base e per
effetto di un incarico a termine conferito in conformità alle regole di cui
all'art. 9.
16. Secondo tali regole, gli incarichi relativi all'area delle posizioni
organizzative sono conferiti dai dirigenti per un periodo massimo non
superiore a 5 anni, con atto scritto e motivato e possono essere rinnovati
con le medesime formalità. Gli incarichi possono essere revocati prima della
scadenza con atto scritto e motivato, in relazione a intervenuti mutamenti
organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di risultati
negativi (articolo 9, commi 1 e 3).
17. Alla attribuzione dell'incarico è collegato un trattamento economico
accessorio, composto dalla retribuzione di posizione e dalla retribuzione di
risultato (articolo 10).
18.11 CCNL del Comparto delle regioni e delle autonomie locali del
successivo quadriennio normativo 2002-2005, prevede che: «Gli enti
valorizzano le alte professionalità del personale della categoria D mediante
il conferimento di incarichi a termine nell'ambito della disciplina
dell'art. 8, comma 1, lett., b) e c), CCNL 31.03.1999 e nel rispetto di
quanto previsto dagli artt. 9, 10 e 11 del medesimo CCNL» (art. 10,
comma 1).
19. Tale disciplina è rimasta in vigore ai sensi dell'articolo 1, comma 5,
del CCNL 2006/2009, dell'11.04.2008.
20. Questa Corte ha già precisato, in tema di lavoro pubblico negli enti
locali, che il conferimento di una posizione organizzativa non comporta
l'inquadramento in una nuova categoria contrattuale ma unicamente
l'attribuzione di una posizione di responsabilità, con correlato beneficio
economico.
Ne consegue, in termini generali, che la revoca di tale posizione non
costituisce demansionamento e non rientra nell'ambito di applicazione
dell'art. 2103 c.c. e del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 52, trovando
applicazione il principio di turnazione degli incarichi, in forza del quale
alla scadenza il dipendente resta inquadrato nella categoria di
appartenenza, con il relativo trattamento economico (Cass. 25.10.2019, n.
27384; Cass. 10.07.2019 nr. 18561; Cass. 30.03.2015, n. 6367).
21. Anche le Sezioni Unite, ai fini del riparto di giurisdizione, hanno
affermato che la posizione organizzativa non determina un mutamento di
profilo professionale, che rimane invariato né un mutamento di area, ma
comporta soltanto un mutamento di funzioni, le quali cessano al cessare
dell'incarico; per quanto riguarda il comparto delle autonomie locali,
secondo la disciplina degli articoli 8 e 9 del CCNL stipulato il 31.03.1999,
il conferimento dell'incarico di posizione organizzativa è possibile
esclusivamente per situazioni tipizzate, descritte nel contratto; può essere
concesso solo a termine; è connotato da una specifica retribuzione
variabile, in quanto sottoposta alla logica del programma da attuare e del
risultato; è, infine, revocabile (Cassazione civile sez. un., 14/04/2010, n.
8836).
22. Parimenti è stato chiarito che il rinnovo delle posizioni organizzative
costituisce una facoltà del datore di lavoro pubblico, che, se ritiene di
provvedere in tal senso, deve parimenti disporlo con atto scritto e
motivato; pertanto mentre l'eventuale revoca dell'incarico prima della
scadenza richiede un atto scritto e motivato e può essere disposta soltanto
in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di uno
specifico accertamento di risultati negativi, la cessazione dell'incarico
conferito alla sua naturale scadenza non obbliga l'amministrazione ad una
qualsivoglia motivata determinazione (Cassazione civile sez. lav.,
10/07/2015, n. 14472).
23. Per quanto accertato nella sentenza impugnata, nella fattispecie di
causa si è verificato il mancato rinnovo alla CA. dell'incarico di posizione
organizzativa dopo la naturale scadenza, nell'aprile 2008, che dunque non
richiedeva alcuna determinazione né motivazione.
24. La Corte territoriale si è discostata dai principi sopra esposti, che in
questa sede vanno ribaditi, sul rilievo che la originaria ricorrente era
inquadrata nella posizione D3- ex ottava qualifica funzionale; ha infatti
ritenuto che a tale inquadramento debba corrispondere la responsabilità di
un servizio, responsabilità che nello specifico organigramma della Provincia
di Oristano corrispondeva alla titolarità di una posizione organizzativa.
25. Tale conclusione si pone in contrasto con il dettato degli articoli 8 e
9 del CCNL del 31.03.2009. Il disposto dei richiamati articoli esclude ogni
possibilità di conseguire— o comunque di mantenere— la posizione
organizzativa fuori dalle procedure in essi stabilite. In tal senso è chiaro
il tenore testuale del comma due dell'articolo 8.
26. La CA., in quanto dipendente inquadrata nella ex VIII qualifica
funzionale, ha avuto accesso alla posizione economica D3 secondo la tabella
di corrispondenza allegata al CCNL 31.03.1999.
27. Nel nuovo sistema di classificazione, ai sensi dell'articolo 3 del
predetto CCNL, ciascuna categoria individua mansioni professionalmente
equivalenti e nel suo ambito sono individuate posizioni differenziate
unicamente sotto il profilo economico sicché alla posizione D3 non può
attribuirsi alcun rilievo di apicalità in termini di mansioni.
28. La categoria D, secondo la declaratoria riportata nell'allegato A al
CCNL, non è caratterizzata, contrariamente a quanto assunto in sentenza,
dallo svolgimento di compiti di responsabilità di un servizio, potendo avere
un contenuto di tipo tecnico, gestionale o direttivo. Di qui l'infondatezza
dell'assunto secondo cui nelle ipotesi in cui nell'organigramma dell'ente
locale le posizioni organizzative coincidano con la responsabilità dei
servizi sussisterebbe un diritto dei funzionari D3 ad ottenerle. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
1. Giurisdizione e competenza – Riparto di giurisdizione tra G.O. e
C.d.C. – Dipendente pubblico – Attività extralavorative retribuite non
autorizzate – Obbligo di riversare le somme al datore – Art. 53, co. 7 e
7-bis, d.lgs. n. 165 del 2001 – Giurisdizione ordinaria e contabile –
Riparto – Fattispecie anteriori e successive alla legge n. 190 del 2012 –
Giurisdizione contabile in ogni caso.
2. Giurisdizione e competenza – Riparto di giurisdizione tra G.O. e
C.d.C. – Danni erariali – Concorso di azione civile del danneggiato ed
azione erariale della Procura contabile – Possibilità – Limiti – Ne bis in
idem.
3. Giudizio contabile e amministrativo – Dipendente pubblico –
Dovere di esclusiva - Attività extralavorative retribuite non autorizzate o
non autorizzabili – Obbligo di riversare le somme al datore – Art. 53, co. 7
e 7-bis, d.lgs. n. 165 del 2001 – Giurisdizione contabile – Tipologia di
giudizio – Ordinario e non sanzionatorio ex artt. 133 segg. d.lgs. n. 174
del 2016.
(d.lgs. 26.08.2016 n. 174, artt. 133 segg.; d.lgs. 30.03.2001 n. 165,
art. 53).
4. Giudizio contabile e amministrativo – Dipendente pubblico –
Primario ospedaliero e Professore universitario a tempo pieno - Dovere di
esclusiva - Attività extramoenia non consentite – Art. 5 d.lgs. n. 517/1999,
art. 6, co. 10, l. n. 240 del 2010 ampliativo dell’art. 11, co. 5, d.P.R. n. 382
del 1980 – Comunicazione al Rettore di attività libero-professionali –
Irrilevanza in punto di colpevolezza – Ragioni -– Un atto amministrativo non
può derogare a divieto di legge.
5. Giudizio contabile e amministrativo – Dipendente pubblico –
Primario ospedaliero e Professore universitario a tempo pieno - Dovere di
esclusiva - Attività extramoenia non consentite – Comunicazione al Rettore
di attività libero-professionali – Conoscenza datoriale piena – Conseguenze
– Decorrenza prescrizione del credito erariale – Corresponsabilità dei
vertici per la prescrizione parziale – Danno residuo imputabile anche ai
vertici universitari.
6. Giudizio contabile e amministrativo – Dipendente pubblico –
Primario ospedaliero e professore universitario a tempo pieno - Dovere di
esclusiva - Attività libero-professionali vietate – Danno erariale ex art. 53,
co. 7, d.lgs. n. 165 – Sussiste – Danno ulteriore da differenze stipendiali
tra tempo pieno e tempo definito – Cumulabilità - Sussiste.
7. Giudizio contabile e amministrativo – Dipendente pubblico –
Dovere di esclusiva - Attività extralavorative retribuite non autorizzate –
Obbligo di riversare le somme al datore – Art. 53, co. 7 e 7-bis, d.lgs. n.
165 del 2001 – Computo al netto e non al lordo – Ragioni – Vi è stato già
prelievo fiscale e previdenziale.
8. Giudizio contabile e amministrativo – Responsabilità
amministrativo-contabile – Elemento soggettivo – Riduzione al solo dolo ex
art. 21, d.l. n. 76 del 2020 (conv.to in l. n. 120 del 2020) – Natura – Norma
sostanziale – Portata applicativa temporale – Inapplicabile a fatti
pregressi alla sua entrata in vigore.
1. In caso di espletamento di attività
extralavorative remunerate e non autorizzate dal datore da parte di un
pubblico dipendente, qualora costui rifiuti di riversare alla propria
amministrazione, in base all’art. 53, co. 7 e 7-bis, d.lgs. 30.03.2001 n.
165, gli importi percepiti, la giurisdizione spetta sempre alla Corte dei
Conti anche per gli introiti anteriori alla introduzione del comma 7-bis
nell’art. 53 cit. ad opera della legge n. 190 del 2012, essendo norma ricognitiva del pregresso indirizzo giurisprudenziale favorevole alla
giurisdizione contabile.
2. A fronte di un danno cagionato alla P.A. da un pubblico
dipendente, è proponibile sia l’azione civile nei suoi confronti da parte
della P.A. danneggiata, sia la doverosa e officiosa azione della Procura
contabile, ma non può essere adottata una doppia condanna, in ossequio al ne
bis in idem.
3. In caso di espletamento di attività extralavorative remunerate e
non autorizzate dal datore da parte di un pubblico dipendente, sull’obbligo
di riversare alla propria amministrazione gli importi percepiti in base al
novello art. 53, co. 7-bis, d.lgs. 30.03.2001 n. 165, ha giurisdizione la
Corte dei Conti secondo il regime dell’ordinario giudizio di cognizione e
non di quello sanzionatorio di cui agli artt. 133 segg., d.lgs. 26.08.2016 n. 174.
4. Ai primari ospedalieri che siano anche professori universitari a
tempo pieno, in base all’art. 5 d.lgs. n. 517/1999, all’art. 6, co. 10, l. n.
240 del 2010, più largheggiante rispetto al previgente art. 11, co. 5, d.P.R.
n. 382 del 1980, non è consentito l’espletamento di attività
libero-professionale, e l’eventuale comunicazione al Rettore ed il suo
avallo non rilevano sulla colpa grave, non potendo un atto amministrativo
derogare ad un divieto legislativo assoluto.
5. Qualora un primario ospedaliero e professore universitario a
tempo pieno, comunichi al Rettore, ricevendone avallo, l’espletamento di
attività extralavorative vietate, la circostanza non esclude la colpa grave,
ma implica una conoscenza datoriale che fa decorrere la prescrizione del
credito erariale, con conseguente corresponsabilità dei vertici universitari
nel danno residuo in caso di parziale prescrizione del credito.
6. A fronte dell’espletamento da parte di primario ospedaliero e
professori universitari a tempo pieno di attività libero-professionali
vietate dalla legge Gelmini, oltre al danno erariale previsto dall’art. 53,
co. 7, d.lgs. n. 165 del 2001, si configura un ulteriore e cumulativo danno
per le maggiorazioni stipendiali percepite quale professore a tempo pieno
rispetto a quelle spettanti al professore a tempo definito.
7. In caso di espletamento di attività extralavorative remunerate e
non autorizzate dal datore da parte di un pubblico dipendente, l’obbligo di
riversare alla propria amministrazione gli importi percepiti in base all’art. 53,
co. 7 e 7-bis, d.lgs. 30.03.2001 n. 165, impone un calcolo al netto e non
al lordo delle somme da versare, essendoci già stato un prelievo fiscale a
favore della P.A. al momento della erogazione e della dichiarazione dei
redditi.
8. L’art. 21, d.l. n. 76 del 2020 (conv.to in l. n. 120 del 2020),
nel limitare attraverso il c.d. scudo erariale la responsabilità
amministrativo-contabile al solo dolo (per condotte commissive, ha natura di
norma sostanziale ed è quindi inapplicabile a fatti pregressi alla sua
entrata in vigore ovvero al 17.07.2020 (massima free
tratta da www.giustamm.it - Corte dei Conti, Sez. giurisdiz.
Lombardia,
sentenza 07.10.2020 n. 152). |
PUBBLICO IMPIEGO: L.
Oliveri,
La rotazione degli incarichi dirigenziali non giustifica la loro revoca
anticipata.
L’ordinanza 06.10.2020 n.
21482 della Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
conferma i formidabili pericoli di utilizzo distorto della rotazione degli
incarichi dirigenziali, sciaguratamente di fatto “imposta” dall’ANAC come
misura ordinaria, senza che l’Autorità si renda conto di quanto esponga la
dirigenza a scelte illecite e precarizzanti.
L’ordinanza considera illecita la “rotazione” imposta da un sindaco
ad un dirigente, qualificandola come revoca di fatto. La pronuncia è
estremamente interessante per le molteplici motivazioni che esprime.
In primo luogo, la Cassazione critica aspramente le decisioni, cassate,
della Corte d’Appello. Questa, come si evince dal testo dell’ordinanza, con
la propria sentenza aveva ritenuto di escludere la configurabilità di un
diritto soggettivo a conservare un determinato incarico, richiamando la
sentenza della Cassazione 15.02.2010, n. 3451. Il giudice di secondo grado
ha evidenziato che “il conferimento degli incarichi dirigenziali risponde
ad esigenze di natura fiduciaria, demandato ad un ampio potere discrezionale
dell'Amministrazione, temperato dalla previsione (non obbligatoria, ma
opportuna) del criterio di rotazione, dalla fissazione di un termine ai
contratti e dalla motivazione del provvedimento”.
Secondo tale giudice di secondo grado, visto che il dirigente ricorrente
aveva coperto l’incarico per 11 anni non sarebbe stato affatto, nell'ottica
di una riorganizzazione degli uffici, fosse trasferito ad altro settore;
pertanto, la sentenza di appello ha escluso che vi fosse stata una revoca in
senso tecnico dell'incarico in precedenza conferito, ritenendo invece
sussistente un lecito trasferimento ad altro incarico dirigenziale di altro
settore dell'organigramma comunale, con la conseguenza che l'Amministrazione
non era tenuta a rispettare quelle ipotesi previste solo per la revoca in
senso tecnico”.
Una ricostruzione totalmente sbagliata ed inaccettabile. Infatti, la
Cassazione senza alcun giro di parole afferma che ha “errato la Corte
territoriale a richiamare una giurisprudenza di legittimità riferita a
fattispecie di conferimento di incarico laddove nella specie è indubbio che
le determinazioni dell'Ente abbiano di fatto comportato una revoca
dell'incarico ancora in corso di svolgimento”.
Infatti, la sentenza 15.02.2010, n. 3451 col caso di specie non ha
nulla a che vedere. Essa ha trattato una questione connessa all’assegnazione
di mansioni diverse da quelle originariamente conferite in seguito a
modificazione della pianta organica, una volta scaduto l’incarico
dirigenziale precedentemente svolto.
È nella fase di rideterminazione degli incarichi, che dovrebbe essere retta
dalla proceduralizzazione disposta dall’articolo 19, commi 1, 1-bis e 2, del
d.lgs. 165/2001, che la PA dispone di una ampia capacità di valutazione
dell’opportunità di attribuire ai dirigenti qualsiasi degli incarichi
dirigenziali disponibili. Ma, questo presuppone che gli incarichi precedenti
siano scaduti, per conseguimento del termine e, quindi, sia dato modo di
rimetterli in causa.
Nel caso trattato dall’ordinanza in commento, non è avvenuto niente di tutto
questo. Semplicemente, il Comune, tre mesi solo dopo la conferma
dell’interessato nel suo incarico, lo ha preposto ad uno diverso,
coinvolgendo nel “giro” altri due dei molti altri dirigenti in
servizio.
In secondo luogo, l’ordinanza fa chiarezza sull’equivoco della “riorganizzazione”.
L’art. 109, comma 2, del d.lgs. 267/2000 stabilisce che la revoca
dell’incarico dirigenziale consegua ai casi di “inosservanza delle direttive
del sindaco o del presidente della provincia, della giunta o dell'assessore
di riferimento, o in caso di mancato raggiungimento al termine di ciascun
anno finanziario degli obiettivi assegnati nel piano esecutivo di gestione
previsto dall'articolo 169 o per responsabilità particolarmente grave o
reiterata e negli altri casi disciplinati dai contratti collettivi di
lavoro”. In particolare, l’articolo 13 del CCNL 23.12.1999 stabilisce
al comma 3 che “La revoca anticipata dell'incarico rispetto alla scadenza
può avvenire solo per motivate ragioni organizzative e produttive o per
effetto dell'applicazione del procedimento di valutazione di cui
all'articolo 14, comma 2”.
Dal canto suo, l’articolo 21, comma 1, del d.lgs. 165/2001 dispone: “Il
mancato raggiungimento degli obiettivi accertato attraverso le risultanze
del sistema di valutazione di cui al Titolo II del decreto legislativo di
attuazione della legge 04.03.2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della
produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle
pubbliche amministrazioni ovvero l'inosservanza delle direttive imputabili
al dirigente comportano, previa contestazione e ferma restando l'eventuale
responsabilità disciplinare secondo la disciplina contenuta nel contratto
collettivo, l'impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale.
In relazione alla gravità dei casi, l'amministrazione può inoltre, previa
contestazione e nel rispetto del principio del contraddittorio, revocare
l'incarico collocando il dirigente a disposizione dei ruoli di cui
all'articolo 23 ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le
disposizioni del contratto collettivo”.
È, dunque, esclusivamente la disciplina contrattuale (a ciò abilitata
dall’articolo 109, comma 1, del d.lgs. 267/2000) che attualmente considera
la “riorganizzazione” come presupposto per la revoca dell’incarico.
Il fatto è che in moltissimi casi, la “riorganizzazione” dietro la quale si
trincerano le amministrazioni comunali è semplicemente fittizia: una
simulazione dialettica, posta esclusivamente a giustificare appunto la
revoca anticipata di precisi incarichi dirigenziali. Spessissimo, si tratta
di vere e proprie “riorganizzazioni ad personam”, attivate non certo
alla scopo di modificare l’assetto complessivo dell’ente a fini di
miglioramento ed aumento dell’efficienza, ma proprio per demansionare uno
specifico dirigente.
Nel caso trattato dall’ordinanza non si è determinata per nulla un’esigenza
connessa alla riorganizzazione. La Cassazione ricorda che in quanto alle
“ragioni riorganizzative, questa Corte ha affermato che la revoca anticipata
dell'incarico dirigenziale per tali esigenze, prevista dalla contrattazione
collettiva, deve essere adottata con un atto formale e richiede una
motivazione esplicita, fondata su ragioni attinenti al settore cui è
preposto il dirigente (v. Cass. 03.02.2017, n. 2972)”.
Occorre, quindi, un provvedimento che formalmente detti la riorganizzazione
dell’intero ente (mancante nel caso di specie) e la motivazione chiara che
espliciti ragioni connesse non alla persona che ricopre il ruolo di
dirigente, ma ad esigenze organizzative della struttura diretta, tali da
rendere opportune ed indispensabili sue variazioni, alle quali conseguano
come corollario, e non come premessa, modifiche degli incarichi.
Nulla di tutto questo è stato riscontrato nella questione esaminata
dall’ordinanza. La presunta “riorganizzazione” era, come nella
stragrande maggioranza dei casi, una mera petizione di principio,
inesistente e immotivata.
In terzo luogo, la Cassazione evidenzia i problemi connessi all’altro
strumento che gli enti stanno utilizzando a mani basse in modo generalmente
travisato: la “rotazione” degli incarichi.
I giudici, subito dopo aver comprovato che nel caso di specie non c’è stata
alcuna riorganizzazione, sottolineano che “invece, come è pacifico tra le
parti, la revoca anticipata era scaturita da una mera rotazione di incarichi
(si rileva dallo stesso controricorso del Comune -pag. 8- che vi era stato
uno scambio di incarichi a seguito del nuovo mandato elettorale), per
effetto della quale al ricorrente era stato assegnato l'incarico di
dirigente del settore traffico, trasporti, mobilità urbana e grandi
infrastrutture (revocandosi di fatto quello di dirigente del settore
urbanistica)”.
L’ordinanza non si dilunga sulla finalizzazione della “rotazione”
alla sua correlazione al “nuovo mandato elettorale”, perché giunge
alla dichiarazione di illegittimità del provvedimento del sindaco per altra
strada, senza doversi soffermare sul punto.
In questa sede di commento, tuttavia, non ci si può esimere dal rilevare che
la rotazione, esattamente come la riorganizzazione, sia un cavallo di Troia,
affetta sovente da totale ed evidente sviamento della sua funzione.
Scrive l’ANAC nel Piano Nazionale Anticorruzione del 2016: “Per quanto
riguarda i dirigenti la rotazione ordinaria è opportuno venga programmata e
sia prevista nell’ambito dell’atto generale approvato dall’organo di
indirizzo politico, contenente i criteri di conferimento degli incarichi
dirigenziali che devono essere chiari e oggettivi. Il PTPC di ogni
amministrazione deve fare riferimento a tale atto generale (come, ad
esempio, la Direttiva ministeriale che disciplina gli incarichi
dirigenziali) ove vengono descritti i criteri e le modalità per la rotazione
dirigenziale. Ciò anche per evitare che la rotazione possa essere impiegata
in modo poco trasparente, limitando l’indipendenza della dirigenza. Per il
personale dirigenziale, la disciplina è applicabile ai dirigenti di prima e
di seconda fascia, o equiparati”.
La rotazione, nella visione dell’Autorità, dovrebbe essere uno strumento
ordinario di tutela dell’interesse generale ad evitare che la continuativa
preposizione di un dirigente al medesimo incarico comporti l’assunzione di
un eccessivo potere di influenza, anche all’esterno.
Ma, il PNA non nasconde il rischio serissimo che la rotazione venga
utilizzata allo scopo di precarizzare gli incarichi dirigenziali, finendo
per limitare l’autonomia dei dirigenti.
Ciò nonostante, le interpretazioni dell’ANAC hanno contribuito a
reintrodurre, per via interpretativa (ma non solo, come si vedrà
successivamente), la rotazione obbligatoria della dirigenza, un tempo
presente nel d.lgs. 29/1993, ma poi eliminata dal testo del d.lgs. 165/2001
(nel quale non se ne parla proprio), per la piena consapevolezza che un
tourbillon continuo di dirigenti:
1. in molti enti non è minimamente ipotizzabile (dato il numero
esiguo);
2. soprattutto, inficia in modo comprensibile il principio di
continuità dell’azione amministrativa ed esattamente le qualità in base alle
quali i dirigenti si pretende siano valutati ed incaricati: competenza,
esperienza, risultati raggiunti.
Secondo l’ANAC “Essendo la rotazione una misura che ha effetti su tutta
l’organizzazione di un’amministrazione, progressivamente la rotazione
dovrebbe essere applicata anche a quei dirigenti che non operano nelle aree
a rischio. Ciò tra l’altro sarebbe funzionale anche ad evitare che nelle
aree di rischio ruotino sempre gli stessi dirigenti. La mancata attuazione
della rotazione deve essere congruamente motivata da parte del soggetto
tenuto all’attuazione della misura”.
È una visione radicale della rotazione, che va molto oltre le disposizioni
della legge 190/2012, la quale prevede, invece, la rotazione solo
nell’ambito delle aree a rischio, come lascia comprendere la logica, prima
ancora che il diritto. Non ha evidentemente alcun senso coinvolgere nella
rotazione chi opera in aree non rischiose.
Le indicazioni dell’ANAC, quindi, se da considerare corrette nelle premesse,
portano ad una conseguenza della rotazione visibilmente disfunzionale. E
finiscono per ammettere in via di fatto proprio quell’abuso della rotazione
che la medesima ANAC considera pericoloso per l’autonomia della dirigenza.
I sindaci ci mettono pochissimo a cogliere da indicazioni così contorte e
poco meditate come quelle dell’ANAC quella parte a loro uso e consumo, volta
a poter giustificare un utilizzo della rotazione distorto e produttivo di
evidente sviamento dall’interesse pubblico. Sì, come nel caso di specie, da
connettere la rotazione al nuovo mandato elettorale, traducendo quindi un
istituto pensato a salvaguardia dalla corruzione, in uno strumento per
esercitare lo spoil system!
Si comprende bene, quindi, quanto provvida sia stata la sentenza della Corte
Costituzionale 251/2016, che ha fermato l’iter della sciagurata Riforma
Madia della dirigenza, largamente basata proprio sull’esasperazione del
potere di revoca ad libitum dei dirigenti, anche fondato su una
rotazione di fatto connessa a ragioni esclusivamente politiche: quella
riforma, infatti, avrebbe eliminato la necessità di motivare le ragioni non
solo della revoca, ma addirittura della privazione dell’incarico al
dirigente, confinandolo in una disponibilità di pochi mesi, alla quale
sarebbe conseguito il licenziamento.
La rotazione, certamente strumento fondamentale, dovrebbe essere, dunque,
un’extrema ratio, da adottare quando risultino evidenze di un’azione
dirigenziale non perfettamente trasparente o rispondente agli obiettivi di
lotta alla corruzione, non una modalità da attivare acriticamente, sempre e
comunque.
Torniamo alla sentenza. La Cassazione si è accorta, comunque, che anche la
rotazione invocata era fasulla: lo “scambio di incarichi (peraltro, come
si rileva sempre dal controricorso -pag. 2- limitata a tre soli settori
dell'organigramma comunale: tributi, traffico-trasporti e urbanistica e
senza che vi fosse una ragione diversa dall'esigenza di garantire la
rotazione degli incarichi e specificamente collegata al settore cui il
(OMISSIS) era stato assegnato) non integra, evidentemente, quella
riorganizzazione richiesta dalla disciplina pattizia per una revoca
anticipata di un incarico dirigenziale”.
Quindi, si è determinata null’altro se non una revoca anticipata, in
assoluta assenza della giusta causa che dovrebbe sorreggere, in assenza di
effettiva riorganizzazione, la decisione.
Per tornare come indicato prima al problema della rotazione, lo schema di
CCNL dell’area dirigenza del comparto Funzioni Locali, per quanto concerne
specificamente la dirigenza di Regioni ed Enti locali disapplica l’articolo
13 del CCNL 23.12.2020 e non regola la revoca. Il che significa che essa
resta attivabile solo al ricorrere dei casi normativamente previsti, che non
contemplano la “riorganizzazione”: un elemento importante, perché si
cancella uno strumento utilizzato, come di dimostra, in modo spesso
improprio e falsato.
Improvvidamente, tuttavia, il medesimo schema prevede che “Nel
conferimento degli incarichi dirigenziali, gli enti si attengono al
principio generale della rotazione degli stessi”, ingerendosi in materie
che non spettano alla contrattazione e, in ogni caso, esponendo il
conferimento degli incarichi all’altro pericolo di utilizzo distorto della
rotazione.
In ogni caso, la Cassazione aiuta a comprendere che la rotazione non può
essere considerata presupposto o causa della revoca anticipata, operando
solo nel momento in cui vengano a scadere gli incarichi e, dunque, nella
fase del loro conferimento (04.11.2020 - tratto da e link a
www.fedir.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: La
revoca anticipata dell'incarico dirigenziale deve essere adottata con un
atto formale e richiede una motivazione esplicita, fondata su ragioni chiare
e attinenti alla specifica area in cui è investito il manager in questione.
Mentre
per il conferimento (id est la
conferma) di un incarico di funzione dirigenziale, rimesso alla
discrezionalità del datore di lavoro, si tiene conto, in relazione alla
natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle attitudini e
delle capacità professionali del singolo dirigente nel rispetto dei criteri
generali eventualmente stabiliti dalla pubblica amministrazione (potendo il
giudice solo verificare se l'operato dell'amministrazione trovi o meno
fondamento nei predetti criteri generali), la revoca dell'incarico,
presupponendo l'instaurazione di un rapporto contrattuale, incontra i limiti legislativamente e pattiziamente stabiliti;
La normativa prevede che la revoca di un incarico possa scaturire o da un
procedimento disciplinare o dal mancato raggiungimento degli obiettivi o da
esigenze riorganizzative adeguatamente
motivate;
Quanto, in particolare alle indicate ragioni riorganizzative, questa Corte
ha affermato che la revoca anticipata dell'incarico dirigenziale per tali
esigenze, prevista dalla contrattazione collettiva, deve essere adottata con
un atto formale e richiede una motivazione esplicita, fondata su ragioni
attinenti al settore cui è preposto il dirigente.
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4. con il secondo motivo il ricorrente denuncia la
violazione dell'art. 2119 cod. civ. nonché degli artt. 109 e 110 del TUEL,
degli artt. 3 e 7 l. n. 241 del 1990 (difetto di motivazione del
provvedimento di trasferimento e mancata comunicazione dell'inizio del
procedimento), degli artt. 1175, 1373 (regole di correttezza e buona fede),
della l. n. 241 del 1990 e dell'art. 97 Cost. (principio di ragionevolezza);
critica la sentenza impugnata per non aver tenuto conto
dell'insegnamento della Suprema Corte (S.0 n. 3677/2009) secondo il quale il
conferimento dell'incarico dirigenziale determina (accanto al rapporto
fondamentale a tempo indeterminato, secondo il c.d. sistema 'binario')
l'instaurazione di contratto a tempo determinato, il quale, ai sensi
dell'art. 2119 cod. civ., è passibile di recesso prima della scadenza solo
per giusta causa;
rileva che l'incarico di dirigente del settore urbanistica gli era
stato confermato dall'01.07.2009 per l'esercizio 2009 e che, con
deliberazione G.M. 364/2009 18.09.2009, gli erano stati anche fissati gli
obiettivi, per cui tale
incarico scadeva alla fine dell'esercizio 2009 e poteva essere oggetto di
recesso solo per 'giusta causa' (art. 2119 cod. civ.);
sostiene che certamente non poteva essere ritenuta 'giusta causa',
tale da non consentire neppure la prosecuzione provvisoria del rapporto, la
rotazione tra i settori tecnici, che avrebbe potuto essere disposta solo
dopo la scadenza dell'incarico (se motivata adeguatamente);
...
7. è invece fondato il secondo motivo di ricorso (assorbito
il terzo);
7.1. è pacifico tra le parti che l'incarico del Ci. quale dirigente
del settore urbanistica e assetto del territorio dei Comune di Brindisi dal
1998 fosse stato, da ultimo, confermato in data 01/07/2009 fino alla fine
dell'esercizio 2009 (e cioè fino al 30.06.2010);
alla suddetta conferma aveva fatto seguito la fissazione degli
obiettivi da raggiungere (v. deliberazione di G.M. n. 364/2009 del
18.09.2009 richiamata e depositata dal ricorrente);
il decreto sindacale n. 43 del 03.11.2009, con il quale il Sindaco
del comune di Brindisi aveva disposto il trasferimento del Ci. alla
dirigenza del settore traffico, trasporti, mobilità urbana e grandi
infrastrutture era, dunque, intervenuto prima della scadenza dell'incarico
confermato in data 01/07/2009;
ha allora errato la Corte territoriale a richiamare una
giurisprudenza di legittimità riferita a fattispecie di conferimento di
incarico laddove nella specie è indubbio che le determinazioni dell'Ente
abbiano di fatto comportato una revoca dell'incarico ancora in corso di
svolgimento;
7.2. le doglianze del Ci. andavano allora vagliate in rapporto alle
ipotesi in cui la revoca dell'incarico dirigenziale è consentita;
7.3. del resto, mentre per il conferimento (id est la
conferma) di un incarico di funzione dirigenziale, rimesso alla
discrezionalità del datore di lavoro, si tiene conto, in relazione alla
natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle attitudini e
delle capacità professionali del singolo dirigente nel rispetto dei criteri
generali eventualmente stabiliti dalla pubblica amministrazione (potendo il
giudice solo verificare se l'operato dell'amministrazione trovi o meno
fondamento nei predetti criteri generali), la revoca dell'incarico,
presupponendo l'instaurazione di un rapporto contrattuale, incontra i limiti legislativamente e pattiziamente stabiliti;
7.4. muovendo dall'esame della normativa di riferimento, va
ricordato che l'art. 109 del d.lgs. n. 267 del 2000, rubricato "Conferimento
di incarichi dirigenziali" prevede, al primo comma: «Gli incarichi
dirigenziali sono conferiti a tempo determinato» (...) «con
provvedimento motivato e con le modalità fissate dal regolamento
sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza
professionale, in relazione agli obiettivi indicati nel programma
amministrativo del sindaco o del presidente della provincia e sono revocati
in caso di inosservanza delle direttive del sindaco o del presidente della
provincia, della giunta o dell'assessore di riferimento, o in caso di
mancato raggiungimento al termine di ciascun anno finanziario degli
obiettivi assegnati nel piano esecutivo di gestione» (...) «o per
responsabilità particolarmente grave o reiterata e negli altri casi
disciplinati dai contratti collettivi di lavoro. L'attribuzione degli
incarichi può prescindere dalla precedente assegnazione di funzioni di
direzione a seguito di concorsi»;
l'art. 13 del c.c.n.l. dirigenza enti locali 1998-2001 del 09.12.1999,
rubricato "Affidamento e revoca degli incarichi dirigenziali",
integrando la disciplina normativa stabilisce ai commi 1-3: «1. Gli enti
attribuiscono ad ogni dirigente uno degli incarichi istituiti secondo la
disciplina dell'ordinamento vigente. 2. Gli enti, con gli atti previsti dai
rispettivi ordinamenti, adeguano le regole sugli incarichi dirigenziali ai
principi stabiliti dall'art. 19, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 29/1993, con
particolare riferimento ai criteri per il conferimento e la revoca degli
incarichi e per il passaggio ad incarichi diversi nonché per relativa durata
che non può essere inferiore a due anni, fatte salve le specificità da
indicare nell'atto di affidamento e gli effetti derivanti dalla valutazione
annuale dei risultati. 3. La revoca anticipata dell'incarico rispetto alla
scadenza può avvenire solo per motivate ragioni organizzative e produttive o
per effetto dell'applicazione del procedimento di valutazione di cui
all'art. 14, comma 2»;
7.5. la suddetta normativa prevede, dunque, che la revoca di un
incarico possa scaturire o da un procedimento disciplinare o dal mancato
raggiungimento degli obiettivi o da esigenze riorganizzative adeguatamente
motivate;
7.6. quanto, in particolare alle indicate ragioni riorganizzative,
questa Corte ha affermato che la revoca anticipata dell'incarico
dirigenziale per tali esigenze, prevista dalla contrattazione collettiva,
deve essere adottata con un atto formale e richiede una motivazione
esplicita, fondata su ragioni attinenti al settore cui è preposto il
dirigente (v. Cass. 03.02.2017, n. 2972);
7.7. nel caso di specie, invece, come è pacifico tra le parti, la
revoca anticipata era scaturita da una mera rotazione di incarichi (si
rileva dallo stesso controricorso del Comune -pag. 8- che vi era stato uno 'scambio'
di incarichi a seguito del nuovo mandato elettorale), per effetto della
quale al ricorrente era stato assegnato l'incarico di dirigente del settore
traffico, trasporti, mobilità urbana e grandi infrastrutture (revocandosi di
fatto quello di dirigente del settore urbanistica); ma tale 'scambio'
di incarichi (peraltro, come si rileva sempre dal controricorso -pag. 2-
limitata a tre soli settori dell'organigramma comunale: tributi,
traffico-trasporti e urbanistica e senza che vi fosse una ragione diversa
dall'esigenza di garantire la rotazione degli incarichi e specificamente
collegata al settore cui il Ci. era stato assegnato) non integra,
evidentemente, quella riorganizzazione richiesta dalla disciplina pattizia
per una revoca anticipata di un incarico dirigenziale;
7.8. i principi posti dalla Corte territoriale a sostegno della
legittimità del decreto del Sindaco di Brindisi n. 43/2009 (e cioè la
turnazione, rotazione degli incarichi) se sono fondatamente invocabili a
sostegno di una scelta di affidamento di un determinato incarico non possono
avallare -stanti le indicate specifiche disposizioni normativa e pattizia-
una revoca di un incarico prima della scadenza naturale dello stesso;
7.9. si è trattato, pertanto, di revoca anticipata avvenuta al di
fuori dei presupposti normativi (Corte
di Cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza 06.10.2020 n.
21482). |
settembre 2020 |
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EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Natura di atti
amministrativi generali dei piani urbanistici – Esonero dal
pagamento degli oneri di costruzione – Abuso di ufficio in
atti di ufficio nella disciplina urbanistica – Ultrattività
del piano attuativo scaduto – Vantaggio patrimoniale per il
privato – Accordo collusivo tra il pubblico ufficiale e i
privati – Art. 323 cod. pen. – Artt. 19, 28-bis d.P.R. n.
380/2001.
I piani urbanistici non rientrano nella
categoria dei regolamenti, come ritenuto da risalente e
superato orientamento giurisprudenziale, che nel mutato
quadro normativo escluderebbe la fattispecie di abuso in
atti di ufficio, ma in quella degli atti amministrativi
generali la cui violazione, in conformità dell’indirizzo
ermeneutico consolidato, rappresenta solo il presupposto di
fatto della violazione della normativa legale in materia
urbanistica (art. 12 e 13 del d.P.R. n. 380 del 2001),
normativa a cui deve farsi riferimento, per ritenere
concretata la “violazione di legge”, quale dato strutturale
della fattispecie delittuosa ex art. 323 cod. pen. anche
seguito della modifica normativa.
Da cui la conferma della sussunzione del caso concreto nella
fattispecie normativa di cui all’art. 323 cod. pen. ora
vigente.
Trattasi senza dubbio di norme specifiche e per le quali non
residuano margini di discrezionalità laddove l’art. 12
d.P.R. n. 380/2001 detta i requisiti di legittimità del
permesso a costruire, e il successivo art 13 d.P.R. n.
380/2001, detta la disciplina urbanistica che il dirigente
del settore è tenuto a rispettare nel rilascio del permesso
a costruire.
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Rilascio di permessi
edilizi illegittimi – PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Abuso in
atti di ufficio – Configurabilità del reato ex art. 323 cod.
pen..
La configurazione del reato di abuso in
atti di ufficio si integra nel caso di rilascio di permessi
edilizi illegittimi, la violazione di legge è integrata
dall’inosservanza dell’art. 12 del d.P.R. n. 380 del 2001,
secondo cui il permesso a costruire, quale atto non
discrezionale, è rilasciato in conformità alle previsioni
urbanistiche, ai regolamenti edilizi e alla disciplina
urbanistica che il dirigente del settore è tenuto a
rispettare ai sensi del successivo art. 13 d.P.R. n.
380/2001.
Inoltre, il permesso di costruire, per essere legittimo,
deve conformarsi –ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art.
12, comma 1, –“alle previsioni degli strumenti urbanistici,
dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico–
edilizia vigente”.
Dall’espresso rinvio della norma agli strumenti urbanistici
discende che il titolo abilitativo edilizio rilasciato senza
rispetto del piano regolatore e degli altri strumenti
urbanistici integra, una “violazione di legge”, rilevante ai
fini della configurabilità del reato di cui all’art. 323
cod. pen.
La clausola di riserva contenuta nell’art. 323 cod. pen.,
non opera, quando ricorrono i presupposti del concorso
materiale del reato di abuso in atti di ufficio e del reato
di falso.
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Piano di lottizzazione o
altro piano particolareggiato – Termine stabilito per
l’esecuzione – Conseguenze della scadenza dell’efficacia.
In materia urbanistica, decorso il
termine stabilito per l’esecuzione del piano di
lottizzazione o altro piano particolareggiato, questo
diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto
attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato
l’obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e
nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e
le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso, con la
precisazione che da ciò discende che:
a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e
dettagliata conformazione della proprietà privata, le
medesime previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato
e, col decorso del termine (di dieci anni, per il piano
particolareggiato di cui si discute), diventano inefficaci
unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano
avuto concreta attuazione, nel senso che non è più
consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità
di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni
del p.r.g. e con le prescrizioni del piano attuativo (anche
sugli allineamenti), che solo per questa parte ha efficacia
ultrattiva;
b) il termine di efficacia di 10 anni deve intendersi riferito
all’esecuzione delle previste opere di urbanizzazione che
devono essere realizzate entro tale termine; viceversa per
la realizzazione delle costruzioni dei fabbricati trovano
applicazione i termini previsti nei relativi titoli edilizi,
fermo restando che poiché, in generale, il termine di
efficacia dei piani attuativi, compresi i piani di
lottizzazione, è di 10 anni, i titoli edilizi andranno
richiesti e ottenuti entro tale termine, dato che, una volta
che esso sia decorso, il piano decade per la parte rimasta
inattuata rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato
l’obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e
nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e
le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso;
c) le conseguenze della scadenza dell’efficacia del piano di
lottizzazione si esauriscono pertanto nell’ambito della sola
disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla
validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai
soggetti attuatori degli interventi;
d) una volta scaduto il termine, l’autorità competente riacquista
il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle
parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova
pianificazione urbanistica di dettaglio
---------------
SENTENZA
5. Venendo al merito, l’ordinanza impugnata poggia su un
apparato argomentativo pienamente esaustivo, fondato sulle
emergenze processuali e corretto in diritto.
Quanto alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in
relazione al reato di abuso in atti di ufficio (capo 1, 4 e
7), in concorso con il pubblico ufficiale Sp., in relazione
al rilascio dei tre permessi a costruire, avvenuto in
violazione di legge (vedi supra par. 1.1.),
l’ordinanza impugnata ha ritenuto dimostrato:
1) un accordo collusivo tra il pubblico ufficiale e i privati o,
quantomeno, una situazione di asservimento del pubblico
ufficiale Sp. piegato a garantire gli interessi economici
del gruppo Ba., sul rilievo che il pubblico ufficiale si era
prodigato per rilasciare, con anomala celerità in quanto
l’iter amministrativo non era stato ancora completato, un
permesso a costruire, consegnato nelle mani del Ca., per
impedire il sequestro dell’area, sulla quale erano in corso
lavori in assenza di permesso a costruire, mentre era in
corso un sopralluogo della polizia municipale la mattina del
03.04.2017;
2) la violazione di legge, segnatamente l’art. 12 del d.P.R. n. 380
del 2001, per avere rilasciato, lo Sp., i tre permessi a
costruire in assenza di pianificazione urbanistica di
attuazione richiesta per gli interventi di completamento
dell’interporto, perché il piano particolareggiato, adottato
il 02.04.1996, a seguito dell’Accordo di programma n. 14555
del 2006, determinante variante al piano regolatore
generale, risultava inefficace dal 2016, per decorso del
termine decennale di vigenza e non essendo intervenuta altra
pianificazione urbanistica, non potendosi ritenere che la
dichiarazione del Commissario Straordinario n. 230 del 2016
avesse natura di provvedimento, avendo la stessa natura di
dichiarazione di scienza, sicché la convenzione ex art.
28-bis cit., fondata su tale presupposto, non era valido
titolo edilizio. Inoltre era accertata la violazione
dell’art. 19 comma 2 cit. atteso l’esonero dal pagamento
degli oneri di costruzione di cui all’art. 19 cit., nonché
dell’art. 9 comma 2, medesimo decreto, che pone limiti
all’edificazione delle c.d. zone bianche interessate
dall’assenza di strumenti attuativi;
3) il vantaggio patrimoniale per il privato Barletta consistito
nell’accrescimento della situazione giuridica di questi che
si concretizzava nel rilascio dei permessi a costruire, da
cui il conseguente profitto economico derivante dalla
successiva realizzazione delle opere edilizie e la correlata
ingiustizia della condotta in quanto connotata da violazione
di legge integranti la c.d. doppia ingiustizia necessaria ai
fini dell’integrazione del reato di abuso d’ufficio.
5.2. Ciò premesso, la censura (secondo motivo) svolta dalla
difesa dei ricorrenti che si appunta sull’interpretazione
della dichiarazione del Commissario Straordinario n. 230 del
2016 sulla scorta della quale, la difesa ha argomentato che
i premessi a costruire erano stati rilasciati in presenza di
pianificazione particolareggiata, sicché era destituita di
fondamento l’impostazione accusatoria di rilascio di
permessi a costruire in assenza di programmazione
urbanistica, non ha pregio e si rivela infondata.
L’ordinanza impugnata dà atto che dalle stesse dichiarazioni
del dott. Re., Commissario straordinario del Comune di Ma.,
era dimostrata la natura di dichiarazione di scienza della
suddetta delibera n. 230 del 2016, evidenziando che si
trattava di un mero atto di indirizzo politico che rimetteva
la decisione al futuro Consiglio Comunale di Ma. (che poi
non l’approvò), non avendo alcuna natura decisoria valevole
quale atto di programmazione urbanistica, presupposto per il
successivo rilascio dei permessi a costruire (cfr. pag. 13 e
ss.). Ogni diversa lettura dell’atto in questione, in
presenza di congrua e non illogica motivazione non è
sindacabile in questa sede.
5.3. La difesa ha poi percorso la via interpretativa,
espressa da una giurisprudenza amministrativa, secondo la
quale l’art. 17 della legge n. 1150 del 1942 consentirebbe
l’ultrattività del piano particolareggiato scaduto fino
all’approvazione di un nuovo strumento urbanistico che
disciplini le aree in esso incluse ed ha dedotto la
violazione di legge.
Tale interpretazione non è condivisa dal Collegio e dalle
più recenti pronunce del giudice amministrativo.
Secondo la più recente giurisprudenza amministrativa (cfr.
da ultimo sentenza TAR Lombardia, Milano, Sezione Quarta, n.
2001 del 17.08.2018; TAR Lazio Roma, sez. II, 01/04/2015, n.
4920; Cons. Stato, Sez. V, 30.04.2009, n. 2768; Sez. IV,
27.10.2009, n. 6572), decorso il termine stabilito per
l’esecuzione del piano di lottizzazione o altro piano
particolareggiato, questo diventa inefficace per la parte in
cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a
tempo indeterminato l’obbligo di osservare, nella
costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli
esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona
stabiliti dal piano stesso, con la precisazione che da ciò
discende che:
a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e
dettagliata conformazione della proprietà privata, le
medesime previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato
e, col decorso del termine (di dieci anni, per il piano
particolareggiato di cui si discute), diventano inefficaci
unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano
avuto concreta attuazione, nel senso che non è più
consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità
di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni
del p.r.g. e con le prescrizioni del piano attuativo (anche
sugli allineamenti), che solo per questa parte ha efficacia
ultrattiva (Tar Abruzzo L’Aquila, sez. I, 20/11/2014, n.
810; Cons. Stato, n. 2768 del 2009 e n. 6170 del 2007;
Campania, Salerno, n. 522 del 2014);
b) il termine di efficacia di 10 anni deve intendersi riferito
all’esecuzione delle previste opere di urbanizzazione che
devono essere realizzate entro tale termine; viceversa per
la realizzazione delle costruzioni dei fabbricati trovano
applicazione i termini previsti nei relativi titoli edilizi,
fermo restando che poiché, in generale, il termine di
efficacia dei piani attuativi, compresi i piani di
lottizzazione, è di 10 anni, i titoli edilizi andranno
richiesti e ottenuti entro tale termine, dato che, una volta
che esso sia decorso, il piano decade per la parte rimasta
inattuata rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato
l’obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e
nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e
le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso (cfr. TAR
Lazio Latina, sez. I, 26/04/2018, n. 226;
c) le conseguenze della scadenza dell’efficacia del piano di
lottizzazione si esauriscono pertanto nell’ambito della sola
disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla
validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai
soggetti attuatori degli interventi (cfr. in particolare,
TAR Lazio Roma, sez. II, 01/04/2015, n. 4920), d) una volta
scaduto il termine, l’autorità competente riacquista il
potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle
parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova
pianificazione urbanistica di dettaglio.
5.4. Con riferimento al caso in esame, l’ordinanza impugnata
sul rilievo che era decorso il termine decennale, che
l’autorità competente (Comune di Marcianise) non aveva
esercitato il potere di dare nuovo assetto urbanistico alle
parti non realizzate del P.U.P., che la Delibera del
Commissario del 2016 non aveva natura di provvedimento quale
“riassunzione di conformità al P.U.P.”, si da
costituire presupposto per la conclusione della convenzione
ex art. 28-bis cit. e per il rilascio dei permessi a
costruire, ha ritenuto, del tutto correttamente, che i tre
permessi a costruire erano stati rilasciati in assenza di
pianificazione particolareggiata perché quella esistente
aveva perso efficacia nel 2016.
Inoltre, nel caso in esame, era violata la disposizione di
cui all’art. 9, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001,
che pone specifici limiti di edificabilità delle c.d. zone
bianche interessate dall’assenza di strumenti attuativi a
seguito di perdita di efficacia per decorso del termine
decennale, violazione neppure contestata dai ricorrenti.
5.5. Né può essere richiamata la sentenza di questa III Sez.
n. 38555 del 2015, citata nel ricorso poiché, in quel caso,
l’ultrattività della previsione di una lottizzazione
divenuta priva di efficacia per decorso del tempo, era
conseguente alla circostanza che le previsioni di questa
erano state recepite nello strumento urbanistico del Comune
di Arzachena, situazione all’evidenza del tutto diversa dal
caso in scrutinio nel quale i provvedimenti autorizzatori
erano stati rilasciati in assenza di piano attuativo
decaduto e l’autorità amministrativa non aveva esercitato il
potere di dare un nuovo assetto il territorio.
5.6. Va poi, per completezza, rilevato che secondo la
costante giurisprudenza di legittimità in relazione alla
configurazione del reato di abuso in atti di ufficio nel
caso di rilascio di permessi edilizi illegittimi, la
violazione di legge è integrata dall’inosservanza dell’art.
12 del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo cui il permesso a
costruire, quale atto non discrezionale, è rilasciato in
conformità alle previsioni urbanistiche, ai regolamenti
edilizi e alla disciplina urbanistica che il dirigente del
settore è tenuto a rispettare ai sensi del successivo art.
13 cit.
Quanto al delitto di abuso d’ufficio, condivide il Collegio,
i principi espressi da Sez. 3, n. 39462 del 2012, secondo
cui il permesso di costruire, per essere legittimo, deve
conformarsi –ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 12,
comma 1,– “alle previsioni degli strumenti urbanistici,
dei regolamenti edilizi e della disciplina
urbanistico–edilizia vigente”.
Dall’espresso rinvio della norma agli strumenti urbanistici
discende che il titolo abilitativo edilizio rilasciato senza
rispetto del piano regolatore e degli altri strumenti
urbanistici integra, una “violazione di legge”,
rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui
all’art. 323 cod. pen. (Sez. 3, n. 39462 del 19/06/2012,
Rullo, Rv. 254015 – 01, nello stesso senso Sez. 6, n. 11620
del 25/01/2007, Pellegrino, Rv. 236147 – 01).
Mentre, con riguardo altri elementi della fattispecie, deve
rilevarsi che i ricorrenti non hanno svolto critiche
censorie con riguardo al ritenuto accordo collusivo tra
privati e pubblico ufficiale, né sull’esistenza
dell’ingiusto profitto.
6. Osserva, infine, il Collegio che non assume rilievo,
quanto al caso in esame, la modifica normativa all’art. 323
cod. pen. per effetto dell’art. 23 del d.l. 16.07.2020, n.
76, “Misure Urgenti per la semplificazione e
l’innovazione digitale”, conv. con mod. nella legge
11.09.2020, n. 120, secondo cui all’art. 323 comma 1 cod.
pen., le parole “di norme di legge o di regolamento,”
sono sostituite dalle seguenti: “di specifiche regole di
condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi
forza di legge e dalle quali non residuino margini di
discrezionalità”.
Ora, la violazione di norme contenute nei regolamenti è
esclusa dal perimetro della condotta di abuso, l’abuso
potrà, infatti, essere integrato solo dalla violazione di “regole
di condotta espressamente previste dalla legge o da atti
aventi forza di legge”, cioè da fonti di rango primario.
Rileva, poi, la sola inosservanza di regole di condotta “specifiche”
ed “espressamente previste” dalle citate fonti
primarie.
Infine, si è previsto che rilevano solo regole di condotta “dalle
quali non residuino margini di discrezionalità”.
Senza ripercorre l’evoluzione giurisprudenziale che aveva
generato un contrasto di giurisprudenza all’indomani della
riforma del delitto di abuso in atti di ufficio a seguito
della L. 16.07.1997, n. 234, contrasto successivamente
appianato, l’orientamento consolidato di legittimità (vedi
supra) ha, da tempo, affermato che il requisito della
violazione di legge, rilevante ai fini della configurabilità
del reato di abuso di ufficio, è integrato dalla conformità
alle previsioni urbanistiche, dei regolamenti edilizi e
della disciplina urbanistica che il dirigente del settore è
tenuto a rispettare ai sensi dell’art. 13 del d.P.R. n. 380
del 2001, in quanto il permesso di costruire, per essere
legittimo, deve conformarsi –ai sensi del D.P.R. n. 380 del
2001, art. 12, comma 1,– “alle previsioni degli strumenti
urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina
urbanistico–edilizia vigente”.
Dall’espresso rinvio della norma agli strumenti urbanistici
discende che il titolo abilitativo edilizio rilasciato senza
rispetto del piano regolatore e degli altri strumenti
urbanistici integra, una “violazione di legge”,
rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui
all’art. 323 cod. pen.
Ritiene il Collegio che l’interpretazione della nozione di “violazione
di legge” come delineata dalla citata giurisprudenza sia
pienamente condivisibile anche nel mutato quadro normativo.
Segnatamente, seguendo quell’elaborazione giurisprudenziale
che il Collegio condivide, deve ribadirsi che i piani
urbanistici non rientrano nella categoria dei regolamenti,
come ritenuto da risalente e superato orientamento
giurisprudenziale, che nel mutato quadro normativo
escluderebbe la fattispecie di abuso in atti di ufficio, ma
in quella degli atti amministrativi generali la cui
violazione, in conformità dell’indirizzo ermeneutico
consolidato, rappresenta solo il presupposto di fatto della
violazione della normativa legale in materia urbanistica
(art. 12 e 13 del d.P.R. n. 380 del 2001) (Sez. 6, n. 11620
del 25/01/2007, Pellegrino, Rv. 236147 – 01), normativa a
cui deve farsi riferimento, per ritenere concretata la “violazione
di legge”, quale dato strutturale della fattispecie
delittuosa ex art. 323 cod. pen. anche seguito della modifica
normativa.
Da cui la conferma della sussunzione del caso concreto nella
fattispecie normativa di cui all’art. 323 cod. pen. ora
vigente. Trattasi senza dubbio di norme specifiche e per le
quali non residuano margini di discrezionalità laddove
l’art. 12 cit. detta i requisiti di legittimità del permesso
a costruire, e il successivo art 13 cit., detta la
disciplina urbanistica che il dirigente del settore è tenuto
a rispettare nel rilascio del permesso a costruire.
7. Deve rilevarsi la genericità della censura svolta con
riguardo al reato di falso, non contenendo i ricorsi, al di
là del generico riferimento dell’intitolazione del motivo,
alcuna critica specifica all’ordinanza impugnata, mentre,
con riguardo al profilo della ricorrenza della clausola di
riserva contenuta nell’art. 323 cod. pen., essa non opera,
ricorrendo il concorso materiale del reato di abuso in atti
di ufficio e del reato di falso, poiché nel caso in esame
sono contestate condotte ulteriori e che non si esauriscono
nel reato di falso e segnatamente l’esonero dal pagamento
degli oneri di costruzione di cui all’art. 19 del d.p.r. 380
del 2001, dovendosi escludere il concorso formale tra il
delitto di abuso in atti di ufficio solo quando la condotta
addebitata, quale condotta di abuso in atti di ufficio, si
esaurisce nella commissione di un reato di falso (Sez. 6, n.
13849 del 28/02/2017, Rv. 269482 – 01).
In altri termini, la condotta addebitata ai ricorrenti, in
concorso con Sp., pubblico ufficiale, a titolo di abuso di
ufficio non si esaurisce, nelle sue componenti
storico-naturalistiche, nella commissione di un fatto
qualificabile come falso in atto pubblico.
Consegue, che non è ravvisabile alcuna violazione del
principio del ne bis in idem per evidente diversità
del fatto naturalistico (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.09.2020 n. 26834 - link a www.ambientediritto.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pubblicazione
dati dirigenti cessati.
Domanda
Nel nostro ente, il 31 agosto, è cessato dall’incarico un dirigente a
contratto, ex art. 110, comma 1, del TUEL 267/2000, al quale è stato
applicato un nuovo contratto triennale a far data dal 01 settembre.
I dati del dirigente vanno pubblicati nella sotto-sezione Personale >
Dirigenti cessati?
Risposta
L’articolo 14, comma 2, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, nella sua
ultima versione modificata dal d.lgs. 97/2016, prevede per i dirigenti
–posizioni organizzative, negli enti senza dirigenza– e per i titolari di
incarichi politici l’obbligo di mantenere pubblicati i rispettivi dati “per
i tre anni successivi dalla cessazione del mandato o dell’incarico”.
Nel caso prospettano nel quesito, in realtà, il dipendente assunto a tempo
determinato, con la qualifica dirigenziale, in applicazione ad una specifica
norma del Testo Unico degli Enti Locali, non cessa dall’incarico che,
infatti, prosegue, senza soluzione di continuità, per ulteriori tre anni.
L’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) nei suoi documenti e Linee guida
ha sempre sostenuto –si veda ad esempio l’Atto di segnalazione n. 6 del
20.12.2017– che le P.A. debbano attenersi al divieto di duplicazione dei
dati riguardanti il medesimo soggetto, che devono trovare allocazione
all’interno della sezione Amministrazione trasparente, solamente una volta,
secondo le indicazioni contenute, per le pubbliche amministrazioni,
nell’allegato “1”, della delibera ANAC n. 1310, del 28.12.2016.
Medesima indicazione si rinviene nei documenti dell’Autorità Garante per la
protezione dei dati personali italiana, quali, ad esempio, le “Linee
guida in materia di trattamento di dati personali, contenuti anche in atti e
documenti amministrativi effettuato per finalità di pubblicità e trasparenza
sul web da soggetti pubblici e da altri soggetti obbligati”, contenute
nel provvedimento n. 243 del 15.05.2014.
Nel vostro caso, quindi, l’obbligo che si appalesa è quello contenuto
nell’articolo 14, commi 1 e 1-bis, del d.lgs. 33/2013. La pubblicazione dei
dati del dirigente a contratto devono, pertanto, essere pubblicati su
Amministrazione trasparente > Personale > Titolari di incarichi dirigenziali
(dirigenti non generali), magari aggiornati –entro tre mesi dall’inizio del
nuovo incarico– rispetto a quelli già pubblicati in precedenza, a seguito
del primo contratto di lavoro a tempo determinato.
Trascorso il nuovo triennio di incarico, qualora il dipendente cessi
effettivamente dall’incarico dirigenziale, i suo dati dovranno essere
trasferiti nella sotto-sezione Personale > dirigenti cessati, per la durata
di anni tre (15.09.2020
- link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
G.U. 10.09.2020 n. 225 "Determinazione dei compensi da corrispondere ai
componenti delle commissioni esaminatrici e della Commissione per
l’attuazione del progetto di riqualificazione delle pubbliche
amministrazioni (RIPAM)" (D.P.C.M.
24.04.2020).
---------------
Il suddetto DPCM è stato adottato in applicazione di quanto dispone l'art.
3, comma 13, della L. 19.06.2019 n. 56 il quale così dispone:
13. Con decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro per la pubblica
amministrazione, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze,
da adottare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della
presente legge, si provvede all'aggiornamento, anche in deroga all'articolo
6, comma 3, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con
modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122, dei compensi da corrispondere
al presidente, ai membri e al segretario delle commissioni esaminatrici dei
concorsi pubblici per l'accesso a un pubblico impiego indetti dalle
amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, e dagli enti
pubblici non economici nazionali, nonché al personale addetto alla vigilanza
delle medesime prove concorsuali, secondo i criteri stabiliti con il decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri 23.03.1995, pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale n. 134 del 10.06.1995. PERIODO SOPPRESSO DAL D.L.
19.05.2020, N. 34. All'attuazione del presente comma si provvede nei limiti
delle risorse disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori
oneri a carico della finanza pubblica. Tali incarichi si considerano
attività di servizio a tutti gli effetti di legge, qualunque sia
l'amministrazione che li ha conferiti. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Tempo
determinato oltre 36 mesi.
Domanda
È consentita la stipulazione tra il lavoratore ed il medesimo datore di
lavoro di contratti di lavoro a tempo determinato della durata superiore di
36 mesi, a seguito di selezioni concorsuali diverse?
Risposta
In generale, nel caso in cui un Ente decida, motivandolo adeguatamente, di
riutilizzare il lavoratore oltre il periodo di 36 mesi previsto dalla legge,
il Dipartimento della Funzione Pubblica, con nota n. 37.562/2012, ha
evidenziato che il superamento di un nuovo concorso pubblico a tempo
determinato consente di azzerare la durata del contratto precedente ai fini
del computo del limite massimo dei 36 mesi previsto dal d.lgs. 368/2001 (si
veda il primo paragrafo di pagina 4).
L’indicazione può ritenersi applicabile anche dopo l’adozione del D.Lgs. n.
81/2015, che non ha innovato o modificato le regole in materia già vigenti
in precedenza.
Non vi sono però norme di legge a supporto di tale interpretazione, né
indicazioni specifiche nell’art. 50 del CCNL del comparto “Funzioni
Locali” sottoscritto in data 21.05.2018 (10.09.2020
- link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Aggiornamento
Codice di comportamento.
Domanda
Il codice di comportamento del nostro comune è stato adottato nel 2014. È
necessario predisporre un nuovo codice di comportamento di ente?
Risposta
La legge Severino (legge 06.11.2012, n. 190), all’articolo 1, comma 44, ha
sostituito l’intero articolo 54, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165
ed ha stabilito, per la prima volta (comma 5), che le previsioni del codice
di comportamento nazionale, fossero integrate e specificate dai codici di
comportamento adottati dalle singole amministrazioni. Come tutti sappiamo,
il nuovo codice di comportamento nazionale venne, poi, approvato con decreto
del Presidente della Repubblica del 16.04.2013, n. 62, il quale,
all’articolo 1, comma 2, non poteva che ribadire l’obbligo per le P.A. di
dotarsi di un codice di comportamento di ente.
Così è stato fatto –tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014– dalla totalità
delle pubbliche amministrazioni italiane ed oggi, il codice nazionale e
quello di ente fanno buona mostra di sé, nei siti web di tutte le P.A. nella
sezione: Amministrazione trasparente> Disposizioni generali > Atti generali.
Per rendere più cogente l’obbligo, il legislatore nazionale intervenne
scrivendo l’articolo 19, comma 5, lett. b), del decreto-legge 90/2014, in
cui si stabiliva una sanzione pecuniaria da 1.000 a 10.000 euro per i
soggetti che omettevano la redazione del codice di comportamento di ente. L’ANAC
–nella sua fase di massimo “splendore creativo”– riuscì, con un
regolamento del 09.09.2014, ad allargare le maglie della legge, prevedendo
la medesima sanzione, anche per gli enti che avevano adottato un codice di
ente meramente riproduttivo del Codice di comportamento emanato con il
decreto del Presidente della Repubblica 16.04.2013, n. 62 o l’approvazione
di un provvedimento, il cui contenuto riproduca in modo integrale analoghi
provvedimenti adottati da altre amministrazioni, privo di misure specifiche
introdotte in relazione alle esigenze dell’amministrazione interessata.
Insomma: l’ANAC prometteva multe per tutti. Per chi non provvedeva, ma anche
per chi copiava la legge senza integrarla a sufficienza o per chi –complice
il web– aveva copiato dal vicino di banco.
Nel Piano Anticorruzione Nazionale (PNA) dell’anno 2019 –delibera n. 1074
del 21.11.2018– l’ANAC ha utilizzato tutto il paragrafo 8 per spiegarci che
aveva deciso “di condurre sul tema dei codici di comportamento un
notevole sforzo di approfondimento sui punti più rilevanti della nuova
disciplina e partendo dalla constatazione della scarsa innovatività dei
codici di amministrazione che potremmo chiamare “di prima generazione”, in
quanto adottati a valle dell’entrata in vigore del d.P.R. 63/2013 e delle
prime Linee Guida ANAC dell’ottobre del 2013. Tali codici, infatti, si sono,
nella stragrande maggioranza dei casi, limitati a riprodurre le previsioni
del codice nazionale, nonostante il richiamo delle Linee guida ANAC sulla
inutilità e non opportunità di una simile scelta”.
Sull’argomento, l’ANAC preannunciava –per i primi mesi del 2019–
l’emanazione di apposite (nuove) linee guida generali con le quali “si
daranno istruzioni alle amministrazioni quanto ai contenuti dei codici
(doveri e modi da seguire per un loro rispetto condiviso), al procedimento
per la loro formazione, agli strumenti di controllo sul rispetto dei doveri
di comportamento, in primo luogo in sede di responsabilità disciplinare”.
Le Linee guida non hanno visto la luce nel promesso anno 2019 (annus
horribilis per l’Autorità), ma in quello successivo, per il tramite della
delibera ANAC n. 177 del 19.02.2020, suddivisa in sedici paragrafi, per un
totale di 36 pagine.
In soldoni, le nuove linee guida ribadiscono che i codici di comportamento
di ente –quelli che sarebbero di “seconda generazione”– devono
integrare e specificare i contenuti del codice generale. Che la loro
adozione deve essere preceduta da una “procedura aperta alla
partecipazione” e che sulla stesura definitiva, occorre il parere
obbligatorio (ma non vincolante) dell’OIV o Nucleo di valutazione. Non
grandissime novità –potremmo dire– dal momento che si tratta di disposizioni
legislative note dal novembre del 2012.
Svolta questa lunga e forse inutile– premessa, si risponde al quesito
nel modo seguente:
a) Non è obbligatorio rifare il codice di comportamento di ente;
b) Non c’è una legge che lo preveda o un termine da rispettare;
c) Non ci sono sanzioni per chi decide di tenersi quello che ha
già, se funziona;
d) Può essere utile e, in alcuni casi necessario –dopo sei anni del
“vecchio codice”– prevedere un tagliando anche alla luce delle
esperienze maturate nell’ente, dell’applicabilità del vecchio codice, della
eventuale necessità di aggiornarlo e renderlo più chiaro ed efficace,
soprattutto per ciò che concerne i comportamenti, le dichiarazioni e
comunicazioni dei dipendenti (artt. 5, 6 e 13 codice generale) e la loro
tempistica;
e) Se il RPCT decide di metterci le mani –magari perché la misura è
stata anche prevista nel PTPCT 2020/2022– occorre fare riferimento alle
Linee guida ANAC, prestando una particolare attenzione ai paragrafi:
– 11. Procedura di formazione dei codici;
– 12. Struttura dei codici;
– 15. Formazione sui contenuti dei codici di comportamento;
– 16. Vigilanza sull’applicazione dei codici (08.09.2020
- link a www.publika.it). |
agosto 2020 |
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Assunzioni nei comuni a rischio, dopo il DM 17.03.2020. Necessario
rivederlo, ma non per livellare al ribasso l'indice di virtuosità dei comuni
(31.08.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Processi
evolutivi da smart working e riforma della P.A.
(29.08.2020
- link a www.mauriziolucca.com).
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Lo smart working alimenta il dibattito pubblico con vicende che spesso
appaiono contradittorie, da una parte, alcune categorie di lavoratori si
“rifiutano” di rientrare in servizio (ovvero, manifestano perplessità al
rientro forzato non essendo –in grado il datore di lavoro pubblico– di
assicurare la sicurezza dal contagio), dall’altra parte, chi vorrebbe
rientrare al lavoro (ovvero, far rientrare il personale in servizio, c.d. in
presenza), viene chiamato a fornire chiarimenti dalla Funzione Pubblica per
la presunta violazione del protocollo quadro “Rientro in sicurezza”,
sottoscritto il 24.07.2020 dal Ministro per la P.A. (...continua). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Concorsi
pubblici: sarà poi vero che le prove scritte debbono essere anonime e
segrete? L'Anac suggerisce di ribadire nel Ptpc quel che la legge e la
giurisprudenza affermano da sempre. Abbundantis abbundantiam...
(27.08.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Questo
Comune, nel corso dell'anno 2020, ha registrato alcune cessazioni di
personale riconducibili a diverse fattispecie (dimissioni volontarie,
pensionamento e mobilità).
Alla luce del Decreto Interministeriale del 17.03.2020, in attuazione del
D.L. 30.04. 2019, n. 34, si chiede un vostro parere sul fatto che l'Ente, a
prescindere dai valori soglia e dalla percentuale di assunzioni massima
stabilita dallo stesso decreto, possa procedere alla sostituzione del
personale cessato?
Per rispondere al quesito proposto segnaliamo come sul tema specifico sia
intervenuta la prima pronuncia della Magistratura Contabile con parere della
sezione regionale di controllo per la Regione Lombardia n. 93 del
30.07.2020.
La Corte dei Conti lombarda nel ricordare che la nuova normativa introdotta
dal legislatore fornisce un nuovo ambito di applicazione della c.d. capacità
assunzionale basato sulla "sostenibilità finanziaria" della spesa,
ossia sulla sostenibilità del rapporto tra spese di personale ed entrate
correnti, rimarca il fatto che la stessa sezione si è già espressa (con
deliberazione nella predetta Delib. 74/2020/PAR) anche sull'ambito temporale
di estensione nella nuova normativa per cui, secondo il c.d. principio del
tempus regit actum, per le assunzioni da effettuare dall'entrata in
vigore della nuova normativa, i nuovi spazi assunzionali sono legati alla
regola della sostenibilità finanziaria della spesa misurata attraverso i
valori soglia per come definiti nella disciplina normativa sopra richiamata.
Secondo la corte, infatti, la peculiarità del nuovo parametro è infatti da
ricercarsi nella "flessibilità che in una situazione fisiologica (e
dunque al netto di quella contingente, eccezionale e di emergenza)
responsabilizza l'ente sul versante della riscossione delle entrate il cui
gettito medio nel triennio potrà, se in aumento, offrire anche ulteriori
spazi assunzionali" e ne consegue il fatto che, in risposta alla domanda
odierna, che, per le procedure effettuate dal 20.04.2020 (termine dettato
dalla circolare esplicativa al DM assunzionale), i comuni non possono
procedere alla sostituzione del personale cessato nell'anno (per dimissioni
volontarie, pensionamento o mobilità), a prescindere dai valori soglia e
dalle percentuali assunzionali stabilite dal D.L. 30.04.2019, n. 34 e dalla
normativa di attuazione contenuta nel D.M. 17.03.2020 della Presidenza del
Consiglio dei ministri - Dipartimento della funzione pubblica.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.L. 30.04.2019, n. 34, art. 33 D.L. 34/2019 - D.M. 17.03.2020 della
Presidenza del Consiglio dei Ministri Dip. funz. pubbl.
Documenti allegati
Circ. 17.03.2020 del Ministero dell'Interno
(26.08.2020 - tratto da
http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Niente rimborso delle spese legali per omicidio colposo durante un viaggio
di servizio
(25.08.2020
- link a www.mauriziolucca.com).
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La Sez. II del Consiglio di Stato, con la sentenza 24.08.2020 n. 5182
(est. Luttazi), conferma un orientamento che riconosce il rimborso alle
spese legali solo sul presupposto che il fatto, o l’atto oggetto del
giudizio, sia stato compiuto nell’esercizio delle attribuzioni affidate al
dipendente pubblico e vi sia un nesso di strumentalità –tra l’adempimento
del dovere e il compimento dell’atto– nel senso che il dipendente non
avrebbe eseguito ai suoi compiti se non compiendo quel fatto o quell’atto,
oltre, la dovuta assenza del conflitto di interessi. (...continua). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ordinanzite,
la grave malattia che flagella l'ordinamento giuridico
(24.08.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Bilanciamento
tra esigenze di pari rango.
Nel rapporto di lavoro pubblico, la limitazione dell’irrinunciabile
diritto costituzionale alle ferie con il divieto di
pagamento della retribuzione corrispondente alle ferie non
godute, può operare solo nei limiti del bilanciamento tra
esigenze di pari rango, ossia se la parte datoriale abbia
messo il lavoratore in condizione di fruirne; solo in tal
caso il legislatore può legittimamente stabilire, per fictio
iuris, l’impossibilità sopravvenuta della prestazione perché
l’obbligato ha offerto la prestazione ed il creditore è in
mora nel riceverla
(TRIBUNALE di Piacenza, Sez. lav., sentenza 20.08.2020 n.
6 - massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nessuna situazione di inconferibilità e incompatibilità (ex d.lgs. n.
39/2013) per la partecipazione ad una procedura concorsuale a dirigente: va
accertata all’esito della nomina
(19.08.2020
- link a www.mauriziolucca.com).
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In via preliminare, l’art. 60 e ss. del d.P.R. n. 3/1957 individua i casi di
incompatibilità (assoluti) a ricoprire un incarico pubblico, mentre gli artt.
28 e ss. del d.lgs. n. 165/2001 indicano i requisiti di accesso alla
qualifica di dirigente, l’art. 1 del d.lgs. n. 33/2013 prevede «ai fini del
conferimento di incarichi dirigenziali… nelle pubbliche amministrazioni,
negli enti pubblici e negli enti di diritto privato in controllo pubblico si
osservano le disposizioni contenute nel presente decreto, fermo restando
quanto previsto dagli articoli 19 e 23-bis del decreto legislativo
30.03.2001, n. 165, nonché dalle altre disposizioni vigenti in materia di
collocamento fuori ruolo o in aspettativa». (...continua). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Congedo per i genitori con figli di età non superiore ai dodici anni, di cui
agli artt. 23 e 25 del D.L. 18/2020, convertito dalla L. 27/2020. Effetti
sulle ferie.
Poiché le norme disciplinanti lo speciale congedo
istituito al fine di consentire ai genitori di provvedere alla cura dei
minori di età non superiore ai dodici anni durante il periodo di sospensione
dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle
scuole, conseguente all’emergenza epidemiologica da COVID-19, non
chiariscono gli effetti sulle ferie della relativa fruizione, nelle more di
un auspicabile tempestivo chiarimento da parte dei competenti Uffici e
Organismi dello Stato, si ritiene che la questione possa essere risolta
estendendo al congedo in esame la disciplina legale dettata dall’art. 34,
comma 5, del D.Lgs. 151/2001 per i congedi parentali “ordinari”, in base
alla quale i periodi di fruizione dei congedi non sono utili ai fini della
maturazione delle ferie.
Il Comune chiede di conoscere se la fruizione del congedo previsto dall’art.
23 [1] del
decreto-legge 17.03.2020, n. 18 [2],
convertito, con modificazioni, dalla legge 24.04.2020, n. 27, incida sul
computo delle ferie spettanti al lavoratore e, in caso affermativo, con
quale modalità di calcolo esse vadano rideterminate.
Occorre premettere che il congedo di cui trattasi –fruibile dai dipendenti
del settore pubblico nei termini previsti dal successivo art. 25
[3], di cui si dirà in
seguito– riveste natura straordinaria e provvisoria, essendo stato istituito
al fine di consentire ai genitori di provvedere alla cura dei minori durante
il periodo di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle
attività didattiche nelle scuole, conseguente all’emergenza epidemiologica
da COVID-19.
L’art. 23 del D.L. 18/2020 prevede –per quanto qui rileva– che qualora
ricorrano le condizioni ivi stabilite, ciascun genitore lavoratore
dipendente del settore privato ha diritto a fruire, per un periodo
continuativo o frazionato comunque non superiore a trenta giorni, per la
cura dei figli di età non superiore ai dodici anni, fatto salvo quanto
previsto al comma 5 [4],
di uno «specifico congedo», per il quale è riconosciuta un’indennità
pari al cinquanta per cento della retribuzione [5].
La norma chiarisce che «I suddetti periodi sono coperti da contribuzione
figurativa» (comma 1).
La disposizione stabilisce, poi, che gli eventuali periodi di congedo
parentale, di cui agli artt. 32 [6]
e 33 [7] del
decreto legislativo 26.03.2001, n. 151 [8],
fruiti dai genitori durante il periodo di sospensione dei servizi educativi
per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole «sono convertiti
nel congedo di cui al comma 1 con diritto all’indennità e non computati né
indennizzati a titolo di congedo parentale» (comma 2).
L’art. 25, comma 1, del D.L. 18/2020, estendendo la disciplina del congedo
in esame ai lavoratori del pubblico impiego:
1) stabilisce una diversa ampiezza temporale per la sua fruizione
[9], rispetto a quanto
previsto per i dipendenti del settore privato [10];
2) sancisce che i genitori hanno diritto a fruire dello specifico
congedo e relativa indennità di cui all’art. 23, commi 1, 2, 4
[11], 5
[12], 6 [13]
e 7 [14], tranne
qualora «uno o entrambi i lavoratori stiano già fruendo di analoghi
benefici».
Il comma 2 del medesimo art. 25 stabilisce, poi, che «L’erogazione
dell’indennità, nonché l’indicazione delle modalità di fruizione del congedo
sono a cura dell’amministrazione pubblica con la quale intercorre il
rapporto di lavoro.».
Ciò posto, si osserva che la disciplina del congedo in argomento non
contiene alcuna indicazione circa gli effetti sulle ferie della fruizione
dello stesso, né tale questione risulta affrontata nei documenti
parlamentari concernenti il D.L. 18/2020 e la relativa legge di conversione
e neppure negli atti interpretativi e di indirizzo riguardanti il nuovo
istituto [15].
Considerato che:
a) gli eventuali periodi di congedo parentale “ordinario”,
di cui al già richiamato D.Lgs. 151/2001, fruiti dai genitori durante il
periodo di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività
didattiche nelle scuole sono convertiti ex lege nello speciale
congedo oggetto di disamina;
b) ambedue le tipologie di assenza dal lavoro perseguono il
medesimo fine e fanno riferimento ai figli di età non superiore ai dodici
anni;
c) entrambi i congedi prevedono la corresponsione di un’indennità,
determinata in base al medesimo parametro [16]
e in misura inferiore [17]
rispetto alla retribuzione in godimento;
sembra che i due istituti possano ritenersi assimilabili.
Al riguardo, si segnala la posizione assunta dall’Istituto Nazionale
Previdenza Sociale (INPS) [18]
che, pur esprimendosi su questione diversa [19]
da quella oggetto di disamina, rileva che il “congedo COVID-19” si
ispira alla medesima ratio juris che caratterizza i congedi parentali
di cui agli artt. 32 e seguenti del D.Lgs. 151/2001, propendendo apertamente
per l’assimilazione dei due istituti e per l’estensione della normativa
disciplinante i congedi parentali al “congedo COVID-19”.
Occorre, pertanto, valutare la possibilità di risolvere il quesito posto
applicando al “congedo COVID-19” la disciplina dettata per il congedo
parentale “ordinario”.
Fermo restando che, trattandosi di norme statali, l’interpretazione delle
relative disposizioni compete esclusivamente agli Uffici e agli Organismi
dello Stato preposti alla trattazione della materia, nelle more di un
auspicabile tempestivo chiarimento da parte degli stessi, si formulano, in
via collaborativa, le seguenti considerazioni.
L’art. 34, comma 5, del D.Lgs. 151/2001 stabilisce che «I periodi di
congedo parentale sono computati nell’anzianità di servizio, esclusi gli
effetti relativi alle ferie e alla tredicesima mensilità o alla gratifica
natalizia.».
Come chiarito dall’Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche
Amministrazioni (ARAN) [20]
la norma deve intendersi nel senso che i periodi di fruizione dei congedi
parentali non sono utili ai fini della maturazione delle ferie
[21], tranne qualora sia
diversamente stabilito da un’eventuale disciplina di maggiore tutela
[22], espressamente
consentita dall’art. 1, comma 2 [23],
del D.Lgs. 151/2001.
Poiché occorre individuare la regola utile a risolvere il quesito posto, si
ritiene che essa debba rinvenirsi nell’ordinaria disciplina legale, non
potendosi fare riferimento, per via analogica, ad un’eventuale disposizione
derogatoria della stessa [24].
Quanto al quesito volto a stabilire con quale modalità di calcolo vadano
rideterminate le ferie, si segnala che l’ARAN [25]
afferma che «relativamente alla particolare problematica della
determinazione dei giorni di ferie maturati mensilmente dal dipendente, in
presenza nel mese di periodi di assenza dal lavoro non utili a tal fine,
come già evidenziato in precedenti orientamenti applicativi, l’avviso della
scrivente Agenzia, in generale, è nel senso che, in mancanza di una regola
contrattuale espressa, una possibile soluzione, sulla base dei consueti
principi di logica e ragionevolezza, potrebbe essere quella di applicare in
materia un principio di stretta proporzionalità».
Pertanto, secondo l’ARAN, «si dovrebbe procedere alla individuazione
della quantità delle ferie spettanti per mese, tenendo conto dell’incidenza
in ciascuno di essi degli eventuali periodi di assenza che non danno luogo a
maturazione di ferie».
---------------
[1] «Congedo e indennità per i lavoratori dipendenti del settore privato,
i lavoratori iscritti alla Gestione separata di cui all’art. 2, comma 26
della legge 08.08.1995, n. 335, e i lavoratori autonomi, per emergenza
COVID-19».
[2] «Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno
economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza
epidemiologica da COVID-19».
[3] «Congedo e indennità per i lavoratori dipendenti del settore pubblico,
nonché bonus per l’acquisto di servizi di baby-sitting per i dipendenti del
settore sanitario pubblico e privato accreditato, per emergenza COVID-19».
[4] «Ferma restando l’estensione della durata dei permessi retribuiti di cui
all’articolo 24, il limite di età di cui ai commi 1 e 3 non si applica in
riferimento ai figli con disabilità in situazione di gravità accertata ai
sensi dell’articolo 4, comma 1, della legge 05.02.1992, n. 104, iscritti a
scuole di ogni ordine e grado o ospitati in centri diurni a carattere
assistenziale.».
[5] Calcolata ai sensi dell’art. 23, eccettuato il comma 2, del D.Lgs.
151/2001.
[6] «Congedo parentale (legge 30.12.1971, n. 1204, articoli 1, comma 4, e 7,
commi 1, 2 e 3)».
[7] «Prolungamento del congedo (legge 05.02.1992, n. 104, art. 33, commi 1 e
2; legge 08.03.2000, n. 53, art. 20)».
[8] «Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e
sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della
legge 08.03.2000, n. 53».
[9] «A decorrere dal 05.03.2020, in conseguenza dei provvedimenti di
sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche
nelle scuole di ogni ordine e grado, di cui al Decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri 04.03.2020, e per tutto il periodo della sospensione
ivi prevista […]».
[10] «Per l’anno 2020, a decorrere dal 5 marzo e fino al 31 agosto […]».
[11] «La fruizione del congedo di cui al presente articolo è riconosciuta
alternativamente ad entrambi i genitori, per un totale complessivo di trenta
giorni, ed è subordinata alla condizione che nel nucleo familiare non vi sia
altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di
sospensione o cessazione dell’attività lavorativa o altro genitore
disoccupato o non lavoratore.».
[12] Vedi nota n. 4.
[13] «In aggiunta a quanto previsto nei commi da 1 a 5, i genitori
lavoratori dipendenti del settore privato con figli minori di anni 16, a
condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario
di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione
dell’attività lavorativa o che non vi sia altro genitore non lavoratore,
hanno diritto di astenersi dal lavoro per l’intero periodo di sospensione
dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle
scuole di ogni ordine e grado, senza corresponsione di indennità né
riconoscimento di contribuzione figurativa, con divieto di licenziamento e
diritto alla conservazione del posto di lavoro.».
[14] «Le disposizioni del presente articolo trovano applicazione anche nei
confronti dei genitori affidatari.».
[15] Presidenza del Consiglio dei Ministri – Ministro per la Pubblica
Amministrazione, circolare n. 2/2020 del 01.04.2020; Istituto Nazionale
Previdenza Sociale: messaggio n. 1281 del 20.03.2020, circolare n. 45 del
25.03.2020, messaggio n. 1621 del 15.04.2020, messaggio n. 1648 del
16.04.2020, circolare n. 81 dell’08.07.2020; messaggio n. 2968 del
27.07.2020.
[16] L’art. 23, comma 1, primo periodo, del D.L. 18/2020 stabilisce che
l’indennità è «calcolata secondo quanto previsto dall’articolo 23 del testo
unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della
maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26.03.2001, n.
151, ad eccezione del comma 2 del medesimo articolo».
[17] Nel congedo “ordinario” l’indennità è pari al 30%, mentre nel congedo
“COVID-19” è pari al 50% della retribuzione.
[18] Messaggio n. 2968 del 27.07.2020, cit.
[19] Valutabilità dei periodi di assenza dal lavoro per fruizione del
“congedo COVID-19” ai fini delle prestazioni previdenziali di fine servizio
(TFS-TFR).
[20] Vedi, in particolare, gli orientamenti applicativi RAL 1950 e RAL 1951
del 06.11.2017.
[21] Si veda, per completezza, anche l’orientamento applicativo ARAN EPNE
146 del 02.08.2012.
[22] Che, in questo contesto territoriale, è recata dall’art. 5, comma 9,
della legge regionale 27.11.2006, n. 23, secondo il quale «Per il personale
degli enti locali, a decorrere dall’01.12.2005, nell’ambito del periodo di
astensione dal lavoro previsto dall’articolo 32 del decreto legislativo
26.03.2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di
tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo
15 della legge 08.03.2000, n. 53), per le lavoratrici madri o in alternativa
per i lavoratori padri, i primi sessanta giorni, computati complessivamente
per entrambi i genitori e fruibili anche frazionatamente, non riducono le
ferie, sono valutati ai fini dell’anzianità di servizio e sono retribuiti
per intero, con esclusione dei compensi per lavoro straordinario e le
indennità per prestazioni disagiate, pericolose o dannose per la salute.».
La previsione è stata recepita dall’art. 20, comma 1, del Contratto
collettivo regionale di lavoro del personale non dirigente del Comparto
unico del pubblico impiego regionale e locale del Friuli Venezia Giulia del
07.12.2006 – Quadriennio normativo (II fase) 2002-2005 e biennio economico
2004-2005.
[23] «Sono fatte salve le condizioni di maggior favore stabilite da leggi,
regolamenti, contratti collettivi, e da ogni altra disposizione.».
[24] Un tanto ai sensi dell’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice
civile.
[25] Vedi, in particolare, gli orientamenti applicativi RAL 1871
dell’11.10.2016 e RAL 1889 del 18.11.2016 (17.08.2020 - link a
http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Legge
104/1992: ora si può restare anche a casa propria.
È legittima l’assistenza a distanza del disabile, rimanendo
in attesa di una sua chiamata e pronti a intervenire in caso di necessità:
lo afferma la Corte di Cassazione.
Un tuo familiare è disabile grave e per assisterlo usufruisci dei permessi
della legge 104, che ti consente di assentarti dal lavoro. Sicuramente sai
che questa agevolazione è legata alle necessità della persona da assistere:
il congedo straordinario offerto dalla legge 104 deve essere utilizzato
proprio ed esclusivamente per gli scopi consentiti e non per altre finalità.
Se ne abusi, potresti anche essere licenziato.
Ma cosa succede se quando sei in permesso dal lavoro rimani a casa tua ad
aspettare una eventuale chiamata del tuo familiare disabile e nel frattempo
ti riposi o ti dedichi alle tue faccende?
La nuovissima
ordinanza 12.08.2020 n. 16930
della Corte di Cassazione, Sez.
lavoro, fa luce proprio su questo
punto e stabilisce che è legittimo prestare assistenza “a distanza”,
restando nella propria abitazione a disposizione del disabile che può
comunicare le sue richieste di intervento, in modo da recarsi da lui solo in
caso di necessità.
Il caso riguardava una lavoratrice che era stata licenziata proprio perché
era stato accertato che trascorreva le giornate di permesso quasi sempre a
casa sua, andando dal fratello disabile solo per una ventina di minuti. Però
per tutto il tempo rimaneva in una posizione di attesa: è stato provato –rileva la sentenza– che la donna «era rimasta l’intera mattinata
nell’esclusiva disponibilità del fratello» disabile, «il quale avrebbe
potuto in qualsiasi momento richiedere la sua assistenza».
Così la lavoratrice aveva prestato un’«assistenza graduata» che non
spezzava il legame con le finalità del permesso e dunque non c’era stato, a
giudizio della Corte, nessun abuso. Questo significa che mentre si è in
congedo o permesso per legge 104 non è sempre necessario stare in presenza
del familiare disabile.
Diversamente sarebbe accaduto –rileva il Collegio– se fosse stato accertato,
durante il periodo di congedo per legge 104, «lo svolgimento di attività
nell’esclusivo interesse del lavoratore, quali l’essersi recato in vacanza,
aver partecipato ad attività di personale interesse o aver adottato condotte
similari tali da denotare una violazione del principio di buona fede nei
rapporti con il datore di lavoro tale da integrare l’abuso del diritto».
Fermo restando che occorre rimanere a casa a disposizione del disabile in
caso di necessità, la Corte però si rende conto che la linea di demarcazione
tra uso legittimo del diritto attribuito dalla legge 104 ed abuso in questi
casi è molto sottile e si preoccupa di specificare i punti fermi.
Innanzitutto ricorda che l’assistenza al disabile, che legittima l’assenza
dal lavoro riconosciuta dalla legge 104, non può intendersi «esclusiva al
punto di impedire a chi la offre di dedicare spazi temporali adeguati alle
personali esigenze di vita»; rimane dunque un margine, fermo restando
che «deve comunque garantire al disabile grave un intervento
assistenziale di carattere permanente, continuativo e globale»; dunque
dev’essere un’assistenza piena, che non può essere limitata o compromessa
dalle esigenze personali del lavoratore.
L’abuso, invece, si verifica quando si spezza questo nesso indispensabile
tra l’assenza dal lavoro e l’assistenza al disabile: ciò avviene –spiegano
gli Ermellini– quando il lavoratore «approfitta del permesso per
attendere ad attività di suo esclusivo interesse».
Questo principio potrebbe rimanere vago, e allora la Cassazione aggiunge
che, nei casi concreti da esaminare, «occorre verificare se l’eventuale
esercizio di altre attività o, come nel caso che qui occupa, la semplice
attesa dell’occorrente assistenza possano integrare un uso legittimo del
permesso». E in questo caso la Corte ha accertato che il comportamento
della lavoratrice rimasta a casa era stato «sicuramente non profittevole».
La sentenza di oggi raggiunge conclusioni opposte a quelle di una precedente
pronuncia dello scorso anno, che aveva detto sì al licenziamento per chi si
riposa a casa. Se accostiamo i due casi, scopriamo che in realtà il
principio di fondo è il medesimo: quello che conta è che le esigenze del
disabile da assistere abbiano il primo posto e il massimo rilievo. Quando
invece passano in secondo piano perché colui che dovrebbe prestare
assistenza si occupa di altro e non è in grado di intervenire, questa
trascuratezza pregiudica l’assistenza e il comportamento di chi “bada ai
fatti propri” diventa illegittimo.
Nel caso in cui è stato confermato il licenziamento era emerso che
l’assistenza era mancata ed era stata compromessa dal comportamento
egoistico del lavoratore che aveva preferito rimanere a casa sua anziché
recarsi ad accudire il disabile; invece nel nuovo caso di cui abbiamo
parlato si era realizzata una messa a disposizione a distanza e su chiamata
in caso di necessità, provata dal fatto che al momento del bisogno la
lavoratrice aveva trascorso con la persona disabile il tempo occorrente per
provvedere alle sue esigenze
(commento tratto da e link a www.laleggepertutti.it).
---------------
SENTENZA
- con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione
degli artt. 2119, 1375,
1175 cod. civ., e 33 L. 104/1992 in relazione all'art. 360, co. 1, n. 3 cod.
proc. civ. per
avere la Corte d'Appello ritenuto che la prestazione di mera attesa della
lavoratrice
presso la propria abitazione dovesse considerarsi assistenza graduata alle
esigenze via
via manifestate dalla persona (il fratello) beneficiaria dell'assistenza
medesima e,
dunque, la propria assenza dal lavoro legittima e rispettosa dei principi di
correttezza
e buona fede con conseguente legittimità del licenziamento;
- il motivo è infondato;
- la Corte, invero, dopo aver ricostruito la disciplina normativa
inerente alla
concessione di permessi ai sensi dell'articolo 33 della legge n. 104 del
1992, ha
escluso, sulla base delle risultanze probatorie raccolte in primo grado,
l'utilizzazione
abusiva del permesso per l'assistenza del proprio fratello da parte della
ricorrente;
- in particolare, il Collegio ha evidenziato come già all'esito
dell'istruttoria
sommaria e, comunque, in entrambi i procedimenti, fosse stato escluso in
fatto che
nel pomeriggio del 24 dicembre la Ca. avesse trascorso con il
fratello soltanto
una ventina di minuti ed ha ritenuto che l'esser rimasta la dipendente nella
propria
abitazione a disposizione del fratello non integrasse quelle ipotesi di
abuso di
posizione riscontrate dalla giurisprudenza di legittimità in circostanze del
tutto diverse,
nelle quali era stato accertato lo svolgimento di attività nell'esclusivo
interesse del
lavoratore, quali l'essersi recato in vacanza, aver partecipato ad attività
di personale
interesse o aver adottato condotte similari atte a denotare una violazione
del principio
di buona fede nei rapporti con il datore di lavoro tali da integrare l'abuso
del diritto (il
richiamo del Collegio è a Cass. n. 4984/2014, Cass. n. 8784/2015; Cass. n.
5574/2016, Cass. n. 5574/2016; Cass. n. 9217/2016, cui si possono
aggiungere, fra
le altre, Cass. n. 17968/2016 e Cass. n. 19850 del 2019);
- la Corte ha ritenuto, quindi, infondata la contestazione
datoriale per i fatti
specifici addebitati ed inoltre dimostrato non solo l'assunto secondo cui la
lavoratrice
avrebbe dovuto andare a prendere il fratello al lavoro per trascorrere con
lui presso la
propria abitazione la vigilia di Natale, ma anche che lo stesso l'aveva
chiamata alle 11
circa del mattino per avvisarla che non stava bene e che sarebbe uscito
anticipatamente dal lavoro, precisando che l'avrebbe chiamata per dirle
quando
andare a prenderlo;
- ha ritenuto, quindi, il Collegio, pienamente provata la
circostanza che la
ricorrente fosse rimasta l'intera mattinata nell'esclusiva disponibilità del
fratello, il
quale avrebbe potuto in qualsiasi momento richiedere la sua assistenza e,
quindi,
anche prima delle 13:00, come effettivamente si era verificato per effetto
della
chiamata di cui era rimasta in attesa, ancorché egli poi avesse preferito
recarsi presso
la propria abitazione autonomamente, per essere raggiunto dalla sorella;
- orbene, va premesso che questa Corte ha affermato, in tema di
congedo
straordinario ex art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, che
l'assistenza che
legittima il beneficio in favore del lavoratore, pur non potendo intendersi
esclusiva al
punto da impedire a chi la offre di dedicare spazi temporali adeguati alle
personali
esigenze di vita, deve comunque garantire al familiare disabile in
situazione di gravità
di cui all'art. 3, comma 3, della I. n. 104 del 1992 un intervento
assistenziale di
carattere permanente, continuativo e globale (Cass. n. 19580/2019 cit.);
- nondimeno, essa ha precisato che soltanto ove venga a mancare del tutto il
nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile, si è in
presenza di un
uso improprio o di un abuso del diritto ovvero di una grave violazione dei
doveri di
correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro che
dell'ente
assicurativo che genera la responsabilità del dipendente (ancora Cass. n.
19580/2019
cit.);
- la Corte, d'altro canto, nel dar conto della giurisprudenza di
legittimità che
richiede che i permessi vengano fruiti in coerenza con la loro funzione ed
in presenza
di un nesso causale con l'attività di assistenza, ha fatto corretta
applicazione delle
regole di giudizio che presiedono a tale ambito escludendo il difetto di
buona fede ed il
disvalore sociale connesso all'abusivo esercizio del permesso atteso che,
secondo il
suo giudizio, l'atteggiamento della ricorrente è stato quello di profittare
del permesso
per attendere ad attività di proprio esclusivo interesse;
- deve, d'altro canto, rilevarsi che, nell'osservanza dei principi
generali, in taluni
casi, in fatto, può rivelarsi sottile il discrimen fra uso corretto del
permesso ed
esercizio abusivo e, tuttavia, tale valutazione richiede una indagine
fattuale, quale
quella esperita dalla Corte territoriale nella specie, atteso che occorre
verificare in
concreto se l'eventuale esercizio di altra attività o, come nel caso che qui
ne occupa,
la semplice attesa dell'occorrente assistenza possano integrare un uso
legittimo del permesso: tale ove, come nella specie circostanziata ed immune
da vizi logici, è
sottratta al giudizio di legittimità;
- nel caso di specie, ribadito che attiene alla violazione di legge
la deduzione di
un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della
fattispecie
astratta recata da una norma di legge, implicando necessariamente una
attività
interpretativa della stessa, nella specie, la stessa piana lettura delle
modalità di
formulazione delle censure ed il riferimento ad una diversa valutazione dei
mezzi
istruttori, di spettanza esclusiva del giudice di merito, induce ad
escludere, ictu oculi,
la deduzione di una erronea sussunzione nelle disposizioni normative
mentovate della
fattispecie considerata, apparendo, invece, chiarissima l'istanza volta ad
ottenere una
inammissibile rivalutazione del merito della vicenda;
- in ogni caso, la del tutto congrua motivazione e, in particolare,
il rispetto dei
canoni che presiedono alla fruizione dei permessi come elaborati
dall'interpretazione
normativa offerta dalla giurisprudenza di legittimità inducono a ritenere
che la Corte
abbia fatto buon governo dei principi che regolano la materia;
- con il secondo motivo di ricorso, si deduce la violazione degli articoli
2119,
1175, 1375 del codice civile e 33 legge n. 104/1992 nonché l'omesso esame di
un fatto
decisivo per il giudizio nella parte in cui il giudice del reclamo ha
ritenuto che la
questione della mancata offerta della prestazione lavorativa sarebbe
superata dal fatto
che l'opzione giornaliera di fruizione del permesso escludeva "infatti ab
origine la
possibilità per la lavoratrice di un frazionamento dell'orario medesimo";
- va preventivamente rilevato, con riguardo all'ancoramento delle
censure
all'art. 360, co. 1, n. 5, cod. proc. civ., che, in seguito alla riformulazione
dell'art. 360,
comma 1, n. 5 del cod. proc. civ., disposto dall'art. 54, co. 1, lett. b), del
DL 22.06.2012 n. 83, convertito con modificazioni nella legge 07.08.2012 n. 134
che ha
limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado
per vizio
di motivazione alla sola ipotesi di "omesso esame circa un fatto decisivo
per il giudizio
che è stato oggetto di discussione tra le parti", con la conseguenza che, al
di fuori
dell'indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane
circoscritto alla sola
verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto
"minimo
costituzionale" richiesto dall'art. 111, comma 6, Cost. ed individuato "in
negativo"
dalla consolidata giurisprudenza della Corte -formatasi in materia di
ricorso
straordinario- in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione
quale
requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione
apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione
perplessa od incomprensibile)
che si convertono nella violazione dell'art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c. e
che
determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto
requisito di
validità (fra le più recenti, Cass. n. 23940 del 2017);
- ritiene il Collegio che nessun insanabile contrasto come dedotto
da parte
ricorrente sia ravvisabile nella motivazione della Corte che non presenta
alcuno degli
indici rivelatori della motivazione apparente, come dedotto dal ricorrente
nel corpo del
motivo, dal momento che tale violazione può configurarsi soltanto quando la
motivazione, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile
il
fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente
inidonee a
far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del
proprio
convincimento, non potendosi lasciare all'interprete il compito di
integrarla con le più
varie, ipotetiche, congetture (sul punto, Cass. n. 13977 del 23.05.2019);
- l'insussistenza dell'insanabile contrasto, d'altro canto,
discende piuttosto dalla
perfetta congruenza della considerata motivazione, in tutte le sue parti: in
particolare,
la Corte ha escluso la sussistenza del fatto contestato reputando
sicuramente non
profittatore l'atteggiamento della ricorrente, ma, inoltre, con riguardo
alla possibilità
di porre a disposizione della datrice di lavoro le proprie energie
lavorative nelle ore
che non sarebbero state occupate dall'assistenza, la considerazione della
Corte
secondo cui l'aver optato per la fruizione dei permessi ex lege 104/1992 "a
giorni" e non
"a ore" supera ogni argomento circa la mancata offerta della prestazione
lavorativa -per le ore dalle 9 alle 12,00 in cui la lavoratrice sapeva di non essere
impegnata
nell'assistenza- è perfettamente congrua nell'aver ritenuto che l'opzione
giornaliera di
fruizione del permesso escludeva ab origine la possibilità per la
lavoratrice di un
frazionamento orario del medesimo;
- alla luce delle suesposte argomentazioni, quindi, il ricorso va
respinto; |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Azione delittuosa di un
dipendente pubblico – Danno all’immagine – Quantificazione
equitativa – Nozione del danno erariale non patrimoniale –
Bene giuridico tutelato – PUBBLICO IMPIEGO – Valutazione
della condotta dall’agente – Art. 97 Cost. – Art. 1226 c.c.
– Criteri – Fattispecie: art. 319 cp (corruzione per atto
contrario ai doveri d’ufficio) – azione di responsabilità
amministrativa per il diritto al risarcimento del danno.
Il danno all’immagine della Pubblica
Amministrazione fa parte della categoria del cd. danno
erariale non patrimoniale, inteso come grave perdita di
prestigio a seguito del danno all’immagine e alla
personalità pubblica dello Stato derivante dall’azione
delittuosa di un suo dipendente.
Il bene giuridico tutelato è –pertanto– il diritto
all’immagine del soggetto pubblico, come proiezione verso
l’esterno della propria personalità, anche giuridica, nella
lettura necessariamente aperta dell’art. 2 Cost.
In secundis, oggetto di tutela sono il prestigio e
l’efficienza della Pubblica Amministrazione di cui all’art.
97 Cost., nonché la fiducia che i consociati stessi
ripongono verso la sua azione, irreparabilmente compromessa
dalla condotta contra legem dei propri dipendenti
nell’esercizio delle proprie funzioni, di modo che il
ristoro del danno, certo nell’an, non può che avvenire per
equivalente economico, in misura equitativa, idonea a
risarcire –sia pure per via indiretta– i valori
costituzionali compromessi dalla condotta dall’agente.
...
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Danno all’immagine e danno
pubblico – Lesione del buon andamento della P.A. – Elemento
costitutivo illecito – Condotta illecita dei dipendenti –
Lesione della credibilità ed affidabilità all’interno ed
all’esterno dell’Amministrazione – Effetti e limiti del
clamore mediatico – Giurisprudenza.
Il danno all’immagine si atteggia quale
“danno pubblico” in quanto lesione del buon andamento della
P.A., la quale perde, con la condotta illecita dei suoi
dipendenti, credibilità ed affidabilità all’interno ed
all’esterno della propria organizzazione, ingenerando la
convinzione che i comportamenti patologici posti in essere
dai propri appartenenti siano un connotato usuale
dell’azione dell’Amministrazione.
Tuttavia, l’elemento costitutivo dell’illecito, è
rappresentato essenzialmente dalla condotta accertata con
sentenza penale irrevocabile di condanna.
In ordine al clamore mediatico della notizia (documentata
attraverso articoli tratti dal web), si ritiene di regola
che la risonanza mediatica e l’amplificazione del fatto
operata dai mass-media, non integri la lesione del bene
tutelato, indicandone semplicemente la dimensione,
considerato che la diffusione mediatica della notizia non
può non minare la fiducia dei cittadini nei confronti
dell’istituzione (Corte
dei Conti, Sez. giurisdiz. Calabria,
sentenza 07.08.2020 n. 259 - link a www.ambientediritto.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – DANNO ERARIALE – Procedimento di
valutazione dell’attività dei dirigenti – Art. 7, comma 2 e
art. 18, comma 2, D.Lgs. n. 150/2009 –Indennità di risultato
– Erogazione del trattamento stipendiale accessorio – Azione
di responsabilità erariale – Dies a quo del termine
quinquennale di prescrizione dell’azione – Evento dannoso
concreto, attuale e obiettivamente conoscibile – Art. 1,
comma 2, L. n. 20/1994 – Art. 2935 c.c. – Responsabilità
amministrativo-contabile.
In materia di responsabilità
amministrativo-contabile, ai sensi dell’art. 1, comma 2, L.
n. 20 del 1994 e s.m.i., il diritto al risarcimento del
danno si prescrive in cinque anni decorrenti dalla data in
cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di
occultamento doloso, dalla data della sua scoperta.
Per giurisprudenza consolidata della Corte dei conti, ai
fini della decorrenza del termine prescrizionale, in
ossequio all’art. 1, comma 2, della L. n. 20 del 1994 e in
correlazione all’art. 2935 c.c., non è sufficiente il
compimento della condotta illecita, ma occorre altresì un
evento dannoso avente i caratteri della concretezza,
dell’attualità e della conoscibilità obiettiva da parte
dell’Amministrazione danneggiata, che può intervenire anche
successivamente ad eventuali esborsi finanziari ed a
prescindere da occultamenti dolosi del danno erariale.
Il dies a quo della prescrizione, inoltre, non può
ragionevolmente farsi decorrere dalla data in cui soltanto i
responsabili dell’illecito avevano la titolarità di far
valere, in nome e per conto dell’Ente pubblico, l’eventuale
credito risarcitorio generato dalla propria condotta, poiché
«non v’è dubbio, […] che, fintanto che la vicenda è rimasta
confinata nella materiale conoscenza dei soli convenuti […]
nessuna possibilità aveva l’Amministrazione di intervenire
per far valere la propria pretesa restitutoria. Una
prospettazione che individui il dies a quo nella data
dell’illecito rimborso avrebbe l’irragionevole effetto di
considerare prescritta, a tutto vantaggio degli stessi
responsabili, la pretesa restitutoria dell’erario»
(C. conti, sez. giurisd. Lombardia, sent. n. 196 del 2018).
La decorrenza del termine prescrizionale
decorrerà, pertanto, dal momento in cui il pregiudizio
erariale è stato accertato in sede ispettiva e portato a
conoscenza dell’Amministrazione e della Procura contabile (Corte
dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia,
sentenza 04.08.2020 n. 118 - link a www.ambientediritto.it). |
luglio 2020 |
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Danno erariale – Costituzione
dell’amministrazione danneggiata come parte civile nel
processo penale – Pagamento di una somma di denaro a titolo
di risarcimento – Autonomia del giudizio contabile.
Il pagamento da parte di un funzionario
pubblico di una somma di denaro a titolo di risarcimento per
i danni dallo stesso causati ad una Pubblica Amministrazione
non esclude un successivo giudizio contabile per
responsabilità amministrativo-contabile.
Per consolidata giurisprudenza contabile, infatti, la
costituzione dell’Amministrazione danneggiata come parte
civile nel processo penale non preclude l’autonomo giudizio
di responsabilità amministrativa, dal momento che solamente
il giudicato civile di risarcimento del danno in misura
superiore a quello stabilito in sede di giudizio contabile
esclude il giudizio stesso.
...
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Responsabilità amministrativa –
Antigiuridicità della condotta – Sentenza penale
irrevocabile di condanna – Art. 651 c.p.p. – Dolo contabile.
L’antigiuridicità della condotta assunta
dal dipendente pubblico, ai fini della configurazione della
responsabilità amministrativa, può essere accertata tramite
sentenza penale irrevocabile di condanna – attesa la
qualificazione della condotta resa in tale sede.
Ai sensi dell’art. 651 c.p.p., infatti, «la sentenza
irrevocabile di condanna pronunciata in seguito di
dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto
all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua
illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha
commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le
restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei
confronti del condannato e del responsabile civile che sia
stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale.
La
stessa efficacia ha la sentenza irrevocabile di condanna
pronunciata a norma dell’art. 442, salvo che vi si opponga
la parte civile che non abbia accettato il rito abbreviato»
(cfr., ex multis, C. conti, sez. I centr., n. 9/2020 e, sez.
III centr., n. 13/2020).
Sussiste il dolo contabile, inoltre, se la
condotta è stata posta in essere con la coscienza e volontà
di violare gli obblighi di servizio.
...
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Danno all’immagine –
Quantificazione equitativa – Art. 1226 c.c. – Criteri.
Nel caso di accertata sussistenza di un
danno all’immagine patito dalla Amministrazione per la
quantificazione dello stesso, si può ricorrere alla
quantificazione equitativa ai sensi dell’art. 1226 del
codice civile seguendo congiuntamente tre criteri:
a) oggettivo (che considera la gravità dell’illecito in
riferimento agli effetti sull’ azione amministrativa),
b) soggettivo (che tiene conto della posizione che il convenuto
rivestiva all’interno dell’ente) e
c) sociale (relativo al clamore suscitato nell’ opinione pubblica
locale dai fatti in questione ed all’impressione che esso ha
suscitato nell’opinione pubblica):
così anche C. conti, Sez. I centr., n. 476/2015.
Il collegio, in adesione alla pacifica
giurisprudenza contabile, rileva che la diffusione della
notizia (clamor fori) costituisca il modo attraverso cui
viene arrecato nocumento alla reputazione ed alla
onorabilità dell’ente pubblico in conseguenza dell’effetto
perpetrato dal proprio dipendente (Corte
dei Conti, Sez. giurisdiz Toscana,
sentenza 31.07.2020 n. 263 - link a www.ambientediritto.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
Ccnl dirigenti locali e potere di avocazione dei segretari comunali: è
nullo, come nullo è l'atto di indirizzo del Comitato di settore, sul quale
si tenta di fondarne la legittimità
(31.07.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Procedure
connesse all’assunzione di incarichi extra istituzionali.
Domanda
Un dipendente comunale ha svolto nei mesi scorsi, per conto di una società
privata, alcuni incarichi retribuiti di docenza ed ora si è rivolto
all’ufficio personale dell’Amministrazione per poter essere autorizzato, ai
sensi dell’art. 53, comma 9, del d.lgs. 165/2001.
L’impiegato si è scusato dicendo di non conoscere la normativa e ha chiesto
di poter sanare nel timore di incorrere in sanzioni.
Come si deve regolare l’Amministrazione?
Risposta
In linea generale, i dipendenti delle pubbliche amministrazioni possono
svolgere incarichi retribuiti conferiti da altri soggetti, pubblici o
privati, solo se autorizzati dall’amministrazione di appartenenza.
L’articolo 53, del decreto legislativo 30.03.2001 n. 165, dispone, al comma
7, che “I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti
che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione
di appartenenza. Ai fini dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica
l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi…”
e, ai commi 8 e 9, precisa che, dal canto loro, le pubbliche
amministrazioni, gli enti pubblici economici e i soggetti privati non
possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa
autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi.
La tipologia di incarico in questione rientra fortunatamente in una delle
deroghe elencate nel comma 6 [1],
del medesimo art. 53; ai sensi della lettera f-bis), infatti, per le “attività
di formazione diretta ai dipendenti della pubblica amministrazione nonché di
docenza e di ricerca scientifica”, non è necessario acquisire
l’autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza.
L’occasione è utile tuttavia per ricordare alcuni aspetti della disciplina
degli incarichi extraistituzionali e, in particolare, quali siano le
conseguenze in caso di violazione del divieto di cui al comma 7 e se sia
possibile acquisire la prescritta autorizzazione dopo lo svolgimento
dell’incarico.
In caso di inosservanza del divieto, il compenso dovuto per le prestazioni
svolte deve essere versato, a cura del soggetto che lo eroga o, in difetto,
del dipendente che lo percepisce, all’Amministrazione di appartenenza del
dipendente.
L’omissione del versamento delle somme percepite costituisce ipotesi di
responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti.
Resta ferma, altresì, la responsabilità disciplinare del dipendente che ha
svolto attività professionale non autorizzata (nonché, nel caso di
conferimento da parte di altra pubblica amministrazione, del funzionario
responsabile del procedimento).
Alla domanda se sia possibile, come richiesto dal dipendente del comune, che
l’autorizzazione venga rilasciata successivamente allo svolgimento
dell’incarico (con la formula: ora per allora), la giurisprudenza risponde
negativamente.
L’orientamento dei Tribunali Amministrativi Regionali [2]
era già nel senso che “sarebbe un controsenso autorizzare ex post un
incarico in base ad un potenziale conflitto di interessi, se si considera,
altresì, che il fondamento della disciplina della norma citata deve
rintracciarsi negli articoli 97 e 98 della Costituzione, ovvero nelle
garanzie di imparzialità, efficienza e buon andamento dei pubblici impiegati
che sono a servizio esclusivo della Nazione. Sussiste in questa materia una
presunzione legale di carattere generale in relazione all’incompatibilità
degli incarichi esterni con i doveri d’ufficio…”.
Analogamente la Cassazione, in una recente pronuncia [3]
equipara l’autorizzazione “ora per allora” alla “autorizzazione
postuma” e nega la possibilità di concedere successivamente e con
efficacia sanante l’autorizzazione di cui all’art. 53, comma 7, del d.lgs.
165/2001.
Il Supremo Giudice afferma, infatti, che “Seppure, dunque, il principio
di tipicità degli atti amministrativi non impedisce che il momento di
esercizio del potere amministrativo possa essere spostato in avanti in tutti
i casi in cui sia ancora possibile effettuare le valutazioni che ne sono
alla base (come per le autorizzazioni postume in relazione ad attività
edilizie ovvero paesaggistiche: Cons. Stato, sez. VI, 30.03.2004, n. 1695),
ciò va escluso nell’ambito specifico degli incarichi dei pubblici
dipendenti, che consente che il dipendente medesimo, in presenza di una
specifica e preventiva autorizzazione rilasciata da parte
dell’amministrazione di appartenenza, possa eccezionalmente ricoprire
incarichi ulteriori al di fuori di quelli istituzionali. Invero,
l’autorizzazione postuma (id est, con riferimento allo specifico caso in
esame, l’autorizzazione “ora per allora”) risulta ontologicamente
incompatibile con la finalità dell’istituto della previa autorizzazione che,
in base al disposto di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 7, è
quella (come detto) di verificare, necessariamente ex ante, l’insussistenza
di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi.“.
In conclusione, non si pongono problemi con riferimento al caso proposto,
stante l’esclusione dall’obbligo della previa autorizzazione per gli
incarichi di docenza, ai sensi della lettera f-bis) dell’art. 53, comma 6.
Tuttavia, la circostanza che il dipendente affermi candidamente di non
conoscere la normativa, deve far riflettere l’Amministrazione e, in
particolare, il Responsabile della Prevenzione della Corruzione e
Trasparenza, in merito all’adeguatezza della strategia di prevenzione della
corruzione e del livello della formazione somministrata ai dipendenti.
Il RPCT dovrà probabilmente proporre, ai sensi dell’art. 1, comma 10, della
legge 06.11.2012, n. 190, una modifica del Piano Triennale di Prevenzione
della Corruzione e Trasparenza (PTPCT), implementando le misure di
informazione e formazione, in materia di conflitto di interessi, rivolte ai
dipendenti.
---------------
[1] … Gli incarichi retribuiti, di cui ai commi seguenti, sono tutti gli
incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri di ufficio,
per i quali è previsto, sotto qualsiasi forma, un compenso. Sono esclusi i
compensi derivanti:
a) dalla collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili;
b) dalla utilizzazione economica da parte dell’autore o inventore
di opere dell’ingegno e di invenzioni industriali;
c) dalla partecipazione a convegni e seminari;
d) da incarichi per i quali è corrisposto solo il rimborso delle
spese documentate;
e) da incarichi per lo svolgimento dei quali il dipendente è posto
in posizione di aspettativa, di comando o di fuori ruolo;
f) da incarichi conferiti dalle organizzazioni sindacali a
dipendenti presso le stesse distaccati o in aspettativa non retribuita;
f-bis) da attività di formazione diretta ai dipendenti della
pubblica amministrazione nonché di docenza e di ricerca scientifica
[2] Tar Emilia Romagna-Parma Sez. I, Sent., 17.07.2017, n. 263; Tar Emilia
Romagna-Parma, Sez. I, 05.06.2017, n. 191; Tar Calabria-Reggio
Calabria, sez. I, 14.03.2017, n. 195; Tar Lombardia-Milano, Sez. IV,
07.03.2013, n. 614
[3] Cass. civ. Sez. II, Sent., (ud. 23/01/2020) 18.06.2020, n. 11811 (28.07.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Riduzione
orario.
Domanda
Se la richiesta di un dipendente di trasformazione da full-time a part-time
non comporta la trasformazione del posto in dotazione organica e non ci sono
altre richieste di trasformazione in corso, è sufficiente la determinazione
del responsabile del settore oppure l’atto autorizzatorio è in ogni caso
competenza della giunta comunale?
Risposta
In relazione al quesito esposto si ricorda che la riforma Madia con il D.Lgs.
25.05.2017, n. 75 ha modificato l’art. 6 del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165,
introducendo un sistema di dotazione organica flessibile, legata al concetto
di spesa massima potenziale (come somma del personale in servizio e di
quello di cui è programmata l’assunzione) confermato, altresì, dalle Linee
di indirizzo per la predisposizione dei piani dei fabbisogni di personale
delle amministrazioni pubbliche pubblicate in Gazzetta Ufficiale il
27.07.2018.
Nella fattispecie concreta l’ente non si trova nella situazione di rivedere
il PTFP perché è mutato il proprio fabbisogno quantitativo e qualitativo del
personale, posto che le modifiche al PTFP sono consentite in corso d’anno a
fronte di situazioni nuove e imprevedibili che richiedono una adeguata
motivazione, ma semplicemente nel contesto di dare attuazione alla
disciplina contrattuale di comparto in materia, determinata dalla richiesta
del dipendente di trasformazione del rapporto di lavoro da full time a part-time.
Pertanto, non sarà necessario alcun atto autorizzatorio della giunta
comunale, considerato che la determinazione del responsabile del servizio di
appartenenza del dipendente interessato alla trasformazione de qua,
rientra tra le funzioni dirigenziali di cui all’art. 107, comma 3, lett. e),
del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, espletate previa verifica dei presupposti di
cui all’art. 53, comma 2 del CCNL 21/05/2018.
La trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale
dovrà avvenire mediante accordo tra le parti risultante da atto scritto.
In tale accordo, le parti, in conformità alla disciplina di cui all’art. 53,
comma 12, del CCNL 21/05/2018 possono eventualmente concordare anche un
termine di durata per il rapporto di lavoro a tempo parziale che si va a
costituire (23.07.2020 - link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Un
dipendente di questo Ministero ha richiesto di poter usufruire dei permessi
ex art. 33, L. 05.02.1992, n. 104 dichiarando che nel medesimo giorno, il
coniuge assistito, lavoratore del settore privato, ne usufruisce al fine di
sottoporsi a terapie salvavita.
Si chiede se tale possibilità di utilizzo contemporaneo del medesimo
istituto sia contemplata dalla normativa vigente e/o dal CCNL Funzioni
Centrali.
Nel quesito proposto dobbiamo innanzitutto distinguere la portata delle due
diverse disposizioni normative, che vengono in contatto ma afferenti al
medesimo corpo legislativo, ovvero il comma 3 dell'art. 33, L. 05.02.1992,
n. 104 per ciò che concerne la situazione del dipendente Ministeriale ed il
successivo comma 6 del medesimo art. 33, L. 05.02.1992, n. 104 in
riferimento alle terapie salvavita del coniuge assistito.
A tale riguardo, si evidenzia come né la stessa L. 05.02.1992, n. 104 né la
contrattazione collettiva per il comparto Funzioni Centrali (CCNL
12.02.2018) prevedono preclusioni a riguardo dell'utilizzazione congiunta
dei due distinti istituti sopra elencati che anzi, a nostro parere dovrebbe
rappresentare la modalità ordinaria di utilizzo, consentendo al familiare di
prestare assistenza nel momento in cui il soggetto lavoratore in situazione
di handicap grave si assenta dal lavoro.
Infatti, per ciò che concerne la richiesta del vostro dipendente, il già
richiamato comma 3 dell'art. 33, L. 05.02.1992, n. 104 prevede tra i
presupposti oggettivi per la fruizione dei permessi in esame l'assenza di "ricovero
a tempo pieno" della persona assistita.
A tale riguardo, va richiamata la Circ. 03.12.2010, n. 155 dell'INPS in cui
si chiarisce che per "ricovero a tempo pieno" si intende quello, per
le intere ventiquattro ore, presso strutture ospedaliere o simili, pubbliche
o private, che assicurano assistenza sanitaria continuativa. Nella stessa
circolare si chiarisce altresì che tra le eccezioni a tale presupposto vi è
l'interruzione del ricovero a tempo pieno per necessità del disabile in
situazione di gravità di recarsi al di fuori della struttura che lo ospita
per effettuare visite e terapie appositamente certificate.
Riteniamo quindi che se le terapie salvavita non vengono svolte in regime di
ricovero a tempo pieno, o se l'interruzione del ricovero avviene secondo
quanto sopra specificato, non sussistono ostacoli alla concessione dei
permessi come nella situazione prospettata.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
L. 05.02.1992, n. 104, art.
33 - CCNL 12.02.2018 Funzioni centrali - Circ. 03.12.2010, n. 155
(22.07.2020- tratto da
www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: È
illegittima la nomina di un RT diverso dal RPC?
Domanda
Nel nostro comune, il responsabile della trasparenza è figura diversa dal
responsabile della prevenzione della corruzione (segretario comunale). A un
corso di formazione ci hanno detto che tale situazione è illegittima.
È veramente così?
Risposta
L’articolo 43, comma 1, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, nel testo
modificato dall’articolo 34, comma 1, lett. a), del decreto legislativo
25.05.2016, n. 97, prevede testualmente che: 1. All’interno di ogni
amministrazione il responsabile per la prevenzione della corruzione, di cui
all’articolo 1, comma 7, della legge 06.11.2012, n. 190, svolge, di norma,
le funzioni di Responsabile per la trasparenza, di seguito «Responsabile», e
il suo nominativo è indicato nel Piano triennale per la prevenzione della
corruzione. Il responsabile svolge stabilmente un’attività di controllo
sull’adempimento da parte dell’amministrazione degli obblighi di
pubblicazione previsti dalla normativa vigente, assicurando la completezza,
la chiarezza e l’aggiornamento delle informazioni pubblicate, nonché
segnalando all’organo di indirizzo politico, all’Organismo indipendente di
valutazione (OIV), all’Autorità nazionale anticorruzione e, nei casi più
gravi, all’ufficio di disciplina i casi di mancato o ritardato adempimento
degli obblighi di pubblicazione.
Come ben si comprende, l’indicazione del legislatore nazionale –dal 2016– è
quella di unificare sotto la stessa persona –negli enti locali “di norma”
il segretario comunale– i compiti di responsabile della prevenzione della
corruzione e della trasparenza, utilizzando, appunto, l’acronimo di RPCT.
Analoga posizione è stata poi assunta dall’Autorità Nazionale Anticorruzione
(ANAC), la quale –nella delibera n. 1310 del 28.12.2016, (di commento del
d.lgs. 97/2016)– sostiene che: “Ad avviso dell’Autorità, considerata la
nuova indicazione legislativa sulla concentrazione delle due responsabilità,
la possibilità di mantenere distinte le figure di RPCT e di RT va intesa in
senso restrittivo: è possibile, cioè, laddove esistano obiettive difficoltà
organizzative tali da giustificare la distinta attribuzione dei ruoli. Ciò
si può verificare, ad esempio, in organizzazioni particolarmente complesse
ed estese sul territorio e al solo fine di facilitare l’applicazione
effettiva e sostanziale della disciplina sull’anticorruzione e sulla
trasparenza. E’ necessario che le amministrazioni chiariscano espressamente
le motivazioni di questa eventuale scelta nei provvedimenti di nomina del
RPC e RT e garantiscano il coordinamento delle attività svolte dai due
responsabili, anche attraverso un adeguato supporto organizzativo”.
Il contenuto letterale della disposizione non prevede affatto, dunque,
l’obbligo di avere, in ogni ente e amministrazione, un unico responsabile
per la prevenzione della corruzione e trasparenza, quindi l’indicazione del
relatore circa la presunta illegittimità della nomina del RT appare non
ancorata a nessuna fonte normativa. Resta pertinente, invece, la
specificazione dell’ANAC, la quale raccomanda che l’atto di nomina emanato
dal sindaco sia debitamente motivato, circa le ragioni (legate a obiettive
difficoltà organizzative) del discostamento dal “di norma”.
Se l’ente intende confermare la propria posizione di avere due distinti
responsabili (RT e RPC), sarà poi necessario definire nel PTPCT gli ambiti
di collaborazione sinergica tra le due figure, tenendo comunque conto che la
redazione della proposta del PTPCT, compresa la sezione dello stesso
dedicata alla Trasparenza, compete esclusivamente al Responsabile della
prevenzione della corruzione, come previsto dall’articolo 1, comma 8, della
legge 190/2012. Stessa cosa vale per la relazione annuale recante i
risultati dell’attività svolta, prevista dal comma 14, del citato articolo
1, della Legge Severino.
Si ricorda, infine, che i dati relativi al Responsabile della trasparenza e
al Responsabile della prevenzione della Corruzione vanno pubblicati su
Amministrazione trasparente, all’interno della sotto-sezione: Altri
contenuti > Prevenzione della Corruzione (21.07.2020 - link a www.publika.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
L'illegittimità dell'avocazione degli atti dei dirigenti da parte del
segretario accertata dalla Cassazione (20.07.2020 - link a
https://luigioliveri.blogspot.com). |
PUBBLICO IMPIEGO: L’ufficio
personale di un ente strumentale della Regione ha ricevuto le dimissioni di
un proprio dipendente di ruolo a tempo indeterminato per aver raggiunto i
requisiti per il collocamento a riposo con la c.d. "Quota 100".
Le suddette dimissioni sono state presentate in modalità cartacea, ma il
dipendente ha avvertito per le vie brevi che avrebbe proceduto
all'immissione delle stesse mediante l'applicativo informatico dedicato.
Si chiede se la forma di presentazione cartacea sia ancora valida e se
pertanto le dimissioni sono da considerare già efficaci.
Il D.M. 15.12.2015 (Ministro del Lavoro e delle politiche sociali) in
attuazione della previsione contenuta nel D.Lgs. 14.09.2015, n. 151, ha
previsto, che a partire dal 12.03.2016, le dimissioni volontarie e la
risoluzione consensuale del rapporto di lavoro devono essere effettuate in
modalità esclusivamente telematiche, tramite una semplice procedura on-line
accessibile dal sito Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (c.d.
ClicLavoro).
Il successivo D.Lgs. 24.09.2016, n. 185, all'art. 5, comma 6,, in modifica
dell'art. 26, D.Lgs. 14.09.2015, n. 151 sopra richiamato, recita che "le
disposizioni di cui al presente articolo non si applicano ai rapporti di
lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo
1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165".
Nel ricordare che il decreto istitutivo del pensionamento anticipato con la
c.d. "Quota 100", prevede in capo ai Pubblici Dipendenti l'obbligo di
presentare le proprie dimissioni con un preavviso di almeno sei mesi (art.
14, D.L. 28.01.2019, n. 4), l'Ente Regionale rientra evidentemente a pieno
titolo tra le Amministrazioni Pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, D.Lgs.
30.03.2001, n. 165 (Per amministrazioni pubbliche si intendono …….le
Regioni, …….e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie,
gli Istituti autonomi case popolari, ……..tutti gli enti pubblici non
economici …... regionali) e pertanto è escluso dall'applicazione della
procedura on-line di cui trattasi.
Questo implica che, in riferimento al quesito posto, le dimissioni del
dipendente presentate al protocollo dell'Ente in modalità c.d. "cartacea"
sono immediatamente efficaci, fermo restando la verifica sui requisiti
dichiarati.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 14.09.2015, n. 151 - D.M. 15.12.2015 del Ministro del Lavoro e delle
politiche sociali - D.Lgs. 24.09.2016 n. 185 - D.L. 28.01.2019, n. 4
(15.07.2020 - tratto da
www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pausa
turnisti.
Domanda
Stiamo variando i turni del nostro personale che opera in una struttura
sanitaria. La programmazione prevede turni di 7 ore al giorno e turni di 7,5
ore al giorno.
Il dubbio riguarda la legittimità di un turno che supera le 6 ore e
l’obbligo della pausa.
Risposta
La disciplina contrattuale contenuta all’art. 26, CCNL 21.05.2018, enuclea
la regola generale per cui il personale ha diritto di fruire di una pausa di
almeno trenta minuti, quando la prestazione di lavoro giornaliero ecceda le
sei ore, purché si tratti di personale non inserito in una organizzazione
del lavoro per turni.
La nuova disposizione ha inteso salvaguardare quelle esigenze di continuità
nello svolgimento delle attività e di erogazione dei servizi che sono
collegati ad organizzazione di lavoro per turni. La deroga è, tuttavia,
limitata solo sotto il profilo della durata e consentita solo nelle
fattispecie considerate nell’art. 13 del CCNL 09.05.2006.
Ciò significa che l’obbligo di osservare una pausa per i lavoratori
turnisti, non può essere dichiarato rinunciabile in ragione della
formulazione contrattuale. Ciò che può essere operata è una compressione
temporale della durata della pausa che comunque non può valicare il limite
minimo fissato dalla fonte legale dei 10 minuti.
Detto in altri termini, l’ente può comprimere la sola durata della pausa
obbligatoria per i lavoratori turnisti, in ragione delle esigenze prevalenti
di servizio che richiedono di essere soddisfatte, ma non può tollerare il
mancato godimento della stessa nella misura minima fissata dalla fonte
legale. Non può nemmeno sopprimerla con atto unilaterale per evidente
contrasto con la legge e con il contratto collettivo nazionale e tanto meno
dichiarala rinunciabile dalla contrattazione integrativa non figurando
questo profilo tra le materie ad essa demandate dal contratto nazionale.
Il quadro è coerente con le logiche insite nel rapporto tra fonte legale e
fonte contrattuale così come enucleato nel testo unico del pubblico impiego.
Dopo il d.lgs. 75/2017, la formulazione dell’art. 2, comma 2, del d.lgs.
165/2001, significa un contratto che può derogare ad una norma di legge a
meno che la stessa non lo escluda. Tale possibilità, tuttavia, è limitata
esclusivamente alle materie sui cui il legislatore detta disposizioni che si
applicano esclusivamente al pubblico impiego, mentre il d.lgs. 66/2003 è una
norma che si applica a tutto il pubblico impiego.
È chiaro che nel caso in cui un reparto richieda la presenza minima in
servizio di un certo numero di operatori, la pausa obbligatoria va goduta
alternativamente e può evidentemente essere goduta anche prima dello
scoccare delle 6 ore continuative di servizio, garantendo in questo modo sia
il rispetto della norma che il godimento di quanto non si configura come
rinunciabile (09.07.2020 - link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Le
dichiarazioni del d.lgs. 39/2013: obblighi e verifiche.
Domanda
Le dichiarazioni in materia di inconferibilità e incompatibilità, previste
dall’articolo 20, del d.lgs. 39/2013, vanno presentate ogni anno?
E che obblighi di pubblicazione sono previsti?
Risposta
La materia del quesito è disciplinata dal decreto legislativo 08.04.2013, n.
39, recante “Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità
di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati
in controllo pubblico, a norma dell’articolo 1, commi 49 e 50, della legge
06.11.2012, n. 190”.
L’art. 20, comma 1, del d.lgs. 39/2013, prevede che all’atto di
conferimento dell’incarico i dirigenti, il segretario comunale e le
posizioni organizzative negli enti senza dirigenti (ex
art. 2, comma 2, d.lgs. 39/2013), compresi gli incarichi conferiti ai sensi dell’art. 110,
del TUEL 267/2000, abbiamo l’obbligo di presentare una dichiarazione sulla
insussistenza di una delle cause di inconferibilità del citato decreto
legislativo. Come aggiunge il comma 4, del medesimo articolo, la
dichiarazione è condizione per l’acquisizione dell’efficacia dell’incarico.
Il comma 2, dell’articolo in trattazione, invece, prevede che i titolari
degli incarichi di cui sopra, annualmente debbano presentare una
dichiarazione sulla insussistenza di una delle cause di incompatibilità,
trattate nel d.lgs. 39/2013.
Le due dichiarazioni (comma 3), vanno pubblicate nel sito web del comune,
nella sezione Amministrazione Trasparente > Personale.
Se, come spesso accade nei comuni piccoli e medi, gli incarichi di posizione
organizzativa hanno durata annuale, risulta evidente che le due
dichiarazioni vanno rese simultaneamente, anche utilizzando un unico
modello, come da fac-simile, che si allega alla presente risposta.
All’ente, ricevute le dichiarazioni e pubblicatele nel sito, resta l’obbligo
di procedere alla verifica, anche a campione, come previsto dalla delibera
ANAC n. 833 del 03.08.2016, recante “Linee guida in materia di
accertamento delle inconferibilità e delle incompatibilità degli incarichi
amministrativi da parte del responsabile della prevenzione della corruzione.
Attività di vigilanza e poteri di accertamento dell’A.N.AC. in caso di
incarichi inconferibili e incompatibili”.
Pertanto, è opportuno prevedere nel Piano Triennale Prevenzione della
Corruzione e Trasparenza (PTPCT) delle idonee misure di verifica sulle
dichiarazioni rese dai soggetti che ne sono obbligati. Tra le più semplici
ed efficaci è prevista quella di richiedere il certificato penale e carichi
pendenti dei soggetti interessati, onde verificare la non presenza di
sentenza, anche non passate in giudicato, per uno dei reati previsti dal
capo I, del titolo II, del libro secondo del codice penale, anche nel caso
di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell’articolo 444 del
codice di procedura penale (c.d. patteggiamento)
(07.07.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Un dipendente di questo Comune ha fatto domanda di andare in
pensione anticipata.
E' stata adottata una determinazione del funzionario come atto
amministrativo per il riconoscimento dei requisiti per il diritto alla
pensione e per il collocamento a riposo.
Si chiede di sapere se l'adozione di tale sia corretta per la gestione del
rapporto di lavoro o se, ai sensi dell'art. 5, comma 2, D.Lgs. 30.03.2001,
n. 165 fosse più corretto adottare un atto datoriale.
L'adozione di uno o dell'altro atto sono altresì da ritenersi equivalenti ai
fini del riconoscimento della pensione?
Producono, nell'ambito del riconoscimento al diritto della pensione, degli
effetti giuridici differenti in termini di ricorso alle vie giurisdizionali?
Si ritiene che la questione vada letta alla luce di un recente pronuncia
della Suprema Cass. pen. Sez. IV Sent., 20.04.2018, n. 43829.
Detta pronuncia affronta in via incidentale la questione relativa
all'individuazione del datore di lavoro nell'ambito delle pubbliche
amministrazioni specie nell'ipotesi di delega di funzioni.
Nella citata sentenza infatti la Corte una volta definito il Datore di
lavoro come: "...Il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il
lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l'assetto
dell'organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività,
ha la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva in
quanto esercita i poteri decisionali e di spesa" individuando detta
definizione sulla scorta di quanto codificato dall'art. 2, lett. b), D.Lgs.
09.04.2008, n. 81, delinea poi gli aspetti specifici che contraddistinguono
detta figura all'interno della pubblica amministrazione".
La Corte quindi rileva che: "nelle pubbliche amministrazioni di cui
all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, per
datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di
gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli
casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia
gestionale, individuato dall'organo di vertice delle singole amministrazioni
tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei
quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di
spesa. In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai
criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l'organo di vertice
medesimo" precisando, altresì, che "...l'individuazione del dirigente
(o del funzionario) cui attribuire la qualifica di datore di lavoro è
demandata alla pubblica amministrazione, la quale vi provvede con
l'attribuzione della qualità e il conferimento dei relativi poteri di
autonomia gestionale, non potendo tale qualifica essere attribuita
implicitamente ad un dirigente o funzionario solo perché preposti ad
articolazioni della pubblica amministrazione che hanno competenze nel
settore specifico." .
Alla luce di quanto delineato dalla Corte quindi viene affermata la
necessità di un atto espresso da parte della pubblica amministrazione
mediante il quale il dirigente o il funzionario viene individuato nella
funzione di datore di lavoro con il conseguente conferimento dei relativi
poteri di autonomia gestionale.
In conclusione quindi nel caso che ci occupa l'atto del funzionario può
ritenersi legittimo ove quest'ultimo sia stato previamente individuato come
soggetto depositario della funzione di Datore di lavoro ovvero, ai sensi
dell'art. 17, D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 sia stato delegato dal Dirigente
preposto al compimento di specifiche funzioni tra cui quella oggetto del
quesito.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 1
- D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 17 - D.Lgs. 09.04.2008, n. 81, art. 2
Riferimenti di giurisprudenza
Cass. pen. Sez. IV Sent., 20.04.2018, n. 43829 (06.07.2020 -
tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Aumento
ore part-time.
Domanda
Aumento delle ore di un dipendente a part-time o trasformazione a tempo
pieno: cosa cambia dal punto di vista delle capacità assunzionali?
Risposta
In base all’art. 3, comma 101, della l. 244/2007 la trasformazione del
rapporto di lavoro da part-time a full time può avvenire nel rispetto e
nelle modalità previste dalle disposizione vigenti in tema di assunzioni.
Secondo diverse pronunce della Corte dei Conti, un mero aumento orario del
rapporto di lavoro a tempo parziale, in assenza di trasformazione del
rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno, non integra al contrario
una nuova assunzione, sempre che ciò non costituisca una manovra elusiva (ex
plurimis, Sez. controllo Lombardia n. 462/2012/PAR; Sez. controllo
Campania n. 20/2014/PAR; Sez. controllo Sicilia n. 68/PAR/2017; Sez.
controllo Sicilia n. 176/PAR/2017; Sez. controllo Molise n. 40/2017/PAR;
Sez. controllo Abruzzo n. 12/2017/PAR).
E’ stato, invece, ritenuto elusivo l’incremento orario del rapporto di
lavoro a tempo parziale a 35 ore settimanali (Sez. controllo Sardegna n.
67/2012/PAR; SS.RR. Sicilia, n. 96/2012/PAR; Sez. controllo Lombardia n.
462/2012/PAR).
Quindi, si ritiene che, ad esempio, un incremento da 15 a 20 ore del
rapporto di lavoro a tempo determinato di un dipendente, nel rispetto dei
vincoli in materia di spesa di personale e di reclutamento con rapporti
flessibili, non debba seguire le procedure previste per una nuova assunzione
(02.07.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'ufficio
personale di questo Comune, con riferimento alla previsione di cui all'art.
87, comma 4-bis, D.L. 17.03.2020 n. 18 ed alla possibilità di cessione, tra
pubblici dipendenti, delle ferie e dei riposi maturati (c.d. ferie
solidali), chiede di chiarire la portata di tale disposizione, con
particolare riferimento ai termini di fruizione di tale istituto nonché
all'eventuale applicabilità anche alle ferie pregresse derivanti da
annualità precedenti.
L'art. 87, comma 4-bis, D.L. 17.03.2020 n. 18 (c.d. Decreto "cura Italia")
convertito, con modificazioni dalla L. 24.04.2020 n. 27 ha testualmente
disciplinato che "fino al termine stabilito ai sensi del comma 1 (n.b. fino
alla cessazione dello stato di emergenza al momento fissato al 31 luglio), e
comunque non oltre il 30.09.2020, al fine di fronteggiare le particolari
esigenze emergenziali connesse all'epidemia da COVID-19, anche in deroga a
quanto stabilito dai contratti collettivi nazionali vigenti, i dipendenti
delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, possono cedere, in tutto o in parte, i
riposi e le ferie maturati fino al 31.12.2019 ad altro dipendente della
medesima amministrazione di appartenenza, senza distinzione tra le diverse
categorie di inquadramento o ai diversi profili posseduti.
La cessione avviene in forma scritta ed è comunicata al dirigente del
dipendente cedente e a quello del dipendente ricevente, è a titolo gratuito,
non può essere sottoposta a condizione o a termine e non è revocabile.
Restano fermi i termini temporali previsti per la fruizione delle ferie
pregresse dalla disciplina vigente e dalla contrattazione collettiva".
Tale disciplina, pertanto, è andata ad integrare per il periodo di emergenza
sanitaria legata alla diffusione del Coronavirus, l'istituto delle c.d.
ferie solidali recepito, ad esempio, dall'art. 30 del nuovo CCNL del
Comparto delle Funzioni locali per il triennio 2016/2018 (in vigore dal
21.05.2018 ed a seguito dell'introduzione di tale istituto nella normativa
giuslavoristica con l'art. 24, D.Lgs. 14.09.2015, n. 151).
Premessa la disciplina normativa dell'istituto di cui trattasi, possiamo
procedere a definire la portata applicativa in merito ai quesiti che sono
stati posti all'attenzione, evidenziando innanzitutto che non sono stati
registrati interventi esplicativi in materia, ad eccezione delle personale
della Polizia di Stato per il quale si è espresso il Ministero dell'Interno,
Direzione centrale per le risorse umane con una propria nota 27.05.2020 n.
333/A che comunque è possibile parzialmente mutuare quale riferimento. Sulla
scorta di quanto innanzi possiamo tranquillamente affermare che tale nuova
disposizione amplia in buona sostanza la possibilità di cessione delle ferie
ai colleghi ed in particolare:
- non vi è un limite di giorni cedibili
- non vi sono causali vincolanti
- riguarda tutte le ferie ed i riposi maturati alla data del
31.12.2019 e pertanto si estende anche ai riposi per il recupero
psicofisico, ai quattro giorni all'anno di festività soppresse, e a quelli
compensativi, ad esempio dello straordinario.
I vincoli da rispettare, pertanto, sono unicamente quelli imposti dalla
contrattazione collettiva (ai sensi dell'ultimo capoverso dell'articolo in
analisi) e dai quali dobbiamo snodare l'analisi per rispondere compiutamente
a quanto richiesto e capire quindi quali siano i c.d. "giorni cedibili".
Secondo la disciplina contrattuale, infatti:
- le ferie non richieste nell'anno di maturazione possono essere
fruite entro il 30 aprile di quello successivo, fatte salve eccezionali
ragioni organizzative in presenza delle quali la fruizione può essere
procrastinata dal datore di lavoro fino al 30 giugno;
- i riposi compensativi dello straordinario confluito in banca ore
sono utilizzabili entro l'anno successivo a quello di maturazione, mentre i
riposi compensativi maturati per il lavoro straordinario non retribuito
vanno goduti compatibilmente con le esigenze di servizio.
L'interpretazione letterale della norma, pertanto, comporterebbe che possano
essere ceduti solo quanto maturato nel 2019.
A tal uopo viene in aiuto all'odierna analisi e partendo dal concetto che le
ferie maturate comunque non si perdono (in quanto destinate al recupero
psicofisico del lavoratore), l'orientamento applicativo 795-18115 dell'Aran,
secondo cui, nelle ipotesi (patologiche) di mancata fruizione delle ferie
entro i termini di legge, il dipendente può fruirne anche al di là dei
termini fissati ma è l'amministrazione, eventualmente, a fissare i periodi
di fruizione, in applicazione dell'art. 2109 c.c. (le ferie sono assegnate
dal datore di lavoro tenuto conto delle esigenze dell'impresa e degli
interessi del lavoratore).
Per quanto esposto, si ritiene dunque che tale disciplina normativa consenta
di cedere a propri colleghi anche le ferie derivanti da annualità
precedenti.
Per ciò che concerne invece i termini di fruizione di tale istituto, in
assenza come detto di una qualsiasi specificazione da parte degli organi
competenti, non possiamo che rifarci alla letteralità della norma ove è
previsto che "….entro il 30 settembre….i dipendenti….possono cedere…".
Tale termine del 30 settembre, pertanto, non può che riferirsi alla data
limite entro la quale debba essere quantomeno manifestata l'intenzione (o
ancor meglio concluso il procedimento con l'accettazione della controparte)
di cedere i propri giorni di riposo maturati e non già quella entro la quale
gli stessi debbano essere fruiti (anche per via del fatto che la norma
recita che la cessione non può essere sottoposta a termine o condizione).
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 14.09.2015, n. 151, art. 24
- CCNL del Comparto delle Funzioni locali per il triennio 2016/2018, art. 30
- D.L. 17.03.2020 n. 18, art. 87 - L. 24.04.2020 n. 27 - Nota 27.05.2020 n.
333/A del Ministero dell'Interno
Documenti allegati
Orientamento applicativo n. 795-18115 dell'ARAN
(01.07.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
giugno 2020 |
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Congedo dei
padri.
Domanda
Spettano anche nel 2020 i giorni di congedo obbligatorio e congedo
facoltativo dei papà? Sono congedi utilizzabili anche dai neopapà dipendenti
pubblici?
Risposta
La Legge di Bilancio 2020, all’art. 1, comma 342, si è occupata di
modificare la Legge di disciplina dei congedi oggetto del quesito,
prorogando e ampliando i congedi obbligatori in giorni 7 per l’anno 2020 e
confermando in 1 giorno, il congedo facoltativo.
La legge di prima introduzione dei congedi è la Legge Fornero n. 92 del
28.06.2012 la quale ha inteso dare attuazione alla Direttiva 18/UE del
Consiglio dell’Unione Europea dell’8 marzo 2010.
La Direttiva 2010/18 è stata abrogata e sostituita dalla Direttiva 2019/1158
del 20.06.2019, nella quale si invitano gli stati membri, entro il 2022, in
relazione ai congedi di paternità, di adottare le misure necessarie a
garantire al padre (secondo genitore) un congedo di paternità di 10 giorni
lavorativi da fruire in occasione della nascita di un figlio.
Sin dal 2012, tuttavia, detti congedi non possono essere goduti dai neo papà
lavoratori pubblici.
Il Dipartimento della Funzione Pubblica, con nota del 20.02.2013, ha
chiarito infatti che la disciplina non è direttamente applicabile ai
rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni e nessuna
novità è intervenuta nel merito.
Questo a significare evidentemente che l’elemento di discriminazione tra
lavoro femminile e maschile, quando riferito alla maternità, appare
maggiormente tutelato nel pubblico impiego rispetto al modo privato.
L’obbligo di fruire di un congedo obbligatorio da parte del padre, entro i
primi 5 mesi di vita del bambino, si prefigura infatti di contenere un
diverso e discriminante trattamento nel rapporto di lavoro tra uomini e
donne.
Il dettaglio della disciplina rispetto alle corrette modalità di utilizzo
dei congedi è contenuto nel decreto del Ministero del Lavoro e delle
Politiche sociali, del 22.12.2012.
Nel 2020, quindi, i neo papà lavoratori privati, avranno diritto:
• 7 giorni di congedo obbligatorio
• 1 giorno di congedo facoltativo
Le interferenze con il pubblico impiego riguardano la sola ipotesi in cui il
padre goda del congedo facoltativo, in quanto, mentre il congedo
obbligatorio si rappresenta come aggiuntivo rispetto ai congedi della madre,
il congedo facoltativo è sostituivo e va ad inficiare la durata del periodo
di astensione obbligatoria della madre.
L’ipotesi è quella di un padre lavoratore privato, e di una madre (dello
stesso figlio) lavoratrice pubblica. Nel caso in cui il padre goda del
giorno di congedo facoltativo, la madre lavoratrice pubblica, terminerà il
periodo di astensione obbligatoria un giorno prima del previsto.
Il messaggio INPS n. 679 del 21.02.2020 recepisce il contenuto della Legge
di bilancio e conferma le istruzioni di compilazione delle domande valevoli
per i soggetti privati (25.06.2020
- link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: L.
Di Donna,
Conseguenze della mancata conferma dell’incarico dirigenziale (22.06.2020
- tratto da a e link a www.neopa.it).
Questa Corte ha più volte affermato che fanno capo al dirigente due distinte
situazioni giuridiche soggettive, perché rispetto alla cessazione anticipata
dell'incarico lo stesso è titolare di un diritto soggettivo che, ove
ritenuto sussistente, dà titolo alla reintegrazione (se possibile) nella
funzione dirigenziale ed al risarcimento del danno, mentre a fronte del
mancato conferimento di un nuovo incarico può essere fatto valere un
interesse legittimo di diritto privato, che, se ingiustamente mortificato,
non legittima il dirigente a richiedere l'attribuzione dell'incarico non
conferito ma può essere posto a fondamento della domanda di ristoro dei
pregiudizi ingiustamente subiti (v. Cass. 13.11.2018, n. 29169; Cass.
10.12.2017, n. 28879; Cass. 03.02.2017, n. 2972; Cass. 18.06.2014, n. 13867).
Non vanno, dunque, confusi il diritto soggettivo al conferimento
dell'incarico e l'interesse legittimo di diritto privato correlato
all'obbligo imposto alla pubblica amministrazione di agire nel rispetto dei
canoni generali di correttezza e buona fede nonché dei principi di
imparzialità, efficienza e buon andamento consacrati nell'art. 97 Cost.,
sicché il dirigente non può pretendere dal giudice un intervento sostitutivo
e chiedere l'attribuzione dell'incarico, ma può agire per il risarcimento
del danno, ove il pregiudizio si correli all'inadempimento degli obblighi
gravanti sull'amministrazione (v. Cass. 23.09.2013, n. 21700; Cass.
24.09.2015, n. 18972; Cass. 14.04.2015, n. 7495).
Quanto a quest'ultima azione è stato richiamato il principio generale
secondo cui, nel lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni (per i
dirigenti statali in virtù di espressa previsione dell'art. 19 d.lgs. n.
165/2001), alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine
professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e
pertanto non è applicabile l'art. 2103 cod. civ., risultando la regola del
rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile
con lo statuto del dirigente pubblico (v. Cass. 22.12.2004, n. 23760;
Cass. 15.02.2010, n. 3451; Cass. 22.02.2017, n. 4621; Cass. 20.07.2018, n. 19442).
Anche il sistema normativo del lavoro pubblico dirigenziale negli enti
locali (trasfuso, come detto, nel d.lgs. n. 267 del 2000, art. 109) esclude
la configurabilità di un diritto soggettivo del dirigente a conservare in
ogni caso determinate tipologie di incarico dirigenziale, ancorché
corrispondenti all'incarico assunto a seguito di concorso specificatamente
indetto per determinati posti di lavoro, pure anteriormente alla cosiddetta
'privatizzazione' (v. Cass. 22.12.2004, n. 23760; Cass. 15.02.2010, n. 3451; Cass. 22.12.2017, n. 4621; Cass. 20.07.2018, n.
19442); lo stesso sistema, peraltro, conferma il principio generale che, nel
lavoro pubblico, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto
l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di
qualunque tipo e non consente perciò -anche in difetto della espressa
previsione di cui all'art. 19 d.lgs. n. 165 del 2001 stabilita per le
Amministrazioni statali- di ritenere applicabile l'art. 2103 cod. civ. (e
l'art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001), risultando la regola del rispetto di
determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo
statuto del dirigente pubblico locale, con la sola eccezione della dirigenza
tecnica, nel senso che il dirigente tecnico, il cui incarico è soggetto ai
principi della temporaneità e della rotazione, deve comunque svolgere
mansioni tecniche (v. Cass. n. 23760/2004 cit.; Cass. n. 3451/2010 cit.;
Cass. n. 4621/2017 cit.; Cass. n. 19442/2018 cit.).
È quanto affermato dalla Corte di Cassazione (Sez. Lavoro) nella recente
ordinanza 18.06.2020 n. 11891. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pubblico
impiego - Dipendenti a tempo pieno - Incompatibilità - art. 53 del d.lgs.
30.03.2001, n. 165 - Incarichi extraistituzionali previa autorizzazione
dell’Ente di appartenenza - Autorizzazione preventiva - Autorizzazione
successiva.
●
L'art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, nel disciplinare
le incompatibilità, vieta ai dipendenti delle P.A. con rapporto di lavoro a
tempo pieno l'espletamento di incarichi retribuiti, anche occasionali, non
compresi nei compiti e nei doveri d'ufficio, per i quali sia corrisposto,
sotto qualunque forma, un compenso, salvo che lo svolgimento dell'incarico
sia stato preventivamente autorizzato, ai sensi dell'art. 1, comma 60, della
legge n. 662 del 1996, dall'Amministrazione di appartenenza per le
specifiche attività consentite dalla legge.
● Lo scopo dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 è evidentemente quello di
garantire l'imparzialità, l'efficienza e il buon andamento della P.A., nel
rispetto dei principi sanciti dagli artt. 97 e 98 Cost.; e di evitare che il
pubblico dipendente possa svolgere incarichi ulteriori rispetto a quelli che
discendono dai propri doveri istituzionali, distogliendolo da essi ovvero
creando forme autorizzate di concorrenza soggettiva in capo al medesimo
soggetto interessato, e procurandogli un vantaggio economico che non ne
giustificherebbe, se stabile e duraturo e quindi dotato dei caratteri della
prevalenza e continuità, la permanenza all'interno della pubblica
amministrazione, con i conseguenti rilevanti oneri ad essa attribuiti.
● Il generale divieto di conseguire l'incarico extraistituzionale può essere
derogato solo attraverso una autorizzazione adottata prima dell'inizio dello
stesso; deve viceversa escludersi che tale autorizzazione possa essere
concessa in via successiva con efficacia sanante, stante la specificità del
rapporto di pubblico impiego rispetto a situazioni diverse dell'attività
amministrativa (tratto da
www.osservatoriouniversita.unimib.it).
---------------
Al riguardo si legga anche:
●
M. Lavatelli,
Nota a Cass. Civ., sez. II, 18.06.2020, n. 11811.
Con sentenza del 18.06.2020, n. 11811, la sezione II della Cassazione civile
ha chiarito una questione già affrontata dalla giurisprudenza
amministrativa.
Nel decidere sull’opposizione a sanzione amministrativa presentata da un
docente
universitario, destinatario di un’ordinanza di ingiunzione emessa
dall'Agenzia delle Entrate
Direzione Provinciale Di Lecce, che gli aveva elevato una sanzione pari a
Euro 2.448,00, per
la violazione del d.lgs. n. 165 del 2001, art. 53, commi 9 e 11, in ragione
del fatto di aver
conferito incarico professionale retribuito a un docente, pubblico
dipendente della Università
del Salento, senza la preventiva autorizzazione dell’ente di appartenenza e
per non avere
comunicato nei termini i compensi corrisposti alla medesima, la Suprema
Corte ha infatti
ribadito l’inammissibilità della autorizzazione postuma relativa
all’espletamento di incarichi
extraistituzionali retribuiti (fra i precedenti conformi, su tutte, si
vedano TAR Emilia
Romagna, Parma, Sez. I, Sent. 17.07.2017, n. 263; Id. sent., 05.06.2017, n. 191; TAR
Calabria, Reggio Calabria, sez. I, 14.03.2017, n. 195; TAR Lombardia,
Milano, Sez. IV, 07.03.2013, n. 614).
La Suprema Corte ha quindi avvalorato la lettura più rigorosa dell’art. 53
del d.lgs. n. 165 del
2001 che, nel complesso, non vieta in senso assoluto l’espletamento di
incarichi
extraistituzionali retribuiti, ma subordina tale possibilità al fatto che
gli stessi siano conferiti
dall'amministrazione di provenienza ovvero da questa “preventivamente
autorizzati”, cioè
sottoposti a una valutazione della legittimità dell’incarico e della sua
compatibilità, soggettiva
e oggettiva, con i compiti propri dell’ufficio.
Ha ritenuto invece priva di pregio la censura sollevata dal ricorrente, che
riteneva che
l’autorizzazione con formula “ora per allora” potesse considerarsi
legittima, in quanto
equivalente a quella preventiva, con effetti ex tunc, ritenendo che il solo
limite della
ammissibilità per tale autorizzazione consisterebbe in un espresso divieto
di legge al suo
rilascio (tale tesi aveva peraltro già trovata avallo in una pronuncia del
TAR Puglia, Lecce, n.
2228/2007).
Il giudicante ha quindi ribadito l’orientamento ormai consolidato nella
giurisprudenza
amministrativa, che ha chiarito come la disposizione in esame configuri un
illecito di pericolo
presunto o astratto, e come l’aggettivo “previa” qualifichi chiaramente la
tipologia di
provvedimento autorizzativo, precisando la tempistica della richiesta e
collocandola in un
ambito precedente lo svolgimento dell’incarico.
Ha quindi rilevato
l’incompatibilità tra la
specifica finalità dell’autorizzazione ex art. 53, comma 7, che è
evidentemente quella di
verificare l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di
interessi, finalità che,
però, sarebbe frustrata in caso di ammissione dell’autorizzazione ex post in
relazione a un
incarico di cui andrebbe vagliato anche la possibilità “in potenza” di un
conflitto di interessi.
Come già precisato nei precedenti conformi, il fondamento della norma si
radica negli artt. 97
e 98 Cost., ovvero nelle garanzie di imparzialità, efficienza e buon
andamento dei pubblici
impiegati che sono a servizio esclusivo della Nazione.
L’orientamento espresso dalla Suprema Corte, che ha quindi concluso per
l’ontologica
incompatibilità dell’istituto autorizzatorio in esame con un rilascio
postumo, è coerente con
l’idea che esista una presunzione legale di carattere generale in relazione
all’incompatibilità
degli incarichi esterni con i doveri d’ufficio, situazione che deve poter
essere valutata anche in
astratto, sul presupposto che la norma mira anche a salvaguardare le energie
lavorative del
dipendente al fine del miglior rendimento, indipendentemente dalla
circostanza che questi
abbia sempre regolarmente svolto la propria attività impiegatizia, tema che,
semmai, può dar
luogo a materia concernente i procedimenti di natura disciplinare (sul
punto, ex multis, cfr.,
TAR Lazio, sez. II, 26.04.1990, n. 898, Cons. Stato, sez. V, 13.01.1999, n. 29, Cons.
Stato n. 3172 del 2015)
(link a www.osservatoriouniversita.unimib.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Pubblico
impiego – dirigenza – cessazione anticipata incarico – diritto soggettivo
alla conservazione di determinate tipologie di incarico dirigenziale -
demansionamento – rigetto ricorso.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso proposto da un
dirigente che a seguito della mancata riconferma dell’incarico di funzione
lamenta di essere stato vittima di demansionamento all’atto di attribuzione
del nuovo incarico di dirigente in posizione di staff.
La Corte pronunciandosi riguardo alla cessazione anticipata dell'incarico,
ribadisce che fanno capo al dirigente due distinte situazioni giuridiche:
rispetto alla cessazione anticipata dell’incarico lo stesso è titolare di un
diritto soggettivo che, ove ritenuto sussistente, dà titolo alla
reintegrazione (se possibile) nella funzione dirigenziale ed al risarcimento
del danno, mentre rispetto al mancato conferimento di un nuovo incarico il
dirigente può far valere un interesse legittimo di diritto privato, che, se
ingiustamente mortificato, non legittima lo stesso a richiedere
l'attribuzione dell'incarico non conferito ma può essere posto a fondamento
della domanda di ristoro dei pregiudizi ingiustamente subiti.
La Suprema Corte conferma il principio generale per cui alla qualifica
dirigenziale corrisponde esclusivamente l’idoneità professionale
all’assunzione degli incarichi dirigenziali di qualunque tipo, senza che sia
configurabile un diritto soggettivo a mantenere o a conservare un
determinato incarico, la cessazione di un incarico di funzione e la
successiva attribuzione di un incarico di studio ai sensi dell'art. 19,
comma 10, Dlgs 165/2001 pertanto non determina un demansionamento
(commento tratto da www.aranagenzia.it).
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4.4. del resto non pare dubitabile, sulla base della stessa
motivazione della sentenza impugnata (fondata sull'esame dei provvedimenti
del Comune resistente, esame non rivedibile in questa sede), che
l'assegnazione alla Ca., dopo la cessazione dell'incarico di direzione del
Servizio Supporto alle Scuole, del compito di svolgere funzioni dirigenziali
di studio e ricerca (v. pag. 5 della sentenza: "alla Ca., alla scadenza
dell'incarico di direzione ... non è stata affidata la titolarità di una
struttura ma ... il compito di svolgere funzioni dirigenziali di studio ..."),
fosse riconducibile alla previsione di cui all'art. 19, comma 10, d.lgs. n.
165 del 2001, norma di carattere generale che si riferisce anche alle
amministrazioni locali e si aggiunge alle previsioni specifiche contenute
nel d.lgs. n. 267 del 2000 (Testo unico degli enti locali) e in particolare
negli artt. 109 e 110 (si consideri che la vicenda in esame si colloca prima
delle modifiche apportate all'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001 dal d.lgs.
n. 150 del 2009);
del tutto impropria è, allora, una lettura della sentenza quale
quella offerta dalla ricorrente secondo cui la Corte territoriale avrebbe
considerato anche l'incarico in staff quale incarico dirigenziale di
struttura (nuova e tutta da creare);
4.5. questa Corte ha più volte affermato che fanno capo al
dirigente due distinte situazioni giuridiche soggettive, perché rispetto
alla cessazione anticipata dell'incarico lo stesso è titolare di un diritto
soggettivo che, ove ritenuto sussistente, dà titolo alla reintegrazione (se
possibile) nella funzione dirigenziale ed al risarcimento del danno, mentre
a fronte del mancato conferimento di un nuovo incarico può essere fatto
valere un interesse legittimo di diritto privato, che, se ingiustamente
mortificato, non legittima il dirigente a richiedere l'attribuzione
dell'incarico non conferito ma può essere posto a fondamento della domanda
di ristoro dei pregiudizi ingiustamente subiti (v. Cass. 13.11.2018, n.
29169; Cass. 10.12.2017, n. 28879; Cass. 03.02.2017, n. 2972; Cass.
18.06.2014, n. 13867);
4.6. non vanno, dunque, confusi il diritto soggettivo al
conferimento dell'incarico e l'interesse legittimo di diritto privato
correlato all'obbligo imposto alla pubblica amministrazione di agire nel
rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede nonché dei principi
di imparzialità, efficienza e buon andamento consacrati nell'art. 97 Cost.,
sicché il dirigente non può pretendere dal giudice un intervento sostitutivo
e chiedere l'attribuzione dell'incarico, ma può agire per il risarcimento
del danno, ove il pregiudizio si correli all'inadempimento degli obblighi
gravanti sull'amministrazione (v. Cass. 23.09.2013, n. 21700; Cass.
24.09.2015, n. 18972; Cass. 14.04.2015, n. 7495);
4.7. quanto a quest'ultima azione è stato richiamato il principio
generale secondo cui, nel lavoro alle dipendenze di pubbliche
amministrazioni (per i dirigenti statali in virtù di espressa previsione
dell'art. 19 d.lgs. n. 165/2001), alla qualifica dirigenziale corrisponde
soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali
di qualunque tipo e pertanto non è applicabile l'art. 2103 cod. civ.,
risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità
acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico (v. Cass.
22.12.2004, n. 23760; Cass. 15.02.2010, n. 3451; Cass. 22.02.2017, n. 4621;
Cass. 20.07.2018, n. 19442);
4.8. anche il sistema normativo del lavoro pubblico dirigenziale
negli enti locali (trasfuso, come detto, nel d.lgs. n. 267 del 2000, art.
109) esclude la configurabilità di un diritto soggettivo del dirigente a
conservare in ogni caso determinate tipologie di incarico dirigenziale,
ancorché corrispondenti all'incarico assunto a seguito di concorso
specificatamente indetto per determinati posti di lavoro, pure anteriormente
alla cosiddetta 'privatizzazione' (v. Cass. 22.12.2004, n. 23760;
Cass. 15.02.2010, n. 3451; Cass. 22.12.2017, n. 4621; Cass. 20.07.2018, n.
19442);
lo stesso sistema, peraltro, conferma il principio generale che,
nel lavoro pubblico, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto
l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di
qualunque tipo e non consente perciò -anche in difetto della espressa
previsione di cui all'art. 19 d.lgs. n. 165 del 2001 stabilita per le
Amministrazioni statali- di ritenere applicabile l'art. 2103 cod. civ. (e
l'art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001), risultando la regola del rispetto di
determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo
statuto del dirigente pubblico locale, con la sola eccezione della dirigenza
tecnica, nel senso che il dirigente tecnico, il cui incarico è soggetto ai
principi della temporaneità e della rotazione, deve comunque svolgere
mansioni tecniche (v. Cass. n. 23760/2004 cit.; Cass. n. 3451/2010 cit.;
Cass. n. 4621/2017 cit.; Cass. n. 19442/2018 cit.);
4.9. tale essendo il sistema, gli incarichi di studio conferiti
alla Ca. dopo la cessazione di quello di direzione di struttura non potevano
essere letti in termini di dequalificazione;
ed infatti, come è stato da questa Corte già affermato, proprio
sulla base dell'assunto secondo cui, in tema di dirigenza pubblica, la
qualifica dirigenziale esprime esclusivamente l'idoneità professionale del
dipendente, senza che sia configurabile un diritto soggettivo a mantenere o
a conservare un determinato incarico, la cessazione di un incarico di
funzione e la successiva attribuzione di un incarico di studio ai sensi
dell'art. 19, comma 10, del d.lgs. n. 165 del 2001, non determina un
demansionamento (così Cass. 09.04.2018, n. 8674; si veda anche la già citata
Cass. n. 19442/2018 riguardante proprio l'assegnazione di un dirigente di
Ente locale ad una struttura di staff denominata Ufficio studi e ricerche);
ed allora non può essere addebitato alla Corte territoriale alcun
errore di diritto laddove ha escluso ogni demansionamento nell'attribuzione
alla Ca., dopo la cessazione di un incarico di funzione, di incarichi di
studio ai sensi dell'art. 19, comma 10, del d.lgs. n. 165 del 2001,
attenendo la verifica dell'effettività e pienezza delle mansioni di cui ai
nuovi incarichi all'accertamento di merito della Corte territoriale non
suscettibile di revisione in questa sede;
4.10. né fondatamente la ricorrente lamenta, quale pregiudizio, la
perdita della retribuzione di posizione e di risultato atteso che, come non
integra un demansionamento l'attribuzione di un incarico di studio, non può
riconoscersi come danno la perdita (di quota) della retribuzione di
posizione e di risultato, non configurandosi, per quanto sopra detto, un
diritto del dirigente alla preposizione ad un ufficio di direzione di
struttura, alle quali le predette voci siano connesse;
4.11. quanto, poi, alla ritenuta omessa considerazione dei rilievi
concernenti le valutazioni negative della Ca. sotto il profilo dei risultati
raggiunti ed in particolare dell'omesso esame di quello che la stessa
sentenza impugnata indica come 'terzo motivo di ricorso', le
doglianze non meritano accoglimento;
la Corte territoriale, infatti, dopo aver ritenuto infondato il
primo motivo di ricorso ha esaminato congiuntamente, in quanto logicamente
connessi, il secondo ed il terzo motivo di ricorso ed ha ritenuto entrambi
infondati considerando che la versione dei fatti rappresentata dal Comune di
Parma, secondo cui la Ca. aveva dimostrato "scarsa attitudine alle scelte
autonome di sua competenza" oltre che manifestato "la propria
insoddisfazione per il ruolo assegnatole con frequenti assenze, rigidità di
orario e ridotta disponibilità", avesse trovato conferma
nell'istruttoria svolta (e ciò sia per quanto atteneva al progetto Europa
sia per quanto riguardava i periodi pregressi);
ciò costituisce un'adeguata risposta ai rilievi di parte appellante
secondo la quale, al contrario, per quanto si evince dalla stessa sentenza
impugnata, le valutazioni negative effettuate dal datore di lavoro, lungi
dall'essere ricollegabili alle attitudini professionali della Ca. erano
piuttosto da porsi in relazione alla stessa condotta del Comune di Parma che
la aveva posta in condizioni di totale inattività;
anche con riguardo a tale aspetto la ricorrente pretende, allora,
in modo inammissibile, una diversa e personale lettura delle risultanze di
causa;
4.12. quanto, infine alle censure relative all'asserito difetto di
motivazione dei provvedimenti attributivi degli incarichi di studio la
ricorrente non ha specificato se ed in quali termini la questione fosse
stata sottoposta già in sede di ricorso di primo grado, non potendo il
suddetto onere ritenersi soddisfatto mediante la trascrizione della sentenza
di appello riportante i motivi di gravame (v. pag. 24 del ricorso per
cassazione) ovvero mediante il richiamo al passaggio argomentativo di tale
sentenza (riportato alla medesima pag. 24 ed alla successiva pag. 25),
specie a fronte dell'eccezione di novità della questione formulata in sede
di controricorso dal Comune di Parma, per non essere stata la stessa
esplicitata nel ricorso di primo grado e per essere state le conclusioni
assunte, sul punto, assolutamente generiche;
peraltro la questione è stata dalla ricorrente posta esclusivamente
in relazione alla ritenuta (e qui esclusa) configurazione da parte della
Corte territoriale dell'incarico di staff quale incarico dirigenziale ai
sensi dell'art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001 laddove, come sopra
evidenziato, si era trattato di un incarico di studio ex art. 19, comma 10,
del medesimo d.lgs.; (Corte
di Cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza 18.06.2020 n.
11891).
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MASSIMA
In tema di dirigenza pubblica, la cessazione di un
incarico di funzione, e la successiva attribuzione di un incarico di studio
ai sensi dell’art. 19, comma 10, del d.lgs. n. 165 del 2001, non determina
un demansionamento, in quanto la qualifica dirigenziale esprime
esclusivamente l’idoneità professionale del dipendente, senza che sia
configurabile un diritto soggettivo a mantenere o a conservare un
determinato incarico. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pubblico
impiego – incarichi esterni – autorizzazione preventiva.
Non è possibile concedere in via successiva, con
efficacia sanante un'autorizzazione per incarichi extra istituzionali.
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La corte di cassazione è stata chiamata a decidere sulla liceità del
conferimento da parte di un privato di un incarico professionale retribuito
ad un docente universitario senza la preventiva autorizzazione dell’ente di
appartenenza.
L’art. 53 d.lgs. 165/2001 disciplina la materia delle incompatibilità,
cumulo di impieghi e incarichi secondo cui, in generale, i lavoratori
dipendenti delle pubbliche amministrazioni compresi i docenti universitari
con rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato non possono
intrattenere altri rapporti di lavoro dipendente o autonomo o esercitare
attività imprenditoriali se non “preventivamente autorizzati”
dall’amministrazione di appartenenza. In caso contrario –afferma la
Cassazione- il soggetto che conferisce l'incarico commette un illecito che
non può essere sanato dal rilascio di una autorizzazione postuma,
pronunciata con la formula “ora per allora” dall'ente pubblico datore
di lavoro.
La pronuncia rimette al datore di lavoro la valutazione della legittimità e
della compatibilità dell’incarico allo scopo di garantire imparzialità,
efficienza e buon andamento della P.A. ed evitare che il dipendente possa
essere distolto dai propri doveri istituzionali.
Pertanto la Corte non ravvisa diversità dell’autorizzazione postuma rispetto
a quella “ora per allora” in quanto entrambe intervengono dopo
l’inizio dello svolgimento dell’incarico, e sono comunque incompatibili con
la finalità dell’istituto della previa autorizzazione (art. 53, co 7, d.lgs.
165/2001) che è quella di verificare ex ante l’insussistenza di
conflitti di interesse
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza
18.06.2020 n. 11811 - tratto da www.aranagenzia.it).
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SENTENZA
4.1. - Il motivo è fondato.
4.2. - L'impugnata sentenza (ricostruito il quadro normativo di riferimento,
costituito dalla L. n. 662 del 1996, art. 1,commi 56-65, D.Lgs. n. 165 del
2001, art. 53 e dalla L. n. 240 del 2010, art. 6, commi 9, 10 e 12) si fonda
sull'assunto che, quella in questione, non sia una mera "autorizzazione
postuma", che potrebbe far pensare a un'autorizzazione successiva al
conferimento dell'incarico con efficacia ex nunc, bensì un'autorizzazione
con formula "ora per allora" con effetti ex tunc.
Osserva il Tribunale che
tale autorizzazione sarebbe equivalente a quella preventiva; sicché la
circostanza che, nel momento in cui era stata formulata la richiesta di
autorizzazione, l'incarico privato fosse già stato conferito, non ne
inficerebbe la validità, proprio in quanto concessa con la formula "ora per
allora". Ciò in quanto, per "unanime giurisprudenza cui fa eco la dottrina",
il solo limite della ammisssibilità delle autorizzazioni "ora per allora"
consisterebbe in un espresso divieto di legge al loro rilascio (TAR Puglia,
Lecce, n. 2228 del 2007), che nel caso in esame non sussisterebbe, potendosi
conseguentemente attribuire al requisito della "previa" autorizzazione una
valenza neutra.
Pertanto, il Tribunale dell'appello rileva come, se è vero che la ratio
della autorizzazione consiste nella esigenza di verificare la sussistenza di
eventuali situazioni di conflitto fra l'interesse del privato richiedente e
quello della P.A., sia evidente che tale accertamento, potendo essere
eseguito ex ante, a maggior ragione possa essere effettuato ex post, alla
luce dell'attività professionale concretamente svolta dal richiedente e dei
compensi effettivamente percepiti.
Consentendo, dunque, il sopravvenuto rilascio della autorizzazione in
sanatoria, di escludere l'integrazione dell'illecito di cui è causa in
ragione dell'insussistenza dell'elemento oggettivo, costituito dalla
mancanza della prescritta autorizzazione.
4.3. - Orbene, sul piano normativo, questo Collegio osserva che il D.Lgs. n.
165 del 2001, art. 53, disciplina le incompatibilità, il cumulo di impieghi
e gli incarichi dei dipendenti pubblici; ivi compresi, per quanto qui
interessa, anche quelli dei professori universitari "a tempo pieno",
regolati anche della L. n. 240 del 2010, art. 6, comma 10, secondo periodo,
che conferma che i professori e i ricercatori a tempo pieno possono altresì
svolgere, "previa autorizzazione" del rettore, funzioni didattiche e di
ricerca, nonché compiti istituzionali e gestionali senza vincolo di
subordinazione presso enti pubblici e privati senza scopo di lucro, purché
non si determinino situazioni di conflitto di interesse con l'università di
appartenenza, a condizione comunque che l'attività non rappresenti
detrimento delle attività didattiche, scientifiche e gestionali loro
affidate dall'università di appartenenza (peraltro, non rilevando, nella
specie, il richiamo al regolamento di Ateneo in questione, che nulla
disporrebbe in merito, e che, comunque, quale fonte subordinata al D.Lgs. n.
165 del 2001, non potrebbe derogare alle disposizioni primarie, che
prevedono un criterio generale di autorizzabilità in via preventiva degli
incarichi).
La normativa, nel suo insieme, non vieta dunque l'espletamento di incarichi
extraistituzionali retribuiti, ma li consente solo ove gli stessi siano
conferiti dall'amministrazione di provenienza ovvero da questa
"preventivamente autorizzati", rimettendo al datore di lavoro pubblico la
valutazione della legittimità dell'incarico e della sua compatibilità,
soggettiva e oggettiva, con i compiti propri dell'ufficio. In tal senso,
questa Corte ha rilevato che, in tema di pubblico impiego, il D.Lgs. n. 165
del 2001, art. 53, comma 6, in cui è confluito il D.Lgs. n. 29 del 1993,
art. 58, come modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 26, vieta ai
dipendenti delle P.A. con rapporto di lavoro a tempo pieno l'espletamento di
incarichi retribuiti, anche occasionali, non compresi nei compiti e nei
doveri d'ufficio, per i quali sia corrisposto, sotto qualunque forma, un
compenso, salvo che lo svolgimento dell'incarico sia stato preventivamente
autorizzato, ai sensi della L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 60,
dall'amministrazione di appartenenza per le specifiche attività consentite
dalla legge (Cass. n. 15098 del 2011).
Lo scopo è evidentemente quello di garantire l'imparzialità, l'efficienza e
il buon andamento della pubblica amministrazione nel rispetto dei principi
sanciti dagli artt. 97 e 98 Cost.; e di evitare che il pubblico dipendente
possa svolgere incarichi ulteriori rispetto a quelli che discendono dai
propri doveri istituzionali, distogliendolo da essi ovvero creando forme
autorizzate di concorrenza soggettiva in capo al medesimo soggetto
interessato, e procurandogli un vantaggio economico che non ne
giustificherebbe, se stabile e duraturo e quindi dotato dei caratteri della
prevalenza e continuità, la permanenza all'interno della pubblica
amministrazione, con i conseguenti rilevanti oneri ad essa attribuiti.
Sicché, quanto all'effetto di rimozione del generale divieto di conseguire
l'incarico, se non attraverso una autorizzazione adottata prima dell'inizio
dello stesso, questo Collegio non ravvisa una diversità della
"autorizzazione postuma" rispetto a quella "ora per allora", in quanto
entrambe intervengono dopo l'inizio (ovvero anche la fine) dello svolgimento
dell'incarico.
4.4. - Peraltro, la giurisprudenza amministrativa, in particolare, ha
escluso che possa essere concessa un'autorizzazione successiva con efficacia
sanante (e dunque "ora per allora", stante la specificità del rapporto di
pubblico impiego rispetto a situazioni diverse dell'attività amministrativa
(ex plurimis, Tar Emilia Romagna Parma Sez. I, Sent., 17.07.2017, n.
263; Tar Emilia Romagna Parma, Sez. I, 05.06.2017, n. 191; Tar Calabria
Reggio Calabria, sez. I, 14.03.2017, n. 195; Tar Lombardia Milano, Sez.
IV, 07.03.2013, n. 614).
Seppure, dunque, il principio di tipicità degli atti amministrativi non
impedisce che il momento di esercizio del potere amministrativo possa essere
spostato in avanti in tutti i casi in cui sia ancora possibile effettuare le
valutazioni che ne sono alla base (come per le autorizzazioni postume in
relazione ad attività edilizie ovvero paesaggistiche: Cons. Stato, sez. VI,
30.03.2004, n. 1695), ciò va escluso nell'ambito specifico degli
incarichi dei pubblici dipendenti, che consente che il dipendente medesimo,
in presenza di una specifica e preventiva autorizzazione rilasciata da parte
dell'amministrazione di appartenenza, possa eccezionalmente ricoprire
incarichi ulteriori al di fuori di quelli istituzionali.
Invero, l'autorizzazione postuma (id est, con riferimento allo specifico
caso in esame, l'autorizzazione "ora per allora") risulta ontologicamente
incompatibile con la finalità dell'istituto della previa autorizzazione che,
in base al disposto di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 7, è
quella (come detto) di verificare, necessariamente ex ante, l'insussistenza
di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi. Laddove, "il
dovere di rispettare la regola per cui -tra gli incarichi non vietati- gli
incarichi extraistituzionali consentiti al dipendente (rispetto ai quali quest'ultimo è legittimato a trattenere le relative remunerazioni) sono solo
quelli o previamente autorizzati dall'Amministrazione datoriale o quelli
dalla stessa direttamente conferiti costituisce interpolativamente (giacché
introdotto per legge) null'altro che uno dei diversi doveri del dipendente
che rientrano nel fascio dei suoi obblighi dovuti per effetto del rapporto
lavorativo dipendente" (Cons. Stato, sez. VI, 02.11.2016, n. 4590).
4.5. - Va, inoltre, rilevato che il disposto dell'art. 53, comma 9 cit.,
risulta diretto a sanzionare una violazione di carattere "formale",
integrata cioè dal semplice fatto di un privato che abbia conferito un
incarico a un dipendente pubblico senza avere ottenuto preventivamente
l'autorizzazione dell'Amministrazione presso cui il medesimo presti
servizio. Detto illecito non può, dunque, essere sanato da un'autorizzazione
intervenuta successivamente (con effetti anche "ora per allora") al
conferimento dell'incarico.
Tale assunto, risulta confortato tanto dall'inequivoco ed insuperabile
significato letterale dell'art. 53, comma 9, che fa esplicito riferimento ad
una "previa autorizzazione" dell'incarico medesimo; quanto dalla
considerazione, di carattere sistematico, che il potere sanzionatorio è
attribuito all'Agenzia delle Entrate (in precedenza al Ministero delle
Finanze) e non alla specifica Amministrazione cui appartenga il dipendente
investito dell'incarico extra-istituzionale, come invece disposto dello
stesso art. 53, precedente comma 7.
La qual cosa indurrebbe a ritenere che
il legislatore delegato non abbia previsto le sanzioni in oggetto (comma 9)
allo scopo di contrastare "violazioni sostanziali"; non comprendendosi
altrimenti, per quale motivo la potestà punitiva sia affidata a un soggetto
pubblico diverso da quello preposto a valutare la compatibilità tra
l'incarico esterno e le normali funzioni istituzionali, in quanto titolare
del potere di rilasciare l'autorizzazione.
4.6. - Non può, pertanto, essere seguito l'assunto del giudice di appello,
secondo cui, quella in questione, non sarebbe una mera "autorizzazione
postuma", che potrebbe far pensare a un'autorizzazione successiva al
conferimento dell'incarico con efficacia ex nunc, bensì un'autorizzazione
con formula "ora per allora" con effetti ex tunc equivalente a quella
preventiva.
4.7. - Quanto, infine, alla richiesta della parte controricorrente di
sollevare la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 165 del
2001, art. 53, comma 9 e del D.L. n. 79 del 1997, art. 6, comma 1
(convertito con modifiche dalla L. n. 140 del 1997), per violazione
dell'art. 3 Cost., nonché dei principi di ragionevolezza adeguatezza e
proporzionalità, essa risulta allo stato manifestamente inammissibile, sia
in quanto (apoditticamente affermate lesioni dei principi costituzionali
evocati) non risulta alcuna valutazione né in ordine all'ambito di
applicabilità, nella fattispecie concreta, della normativa di cui al D.L. 79
del 1997, art. 6, comma 1, né della praticabilità -a seguito della
dichiarazione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 165 del 2001, art.
15 (Corte Cost. n. 98 del 2015)- di una interpretazione costituzionalmente
conforme della disciplina de qua, come emendata dal giudice delle leggi; sia
per irrilevanza, in rapporto alla natura astratta e/o prematura della
questione, con riferimento alla sua eventuale riproponibilità nel giudizio
di rinvio. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Durata turni.
Domanda
In caso di lavoro articolato in turni, ritenete che un turno di lavoro che
va dalle 18.00 alle 23.00 possa essere considerato turno notturno?
In particolare, tenuto conto della durata (5 ore) e della fascia oraria che
copre?
Risposta
La disciplina contrattuale contenuta all’art. 23 del CCNL 21.05.2018,
individuando i criteri distintivi il lavoro in turno, rinvia a prestabilite
articolazioni giornaliere effettuate in orario antimeridiano, pomeridiano e,
se previsto, notturno, non precisando alcunché circa la durata minima o
massima dei diversi turni di lavoro.
È del tutto evidente che la durata della prestabilita articolazione
giornaliera dovrà tenere conto delle primarie esigenze di servizio da
soddisfare e di quanto indicato al comma 3 del medesimo articolo di
contratto:
3. Per l’adozione dell’orario di lavoro su turni devono essere osservati
i seguenti criteri:
a) la ripartizione del personale nei vari turni deve avvenire sulla
base delle professionalità necessarie in ciascun turno;
b) l’adozione dei turni può anche prevedere una parziale e limitata
sovrapposizione tra il personale subentrante e quello del turno precedente,
con durata limitata alle esigenze dello scambio delle consegne;
c) all’interno di ogni periodo di 24 ore deve essere garantito un
periodo di riposo di almeno 11 ore consecutive;
d) i turni diurni, antimeridiani e pomeridiani, possono essere
attuati in strutture operative che prevedano un orario di servizio
giornaliero di almeno 10 ore;
e) per turno notturno si intende il periodo lavorativo ricompreso
dalle ore 22 alle ore 6 del giorno successivo; per turno notturno-festivo si
intende quello che cade nel periodo compreso tra le ore 22 del giorno
prefestivo e le ore 6 del giorno festivo e dalle ore 22 del giorno festivo
alle ore 6 del giorno successivo.
Alla luce di quanto sopra precisato non si rinviene alcun divieto nel
prevedere un turno di lavoro della durata di 5 ore a condizione ovviamente
che il debito orario derivante dall’obbligazione contrattuale venga
interamente assolto.
Per quanto attiene al secondo quesito, la disciplina delle turnazioni
contenuta all’art. 23 del CCNL 21.05.2018 non individua le fasce orarie del
turno antimeridiano e pomeridiano, limitandosi a delineare un turno diurno
dalle ore 6 alle ore 22 ciò in quanto tale distinzione non assume rilevanza
dal punto di vista della quantificazione dell’indennità, dal momento che in
entrambi i casi si applica il compenso per il turno diurno stabilito nella
maggiorazione oraria del 10%.
L’articolazione dei turni risponde a precise esigenze organizzative e
funzionali del servizio da svolgere e l’assegnazione ad essi del personale,
in linea con la disciplina contrattuale, dovrà rispondere a criteri di
rotazione, equilibrio e avvicendamento.
La norma di legge che perimetria un limite non valicabile è l’art. 7 del
d.lgs. 66/2003 dove individua nelle 11 ore di riposo consecutivo ogni 24
ore, un diritto indisponibile non rinunciabile, fatte salve le attività
caratterizzate da periodi di lavoro frazionati.
Questo significa che il “negativo” del riposo giornaliero si
rappresenta in un intervallo temporale di 13 ore (24h – 11h), in linea
teorica lavorabili dai dipendenti.
La fonte contrattuale intende e realizza di contenere la durata della
prestazione giornaliera all’art. 38 del CCNL 14.09.2000, comma 6, dove
dispone che la prestazione individuale di lavoro, a qualunque tritolo resa
non può, in ogni caso, superare, di norma, un arco massimo giornaliero di 10
ore.
Premesso quanto sopra, risulta legittimo un turno di lavoro di 10 ore
consecutive ma solo a condizione che venga rispettato il disposto dell’art.
26 del CCNL 21.05.2018, ovvero che il lavoratore, dopo 6 ore continuative di
servizio, effettui una pausa non inferiore ai 10 minuti.
Pausa indisponibile, non rinunciabile e oggetto di timbratura (18.06.2020
- link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
E' illegittima l’esclusione da un
concorso disposta a cagione dell’avvenuta indicazione di un indirizzo p.e.c. non conforme ai dettami del bando perché
intestato ad un familiare, dunque ad un soggetto diverso.
Invero, la comminata esclusione è sanzione sproporzionata ed ultronea
laddove invece, anche in conformità a quanto previsto dall’art. 4 D.P.R. n.
487/1994 citato, proporzionata sanzione per l’indicazione di un indirizzo
p.e.c. non conforme ai dettami del bando risulta essere l’esonero di
responsabilità dell’Amministrazione per l’eventuale dispersione di
comunicazioni dipendente dall’inesatta indicazione del recapito da parte del
concorrente.
---------------
Ciò posto, osserva il Collegio che lo spiegato ricorso è fondato e
va pertanto accolto.
Occorre premettere che l’art. 4, comma 4, D.P.R. 09.05.1994, n. 487,
recante il Regolamento contenente le norme sull'accesso agli impieghi nelle
pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei
concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi,
testualmente prevede che “l'amministrazione non assume responsabilità per la
dispersione di comunicazioni dipendente da inesatte indicazioni del recapito
da parte del concorrente oppure da mancata o tardiva comunicazione del
cambiamento dell'indirizzo indicato nella domanda, né per eventuali disguidi
postali o telegrafici o comunque imputabili a fatto di terzi, a caso
fortuito o forza maggiore”.
Tanto premesso, e considerato che nella fattispecie che occupa l’esclusione
dei ricorrenti è stata disposta a cagione dell’avvenuta indicazione da parte
degli stessi di un indirizzo p.e.c. non conforme ai dettami del bando perché
intestato ad un familiare, dunque ad un soggetto diverso, a giudizio del
Tribunale la comminata esclusione è sanzione sproporzionata ed ultronea
laddove invece, anche in conformità a quanto previsto dall’art. 4 D.P.R. n.
487/1994 citato, proporzionata sanzione per l’indicazione di un indirizzo
p.e.c. non conforme ai dettami del bando risulta essere l’esonero di
responsabilità dell’Amministrazione per l’eventuale dispersione di
comunicazioni dipendente dall’inesatta indicazione del recapito da parte del
concorrente.
Né sotto questo profilo può assumere in senso contrario dirimente rilievo la
previsione di cui all’art. 4.2 del bando di concorso, che espressamente
prevede che “il candidato deve indicare una casella di posta elettronica
certificata (PEC) personale, dalla quale si evincano, pena esclusione,
chiaramente il nome ed il cognome dello stesso (non sono ammesse PEC
istituzionali accreditate ad Enti pubblici o privati, etc. … né PEC recanti
pseudonimi). Non sono ammesse, altresì, caselle di posta semplice/ordinaria
in quanto la stessa sarà utilizzata per l’invio di notifiche e convocazioni
al candidato stesso”, come invece sostenuto dall’Amministrazione resistente.
Al riguardo, il Collegio non ignora che secondo la maggioritaria
giurisprudenza “il bando di concorso pubblico, in quanto "lex specialis",
vincola non solo i candidati, ma la stessa p.a., alla quale non residua
alcun margine di discrezionalità in ordine all'applicazione delle sue norme,
le quali non possono essere modificate o integrate successivamente alla sua
emissione, a pena d'illegittimità del procedimento per violazione del
principio di "par condicio" tra i candidati” (cfr. Consiglio di Stato sez.
III, 01/03/2017, n. 963) e che “le clausole del bando di concorso per
l'accesso al pubblico impiego non possono essere assoggettate a procedimento ermeneutico in funzione integrativa, diretto ad evidenziare in esse pretesi
significati impliciti o inespressi, ma vanno interpretate secondo il
significato immediatamente evincibile dal tenore letterale delle parole e
dalla loro connessione” (cfr. ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. IV,
sentenza n. 1148/2019).
Nondimeno, atteso che il citato art. 4, comma 4, D.P.R. 09.05.1994, n. 487
già prevede la sanzione conseguente alla mancata indicazione di un indirizzo
idoneo da parte del candidato che voglia partecipare ad un pubblico
concorso, consistente nell’esonero da parte dell’Amministrazione di
qualsivoglia responsabilità in caso di dispersione o tardività della
ricezione delle comunicazioni inviate da parte del candidato, in tal caso il
Collegio ritiene necessario, anche nell’ottica del più ampio favor partecipationis, armonizzare la previsione del bando di concorso con la
previsione normativa, mediante l’annullamento della comminata esclusione dei
ricorrenti dal concorso; in tal caso, non si tratta di fare applicazione
dell’istituto del soccorso istruttorio che, com’è noto, non può
giustificarsi nei casi in cui confligga con il principio generale dell'autoresponsabilità
dei concorrenti, in forza del quale ciascuno sopporta le conseguenze di
eventuali errori commessi nella presentazione della documentazione (cfr.
Consiglio di Stato Sez. IV n. 1148/2019, Consiglio di Stato sez. III,
28/11/2018, n. 6752, TAR Campania, Napoli, sez. III, 02/07/2018, n. 4353,
TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 08/06/2017, n. 1515), non potendo essere
rimessi i ricorrenti in termini ai fini dell’indicazione di un indirizzo
p.e.c. conforme al bando –come peraltro correttamente sostenuto dalla
difesa dell’Amministrazione resistente–, bensì di ricondurre la previsione
del bando nell’alveo della disciplina normativa testé richiamata, attraverso
l’applicazione della più proporzionata e specifica sanzione prevista dalla
legge.
Conclusivamente, per le ragioni sopra sinteticamente indicate, lo spiegato
ricorso è fondato e va accolto con consequenziale annullamento della
comminata esclusione dei ricorrenti dal concorso pubblico
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 16.06.2020 n. 2463 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Indicizzazione
dei dati: quando è vietata.
Domanda
Il nostro Nucleo di Valutazione ci ha fatto notare che nell’attestazione da
compilare per la rilevazione di quest’anno sugli obblighi di pubblicazione
in Amministrazione Trasparente, c’è una novità riferita alle modalità
adottate dall’ente per indicizzare o meno i dati pubblicati.
Cosa riguarda? Cosa dobbiamo fare?
Risposta
Il principale riferimento normativo rispetto a quanto l’Autorità Nazionale
Anti Corruzione (ANAC) chiede di dichiarare nel documento di attestazione, a
cura degli Organismi Indipendenti di Valutazione –OIV– (o dei Nucleo di
Valutazione), in occasione della rilevazione 2020 sulle pubblicazioni di
Amministrazione Trasparente, è il cosiddetto decreto Milleproroghe (n. 162
del 30.12.2019), che prevede lo slittamento di una serie di termini
legislativi in materia finanziaria, di organizzazione di pubbliche
amministrazioni e magistrature.
Tra le varie disposizioni sostanziali, il Milleproroghe, l’articolo 1, comma
7-ter, nel testo introdotto dalle legge di conversione n. 8 del 28.02.2020,
stabilisce che “non è comunque consentita l’indicizzazione dei dati e
delle informazioni oggetto del regolamento di cui al comma 7”,
diversamente da quanto dispone in merito il decreto Trasparenza (d.lgs.
33/2013) che evidenzia, invece, l’obbligo di indicizzazione in due
specifiche norme:
• all’articolo 9, comma 1;
• articolo 7-bis, introdotto dal decreto legislativo n. 97/2016.
Il regolamento interministeriale citato con riguardo ai dati non
indicizzabili, non è ancora stato adottato (lo sarà entro il 31.12.2020,
salvo proroghe) e si riferisce, in particolare, ai dati e alle informazioni
relativi ai titolari di incarichi politici, di direzione e di governo, oltre
ai dirigenti e alle posizioni organizzative con funzioni dirigenziali, così
come evidenziati dall’articolo 14, comma 1, del d.lgs. 33/2013, come
modificato dal d.lgs. 97/2016. Tale regolamento, avrà lo scopo di
individuare con precisione i dati e le informazioni –riguardanti i soggetti
citati– che saranno oggetto di pubblicazione nella sezione di
Amministrazione Trasparente del sito web istituzionale, sulla base di
determinati criteri, secondo il (giusto) principio della “graduazione
dell’obbligo”.
Pertanto, possiamo rappresentare il quadro normativo nel modo seguente:
1. il decreto Trasparenza prevede l’obbligo generale di indicizzare
i dati, evitando di disporre filtri o altre soluzioni tecnico–informatiche
che impediscono ai motori di ricerca di rintracciare dati e informazioni
pubblicate nella sezione del sito web istituzionale di Amministrazione
Trasparente, permettendo, quindi, il loro riutilizzo nel rispetto dei
principi sul trattamento dei dati personali;
2. il decreto Milleproroghe introduce una misura di tutela
disponendo, invece, che non siano indicizzabili i soli dati relativi ai
titolari di incarichi politici, di direzione e di governo, oltre ai
dirigenti e alle posizioni organizzative con funzioni dirigenziali.
È importante evidenziare che fino al 31.12.2020 –data ultima in cui il
regolamento interministeriale dovrà essere adottato– risultano sospese le
sanzioni disposte dal decreto Trasparenza (articoli 46 e 47) per la mancata
pubblicazione dei dati e delle informazioni citate sopra al punto 2), nelle
more dell’adozione di provvedimenti che chiariscano la questione sollevata
dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 20 del 23.01.2020.
Comunque, gli obblighi di pubblicazione di tali dati continuano a permanere!
È stata temporaneamente sospesa solamente l’applicazione delle sanzioni.
Tornando a quanto riportato sul documento di attestazione, che deve essere
compilato dall’Organismo Indipendente di Valutazione –OIV– (o dal Nucleo di
Valutazione) in occasione della rilevazione 2020 sull’adempimento degli
obblighi di pubblicazione in Amministrazione Trasparente, l’ente deve
dichiarare, quindi, di essersi o meno già allineato alla normativa,
comunicando all’OIV (o al Nucleo) se ha o meno adottato filtri e/o altre
soluzioni tecniche, allo scopo di impedire ai motori di ricerca web di
indicizzare ed effettuare ricerche che abbiano per oggetto i dati e le
informazioni che il legislatore ha individuato come non rintracciabili (16.06.2020
- link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nomina dipendente di altro ente componente commissione concorso.
DOMANDA
Alla luce delle novità introdotte dal decreto legge 30/12/2019, n. 162
(convertito in legge, con modificazioni, dalla Legge 28/02/2020, n. 8)
all'art. 3 della Legge 19/06/2019, n. 56, si chiede:
- quali siano le modalità per nominare un dipendente di altro Ente
pubblico come componente esterno di commissione concorsuale;
- se il compenso debba essere corrisposto direttamente al suddetto
componente esterno oppure all'Amministrazione di appartenenza;
- quale sia il trattamento fiscale e contributivo a cui è soggetto
il compenso;
- nel caso in cui sia l'Amministrazione di appartenenza a
riconoscere il compenso (dopo aver ricevuto il relativo importo
dall'Amministrazione che ha indetto il concorso), se l'Amministrazione di
appartenenza debba sostenere il costo aggiuntivo riguardante Cpdel e Irap a
proprio carico oppure se l'importo (pagato dall'Amministrazione che ha
indetto il concorso) sia al lordo di tutti gli oneri e quindi non vi sia
alcun costo aggiuntivo.
RISPOSTA
Per gli Enti locali una disposizione legislativa cardine è quella contenuta
nell'art. 70, comma 13, D.Lgs. n. 165 del 2001 secondo cui "In materia di
reclutamento, le pubbliche amministrazioni applicano la disciplina prevista
dal
D.P.R.
09.05.1994, n. 487, e successive modificazioni ed
integrazioni, per le parti non incompatibili con quanto previsto dagli artt.
35 e
36, salvo che la materia venga regolata, in coerenza con i principi ivi
previsti, nell'ambito dei rispettivi ordinamenti".
Gli enti territoriali, nell’esercizio della potestà regolamentare degli enti
locali in materia di organizzazione dei propri uffici e servizi e del
reclutamento del personale attribuita prima dall’art. 6 della legge n.
127/1997 e poi dal nuovo assetto costituzionale introdotto dalla
legge
costituzionale n. 2/2001, fatto salvo l’obbligo di conformarsi ai meccanismi
oggettivi e trasparenti, necessari per la verifica del possesso dei
requisiti attitudinali e professionali richiesti in relazione alla posizione
da ricoprire, possono disciplinare in modo autonomo l’organizzazione e lo
svolgimento dei concorsi rispetto a cui le disposizioni del
DPR n. 487/1994
e ss.mm.ii. costituiscono principi generali a cui attenersi.
Infatti, gli Enti pubblici diversi dalle Amministrazioni dello Stato a cui
la Costituzione o la legge attribuisce potestà legislativa o anche solo
normativa (statutaria o regolamentare) possono adottare proprie fonti che
disciplinino le procedure di reclutamento, nel rispetto della
L. 241/1990 e
del
D.lgs. n. 165/2001 e dei principi contenuti nel Regolamento nazionale
adottato con DPR 487/1994, recante norme sull'accesso agli impieghi nelle
pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei
concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi.
A tale riguardo l’art. 9 del citato DPR dispone che per gli enti locali
territoriali la presidenza delle commissioni di concorsi può essere assunta
anche da un dirigente della stessa amministrazione o di altro ente
territoriale; b) per i concorsi per la quinta e la sesta qualifica o
categoria: da un dirigente o equiparato, con funzioni di presidente, e da
due esperti nelle materie oggetto del concorso; le funzioni di segretario
sono svolte da un impiegato appartenente alla settima qualifica o categoria;
c) per le prove selettive previste dal capo terzo del presente regolamento,
relative a quei profili per il cui accesso si fa ricorso all'art. 16 della
legge 28.02.1987, n. 56 , e successive modifiche ed integrazioni: da
un dirigente con funzioni di presidente e da due esperti nelle materie
oggetto della selezione; le funzioni di segretario sono svolte da un
impiegato appartenente alla sesta qualifica o categoria.
La preferenza per personale interno, salvi casi di conflitto d’interesse, di
incompatibilità, di mancanza di specifica competenza in determinate materie
di concorso, è legata al principio di tutela della finanza pubblica in
ordine all’utilizzo delle risorse umane di cui la PA dispone atteso che come
affermato dalla giurisprudenza (cfr.
Tar Veneto, Sezione II, sentenza
700/2007), “la partecipazione alle commissioni giudicatrici per i componenti
interni rientra nell’ordinario contenuto del rapporto di impiego con
l’Amministrazione che ha indetto il concorso, il quale ben può comprendere
anche prestazioni lavorative occasionali (che, proprio per tale loro
specifica natura, non sono previste dalla contrattazione collettiva di
settore). Ed è evidente come, in tale contesto, quelle prestazioni
occasionali non possano che essere remunerate con la normale retribuzione se
svolte durante l’orario di servizio, ovvero, al di fuori di esso, con il
compenso aggiuntivo previsto per il lavoro straordinario”.
Il quadro normativo anzidetto si è arricchito delle novità introdotte dai
commi 11, 12, 13 dell’art. 3 della L. 56/2019, ma con la successiva
abrogazione del comma 12 da parte dell’art. 18, comma 1-ter, lett. b), del DL
162/2019 convertito con modificazioni dalla
legge 8/2020, per cui è venuta
meno la disposizione in base alla quale gli incarichi di presidente, di
membro o di segretario di una commissione esaminatrice di un concorso
pubblico per l'accesso a un pubblico impiego, anche laddove si tratti di
concorsi banditi da un'amministrazione diversa da quella di appartenenza e
ferma restando in questo caso la necessità dell'autorizzazione di cui
all'art. 53 d.lgs. n. 165/2001, si considerano ad ogni effetto di legge
conferiti in ragione dell'ufficio ricoperto dal dipendente pubblico o
comunque conferiti dall'amministrazione presso cui presta servizio o su
designazione della stessa.
Ciò premesso, si ritiene quanto segue:
- la nomina di un dipendente di un altro ente dovrebbe avvenire in presenza
delle condizioni prima evidenziate (conflitti, incompatibilità, mancanza di
competenza per materia di esame, componenti esperto assente nell’ente e
simili) attestate dal dirigente che nomina la commissione di concorso,
altrimenti si deve ricorrere a personale interno.
A seguito dell’abrogazione della citata disposizione, dovrebbe essere
ripristinato il precedente regime di compenso di collaborazione occasionale
per attività svolta al di fuori del rapporto di servizio con il proprio
ente, compenso soggetto solo a trattenuta irpef; per cui il componente
esterno al termine delle proprie attività consegnerà apposita notula di
pagamento all’amministrazione presso cui ha operato, fatte salve le
autorizzazioni preventive dell’ente di appartenenza e le comunicazioni
successive allo stesso dei compensi erogati ai sensi dell’art. 53 del d.lgs.
n. 165/2001 (12.06.2020 - tratto da e link a https://lapostadelsindaco.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Modalità
fruizione festività soppresse.
Domanda
La l. 937/1977 ha stabilito che qualora le 4 giornate di festività soppresse
non siano fruite, per motivate esigenze inerenti all’organizzazione dei
servizi, nel corso dell’anno solare le stesse vengono retribuite.
L’Ente può inserire nel proprio regolamento la modalità di richiesta di
queste giornate?
Risposta
In relazione al quesito formulato si evidenzia che sin dall’art. 18 del CCNL
del 06.07.1995 la cui disciplina oggi è stata trasfusa nell’art. 28, comma
6, del CCNL 21/05/2018, sono stati contrattualizzati gli effetti della l.
937/1977, stabilendo che il dipendente ha diritto a fruire nel corso
dell’anno solare, in aggiunta ai giorni di ferie, anche a ulteriori quattro
giorni di riposo, da utilizzare ai sensi ed alle condizioni stabilite nella
citata l. 937/1977.
Il predetto comma 6 dispone quanto segue: «6. A tutti i dipendenti sono
altresì attribuite quattro giornate di riposo da fruire nell'anno solare
ai sensi ed alle condizioni previste dalla menzionata legge n. 937/77. E’
altresì considerato giorno festivo la ricorrenza del Santo patrono della
località in cui il dipendente presta servizio, purché ricadente in un giorno
lavorativo.»
Il tenore letterale della disposizione in esame consente di affermare che,
sulla base della normativa, i giorni di riposo devono essere fruiti
esclusivamente nell’anno di riferimento e che, conseguentemente, non è
possibile in alcun modo la trasposizione di quelli maturati in un anno
nell’anno successivo.
Nel caso di mancata fruizione nell’anno di maturazione, imputabile solo a
ragioni di servizio, il lavoratore in passato aveva diritto alla
monetizzazione degli stessi, nella misura stabilita dall’art. 52, comma 5,
del CCNL del 14.09.2000, come sostituito dall’art. 10 del CCNL del
09.05.2006.
Quanto sopra deve ormai ritenersi superato a seguito dell’entrata in vigore
delle disposizioni contenute nell’art. 5, comma 8, della l. 135/2012 (cd. “Spending
Review”) che hanno stabilito il divieto della monetizzazione delle ferie
non godute dei pubblici dipendenti, incidendo, in modo riduttivo, sulla
disciplina prevista in materia dall’allora art. 18, comma 16, del CCNL del
06.07.1995 (oggi art. 28 CCNL 21/05/2018).
Pertanto, l’ente potrà sicuramente disciplinare modalità di fruizione delle
quattro giornate de quo, tali da garantirne il godimento entro l’anno
solare.
Potrà, ad esempio, disciplinare che i primi giorni di assenza (ad eccezione
delle assenze individuate da istituti specifici, ad esempio permesso per
motivi personali, concorsi ed esami, ecc.) vengano imputati al godimento
delle quattro giornate di festività soppresse.
In tal modo, si garantirà l’effettuazione delle stesse entro l’anno,
tutelando sia il dipendente (che altrimenti non usufruendo delle stesse
entro l’anno ne perderebbe il diritto al godimento) sia l’amministrazione
medesima (per eventuali situazioni di contenzioso) (11.06.2020
- link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
previsione del bando di concorso, in forza del quale la resistente
Amministrazione ha disposto l’esclusione della ricorrente dalla procedura
concorsuale de qua,
deve ritenersi illegittima, essendo la sanzione dell’esclusione prevista per
la mancata indicazione di un indirizzo PEC non nella titolarità dell’istante
illogica e sproporzionata rispetto alla finalità di comunicazione cui
l’indicazione di un indirizzo PEC risulta preordinata, dovendosi fare
applicazione, anche in relazione all’elezione di un domicilio digitale,
della previsione dell’art. 4 del DPR n. 487/1994 laddove dispone che
“L’amministrazione non assume responsabilità per la dispersione di
comunicazioni dipendente da inesatte indicazioni del recapito da parte del
concorrente oppure da mancata o tardiva comunicazione del cambiamento
dell’indirizzo indicato nella domanda…”, ricadendo pertanto, all’esito
dell’elezione di un domicilio digitale da parte del concorrente presso un
indirizzo PEC non nella sua titolarità, il rischio della mancata ricezione
della comunicazione a carico del concorrente medesimo, con conseguente
esonero di responsabilità da parte dell’Amministrazione.
---------------
Secondo l’interpretazione data dalla giurisprudenza all’art. 65 del C.A.D.
riferito alle istanze e dichiarazioni presentate alle pubbliche
amministrazioni per via telematica (e non dunque alle comunicazioni inviate
dall’Amministrazione), l’utilizzo di una PEC nella titolarità dell’istante,
e quindi senza dubbio a lui riconducibile, è in grado di supplire anche alla
mancata sottoscrizione delle domande di concorso, essendo l’invio della PEC
assimilabile all’apposizione della firma.
Invero, “E' illegittimo il bando di selezione che
preclude l'ammissibilità delle domande di partecipazione a un concorso
pubblico prive di firma (digitale o sulla copia scansionate dei documenti
allegati), ancorché presentate da un candidato a mezzo PEC, con casella di
posta intestata allo stesso mittente. L'utilizzo di una casella di posta
elettronica certificata intestata allo stesso mittente consente di ritenere
soddisfatto il requisito della apposizione della firma”; ciò in
considerazione del rilievo che “Il D.P.C.M. 06.05.2009, art. 4, comma 4,
prevede che le pubbliche amministrazioni accettano le istanze dei cittadini
inviate tramite PEC nel rispetto dell'art. 65, comma 1, del D.Lgs. n. 82 del
2005. L'invio tramite PEC costituisce sottoscrizione elettronica ai sensi
dell'art. 21, comma 1, dello stesso decreto legislativo. Nel rispetto di
quanto previsto dall'art. 4 del D.P.R. n. 487/1994 l'inoltro tramite posta
certificata di cui all'art. 16-bis del D.L. n. 185/2008 è già sufficiente a
rendere valida l'istanza, a considerare identificato l'autore di essa, a
ritenere la stessa regolarmente sottoscritta”.
Per contro laddove, come nell’ipotesi di specie, la domanda di
partecipazione al concorso venga inviata non tramite PEC dell’interessato,
trova applicazione il disposto dell’art. art. 65, comma 1, lett. c), d.lgs.
07.03.2005, n. 82 (C.A.D.) il quale dispone che, per essere valida,
un'istanza presentata per via telematica alle PP.AA. e ai gestori dei
servizi pubblici, se non proveniente dalla pec dell'interessato, deve essere
non solo accompagnata da un documento di identità dell'interessato medesimo,
ma anche da questi sottoscritta.
Inoltre la prescrizione illegittima del bando si pone in contrasto anche
con il principio del favor partecipationis a cui devono uniformarsi tanto le
procedure concorsuali per l’assunzione a pubblici impieghi che le procedure
relative agli appalti.
Infatti nei procedimenti di evidenza e perciò anche nei concorsi e/o
procedure selettive tale principio risulta finalizzato a superare inutili
formalismi per l’attuazione dei principi di favor partecipationis e di
semplificazione, ma deve essere applicato congiuntamente ai principi
dell’imparzialità e/o della par condicio tra i candidati ed a quelli di
efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa...”.
---------------
1. Con atto notificato in data 29.07.2019 e depositato il
successivo 9 agosto la ricorrente in epigrafe indicata ha impugnato la
deliberazione n. 627 del 19.07.2019 con la quale era stata esclusa dal
concorso pubblico per l'assunzione di n. 17 o.s.s., nonché in parte qua
l’art. 4 e 4.2 del bando di concorso per l'assunzione a tempo indeterminato
di n. 17 o.s.s., indetto in esecuzione della deliberazione n. 637 del
02.10.2018, laddove prevedeva che i candidati a pena di esclusione dovessero
indicare nella domanda di partecipazione un indirizzo PEC contenente il nome
e cognome del candidato, con conseguente inammissibilità delle domande che
recassero, quale indirizzo per le comunicazioni da parte
dell’Amministrazione, una PEC nella titolarità di altra persona (sebbene
familiare e/o convivente).
1.1 Infatti la ricorrente è stata esclusa dalla procedura de qua per avere
indicato nella domanda di concorso, inoltrata telematicamente tramite il
collegamento al portale indicato nel bando di concorso, un indirizzo PEC per
le comunicazioni non nella propria titolarità (e pertanto non recante il
proprio nome e cognome).
...
7. Il ricorso è ammissibile e fondato.
8. La prescrizione del bando oggetto di impugnativa, sebbene prevista a pena
di esclusione, ha infatti spiegato la sua portata lesiva al momento
dell’esclusione, in quanto non riferita ad un requisito da possedersi a pena
di esclusione o ad una modalità onerosa di presentazione della domanda (che,
come detto, andava presentata per il tramite del portale
dell’Amministrazione), ma al contenuto della domanda di partecipazione, che
è stato vagliato al momento della disposta esclusione.
Da ciò la
tempestività dell’impugnativa, non potendo rispetto alla fattispecie de qua
trovare applicazione il principio stabilito dalle sentenze dell’Adunanza
Plenaria nn. 4/2018 e 3/2001, in ordine all’onere di immediata impugnativa
delle prescrizioni dei bandi di gara (e di concorso) a carattere escludente.
9. Il ricorso è altresì meritevole di accoglimento, stante la fondatezza del
primo motivo di ricorso, da considerarsi assorbente nella stessa prospettazione di parte ricorrente, con conseguente applicazione dei
principi stabiliti nel noto arresto di cui alla sentenza dell’Adunanza
Plenaria n. 5 del 2015, circa la rimessione al potere dispositivo della
parte della graduazione dei motivi di ricorso (ad eccezione delle ipotesi in
cui sia ravvisabile una censura di carattere assorbente ex lege come la
censura di incompetenza, nelle sue varie configurazioni, quale individuate
dalla Plenaria).
9.1. Ed invero, come già evidenziato in fase cautelare, la previsione del
bando di concorso, in forza del quale la resistente Amministrazione ha
disposto l’esclusione della ricorrente dalla procedura concorsuale de qua,
deve ritenersi illegittima, essendo la sanzione dell’esclusione prevista per
la mancata indicazione di un indirizzo PEC non nella titolarità dell’istante
illogica e sproporzionata rispetto alla finalità di comunicazione cui
l’indicazione di un indirizzo PEC risulta preordinata, dovendosi fare
applicazione, anche in relazione all’elezione di un domicilio digitale,
della previsione dell’art. 4 del DPR n. 487/1994 laddove dispone che
“L’amministrazione non assume responsabilità per la dispersione di
comunicazioni dipendente da inesatte indicazioni del recapito da parte del
concorrente oppure da mancata o tardiva comunicazione del cambiamento
dell’indirizzo indicato nella domanda…”, ricadendo pertanto, all’esito
dell’elezione di un domicilio digitale da parte del concorrente presso un
indirizzo PEC non nella sua titolarità, il rischio della mancata ricezione
della comunicazione a carico del concorrente medesimo, con conseguente
esonero di responsabilità da parte dell’Amministrazione.
9.2. Pertanto non ragionevole deve intendersi detta previsione del bando di
concorso, avuto riguardo al rilievo che per la procedura de qua la domanda
di partecipazione doveva essere inviata non via PEC, ma iscrivendosi al
portale dell’Amministrazione ed inviando la domanda debitamente sottoscritta
(da ciò la certezza della riferibilità della domanda alla parte), mentre
l’indicazione dell’indirizzo PEC era richiesta solo ai fini delle
comunicazioni da parte dell’Azienda Ospedaliera ai candidati e quindi
nell’esclusivo interesse dei candidati medesimi (essendo l’Amministrazione
esentata da ogni responsabilità una volta assolta la prova della spedizione
della comunicazione alla PEC indicata dall’interessato nella domanda di
partecipazione).
Pertanto, come correttamente ritenuto dalla difesa di parte ricorrente, non
era necessaria l’indicazione di una PEC nella titolarità dell’interessato.
9.3. Infatti secondo l’interpretazione data dalla giurisprudenza all’art. 65
del C.A.D. riferito alle istanze e dichiarazioni presentate alle pubbliche
amministrazioni per via telematica (e non dunque alle comunicazioni inviate
dall’Amministrazione), l’utilizzo di una PEC nella titolarità dell’istante,
e quindi senza dubbio a lui riconducibile, è in grado di supplire anche alla
mancata sottoscrizione delle domande di concorso, essendo l’invio della PEC
assimilabile all’apposizione della firma (TAR Sicilia Palermo Sez. I,
18.01.2018, n. 167 secondo cui “E' illegittimo il bando di selezione che
preclude l'ammissibilità delle domande di partecipazione a un concorso
pubblico prive di firma (digitale o sulla copia scansionate dei documenti
allegati), ancorché presentate da un candidato a mezzo PEC, con casella di
posta intestata allo stesso mittente. L'utilizzo di una casella di posta
elettronica certificata intestata allo stesso mittente consente di ritenere
soddisfatto il requisito della apposizione della firma”; ciò in
considerazione del rilievo che “Il D.P.C.M. 06.05.2009, art. 4, comma 4,
prevede che le pubbliche amministrazioni accettano le istanze dei cittadini
inviate tramite PEC nel rispetto dell'art. 65, comma 1, del D.Lgs. n. 82 del
2005. L'invio tramite PEC costituisce sottoscrizione elettronica ai sensi
dell'art. 21, comma 1, dello stesso decreto legislativo. Nel rispetto di
quanto previsto dall'art. 4 del D.P.R. n. 487/1994 l'inoltro tramite posta
certificata di cui all'art. 16-bis del D.L. n. 185/2008 è già sufficiente a
rendere valida l'istanza, a considerare identificato l'autore di essa, a
ritenere la stessa regolarmente sottoscritta”).
9.4. Per contro laddove, come nell’ipotesi di specie, la domanda di
partecipazione al concorso venga inviata non tramite PEC dell’interessato,
trova applicazione il disposto dell’art. art. 65, comma 1, lett. c), d.lgs.
07.03.2005, n. 82 (C.A.D.) il quale dispone che, per essere valida,
un'istanza presentata per via telematica alle PP.AA. e ai gestori dei
servizi pubblici, se non proveniente dalla pec dell'interessato, deve essere
non solo accompagnata da un documento di identità dell'interessato medesimo,
ma anche da questi sottoscritta (Cons. Stato Sez. IV Sent., 22/09/2017, n.
4413 di Cons. Stato Sez. IV Sent., 22/09/2017, n. 4413 conferma della
sentenza del Tar Emilia Romagna, Parma, sez. I, n. 204/2017).
Pertanto è detta prescrizione che andava applicata nell’ipotesi di specie,
non essendo previsto per la partecipazione al concorso de quo l’invio della
domanda tramite PEC, ma tramite il portale dell’Amministrazione.
10. Inoltre la prescrizione illegittima del bando si pone in contrasto anche
con il principio del favor partecipationis a cui devono uniformarsi tanto le
procedure concorsuali per l’assunzione a pubblici impieghi che le procedure
relative agli appalti.
10.1. Infatti nei procedimenti di evidenza e perciò anche nei concorsi e/o
procedure selettive tale principio risulta finalizzato a superare inutili
formalismi per l’attuazione dei principi di favor partecipationis e di
semplificazione, ma deve essere applicato congiuntamente ai principi
dell’imparzialità e/o della par condicio tra i candidati ed a quelli di
efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa...” (ex plurimis, TAR
Basilicata–Potenza, sentenza n. 346/2018; in senso analogo TAR Lazio–Roma, sentenza n. 3307/2019).
11. Il ricorso va dunque accolto sulla base di tali assorbenti rilievi,
essendo stata l’esclusione della ricorrente disposta sulla base della
previsione di una disposizione del bando di concorso illegittima.
11.1. Pertanto va annullata tanto la previsione del bando che, in via
consequenziale, la determina di esclusione della ricorrente
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 10.06.2020 n. 2285 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Questo
Comune ha avviato due procedure concorsuali a dicembre 2019 ma, a seguito
della sospensione per l’emergenza coronavirus, non si sono ancora concluse.
Dopo l’emanazione del Decreto Interministeriale 17.03.2020 è ora possibile
procedere alla conclusione delle suddette procedure con l’assunzione dei
vincitori sulla scorta della programmazione del fabbisogno di personale
2019-2021?
Il Decreto Interministeriale 17.03.2020, emanato in attuazione dell’art. 33
del decreto-legge 30.04.2019, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla
legge 28.06.2019, n. 58 (c.d. Decreto “Crescita”), non ha
testualmente previsto alcuna disposizione transitoria per le procedure
assunzionali già avviate prima dell’emanazione dello stesso.
Nelle scorse settimane, è divenuta pubblica una “bozza” di circolare
esplicativa del Ministero della Funzione Pubblica (che però non è stata mai
effettivamente emanata e pubblicata) che faceva salve dall’applicazione dei
nuovi calcoli assunzionali tutte le procedure assunzionali per le quali,
alla data di pubblicazione del suddetto Decreto Interministeriale in
Gazzetta Ufficiale (27.04.2020), era stata avviata la procedura di mobilità
obbligatoria ai sensi dell’ art. 34–bis del D.Lgs. 165/2001 ed era stata
prenotata in bilancio la relativa spesa.
Nei giorni scorsi, però, in attesa della quanto mai attesa circolare
esplicativa del Ministero, è intervenuta, con un proprio parere, la
magistratura contabile della Corte dei conti, sezione regionale di controllo
della Lombardia (parere 29.05.2020, n. 74) che non può che essere
attualmente l’unico riferimento da utilizzare per rispondere al quesito
proposto.
Nel suddetto parere, i giudici contabili hanno sottolineato il fatto che,
non essendo stata prevista nel decreto alcuna disciplina transitoria per le
procedure in essere, l'applicazione delle disposizioni dettate dall'articolo
33, comma 2, del decreto legge n. 34/2019 (cosiddetto decreto Crescita) come
attuato dal decreto 17.03.2020 avviene de plano su tutte le assunzioni non
ancora concluse alla data di emanazione del decreto stesso.
La conseguenza di tale parere per gli Enti, è sicuramente quella di dover
procedere alla riapprovazione dei piani triennali di fabbisogno di personale
almeno per quei comuni in cui il decreto interministeriale 17.03.2020
consente minori spazi assunzionali rispetto a quelli previsti dal precedente
sistema.
Secondo i giudici lombardi, infatti, il piano triennale del fabbisogno
“essendo preliminare e distinto dalla procedura assunzionale, non può
segnare con la sua adozione la data per l'individuazione della normativa da
applicare a detta procedura, e segnatamente ai criteri di determinazione
della relativa spesa, sottoposta, invece, sulla base del principio tempus
regit actum, alla normativa vigente al momento delle procedure di
reclutamento”.
Pertanto, sulla scorta di quanto detto, la risposta a quesito non può essere
che orientata in tal senso: al fine di procedere alla conclusione delle
procedure concorsuali in essere l’Ente dovrà innanzitutto calcolare la “propria
posizione/capacità assunzionale” sulla base dei nuovi parametri
individuati dal Decreto Interministeriale e se tale calcolo posizionasse
l’Ente al di sopra delle soglie individuate lo stesso vedrà necessariamente
una compressione della propria capacità assunzionale per dover rientrare nei
parametri prescritti (entro il 2024) con l’immediata conseguenza di poter
procedere alla conclusione delle prove concorsuali e alla conseguente
assunzione dei vincitori solamente dopo aver proceduto all’approvazione del
nuovo piano triennale del fabbisogno di personale sulla scorta dei nuovi
parametri individuati dal Decreto Interministeriale e pertanto ritenendo
ormai “superata” la programmazione 2019-2021 sulla scorta della quale
le procedure sono state avviate.
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Riferimenti normativi e contrattuali
Decreto Interministeriale 17.03.
2020 - D.L. 30.04.2019, n. 34, art. 33 - D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art.
34–bis
Documenti allegati
Corte dei Conti Lombardia Sez. contr., Delib. 28.05.2020, n. 74
(10.06.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pubblicazione
dati personali dei dipendenti (telefono privato) in emergenza da Covid-19.
Domanda
Nell’ambito del lavoro agile, è consentito al comune di pubblicare le utenze
telefoniche personali (telefono cellulare) dei dipendenti, per favorire la
prenotazione di appuntamenti da parte dei cittadini e utenti dei servizi?
Risposta
Le vigenti disposizioni normative per il contenimento e la gestione
dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 hanno chiaramente stabilito
l’obbligo di limitare, quanto più possibile, la presenza del personale
dipendente negli uffici pubblici, mediante il ricorso, in via prioritaria,
al lavoro agile, così come stabilito all’articolo 87, comma 1, lettera a)
del decreto-legge 17.03.2020, n. 18 e relativa legge di conversione
24.04.2020, n. 27.
Più di recente, l’art. 263, comma 1, del decreto-legge 19.05.2020, n. 34
(cd: decreto Rilancio), nel riconfermare le disposizioni del decreto Cura
Italia (d.l. 18/2020), ha anche previsto che le pubbliche amministrazione
devono adeguare le previgenti disposizioni alle esigenze della progressiva
riapertura di tutti gli uffici pubblici e a quelle dei cittadini e delle
imprese, connesse al graduale riavvio delle attività produttive e
commerciali.
Per tale finalità il lavoro dei dipendenti e l’erogazione dei relativi
servizi, devono essere organizzati:
• introducendo una maggiore flessibilità dell’orario di lavoro;
• rivedendo l’articolazione giornaliera e settimanale;
• introducendo modalità di interlocuzione programmata, anche
attraverso soluzioni digitali e non in presenza con l’utenza.
La norma si conclude, illustrando che ulteriori modalità organizzative
potranno essere individuate tramite appositi decreti del Ministro della
pubblica amministrazione.
Alla luce delle disposizioni sopra citate, dunque, è possibile prevedere che
le attività di ricevimento o di erogazione diretta dei servizi al pubblico
–in questo periodo emergenziale– siano garantite con modalità telematica o
comunque con modalità tali da limitare la presenza fisica negli uffici (ad
es. appuntamento telefonico o assistenza virtuale), ovvero, predisponendo
accessi scaglionati, anche mediante prenotazioni di appuntamenti.
Nel rispetto dei principi di protezione dei dati [articolo 5, Regolamento
(UE) 2016/679], la finalità di fornire agli utenti recapiti utili a cui
rivolgersi per assistenza o per essere ricevuti presso gli uffici, può
essere utilmente perseguita pubblicando i soli recapiti dell’ufficio di
riferimento (numero di telefono, e-mail e indirizzo PEC) e non quelli dei
singoli funzionari preposti agli uffici. Ciò, anche, in conformità agli
obblighi di pubblicazione concernenti l’organizzazione delle pubbliche
amministrazioni, previste nell’articolo 13, comma 1, lettera d), del decreto
legislativo 14.03.2013, n. 33, il quale stabilisce l’obbligo di pubblicate
l’elenco dei numeri di telefono nonché delle caselle di posta elettronica
istituzionali e delle caselle PEC dedicate, cui il cittadino possa
rivolgersi per qualsiasi richiesta inerente i compiti istituzionali.
In periodo di smart working e di presenza non continuativa in ufficio
dei dipendenti, una soluzione molto utile –largamente praticata e rispettosa
delle normative in materia di tutela dei dati personali– risulta essere
quella di attivare il servizio di trasferimento di chiamata dal numero fisso
dell’ufficio al numero di utenza telefonica mobile (privato) del dipendente.
L’operazione richiede il preventivo assenso dell’interessato e la garanzia
che l’utente che chiama il numero dell’ufficio non sia in condizione di
vedere, né memorizzare il numero dell’utenza mobile che risponde alla
chiamata (09.06.2020
- link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Rettifica
della graduatoria di un concorso pubblico.
---------------
●
Concorso – Graduatoria – Rettifica – Natura – Individuazione.
●
Procedimento amministrativo - Comunicazione di avvio – Omissione –
Annullamento giurisdizionale – Limite.
●
Il provvedimento di rettifica della graduatoria di un concorso pubblico ha
natura di atto di autotutela, qualificabile pertanto come “di secondo grado”
in quanto va ad incidere su un sottostante provvedimento; esso si fonda su
un errore che non attiene all’accertamento dei presupposti dell’agire
dell’amministrazione, all’interpretazione della disciplina applicabile alla
fattispecie, ovvero all’esercizio dell’eventuale discrezionalità; consiste
invece nella mera errata trasposizione nel provvedimento della volontà
dell’amministrazione, per come risultante dallo stesso atto; la sua natura
doverosa rende eventuali vizi formali o procedimentali, ivi compreso
l’omesso inoltro della comunicazione di avvio del procedimento, irrilevanti
ai sensi dell’art. 21-octies, primo alinea, l. n. 241 del 1990 (1).
●
L’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241 del 1990 contempla due
distinte ipotesi di salvaguardia del provvedimento affetto da vizi formali;
in caso di omessa comunicazione di avvio del procedimento, in particolare,
ove l’atto non abbia contenuto necessitato l’Amministrazione è chiamata a
dimostrare in giudizio che lo stesso non avrebbe potuto essere diverso da
quello adottato in concreto; tale prova, tuttavia, non ha carattere
illimitato, estendendosi a qualsivoglia allegazione e argomentazione che
sarebbe potuta provenire dal ricorrente; è infatti il privato che deve
portare in giudizio le argomentazioni che avrebbe veicolato nel
procedimento, onde consentire all’Amministrazione di dimostrarne
l’irrilevanza ai fini degli esiti dello stesso (2).
---------------
(1) La Sezione ha
affrontato il problema della natura delle rettifica di una graduatoria
concorsuale, ove effettivamente dipendente dalla necessità di eliminare un
errore materiale nell’attribuzione del punteggio dei titoli. La qualifica di
atto “di secondo grado”, espressione di autotutela, ne rende doverosa
l’adozione, discendendo la stessa dal fondamentale canone di buona fede, cui
è informato l’ordinamento giuridico e al quale devono essere improntati i
rapporti tra i consociati e la stessa pubblica amministrazione, cui l’art.
97 Cost. impone di agire con imparzialità e in ossequio al principio del
buon andamento.
Ciò implica che eventuali violazioni di norme sul procedimento o sulla forma
rientrino nella disciplina di cui al primo alinea del comma 2 dell’art. 21,
l. n. 241 del 1990, e non di cui al secondo alinea, senza cioè che si renda
necessaria una qualche allegazione probatoria aggiuntiva da parte della
amministrazione procedente.
Tale affermazione si apprezza ancor più quando l’arco temporale intercorso
tra l'approvazione della prima graduatoria e la sua successiva rettifica è
ristretto, evidenziandosi l’unicità della procedura, sviluppatasi senza
soluzione di continuità. In tali ipotesi, una volta esplicitata l’esistenza
dell’errore materiale, non si rende necessaria una motivazione aggiuntiva in
ordine alla sussistenza di esigenze di interesse pubblico diverse ed
ulteriori rispetto a quella del ripristino della legalità (Cons.
St., sez. VI, 27.10.2011, n. 5780; id., sez. IV, 15.05.2000, n.
2733).
(2) Quando trova applicazione la disciplina di cui al secondo
alinea del comma 2 dell’art. 21-octies, l. n. 241 del 1990,
l’Amministrazione deve dimostrare che anche se il privato pretermesso avesse
partecipato al procedimento allegando fatti e argomenti, tale partecipazione
non sarebbe stata significativa in quanto non avrebbe ragionevolmente
condotto ad una decisione diversa.
Non potendosi tuttavia pretendere che essa prevenga qualsivoglia allegazione
e argomentazione che sarebbe potuta provenire dal ricorrente per dimostrarne
l’irrilevanza, la prova che il provvedimento sarebbe stato diverso non può
che essere fornita in relazione ai fatti e agli argomenti che il privato
lamenta non essere stati presi in considerazione a causa della sua mancata
partecipazione.
In concreto, quindi, è quest’ultimo che deve circoscrivere in qualche modo
la valutazione dell’amministrazione, portando in giudizio le argomentazioni
che avrebbe veicolato nel procedimento ove gliene fosse stata data
l’opportunità, così da consentire alla controparte di dimostrare, ove
possibile, la legittimità sostanziale del provvedimento, ragionevole e
accettabile nonostante le prospettazioni di parte avversa al punto da
comportare da parte del giudice la valutazione in concreto che la riedizione
del potere che conseguirebbe all’annullamento dell’atto, pur rispettosa
delle omesse garanzie procedurali, si rivelerebbe comunque inutile in quanto
porterebbe allo stesso identico risultato
(Consiglio
di Stato, Sez. II,
sentenza 04.06.2020 n. 3537 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
6. Il Collegio ritiene l’appello fondato e come tale da accogliere, con
conseguente riforma della sentenza impugnata.
Risulta decisiva, al riguardo, la considerazione della natura del
provvedimento di rettifica della graduatoria. Il giudice di prime cure, dopo
averlo ricondotto alla categoria degli “atti di secondo grado”, ha ritenuto
per ciò solo applicabile la disciplina di cui al secondo alinea del comma 2
dell’art. 21-octies della l. 07.08.1990, n. 241, in forza del quale il
provvedimento amministrativo non è annullabile per mancata comunicazione
dell’avvio del procedimento solo qualora l’amministrazione dimostri in
giudizio che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato. Il che ad avviso del TAR per la Campania non sarebbe
avvenuto nel caso di specie.
7. L’art. 21-octies, introdotto nella l. n. 241/1990 dalla novella attuata
con l. 11.02.2005, n. 15, prevede due distinte ipotesi di vizi formali
o procedimentali inidonei a determinare l’annullabilità del provvedimento
che ne è affetto: quella contemplata nel primo alinea del comma 2, riguarda
gli atti a carattere vincolato, per i quali la mancata rispondenza al
paradigma legislativo, non avendo alcuna incidenza sul contenuto
dispositivo, che non avrebbe potuto comunque essere diverso, non comporta
mai l’annullamento; quella dettata invece per lo specifico vizio procedurale
rappresentato dalla mancata comunicazione di avvio del procedimento,
richiede per la conservazione dell’atto, pure se discrezionale, un onere
probatorio aggiuntivo a carico dell’amministrazione procedente circa
l’inutilità del potenziale apporto collaborativo dell’interessato.
Non si
tratta, evidentemente, di modalità contrapposte di conformazione dell’atto
del quale si è chiesta la caducazione, in ossequio a condivisibili esigenze
di efficacia ed economia procedimentale.
Il richiamo, cioè, all’omessa
comunicazione di avvio del procedimento non costituisce una
“specializzazione” alternativa, anche di disciplina, della più generica e
generale “violazione di norme sul procedimento”, di cui al periodo
precedente del comma in esame: esso ha inteso casomai estendere il principio
di conservazione degli atti, pur se discrezionali, per economia generale,
laddove in sede processuale si sia sostanzialmente rimediato a quello
strappo alle regole partecipative che pure costituiscono un caposaldo della
disciplina del procedimento amministrativo.
Una volta, cioè, che
l’Amministrazione sia stata costretta a confutare addirittura in giudizio la
potenziale incidenza delle ragioni dell’interessato, non può non trovare
comunque applicazione il principio riassunto nel noto brocardo utile per
inutile non vitiatur.
8. Nel caso di specie, dunque, il giudice di prime cure ha ritenuto l’atto
potenzialmente suscettibile di essere modificato sotto il profilo
contenutistico dall’apporto collaborativo/informativo del diretto
interessato, sostanzialmente collegando al suo innegabile effetto negativo
nella sfera giuridica del privato la necessaria applicazione delle previste
garanzie partecipative.
Essendo, cioè, la rettifica un atto “di secondo
grado” idoneo a incidere «in senso eliminativo, sul vantaggio conseguito dal
ricorrente per effetto del provvedimento rettificato», se ne rendeva
doverosa la previa comunicazione di adozione al destinatario, salvo
dimostrarne in concreto l’inutilità. Il che, rileva la Sezione, implica
un’indebita commistione fra effetti e contenuto del provvedimento, laddove
al contrario un atto vincolato, sebbene lesivo, non è mai annullabile se il
suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso.
9. Il provvedimento di rettifica della graduatoria di un concorso pubblico
ha natura di atto di autotutela (cfr. TAR Lazio–Roma, 13.12.2010,
n. 36323) e dunque ne è corretta la qualificazione come “di secondo grado”
in quanto va ad incidere su un sottostante provvedimento.
Esso, tuttavia, si caratterizza per il suo fondarsi su un errore che non
attiene all’accertamento dei presupposti dell’agire dell’amministrazione,
all’interpretazione della disciplina applicabile alla fattispecie, ovvero
all’esercizio dell’eventuale discrezionalità; bensì consiste nella mera
errata trasposizione nel provvedimento della volontà dell’amministrazione,
per come risultante dallo stesso atto.
Dati per presupposti, infatti, in
quanto predeterminati dal bando, i criteri di valutazione dei titoli,
l’Agenzia ne ha sbagliato la traduzione in punti, con ciò alterando l’ordine
della graduatoria basata esclusivamente su tali conteggi. In presenza
dell’allegazione di un errore materiale, nel senso ora indicato, ovvero in
caso di sua autonoma individuazione, non poteva dunque esimersi dall’obbligo
di accertare nel merito se effettivamente l’errore dedotto fosse
riscontrabile ovvero comunque dal correggerlo, una volta rilevato.
Tale obbligo discende, in particolare, dal fondamentale canone di buona
fede, cui è informato l’ordinamento giuridico e al quale devono essere
improntati non solo i rapporti tra i consociati –tenuti, ai sensi dell’art.
2 della Costituzione, al rispetto dei doveri inderogabili di solidarietà–
ma anche e soprattutto la pubblica amministrazione, cui l’art. 97 della
Costituzione impone di agire con imparzialità e in ossequio al principio del
buon andamento.
D’altro canto, la mera correzione di errori materiali non implica, per sua
natura, alcuna ponderazione di interessi, non essendo astrattamente
configurabile un’esigenza pubblica alla conservazione di un atto a contenuto
errato (sul punto cfr. TAR Lazio, sez. II, 05.03.2020, n. 2990).
I principi in questione sono a tal punto immanenti all’ordinamento giuridico
che il legislatore impone persino al giudice di intervenire sui propri
provvedimenti in presenza di un’istanza di correzione di errore materiale,
senza che ciò determini alcuna violazione del divieto del ne bis in idem (cfr.,
per il processo amministrativo, l’art. 86 c.p.a.).
Mutuando peraltro le
risultanze giurisprudenziali cristallizzatesi proprio in ambito giudiziario,
può affermarsi che sussistono gli estremi di un errore materiale quando ci
si trovi di fronte ad «una inesattezza o svista accidentale rilevando una
discrepanza tra la volontà del giudicante e la sua rappresentazione,
chiaramente riconoscibile da chiunque e che è rilevabile dal contesto stesso
dell’atto» (Cons. Stato, sez. III, 05.08.2011, n. 4695).
10. Nel caso di specie non è in contestazione tra le parti che l’intervento
apportato sulla graduatoria del concorso, limitata in tale fase alla sola
valutazione dei titoli, abbia concretizzato un atto di rettifica: non si
comprende pertanto quale avrebbe potuto essere il contributo impeditivo o
modificativo del ricorrente in primo grado, stante che nel merito egli nulla
dice al riguardo, non potendosi neppure dolere del proprio punteggio,
rimasto invariato anche dopo la correzione di quelli altrui.
La natura doverosa della rettifica, secondo quanto sopra chiarito, impone
peraltro solo che la motivazione dia conto dell'errore di fatto commesso
(TAR Calabria, sez. II, 09.05.2014, n. 699): il che è avvenuto con il
provvedimento impugnato, laddove, diversamente da quanto argomentato
dall’appellato, si dà palesemente atto di aver agito in via necessitata per
la sopravvenuta esigenza di «modificare le posizioni di alcuni candidati ai
quali era stato attribuito, per mero errore materiale, un punteggio
inferiore».
D’altro canto, il ristretto arco temporale intercorso tra
l'approvazione della prima graduatoria (21.12.2005) e la sua
successiva rettifica consente di apprezzare l’unicità della procedura,
sviluppatasi senza soluzione di continuità, rendendo superflua, oltre che ultronea, una motivazione aggiuntiva in ordine alla sussistenza di esigenze
di interesse pubblico diverse ed ulteriori rispetto a quella del ripristino
della legalità (Cons. Stato, sez. VI, 27.10.2011, n. 5780; sez. IV, 15.05.2000, n. 2733; TAR Campania, 23.07.2003, n. 9659).
11. Inquadrata dunque la rettifica che sia effettivamente tale nell’ambito
di quei particolari provvedimenti di secondo grado connotati dall’avere
tipicamente ad oggetto l’eliminazione di un errore materiale, gli eventuali
vizi formali e/o procedurali dai quali essa risulti affetta non possono che
ricadere nel paradigma automaticamente conformativo, anziché caducatorio,
declinato nel primo alinea del comma 2 dell’art. 21-octies della l. n.
241/1990, senza che sia richiesta alcuna allegazione aggiuntiva da parte
dell’Amministrazione procedente.
La giurisprudenza di questo Consiglio di
Stato ha al riguardo più volte evidenziato come l’inosservanza dell’obbligo
di procedere all’avviso di avvio del procedimento amministrativo non
determina l’annullamento dell’atto adottato laddove, secondo quanto previsto
dal predetto art. 21-octies, il suo contenuto non avrebbe potuto essere
diverso da quello adottato in concreto (ex plurimis, Cons. Stato, VI, 28.03.2019, n. 2064, nonché, con specifico riferimento ad un caso
paradigmatico di atto destinato ad incidere negativamente nella sfera
giuridica del destinatario, quale l’ordine di demolizione di un abuso
edilizio, e tuttavia a contenuto necessitato, sez. IV, 26.05.2020, n.
3330).
12. Ma anche a voler seguire la diversa opzione ermeneutica propugnata dal
giudice di prime cure, senza peraltro chiarire come l’Agenzia avrebbe dovuto
-rectius, potuto- provare l’inutilità del contributo partecipativo del
ricorrente, salvo ribadire tautologicamente la necessità di correggere gli
errori materiali riscontrati, non si addiviene comunque ad un diverso
risultato di giudizio.
Il compito imposto ad un’amministrazione dall’art. 21-bis, comma 2, della l.
n. 241/1990, per salvare dall’annullamento il provvedimento, è dunque quello
di dimostrare che anche se il privato pretermesso avesse partecipato al
procedimento allegando fatti e argomenti, tale partecipazione non sarebbe
stata significativa in quanto non avrebbe ragionevolmente condotto ad una
decisione diversa. Non potendosi tuttavia certo pretendere che essa prevenga
qualsivoglia allegazione e argomentazione che sarebbe potuta provenire dal
ricorrente per dimostrarne l’irrilevanza, la prova che il provvedimento
sarebbe stato diverso non può che essere fornita in relazione ai fatti e
agli argomenti che il privato lamenta non essere stati presi in
considerazione a causa della sua mancata partecipazione.
In concreto,
quindi, è quest’ultimo che deve circoscrivere in qualche modo la valutazione
dell’amministrazione, portando in giudizio le argomentazioni che avrebbe
veicolato nel procedimento ove gliene fosse stata data l’opportunità, così
da consentire alla controparte di dimostrare, ove possibile, la legittimità
sostanziale del provvedimento, ragionevole e accettabile nonostante le
prospettazioni di parte avversa al punto da comportare da parte del giudice
la valutazione in concreto che la riedizione del potere che conseguirebbe
all’annullamento dell’atto, pur rispettosa delle omesse garanzie
procedurali, si rivelerebbe comunque inutile in quanto porterebbe allo
stesso identico risultato. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Diritto
precedenza disabili.
Domanda
Come si applica nel caso il diritto di precedenza per le assunzioni dei
lavoratori disabili?
Si chiede di chiarire quali siano le modalità operative in cui si concreta
il diritto di precedenza, ovvero se sia necessario effettuare un concorso
per assunzione personale categorie protette all’esito del quale, qualora
risultato idoneo, il soggetto avrebbe la precedenza sugli altri in
graduatoria, oppure se la precedenza operi nell’ambito dell’assunzione
tramite Centro per l’Impiego.
Risposta
Posto che per assunzioni di qualifiche e profili per i quali è richiesto il
solo requisito della scuola dell’obbligo, l’Ente procede alle assunzioni
mediante avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento, si precisa
che, relativamente all’assunzione di personale disabile, la Pubblica
Amministrazione, benché non sia prevista la chiamata nominativa, potrebbe
procedere attraverso le seguenti modalità:
1. convenzione di cui all’art. 11 L. 68/1999;
2. richiesta di avviamento, con precisazione del diritto di
precedenza a favore del dipendente.
Sul punto, si precisa infatti che con nota congiunta tra Ministero del
Lavoro, Anpal e Dipartimento della funzione pubblica 10.07.2018, n. 7571, in
merito a “Comunicazione ex articolo 39-quater d.lgs. 165/2001 –
Monitoraggio sull’applicazione della legge 12.03.1999, n. 68”, è stata
evidenziata infatti l’utilizzabilità delle convenzioni di cui al citato art.
11, ove consente che siano stabiliti i tempi e le modalità delle assunzioni
che il datore di lavoro si impegna ad effettuare.
Tra le modalità che possono essere convenute vi sono anche la facoltà della
scelta nominativa, lo svolgimento di tirocini con finalità formative o di
orientamento, l’assunzione con contratto di lavoro a termine, lo svolgimento
di periodi di prova più ampi di quelli previsti dal contratto collettivo,
purché l’esito negativo della prova, qualora sia riferibile alla menomazione
da cui è affetto il soggetto, non costituisca motivo di risoluzione del
rapporto di lavoro.
Detto strumento permetterebbe pertanto all’Ente di inserire il diritto di
precedenza nell’atto convenzionale, specificando altresì il percorso fino ad
oggi svolto e prevedendo così la stipula di un contratto a tempo
indeterminato fatto salvo l’esito positivo di un breve periodo formativo.
Resta inteso, tuttavia, che anche attraverso la richiesta di avviamento sarà
possibile far valere il diritto di precedenza.
Questo poiché il diritto in esame è fattispecie derogatoria rispetto alle
disposizioni generale di cui all’art. 8 della L. n. 68/1999 ove prevede che,
presso gli uffici competenti sia istituito un elenco, con unica graduatoria,
dei disabili che risultino disoccupati e che l’elenco e la graduatoria siano
pubblicati e formati sulla base dei criteri indicati nell’atto di indirizzo
e coordinamento di cui all’art. 1 comma 4 della su indicata legge (04.06.2020
- link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale
ed Organizzazione.
L'ufficio personale di questo Ente (ente pubblico
regionale) deve riprendere le prove concorsuali sospese nel periodo
emergenziale.
E' possibile svolgere le prove con la presenza di candidati in sede con il
segretario verbalizzante ed i membri della Commissione in collegamento da
remoto?
Per rispondere al quesito posto all'attenzione, occorre in prima battuta
rimarcare come il termine del 16 maggio riguardante la conclusione della
sospensione dello svolgimento delle procedure concorsuali "in sede"
(definito dal D.L. 17.03.2020 n. 18 "Cura Italia" e dalla seguente
legge di conversione L. 24.04.2020 n. 27) non è stato ulteriormente
reiterato e pertanto è possibile per le Pubbliche Amministrazioni, procedere
alla programmazione delle prove concorsuali sospese nel rispetto,
evidentemente, delle norme sanitarie di contenimento della diffusione del
Coronavirus quali il distanziamento sociale, il divieto di assembramento e
la sanificazione dei locali.
Il Decreto Legge c.d. "Rilancio" D.L. 19.05.2020 n. 34, ha poi
previsto alcune possibili novità in merito alle modalità di svolgimento
delle prove concorsuali, valide de plano per i concorsi unici gestiti dal
Ripam (art. 247) ma i cui principi e criteri generali, riguardanti lo
svolgimento delle prove in modalità decentrata ed attraverso l'uso della
tecnologia digitale, nonché di svolgimento dell'attività delle commissioni
esaminatrici e di presentazione della domanda di concorso possono essere
adottati da tutte le singole pubbliche amministrazioni (art. 249).
Venendo alla questione posta all'attenzione, in merito alla possibilità di
svolgimento dei lavori della commissione esaminatrice (in particolare la
presenza alla prova) in videoconferenza (o comunque in collegamento da
remoto), il comma 7 del già richiamato art. 247 prevede espressamente che "la
commissione esaminatrice e le sottocommissioni possono svolgere i propri
lavori in modalità telematica garantendo comunque la sicurezza e la
tracciabilità delle comunicazioni".
Tale principio, pertanto, secondo il successivo art. 249 può essere mutuato
dalle pubbliche amministrazioni per lo svolgimento delle proprie prove
concorsuali (tanto per i concorsi già in essere di cui sia stata svolta "anche
una sola delle prove previste", ai sensi della previsione di cui
all'art. 248, che dei concorsi futuri nel rispetto comunque del termine
ultimo del 31.12.2020).
A ben vedere, la genericità dell'espressione utilizzata dal legislatore nel
predetto articolo, conferisce, alle Amministrazioni procedenti, un ampio
ventaglio di possibilità in merito all'organizzazione dei lavori delle
commissioni esaminatrici fermo restando i principi di sicurezza e
tracciabilità delle comunicazioni. Infatti, l'aver usato la locuzione "svolgere
i propri lavori in modalità telematica" contiene in sé, tutte le
attività di competenza della commissione dal suo insediamento sino alla
valutazione conclusiva da rimettere al Responsabile del procedimento (fermo
restando eventuali circolari esplicative da parte del Ministero della
Funzione Pubblica che al momento non sono state emanate).
Nel caso proposto, si potrebbe tranquillamente dare atto che la sicurezza e
la tracciabilità dei lavori della commissione viene garantita tramite
collegamento audio/video con l'aula di svolgimento della prova concorsuale.
Consigliamo, però, all'Amministrazione di informare preventivamente i
candidati di tale eventuale decisione (che spetta al responsabile del
procedimento) con apposito avviso da pubblicarsi nelle modalità di legge
(sito istituzionale, albo pretorio ed Amministrazione trasparente - sezione
concorsi) unitamente all'avviso che, la sorveglianza sul corretto
svolgimento della prova, sarà garantito da apposito personale munito di
tesserino identificativo.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.L. 17.03.2020, n. 18, art. 103 - D.L. 19.05.2020 n. 34, art. 247 (03.06.2020
- tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
maggio 2020 |
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incremento
indennità PO.
Domanda
A seguito dell’entrata in vigore
del CCNL del 21/05/2018, abbiamo operato una rivalutazione delle indennità
di posizione, avvalendoci dell’art. 11-bis del d.l. 135/2018, convertito
nella l. 12/2019, senza tuttavia graduarle al livello massimo consentito (di
16.000,00 euro).
Ciò premesso, si chiede se sia possibile effettuare una nuova rivalutazione,
nei limiti del comma 557 della l. 296/2006, fino al massimo di 16.000,00
euro, senza computare la spesa nel conteggio del salario accessorio.
Risposta
L’art. 11-bis, comma 2, del d.l. 135/2018, convertito in l. 12/2019, afferma
quanto segue: “Fermo restando quanto previsto dai commi 557-quater e 562
dell’articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296, per i comuni privi di
posizioni dirigenziali, il limite previsto dall’articolo 23, comma 2, del
decreto legislativo 25.05.2017, n. 75, non si applica al trattamento
accessorio dei titolari di posizione organizzativa di cui agli articoli 13 e
seguenti del contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) relativo al
personale del comparto funzioni locali – Triennio 2016-2018, limitatamente
al differenziale tra gli importi delle retribuzioni di posizione e di
risultato già attribuiti alla data di entrata in vigore del predetto CCNL e
l’eventuale maggiore valore delle medesime retribuzioni successivamente
stabilito dagli enti ai sensi dell’articolo 15, commi 2 e 3, del medesimo
CCNL, attribuito a valere sui risparmi conseguenti all’utilizzo parziale
delle risorse che possono essere destinate alle assunzioni di personale a
tempo indeterminato che sono contestualmente ridotte del corrispondente
valore finanziario.“.
Dal tenore letterale della norma sopra riportata si individua, nel rispetto
dei presupposti per l’applicazione (il contenimento delle spese di personale
con riferimento al valore medio del triennio 2011-2013 e con riferimento
all’anno 2008), per gli enti di piccole dimensioni (privi di personale
dirigenziale), la possibilità di aumentare il salario accessorio delle
medesime posizioni organizzative, stabilito prima dell’entrata in vigore del
CCNL 21/05/2018 (anno riferimento 2017), in deroga al limite di cui all’art.
23, comma 2, del d.lgs. 75/2017, rinunciando, per il differenziale relativo,
a quote di facoltà assunzionali.
Tale possibilità è concessa agli enti solo in sede di prima applicazione del
nuovo sistema di pesatura delle posizioni organizzative, previsto dal CCNL
21/05/2018, e non, invece, per ogni incremento deciso dall’amministrazione
sullo stanziamento a bilancio, riferito alla retribuzione di posizione e
risultato delle posizioni organizzative.
Se, quindi, l’amministrazione intende aumentare lo stanziamento a bilancio
per la voce de quo dovrà procedere alla riduzione di altre voci del salario
accessorio.
In particolare, l’art. 7, comma 4, lett. u), del CCNL 21/05/2018, prevede
l’attivazione della contrattazione con le parti sindacali per l’incremento
delle risorse di cui all’art. 15, comma 5, destinate alla corresponsione
della retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni
organizzative, ove implicante, ai fini dell’osservanza dei limiti previsti
dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. 75/2017, una riduzione delle risorse del
fondo di cui all’art. 67 (28.05.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Emergenza
epidemiologica Covid-19: test sierologici sui dipendenti e tutela dei dati
personali.
Domanda
In vista della ripresa dell’attività in sede, alcuni dipendenti chiedono che
l’Amministrazione effettui test sierologici per il COVID-19.
L’amministrazione condivide le preoccupazioni dei dipendenti e vorrebbe
rendere obbligatori tali test per tutti i dipendenti, al fine di individuare
eventuali casi di contagio e limitarne la diffusione, ritenendo che la
tutela della salute sia una priorità.
Si può adottare questa misura o è necessario sempre il consenso degli
interessati? La misura va concordata con il medico del lavoro?
Risposta
La posizione che ha assunto il Garante per la protezione dei dati personali,
sin dall’inizio dell’emergenza Coronavirus, è stata quella di contemperare
il diritto alla privacy con l’esigenza di contenere il contagio. Il diritto
alla privacy è un diritto di libertà e, in quanto tale, può essere compresso
solo nella misura strettamente necessaria alla tutela del diritto alla
salute della collettività.
Altro punto che troviamo nelle indicazioni del Garante è che i dati sanitari
devono essere trattati soltanto dai soggetti a ciò istituzionalmente
preposti, le istituzioni sanitarie e la protezione civile.
In particolare, con riferimento all’ambito lavorativo, occorre bilanciare
l’interesse alla riservatezza dei dati personali dei lavoratori, con
l’interesse alla salute e sicurezza sul lavoro. È, dunque, comprensibile che
il datore di lavoro (sia esso pubblico o privato) si preoccupi di assicurare
che nei propri uffici non si verifichino situazioni di contagio.
Occorre però mettere qualche paletto.
Così il Garante ha chiarito che, anche nell’attuale emergenza sanitaria,
resta fermo il ruolo svolto dal medico competente (in coerenza con la
disposizione dell’art. 41, del decreto legislativo 09.04.2008, n. 81 in
tema di sorveglianza sanitaria) e il datore di lavoro non deve comunicare i
nominativi dei contagiati al rappresentate dei lavoratori per la sicurezza.
Restano fermi, infatti, i princìpi di proporzionalità e di minimizzazione
dei dati, sanciti nell’articolo 5 del Regolamento (UE) 2016/679, in materia
di tutela dei dati personali.
Con un
comunicato del 02.03.2020 l’Autorità si era pronunciata
relativamente alla possibilità o meno, per datori di lavoro pubblici e
privati, di acquisire una “autodichiarazione” da parte dei dipendenti
in ordine all’assenza di sintomi influenzali, e vicende relative alla sfera
privata.
A tal proposito il Garante aveva precisato che i datori di lavoro devono
astenersi dal raccogliere, a priori e in modo sistematico e generalizzato,
anche attraverso specifiche richieste al singolo lavoratore o indagini non
consentite, informazioni sulla presenza di eventuali sintomi influenzali del
lavoratore e dei suoi contatti più stretti o comunque rientranti nella sfera
extra lavorativa e che la finalità di prevenzione dalla diffusione del
Coronavirus deve essere svolta da soggetti che istituzionalmente esercitano
queste funzioni in modo qualificato.
Pertanto invitava ad attenersi scrupolosamente alle indicazioni fornite dal
Ministero della salute e dalle istituzioni competenti per la prevenzione
della diffusione del Coronavirus, senza effettuare iniziative autonome che
prevedano la raccolta di dati anche sulla salute di utenti e lavoratori che
non siano normativamente previste o disposte dagli organi competenti
A fronte del mutare degli strumenti a disposizione per limitare il contagio,
il Garante fornisce ulteriori indicazioni con riferimento proprio alla
questione dei test sierologici.
Con il
Comunicato del 14 maggio si precisa che:
• nell’ambito del sistema di prevenzione e sicurezza sui luoghi di
lavoro o di protocolli di sicurezza anti-contagio, il datore di lavoro può
richiedere ai propri dipendenti di effettuare test sierologici solo se
disposto dal medico competente o da altro professionista sanitario in base
alle norme relative all’emergenza epidemiologica;
• le visite e gli accertamenti, anche ai fini della valutazione
della riammissione al lavoro del dipendente, devono essere posti in essere
dal medico competente o da altro personale sanitario, e, comunque, nel
rispetto delle disposizioni generali che vietano al datore di lavoro di
effettuare direttamente esami diagnostici sui dipendenti;
• la partecipazione agli screening sierologici promossi dai
Dipartimenti di prevenzione regionali nei confronti di particolari categorie
di lavoratori a rischio di contagio, come operatori sanitari e forze
dell’ordine, può avvenire solo su base volontaria.
Tale impostazione assicura il rispetto del l’art. 5 dello Statuto dei
lavoratori che vieta accertamenti sanitari da parte del datore di lavoro.
Pertanto, con riferimento al quesito proposto, si ritiene che
l’Amministrazione non possa procedere autonomamente all’effettuazione di
test sierologici a tappeto sui propri dipendenti, tanto meno senza il
consenso degli interessati. La misura deve essere disposta dalle autorità
competenti e i dati personali possono essere trattati soltanto dalle
medesime autorità, per disporre le misure di contenimento epidemiologico
previste dalla normativa d’urgenza in vigore (es. isolamento domiciliare).
Si raccomanda invece di attenersi alle disposizioni contenute nel
Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il
contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro
tra Governo e parti sociali del 24.04.2020, recepito
nell’Allegato 6, del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del
26.04.2020 (26.05.2020 - link a www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Sul
reato penale di falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti
pubblici.
Si è ricordato, con riferimento al più grave reato di
cui all'art.
479 cod. pen., come lo stesso si configuri con il rilascio di
autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio tecnico
competente, nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal
richiedente circa la sussistenza dei presupposti giuridico-fattuali per
l'accoglimento della relativa domanda.
Ancora, va ricordato il principio secondo il quale è configurabile il
delitto di falso ideologico nella valutazione tecnica formulata in un
contesto implicante l'accettazione di parametri normativamente
predeterminati o tecnicamente indiscussi.
Anche altre decisioni hanno specificato che, se pure è vero che nel caso in
cui il pubblico ufficiale sia libero nella scelta dei criteri di
valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il
documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di
alcun fatto, tuttavia, se l'atto da compiere fa riferimento, anche
implicito, a previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si è
in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la
valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a
parametri predeterminati, con conseguente integrazione della falsità se
detto giudizio di conformità non sia rispondente ai parametri cui esso è
implicitamente vincolato.
Tali principi sono stati anche recentemente ribaditi. In questi casi, si è
conseguentemente ritenuto che i provvedimenti autorizzativi rilasciati
fossero fondati su presupposti urbanistici e paesaggistici falsi contenuti
anche nella relazione tecnica e, come tale, anch'essa falsa.
---------------
2.5. Sotto altro profilo, debbono disattendersi le doglianze mosse da tutti
i
ricorrenti circa l'impossibilità di configurare comunque, nel caso di
specie, il reato
di falso ideologico.
Vanno, di fatti, senz'altro condivisi e richiamati i precedenti di questa
Corte
ed in particolare la sent. Sez. 3, n. 28713 del 19/04/2017, Colella e aa.,
non
massimata -riguardante una vicenda analoga a quella di specie relativa al
comune di Morciano di Leuca- nella quale, richiamate altre decisioni
attinenti a
procedimenti aventi ad oggetto fatti analoghi (Sez. 3, n. 42064 del
30/06/2016,
Quaranta e aa., Rv. 268083; Sez. 5, n. 35556 del 26/04/2016, Renna, Rv.
267953), si è ricordato, con riferimento al più grave reato di cui all'art.
479 cod.
pen., in quell'occasione contestato, come lo stesso si configuri con il
rilascio di
autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio tecnico
competente, nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal
richiedente
circa la sussistenza dei presupposti giuridico-fattuali per l'accoglimento
della
relativa domanda.
Ancora, va ricordato il principio secondo il quale è
configurabile il delitto di falso ideologico nella valutazione tecnica
formulata in un
contesto implicante l'accettazione di parametri normativamente
predeterminati o
tecnicamente indiscussi (ribadito in Sez. 3, n. 41373 del 17/07/2014, Pasteris e
aa., Rv. 260968, non massimata sul punto, che a sua volta richiama Sez. 1,
n.
45373 del 10/06/2013, Capogrosso e a., Rv. 257895).
Anche altre decisioni hanno specificato che, se pure è vero che nel caso in
cui il pubblico ufficiale sia libero nella scelta dei criteri di
valutazione, la sua
attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che
contiene il
giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto, tuttavia, se
l'atto da
compiere fa riferimento, anche implicito, a previsioni normative che dettano
criteri di valutazione, si è in presenza di un esercizio di discrezionalità
tecnica,
che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a
parametri predeterminati, con conseguente integrazione della falsità se
detto
giudizio di conformità non sia rispondente ai parametri cui esso è
implicitamente
vincolato (Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, Platamone e a., Rv. 254305; si
vedano anche Sez. 5, n. 39360 del 15/07/2011, Gulino, Rv. 251533; Sez. 5, n.
14486 del 21/02/2011, Marini e a., Rv. 249858).
Tali principi sono stati
anche
recentemente ribaditi (Sez. 3, n. 9881 del 08/02/2018, Costantini e aa., non
massimata; Sez.3, n. 2281 del 24/11/2017, dep. 2018, Siciliano e aa. V.
anche
Sez. 3, n. 30040 del 30/01/2018, Strambone, non massimata; Sez. 3, n. 30025
del 04/12/2017, dep. 2018, Scrudato, non massinnata; Sez. 3, n. 57120 del
29/09/2017, Borrello e a., non massimata; Sez. 3, n. 57108 del 17/05/2017,
Renna, non massimata. V. anche Sez. 3 n. 18890 del 08/11/2017, dep. 2018,
Renna non massimata). In questi casi, si è conseguentemente ritenuto che i
provvedimenti autorizzativi rilasciati fossero fondati su presupposti
urbanistici e
paesaggistici falsi contenuti anche nella relazione tecnica e, come tale,
anch'essa
falsa.
Le decisioni di questa Corte che, in alcune occasioni, sono giunte a
conclusioni diverse, salvo casi isolati, non sembrano porre in discussione i
principi dianzi ricordati.
Invero, le difformi decisioni prendono in considerazione il fatto specifico,
riconoscendo come corrispondenti al vero i fatti rappresentati negli
elaborati
progettuali (Sez. 3, n. 4566 del 10/10/2017, dep. 2018, Morciano e a., non
massimata) od il difetto dell'elemento soggettivo (v. Sez. 5 n. 37915 del
26/04/2017, Baglivo, non massimata), ovvero sostenendo che la valutazione
oggetto di imputazione, essendo correlata alla mera interpretazione della
normativa di settore, ma svincolata da qualsiasi riferimento ad elementi fattuali
integranti il presupposto dell'atto, è priva di quella funzione informativa
in forza
della quale l'enunciato può essere predicato di falsità (Sez. 5, n. 19384
del
12/02/2018, De Micheli e aa., non massimata; Sez. 5, n. 7879 del 16/01/2018, Daversa e aa., Rv. 272457).
Si tratta, in tale ultimo caso, di una non convincente qualificazione dei
contenuti dell'atto che si assume falso, perché, come si è condivisibilmente
affermato in una recente pronuncia (Sez. 3, n. 8844 del 18/01/2018, Renna e a.,
non massimata, la quale a sua volta richiama Sez. 3, n. 57108 del 17/05/2017,
Renna, cit.; negli stessi termini, Sez. 3, n. 8852 del 18/01/2018, Dilonardo
e aa.,
non massimata) nell'autorizzazione paesaggistica -e ancor più nel permesso
di
costruire- vengono attestate, come detto magari anche solo implicitamente,
la
conformità urbanistica e la compatibilità ambientale delle opere da
edificare,
esprimendosi quindi un giudizio in base alla rispondenza dell'intervento
edilizio
ad oggettivi e preesistenti criteri normativi, in quanto tale non
caratterizzato da
mera discrezionalità tecnica quanto, piuttosto, da una verifica oggettiva
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
25.05.2020 n. 15767). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ri-assunzione
tempo determinato.
Domanda
Una dipendente a tempo determinato finisce il suo incarico a settembre. Ha
ormai fatto 3 anni e anche l’anno aggiuntivo previsto dal Job act.
L’amministrazione vorrebbe dare un altro incarico sempre per lo stesso
lavoro.
Come potrebbe fare?
Risposta
L’art. 50 del CCNL 21.05.2018 stabilisce che:
• un contratto a tempo determinato non può durare più di 3 anni;
• non è possibile superare i 3 anni nemmeno sommando più contratti
tra le stesse parti per le stesse mansioni, salva la possibilità di
stipulare un ulteriore contratto di 12 mesi nei casi di cui al comma 11;
• tra un contratto e l’altro ci deve essere un intervallo di tempo
da 5 a 20 giorni a seconda dei casi e salve le eccezioni di cui al comma 12.
Dato che ci deve essere uno stacco, prima e dopo il periodo di interruzione
si svolgono due distinti rapporti di lavoro, per l’accesso ai quali si
devono necessariamente applicare le procedure previste per il reclutamento a
tempo determinato nelle pubbliche amministrazioni: ad ogni assunzione si
applicano le regole previste per l’accesso al pubblico impiego
(principalmente: art. 97, comma 2, della Costituzione, d.lgs. 165/2001,
regolamenti dei singoli enti sull’accesso all’impiego), comprese le regole
previste dal bando di concorso di cui si tratta e dagli accordi tra gli enti
coinvolti circa l’utilizzo condiviso delle graduatorie e circa le modalità
del loro scorrimento.
Nel caso in cui, in applicazione di tali regole, venisse individuato lo
stesso lavoratore che ha già prestato servizio a tempo determinato per lo
stesso ente e per le stesse mansioni, è necessario rispettare l’intervallo
di stacco.
Nel caso in cui, in applicazione di tali regole, venisse individuato un
lavoratore che non ha già prestato servizio a tempo determinato per lo
stesso ente per le stesse mansioni, non ci sono intervalli da rispettare,
dato che non si verificano le circostanze con riferimento alle quali il CCNL
richiede lo stacco.
Quindi, la riassunzione dello stesso lavoratore dopo lo stacco non è esclusa
a priori, ma dipende quale è il canale di reclutamento utilizzato e le
regole che lo disciplinano.
Nel caso descritto dal quesito è ipotizzabile anche il ricorso alla
somministrazione di lavoro a tempo determinato, nel rispetto della
disciplina di legge, contrattuale (art. 52 CCNL 21.05.2018), e contenuta nei
regolamenti dell’ente: si vedano in modo particolare i regolamenti dell’ente
per quanto riguarda la scelta dell’agenzia di somministrazione e per la
scelta del lavoratore tra quelli proposti dall’agenzia (21.05.2020
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PUBBLICO IMPIEGO: Conferimento
di incarichi dirigenziali nella PA: tra diritto soggettivo e interesse
legittimo.
Fanno capo al dirigente due distinte situazioni
giuridiche soggettive, perché rispetto alla cessazione anticipata
dell'incarico lo stesso è titolare di un diritto soggettivo che, ove
ritenuto sussistente, dà titolo alla reintegrazione (se possibile) nella
funzione dirigenziale ed al risarcimento del danno, mentre a fronte del
mancato conferimento di un nuovo incarico può essere fatto valere un
interesse legittimo di diritto privato, che, se ingiustamente mortificato,
non legittima il dirigente a richiedere l'attribuzione dell'incarico non
conferito ma può essere posto a fondamento della domanda di ristoro dei
pregiudizi ingiustamente subiti.
Non vanno, dunque, confusi il diritto soggettivo al conferimento
dell'incarico e l'interesse legittimo di diritto privato correlato
all'obbligo imposto alla pubblica amministrazione di agire nel rispetto dei
canoni generali di correttezza e buona fede nonché dei principi di
imparzialità, efficienza e buon andamento consacrati nell'art. 97 Cost.,
sicché il dirigente non può pretendere dal giudice un intervento sostitutivo
e chiedere l'attribuzione dell'incarico, ma può agire per il risarcimento
del danno, ove il pregiudizio si correli all'inadempimento degli obblighi
gravanti sull'amministrazione.
Quanto a quest'ultima azione è stato richiamato il principio generale
secondo cui, nel lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni (per i
dirigenti statali in virtù di espressa previsione dell'art. 19 d.lgs. n.
165/2001), alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine
professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e
pertanto non è applicabile l'art. 2103 cod. civ., risultando la regola del
rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile
con lo statuto del dirigente pubblico.
Anche il sistema normativo del lavoro pubblico dirigenziale negli enti
locali (trasfuso nel d.lgs. n. 267/2000, art. 109) esclude la
configurabilità di un diritto soggettivo del dirigente a conservare in ogni
caso determinate tipologie di incarico dirigenziale, ancorché corrispondenti
all'incarico assunto a seguito di concorso specificatamente indetto per
determinati posti di lavoro, pure anteriormente alla cosiddetta 'privatizzazione'.
Lo stesso sistema, peraltro, conferma il principio generale che, nel lavoro
pubblico, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l'attitudine
professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e
non consente perciò -anche in difetto della espressa previsione di cui
all'art. 19 d.lgs. n. 165 del 2001 stabilita per le Amministrazioni statali-
di ritenere applicabile l'art. 2103 cod. civ., risultando la regola del
rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile
con lo statuto del dirigente pubblico locale, con la sola eccezione della
dirigenza tecnica, nel senso che il dirigente tecnico, il cui incarico è
soggetto ai principi della temporaneità e della rotazione, deve comunque
svolgere mansioni tecniche.
---------------
1. con il primo motivo il ricorrente denuncia error
in judicando, in relazione all'art. 360, n. 3, cod. proc. civ., per
violazione dell'art. 19 del d.lgs. n. 165/2001, dell'art. 13 del c.c.n.l.
enti locali, del c.c.d.i. Comune di Salerno, dell'art. 2103 cod. civ.;
rileva che la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che
il comportamento del Comune non fosse violativo dei criteri di assegnazione
degli incarichi dirigenziali;
insiste nel ritenere che il suo passaggio da Dirigente del Settore
a Dirigente del Sevizio avesse integrato un demansionamento;
sostiene che l'amministrazione fosse tenuta a garantire il livello
di professionalità conseguito in virtù dell'incarico in precedenza
ricoperto;
2. il motivo è infondato;
2.1. questa Corte ha più volte affermato che fanno capo al
dirigente due distinte situazioni giuridiche soggettive, perché
rispetto alla cessazione anticipata dell'incarico lo stesso è titolare di un
diritto soggettivo che, ove ritenuto sussistente, dà titolo alla
reintegrazione (se possibile) nella funzione dirigenziale ed al risarcimento
del danno, mentre a fronte del mancato conferimento di un nuovo incarico può
essere fatto valere un interesse legittimo di diritto privato, che, se
ingiustamente mortificato, non legittima il dirigente a richiedere
l'attribuzione dell'incarico non conferito ma può essere posto a fondamento
della domanda di ristoro dei pregiudizi ingiustamente subiti (v. Cass.
13.11.2018, n. 29169; Cass. 10.12.2017, n. 28879; Cass. 03.02.2017, n. 2972;
Cass. 18.06.2014, n. 13867);
2.2. non vanno, dunque, confusi il diritto soggettivo al
conferimento dell'incarico e l'interesse legittimo di diritto privato
correlato all'obbligo imposto alla pubblica amministrazione di agire nel
rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede nonché dei principi
di imparzialità, efficienza e buon andamento consacrati nell'art. 97 Cost.,
sicché il dirigente non può pretendere dal giudice un intervento sostitutivo
e chiedere l'attribuzione dell'incarico, ma può agire per il risarcimento
del danno, ove il pregiudizio si correli all'inadempimento degli obblighi
gravanti sull'amministrazione (Cass. 23.09.2013, n. 21700; Cass. 24.09.2015,
n. 18972; Cass. 14.04.2015, n. 7495);
2.3. quanto a quest'ultima azione è stato richiamato il principio
generale secondo cui, nel lavoro alle dipendenze di pubbliche
amministrazioni (per i dirigenti statali in virtù di espressa previsione
dell'art. 19 d.lgs. n. 165/2001), alla qualifica dirigenziale corrisponde
soltanto l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali
di qualunque tipo e pertanto non è applicabile l'art. 2103 cod. civ.,
risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità
acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico (v. Cass.
22.12.2004; Cass. 15.02.2010, n. 3451; Cass. 22.02.2017, n. 4621; Cass.
20.07.2018, n. 19442);
2.4. anche il sistema normativo del lavoro pubblico dirigenziale
negli enti locali (trasfuso nel d.lgs. n. 267/2000, art. 109) esclude la
configurabilità di un diritto soggettivo del dirigente a conservare in ogni
caso determinate tipologie di incarico dirigenziale, ancorché corrispondenti
all'incarico assunto a seguito di concorso specificatamente indetto per
determinati posti di lavoro, pure anteriormente alla cosiddetta 'privatizzazione'
(v. Cass 22.02.2017, n. 4621; Cass. 20.07.2018, n. 19442);
lo stesso sistema, peraltro, conferma il principio generale che,
nel lavoro pubblico, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto
l'attitudine professionale all'assunzione di incarichi dirigenziali di
qualunque tipo e non consente perciò -anche in difetto della espressa
previsione di cui all'art. 19 d.lgs. n. 165 del 2001 stabilita per le
Amministrazioni statali- di ritenere applicabile l'art. 2103 cod. civ.,
risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità
acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico locale, con
la sola eccezione della dirigenza tecnica, nel senso che il dirigente
tecnico, il cui incarico è soggetto ai principi della temporaneità e della
rotazione, deve comunque svolgere mansioni tecniche (v. Cass. 22.12.2004, n.
23760; Cass. 15.02.2010, n. 3451 nonché Cass. n. 4621/2017 cit.; Cass. n.
19442/2018 cit.);
2.5. nella specie, per quello che si evince dalla sentenza
impugnata, non è in discussione la legittimità della disposta cessazione
ante tempus dell'incarico di direzione del Settore Trasporti e Viabilità
già conferito al Pa. (per effetto dello smembramento e trasformazione del
Settore in Servizi, Impianti, Viabilità e Manutenzione, costituito da due
distinti Servizi) ma il mancato conferimento allo stesso dell'incarico di
dirigente di Settore e l'assegnazione della sola dirigenza di uno di detti
Servizi;
non vigendo la regola dell'equivalenza delle mansioni e non essendo
in discussione che fosse stata, nello specifico, compromessa la
professionalità 'tecnica' (discutendosi solo dell'assegnazione ad un
incarico di direzione per il quale, in dipendenza dell'operato smembramento
dei servizi del precedente settore e della successiva graduazione delle
funzioni in sette distinti gruppi, era stata prevista una diversa, e
ridotta, retribuzione di risultato e conseguentemente di posizione) non può
sostenersi che la mancata assegnazione di un incarico equivalente a quello
in precedenza ricoperto costituisca automaticamente fonte di danno
risarcibile (si consideri che, in tema di dirigenza pubblica, è stato
ritenuto che non determina un demansionamento la cessazione di un incarico
di funzione e la successiva attribuzione di un incarico di studio: v. da
ultimo Cass. 09.04.2018, n. 8674);
2.6. discutendosi di danno da violazione di interesse legittimo di
diritto privato alla linearità e congruità delle determinazioni assunte
dall'Ente, lo stesso non poteva certo coincidere con quanto sarebbe stato
dovuto in forza del contratto non concluso, occorrendo la deduzione e prova
di una lesione dannosa di legittimo affidamento rispetto all'incarico al
quale il Pa. aspirava (si pensi, ad esempio, al pregiudizio derivato
dall'eventuale inadempimento di obblighi gravanti sul Comune in relazione
agli atti preliminari, all'assenza di adeguate forme di partecipazione
dell'interessato medesimo al processo decisionale, alla omessa esternazione
delle ragioni giustificatrici della scelta, alla perdita patrimoniale per le
spese inutilmente sostenute in relazione alle trattative, alla mancata
possibilità di cogliere altre occasioni professionali presentatesi nel corso
della fase preliminare, circostanze, tutte, non prospettate nel caso in
esame -v. anche infra-);
2.7. anche un autonomo danno all'immagine professionale non poteva
dirsi conseguenza automatica della supposta illegittimità del conferimento
ad altri dell'incarico preteso, ma doveva essere dedotto e provato;
ed infatti, se è possibile che l'assegnazione ad un nuovo incarico
dirigenziale sia realizzata con modalità tali da configurare un
inadempimento contrattuale per la compromissione della professionalità del
lavoratore, anche nella forma della perdita di chance, ovvero per la
lesione della sua dignità professionale (v. Cass. 08.11.2017, n. 26469, in
motivazione; più in generale v. Cass. 20.06.2016, n. 12678 del 2016), il
danno risarcibile deve essere allegato e provato dal danneggiato secondo i
noti principi che presiedono all'accertamento ed alla liquidazione dei danni
patrimoniali e non patrimoniali, senza alcun automatismo che faccia ritenere
lo stesso sussistente in re ipsa (v. Cass. 07.01.2019, n. 137) e
soprattutto senza che lo stesso possa coincidere (come pretenderebbe il
ricorrente) con quanto sarebbe stato dovuto in forza del contratto non
concluso;
peraltro, nello specifico, quanto alla professionalità, proprio il
ricorrente assume che in punto di fatto nulla o poco fosse cambiato visto
che il Comune aveva comunque assegnato al predetto i medesimi plurimi
incarichi di prima;
2.8. il Pa. sostiene, più precisamente, che fosse degradante essere
assegnato ad un Servizio di IV gruppo rispetto ad un Settore di I gruppo;
tale affermazione non risulta, però, supportata da una
corrispondente chiara differenziazione di livelli dirigenziali e correlativi
complessivi trattamenti retributivi né da circostanze quali ad esempio il
venir meno di funzioni apicali e la sottoposizione ad altrui direttive;
invero a pag. 32 del ricorso il Pa. assume che per effetto
dell'assegnazione al IV gruppo gli fosse stata riconosciuta una retribuzione
di posizione inferiore a quella prevista per I gruppo ('con conseguenti
riflessi sulla retribuzione di risultato');
tuttavia non integra un demansionamento né non può riconoscersi
come danno la perdita (di quota) della retribuzione di posizione e di
risultato, non configurandosi, per quanto sopra detto, un diritto del
dirigente alla preposizione ad un ufficio di direzione, alle quali le
predette voci siano connesse;
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza 20.05.2020 n. 9294). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Adempimenti approvazione PTPCT.
Domanda
È possibile conoscere quali adempimenti dobbiamo svolgere dopo che la Giunta
del nostro comune ha approvato il Piano Triennale Anticorruzione? Il Piano
va spedito alla Funzione pubblica e all’ANAC?
Risposta
La legge anticorruzione (legge 06.11.2012, n. 190), all’articolo 1, comma 8,
prevede che le pubbliche amministrazioni, entro il 31 gennaio di ogni anno,
debbano approvare il Piano Triennale Prevenzione della Corruzione e
Trasparenza (PTPCT) e ne curano la trasmissione all’Autorità Nazionale
Anticorruzione (ANAC).
L’articolo 10, comma 8, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 (cd:
decreto Trasparenza) prevede che ogni amministrazione ha l’obbligo di
pubblicare sul proprio sito istituzionale nella sezione: “Amministrazione
trasparente”, il Piano Anticorruzione.
L’ANAC, in vari suoi documenti e da ultimo nel Piano Nazionale
Anticorruzione 2019, approvato con delibera n. 1064 del 13.11.2019
(Paragrafo 6), ha specificato che nessun piano –contrariamente a quanto
previsto nella legge Severino– deve essere inviato all’ANAC.
Per non disattendere completamente la disposizione legislativa, l’Autorità,
in collaborazione con due università italiane, ha sviluppato una piattaforma
on-line sul sito web istituzionale. La piattaforma è attiva dal 01.07.2019
ed è finalizzata alla rilevazione delle informazioni sulla predisposizione
dei PTPCT e sulla loro attuazione.
Al momento, la piattaforma ha carattere sperimentale e, nella prima fase, è
stata delimitata l’operatività della stessa unicamente alle amministrazioni
pubbliche, di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001 (quindi, anche
agli enti locali), agli enti pubblici economici, agli ordini professionali e
alle società in controllo pubblico.
Con un comunicato datato 22.04.2020 –pubblicato nel sito web dell’ANAC il
04.05.2020– l’Autorità ha chiarito che l’acquisizione dei dati sui PTPCT,
tramite la piattaforma, avviene esclusivamente mediante la compilazione di
specifici moduli predisposti dall’Autorità e mai attraverso l’invio o il
caricamento di documenti. In aggiunta, viene specificato che i dati sui
PTPCT riferiti al triennio 2020-2022, non vanno ancora inseriti sulla
piattaforma. L’Autorità fornirà, prossimamente, sul sito istituzionale
specifiche informazioni in merito alle modalità di acquisizione di tali
dati.
Chiarito il quadro complessivo, si risponde allo specifico quesito,
illustrando che:
a) Il PTPCT 2020/2022 deve essere pubblicato, entro un mese
dall’adozione (sostiene l’ANAC, ma non la legge) nel sito web dell’ente,
nella sezione Amministrazione trasparente > Altri contenuti > Prevenzione
della corruzione. Il Piano va pubblicato anche nella sottosezione
Disposizioni generali > Piano Triennale per la prevenzione della corruzione
e trasparenza, dove, per evitare inutili duplicazioni, è possibile inserire
un link che apra la prima sottosezione;
b) è opportuno, ma non previsto da alcuna disposizione, che il
Piano, approvato con deliberazione della Giunta, venga altresì trasmesso: al
Responsabile Anticorruzione dell’ente e ai suoi referenti; ai dirigenti o
posizioni organizzative (figure apicali), ai componenti dell’OIV o Nucleo di
Valutazione.
Il PTPCT comunale, dunque, NON va trasmesso all’ANAC, né al dipartimento
della Funzione pubblica, come previsto, invece, per le (sole) pubbliche
amministrazioni centrali (art. 1, comma 5, legge 190/2012). Per il
caricamento dei dati riferiti al Piano 2020/2022 nella Piattaforma ANAC
occorre attendere le ulteriori disposizioni che l’Autorità emanerà (19.05.2020
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mobilità
e scorrimento graduatoria COVID-19.
Domanda
Mobilità e scorrimento graduatorie. Cosa si può fare e cosa è sospeso
durante l’emergenza sanitaria?
Risposta
In merito a quanto esposto si ritiene di proporre delle considerazioni
generali.
Per quanto riguarda la procedura di mobilità, la stessa non può ritenersi
inclusa tra le procedure sospese per effetto dell’emergenza epidemiologica,
trattandosi di espressione del dirigente/responsabile quale privato datore
di lavoro e quindi la stessa potrebbe essere portata a compimento mediante
colloquio telematico con gli aspiranti.
Per l’utilizzo delle graduatorie di un altro ente, tra l’altro da esperirsi
mediante una scambio di lettere tra responsabili (no convenzione), si
ricorda che è necessario procedere alla richiesta ex art. 34-bis del d.lgs.
165/2001 ed attendere poi i 45 giorni previsti dalla norma, che decorreranno
dal 15.05.2020 per effetto della sospensione di cui all’art. 103 del d.l.
18/2020.
Infatti il dipartimento della Funzione Pubblica ha indicato, tra i
procedimenti per i quali intende siano sospesi i termini, anche quello
legato alla verifica degli esuberi ex articolo 34-bis del TUPI.
Quindi, i 45 giorni che gli enti debbono concedere al Dipartimento per
effettuare le verifiche sono attualmente bloccati fino al 15 maggio
compreso.
La previsione delle assunzioni in parola, se non già effettuato, dovrà
essere inserita nel piano triennale di fabbisogno di personale (14.05.2020
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Rilevazione
della temperatura corporea dei dipendenti e tutela dei dati personali.
Domanda
Nel nostro comune, al momento dell’entrata in servizio, in assenza di
termoscanner, è stato predisposto un foglio con i nomi di tutti i dipendenti
in cui è necessario dichiarare di non avere sintomi influenzali e una
temperatura corporea inferiore a 37,5°.
La dichiarazione viene completata con la firma del dipendente e i colleghi
la possono consultare trattandosi di un documento unico per tutti. Il
foglio, con le dichiarazioni, viene ritirato durante la mattinata da un
addetto del servizio personale.
Ci si chiede: la procedura rispetta le vigenti disposizioni in materia di
privacy?
Risposta
Per fronteggiare l’aggravarsi dello scenario, legato all’emergenza
epidemiologica, si sono susseguiti, in modo ravvicinato e, a volte, non
sempre coordinato, numerosi interventi normativi e conseguenti atti di
indirizzo tutti finalizzati a individuare misure urgenti in materia di
contenimento e gestione dell’emergenza da Covid-19.
Tra le varie misure previste per i datori di lavoro, la più recente è il
Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il
contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro
tra Governo e parti sociali, sottoscritto –nell’ultima versione– il
24.04.2020. Il Protocollo è stato poi trasfuso nel decreto Presidente
Consiglio dei ministri (dpcm) del 26.04.2020, dove ha preso le sembianze
dell’Allegato n. 6.
In particolare, il citato Protocollo prevede la rilevazione della
temperatura corporea del personale dipendente per l’accesso alla sede
aziendale (cfr. Paragrafo 2 del Protocollo rubricato “Modalità di
ingresso in azienda”).
Sulla base delle vigenti norme in materia di tutela della privacy, la
rilevazione in tempo reale della temperatura corporea –quando è associata
all’identità dell’interessato– costituisce un trattamento di dati personali
[ex articolo 4, Paragrafo 1, 2) del Regolamento (UE) 2016/679] e, per ciò
stesso, non è ammessa la registrazione del dato relativo alla temperatura
corporea rilevata o, come nel caso del quesito, dichiarata dal dipendente.
A tal riguardo il Garante Privacy suggerisce:
1. di rilevare la temperatura e non registrare il dato acquisito. È
possibile identificare l’interessato e registrare il superamento della
soglia di temperatura solo qualora sia necessario a documentare le ragioni
che hanno impedito l’accesso ai locali aziendali;
2. fornire al dipendente l’informativa (ex art. 13 Regolamento UE)
sul trattamento dei dati personali. Si ricorda che l’informativa può
omettere le informazioni di cui l’interessato è già in possesso e può essere
fornita anche oralmente;
3. definire le misure di sicurezza e organizzative adeguate a
proteggere i dati. In particolare, sotto il profilo organizzativo, occorre
individuare i soggetti preposti al trattamento e fornire loro le istruzioni
necessarie;
4. in caso di isolamento momentaneo dovuto al superamento della
soglia di temperatura, assicurare modalità tali da garantire la riservatezza
e la dignità del lavoratore.
Per tutto quanto sopra e nel rispetto del principio di “minimizzazione”,
così come disciplinato nell’articolo 5, paragrafo 1, lettera c), del
regolamento UE citato, si ritiene che la procedura adottata nel comune, non
risulti conforme alle vigenti disposizioni in materia di tutela dei dati
personali e dovrebbe, pertanto, essere sostituita da altra procedura più
rispettosa delle norme vigenti.
A completamento informativo, si consiglia di consultare le FAQ pubblicate
nel sito web del Garante Privacy italiano al
seguente link
e applicare le disposizioni del Paragrafo 2, e Nota 1, del Protocollo,
riportato nel dpcm del 26.04.2020, allegato 6 (12.05.2020 - link a
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
divieto di monetizzazione delle ferie non godute.
Il divieto di monetizzazione delle ferie non godute non può trovare
applicazione ove il godimento di dette ferie sia stato impedito da uno stato
di malattia o da altra causa oggettivamente non imputabile al lavoratore.
In tal modo, è stato riconosciuto al lavoratore il diritto di beneficiare di
un’indennità per le ferie non godute per causa a lui non imputabile, anche
quando la normativa settoriale formuli esplicitamente un divieto in tal
senso, in questo modo garantendo il diritto alle ferie, come riconosciuto
dalla Costituzione e dalle più importanti fonti internazionali ed europee.
---------------
Nel merito il ricorso è fondato e va accolto.
Ai sensi dell’art. 36 della Costituzione, recepito dall’art. 2109 c.c., il
lavoratore ha diritto a godere di un periodo annuale di ferie retribuite,
per reintegrare le energie psicofisiche spese nell’espletamento della
prestazione lavorativa.
Si tratta di un diritto irrinunciabile e dunque, in linea generale, non
monetizzabile.
In attuazione di tale principio, infatti, l’art. 47, co. 7, del D.P.R.
31.07.1995 n. 395 dispone che “la licenza ordinaria è un diritto
irrinunciabile e non è monetizzabile”. L’art. 55 del D.P.R. 16.03.1999
n. 254 prevede altresì, al comma 1, che: “La disciplina dell'articolo 14,
comma 14, del decreto del Presidente della Repubblica p. 395 del 1995 è
estesa al personale dell'Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di
finanza.” e, al successivo comma 2, che: “al pagamento sostitutivo,
oltre che nei casi previsti dal comma 1, si procede anche quando la licenza
ordinaria non sia stata fruita per decesso o per cessazione dal servizio per
infermità”.
Da ultimo è intervenuto l’art. 5, co. 8, del d.l. 06.07.2020 -OMISSIS- n.
95, convertito in legge 07.08.2020 -OMISSIS- n. 135, il quale ha ribadito il
divieto assoluto di monetizzazione delle ferie, dei riposi e dei permessi
spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale delle P.A., da
applicarsi anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità,
dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite d’età.
Il descritto quadro normativo, con riferimento alla spettanza del compenso
sostitutivo della licenza in ipotesi di cessazione dal servizio, è stato
effettivamente interpretato da una parte della giurisprudenza più risalente,
come richiama l’amministrazione resistente, nel senso che “il diritto al
compenso sostitutivo … implica comunque una situazione oggettiva di
impossibilità di fruire in altro periodo delle ferie” nel mentre “dirimente
in senso ostativo all'accoglimento della domanda del compenso sostitutivo si
rivela … il fatto che il richiedente sia stato collocato in quiescenza a
domanda, costituendo … la sua libera scelta la causa prima dell'interruzione
del rapporto di impiego, scelta che ha impedito all'Amministrazione di
consentirgli di fruire in altro periodo delle ferie residue” (TAR
Sicilia Catania, Sez. III, 25.05.2016 n. 1399; nello stesso senso TAR Puglia
Lecce, Sez. II, 21.05.2018 n. 847).
In tempi più recenti, tuttavia, si è registrata un’evoluzione
giurisprudenziale, alla quale il Collegio ritiene di aderire, anche alla
luce degli interventi della Corte costituzionale e della Corte di Giustizia
dell’Unione Europea.
In particolare, la Corte costituzionale, con sentenza n. 95/2016, ha
rilevato che:
- la prassi amministrativa e la magistratura contabile
convergono nell’escludere dall’àmbito applicativo del divieto le vicende
estintive del rapporto di lavoro che non chiamino in causa la volontà del
lavoratore e la capacità organizzativa del datore di lavoro; questa
interpretazione si colloca, peraltro, nel solco tracciato dalle pronunce
della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato, che riconoscono al
lavoratore il diritto di beneficiare di un’indennità per le ferie non godute
per causa a lui non imputabile, anche quando difetti una previsione
negoziale esplicita che consacri tale diritto, ovvero quando la normativa
settoriale formuli il divieto di “monetizzare” le ferie; così
correttamente interpretata, la disciplina impugnata non pregiudica il
diritto alle ferie, come garantito dalla Carta fondamentale, dalle fonti
internazionali e da quelle europee;
- il diritto alle ferie, riconosciuto a ogni lavoratore, senza
distinzioni di sorta, mira a reintegrare le energie psico-fisiche del
lavoratore e a consentirgli lo svolgimento di attività ricreative e
culturali, nell’ottica di un equilibrato «contemperamento delle esigenze
dell’impresa e degli interessi del lavoratore»; la giurisprudenza della
Corte di giustizia dell’Unione europea ha rafforzato i connotati di questo
diritto fondamentale del lavoratore e ne ha ribadito la natura inderogabile,
in quanto finalizzato a «una tutela efficace della sua sicurezza e della
sua salute»;
- la garanzia di un effettivo godimento delle ferie traspare,
secondo prospettive convergenti, dalla giurisprudenza costituzionale e da
quella europea; tale diritto inderogabile sarebbe violato se la cessazione
dal servizio vanificasse, senza alcuna compensazione economica, il godimento
delle ferie compromesso dalla malattia o da altra causa non imputabile al
lavoratore;
- non si può ritenere, pertanto, che una normativa settoriale,
introdotta al precipuo scopo di arginare un possibile uso distorto della “monetizzazione”,
si ponga in antitesi con principi ormai radicati nell’esperienza giuridica
italiana ed europea.
In sostanza, la Corte –con una sentenza interpretativa di rigetto– ha
ritenuto che il divieto di monetizzazione non può trovare applicazione ove
il godimento delle ferie sia stato impedito da uno stato di malattia o da
altra causa oggettivamente non imputabile al lavoratore.
In tal modo è stato riconosciuto al lavoratore il diritto di beneficiare di
un'indennità per le ferie non godute per causa a lui non imputabile, anche
quando la normativa settoriale formuli esplicitamente un divieto in tal
senso, in questo modo garantendo il diritto alle ferie, come riconosciuto
dalla Costituzione e dalle più importanti fonti internazionali ed europee.
A livello comunitario, la Corte di Giustizia dell'Unione Europea, in ordine
all'interpretazione della Direttiva n. 2003/88/CE e al suo recepimento da
parte degli Ordinamenti interni, ha rilevato come il legislatore
comunitario, nel prevedere comunque l'erogazione dell'indennità dovuta per
ferie non godute alla cessazione del rapporto lavorativo, abbia considerato
del tutto irrilevante il motivo per cui il rapporto di lavoro si sia risolto
(sentenza C-341-15 del 20/07/2016).
In conformità ai riportati principi di diritto, la più recente
giurisprudenza di merito ha ritenuto che nel caso in cui il “rapporto di
lavoro è cessato a causa della domanda di pensionamento, al lavoratore
spetta la relativa indennità per ferie annuali non godute. Ciò perché le
ferie sono state maturate ma il lavoratore, per via del collocamento in
pensione, non è stato in grado di usufruirne in misura piena prima della
fine del rapporto”, con la precisazione che non “può riversarsi
sull'interessato l'onere di chiedere la postergazione del già decretato
stato di quiescenza. Semmai … avrebbe dovuto essere la stessa
Amministrazione a prorogare d'ufficio la decorrenza del collocamento in
quiescenza, per consentire al ricorrente di godere del congedo ordinario
quale diritto inviolabile del lavoratore” (Tar Calabria Catanzaro,
03.03.2020, n. 511, Tar Bologna, Sez. I, 13.06.2019 n. 535, Tar Sicilia,
Palermo, Sez. I, 28.08.2018 n. 1850).
Più di recente, il Consiglio di Stato (Sez. I, parere n. 154 del 20.01.2020)
ha anzitutto rilevato che “la circostanza che un lavoratore ponga fine,
di sua iniziativa, al proprio rapporto di lavoro, non ha nessuna incidenza
sul suo diritto a percepire, se del caso, un’indennità finanziaria per le
ferie annuali retribuite di cui non ha potuto usufruire prima della
cessazione del rapporto di lavoro”.
Sempre nel medesimo parere è stato osservato che “alla luce dell’evoluzione
del quadro interpretativo sopra delineato e, in particolare,
dell’orientamento del giudice eurounitario, questa Sezione, con il recente
parere n. 86/2018, ha ritenuto che il diritto al congedo ordinario maturato
nel periodo di aspettativa per infermità include automaticamente il diritto
al compenso sostitutivo, ancorché il dipendente sia cessato dal servizio “a
domanda”. Questa interpretazione è stata ribadita con il parere di
questa Sezione n. 2424/2018. Tale è anche l’orientamento dei Tribunali
amministrativi regionali (TAR Sicilia-Palermo n. 1850/2018; TAR Puglia-Lecce
n. 431/2018; TAR Calabria-Reggio Calabria n. 264/2018; TAR Emilia Romagna,
Bologna n. 535/2019; TAR Molise n. 3/2020).
Da quanto sopra scaturiscono i presupposti per l’accoglimento del ricorso,
con riferimento all’an della spettanza.
In ordine al quantum, in assenza di specifica contestazione sul punto da
parte dell’amministrazione resistente ci si riporta al prospetto agli atti,
redatto dal comandante del nucleo di polizia tributaria di Vibo Valentia in
data 09.10.2020 -OMISSIS- (prot. n. 324082/12), da cui risulta la spettanza
di n. 76 giorni di licenza non fruita (TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 11.05.2020 n. 4898 - massima tratta da www.laleggepertutti.it -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
regolamento comunale sull'Ordinamento Generale degli Uffici, adottato dalla
Giunta Municipale, prevede che, in presenza di determinate condizioni, i
Dirigenti possano delegare al personale appartenente alla carriera direttiva
le funzioni dirigenziali per un periodo massimo di sei mesi.
Ciò premesso, si chiede se detta previsione regolamentare possa presentare
profili di illegittimità considerato che manca un'esplicita previsione
statutaria sull'argomento, nel senso che lo statuto comunale, nel
disciplinare la dirigenza, nulla dice sulla possibilità di delegare le
funzioni dirigenziali.
Per rispondere al quesito si fa riferimento a quanto disposto dal D.Lgs
18.08.2000, n. 267 (T.U.E.L.) specificamente all'art. 7 che disciplina
l'adozione dei regolamenti comunali "nel rispetto dei principi fissati
dalla legge e dallo statuto".
E' evidente che la mancanza di disposizioni statutarie non è d'ostacolo alla
previsione regolamentare della disciplina della delega di funzioni
dirigenziali là dove il regolamento sia conforme a legge.
Infatti, l’art. 17, comma 1-bis, D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 rubricato "Funzioni
dei dirigenti" stabilisce che "I dirigenti, per specifiche e
comprovate ragioni di servizio, possono delegare per un periodo di tempo
determinato, con atto scritto e motivato, alcune delle competenze comprese
nelle funzioni di cui alle lettere b), d) ed e) del comma 1 a dipendenti che
ricoprano le posizioni funzionali più elevate nell'ambito degli uffici ad
essi affidati. Non si applica in ogni caso l'articolo 2103 del codice civile".
Pertanto, nei limiti stabiliti dalla norma primaria, e quindi, in presenza
di specifiche e comprovate ragioni di servizio, anche in assenza di
disposizioni statutarie, deve considerarsi legittima la previsione
regolamentare che consenta al dirigente di delegare determinate funzioni a
dipendenti apicali, ben potendo quindi il regolamento prevedere il termine
di 6 mesi come termine massimo di durata.
Deve poi farsi necessariamente riferimento alla materia delle mansioni
superiori ai sensi dell'art. 52, D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 i cui parametri
devono essere comunque rispettati per evitare condotte rilevanti sotto il
profilo erariale e disciplinare.
Infatti, l'art. 52, co. 2, stabilisce che "2. Per obiettive esigenze di
servizio il prestatore di lavoro può essere adibito a mansioni proprie della
qualifica immediatamente superiore:
a) nel caso di vacanza di posto in organico, per non più di sei
mesi, prorogabili fino a dodici qualora siano state avviate le procedure per
la copertura dei posti vacanti come previsto al comma 4;
b) nel caso di sostituzione di altro dipendente assente con diritto
alla conservazione del posto, con esclusione dell'assenza per ferie, per la
durata dell'assenza. 3. Si considera svolgimento di mansioni superiori, ai
fini del presente articolo, soltanto l'attribuzione in modo prevalente,
sotto il profilo qualitativo, quantitativo e temporale, dei compiti propri
di dette mansioni".
Evidente pertanto che la delega di funzioni dirigenziali a funzionari
apicali deve essere connotata da una quantificazione, sotto il profilo
qualitativo e temporale, inferiore alle mansioni proprie della qualifica
direttiva che fanno ordinariamente capo al dipendente. In altre parole le
funzioni delegate non devono essere quantitativamente superiori a quelle
ordinariamente svolte dal dipendente e proprie della sua qualifica.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs 18.08.2000, n. 267,
art. 110 - D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 7 - D.Lgs. 30.03.2001, n. 165,
art. 17 - D.Lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 52
(11.05.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Svolgimento
colloquio COVID-19.
Domanda
Abbiamo in corso una procedura di mobilità fra enti ex art. 30 del D.L.vo n.
165/2001. La Commissione dovrebbe ascoltare (colloquio) l’unico candidato
partecipante ed ammesso.
Come possiamo procedere in questo tempo di emergenza sanitaria?
Risposta
L’art. 87, comma 5, del d.l. 18/2020, disciplina “lo svolgimento delle
procedure concorsuali per l’accesso al pubblico impiego”, prevedendo
apposite misure di tutela e salvaguardia della salute pubblica. L’art. 4,
comma 1, del d.l. 22/2020, ha chiarito che la sospensione (per 60 giorni)
riguarda esclusivamente le prove concorsuali e non le procedure concorsuali,
intese in senso lato.
Chiarito il quadro normativo in cui ci si muove, si ritiene che il colloquio
dell’unico candidato per una procedura di mobilità tra enti (ex art. 30,
d.lgs. 165/2001) non rientri nella categoria di “prove concorsuali”
per l’accesso al pubblico impiego, trattandosi di una cessione di contratto
(trasferimento) di un dipendente che è già all’interno del perimetro della
P.A.
Detto ciò, restano, comunque, da rispettare le disposizioni urgenti per la
prevenzione del fenomeno epidemiologico da COVID-19, che obbligano i datori
di lavoro privati e quelli della P.A. ad adottare idonee misure che non
pongano a rischio la salute dei componenti della commissione e dell’unico
candidato.
Per garantire tale passaggio, e consentirvi di concludere la procedura di
mobilità (che non è un concorso), si individuano due possibili soluzioni:
a) svolgere il colloquio in una sala ampia, alla presenza della
commissione, eventuale segretario verbalizzante e candidato, debitamente
distanziati, con uso di mascherine e guanti monouso. Nella sala (ampia) si
può prevedere la presenza di eventuale pubblico stabilendo prima il numero
massimo (per esempio tre o cinque persone). Lo sede e l’orario di
svolgimento del colloquio e il numero dei posti riservati al pubblico
dovranno essere comunicati via web in anticipo;
b) in assenza di luogo idoneo, la commissione può svolgere il
colloquio da remoto, con collegamento on-line. In questo caso il candidato
può utilizzare un dispositivo (PC, tablet, smartphone) di sua proprietà. Il
colloquio può essere registrato e, qualora richiesto da chi ne fosse
interessato, può essere resa disponibile la registrazione. Il candidato
dovrà essere previamente informato che il colloquio viene registrato. Il
giorno e l’ora di svolgimento del colloquio e il fatto che la prova sarà
registrata e eventualmente resa pubblica, può essere comunicato con apposito
avviso da pubblicarsi nel sito web dell’ente (07.05.2020 - link a
www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: In
un Comune, nella stessa area contabile-amministrativa, vi sono due
funzionari con inquadramento D3 e tre D2.
A prescindere dai requisiti soggettivi degli stessi, l'incarico di PO può
essere assegnato al dipendente di qualifica D2?
Alla luce di quanto si dirà nel prosieguo della risposta alla domanda del
gentile lettore, si ritiene sia possibile attribuire la P.O. ad un
dipendente con la qualifica di D2.
Il Quaderno ANCI, dal titolo "Regolamento sugli incarichi di posizione
organizzativa - aggiornamento al CCNL 21/05/2018" afferma che "L'istituzione
delle posizioni organizzative deve avvenire con riferimento a posizioni di
lavoro che presentino le caratteristiche della particolare complessità ed
elevato grado di autonomia gestionale e organizzativa. In alternativa,
l'istituzione di posizioni organizzative può riguardare attività ad alto
contenuto professionale per le quali è richiesta una elevata competenza
specialistica (maturata o mediante titoli di livello universitario o
attraverso rilevanti e consolidate esperienze professionali, in posizioni di
responsabilità o di alta qualificazione professionale), che deve essere
verificata in sede di conferimento attraverso l'esame del curriculum.
I criteri generali devono da un lato dettagliare, per ciascuna posizione
organizzativa istituita, i requisiti culturali, le attitudini, la capacità
professionale e l'esperienza acquisita, e dall'altro considerare la natura e
le caratteristiche dei programmi da realizzare. Per il conferimento degli
incarichi gli Enti tengono conto:
- delle funzioni e attività da svolgere;
- della natura e caratteristiche dei programmi da realizzare;
- dei requisiti culturali posseduti,
- delle attitudini e della capacità professionale ed esperienza
acquisiti dal personale della categoria D (salva, ove possibile, la
possibilità di applicare la disciplina prevista dall'art. 13, comma 2, lett.
a), del CCNL);
- gli esiti delle valutazioni individuali in attuazione del D.Lgs.
27.10.2009, n. 150.
Gli incarichi possono essere revocati prima della scadenza con atto scritto
e motivato, in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in
conseguenza di valutazione negativa della performance individuale. I
risultati delle attività svolte dai dipendenti cui siano stati attribuiti
gli incarichi di posizione organizzativa sono soggetti a valutazione annuale
in base al sistema a tal fine adottato dall'ente. La valutazione positiva dà
anche titolo alla corresponsione della retribuzione di risultato di cui
all'art. 15 del nuovo CCNL".
L'ARAN con la risposta "RAL_1547_Orientamenti Applicativi" alla
domanda relativa se ai fini dell'attribuzione dell'incarico di posizione
organizzativa, nell'ambito della categoria giuridica D, deve tenersi conto
del requisito del più elevato inquadramento economico di un dipendente
rispetto ad un altro (D4 in luogo di D2), ha affermato che "Nell'ambito
della vigente disciplina contrattuale (art. 8 e ss., CCNL del 31.03.1999),
gli incarichi di posizione organizzativa possono essere conferiti solo a
personale della categoria D, salvo che non si tratti di enti la cui
dotazione non preveda posti di categoria D; solo in tali ultimi enti,
l'incarico di posizione organizzativa può essere conferito a personale della
categoria C e B, in relazione alla propria grandezza demografica, e nel
rispetto delle generali regole in materia (art. 11, comma 3, CCNL
31.03.1999); ad avviso della scrivente Agenzia, tale regola vale anche per
gli eventuali incarichi di supplenza.
All'interno della categoria D, data la unitarietà della stessa, gli
incarichi di posizione organizzativa possono essere conferiti,
indifferentemente, sia a personale di tale categoria in possesso di profili
con trattamento stipendiale iniziale corrispondente alla posizione economica
D1 sia a quello collocato in profili con trattamento stipendiale iniziale
corrispondente alla posizione economica D3. Pertanto, ove nel caso di specie
venga in considerazione un dipendente comunque inquadrato nella categoria D,
allo stesso potrà essere legittimamente conferito un incarico di posizione
organizzativa.
Quello che effettivamente rileva in materia è il rigoroso rispetto da parte
dell'Ente dei criteri di conferimento dallo stesso preventivamente adottati
nell'osservanza delle previsioni dell'art. 9, comma 2, CCNL 31.03.1999. Tale
clausola contrattuale, infatti, espressamente stabilisce "Per il
conferimento degli incarichi gli enti tengono conto -rispetto alle funzioni
ed attività da svolgere- della natura e caratteristiche dei programmi da
svolgere, dei requisiti culturali posseduti, delle attitudini e della
capacità professionale ed esperienza acquisiti dal personale della categoria
D".
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Documenti allegati
Quaderno ANCI, Regolamento sugli incarichi di posizione organizzativa -
Aggiornamento al CCNL 21.05.2018 - ARAN "RAL_1547_Orientamenti Applicativi"
(07.05.2020 - tratto da
http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
PUBBLICO IMPIEGO: Oltraggio
a Pubblico Ufficiale: quando non è configurabile il reato?
Una recente Sentenza della Cassazione, che farà discutere, ha stabilito i
limiti delle casistiche relative al reato di oltraggio a pubblico ufficiale.
Oltraggio a Pubblico Ufficiale: la Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con
la
sentenza 06.05.2020 n. 13688 ha circoscritto le casistiche
relative a questa tipologia di reato.
Il caso giuridico così fa luce su quando ricorrono i presupposti per vedersi
contestati i reati di resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale
Ecco cosa ha stabilito la Cassazione.
Oltraggio a Pubblico Ufficiale: quando non sussiste il
reato?
Nel caso specifico un uomo di Messina era stato fermato dai carabinieri che
gli avevano contestato violazioni delle norme del Codice della strada. Dopo
la comunicazione degli agenti del sequestro del motorino come conseguenza
alle violazioni, sarebbe stata contestata come reato la seguente frase detta
dall’imputato: “mio padre è della Guardia di Finanza, voi non mi potete
sequestrare … Ora lo faccio venire e vi faccio vedere io”.
Così secondo gli inquirenti si trattava di reato di resistenza e oltraggio a
pubblico ufficiale. Tuttavia, secondo i giudici della Cassazione, in questo
caso non ci sarebbero i presupposti per qualificare questa condotta come
reato.
Da un lato, infatti, risulta palese la carica intimidatrice che ebbe la
frase pronunciata dall’imputato all’indirizzo dei due carabinieri che, nel
doveroso esercizio dei compiti di istituto, gli avevano contestato la
violazione di norme del Codice della Strada che comportavano il sequestro
del motorino su cui viaggiava senza casco.
Dall’altro, tuttavia, è pur sempre necessaria la presenza di almeno due
persone, come chiaramente indica la norma citata. Pertanto la pena può
essere rideterminata decurtando dalla pena finale di mesi cinque di
reclusione, quella inflitta per il reato di oltraggio pari ad un mese.
Infatti solo laddove vi è prova della presenza di più persone e risulti
accertata tale circostanza si considera sufficiente far integrare la
percezione dell’offesa da parte dei presenti (commento tratto da
www.lentepubblica.it).
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SENTENZA
3. Il secondo motivo è infondato.
3.1. Mette conto evidenziare che, se non vi è dubbio che per integrare il
reato di resistenza non si richiede che sia in concreto impedita la libertà
di azione del pubblico ufficiale, essendo sufficiente che la violenza o
minaccia usata dall'agente sia potenzialmente idonea ad impedire o
ostacolare il compimento di un atto di ufficio o di servizio, è dato
altrettanto incontroverso che il dolo specifico del reato di cui all'art.
337 c.p. debba concretizzarsi nel fine di impedire od ostacolare l'attività
propria di un pubblico ufficio o servizio (Sez. 6, n. 17919 del 12/04/2013,
Celentano, Rv. 256475).
Costituisce, infatti, ius receptum nella consolidata giurisprudenza di
questa Corte il principio per il quale il reato di resistenza a pubblico
ufficiale è tipicizzato dal legislatore soltanto sotto il profilo
teleologico, come volontà diretta ad impedire la libertà d'azione del
pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, talché la
minaccia o la violenza possono consistere in qualunque mezzo di coazione
fisica o psichica diretto idoneamente ed univocamente a raggiungere lo scopo
di impedire, turbare, ostacolare l'atto di ufficio o di servizio intrapreso
da chi ne aveva facoltà (così, tra le tante: Sez. 6, n. 46 del 15/01/1970,
Macrì Rv. 114631).
Alla luce di tale regula iuris, risulta palese la carica intimidatrice che
ebbe la frase pronunciata dall'imputato all'indirizzo dei due carabinieri
che, nel doveroso esercizio dei compiti di istituto, gli avevano contestato
la violazione di norme del Codice della Strada che comportavano il sequestro
del motorino su cui viaggiava senza casco: e ciò perché il prevenuto non si
limitò a rifiutare la consegna spontanea di quel bene, atteggiamento, questo
sì, che avrebbe avuto la valenza di mero atto di disobbedienza, ma si oppose
di fatto al sequestro da parte dei pubblici ufficiali operanti con
atteggiamento apertamente minaccioso, dato che disse loro che non potevano
procedere a sequestro e che se lo avessero fatto avrebbe chiamato il padre
che apparteneva alla guardia di Finanza e che "avrebbe fatto vedere loro",
frase certamente capace di incutere timore e di coartare la volontà dei
destinatari.
Nella vicenda la condotta dell'imputato -come correttamente motivato dai
giudici di merito- ha integrato inoppugnabilmente i profili soggettivi ed
oggettivi del contestato delitto e le argomentazioni della decisione
impugnata, prive di vizi logico-giuridici hanno dato puntualmente conto
dell'iter che ha supportato la decisione di condanna, non censurabile,
mediante una diversa ed alternativa lettura della scansione degli eventi,
attesa la coerenza dell'apparato motivazionale.
4. Il secondo motivo merita accoglimento.
4.1. Occorre evidenziare che, se per la configurabilità del reato di
oltraggio a pubblico ufficiale è sufficiente che le espressioni offensive
rivolte al pubblico ufficiale possano essere udite dai presenti, poiché già
questa potenzialità costituisce un aggravio psicologico che può
compromettere la sua prestazione, disturbandolo mentre compie un atto del
suo ufficio, facendogli avvertire condizioni avverse, per lui e per la
pubblica amministrazione di cui fa parte, e ulteriori rispetto a quelle
ordinarie (Sez. 6, n. 15440 del 17/03/2016, Saad, Rv. 266546), è pur sempre
necessaria la presenza di almeno due persone, come chiaramente indica la
norma citata.
Nel caso in esame, invece, non viene evidenziata la presenza delle stesse.
Infatti, la sentenza di primo grado asserisce apoditticamente che le offese
sono state pronunciate alla presenza di più persone. Invece, la Corte di
appello evidenzia la presenza di più persone alla finestra ma non precisa su
quali basi si potesse ritenere che queste fossero in grado di percepire le
espressioni oltraggiose e, pertanto, la sua sentenza deve essere annullata
senza rinvio perché il fatto non sussiste. Ai sensi dell'art. 620, lett.
1)., cod. proc. pen. la pena può essere rideterminata decurtando dalla pena
finale di mesi cinque di reclusione, quella inflitta per il reato di
oltraggio pari ad un mese. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Possibilità di attivazione di specifica polizza sanitaria per emergenza
COVID-19 a favore dei dipendenti dell'ente.
L’art. 42, c. 2, D.L. n. 18/2020, dispone che nei casi
accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro
il medico certificatore redige il certificato di infortunio e lo invia
telematicamente all’Inail che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni,
la relativa tutela dell’infortunato.
In forza della norma richiamata e come precisato dall’Inail (circolare n.
13/2020), le infezioni da nuovo coronavirus contratte in occasione di lavoro
sono dunque coperte dalla tutela assicurativa Inail, per tutti i lavoratori
assicurati dall'Istituto stesso, come infortuni di cui l’ente datoriale è
tenuto a rispondere.
E ciò –avuto riguardo al datore di lavoro pubblico– corrisponde al principio
generale secondo cui la pubblica amministrazione può assicurare con oneri a
carico del proprio bilancio quei rischi che rientrino nella sfera della
propria responsabilità patrimoniale, trasferendo all'assicuratore il rischio
del verificarsi di un danno patrimoniale, mentre è priva di giustificazione
e, come tale, causativa di danno erariale l'assicurazione di eventi per i
quali l'ente non deve rispondere, che non rappresentano un rischio per
l'ente medesimo.
Alla luce di detto principio, la possibilità per il Comune di stipulare una
polizza assicurativa per il rischio da nuovo coronavirus, in favore del
proprio personale dipendente, ulteriore a quella Inail prevista
espressamente dalla legge (art. 42, c. 2, D.L. n. 18/2020), verrebbe a
tradursi in una copertura assicurativa per ipotesi di infezioni non occorse
in occasione di lavoro e dunque al di fuori degli eventi ricadenti nella
responsabilità dell’ente, con ciò superando il limite di liceità della
copertura assicurativa per gli eventi di danno riconducibili alla sfera
della responsabilità patrimoniale della p.a..
---------------
Il Comune chiede un parere in merito alla possibilità di assicurare il
personale dipendente dai rischi derivanti da “Covid-19”, alla luce
del fatto che la polizza assicurativa in questione comporterebbe a suo
carico spese ulteriori rispetto a quelle relative all’assicurazione
obbligatoria per infortuni e malattie professionali e tenuto conto del fatto
che l’Ente può assicurarsi solo per eventi che rientrano nella propria
responsabilità patrimoniale.
In relazione alla questione posta, sentito il Servizio Funzione pubblica di
questa Direzione centrale, si esprimono le seguenti considerazioni.
L’art. 42, c. 2, D.L. n. 18/2020 [1],
dispone che “nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2)
in occasione di lavoro il medico certificatore redige il consueto
certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’Inail che assicura,
ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato. Le
prestazioni Inail nei casi accertati di infezioni da coronavirus in
occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di
permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente
astensione dal lavoro […]”.
Con circolare n. 13 del 03.04.2020, l’Inail ha puntualizzato che, secondo
l’indirizzo vigente in materia di trattazione dei casi di malattie infettive
e parassitarie [2],
l’Istituto tutela i casi di contrazione di malattie infettive e parassitarie
negli ambienti di lavoro e/o nell’esercizio delle attività lavorative, i
quali sono inquadrabili nella categoria degli infortuni: in questi casi, la
causa virulenta è equiparata a quella violenta [3].
Fra tali affezioni morbose rientra anche l’infezione da nuovo coronavirus
per tutti i lavoratori assicurati dall’Inail.
In particolare, l’Inail spiega che l’art. 42, c. 2, D.L. n. 18/2020, a
conferma dell’indirizzo suddetto, chiarisce che la tutela assicurativa Inail,
spettante nei casi di contrazione di malattie infettive e parassitarie negli
ambienti di lavoro e/o nell’esercizio delle attività lavorative, opera anche
nei casi di infezione da nuovo coronavirus contratta in occasione di lavoro
per tutti i lavoratori assicurati all’Inail.
Per quanto concerne le circostanze in cui possa configurarsi un’infezione da
nuovo coronavirus “in occasione di lavoro” [4],
l’Inail precisa che, nell’attuale situazione pandemica, l’ambito della
tutela riguarda innanzitutto gli operatori sanitari esposti a un elevato
rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico. Per tali
operatori vige, quindi, la presunzione semplice di origine professionale,
considerata appunto la elevatissima probabilità che gli operatori sanitari
vengano a contatto con il nuovo coronavirus.
A una condizione di elevato rischio di contagio possono essere ricondotte
anche altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il
pubblico/l’utenza.
In via esemplificativa, ma non esaustiva, nella circolare n. 13/2020 si
indicano: lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle
vendite/banconisti, personale non sanitario operante all’interno degli
ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del
trasporto infermi, etc. Anche per tali figure vige il principio della
presunzione semplice valido per gli operatori sanitari.
Le predette situazioni non esauriscono, però –precisa l’Inail– l’ambito del
suo intervento, in quanto residuano quei casi, anch’essi meritevoli di
tutela, nei quali manca l’indicazione o la prova di specifici episodi
contagianti o comunque di indizi “gravi precisi e concordanti” tali
da far scattare ai fini dell’accertamento medico-legale la presunzione
semplice.
In base alle istruzioni per la trattazione dei casi di malattie infettive e
parassitarie, la tutela assicurativa si estende, infatti, anche alle ipotesi
in cui l’identificazione delle precise cause e modalità lavorative del
contagio si presenti problematica.
Ne discende –continua l’Istituto- che, ove l’episodio che ha determinato il
contagio non sia noto o non possa essere provato dal lavoratore, né si può
comunque presumere che il contagio si sia verificato in considerazione delle
mansioni/lavorazioni e di ogni altro elemento che in tal senso deponga,
l’accertamento medico-legale seguirà l’ordinaria procedura privilegiando
essenzialmente i seguenti elementi: epidemiologico, clinico, anamnestico e
circostanziale.
In forza della norma di legge di cui all’art. 42, c. 2, D.L. n. 18/2020, le
infezioni da nuovo coronavirus sono dunque coperte dalla tutela assicurativa
Inail, come infortuni in occasione di lavoro, di cui l’ente datoriale è
tenuto a rispondere.
E ciò –avuto riguardo al datore di lavoro pubblico– corrisponde al principio
generale secondo cui la pubblica amministrazione può assicurare con oneri a
carico del proprio bilancio quei rischi che rientrino nella sfera della
propria responsabilità patrimoniale, trasferendo all'assicuratore il rischio
del verificarsi di un danno patrimoniale, mentre è priva di giustificazione
e, come tale, causativa di danno erariale, l'assicurazione di eventi per i
quali l'ente non deve rispondere e che non rappresentano un rischio per
l'ente medesimo [5].
Avuto riguardo a detto limite di liceità della copertura assicurativa per
gli eventi di danno riconducibili alla sfera della responsabilità
patrimoniale della p.a., la possibilità di una polizza assicurativa per il
rischio da nuovo coronavirus, in favore del proprio personale dipendente,
ulteriore a quella Inail prevista espressamente dalla legge (art. 42, c. 2,
D.L. n. 18/2020), verrebbe a tradursi in una copertura assicurativa per
ipotesi di infezioni non occorse in occasione di lavoro e dunque al di fuori
degli eventi ricadenti nella responsabilità dell’ente.
In linea con queste considerazioni, paiono anche potersi interpretare le
affermazioni della Corte dei conti Emilia Romagna n. 895/2006, secondo cui,
poiché per i dipendenti pubblici, siano essi privatizzati od ancora retti da
norme di diritto pubblico, l'assicurazione contro i danni subiti per
infortuni avvenuti in occasione di lavoro è disciplinata dalle disposizioni
in materia di assicurazione obbligatoria per gli infortuni e le malattie
professionali (d.p.r. 20.06.1965 n. 1124), la possibilità degli enti di fare
ricorso in tale materia a forme ulteriori di assicurazione può ritenersi
lecita nei soli limiti in cui si rivolga chiaramente verso rischi non
considerati e ricompresi nelle coperture assicurative previste per legge, o
comunque siano contratte coperture in favore di soggetti non compresi nelle
categorie dei dipendenti considerate dalle norme in materia
[6].
E avuto riguardo a detti parametri, atteso che, come sopra rilevato, la
copertura assicurativa del personale dipendente in relazione alle ipotesi di
contrazione dell’infezione da Covid-19 in occasione del lavoro è
espressamente prevista dall’art. 42, c. 2, D.L. n. 18/2020, che la riconduce
alla tutela assicurativa Inail, si ritiene che non sussista la possibilità
per il Comune di stipulare ulteriori polizze assicurative.
---------------
[1] D.L. 17.03.2020, n. 18, recante: “Misure di potenziamento del
Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie,
lavoratori e imprese connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19”. La
disposizione di cui al comma 2 del citato art. 42 è applicabile ai datori di
lavoro pubblici e privati.
[2] L’Inail richiama in proposito le Linee-guida per la trattazione dei casi
di malattie infettive e parassitarie di cui alla Circolare Inail 23.11.1995,
n. 74.
[3] Ai sensi dell’art. 2, D.P.R. n. 1124/1965 (Testo unico delle
disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul
lavoro e le malattie professionali), “L'assicurazione comprende tutti i casi
di infortunio avvenuti per causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia
derivata la morte o un'inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale,
ovvero un'inabilità temporanea assoluta che importi l'astensione dal lavoro
per più di tre giorni” (comma 1).
[4] Sull’espressione “occasione di lavoro”, l’Inail richiama la Corte di
Cassazione, sentenza n. 9913 del 13.05.2016, che ha ribadito i principi che
devono essere seguiti nel determinare la riconducibilità all’“occasione di
lavoro” dell’infortunio occorso al lavoratore. In particolare, secondo la
Suprema Corte, affinché l’infortunio sia indennizzabile da parte dell’Inail,
non è necessario che sia avvenuto nell’espletamento delle mansioni tipiche
disimpegnate dal lavoratore essendo sufficiente, a tal fine, anche che lo
stesso sia avvenuto durante lo svolgimento di attività strumentali o
accessorie.
Sia la dottrina che la giurisprudenza di legittimità riconoscono il
significato normativo estensivo dell’espressione “occasione di lavoro”. Essa
comprende tutte le condizioni temporali, topografiche e ambientali in cui
l’attività produttiva si svolge e nelle quali è imminente il rischio di
danno per il lavoratore, sia che tale danno provenga dallo stesso apparato
produttivo e sia che dipenda da situazioni proprie e ineludibili del
lavoratore.
[5] Corte dei Conti-Lombardia, sez. contr., deliberazione 21.12.2011, n.
665. La deliberazione esprime l’orientamento costante della Corte dei conti
nel senso di esplicitare il limite di assicurabilità della p.a.
individuandolo nel divieto di assumere a proprio carico rischi non propri;
al riguardo, v. Corte dei conti, Sezioni Riunite, sentenza n. 707-A del
5.4.1991; Corte dei conti Abruzzo, sentenza 27.10.2011, n. 353; Corte dei
conti Emilia Romagna, sentenza 01.08.2006, n. 895.
Corollario ed espressione di detto principio è anche il fatto che l’ente
pubblico non può assicurare la responsabilità amministrativa di
amministratori e dipendenti per condotte contraddistinte da dolo e colpa
grave, di cui gli stessi possono essere chiamati a rispondere dinanzi alla
Corte dei conti, ai sensi dell’art. 1, L. n. 20/1994 (cfr. Corte dei conti
Emilia Romagna n. 895/2006 cit., che richiama l’orientamento costante della
magistratura contabile nel senso dell’illegittimità dell’assicurazione per
la responsabilità amministrativa di amministratori e dipendenti per i danni
cagionati alle pubbliche finanze con dolo o colpa grave nell'esercizio delle
loro funzioni).
[6] Corte dei conti Emilia Romagna n. 895/2006 cit., chiamata ad esprimersi,
fra l’altro, sulla legittimità di alcune polizze infortuni in favore di
amministratori, personale dipendente e soggetti non dipendenti ma
collaboranti (06.05.2020 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'assunzione
del libero professionista vincitore di concorso.
DOMANDA:
L'Ente è in procinto di assumere alcuni dipendenti a tempo determinato, per
due anni, inquadrandoli in cat. D. Uno degli interessati esercita la libera
professione di avvocato ed è quindi titolare di partita IVA.
L'avvocato ha posto il problema di poter ricevere alcuni crediti che
comunque si manifesteranno non nell'immediato ma in futuro, come, ad
esempio, quelli derivanti de sentenze favorevoli oltre a quelli per i quali
non ha ancora emesso fattura, pur avendo svolto una ponderosa attività
legale. Infatti, anche a voler anticipare la fatturazione per molte cause
per cui aveva il mandato, per altre gli è impossibile emettere la relativa
nota di addebito a causa dell'attuale indeterminatezza del credito che solo
in futuro potrà essere fissato in maniera certa.
A tal fine, l'interessato ha chiesto se possa far rimanere aperta la sua
posizione con partita IVA al solo fine di poter emettere le relative fatture
quando i crediti saranno esigibili, senza effettuare alcuna attività
ulteriore di difesa ma solo per poter estinguere le sue obbligazioni attive.
Diversamente, chiede come poter affrontare e risolvere il problema senza che
ciò comporti una rinuncia ai crediti maturati.
RISPOSTA:
L’Agenzia delle Entrate ad un quesito analogo a quello di specie, ovvero se
sia possibile mantenere aperta la partita IVA per il tempo strettamente
necessario alla riscossione dei crediti afferenti alla pregressa attività
professionale e maturati prima dell’assunzione, ha risposto che “il
professionista che non svolge più l’attività professionale non può cessare
la partita IVA in presenza di corrispettivi per prestazioni rese in tale
ambito ancora da fatturare ai propri clienti. L’attività del professionista
non si può considerare cessata fino all’esaurimento di tutte le operazioni,
ulteriori rispetto all’interruzione delle prestazioni professionali, dirette
alla definizione dei rapporti giuridici pendenti, ed, in particolare, di
quelli aventi ad oggetto crediti strettamente connessi alla fase di
svolgimento dell’attività professionale. La cessazione dell’attività per il
professionista non coincide, pertanto, con il momento in cui egli si astiene
dal porre in essere le prestazioni professionali, bensì con quello,
successivo, in cui chiude i rapporti professionali, fatturando tutte le
prestazioni svolte e dismettendo i beni strumentali. Fino al momento in cui
il professionista, che non intenda anticipare la fatturazione rispetto al
momento di incasso del corrispettivo, non realizza la riscossione dei
crediti, la cui esazione sia ritenuta ragionevolmente possibile l’attività
professionale non può ritenersi cessata” (Agenzia entrate Risposte alle
istanze di consulenza giuridica n. 20 del 29/11/2019).
L’Agenzia non si è invece espressa, non avendone la competenza,
sull’applicazione della disciplina delle inconferibilità e incompatibilità
riguardanti il rapporto di pubblico impiego. In altri termini,
nell’evidenziare che, per la riscossione dei crediti, è necessario per il
professionista mantenere aperta la P.iva, non si è invece pronunciata
sull’aspetto principale del quesito, ossia se mantenendola aperta, sia
possibile essere assunto come dipendente pubblico.
La disciplina del pubblico impiego esclude che un pubblico dipendente, a
meno che non sia a tempo parziale non superiore al 50%, possa svolgere
attività industriali, commerciali e professionali, cioè le attività
imprenditoriali di cui all’articolo 2082 cod. civ. e le attività libero
professionali per il cui esercizio è necessaria l’iscrizione in appositi
albi o registri. Perché, in tali casi, sarebbe violato l’obbligo di
esclusiva nei confronti dell’Amministrazione di appartenenza. L’apertura e
il mantenimento di una partita iva presuppone invece l’esercizio abituale e
prevalente di una qualsiasi attività economica, e quindi è in conflitto con
il vincolo di esclusività sancito dall’art. 53 del d.lgs. 165/2001.
Va però evidenziato che, in merito alla possibilità per il professionista di
cessare l’attività professionale prima di avere incassato tutti i compensi,
nel corso degli anni si sono alternati orientamenti diversi.
A quello sopra richiamato, contenuto già nella circolare n. 11/E del
16.02.2007 e nella risoluzione 232/E/2009 e ribadito dalla Corte di
Cassazione con la sentenza n. 8059 del 21.04.2016, se ne è contrapposto un
secondo, con cui l’Agenzia ha chiarito invece che laddove un contribuente “cessi
l’attività quando ancora esistono compensi fatturati e non ancora
riscossi……. è rimessa alla scelta del contribuente la possibilità di
determinare il reddito relativo all’ultimo anno di attività tenendo conto
anche delle operazioni che non hanno avuto in quell’anno manifestazione
finanziaria” (circolare 17/E/2012, paragrafo 5.1).
Adottando questa interpretazione, seguita anche nella prassi, appare
possibile procedere alla fatturazione di tutti i compensi, compresi quelli
ancora non riscossi e, successivamente, cessare l’attività professionale,
computando nell’ultima dichiarazione annuale Iva anche le operazioni per le
quali si è anticipata l’esigibilità dell’imposta rispetto al momento
dell’effettivo incasso. Quest’ultima soluzione -che appare preferibile per
gli specialisti del settore- prospetta la possibilità di cessare l’attività
professionale “anticipatamente” rispetto alla manifestazione
finanziaria delle operazioni in essere ed evita problemi di incompatibilità
nell’ambito del pubblico impiego
(tratto da e link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
aprile 2020 |
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PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Compenso
vice-segretario.
Domanda
Nel caso in cui un titolare di posizione organizzativa venisse nominato vice
segretario, quali sono le possibilità di remunerazione di tale funzione ed i
limiti ai quali la stessa retribuzione è sottoposta?
Risposta
Si rileva preliminarmente che l’art. 97 del d.lgs. 267/2000, al comma 5,
stabilisce che il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi
può prevedere un vice segretario per coadiuvare il segretario o sostituirlo
nei casi di vacanza, assenza o impedimento.
L’ente, quindi, nell’ambito delle proprie scelte regolamentari, mediante le
quali esercita la propria potestà auto organizzatoria individua, qualora
voglia esercitare la facoltà di prevedere la figura del vice segretario, il
posto, i requisiti e le relative funzioni.
L’art. 45 del d.lgs. 165/2001 (Testo Unico Pubblico Impiego), come
modificato dal d.lgs. 150/2009 stabilisce l’importante principio che Il
trattamento economico fondamentale ed accessorio del personale del pubblico
impiego è definito dai contratti collettivi.
Tale principio è stato richiamato dall’ARAN in un parere fornito ad un ente
(SEG_047), riferito alla possibilità di estendere la maggiorazione relativa
alla segreteria convenzionata, di cui all’art. 45 del CCNL segretari
comunali e provinciali del 16/05/2001, anche al vice segretario.
L’Agenzia ha chiarito che al vice segretario, non essendo lo stesso
dirigente, non si può estendere, per analogia, la disciplina applicabile al
personale dirigenziale.
I contratti collettivi vigenti non prevedono compensi aggiuntivi per il
dipendente nominato vice segretario al di fuori delle previsioni contenute
nell’art. 11 del CCNL 09/05/2006.
Se lo stesso dipendente è titolare di posizione organizzativa allo stesso
sarà corrisposta la retribuzione di posizione e risultato con le modalità ed
i limiti di cui all’art. 15 del CCNL 21/05/2018 (30.04.2020
- link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
I dubbi degli Enti sulla corretta applicazione delle
norme antipandemiche.
Ancora prosegue la sequenza di dubbi ed incertezze che attanagliano le
amministrazioni pubbliche dopo l’intervento dei numerosi provvedimenti di
normazione d’urgenza che il Governo ha adottato per arginare la diffusione
della pandemia da COVID-19.
I provvedimenti di normazione primaria e secondaria via via varati dal
Governo, infatti, hanno determinato una serie di prescrizioni che interessa
anche la disciplina del lavoro pubblico, finalizzata a regolare una fase,
che si auspica effettivamente transitoria, nella quale si devono conciliare
esigenze assai diversificate, che vanno dal normale funzionamento dei
servizi istituzionali ed indifferibili degli enti, all’ordinata tenuta degli
istituti correlati alla gestione del rapporto di lavoro dei dipendenti del
settore pubblico, fino all’esigenza di contrastare e contenere, il più
possibile, il fenomeno diffusivo di questa pandemia.
In questo quadro di emergenza assoluta e generale le richieste di aiuto
delle amministrazioni non si placano, come dimostrano i quesiti che
continuano a pervenire. Di seguito alcuni esempi.
Egregi, vorrei sapere se, in questa fase di emergenza, è
possibile liquidare ulteriori buoni pasto (normalmente sono due a settimana)
alla polizia municipale ed anche al Comandante (Dirigente della P.L.).
Gli stessi ne hanno fatto già richiesta anche per i giorni in cui, oberati
dall'emergenza stanno svolgendo lavoro straordinario per sopperire agli
eventi eccezionali.
Con riferimento al quesito posto si ritiene ammissibile che
l’amministrazione riconosca buoni pasto agli addetti alla Polizia Municipale
impiegati nell’ambito delle attività derivanti dalle misure di contenimento
dell’estensione pandemica, ulteriori rispetto a quelli normalmente erogati.
Tale riconoscimento, tuttavia, potrà essere ammissibile esclusivamente
laddove sussistano tutte le condizioni prescritte dal vigente quadro
normativo, in particolare dall’art. 45, comma 2, del Ccnl 14.09.2000 del
comparto Regioni ed Enti Locali, il quale prescrive, in materia che “2.
Possono usufruire della mensa i dipendenti che prestino attività lavorativa
al mattino con prosecuzione nelle ore pomeridiane, con una pausa non
superiore a due ore e non inferiore a trenta minuti. La medesima disciplina
si applica anche nei casi di attività per prestazioni di lavoro
straordinario o per recupero. Il pasto va consumato al di fuori dell'orario
di servizio.”.
Si ricorda, altresì, per quanto attiene all’istituto in parola, la
statuizione dettata dall’art. 13 del successivo Ccnl 09.05.2006, a mente
della quale "1. Nell’ambito della complessiva disciplina degli artt. 45 e
46 del Ccnl del 14.09.2000, gli enti individuano, in sede di contrattazione
decentrata integrativa, quelle particolari e limitate figure professionali
che, in considerazione dell’esigenza di garantire il regolare svolgimento
delle attività e la continuità dell’erogazione dei servizi e anche
dell’impossibilità di introdurre modificazioni nell’organizzazione del
lavoro, con specifico riferimento a quelli connessi all’area della
protezione civile, all’area della vigilanza e all’area scolastica ed
educativa ed alla attività delle biblioteca, fermo restando l’attribuzione
del buono pasto, possono fruire di una pausa per la consumazione dei pasti
di durata determinata in sede di contrattazione decentrata integrativa, che
potrà essere collocata anche all’inizio o alla fine di ciascun turno di
lavoro.”.
Si ritiene, inoltre, che tali oneri sostenuti dalle amministrazioni
pubbliche -ferma restando, comunque, la sussistenza delle condizioni
erogative del buono-pasto- possano essere computati nell’ambito degli
appositi fondi stanziati dal Governo ai sensi dell’art. 115, commi 1 e 2, Dl
18/2020, il quale prevede che, per il corrente anno 2020, le risorse
destinate al finanziamento delle prestazioni di lavoro straordinario del
personale della polizia locale dei comuni, delle province e delle città
metropolitane direttamente impegnato per le esigenze conseguenti ai
provvedimenti di contenimento del fenomeno epidemiologico da COVID-19 e
limitatamente alla durata dell’efficacia delle relative disposizioni
attuative, siano finanziate attraverso un apposito fondo costituito presso
il Ministero dell’Interno e non siano soggette ai limiti del trattamento
accessorio previsti dall'articolo 23, comma 2, Dlgs 75/2017.
Si è dell’avviso, infatti, che, laddove l’erogazione del buono-pasto sia
strettamente collegata a prestazioni in orario straordinario rese dal
personale della polizia locale per fronteggiare le esigenze di contrasto
alla diffusione pandemica, l’onere conseguente a tale riconoscimento possa
pienamente rientrare nei previsti trasferimenti statali, trattandosi di
adempimento contrattuale strettamente strumentale all’effettuazione di
attività in orario straordinario.
Vi indico di seguito le domande che vorrei fare:
1) durante la prestazione dell'attività lavorativa in modalità
"Lavoro agile", le indennità collegate all'effettiva presenza in servizio di
cui all'art. 70-bis del Ccnl 21.05.2018 vanno riconosciute?
2) nel periodo di esenzione previsto dall'art. 87, Dl 17.03.2020 al
personale educatore dell'asilo nido comunale va riconosciuta l'indennità di
cui all'art 31 Ccnl 14.09.2000, e agli altri dipendenti vanno riconosciute
le indennità collegate all'effettiva presenza in servizio di cui all'art. 70-bis del Ccnl 21.05.2018?
3) con circolare n. 45 del 2020 Inps (messaggio n. 1516 del
07.04.2020) è stata prorogato al 13 aprile la possibilità di fruire del
congedo di cui all’articolo 23, Dl 18/2020 per la cura dei figli durante il
periodo di sospensione delle attività scolastiche Circolare 45/2020, in
favore dei lavoratori dipendenti del settore privato, dei lavoratori
iscritti alla Gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge
08.08.1995, n. 335, e dei lavoratori autonomi. Detta proroga è valida anche
per i dipendenti pubblici?
In relazione ai diversi quesiti formulati si ritiene utile rappresentare
quanto segue. La prestazione lavorativa resa mediante la forma del lavoro
agile, di cui agli artt. 18-23, legge 81/2017, costituisce una specifica
modalità di assolvimento dell’obbligazione contrattuale, da parte del
lavoratore, che muta il contesto spaziale e temporale di erogazione
prestazionale, potendo incidere, altresì, in taluni casi, anche sui fattori
circostanziali di effettuazione della stessa.
Ciò sta a significare che gli emolumenti economici di natura indennitaria
riconosciuti, al lavoratore, nel contesto della normale produzione
dell’attività lavorativa potrebbero subire modificazioni a seguito della
diversa modalità di prestazione resa in lavoro agile. Si pensi, ad esempio,
per stare nell’ambito del sistema contrattuale del comparto Funzioni Locali,
all’indennità per le specifiche condizioni di lavoro disciplinata dall’art.
70-bis del Ccnl 21.05.2018, la quale, nella sua configurazione giuridica di
origine contrattuale, assorbe le “vecchie” indennità di rischio, di
disagio e di maneggio valori.
Laddove, infatti, tale emolumento venisse riconosciuto al dipendente in
ragione dell’esposizione dello stesso a particolari fattori di rischio e/o
di disagio nell’esplicazione della prestazione lavorativa a mezzo della
tradizionale forma di presenza sul posto di lavoro, potrebbe essere
plausibile, per contro, che tale esposizione, nella diversa formula di
esecuzione della stessa prestazione attraverso il lavoro agile, possa venir
meno a seguito della variata modalità di fornitura dell'attività lavorativa,
determinando, di conseguenza, la sopravvenuta elisione dei presupposti
giuridici e fattuali di riconoscimento di tale emolumento.
Per quanto attiene, poi, al periodo di eventuale esenzione dal lavoro di cui
all’art. 87, comma 3, Dl 18/2020, si è dell’avviso per il quale non possano
essere riconosciuti istituti economici di carattere effettivamente
indennitario, ovvero presupponenti l’effettiva prestazione di lavoro, in
ragione dell’assenza, nel caso di specie e per tali componenti economiche,
dei presupposti giuridici che legittimano detto riconoscimento retributivo.
I compensi che presentano concreta origine indennitaria, infatti, adducono,
quale presupposto indefettibile, la necessità della effettiva prestazione di
lavoro resa, dal dipendente interessato, in presenza fisica o in lavoro
agile, ove permangano i presupposti, in assenza della quale, a qualsiasi
motivo dovuta, come anche per l’esenzione dal servizio indicata nel quesito,
il regime indennitario non può giuridicamente funzionare per la finalità
tipica per la quale è stato normativamente congegnato, con conseguente
impossibilità riconoscitiva che, non di meno, in tal caso, solo una norma di
legge o contrattuale generale potrebbe espressamente consentire in deroga al
funzionamento ontologico di tale istituto.
Infine, per ciò che concerne l’impiego dello speciale congedo disciplinato
dall’art. 23 del richiamato Dl 18/2020, il successivo art. 25 del decreto
stesso, che ne estende l’applicazione anche ai lavoratori del settore
pubblico, prescrive espressamente che, a decorrere dal 5 marzo 2020, in
conseguenza dei provvedimenti di sospensione dei servizi educativi per
l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado,
di cui al Dpcm 04.03.2020, e per tutto il periodo della sospensione ivi
prevista, i genitori lavoratori dipendenti del settore pubblico hanno
diritto a fruire del predetto congedo e della relativa indennità.
Tale estensione legislativa è da intendersi, ad oggi, riferita alla
sospensione dei servizi educativi e scolastici di ogni ordine e grado
disposta dall’art. 1, comma 1, lett. k), del recente Dpcm 10.4.2020, con
effetti protratti sino al 3 maggio p.v., secondo le prescrizioni di vigenza
dettate dall’art. 8, comma 1, del Dpcm stesso, di talché la fruizione
dell’istituto in parola è da ritenersi operante sino a tale termine di
sospensione dei servizi in questione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
29.04.2020). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Amministrazioni in difficoltà nella giungla delle
disposizioni emergenziali.
Non è ancora finita: continuano a giungere norme e disposizioni che, nel
tentativo di riordinare prescrizioni già in vigore o già superate per
disapplicazione o per spirare del termine di efficacia, aggiungono
statuizioni su statuizioni, progressivamente stratificando un insieme di
norme che, varate nel giro di pochi mesi, non ha un precedente in questo
Paese.
Questo la dice lunga sulla situazione di emergenza che stiamo vivendo, come
di emergenza oramai si parla per la ridda di previsioni normative, di legge
ed amministrative, che tutti gli operatori di sistema sono chiamati ad
applicare, non ultimi gli addetti ai servizi del Personale che, in prima
linea sull’attuazione delle previsioni legislative e delegificate che
regolano questo straordinario momento di lotta al virus COVID-19, si
dibattono tra disposizioni normative speciali ed istituti transitori di
nuovo conio in grado di mettere a dura prova competenze, preparazione,
organizzazione e pervicacia nel tenere la trincea di questa guerra senza
quartiere.
La prova di questa encomiabile tenacia e della particolare attenzione che
gli enti stanno ponendo nella pratica traduzione delle disposizioni
antipandemiche sta tutta nell’incessante flusso di questioni e di quesiti
che le amministrazioni pubbliche continuano a porre sul fronte attuativo
della normazione emergenziale, di cui offriamo, di seguito, alcuni
interessanti spunti.
Pongo un quesito (anzi due) in merito al congedo
straordinario di 15 giorni riconosciuto ai genitori dall’art. 25, comma 1,
Dl 18/2020.
Per la richiesta di tale congedo ho predisposto un modulo in cui il
dipendente dichiara anche tutte le altre condizioni rispetto al coniuge e
che non chiederà il voucher baby sitter.
In assenza di altre indicazioni, lo applicherei con le stesse modalità al
Dlgs 151/2001: se richiesto per un periodo continuativo, i 15 giorni
comprendono anche i giorni non lavorativi; se chiesti frazionatamente, si
contano i singoli giorni lavorativi, purché interrotti dalla ripresa (quindi
se chiedo il venerdì ed il lunedì, conto anche il sabato e la domenica).
Ora, una collega mi chiede il congedo dal 13 al 27 marzo, precisando però
che chiede 11 giorni: secondo me i giorni sono 15. Cosa ne pensate?
Inoltre ho un problema di questo tipo: una collega aveva chiesto congedo
parentale a ore per 4 mezze giornate, tra il 9 e il 16 marzo.
Ora l’art. 23, comma 2 del suddetto D.L. 18/2020 dice “Gli eventuali periodi
di congedo parentale di cui agli articoli 32 e 33 del citato decreto
legislativo 26.03.2001, n. 151, fruiti dai genitori durante il periodo di
sospensione di cui al presente articolo, sono convertiti nel congedo di cui
al comma 1 con diritto all’indennità e non computati né indennizzati a
titolo di congedo parentale”.
Credete che anche tali congedi ad ore siano convertibili? E ritenete quindi
possibile chiedere il congedo straordinario indennizzato al 50% ad ore?
In relazione ai quesiti posti, occorre preliminarmente delineare il quadro
normativo che regola le fattispecie.
In particolare, le disposizioni che qui interessano attengono all’art. 25,
comma 1, Dl 18 del 17.03.2020, il quale testualmente prescrive che "1. A
decorrere dal 05.03.2020, in conseguenza dei provvedimenti di sospensione
dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle
scuole di ogni ordine e grado, di cui al Decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri 04.03.2020, e per tutto il periodo della sospensione
ivi prevista, i genitori lavoratori dipendenti del settore pubblico hanno
diritto a fruire dello specifico congedo e relativa indennità di cui
all’articolo 23, commi 1, 2, 4, 5, 6 e 7. Il congedo e l’indennità di cui al
primo periodo non spetta in tutti i casi in cui uno o entrambi i lavoratori
stiano già fruendo di analoghi benefici.”, nonché, per quanto attiene al
secondo quesito posto, all’art. 23, comma 2, del ridetto Dl 18/2020, che
così statuisce: "2. Gli eventuali periodi di congedo parentale di cui
agli articoli 32 e 33 del citato Dlgs 151/2001, fruiti dai genitori durante
il periodo di sospensione di cui al presente articolo, sono convertiti nel
congedo di cui al comma 1 con diritto all’indennità e non computati né
indennizzati a titolo di congedo parentale.”.
Ciò evidenziato, pertanto, per quanto attiene alle modalità di calcolo
fruitivo del congedo straordinario e temporaneo di cui al citato art. 25,
comma 1, si ritiene che le stesse debbano essere conformi al normale sistema
di computo che, generalmente ed in assenza di specifiche disposizioni di
segno opposto, presiede tale tipologia di istituto, a differenza del metodo
di applicazione relativo al diverso istituto del “permesso”.
Tale regime attuativo del congedo, pertanto, conduce a ritenere che lo
stesso operi con riferimento alle giornate calcolate secondo il calendario
civile, ovvero ricomprendendo, nell’ambito dei periodi ininterrotti di
godimento, anche le giornate non lavorative, di riposto settimanale e di
festività infrasettimanali.
Nel caso di specie, pertanto, il periodo di fruizione richiesto attiene ad
un intervallo temporale privo di interruzione esteso, dal 13 al 27.03.2020,
per il quale, dunque, alla luce di quanto sopra rappresentato, il congedo di
che trattasi viene utilizzato per un periodo di quindici giorni e non,
invece, per gli undici giorni richiesti dalla dipendente.
Con riferimento al secondo quesito formulato, poi, si premette che, in
assenza di un’espressa previsione normativa, il congedo straordinario in
parola non possa essere utilizzato ad ore, posto che la norma prevede il
temine temporale di fruizione dello stesso calcolato a giornata, non
legittimando, pertanto, deroghe di sorta rispetto all’impiego per l’unità di
base temporale statuita dalla disposizione.
Relativamente, quindi, alla conversione del diverso regime congedale
previsto dagli art. 32 e 33, Dlgs 151/2001 nell’istituto in questione -in
disparte la circostanza per la quale tale conversione è da ritenersi
ammissibile esclusivamente laddove il regime economico applicato a seguito
di tale trasformazione sia maggiormente favorevole al lavoratore rispetto a
quello in godimento al momento di utilizzo del congedo parentale- si è
dell’avviso che la conversione prospettata nel quesito sia certamente
ammissibile, calcolando, infatti, le quattro mezze giornate già fruite a
titolo di congedo parentale in due giornate intere computate a titolo di
congedo straordinario ex cit. art. 25.
In riferimento alle disposizioni contrattuali sulla
cadenza di utilizzo delle ferie maturate al 31.12 e alle previsioni
dell’art. 87, Dl 18/2020 ritiene legittimo non assegnare le ferie relative
ad anni precedenti in questo momento di emergenza Covid-19 entro il
30.04.2020?
Si fa seguito al quesito posto per evidenziare quanto segue.
Occorre, preliminarmente, osservare, in materia di legittimo utilizzo delle
ferie annuali, che le vigenti norme contrattuali nazionali, non dissimili,
peraltro, dalle precedenti omologhe prescrizioni negoziali in materia,
fondano un principio generale e solo eccezionalmente derogabile, ovvero che
il periodo delle ferie maturate in un anno deve necessariamente essere
fruito nello stesso anno di maturazione, a tutela delle posizioni giuridiche
e di fatto dei lavoratori interessati, in funzione del recupero delle
energie psico-fisiche dagli stessi disperse nell’assolvimento annuale
dell’attività lavorativa di competenza.
L’art. 28, comma 9, del vigente Ccnl 21.05.2018 del comparto contrattuale
Funzioni Locali, infatti, scolpisce tale principio affermando, testualmente,
che “9. Le ferie sono un diritto irrinunciabile e non sono monetizzabili.
Esse sono fruite, previa autorizzazione, nel corso di ciascun anno solare,
in periodi compatibili con le esigenze di servizio, tenuto conto delle
richieste del dipendente.”.
Come si vede, dunque, il diritto-dovere del dipendente, prescritto
dall’assetto negoziale generale che regola la specifica materia, è
rappresentato dalla fruizione, normale ed ordinaria, dei giorni di ferie
maturati nell’anno di riferimento nello stesso anno solare, compatibilmente
con le esigenze di servizio. Tale principio di carattere generale, poi,
trova un tenue temperamento limitatamente a due sole fattispecie, per le
quali il termine di godimento dell’istituto può essere legittimamente
derogato mediante una proroga temporalmente contenuta del termine finale
annuale di fruizione.
E così, infatti, i commi 14 e 15 del richiamato art. 28 prescrivono che “14.
In caso di indifferibili esigenze di servizio che non abbiano reso possibile
il godimento delle ferie nel corso dell'anno, le ferie dovranno essere
fruite entro il primo semestre dell'anno successivo. 15. In caso di motivate
esigenze di carattere personale e compatibilmente con le esigenze di
servizio, il dipendente dovrà fruire delle ferie residue al 31 dicembre
entro il mese di aprile dell'anno successivo a quello di spettanza”.
Appare del tutto evidente, pertanto, come uno spostamento del limite
temporale annuale di fruizione dell’istituto in questione sia legittimamente
ammissibile esclusivamente con riferimento alle causali tassativamente
indicate dal riportato sistema contrattuale nazionale, ovvero, da un lato,
le indifferibili esigenze di servizio, per le quali il termine è, comunque,
ultimamente indicato nel semestre successivo al periodo annuale di
maturazione, e, dall’altro lato, le motivate esigenze di carattere
personale, che consentono la proroga del termine conclusivo di fruizione
delle ferie al 30 aprile dell’anno successivo a quello di maturazione.
Non vi sono altri termini di legittimo impiego di tale istituto che siano
sdoganati dal vigente ordinamento che regola la materia, tanto meno le
prescrizioni dettate dal Dlgs 66/2003 recante l'attuazione delle direttive
93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell'organizzazione
dell'orario di lavoro, il cui art. 10, comma 1, infatti, nel contesto della
disciplina dell’istituto, rimette ai contratti collettivi di lavoro la
facoltà, come nel caso di specie, di introdurre clausole migliorative
rispetto al generale assetto introdotto dalla norma di derivazione
comunitaria.
Alla luce, pertanto, di quanto rappresentato, si ritiene che in nessun caso
il lavoratore possa risultare titolare di ferie pregresse relative ad
annualità precedenti al 2019 e, per quanto attiene a tale annualità,
esclusivamente laddove il maturato non utilizzato consegua rigorosamente
alle ipotesi eccezionali e derogatorie sopra richiamate, per cui, con
specifico riferimento al quesito posto, si è dell’avviso che le giornate di
ferie ancora giacenti e maturate negli anni pregressi debbano
necessariamente essere fruite a tutela della posizione del lavoratore
interessato (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
28.04.2020). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Condanna
penale e commissione di concorso.
Domanda:
Un dipendente di categoria C, a tempo indeterminato, del nostro comune ha
subito una condanna penale, ancora in primo grado, per il reato di truffa
(art. 640 c.p.). Può svolgere il compito di segretario di una commissione di
concorso? È opportuno che lo faccia?
Risposta
Per rispondere al quesito occorre rifarsi alle disposizioni contenute
nell’articolo 35-bis, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, rubricato:
“Prevenzione del fenomeno della corruzione nella formazione di
commissioni e nelle assegnazioni agli uffici”.
Tale norma, inserita nel Testo Unico del Pubblico Impiego, dall’articolo 1,
comma 46, della legge 06.11.2012, n. 190 (cosiddetta: legge Severino, in
materia di prevenzione della corruzione), prevede che coloro che sono stati
condannati, anche con sentenza non passata in giudicato, per i reati
previsti nel capo I, del titolo II, del libro secondo del codice penale non
possono fare parte, anche con compiti di segreteria, di commissioni per
l’accesso o la selezione a pubblici impieghi.
Il richiamo normativo include nel divieto gli articoli da 314, sino a
335-bis, del codice penale e concerne tutta la casistica dei delitti dei
pubblici ufficiali contro la Pubblica amministrazione, anche con sentenza di
primo o secondo grado.
Tra questi reati ostativi, quindi, NON compare il reato di truffa, per cui
il vostro dipendente potrebbe ricoprire l’incarico di segretario della
commissione di concorso, non ricorrendo la fattispecie disciplinata
nell’art. 35-bis del d.lgs. 165/2001.
Per quanto riguarda l’opportunità di tale nomina non è possibile fornire
indicazioni di sorta, trattandosi di questione rimessa alla libera
valutazione del dirigente/funzionario che sarà chiamato a nominare la
commissione giudicatrice del concorso. A mero titolo di indicazione, si
suggerisce di valutare la possibilità di evitare la nomina, in presenza,
nell’organico comunale, di altro dipendente in grado di svolgere il medesimo
compito.
A completamento informativo, si ricorda che l’articolo 87, comma 5, del
decreto-legge 17.03.2020, n. 18 e l’articolo 4 del decreto-legge 08.04.2020,
n. 22, hanno stabilito la sospensione delle prove concorsuali per sessanta
giorni dalla data del 17.03.2020. La sospensione non riguarda la procedura
di nomina della commissione che può essere disposta anche prima del
17.05.2020 (28.04.2020
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Coronavirus:
ancora incertezze applicative sulle disposizioni emergenziali in materia di
lavoro pubblico.
I quesiti operativi posti dalle amministrazioni continuano a riguardare
quelle situazioni limite, non trattate direttamente dalla normazione
d’urgenza, che devono essere risolte tenendo conto della disciplina legale e
contrattuale dei singoli istituti di cui costituiscono estensione o con il
ricorso ai principi generali che governano il rapporto di lavoro alle
dipendenze delle amministrazioni pubbliche.
Di seguito una selezione di quesiti riguardanti i concorsi pubblici,
l’utilizzo dei congedi parentali, e le assenze per dipendenti in condizioni
di disabilità più o meno grave.
Un Ente ha bandito un concorso per il quale le domande
di partecipazione scadevano dopo l'entrata in vigore dei provvedimenti che
prevedono "la sospensione delle procedure concorsuali " a meno che
che.........etc., cosa deve fare l'Ente?
Con riferimento al quesito posto, si ribadisce che l’art. 87, comma 5, Dl
18/2020 sospende per 60 giorni, quindi fino al 16 maggio, tutte le procedure
concorsuali per l’accesso al pubblico impiego per le quali devono svolgersi
le prove in presenza fisica dei candidati. Se si rientra in questa ipotesi a
nulla rileva che l’indizione della procedura concorsuale sia avvenuta prima
dell’entrata in vigore del predetto decreto legge.
Le ipotesi in cui le procedure concorsuali possono proseguire sono quelle
per le quali si procede alla sola valutazione su basi curriculari, ovvero in
modalità telematica, ovvero ancora quelle per le quali risultava già
completata la valutazione dei candidati. In estrema sintesi, quindi, le
procedure concorsuali attivabili e, se già attivate, effettuabili non devono
determinare spostamenti dei soggetti interessati (candidati) sul territorio,
quale inibizione dettata dalla prevenzione diffusiva della pandemia in atto.
Buongiorno, chiedo come conciliare il congedo parentale
al 30% fruito a mezza giornata con il congedo genitori di cui all'art. 25,
Dl 18/2020. Caso: dal 5 marzo al 17 marzo fruizione di 8 mezze giornate di
congedo al 30%.
1) Come converto le suddette giornate pregresse di marzo nel
congedo art. 25? Si conteggiano 4 giornate intere, oppure non sono
convertibili penalizzando l'interessata?
2) Dal 18 marzo la collega è in smart working: può fruire del
congedo parentale al 30% a mezza giornata? Può fruire del congedo genitori
art. 25 a mezza giornata?
Con riferimento ai quesiti posti, si rappresenta quanto segue.
I congedi parentali usufruiti a partire dal 5 marzo devono essere convertiti
nello specifico congedo previsto dall’art. 23, comma 1, del decreto legge n.
18/2020 e fino a concorrenza delle 15 giornate ivi previste. Ovviamente tale
conversione, essendo dettata nell’interesse del lavoratore, non può operare
laddove la fruizione del congedo parentale in atto abbia dato luogo, per
espresse previsioni migliorative dettate dalle norme contrattuali di
comparto, ad un trattamento economico superiore a quello previsto dalla
norma di legge in questione, atteso che, in caso contrario, la disposizione
legislativa avrebbe introdotto una previsione pregiudizievole rispetto alla
posizione economica del lavoratore e non, invece, maggiormente favorevole a
tutela dello stesso.
La richiamata disposizione legislativa, non consente alcun impiego
frazionato inferiore alla singola giornata che compone il periodo
complessivo di fruizione dell’istituto, tenuto anche conto della specifica
ratio dell’istituto e la sua natura eccezionale, che non consente
applicazioni analogiche o assimilative di modalità fruitive applicate ad
altri diversi istituti legali o contrattuali.
Si deve ritenere, infatti, che la frazionabilità ad ore del congedo non sia
possibile in quanto l’unico riferimento contenuto nell’art. 23 prevede la
possibilità di utilizzare i 15 giorni in modo continuativo o frazionato, ma
tale ultima formulazione non sembra riferirsi alla frazionabilità ad ore del
congedo, bensì alla singola giornata che compone il periodo complessivo
previsto dalla legge; manca, altresì, un espresso riferimento al Dlgs
151/2001, come, per contro, avviene all’art. 24 per i permessi di cui alla
Legge 104/1992, per cui non sembrerebbe trattarsi di una estensione dei
congedi parentali ivi previsti, che ne avrebbe, viceversa, consentito la
fruibilità ad ore, anche per il richiamo effettuato dall’art. 43 del Ccnl
21.05.2018.
Per quanto riguarda il primo quesito e limitatamente alla fruizione del
congedo utilizzato prima dell’entrata in vigore del decreto-legge, si deve
ritenere che la conversione possa operare nel senso indicato nel quesito,
ovvero calcolando 4 intere giornate; ciò in quanto la previsione dello
stesso decreto-legge non può che far salve, ai fini della conversione
espressamente prevista, le modalità fruitive legittimamente operate prima
della sua entrata in vigore.
Relativamente al secondo quesito si ritiene che la fruizione debba essere
calcolata per giornate intere e debba riguardare, fino al raggiungimento
delle 15 giornate previste dall’art. 23, comma 1, Dl 18/2020, esclusivamente
lo specifico congedo ivi previsto. Si deve osservare, inoltre, come
generalmente e fatta salva una diversa previsione normativa, l’istituto del
congedo, a differenza di quello del permesso, produce effetti giuridici e
viene calcolato secondo il calendario civile, per cui il relativo periodo di
fruizione ricomprende, nel computo delle giornate di godimento, anche i
giorni di riposo settimanale (normalmente la domenica), i giorni festivi e
quelli non lavorativi.
Tale forma di fruizione e di corrispondente calcolo, infatti, costituisce
elemento differenziale di tale istituto dal permesso, il quale, normalmente,
produce gli effetti che gli sono propri di giustificazione dell’assenza dal
lavoro da parte del dipendente, esclusivamente in relazione ai giorni in cui
viene effettivamente prestata l’attività lavorativa, cioè alle giornate
nelle quali la prestazione deve essere resa, escludendo, quindi, dalla
portata applicativa dello stesso, le giornate in cui l’attività lavorativa
non viene legittimamente prestata a diverso titolo.
Da tale considerazione, pertanto, consegue che, laddove s'intendesse
estendere, all’istituto del congedo, la stessa efficacia giuridica propria
del permesso, trattandosi di operatività derogatoria, la norma, legale o
contrattuale, che ne dettasse la relativa disciplina dovrebbe
necessariamente disporre espressamente in tal senso. L’assenza di tale
previsione nel contesto normativo che regola lo specifico istituto,
conclusivamente, depone a favore dell’impossibilità applicativa del congedo
di che trattasi limitata alle sole giornate in cui viene prestata l’attività
lavorativa, dovendosi ritenere, pertanto, che il beneficio, in carenza di
specifiche previsioni normative al riguardo, debba essere fruito e calcolato
secondo il normale calendario civile, comprensivo, dunque, delle giornate di
riposo settimanale, dei giorni festivi e di quelli non lavorativi.
Ai sensi dell'articolo 26, Dl 18/2020, fino al 30
aprile, i dipendenti disabili gravi riconosciuti tali ai sensi dell'art. 3,
comma 3, Legge 104/1992, possono assentarsi dal lavoro e tale assenza è
equiparata al ricovero ospedaliero. La norma parla di "il periodo di assenza
prescritto dalle competenti autorità sanitarie": ciò significa che il
dipendente deve farsi redigere un certificato medico di malattia?
Con riferimento al quesito posto la disabilità con connotazioni di gravità
ai sensi dell’art. 3, comma 3, Legge 104/1992, deve essere accertata dalle
aziende sanitarie locali mediante le commissioni mediche di cui all'art. 1,
Legge 295/1990, che sono integrate da un operatore sociale e da un esperto
dei casi da esaminare, in servizio presso le aziende sanitarie locali.
Nel caso in cui gli accertamenti riguardino persone in età evolutiva, le
commissioni mediche sono composte da un medico legale, che assume le
funzioni di presidente, e da due medici, di cui uno specialista in pediatria
o in neuropsichiatria infantile e l'altro specialista nella patologia che
connota la condizione di salute del soggetto. Tali commissioni sono
integrate da un assistente specialistico o da un operatore sociale, o da uno
psicologo in servizio presso strutture pubbliche.
Analogamente per i soggetti che presentino “una minorazione fisica,
psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà
di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da
determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione” (art.
3, comma 1, Legge 104/1992), non connotata da particolare gravità, è
possibile riconoscere lo stesso beneficio (assenza equiparata a ricovero
ospedaliero) qualora vi sia una certificazione rilasciata dai competenti
organi medico legali dell’azienda sanitaria di competenza, che attesti una
condizione di rischio derivante:
a) da immunodepressione;
b) da esiti da patologie oncologiche;
c) dallo svolgimento di relative terapie salvavita.
Occorre osservare, tuttavia, nel caso di specie, che, da un lato, la ratio
normativa sottesa alle prescrizioni dettate dal comma 2, dell’art. 26, Dl
18/2020, che appare chiaramente finalizzata a tutelare, anche negli
spostamenti lavorativi, personale svantaggiato ed in particolare situazione
di maggiore esposizione al rischio infettivo, e, dall’altro lato, la
previsione espressamente dettata dal comma 6 del ridetto art. 26 che fa
espresso riferimento al medico curante, la certificazione della condizione
di rischio di cui sopra possa essere rilasciata anche dal medico
appartenente al servizio sanitario nazionale o con questo convenzionato
(medico di base o medico di medicina generale convenzionato) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
27.04.2020). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Disabili
e diritto precedenza.
Domanda
Come funziona il diritto di precedenza per l’assunzione dei lavoratori
disabili previsto dall’art. 36, comma 2, del d.lgs. 165/2001?
Risposta
Il posto di ruolo riservato ai lavoratori disabili (in quota d’obbligo) può
essere coperto riconoscendo al lavoratore citato il diritto di precedenza se
sono rispettati i seguenti presupposti:
• il lavoratore è disoccupato e iscritto nelle liste dei lavoratori
con disabilità che beneficiano del collocamento obbligatorio;
• il suo precedente rapporto di lavoro con lo stesso ente
(comprensivo della proroga, che, a differenza del rinnovo, consiste nel
concordare, prima dell’originaria scadenza del rapporto, un posticipo del
termine finale del rapporto stesso) ha avuto una durata di almeno 6 mesi e
atteneva alle stesse mansioni previste per il posto che si intende coprire
in modo stabile;
• il lavoratore ha dato il suo consenso all’esercizio di questo
diritto di precedenza entro 6 mesi dalla cessazione del rapporto a termine;
• il primo giorno del rapporto di ruolo non è oltre i 12 mesi
dall’ultimo giorno del rapporto a termine.
Considerato che si tratta di assunzioni che devono comunque essere svolte in
collaborazione con i servizi territoriali per l’impiego e per il
collocamento mirato, è necessario che la procedura si attenga alle
istruzioni di dettaglio fornite da tali servizi.
In generale, la procedura deve includere i seguenti passaggi.
1) Il piano triennale dei fabbisogni di personale deve prevedere il
fabbisogno stabile dell’unità lavorativa di cui si tratta a partire
dall’anno nel quale si intende procedere all’assunzione di ruolo e dare atto
che l’ente intende riservare il posto ai lavoratori con disabilità ai fini
della copertura della quota d’obbligo prevista dalla legge 68/1999.
2) È necessario segnalare ai servizi per l’impiego sia la
scopertura nelle quote assunzionali d’obbligo riservate ai lavoratori con
disabilità, sia le caratteristiche del posto che si intende coprire (in
particolare: mansioni e requisiti di accesso), sia tutte le circostanze
sopra richiamate che dimostrano la sussistenza dei presupposti per
l’esercizio del diritto di precedenza da parte del lavoratore che aveva
svolto il rapporto a termine (indicando naturalmente i dati personali di
quest’ultimo lavoratore).
3) A seguito della verifica da parte dei servizi territoriali per
l’impiego dei presupposti di cui sopra, andrà stipulata –con gli stessi
servizi– un’apposita convenzione che preveda la chiamata diretta del
lavoratore beneficiario del diritto di precedenza, ai sensi dell’art. 11
della legge 68/1999.
Per quanto riguarda gli adempimenti per la trasparenza si ricorda che:
•– il piano triennale dei fabbisogni di personale, comprendente le
informazioni sopra citate, deve essere pubblicato nell’ambito di
Amministrazione Trasparente – Personale – Dotazione Organica, ed essere
trasmesso al Dipartimento della Funzione Pubblica – Mef mediante
l’applicativo Sico, entro 30 giorni dalla sua approvazione o aggiornamento
(art. 6-ter d.lgs. 165/2001);
•– vanno pubblicate le informazioni cui fa riferimento il seguente
passaggio della stessa direttiva 1/2019:
“In ragione poi di quanto previsto dall’articolo 1 del decreto legislativo
14.03.2013, n. 33, recante “Riordino della disciplina riguardante il
diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e
diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni”,
secondo cui, in base al comma 1, la trasparenza è intesa come accessibilità
totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo
scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione
degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di
controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo
delle risorse pubbliche, è plausibile ritenere che le amministrazioni
debbano pubblicare sul proprio sito istituzionale i dati relativi alla quota
d’obbligo e alle procedure attivate per la copertura della stessa, fermo
restando quanto previsto dall’articolo 39-quater, comma 2, del d.lgs.
165/2001.
In particolare, le amministrazioni dovranno indicare:
– la dotazione organica necessariamente distinta per aree o
categorie;
– il numero delle persone con disabilità da assumere in base alle
previsioni dell’articolo 3 della legge 68/1999;
– il numero delle persone con disabilità già reclutati a copertura
della quota obbligatoria;
– le procedure avviate per il collocamento obbligatorio, con
indicazione del tipo di avviamento al lavoro, comprese le eventuali
convenzioni ai sensi dell’articolo 11 della legge 68/1999, finalizzate al
completamento della quota obbligatoria”.
Naturalmente i dati personali del lavoratore non vanno pubblicati (23.04.2020
- link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto:
Individuazione dell’organo competente all’adozione del provvedimento
motivato di “rotazione straordinaria”, ai sensi dell’art. 16, co. 1, lett.
l-quater), del d.lgs. 30.03.2001, n. 165, nelle amministrazioni.
Riferimenti normativi:
art. 16, co. 1, lett. l-quater) del d.lgs. 30.03.2001, n. 165 - Artt.
319-quater c.p. e 335 c.p.p. - art. 107 e ss. del d.lgs. 18.08.2000, n. 267
Massima
L’organo competente, nelle amministrazioni centrali, all’adozione del
provvedimento motivato di “rotazione straordinaria” di cui all’art. 16, co.
1, lett. l-quater), del d.lgs. 30.03.2001, n. 165 è il dirigente degli
uffici dirigenziali generali o, per analogia, il responsabile di uffici
“complessi”.
Analogamente, negli enti locali, l’adozione del provvedimento di “rotazione
straordinaria” spetta ai dirigenti degli uffici dirigenziali generali, ove
presenti, o al Segretario comunale, laddove il Sindaco abbia conferito, con
atto di delega, a quest’ultimo dette funzioni in base all’art. 108, d.lgs.
267 del 2000.
Nel caso in cui il provvedimento di rotazione interessi il Direttore
generale, è il Sindaco che ha conferito l’incarico a valutare, in relazione
ai fatti di natura corruttiva per i quali il procedimento è stato avviato,
se confermare o meno il rapporto fiduciario.
Tale valutazione spetta al Sindaco anche nel caso in cui il provvedimento
interessi il Segretario comunale
Negli enti di ridotte dimensioni, privi di dirigenti e di direttore
generale, le cui funzioni rimangono in capo all’Organo di indirizzo
politico, l’adozione del provvedimento di “rotazione straordinaria” spetta a
quest’ultimo.
In nessun caso la competenza dell’adozione del provvedimento di “rotazione
straordinaria” può essere posta in capo al RPCT.
Parole chiave
“Rotazione straordinaria” – “art. 16, co. 1, lett. l-quater), del d.lgs.
30.03.2001, n. 165” – “reato di induzione indebita” “rinvio a giudizio”
“competenza” “adozione del provvedimento motivato” - “amministrazioni
centrali” - “enti locali” - Delibera ANAC 215 del 26.03.2019
(delibera
22.04.2020 n. 354 - link a www.anticorruzione.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ancora
incertezze applicative sulla normativa emergenziale in materia di lavoro
pubblico.
L’utilizzo delle ferie e dei congedi straordinari costituiscono ancora temi
sui quali vi sono dubbi interpretativi che, nonostante lo sforzo del
Dipartimento della Funzione pubblica con le risposte fornite sul sito
istituzionale, meritano ancora la giusta attenzione al fine di fornire un
adeguato supporto alla soluzione dei casi concreti che si presentano
all’attenzione dei dirigenti chiamati a rispondere alle richieste dei propri
collaboratori.
Di seguito vengono fornite risposte ad una ulteriore
selezione di quesiti.
Ho lavorato fino a venerdì scorso in un comune. Ho la
figlia studentessa universitaria rientrata da U.K. domenica notte, dove
hanno chiuso l'università per coronavirus. Ho comunicato all'amministrazione
lo stato di quarantena della ragazza ed il mio e della madre, in quanto
coabitiamo con la figlia, al medico di base ed al 112.
Ho proceduto a
comunicare per iscritto via mail all'amministrazione tale stato di autoquarantena per 14 giorni come da Dpcm ed ordinanze regionali Sardegna.
Dall'amministrazione mi comunicano che considereranno l'assenza come ferie.
Io credo che non potendo lasciare la residenza per motivi sanitari, non sia
così.
Potete darmi una risposta?
Il personale, impedito alla fornitura della prestazione lavorativa dalle
norme di contenimento della diffusione del coronavirus di cui ai Dpcm dell’8
marzo u.s., è soggetto alle disposizioni generali che regolano le assenze
dal lavoro dei dipendenti pubblici nel presente frangente di eccezionalità
determinato dall’emergenza pandemica di cui al COVID-19 in atto.
Ciò premesso, pertanto, la norma di riferimento, allo stato, è da ritenersi
individuabile nell’art. 87, comma 3, Dl 17.03.2020, n. 18, il quale dispone
letteralmente: "3. Qualora non sia possibile ricorrere al lavoro agile,
anche nella forma semplificata di cui al comma 1, lett. b), le
amministrazioni utilizzano gli strumenti delle ferie pregresse, del congedo,
della banca ore, della rotazione e di altri analoghi istituti, nel rispetto
della contrattazione collettiva. Esperite tali possibilità le
amministrazioni possono motivatamente esentare il personale dipendente dal
servizio. Il periodo di esenzione dal servizio costituisce servizio prestato
a tutti gli effetti di legge e l'amministrazione non corrisponde l'indennità
sostitutiva di mensa, ove prevista.”.
Come si vede, pertanto, le amministrazioni pubbliche -ove non sia possibile
utilizzare il personale dipendente mediante l’impiego del lavoro agile o
mediante diversa adibizione di tale personale ai servizi di competenza che
sono tenute ad assicurare (diversi da quelli di ordinaria destinazione) e
compatibilmente con l’esigibilità delle prestazioni riferite alla categoria
giuridica di inquadramento- devono preventivamente utilizzare tutte le
forme di istituti, legali o contrattuali, che giustifichino l’assenza dal
lavoro con mantenimento della retribuzione, ivi comprese le ferie pregresse,
da intendersi sia quella maturate nel corso del 2019 e non ancora fruite,
sia quelle maturate nel corso del 2020 sino al momento del collocamento
d’ufficio in ferie.
Solamente laddove sia esaurito o fosse oggettivamente
impossibile l’impiego di tali istituti e non sia, altresì, possibile
destinare diversamente il personale interessato, anche mediante l’utilizzo
dello stesso in modalità remota con smart working su altri servizi da
garantire, l’amministrazione potrà, eccezionalmente ed in via residuale, con
atto adeguatamente motivato (posto che viene erogata la retribuzione in
assenza di prestazione), collocare lo stesso in esenzione lavorativa, con
mantenimento del trattamento economico in godimento, alla stregua di
servizio prestato a tutti gli effetti di legge.
L’art. 19, comma 3, Dl.
9/2020 deve, quindi, ritenersi superato.
Dovendo giustificare le assenze del personale non
coinvolto, o solo parzialmente coinvolto in attività da rendere in presenza,
né avente possibilità di smart working o permessi particolari, si chiede se,
oltre alle ferie ancora spettanti per l'anno 2019 occorra cominciare ad
attingere anche a quelle del 2020.
In questa seconda ipotesi, alcuni
dipendenti potrebbero non avere più ferie per il periodo estivo.
L’amministrazione può disporre l’utilizzo delle ferie maturate nel corso del
2020 sino al momento del collocamento d’ufficio in ferie. Solamente laddove
sia esaurito o fosse oggettivamente impossibile l’impiego di tali istituti e
non sia, altresì, possibile destinare diversamente il personale interessato,
anche mediante l’utilizzo dello stesso in modalità remota con smart working
su altri servizi da garantire, l’amministrazione potrà, eccezionalmente ed
in via residuale, con atto adeguatamente motivato (posto che viene erogata
la retribuzione in assenza di prestazione), collocare lo stesso in esenzione
lavorativa, con mantenimento del trattamento economico in godimento, alla
stregua di servizio prestato a tutti gli effetti di legge.
Infatti
l’esenzione dal servizio costituisce l’estrema possibilità offerta alle
amministrazioni quando tutte le altre possibilità previste dalla normativa
non siano utilizzabili. Va, infine, precisato che, se è vero che l’art. 87
fa riferimento alle ferie pregresse, la possibilità di disporre la
collocazione in ferie del personale costituisce potere datoriale la cui
fonte è rinvenibile nell’art. 2109 del codice civile e, pertanto, riguarda
anche le ferie maturate fino alla data in cui ne viene disposta la
fruizione.
Una dipendente in congedo di maternità facoltativa,
sarebbe intenzionata a richiedere il congedo parentale straordinario
previsto dall’art. 25 , Dl 18/2020. Si rappresenta che:
a) la figlia di mesi cinque e non ha ancora iniziato a frequentare
il servizio educativo nido;
b) l’inserimento al nido era in fase di programmazione ma è stato
rimandato,
c) in situazioni” normali” la dipendente sarebbe rientrata al
lavoro.
Richiamato l’art. 25 del decreto legge n. 18/2020 a mente del quale non
viene elencato come requisito l’iscrizione ad un istituto scolastico o
servizio educativo, si chiede se sia corretto concedere la fruizione del
congedo straordinario.
Si deve ritenere che, l’espresso richiamo effettuato dall’art. 23, comma 2,
Dl 18/2020 degli artt. 32 e 33, Dlgs 151/2001, consente la conversione del
congedo parentale in quello disciplinato in via straordinaria dal comma 1
dell’art. 23.
Per le pubbliche amministrazioni non vi sono dubbi circa
l’applicabilità ai propri dipendenti considerato il richiamo espresso
effettuato dal successivo art. 25. La formulazione del primo comma dell’art.
23 consente di affermare che i 15 giorni di congedo straordinario sono un
diritto, per il cui esercizio è sufficiente avere dei figli di età non
superiore ai 12 anni, che non ammette ulteriori condizioni.
Il Comune di … gestisce direttamente un asilo nido, un
museo e una biblioteca. Dall’inizio dell’emergenza tutti e tre i servizi
sono stati chiusi e il relativo personale è a casa. L’art. 19, c. 3, Dl 02.03.2020, n. 9, considera servizio prestato a tutti gli effetti di legge i
periodi di assenza del personale imposti dai provvedimenti di contenimento
del fenomeno epidemiologico.
Questa situazione continua a coinvolgere anche
il museo e la biblioteca?
Con riferimento al quesito posto, occorre osservare che, ai sensi dell’art.
19, comma 3, del decreto-legge 02.03.2020, n. 9, fuori dei periodi trascorsi
in malattia o in quarantena con sorveglianza attiva, o in permanenza
domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva, che sono equiparati, dal
comma 1 del medesimo art. 19, al periodo di ricovero ospedaliero, i periodi
di assenza dal servizio dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche di
cui all'articolo 1, comma 2, Dlgs 165/2001, imposti dai provvedimenti di
contenimento del fenomeno epidemiologico costituiscono servizio prestato a
tutti gli effetti di legge.
In applicazione di tale previsione normativa,
pertanto, tutte le fattispecie di assenza dal lavoro di dipendenti
dell’amministrazione pubblica direttamente imposti dalla normativa
emergenziale di contrasto alla diffusione pandemica del coronavirus sono da
ritenersi equiparati a servizio effettivamente prestato.
Occorre, tuttavia, sottolineare che tale prescrizione si ritiene applicabile
ai soli casi in cui l’interdizione lavorativa sia conseguenza diretta e
prescrittiva dell’applicazione di disposizioni normative di lotta
all’emergenza epidemiologia e non, invece, alle diverse fattispecie
riconducibili alle più generali misure di contrasto affidate alle autonome
valutazioni delle singole amministrazioni nell’organizzazione e gestione dei
servizi di competenza istituzionale, per le quali valgono, viceversa le
misure dettate dall’art. 87 del recente decreto-legge 17.03.2020, n. 18.
Ai
presenti fini, poi, necessita fare riferimento alle limitazioni dettate, con
effetti sino al 3 aprile p.v., dall’art. 1, comma 1, let. l), Dpcm 08.03.2020,
estese, per effetto dell’art. 1, comma 1, Dpcm 09.03.2020, all’intero
territorio nazionale e con efficacia prodotta nel periodo dal 10.03.2020
sino, come cennato, alla data del 3 aprile p.v.. Tali statuizioni, in
particolare, prescrivono che, per il predetto periodo temporale, sono chiusi
i musei e gli altri istituti e luoghi della cultura di cui all'art. 101 del
codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui Dlgs 42/2004, il quale
annovera, nell’ambito delle proprie previsioni, quali istituti e luoghi
della cultura, i musei, le biblioteche e gli archivi, le aree e i parchi
archeologici, i complessi monumentali.
Ciò evidenziato, pertanto, atteso che l’impedimento lavorativo del personale
adibito ai predetti servizi consegue alla diretta attuazione di un'apposita
disposizione legislativa riferibile alle misure emergenziali di lotta alla
diffusione virale di che trattasi, è da ritenere che i dipendenti
dell’amministrazione pubblica adibiti alla gestione di tali servizi siano
esentati dalla prestazione lavorativa ai sensi di quanto disposto dal
ripetuto art. 19, comma 3.
A parere di chi scrive, tuttavia, tale esclusione della prestazione
lavorativa costituisce misura estrema, ancorché non soggetta ad alcuna
condizione prescritta per legge, in caso, cioè, d’impossibilità di diversa
utilizzazione dei lavoratori destinati ai servizi interessati, pur
nell’ambito del ruolo rivestito e del principio di esigibilità di tutte le
funzioni ascritte alla categoria giuridica d’inquadramento, atteso che lo
status di esentato dal lavoro implica un riconoscimento retributivo di
natura integrale a fronte della carenza di fornitura di alcuna attività di
lavoro, ciò che, infatti, se non adeguatamente giustificata
dall’impossibilità di diverso impiego del lavoratore, ben potrebbe tradursi
in un indebito patrimoniale per danno in pregiudizio degli interessi
pubblici di cui l’amministrazione è istituzionalmente portatrice (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
22.04.2020). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: I
dubbi delle amministrazioni nell'applicazione delle norme antipandemia.
Nella situazione emergenziale in cui ci troviamo oltre all’applicazione
delle norme straordinarie adottate dal governo con i poteri legislativi
conferitigli dalla Costituzione, in presenza dei presupposti straordinari di
necessità ed urgenza, immediatamente vigenti, in attesa della conversione in
legge, si presentano agli operatori problematiche che comunque devono essere
affrontate non essendovi alcuna moratoria degli atti di gestione del
rapporto di lavoro. Inoltre, in tema di utilizzo delle ferie permangono
ancora dubbi da parte delle amministrazioni.
Di seguito vengono affrontate
due problematiche molto diverse tra loro ma tutte riconducibili alla
gestione del rapporto di lavoro nelle amministrazioni pubbliche.
Un dipendente transitato in Camera di Commercio con
mobilità volontaria da ACI PRA (EPNE) ha diritto a mantenere con assegno
riassorbibile l'indennità di ente che percepiva presso il PRA, tenuto conto
che questa è stata definita dall'ARAN come fissa e ricorrente seppur
finanziata con le risorse decentrate?
Vale il divieto di reformatio in peius?
In relazione al quesito posto, si riscontra come segue.
Il sistema di
riferimento normativo allo stato vigente depone, inequivocabilmente, per il
definitivo superamento, con effetti dal 01.01.2014, del principio del
divieto di reformatio in pejus dettato, nell’ambito del pubblico impiego,
dal previgente ordinamento che regolava la specifica materia.
L’art. 1,
comma 458, legge 147/2013 (legge finanziari per l’anno 2014), infatti, ha
espressamente abrogato, dalla data di cui sopra, le disposizioni normative
che lo regolavano, statuendo, espressamente e lapidariamente, che l'articolo
202 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10.01.1957, n. 3, e l'articolo 3, commi 57 e 58, della legge 24.12.1993, n. 537, sono abrogati.
Le disposizioni che vengono così elise dall’ordinamento pubblico
prescrivevano, a loro volta, che, nel caso di passaggio di carriera presso
la stessa o diversa amministrazione, agli impiegati con stipendio superiore
a quello spettante nella nuova qualifica è attribuito un assegno personale,
utile a pensione, pari alla differenza fra lo stipendio già goduto ed il
nuovo, salvo riassorbimento nei successivi aumenti di stipendio per la
progressione di carriera, anche se semplicemente economica (cit. art. 202),
nonché che, nei casi di passaggio di carriera di cui al predetto art. 202 ed
alle altre analoghe disposizioni, al personale con stipendio o retribuzione
pensionabile superiore a quello spettante nella nuova posizione è attribuito
un assegno personale pensionabile, non riassorbibile e non rivalutabile,
pari alla differenza fra lo stipendio o retribuzione pensionabile in
godimento all'atto del passaggio e quello spettante nella nuova posizione,
fermo restando che tale assegno personale non è cumulabile con indennità
fisse e continuative, anche se non pensionabili, spettanti nella nuova
posizione, salvo che per la parte eventualmente eccedente.
Come si vede, dunque, il precedente regime era volto a preservare, in capo
al dipendente trasferito da una pubblica amministrazione ad altro ente
pubblico, il maturato economico conseguito presso l’amministrazione di
provenienza, ove più favorevole, considerato in termini di componenti
quiescibili, in particolare del trattamento fondamentale (trattamento
economico contrattuale tabellare ed altri elementi di composizione del
trattamento economico fondamentale, come la R.I.A., il maturato economico
differenziale, l’I.I.S. etc.), e di altre componenti che, ancorché
riconducibili al trattamento economico accessorio, presentassero le
caratteristiche della fissità e continuità erogativa, secondo le diverse
previsioni dei sistemi contrattuali nazionali in vigore, alla stregua di
elementi retributivi strettamente correlati al ruolo ed alla posizione
giuridica ricoperta dal lavoratore interessato, nonché caratterizzanti gli
stessi.
A seguito dell’elisione del predetto principio nel lavoro pubblico
privatizzato, pertanto, è stato, nel tempo, inaugurato un nuovo e diverso
principio regolatore, trasfuso nell’ambito del testo unico sul pubblico
impiego mediante la previsione di cui all’art. 30, comma 2-quinquies, Dlgs
165/2001, il quale, introdotto dall'art. 16, comma 1, lett. c), legge
246/2005, ha esplicitamente statuito che, salvo diversa previsione, a
seguito dell'iscrizione nel ruolo dell'amministrazione di destinazione, al
dipendente trasferito per mobilità si applica esclusivamente il trattamento
giuridico ed economico, compreso quello accessorio, previsto nei contratti
collettivi vigenti nel comparto della stessa amministrazione.
Tale principio, pertanto, non pare dare adito ad alcun dubbio circa le
modalità di riconoscimento economico al dipendente transitato, per cessione
contrattuale, alle dipendente di altra amministrazione pubblica, atteso che
la norma dispone testualmente che, allo stesso, si applica esclusivamente
sia il trattamento economico fondamentale -attraverso l’applicazione delle
previsioni dettate dal Dpcm 26.06.2015 in materia di definizione delle
tabelle di equiparazione fra i livelli d’inquadramento previsti dai
contratti collettivi relativi ai diversi comparti di contrattazione del
personale non dirigenziale– che il trattamento economico accessorio
disciplinato dai contratti collettivi nazionali ed integrativi di lavoro
vigenti nel comparto contrattuale cui è ascritta l’amministrazione di
destinazione.
Alla luce di tale criterio applicativo, pertanto, si ritiene
che, non potendosi più invocare l’abrogato principio del divieto di reformatio in pejus, al lavoratore pubblico transitato presso altra
amministrazione pubblica non possa essere applicato che il regime economico
e giuridico prescritto dal sistema contrattuale collettivo complessivamente
operante presso l’ente cessionario, non potendosi conservare e riconoscere,
dunque, assegni personali finalizzati all’osservanza del superato principio
garantista.
Ringraziando anticipatamente, chiedo se, per poter
attivare l'esenzione dal lavoro prevista dal Governo, nel conteggio delle
ferie pregresse sono comprese anche le giornate maturate da gennaio a marzo
2020.
Con riferimento al quesito posto, la norma di riferimento, ancorché non
indicata, si ritiene sia individuabile nell’art. 87, comma 3, Dl 18/2020, il
quale testualmente recita: "3. Qualora non sia possibile ricorrere al lavoro
agile, anche nella forma semplificata di cui al comma 1, lett. b), le
amministrazioni utilizzano gli strumenti delle ferie pregresse, del congedo,
della banca ore, della rotazione e di altri analoghi istituti, nel rispetto
della contrattazione collettiva. Esperite tali possibilità le
amministrazioni possono motivatamente esentare il personale dipendente dal
servizio. Il periodo di esenzione dal servizio costituisce servizio prestato
a tutti gli effetti di legge e l'amministrazione non corrisponde l'indennità
sostitutiva di mensa, ove prevista.”.
Tale prescrizione, com’è evidente, si
inserisce nell’ambito delle diverse misure d’urgenza varate dal Governo per
contrastare la diffusione pandemica, con la chiara finalità di scongiurare
spostamenti, sul territorio, di personale dipendente dell’amministrazione
pubblica, in ragione del contenimento del rischio di trasmissione virale
scatenata dal COVID-19.
Tenuto conto, pertanto, della logica dispositiva cui è orientata la norma,
si è dell’avviso per il quale il ricorso all’esenzione lavorativa dei
dipendenti del settore pubblico costituisca estrema ratio successiva
all’impossibilità di applicazione degli altri istituti indicati dalla norma,
ovvero, nell’ordine richiamato dalla predetta statuizione a titolo non
esaustivo, il ricorso al lavoro agile, l’utilizzo delle ferie pregresse,
l’applicazione di congedo, l’utilizzo della banca-ore, l’attuazione di
processi rotativi e di altri istituti aventi la stessa portata, ovvero
consentire, al dipendente, l’assenza giustificata e retribuita dal lavoro.
In tale quadro prescritto, pertanto, la qualificazione di “pregresse”
riferito alle ferie pare assumere un valore meramente ordinatorio, in
termini di priorità di fruizione dell’istituto, in modo tale che,
prioritariamente, dovranno essere goduti prima i giorni di ferie in giacenza
maturati con riferimento all’anno o, in taluni casi, agli anni precedenti,
per poi fruire, laddove non sussista la possibilità di utilizzare altri
istituti giustificativi e retribuiti di assenza dal lavoro, di eventuali
giorni maturati nel corso del corrente anno sino al momento di fruizione
degli stessi, prima di far ricorso all’esenzione lavorativa prevista, come
visto, dal citato art. 87, comma 3, alla stregua di ultima ipotesi solutiva
da impiegare, attesi gli oneri che tale situazione è in grado di generare,
posto che, in tale stato, la retribuzione continua ad essere erogata al
lavoratore pur in costanza di assenza della controprestazione lavorativa (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
20.04.2020). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: I
problemi della PA nella gestione delle norme emergenziali.
Non si ferma la pioggia di questioni e di problemi che le amministrazioni
pubbliche stanno affrontando sulla trincea dell’attuazione pratica delle
norme di emergenza che sono state adottate dal Governo dall’inizio della
pandemia.
In effetti, l’urgenza di assumere provvedimenti di contrasto alla
diffusione virale che ha investito il Paese, ha generato una normazione
affastellata su due assetti di gestione, almeno a livello centrale, ovvero i
provvedimenti d’urgenza (nella versione del decreto-legge) e le norme attuative (nella forma del Dpcm), cui si aggiungono i provvedimenti dei
Presidenti delle Regioni, le ordinanze delle Autorità locali sanitarie, i
provvedimenti della Protezione Civile e le circolari, le direttive e gli
atti di indirizzo assunte da diversi interlocutori istituzionali.
Il tutto
condito da dubbi ed incertezze, come dimostrano le richieste di aiuto che
incessantemente pervengono e di cui i seguenti esempi sono rappresentazione
emblematica.
L'art. 23 comma 1, Dl 18/2020 stabilisce che "… i
genitori lavoratori dipendenti del settore privato hanno diritto a fruire,
ai sensi dei commi 9 e 10, per i figli di età non superiore ai 12 anni,
fatto salvo quanto previsto al comma 5, di uno specifico congedo, per il
quale è riconosciuta una indennità pari al 50 per cento della retribuzione
..."; il comma 6 dello stesso articolo prevede che "... i genitori
lavoratori dipendenti del settore privato con figli minori, di età compresa
tra i 12 e i 16 anni... hanno diritto di astenersi dal lavoro per il periodo
di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività
didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado, senza corresponsione di
indennità né riconoscimento di contribuzione figurativa ...”; l'art. 25 poi
estende tali provvedimenti anche ai pubblici dipendenti.
Chiedo: un genitore
con un figlio nato il 18.10.2007, quindi 12 anni e 5 mesi di età, può
presentare una richiesta di congedo ai sensi del comma 1?
Con riferimento al quesito posto, la norma di riferimento, costituita
dall’art. 23, comma 1, Dl 17.3.2020, la cui previsione è stata estesa, ai
lavoratori del settore pubblico, dal successivo art. 25, comma 1, dello
stesso Dl. La disposizione esaminata prevede, espressamente, che “1. Per
l’anno 2020 a decorrere dal 5 marzo, in conseguenza dei provvedimenti di
sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche
nelle scuole di ogni ordine e grado, di cui al Decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri 4 marzo 2020, e per un periodo continuativo o
frazionato comunque non superiore a quindici giorni, i genitori lavoratori
dipendenti del settore privato hanno diritto a fruire, ai sensi dei commi 9
e 10, per i figli di età non superiore ai 12 anni, fatto salvo quanto
previsto al comma 5, di uno specifico congedo, per il quale è riconosciuta
una indennità pari al 50 per cento della retribuzione, (…)”.
Ciò richiamato,
pertanto, si può osservare come la disposizione in commento, quale
condizione ai fini della legittima fruizione del beneficio in parola, faccia
espresso riferimento alla presenza di figli di età non superiore ai 12 anni,
per cui, stante il tenore letterale della norma, l’istituto non è
applicabile laddove il minore abbia già compiuto il limite di età previsto
dalla disposizione di che trattasi al momento della richiesta della relativa
fruizione. Tale affermazione discende da un principio generale elaborato
dalla giurisprudenza amministrativa, ai sensi della quale quando la legge
ricollega il verificarsi di determinati effetti al compimento di una data
età, questi effetti decorrono dal giorno successivo a quello del relativo
compleanno (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza n. 1353/1995).
Occorre
considerare, peraltro, che il principio elaborato dalla Giurisdizione
amministrativa ha trovato pieno accoglimento nella pronuncia dell’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato n. 21/2011, intervenuta dopo diversi
contrasti giurisprudenziali in materia di superamento dei limiti di età nei
concorsi pubblici.
Di diverso avviso, infatti, altra giurisprudenza dello stesso Organo
giurisdizionale che, a più riprese, ha accolto il diverso principio per il
quale, testualmente: "Nella vicenda in esame, il bando non effettua alcun
riferimento puntuale al “compimento” del trentaseiesimo anno, ma richiama il
diverso concetto dell’età “non superiore a 36 anni”. Ora, posto che non
rilevano, in questo contesto, per computare l’età, le frazioni di anni,
calcolate in giorni o in mesi, è evidente che, dopo il trentaseiesimo
compleanno, l’interessato ha ancora un’età di 36 anni e la conserva fino al
momento in cui “compie” 37 anni. Solo a partire da tale data, infatti,
l’interessato acquista un’età pari a 37 anni, superiore a quella di 36. Il
principio è affermato, fra le tante pronunce cha hanno affrontato
specificamente l’argomento, anche da Cassazione civile, sez. lav., 26.05.2004, n. 10169, secondo la quale il decreto legislativo n. 280 del 1997, che
prevede la partecipazione ad un progetto di borsa di lavoro per i giovani di
età compresa tra i 21 e i 32 anni, requisito che deve essere posseduto alla
data del 31.10.1997, non esclude dalla fruibilità del beneficio i
soggetti che, a quella data, abbiano già compiuto il trentaduesimo anno di
età, purché non abbiano ancora compiuto il trentatreesimo anno, rimanendo
trascurabili, ai fini del computo, le frazioni di anno (…)” (Consiglio di
Stato, Sez. V, 05.03.2010, n. 1284).
Accedendo all’orientamento assunto
dalla richiamata Adunanza Plenaria del Supremo consesso amministrativo,
pertanto, nel caso di specie la richiedente non potrà fruire del beneficio
concesso dalla previsione normativa in questione per carenza dei relativi
presupposti applicativi.
Con riferimento all’emergenza COVID-19, formulo il
seguente quesito. Il Comune di … non ha ancora approvato il bilancio di
previsione 2020-2022.
È stato approvato il fabbisogno del personale
2020-2022, dove sono previste le sostituzioni di due unità di personale che
durante l’anno 2020 cessano dal servizio.
In caso di conclusione positiva
delle procedure di mobilità per la copertura dei suddetti posti, anche in
assenza del bilancio approvato, è possibile procedere al trasferimento del
personale dagli enti di appartenenza, una volta acquisiti i nulla osta
definitivi?
Con riferimento al quesito posto, occorre, preliminarmente, inquadrare il
contesto giuridico nell’ambito del quale l’amministrazione sta operando.
L’ente, secondo quanto rappresentato nel quesito, intende procedere
all’acquisizione di personale mediante l’istituto della cessione
contrattuale (mobilità esterna) da parte di altra amministrazione (art. 30,
Dlgs 165/2001), trovandosi, nel contempo, in regime di esercizio
provvisorio, non avendo provveduto, nei termini di legge, all’approvazione
del bilancio previsionale.
Tale esercizio, infatti, è stato recentemente assentito con Dm 28.2.2020 del
Ministero dell’Interno che ha provveduto a differire ulteriormente il
termine di approvazione del bilancio di previsione delle amministrazioni
locali per il triennio 2020-2022 dal 31.03.2020 al 30.04.2020.
Trovandosi, pertanto, in esercizio provvisorio, l’amministrazione è tenuta
all’osservanza delle disposizioni normative che regolano l’attività della
stessa in questo particolare regime, con specifico riferimento, tra le
altre, alle prescrizioni di cui all’art. 163, comma 5, Dlgs 267/2000, il
quale vincola, espressamente, gli enti locali, nel corso dell’esercizio
provvisorio, alla possibilità d’impegno mensile delle spese correnti
relative a ciascun programma (oltre a quelle eventualmente correlate ed
urgenti), per importi non superiori ad un dodicesimo degli stanziamenti del
secondo esercizio del bilancio di previsione deliberato l'anno precedente,
unitamente alla quota dei dodicesimi non utilizzata nei mesi precedenti,
ridotti delle somme già impegnate negli esercizi precedenti e dell'importo
accantonato al fondo pluriennale vincolato, con l'esclusione delle spese: a)
spese tassativamente regolate dalla legge; b) spese non suscettibili di
pagamento frazionato in dodicesimi e c) spese a carattere continuativo
necessarie per garantire il mantenimento del livello qualitativo e
quantitativo dei servizi esistenti, impegnate a seguito della scadenza dei
relativi contratti.
Come si può desumere dalla chiara prescrizione legislativa, pertanto, non
pare che la spesa corrente correlata a nuove acquisizioni di personale,
anche mediante il trasferimento dello stesso da altra amministrazione
pubblica per cessione di contratto, possa rientrare nelle fattispecie
derogatorie indicate dalla richiamata statuizione di legge, non trattandosi,
infatti, di spese imposte da norme di legge, ma facoltativamente generate
dall’ente, né di spese non frazionabili in dodicesimi, in quanto, proprio
per loro natura, certamente scindibili mensilmente, né, infine, di spese
finalizzate al mantenimento dei livelli quali-quantitativi dei servizi
esistenti, in quanto non destinate all’acquisizione di servizi, bensì
impiegate per l’assunzione di personale dipendente.
Si ritiene, pertanto, che, in assenza del bilancio previsionale approvato ed
in conseguente regime di esercizio provvisorio, l’amministrazione non possa
procedere all’acquisizione di risorse umane nei termini rappresentati nel
quesito posto.
Tale posizione, peraltro, pare fatta propria dalla recente
espressione di conforme parere, nella specifica materia, reso dalla Corte
dei Conti, Sezione regionale di Controllo per La Campania, con la delibera
n. 28/2020/PAR del 19.03.2020, della quale, per la rilevanza che attiene al
quesito posto, si riportano i passaggi più rilevanti, come di seguito
riferiti: “La questione all’esame concerne, come si diceva, la possibilità
di procedere alla assunzione di unità di personale in regime di esercizio
provvisorio, autorizzato, da ultimo, con Dm 28/02/2020 del Ministero
dell'interno che ha ulteriormente differito, rispetto a quanto disposto con
il precedente decreto del 13.12.2019, il termine per la deliberazione
del bilancio di previsione 2020/2022 degli enti locali dal 31.03.2020 al
30.04.2020.
Va innanzitutto premesso che in un bilancio di tipo finanziario, quale
quello degli enti locali, gli stanziamenti di spesa del bilancio di
previsione, come è noto, hanno natura autorizzatoria, costituendo un limite
agli impegni ed ai pagamenti con la sola esclusione delle previsioni
riguardanti i rimborsi delle anticipazioni di tesoreria e i servizi per
conto terzi.
Ne discende che, laddove non risulti approvato, entro il 31.12
dell’anno precedente, il bilancio di previsione per l’anno in corso, il
legislatore, onde evitare la paralisi dell’ente, ha comunque consentito una
gestione “provvisoria” dell’esercizio, ma, proprio in quanto tale, nel
rispetto di predeterminati limiti, a garanzia degli equilibri di bilancio
dell’ente e riassunti nella disciplina dettata dall’art. 163, Dlgs 267/2000
(d’ora innanzi Tuel) e dall’art. 43 Dlgs 118/2011 e relativi principi
contabili. (…) Rileva, viceversa, l’esercizio provvisorio allorquando venga
espressamente autorizzato con legge o con decreto del Ministro dell'interno
che, ai sensi di quanto previsto dall'art. 151, primo comma, Tuel,
differisce il termine di approvazione del bilancio, d'intesa con il Ministro
dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza Stato-città ed
autonomia locale, in presenza di motivate esigenze. (…)
Nello specifico caso, infatti, dell’“esercizio provvisorio”, cui si
riferisce la richiesta di parere all’esame, gli enti possono impegnare solo
spese correnti (oltre quelle correlate a partite di giro). Per la spesa in
conto capitale, possono essere impegnate solo somme per lavori pubblici di
somma urgenza o altri interventi di somma urgenza (cfr. art. 163, comma 3,
Tuel). Il comma 5 individua, poi, ulteriori limiti, imponendo che gli enti
possano impegnare mensilmente, per ciascun programma riferito alle spese di
cui al precedente comma 3, importi non superiori ad un dodicesimo degli
stanziamenti del secondo esercizio del bilancio di previsione deliberato
l'anno precedente (unitamente alla quota dei dodicesimi non utilizzata nei
mesi precedenti), ridotti delle somme già impegnate negli esercizi
precedenti e dell'importo accantonato al fondo pluriennale vincolato.
Prevede, poi, alcune eccezioni, tassativamente elencate, al suddetto limite
degli impegni per dodicesimi. (…) Nel testo, invece, novellato, in vigore
dal 1 gennaio 2015, ha mantenuto ferma la stessa limitazione, nel quadro,
però, di una più complessa regolamentazione dell’esercizio e della gestione
provvisoria, affidata anche al principio contabile applicato concernente la
contabilità finanziaria ed ha, inoltre, implementato i casi che fanno
eccezioni al suddetto limite dei dodicesimi, individuandoli nelle spese: a)
tassativamente regolate dalla legge; b) non suscettibili di pagamento
frazionato in dodicesimi; c) a carattere continuativo necessarie per
garantire il mantenimento del livello qualitativo e quantitativo dei servizi
esistenti, impegnate a seguito della scadenza dei relativi contratti. (…)
La suddetta disciplina è sostanzialmente confermata anche dal principio
contabile applicato n. 8, di cui all’ Allegato n. 4/2 al Dlgs 118/2011, che
al punto 8.6, più in particolare, ribadisce: ”nel corso dell'esercizio
provvisorio: a) sono impegnate nel limite dei dodicesimi le spese che, per
loro natura, possono essere pagate in dodicesimi; b) sono impegnate, al di
fuori dei limiti dei dodicesimi, le spese tassativamente regolate dalla
legge, quelle che, per loro natura, non possono essere pagate frazionandole
in dodicesimi, e le spese a carattere continuativo necessarie per garantire
il mantenimento del livello qualitativo e quantitativo dei servizi
esistenti, impegnate a seguito della scadenza dei relativi contratti”.
Alla
luce di tutto quanto sopra e, soprattutto, della ratio posta a fondamento
della disciplina dell’esercizio provvisorio, finalizzata a garantire, in
tale “anomala” fase della gestione dell’esercizio, il rispetto degli
equilibri finanziari, le eccezioni al prescritto limite dei dodicesimi vanno
intese in senso tassativo, con la conseguente impossibilità di estenderle
oltre la previsione di legge. (…)
Ne deriva, dunque, la impossibilità di assumere spese, in costanza di
esercizio provvisorio, al di là del più volte richiamato limite dei
dodicesimi, con la sola eccezione dei casi, tassativi, elencati dal predetto
art. 163, comma 5, tra i quali non risulta annoverabile la tipologia di spesa
di cui al parere in esame, non essendo la stessa riconducibile: alla
eccezione di cui alla lettera a) del comma in esame, spese tassativamente
regolate dalla legge, non trattandosi di una assunzione imposta ex lege, ma
programmata dall’ente medesimo; alla eccezione di cui alla lettera b), non
suscettibili di pagamento frazionato in dodicesimi, attesa la pacifica
frazionabilità in dodicesimi delle spese di personale; né, infine, alla
eccezione di cui alla lettera c), spese a carattere continuativo necessarie
per garantire il mantenimento del livello qualitativo e quantitativo dei
servizi esistenti, impegnate a seguito della scadenza dei relativi
contratti, riferendosi, siffatta eccezione, al caso di servizi, oggetto di
contratti in scadenza, tra i quali non rileva il contratto di lavoro
subordinato.”.
A tal riguardo, poi, si precisa che la Sezione regionale di Controllo della
Corte dei Conti della Campania ha recentemente fornito un ulteriore
chiarimento sulla posizione così assunta con la riportata delibera n.
28/2020, specificando che eventuali assunzioni di personale, in pendenza di
esercizio provvisorio, potranno essere sostenute solo se rientranti nel
limite dei dodicesimi, conformemente a quanto si evince a pag. 6 della
delibera stessa. Oltre tale limite, conclude la Sezione, possono essere
sostenute le sole spese tassativamente elencate dall'art. 163, comma 5, del
Tuel, tra le quali non rientrano le spese in questione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
16.04.2020). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Limite P.O. in caso di convenzione.
Domanda
Come è possibile determinare il “tetto” per le posizioni
organizzative in caso di convenzione?
Risposta
Nel caso di gestioni associate, come da orientamento ormai consolidato della
giurisprudenza contabile, la quota di retribuzione di posizione e di
risultato, “rimborsata” dai comuni, non va calcolata nel “tetto di
spesa” dell’ente “A”, mentre invece dovrà essere calcolata dai comuni “utilizzatori”
nel proprio tetto, riferito all’anno 2016, per quanto riguarda il calcolo
della spesa del salario accessorio, ai fini del rispetto dell’art. 23, comma
2, del d.lgs. 75/2017.
Si specifica, infine, che la quota rimborsata va conteggiata come aggregato
di spesa di personale e non va conteggiata come tetto per il lavoro
flessibile, ex art. 9, comma 28, d.l. 78/2010.
Occorre guardare quindi il caso concreto e le clausole della convenzione per
il riparto delle spese. Se nulla è stato previsto occorre verificare quanto
ricompreso dall’altro ente, partecipante alla gestione associata, prima che
la Giunta assuma deliberazione ad hoc, in modo da evitare che
entrambi gli enti ricomprendano le somme di cui si tratta, alzando in modo
fittizio i limiti di contenimento riferiti al salario accessorio, ormai
esistenti dal 2010.
In merito all’importo del salario accessorio delle posizioni organizzative
da considerare per il rispetto del limite di cui all’art. 23, comma 2, del
D.Lgs. n. 75/2017, è ormai consolidato l’orientamento dei magistrati
contabili nel ritenere che per le posizioni organizzative, in enti privi di
dirigenza, il limite di spesa del trattamento accessorio per l’anno 2016,
deve essere quello rappresentato dall’ammontare delle risorse stanziate in
bilancio nel medesimo esercizio finanziario.
Infatti, dopo la posizione iniziale assunta dalla Corte dei conti della
Sicilia con la deliberazione n. 172/2018 anche i magistrati della Corte dei
conti della Lombardia, con il parere n. 20/2019 hanno ribadito che «il
valore della spesa da considerare ai fini del rispetto del tetto per il
trattamento accessorio delle posizioni organizzative nei Comuni privi di
dirigenza e quello stanziato direttamente in bilancio sempre che il valore
della stessa corrisponda al valore complessivo contrattualmente previsto da
attribuire ai dipendenti titolari delle posizioni organizzative» (16.04.2020
- link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ancora
quesiti dalle amministrazioni sulle norme emergenziali.
I quesiti di fronte ai quali si trovano le amministrazioni pubbliche, in
questa fase emergenziale funzionale ad impedire la proliferazione del virus
COVID-19, riguardano aspetti particolari, sia relativi all’utilizzo degli
istituti specificamente introdotti dalla normativa emergenziale, sia
attinenti alle modalità di utilizzo di istituti già presenti
nell’ordinamento legale e contrattuale, ma che dispiegano o continuano a
spiegare i loro effetti nell’attuale contesto.
Di seguito alcuni dei quesiti
posti dalle amministrazioni rispetto ai quali vengono fornite puntuali ed
argomentate risposte.
Con riferimento ai 15 giorni di congedo per i genitori
di figli fino a 12 anni introdotto dal Dl 18/2020 si chiede conferma se il
richiedente deve attestare per poterne beneficiare che il coniuge, fra le
altre cose, non è collocato il lavoro agile e che non è lavoratore autonomo.
Con riferimento al quesito posto, il sistema normativo di riferimento è dato
dalle disposizioni recate dagli artt. 23, commi 1 e 4, e 25, comma 1, Dl
17.03.2020, n. 18.
A mente di tali prescrizioni normative, infatti, per l’anno 2020, a
decorrere dal 5 marzo, in conseguenza dei provvedimenti di sospensione dei
servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole di
ogni ordine e grado, di cui al Dpcm 04.03.2020, e per un periodo
continuativo o frazionato comunque non superiore a quindici giorni, i
genitori lavoratori dipendenti del settore pubblico, per effetto
dell’estensione applicativa operata dall’art. 25, comma 1, dello stesso
decreto-legge, hanno diritto a fruire, per i figli di età non superiore ai
12 anni, di uno specifico congedo, per il quale è riconosciuta un'indennità
pari al 50 per cento della retribuzione. Per il godimento di tale istituto,
poi, il quadro giuridico sopra indicato prevede, quali condizioni di
utilizzo, che nel nucleo familiare del lavoratore interessato, non vi sia
altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito, in caso di
sospensione o cessazione dell’attività lavorativa, o altro genitore
disoccupato o non lavoratore, ovvero che uno o entrambi i lavoratori non
stiano già fruendo di analoghi benefici.
Ciò premesso, pertanto, ai sensi
dell’art. 25, comma 2, del ridetto Dl 18/2020, è rimessa alla competenza
dell’amministrazione pubblica con la quale intercorre il rapporto di lavoro
del lavoratore interessato, l’indicazione delle modalità di fruizione del
congedo di che trattasi, la quale, nell’esercizio delle proprie facoltà datoriali correlate alla gestione del rapporto di lavoro, potrà pretendere,
ai fini della concessione del beneficio, che il dipendente produca apposita
dichiarazione sostitutiva di atto notorio, ai sensi dell’articolo 47, Dpr
445/2000, attraverso la quale attestare la sussistenza delle condizioni
imposte dalla legge per il riconoscimento applicativo dell’istituto, in
particolare che:
1) nel proprio nucleo familiare non sia presente altro genitore
beneficiario di strumenti di sostegno al reddito, in caso di sospensione o
cessazione dell’attività lavorativa;
2) nel proprio nucleo familiare non sia presente altro genitore
disoccupato o non lavoratore;
3) uno o entrambi i genitori lavoratori non stiano già fruendo di
analoghi benefici.
Dalla lettura piana delle disposizioni non sembra vi siano ostacoli
all’utilizzo del congedo nell’ipotesi in cui l’altro genitore continui a
lavorare in modalità agile; in quest’ultimo caso, infatti, il lavoratore
prosegue il proprio impegno nell’attività lavorativa, sebbene da remoto, non
rientrando, quindi, nella nozione legale di “genitore beneficiario di
strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione
dell’attività lavorativa o altro genitore disoccupato o non lavoratore”,
uniche ipotesi che impedirebbero l’accesso a tale forma di congedo.
D’altra
parte tale posizione pare cogliere, al meglio, anche la ratio normativa che,
in vero, appare chiaramente finalizzata ad assicurare un adeguato ed
opportuno apporto familiare ai minori che, in conseguenza dei provvedimenti
di sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività
didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado, si trovano a dover
permanere, loro malgrado, presso l’abitazione ed ai quali, pertanto, il
genitore impegnato al lavoro, ancorché in regime di smart working, non
sarebbe in grado di fornire un’adeguata assistenza e cura.
Nel ringraziare della disponibilità, chiedo se il DL n.
18/2020 ha sospeso i procedimenti disciplinari attivati dalle
amministrazioni pubbliche e, in tal caso, come vanno applicate queste norme?
Cosa viene esattamente sospeso del procedimento disciplinare? Tutti i
termini o solo alcuni di essi? E, in questo caso, quali sono i termini
sospesi?
L’art. 103, comma 5, di tale strumento d’urgenza, infatti, statuisce, a
chiare lettere, che i termini dei procedimenti disciplinari del personale
delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, Dlgs
165/2001, pendenti alla data del 23.02.2020 o iniziati successivamente
a tale data, sono sospesi fino alla data del 15.04.2020.
La norma ha
un’indubbia rilevanza per l’economia procedimentale correlata alla gestione
dei procedimenti disciplinari da parte del datore di lavoro pubblico, atteso
che chiarisce, opportunamente, le modalità applicative della sospensione dei
termini dettate dall’art. 103 del decreto-legge, che regola tale sospensione
temporale per i procedimenti amministrativi, nell’ambito del procedimento
disciplinare, il quale, costituendo profilo di gestione del rapporto di
lavoro, non presenta il carattere giuridico tipico del procedimento
amministrativo, posto che costituisce esercizio di potere datoriale di
natura privatistica e non pubblicistico- amministrativa.
La norma sospende i
termini dei procedimenti disciplinari pendenti alla data del 23.02.2020 o quelli iniziati successivamente a tale data, ma non i procedimenti da
attivare nei termini di sospensione, per cui sembra lasciare immutato il
termine decadenziale di trenta giorni per la contestazione dell’addebito; si
deve, quindi, ritenere che il procedimento disciplinare, in presenza di
un’adeguata segnalazione, debba, comunque, essere avviato, per scongiurare
il rischio della decadenza, fermo restando che anche i termini di
conclusione, per i procedimenti interessati dalla norma, sono sospesi sino
alla stessa data del 15 aprile p.v... Sarebbe stato utile, viceversa,
considerata la situazione straordinaria in cui si è venuto a trovare il
Paese, prevedere anche la sospensione del temine di decadenza previsto per
la contestazione degli addebiti.
Atteso il carattere derogatorio ed eccezionale di tali disposizioni legali,
anche in ragione della particolare natura dello strumento straordinario che
ne costituisce veicolo normativo, è da ritenersi che le stesse non possano
essere estese, in applicazione, utilizzando criteri analogici o assimilativi
per attrarre nella loro orbita regolativa fattispecie che non siano
espressamente previste dalla legge, per cui è estraneo alla cornice
prescrittiva di tale dettato ogni percorso che non possa, giuridicamente,
essere ricondotto alla qualificazione di procedimento amministrativo o di
procedimento disciplinare ai sensi dell’art. 103 in questione, fatte salve
le eccezioni espressamente indicate dal decreto-legge, così come configurate
dal comma del ridetto art. 103.
Non rientrano, conseguentemente, nell’orizzonte attuativo della sospensione
dei termini disciplinata dal Dl 18/2020, tutti quei processi e quelle serie
di azioni che non possano, a rigore, qualificarsi come procedimenti
amministrativi, ovvero come sequenza istantanea o fasica di atti
univocamente preordinati alla produzione di un atto avente natura
pubblicistico-amministrativa, di talché difficilmente potrebbero ricondursi
a tale categoria -in disparte le eventuali previsioni derogatorie indicate
dal ripetuto comma 4 dell’art. 103, che corrobora la portata del principio
generale– tutti gli atti gestionali del rapporto di lavoro, in quanto atti
di carattere datoriale che presentano la natura giuridica di atti di diritto
comune, non annoverabili, pertanto, nel perimetro dei provvedimenti
amministrativi.
In particolare i termini previsti, dall’ordinamento (art.
10, Dlgs 150/2009), per la gestione della filiera delle performance, come i
termini di adozione del piano delle performance e quelli di approvazione
della corrispondente relazione consuntivante, non sembrano sfiorati dalla
previsione normativa sulla sospensione dei termini, anche in ragione della
loro evidente origine ordinatoria, fermo restando che potrebbero essere
considerate attività differibili e, quindi, da far rientrare in quelle da
sospendere, laddove non sia possibile svolgerle in modalità remota.
Non è un caso, infatti, come sopra evidenziato, che correttamente il
legislatore abbia espressamente indicato una fattispecie derogatoria
nell’ambito della gestione privatistica del rapporto di lavoro, come la
disposta sospensione dei termini nell’ambito del procedimento disciplinare.
Tale sospensione, peraltro, alla luce di quanto sopra osservato, incide
esclusivamente sui termini perentori del procedimento disciplinare, come normativamente individuati, successivi al termine di contestazione degli
addebiti e su quello di conclusione del procedimento disciplinare, non
potendo, quindi, produrre effetti espansivi sui termini interni del
procedimento disciplinare (infra-procedimentali) che, infatti, presentano
dichiarato carattere ordinatorio o sollecitatorio, la cui violazione,
quindi, non determina la decadenza del potere di provvedere, ancorché
potrebbe produrre effetti di responsabilità per ritardo od omissione.
La
sospensione dei termini, poi, non determina una nuova decorrenza integrale
degli stessi, effetto proprio dell’interruzione, bensì la ripresa del
decorso del termine a conclusione del periodo temporale di sospensione.
Lavoro presso il Comune di … - Servizio "Risorse Umane".
Con ordinanza della Regione Lazio del 19.03.2020 il Comune di … è stato
dichiarato "zona rossa". Gli uffici comunali, pertanto, sono stati chiusi ed
i dipendenti lavorano in modalità smart working.
Quesito: spetta ai
dipendenti che lavorano in smart working il riconoscimento dei buoni pasto?
Con riferimento al quesito posto, si ritiene che, nella modalità di
esecuzione della prestazione lavorativa mediante il cd. "lavoro agile”, come
anche con la diversa forma del “telelavoro”, non sia ammissibile
l’erogazione di alcuna indennità sostitutiva della mensa o buono pasto, in
quanto, data la particolare forma erogativa della prestazione lavorativa,
che non impone la presenza fisica del dipendente sul posto di lavoro, non
sussistono le ragioni, né i presupposti per il legittimo riconoscimento di
tale istituto il quale, infatti, presuppone, quale condicio sine qua non,
che il lavoratore beneficiario sia presente in servizio, operando in
modalità di presenza fisica sul luogo di lavoro. Non avrebbe, infatti,
alcuna utilità l’erogazione di tale beneficio economico laddove il
dipendente, operando presso la propria sede di attività, normalmente il
luogo di residenza o di domicilio, potesse agevolmente attendere ai normali
processi fisiologici previsti dal ciclo circadiano, tra i quali l'ordinaria
consumazione dei pasti (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
15.04.2020). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ancora
incertezze applicative sulla normativa emergenziale per il rapporto di
lavoro pubblico.
I quesiti posti dalle amministrazioni pubbliche in materia di gestione del
rapporto di lavoro, così come influenzata dalla normativa emergenziale
adottata per impedire la diffusione pandemica del virus COVID-19, riguardano
anche la corretta perimetrazione della predetta normativa d’emergenza.
Insomma, i dubbi riguardano la possibilità che, in un contesto di difficoltà
ad assumere decisioni di riassetto organizzativo, specialmente in quelle
realtà che presentavano criticità già prima di questa fase emergenziale,
possano non essere applicate alcune disposizioni in materia di
incompatibilità o di conflitto di interessi.
Ciò sulla base dell’assunto che
non sarebbe possibile assumere decisioni diverse, attesa le situazioni di
difficoltà rese ancora più palesi dalla realtà emergenziale in atto. Altri
quesiti attengono al corretto utilizzo di alcuni istituti di gestione
ordinaria del rapporto di lavoro nell’attuale contesto emergenziale.
Di
seguito vengono fornite le risposte ad una selezione di quesiti.
In un comune ci sono 6 posizioni dirigenziali e solo due
dirigenti in servizio, tant'è che anche il Segretario è incaricato, in via
eccezionale, della responsabilità di alcuni settori. Non ci sono, al
momento, altre soluzioni organizzative.
In vista di una rimodulazione degli
incarichi, possibile ma non ora, vista la situazione di emergenza, un
dirigente può astenersi dallo svolgimento dell’incarico di direzione della
esecuzione di contratti con una società in house nei confronti della quale
svolge anche il controllo analogo sulla base di una presunta commistione tra
controllore e controllato e, comunque, di conflitto in base al DLgs 39/2013.
Preliminarmente non è chiara quale sia la norma che viene invocata per
rappresentare la presunta incompatibilità, se non il rinvio ad un generico
conflitto tra controllore e controllato e al Dlgs 39/2013. Se il riferimento
è l’art. 9, comma 1, del Dlgs 39/2013, la norma fa riferimento ad eventuali
incarichi assunti dal dirigente nell’ente di diritto privato nei confronti
del quale svolge il controllo analogo.
Nel caso specifico, sia il controllo
analogo che la direzione dell’esecuzione del contratto sono espletati
nell’interesse dell’amministrazione che conferisce l’incarico dirigenziale,
per cui non sembra sia possibile rinvenire, neanche attraverso una
interpretazione analogica, una posizione di potenziale conflitto. Qualora
fosse presente, invece, un aspetto di incompatibilità in base al quale il
dirigente invoca il diritto di astenersi, non sarebbe possibile soprassedere
rispetto all'eventuale profilo di incompatibilità; ciò anche qualora si sia
in presenza di problemi organizzativi, quali l’assenza di altre posizioni
dirigenziali, oppure in considerazione della fase di straordinaria emergenza
che stiamo attraversando.
Infatti, le norme emergenziali non introducono
deroghe espresse al quadro ordinamentale che regola la materia, per cui tali
disposizioni, avendo natura imperativa ed inderogabile, in assenza di norme
che fanno eccezione ai relativi principi, sarebbero da intendersi pienamente
operanti, non ammettendo deroghe.
Come deve essere giustificata nel portale l'attività del
dipendente in modalità agile considerato che ovviamente non può timbrare?
Ciascun dirigente, nel rispetto della disciplina normativa e contrattuale
vigente, deve adottare atti datoriali che disciplinino gli aspetti di tipo
organizzativo ed i profili attinenti al rapporto di lavoro svolto in
modalità agile.
L’esercizio del potere di controllo sulla presenza in
servizio del lavoratore agile, quindi, deve essere regolato con riguardo al
risultato della prestazione, in termini sia qualitativi, che quantitativi,
in relazione alle priorità definite dai dirigenti, i quali eserciteranno il
potere di controllo diretto sui dipendenti smart workers ad essi assegnati,
organizzando, per essi, una programmazione settimanale-quindicinale delle
priorità e, conseguentemente, degli obiettivi lavorativi di breve-medio
periodo da perseguire, esercitando, pertanto, il relativo monitoraggio
dinamico ed il conseguente controllo sullo stato di realizzazione.
Il lavoro agile determina lo svolgimento della prestazione lavorativa
secondo nuove modalità spazio-temporali che non consentono un controllo
della presenza del dipendente sul posto di lavoro, secondo le modalità
classiche previste per la presenza in ufficio.
Siamo di fronte ad un quadro
normativo che richiede, infatti, un cambio culturale e di approccio
all’organizzazione del lavoro il quale presuppone, da parte del dirigente,
una conoscenza dei processi presidiati e dei risultati che tali processi
sono in grado di restituire; solo in questo modo il nuovo paradigma può
prevedere una diversa modalità di verifica della prestazione lavorativa,
ancora fortemente condizionata dall’orario di lavoro e dalla rilevazione
della presenza secondo sistemi automatizzati.
La disciplina datoriale da
attivare deve, quindi, spingersi a dare piena legittimità a tali strumenti e
presuppone che, chi è posto alla direzione di una struttura, sia in grado di
valutare i risultati prodotti dalle risorse umane a disposizione e, per
questo, ovviamente occorre che si conoscano i processi che devono essere
presidiati. Spesso le incertezze applicative ed i ritardi rappresentano il
chiaro sintomo della difficoltà ad individuare ed affidare ai lavoratori
obiettivi lavorativi chiari.
Vi sono alcune amministrazioni, d’altronde, che
consentono l’accesso da remoto all’applicativo di rilevazione delle presenze
al lavoro, attraverso il quale il dipendente è “tenuto” a comunicare che si
trova attivo in servizio in modalità remota; questo approccio è utile ai
fini delle determinazione della posizione giuridica del lavoratore in
ciascuna giornata di lavoro (in servizio, in ferie, in permesso, in congedo,
in recupero, etc.) e dei riflessi che la stessa può presentare sotto il
profilo economico, ma non potrà spingersi a rilevare l’orario di inizio e di
conclusione della prestazione lavorativa, in quanto sarebbe una rilevazione
non controllabile come, invece, avverrebbe con la presenza fisica sul luogo
di lavoro, né, d’altra parte, coglierebbe lo spirito stesso di tale modalità
operativa, finalizzata alla migliore conciliazione dei tempi lavorativi con
quelli familiari.
La misura dei congedi parentali COVID-19 per il pubblico
impiego è di 15 gg?
L'art 25, Dl 18 del 17.03.2020 dice "...per tutto il
periodo della sospensione ivi prevista...": il riferimento è al decreto del
PCM del 4 marzo e quello sospendeva l’attività didattica fino al 15 marzo.
Comunque, da dove si desume la possibilità di fruirne fino alla riapertura
delle scuole?
I congedi possono essere fruiti anche a ore, come per la
disciplina ordinaria che ne permette la frazionabilità?
Il richiamo al Dpcm 04.03.2020 deve ritenersi quale riferimento dinamico alle
previsioni dei Dpcm che, successivamente a quello del 04.03.2020, hanno
prorogato la sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e
dell’attività didattica in presenza nelle scuole di ogni ordine e grado.
In
particolare, il Dpcm 08.03.2020 ha introdotto la sospensione per le zone
“rosse” ivi individuate e il successivo Dpcm 09.03.2020 ha esteso tale
sospensione a tutto il territorio nazionale fino al 03.04.2020. Il congedo,
cui fa riferimento l’art. 25 del Dl 18/2020, è quello previsto dall’art. 23
dello stesso decreto-legge, in quanto espressamente richiamato (“hanno
diritto a fruire dello specifico congedo e relativa indennità di cui
all’articolo 23, commi 1, 2, 4, 5, 6 e 7”).
Si tratta, quindi,
dell’estensione, ai lavoratori del settore pubblico, di quanto previsto
dall’art. 23 del ripetuto Dl 17.03.2020, n. 18, per i lavoratori del settore
privato. I 15 giorni di congedo previsti dalla disposizione richiamata
possono essere fruiti nel periodo di sospensione previsto dai Dpcm citati,
fermo restando che si auspica, in sede di conversione del decreto-legge, un
allineamento sia sotto il profilo temporale che in termini del numero di
giorni di congedo che, al momento, sono prescritti nel numero massimo di 15.
Sul punto è intervenuto, in un primo momento, l’Inps con messaggio n. 1281
del 20.03.2020 precisando che “si tratta di un congedo straordinario di
massimo 15 giorni complessivi fruibili, in modalità alternativa, da uno solo
dei genitori per nucleo familiare, per periodi che decorrono dal 5 marzo al
3 aprile”, senza fornire, tuttavia, il supporto normativo alla definizione
di tale periodo.
Si deve ritenere che la frazionabilità ad ore del congedo
non sia possibile, in quanto l’unico riferimento contenuto nell’art. 23 del
ridetto decreto-legge prevede la possibilità di utilizzare i 15 giorni in
modo continuativo o frazionato, ma tale ultima formulazione non sembra
riferirsi alla frazionabilità ad ore del congedo, bensì alla divisione in
singole o plurime giornate del periodo complessivo di 15 giorni previsto
dalla norma.
Manca, altresì, un espresso riferimento al Dlgs 151/2001, come, viceversa,
avviene all’art. 24, Dl 18/2020 per i permessi di cui all’art. 33, comma 3,
legge 104/1992, per cui non sembrerebbe trattarsi di un’estensione dei
congedi parentali ivi previsti, che ne avrebbe legittimato la fruibilità ad
ore anche per il richiamo effettuato dall’art. 43 del Ccnl 21.05.2018.,
bensì è più attendibile ritenere che l’istituto presenti una propria
autonoma configurazione legale, computata, secondo la norma che lo
disciplina, a giornate e non frazionabile ad ore di utilizzo.
Relativamente al congedo parentale straordinario di 15
giorni, introdotto dall'art. 25 del Decreto Cura Italia, si chiede:
1) i 15 giorni sono fruibili per ogni figlio, oppure sono
complessivi? (ad esempio nel caso di 2 figli, il congedo è pari a 30 giorni?
oppure è pari a 15 giorni a prescindere dal numero dei figli?)
2) nel caso in cui il dipendente (che lavora su 5 giorni
settimanali - dal lunedì al venerdì) usufruisca di un periodo continuativo
di congedo parentale straordinario, senza riprendere servizio, in detto
periodo devono essere conteggiati anche il sabato e la domenica?
Relativamente al primo quesito si deve ritenere che trattasi di un periodo
complessivo di 15 giorni di congedo straordinario spettante
indipendentemente dal numero dei figli di età fino ai 12 anni o di età
superiore, se affetti da disabilità in situazione di gravità accertata
secondo le disposizioni della legge 104/1992.
Fermo restando che, per
espressa previsione dell’art. 23, è consentita la fruibilità frazionata a
giornata (e non ad ore), quindi non continuativa, si deve ritenere, in
applicazione di una regola generale applicabile a tali tipologie di congedi,
che i periodi di assenza, nel caso di fruizione continuativa, comprendono
anche gli eventuali giorni festivi o non lavorativi che ricadano all’interno
degli stessi.
Tale modalità di computo trova applicazione anche nel caso di
fruizione frazionata, ove i diversi periodi di assenza, giornalieri o plurigiornalieri,
non siano intervallati dal ritorno al lavoro del lavoratore o della
lavoratrice. Ciò si desume anche dalla particolare modalità retributiva di
tale periodo di congedo (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
14.04.2020). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Premio
100 euro per lavoro in sede durante epidemia coronavirus.
Domanda
Come va riproporzionato il premio dei 100 euro secondo l’Agenzia delle
Entrate?
Risposta
Le indicazioni fornite dall’Agenzia delle entrate nella circolare 03.04.2020
n. n. 8/E, sono congruenti con il disposto di cui all’art. 63 del decreto
cura Italia anche se trascurano dettagli rilevanti.
La previsione di fonte legale dispone che ai titolari di redditi di lavoro
dipendente, che possiedono un reddito complessivo da lavoro dipendente
dell’anno precedente di importo non superiore a 40.000 euro spetta un
premio, per il mese di marzo 2020, pari a 100 euro da rapportare al numero
di giorni di lavoro svolti nella propria sede di lavoro nel predetto mese.
La ratio dell’istituto, come confermato dall’Agenzia, è quella di
dare ristoro ai dipendenti che hanno continuato a lavorare nel mese di
marzo, senza poter adottare, quale misura di prevenzione, quella del lavoro
agile da remoto.
È del tutto evidente che della medesima ratio va tenuto conto anche qualora
siano intervenute, nel corso del mese di marzo, assenze che di fatto abbiano
allontanato il lavoratore dal rischio di contagio.
L’agenzia delle Entrate, nel fornire la formula per il riproporzionamento
complica la comprensione con un suggerimento che rischia di essere frainteso
se non letto con molta attenzione.
Conferma che l’importo del bonus va determinato in ragione del periodo di
lavoro durante il quale il dipendente presta effettivamente l’attività
lavorativa presso la propria sede, escludendo quindi le giornate nelle
quali, ad esempio, è stato in malattia, ferie o altra aspettativa senza
corresponsione di assegni.
L’istruzione è quella di non considerare nel rapporto le giornate di assenza
di ferie o malattia, togliendole quindi sia al numeratore che al
denominatore.
Esempio
Per esemplificare, immaginiamo che un lavoratore abbia goduto di 6 giorni di
ferie nel mese di marzo:
Il rapporto iniziale da cui partire è quello tra i 100 euro mensili e le 26
giornate lavorative (divisore previsto dal CCNL degli Enti Locali). Il
rapporto, nel suo risultato, restituisce il valore giornaliero del premio,
per ciascuna giornata di servizio resa in presenza (3,85 euro).
Secondo l’Agenzia delle entrate, questo rapporto deve tenere conto di sei
giorni di ferie, escludendole, non considerandole, sia dal numeratore che
dal denominatore. Il rapporto diventa quindi:
Il risultato al quale conduce questa operazione in relazione alla
determinazione dell’importo del premio giornaliero, è uguale a quello che si
avrebbe avuto nel caso in cui si fosse moltiplicato il valore giornaliero
del premio (3,85 euro) per il numero di giorni di effettiva presenza, ad
esclusione ovviamente delle ferie, dove non c’è presenza fisica in sede.
Dove invece l’istruzione risulta essere incompleta e poco precisa è
nell’elenco delle assenze che escludono dal diritto di vedersi riconosciuto
il valore del premio. L’Agenzia invita a non considerare solo i periodi di
malattia, ferie e aspettative non retribuite, dimenticando di fare un cenno
a tutti gli istituti che di fatto, retribuiti o meno che siano, giustificano
l’assenza dal servizio reso in presenza, dei lavoratori.
Il buon senso e l’analogia interpretativa, nel rispetto della
ratio legis,
coprono il vuoto e conducono ad una soluzione facile e condivisa. Ogni
assenza fisica dal servizio non dà diritto, per quella giornata, a ricevere
il premio, sia essa di origine contrattuale che di fonte legale.
Ragione per cui si ritiene che lo smart working, così come i congedi ex art.
25 d.l. 18/2020, i permessi ex art. 24 d.l. 18/2020 e ogni altro istituto a
giustificazione di un’assenza giornaliera, non debbano essere considerati
nel rapporto, né al numeratore, né al denominatore.
Esempio
Marzo 2020: 6 gg. ferie + 3 gg. L. 104/1992 + 4 gg. smart working
Pari risultato si sarebbe ottenuto molto più semplicemente con la regola
suggerita nel n. 7/2020 di Personale News:
Posto che, come previsto dal CCNL, la retribuzione giornaliera è calcolata
su 26 giornate mensili, la quota potrà essere erogata secondo la seguente
formula:
100/26*giornate lavorate in sede nel mese di marzo 2020
Nell’esempio fatto poco sopra:
Rimangono perplessità circa l’impossibilita che ne deriva da questo calcolo,
di riconoscere per intero il premio dei 100 euro, al lavoratore il cui
orario di lavoro sia articolato in 5 giorni settimanali e non 6.
Il divisore mensile dei 26 giorni non garantisce mai il premio intero,
nemmeno laddove sia stato lavorato tutto il mese.
Si ritiene pertanto legittimo utilizzare un divisore diverso, nel caso in
cui l’articolazione dell’orario di lavoro preveda 5 giorni lavorativi, che
corrisponde a 22 giorni mensili. Questo consente di riconoscere per intero
il premio come la norma di legge prescrive (09.04.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: I
dubbi delle amministrazioni pubbliche sull'applicazione della normativa
emergenziale.
La situazione di emergenza nazionale generata dalla diffusione pandemica del
virus COVID-19 sta ponendo gli operatori delle amministrazioni pubbliche di
fronte a diversi quesiti, anche non strettamente legati alla normativa
d’urgenza adottata dal Governo, che, tuttavia, in questa particolare
situazione di difficoltà, presentano profili peculiari in ordine
all’applicazione degli istituti cui detti quesiti sono riconducibili.
Dalle
diverse questioni che vengono segnalate, cui di seguito viene dato
riscontro, emerge che il datore di lavoro pubblico, da un lato, si trova a
dover affrontare problematiche completamente nuove e, dall’altro lato, si
trova a dover gestire tematiche, come la costituzione e l’utilizzo del fondo
delle risorse decentrate, sempre attuali ed inalienabili, che la difficile
situazione operativa, in cui gli enti si dibattono, non consente di
accantonare proprio per la finalizzazione al finanziamento dei trattamenti
economici accessori del personale dipendete che, mai come in questa fase,
meritano un’oculata ed attenta gestione.
È possibile per il dipendente rifiutarsi di recarsi sul
luogo di lavoro in assenza della individuazione dei servizi indifferibili
che richiedono la presenza fisica sul luogo di lavoro?
L’articolo 87 del DL 17.03.2020 n. 18 introduce la previsione secondo la
quale nelle amministrazioni pubbliche la modalità ordinaria di espletamento
della prestazione lavorativa è il lavoro agile.
Da questa disposizione discende che in nessun caso le amministrazioni
pubbliche possono tenere sul luogo di lavoro un dipendente per la cui
prestazione lavorativa non sia indispensabile la presenza sul luogo di
lavoro. Il dipendente pubblico può non recarsi sul luogo di lavoro senza
temere sanzioni giacché di fronte all’inadempimento del datore di lavoro del
suo obbligo di motivare la ragione della sua presenza fisica (che
costituisce una eccezione), può opporre una eccezione di inadempimento ex
art. 1460 Cc rifiutandosi di lavorare in una situazione di pericolo
riconosciuta dalla legge.
Si ricorda che l’art. 2087 Cc, applicabile a tutti datori di lavoro,
pubblici e privati, impone l’adozione delle misure che, “secondo la
particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a
tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di
lavoro”. Nella straordinaria situazione emergenziale in corso vengono in
evidenza non tanto i rischi specifici del singolo luogo di lavoro quanto il
rischio generale di diffusione pandemica del virus COVID-19 che incombe su
tutta la comunità nazionale e nel contempo riguarda i singoli luoghi di
lavoro.
Per cui con l’articolo 87, Dl 18/2020 si è voluto fornire uno strumento per
prevenire tali rischi di propagazione, obbligando i datori di lavoro
pubblici a non richiedere la presenza fisica, tranne nei casi in cui,
motivatamente, si tratti di prestazioni indifferibili che non possono essere
svolte in modalità agile; è l’amministrazione che deve, quindi,
espressamente motivare le ragioni della presenza fisica sul luogo di lavoro,
per cui, in assenza di questo apparato motivazionale, le prestazioni
lavorative devono essere svolte in remoto.
In regime di limitazioni da coronavirus, dovendo
provvedere, comunque, alla costituzione del fondo per le risorse decentrate
per l'anno 2020 chiedevo se era più corretto integrare il fondo di parte
variabile dell’1,2% su base annua del monte salari dell’anno 1997, esclusa
la quota relativa alla dirigenza, così come richiesto dalle parti sindacali,
e successivamente operare la decurtazione di cui all’articolo 23, comma 2,
Dlgs 75/2017 per il rispetto del limite 2016, oppure se, in sede di
contrattazione, si debba già definire una percentuale inferiore al fine di
restare all'interno del tetto 2016 considerando che non è sempre facile da
quantificare?
In relazione al quesito posto, si ritiene che sia più corretto integrare il
fondo con l’entità di risorse aggiuntive di parte variabile, ai sensi
dell’articolo 67, comma 4, del Ccnl 21.05.2018, sino a concorrenza del limite
imposto dall’articolo 23, comma 2, Dlgs 75/2017.
Mentre la parte stabile,
infatti, mantiene la sua dimensione economica consolidata che viene
riportata anno per anno, la parte variabile del fondo risponde ad esigenze
di utilizzo ulteriori rispetto all’ordinario impiego delle risorse stabili,
assecondando, di fatto e giuridicamente, fabbisogni integrativi di risorse
in funzione di fronteggiare esigenze specifiche di funzionamento, anche
correlate a particolari obiettivi gestionali che possano consentire,
altresì, il mantenimento di servizi e/o di standard erogativi (articolo 67,
comma 5, lett. b), dello stesso Ccnl).
Poiché, pertanto, l’aggregazione delle
risorse variabili risponde a necessità produttive modificabili nel tempo, a
differenza delle risorse stabili, la cui composizione è consolidata ed
immutabile nel tempo, se non per le componenti a formazione dinamica (es. lett. c) del comma 2 del medesimo articolo 67), si ritiene non ammissibile
che i flussi di composizione di tale parte del fondo prescindano da
un’attenta valutazione degli effettivi fabbisogni cui corrispondere in
termini di finanziamento, determinando, in tal modo, comportamenti indebiti
o elusivi, come un ingiustificato incremento di risorse variabili, pur nel
limite massimo previsto dalle vigenti clausole contrattuali, su cui operare,
successivamente, una riduzione di livellamento imposta dal ripetuto articolo
23, comma 2, Dlgs. n. 75/2017.
Appare, pertanto, maggiormente coerente con
le norme contrattuali e con i principi ordinamentali di finanza pubblica che
regolano questi particolari profili gestionali, integrare la parte variabile
del fondo mediante l’impiego del fattore compositivo in questione
nell’entità concretamente necessaria per arginare le nuove necessità di
incremento finanziario del fondo, anche laddove tale valore risulti
inferiore al limite massimo di aumento consentito dalle vigenti clausole
contrattuali nazionali.
Quale è l'autorità competente (competenti organi medico
legali) a rilasciare la certificazione ex articolo 26, co. 2, Dl 18/2020 per i
dipendenti pubblici in possesso del riconoscimento di disabilità con
connotazione di gravità?
Inoltre l'estensione dei 12 giorni ulteriori di
permessi ex lege 104/1992 riguarda soltanto i dipendenti che assistono
persone con disabilità grave oppure anche i disabili stessi con connotazione
di gravità?
Con riferimento alle questioni poste, si esprime il seguente avviso.
In
relazione al primo quesito formulato si ritiene che l’autorità competente ai
sensi delle previsioni dettate dall’articolo 26, comma 2, del Dl 17.03.2020,
n. 18, sia da individuarsi nelle strutture legali dell’azienda sanitaria
locale competente, anche in conformità alle prescrizioni di cui all’articolo
4, Legge 104/1992, la quale, ai fini del riconoscimento della situazione di
handicap, testualmente dispone, con espresso riferimento alla connotazione
di cui all’articolo 3 della stessa legge, che gli accertamenti relativi alla
minorazione, alle difficoltà, alla necessità dell'intervento assistenziale
permanente e alla capacità complessiva individuale residua sono effettuati
dall'unità sanitaria locale competente mediante l’utilizzo di apposite
commissioni mediche costituite ai sensi dell’articolo 1, comma 2, Legge 295/1990, opportunamente integrate da specialisti o esperti individuati, in
relazione alle fattispecie da esaminare, tra il personale in servizio presso
le stesse unità sanitarie locali.
Con riferimento al secondo quesito posto, inoltre, si ritiene che la
fruizione dell’estensione temporale dell’istituto di cui all’articolo 33,
comma 3, Legge 104/1992 disposto dall’articolo 24, comma 1, Dl 17.03.2020, n.
18, debba essere riconosciuta in attuazione delle medesime modalità
applicative che regolano l’impiego di tale istituto legale, come recate dal
richiamato articolo 33, comma 3.
L’intervento delle misure di urgenza
operato con il citato articolo 24, comma 1, infatti, determina una mera
estensione temporale del possibile godimento del beneficio, non mutandone,
pertanto, la configurazione giuridica e la conseguente portata applicativa
che, infatti, restano immutate in quanto connesse al medesimo istituto
legale.
Da ciò discende, pertanto, che tale ampliamento dell’entità fruibile del
permesso in questione non attenga esclusivamente all’assistenza di terzi
disabili, come indicati dal comma 3 dell’articolo 33, Legge 104/1992, bensì
afferisca anche all’ipotesi in cui il beneficiario, lavoratore dipendente,
sia esso stesso il destinatario dell’assistenza fornita, in applicazione
delle previsioni recate dal comma 6 del medesimo articolo 33 (cfr.: "6. La
persona handicappata maggiorenne in situazione di gravità può usufruire
alternativamente dei permessi di cui ai commi 2 e 3 (…)”).
Tale posizione, infatti, appare fatta propria anche dalla recente circolare
Inps n. 45 del 25 marzo u.s., con la quale l’Istituto previdenziale,
fornendo istruzioni sulla cumulabilità dell’astensione dal lavoro, riconosce
espressamente la fruibilità di tale estensione temporale del permesso anche
a beneficio dello stesso lavoratore disabile (cfr.: “(…) il lavoratore
disabile che assiste altro soggetto disabile, potrà cumulare, per i mesi di
marzo e aprile 2020, i permessi a lui complessivamente spettanti (3+3+12)
con lo stesso numero di giorni di permesso fruibili per l’assistenza
all’altro familiare disabile (3+3+12).”) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'08.04.2020). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Informatizzazione
della P.A..
Questo Comune si trova ad avere personale dipendente
senza dispositivi elettronici nella propria abitazione. L'Amministrazione
dal canto suo non è in grado, per motivi finanziari e tecnici, di dotare
tutto il personale di adeguata strumentazione, almeno per il momento.
Qualora sia obbligatorio consentire lo "smart working" che tipo di attività
potrebbero essere svolte dal personale?
Il D.L. 17.03.2020, n. 18 "Misure di potenziamento del Servizio sanitario
nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese
connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19" all'art. 87
stabilisce che, fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica
(al momento il 31 luglio, salvo anticipazione o proroga) il lavoro agile è
la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle
pubbliche amministrazioni.
Tale modalità prescinde dalla tipologia di lavoro svolta dal dipendente
(tramite postazione informatica o meno).
Infatti lo stesso decreto stabilisce che la prestazione lavorativa in lavoro
agile può (non deve) essere svolta anche attraverso strumenti informatici
nella disponibilità del dipendente implicitamente ammettendo, oltre alla
ovvia opzione che sia svolta con dotazioni informatiche assegnate dall'ente,
che possa svolgersi anche senza alcuna dotazione informatica (o con
dotazioni con connesse alla rete internet).
Il Ministro per la pubblica amministrazione ha adottato la Circ. 01.04.2020
n. 2 nella quale ha precisato che "È altresì possibile -anzi è
auspicabile che le amministrazioni si attivino in tal senso- promuovere
percorsi informativi e formativi in modalità agile che non escludano i
lavoratori dal contesto lavorativo e dai processi di gestione
dell'emergenza, soprattutto con riferimento a figure professionali la cui
attività potrebbe essere difficilmente esercitata in modalità agile e per le
quali l'attuale situazione potrebbe costituire un momento utile di
qualificazione e aggiornamento professionale". Con ciò invitando a
valutare, prima di disporre un eventuale esonero dallo svolgimento di
prestazione lavorativa, l'attivazione di percorsi di formazione ed
informazione del personale dipendente.
Poi, è stato siglato il
protocollo 03.04.2020 tra il ministro per la Pubblica amministrazione e Cgil, Cisl e
Uil per la "prevenzione e la sicurezza dei dipendenti pubblici in ordine
all'emergenza sanitaria da 'Covid-19'" nel quale si esplicita questo
aspetto segnalando come, "in linea con quanto recato dalla richiamata
circolare n. 2/2020, qualora non sia possibile ricorrere alle forme di
lavoro agile, le amministrazioni, fermo restando l'eventuale ricorso alle
ferie pregresse maturate fino al 31.12.2019, ai congedi o ad analoghi
istituti qualora previsti dai CCNL vigenti, nonché, ove richiesto dai
dipendenti, dei congedi parentali straordinari previsti a garanzia delle
cure genitoriali da prestare, possono ricorrere, nelle modalità previste dai
vigenti CCNL, al collocamento in attività di formazione in remoto
utilizzando pacchetti formativi individuati dal datore di lavoro".
Alla luce di tale contesto e dei chiarimenti indicati qualora la prestazione
lavorativa sia attivabile in lavoro agile (secondo una analisi oggettiva che
escluda una presenza fisica in ufficio), l'eventuale mancanza (permanente o
temporanea) di dotazione informatica non impedisce la relativa attivazione,
ma determina un onere in carico al datore di lavoro di definire le modalità
operative più idonee per svolgere altre e diverse prestazioni lavorative
(sempre proprie della mansione) a cui affiancare attività di informazione e
formazione.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.C.M. 22.03.2020, art. 1
Documenti allegati
Circ. 01.04.2020 n. 2
(08.04.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Coronavirus:
ancora dubbi ed incertezze degli Enti sull'applicazione di norme ed istituti
introdotti dalla legislazione d'urgenza.
Tra le diverse problematiche che si presentano all’attenzione degli
operatori, strettamente legate alla straordinaria situazione emergenziale
che stiamo vivendo e alle misure adottate dal Governo per farvi fronte e che
impattano sulla gestione del rapporto di lavoro, alcune riguardano le misure
di sostegno ai lavoratori pubblici per l’impatto sulla gestione e
l’organizzazione familiare delle misure di limitazione alla circolazione e
altre il comportamento dei datori di lavoro di fronte a sintomi che il
lavoratore possa presentare e che richiedono particolare attenzione, sia
sotto il profilo della salute dei singoli, che sulla diffusione
epidemiologica del COVID-19.
Di seguito vengono fornite le risposte a due
tra i più significativi quesiti:
Sono a chiedere quanto segue in merito all'art. 24
(Estensione durata permessi retribuiti ex art. 33, legge 104/1992), recante:
1. Il numero di giorni di permesso retribuito coperto da contribuzione
figurativa di cui all’articolo 33, comma 3, della legge 05.02.1992, n.
104, è incrementato di ulteriori complessive dodici giornate usufruibili nei
mesi di marzo e aprile 2020.
A tal proposito, UnionCamere ha affermato che
si tratta di permessi solo a giorni (non ad ore in mancanza di diversa
esplicita indicazione) considerato il dato letterale; sul punto l'Inps
afferma che possono essere anche permessi ad ore.
Ad avviso dello scrivente,
le ragioni che, in modo sintetico, sono a favore della tesi di UnionCamere
sono le seguenti:
a) il dato letterale del DL 18/2020;
b) la previsione ad ore non è fatta dalla legge 104/1992 ma dai
contratti collettivi nazionali di lavoro;
c) in occasione del lavoro agile (quale ordinario modo di lavoro
nelle pubbliche amministrazioni durante l'emergenza epidemiologica) non è
consentita la riduzione oraria del lavoro per chi ha senso la previsione dei
permessi a giorni;
d) anche qualora vi fosse la necessità del lavoro in
presenza, la previsione a giorni e non ad ore dell'istituto de quo risponde
alla logica di scoraggiare lo "spezzettamento" del tempo tra lavoro e casa,
ma intende agevolare l'allontanamento dalla sede di lavoro (quindi intera
giornata) favorendo l'isolamento per evitare i contatti interpersonali.
Con riguardo alla questione posta, occorre fare riferimento alla
disposizione di cui all’art. 24, Dl 17.03.2020, n. 18, che testualmente
recita: ”1. Il numero di giorni di permesso retribuito coperto da
contribuzione figurativa di cui all'articolo 33, comma 3, Legge 104/1992, è
incrementato di ulteriori complessive dodici giornate usufruibili nei mesi
di marzo e aprile 2020”.
La disposizione legislativa d’urgenza, pertanto, ha inteso estendere la
portata temporale dell’istituto di cui al richiamato art. 33, comma 3, Legge
104/1992, il quale prevede che "3. A condizione che la persona handicappata
non sia ricoverata a tempo pieno, il lavoratore dipendente, pubblico o
privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge,
parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora
i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità
abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi
affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, ha diritto a
fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione
figurativa, anche in maniera continuativa. Il predetto diritto non può
essere riconosciuto a più di un lavoratore dipendente per l’assistenza alla
stessa persona con handicap in situazione di gravità. Per l’assistenza allo
stesso figlio con handicap in situazione di gravità, il diritto è
riconosciuto ad entrambi i genitori, anche adottivi, che possono fruirne
alternativamente. Il dipendente ha diritto di prestare assistenza nei
confronti di più persone in situazione di handicap grave, a condizione che
si tratti del coniuge o di un parente o affine entro il primo grado o entro
il secondo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap
in situazione di gravità abbiano compiuto i 65 anni di età oppure siano
anch'essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti”.
La
configurazione legale dell’istituto, pertanto, si sviluppa sul periodo
temporale giornaliero assunto a riferimento per la legittima fruizione dello
stesso.
Su tale periodo di godimento, poi, per l’area contrattuale delle Funzioni
Locali, nella quale sono annoverate anche le Camere di Commercio, è
intervenuto l’articolo 33, comma 1, del recente Ccnl 21.05.2018, il quale ne
ha facoltizzato l’impiego anche su periodo orario, frazionando le giornate
legalmente prescritte. La clausola contrattuale, infatti, dispone che "1. I
dipendenti hanno diritto, ove ne ricorrano le condizioni, a fruire dei tre
giorni di permesso di cui all' art. 33, comma 3, della Legge 104/1992. Tali
permessi sono utili ai fini delle ferie e della tredicesima mensilità e
possono essere utilizzati anche ad ore, nel limite massimo di 18 ore
mensili.”.
Definito il quadro giuridico che regola la materia, si ritiene che il
combinato delle due disposizioni riportate operi una mera estensione del
periodo temporale di fruizione dell’istituto, come legalmente previsto, con
conseguente e corrispondente ampliamento delle modalità applicative
dell’istituto come delineate nei diversi ambiti di operatività dell’istituto
stesso.
In altri termini, dunque, la disposizione d’urgenza varata dal
Governo interviene non tanto modificando l’istituto del permesso retribuito
o introducendo un nuovo e diverso istituto giuridico dallo stesso distinto e
dotato di autonoma regolazione, bensì opera ampliando il periodo temporale
di utilizzo dello stesso, integrandone la portata legale di ulteriori 12
giornate complessive per i soli mesi di marzo ed aprile 2020.
Se tant'è,
pertanto, non si ravvisa ragione alcuna per non consentirne la fruizione con
le stesse modalità che, per singolo comparto di contrattazione, la fonte
negoziale ha introdotto, nel caso di specie frazionando il periodo
giornaliero ad ore. Infatti, a ben vedere, le motivazioni che si portano a
suffragio dell’inapplicabilità frazionata dell’istituto sono così indicate
nel quesito:
a) il dato letterale recato dall’articolo 24 si limita ad estendere
la portata legale del permesso, non intervenendo, ma neppure impedendo, la
sua fruizione oraria, se consentita da altra fonte normativa;
b) la circostanza che la fruizione oraria sia stata affidata alla
fonte negoziale non vale, certamente, a smentirne l’applicazione riguardo
all’estensione temporale del medesimo istituto operata dalla legge;
c) nell’ambito della modalità di fornitura della prestazione in
smart working, la particolare modalità con la quale si sviluppa l’attività
lavorativa è compatibile sostanzialmente con tutti gli istituti di assenza
giustificata dal lavoro, anche computata ad ore, al pari del lavoro in
presenza, a meno che si tratti di un numero di ore talmente limitato da
poter essere riassorbito nell’ambito della flessibilità propria della
modalità di lavoro agile (cfr., al riguardo, il num. 3.
Aspetti organizzativi, gestione del rapporto di lavoro e relazioni
sindacali, lett. D) - Disciplina interna, num. 14, della direttiva della
Presidenza del Consiglio dei Ministri 01.06.2017, n. 3 in materia di
regolazione dello smart working e del telelavoro, il quale rimette
all’autonomo potere datoriale dell’ente la disciplina di diversi aspetti
applicativi dell’istituto, in particolare: “14. fermo restando il divieto di
discriminazione, previsione dell’eventuale esclusione, per effetto della
distribuzione flessibile del tempo di lavoro, di prestazioni eccedenti
l’orario settimanale che diano luogo a riposi compensativi, prestazioni di
lavoro straordinario, prestazioni di lavoro in turno notturno, festivo o
feriale non lavorativo che determinino maggiorazioni retributive, brevi
permessi o altri istituti che comportino la riduzione dell’orario
giornaliero di lavoro;”); d) l’estensione temporale di tale particolare
permesso retribuito risponde alla chiara ratio di consentire la
giustificazione di una maggiore entità temporale di assenza dal lavoro in
conseguenza della necessità di accudire il familiare in situazione di
gravità conseguente alle significative limitazioni di trasferimento che sono
state introdotte dalla legislazione emergenziale, per le quali, infatti, il
familiare stesso potrebbe subire una rilevante contrazione di assistenza
diretta assicurata da terzi.
In conclusione, pertanto, si ritiene che la
fruizione contrattuale ad ore dell’istituto in questione, come introdotta
dal detto articolo 33, comma 1, del Ccnl 21.05.2018, sia da estendersi anche
all’integrazione temporale dell’istituto stesso, come introdotta
dall’articolo 24, comma 1, Dl 18/2010, non risultando sussistenti elementi
ostativi alla sua applicazione.
Numerosi colleghi (nel piano in cui operiamo ben oltre
la metà) si trovano contemporaneamente in stato di malattia con sintomi
comuni quali febbre alta, mal di schiena, in alcuni casi perdita di olfatto
e gusto, mal di testa, tosse… alcuni di questi hanno avuto necessità di
prolungamento del periodo di congedo oltre le due settimane stante il
perdurare dei sintomi.
Ci chiediamo se sia il caso procedere a verifiche sul
personale “superstite” al fine di individuare o meglio di escludere la
presenza di portatori asintomatici di coronavirus, in caso affermativo a chi
e da chi deve essere fatta tale richiesta?
Con riferimento al quesito posto, si ritiene che l’amministrazione,
generalmente e fatti salvi casi del tutto eccezionali e marginali, non possa
disporre una verifica sulla diagnosi di malattia in cui versi il lavoratore
disposta dal medico curante o da altro presidio medico competente.
È, infatti, competenza e responsabilità di quest’ultimo verificare e,
conseguentemente, diagnosticare l’eventuale sussistenza di sintomi da
COVID-19 manifestati dal lavoratore, attivando, in caso di accertamento
positivo, il protocollo medico-sanitario previsto per queste particolari
circostanze.
Laddove sussista fondato timore che il dipendente presenti manifestazioni
sintomatiche da coronavirus, pertanto, per come rilevabili attraverso
l'osservazione esterna o dichiarazioni rese dallo stesso lavoratore e non
mediante esame medico, ovviamente interdetto al datore di lavoro,
l’amministrazione potrà chiedere l’immediato intervento del medico
competente per condurre una prima verifica sulla sussistenza e natura della
sintomatologia manifestata e, successivamente, sulla base dell'eventuale
positiva diagnosi medica, richiedere, allo stesso medico competente,
l’attivazione dell'apposito protocollo sanitario avanti le competenti
autorità medico-sanitarie (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
06.04.2020). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
Corte di giustizia UE precisa a quali condizioni può derogarsi al divieto di
affidare incarichi di studio e consulenza a soggetti già collocati in
quiescenza.
La Corte di giustizia UE, rispondendo ad una questione pregiudiziale
sollevata dal Tar per la Sardegna, precisa a quali condizioni le
amministrazioni pubbliche possono assegnare incarichi di studio e di
consulenza a persone già collocate in quiescenza (situazione che, nel nostro
ordinamento interno, è oggetto dello specifico divieto di cui all’art. 5,
comma 9, del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito in legge n. 135 del
2012), alla luce del principio di parità di trattamento in materia di
occupazione e di condizioni di lavoro di cui alla direttiva n. 2000/78/CE.
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Amministrazione dello Stato e degli enti pubblici in genere – Riduzione
di spesa – Incarichi di consulenza e di studio in favore di lavoratori già
collocati in quiescenza – Divieto – Condizioni
La direttiva n. 2000/78/CE del Consiglio, del
27.11.2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento
in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, e in particolare
l’articolo 2, paragrafo 2, l’articolo 3, paragrafo 1, e l’articolo 6,
paragrafo 1, della stessa, dev’essere interpretata nel senso che essa non
osta a una normativa nazionale che vieta alle amministrazioni pubbliche di
assegnare incarichi di studio e consulenza a persone collocate in quiescenza
purché, da un lato, detta normativa persegua uno scopo legittimo di politica
dell’occupazione e del mercato del lavoro e, dall’altro, i mezzi impiegati
per conseguire tale obiettivo siano idonei e necessari. Spetta al giudice
del rinvio verificare se ciò avvenga effettivamente nella fattispecie di cui
al procedimento principale.(1)
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(1) I. – Con la pronuncia in rassegna, la Corte di giustizia UE si
pronuncia sul divieto, imposto alle amministrazioni pubbliche dall’art. 5,
comma 9, del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito in legge n. 135 del
2012, di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già
lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza.
La questione pregiudiziale era stata rimessa dal Tar per la Sardegna,
sezione I, con ordinanza 19.10.2018, n. 881. Il giudice rimettente era
chiamato a pronunciarsi sul ricorso, proposto da un dipendente pubblico in
pensione, contro l’avviso di manifestazione di interesse, adottato dal
Comune di Gesturi, avente ad oggetto l’affidamento di un incarico di studio
e di consulenza in materia di igiene.
Tale avviso, in aderenza a quanto previsto dall’art. 5, comma 9, prima
parte, del decreto-legge n. 95 del 2012 (a norma del quale “È fatto
divieto alle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del
decreto legislativo n. 165 del 2001, nonché alle pubbliche amministrazioni
inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione,
come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi
dell'articolo 1, comma 2, della legge 31.12.2009, n. 196 nonché alle
autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e
la borsa (Consob) di attribuire incarichi di studio e di consulenza a
soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza”),
aveva infatti previsto, tra i requisiti di partecipazione, che i soggetti
interessati non fossero dipendenti pubblici collocati in quiescenza.
Nell’ordinanza di rimessione veniva sottolineato il possibile contrasto con
gli artt. 1 e 2 della direttiva n. 2000/78/CE (“Direttiva del Consiglio
che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di
occupazione e di condizioni di lavoro”), i quali –a giudizio del Tar– “pongono
l’obiettivo di combattere ogni forma di discriminazione sia diretta che
indiretta (tra cui quella basata sull’età)”, posto che il censurato
divieto nazionale “esclude una categoria di persone dalla possibilità di
assumere incarichi nell’amministrazione per ragioni essenzialmente correlate
all’età (essendo il collocamento in quiescenza determinato dal
raggiungimento di una certa anzianità ‘contributiva’ e quindi
necessariamente da una proporzionale età anagrafica)”.
Aggiungeva peraltro il Tar che tale discriminazione non poteva nemmeno
trovare una adeguata giustificazione ai sensi dell’art. 6 della medesima
direttiva (rubricato “Giustificazione delle disparità di trattamento
collegate all'età”), non potendosi affermare che la norma nazionale sia
diretta ad “assicurare il fisiologico ricambio di personale”: secondo
il rimettente, “appare infatti improbabile che un incarico, specialmente
se delicato e complesso, che possa essere ben espletato da chi ha per lungo
tempo operato nel settore, possa essere conferito ad un soggetto privo della
necessaria esperienza”.
In definitiva, quindi, secondo il Tar, la misura del divieto “appare
dunque inappropriata rispetto alla scopo” (costituito, evidentemente,
dagli obiettivi di risparmio della spesa pubblica, perseguiti dal
decreto-legge sulla spending review) “e pertanto inidonea a
giustificare la discriminazione”.
II. – La questione ottiene una risposta parzialmente positiva da
parte della Corte di giustizia UE, nel senso che la normativa interna di
divieto può considerarsi compatibile con il principio di parità di
trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro “purché,
da un lato, detta normativa persegua uno scopo legittimo di politica
dell’occupazione e del mercato del lavoro e, dall’altro, i mezzi impiegati
per conseguire tale obiettivo siano idonei e necessari”, spettando
peraltro al giudice nazionale verificare, di volta in volta, “se ciò
avvenga effettivamente nella fattispecie di cui al procedimento principale”.
Il percorso argomentativo della Corte di Lussemburgo può essere sintetizzato
come segue:
a) in via preliminare, la Corte fuga il dubbio di
una (pur prospettata) inammissibilità della questione pregiudiziale,
derivante dal fatto che il giudice del rinvio non ha analizzato la questione
alla luce del principio della libera prestazione dei servizi; in proposito
osserva che:
a1) una normativa nazionale,
applicabile indistintamente ai cittadini tanto italiani quanto degli altri
Stati membri, può ricadere, di norma, nella sfera delle disposizioni
relative alle libertà fondamentali garantite dal trattato FUE solo in quanto
si applichi a situazioni che presentino un collegamento con gli scambi tra
gli Stati membri (in tal senso, sono richiamate la sentenza dell’11.06.2015,
C-98/14, Berlington Hungary e a., punto 24, in Foro amm., 2015, 1620, solo
massime, e l’ordinanza 04.06.2019, Pólus Vegas, C-665/18, punto 17);
a2) tale situazione non si
verifica nel caso di specie, dato che tutti gli elementi della controversia
di cui al procedimento principale sono circoscritti all’interno di un solo
Stato membro, ossia la Repubblica italiana;
b) venendo dunque al merito, la Corte anzitutto
afferma che il divieto nazionale oggetto della questione pregiudiziale
ricade nella sfera di applicazione della direttiva n. 2000/78/CE; ciò, sulla
base delle seguenti considerazioni:
b1) la richiamata direttiva
mira a stabilire un quadro generale per garantire a chiunque la parità di
trattamento “in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”,
assicurando una protezione efficace contro le discriminazioni basate su uno
dei motivi indicati nel suo art. 1, tra i quali compare l’età (sono qui
richiamate: sentenza 18.06.2009, C-88/08, Hütter, punto 33, in Dir. pubbl.
comparato ed europeo, 2009, 1928, con nota di LUBELLO, in Riv. critica dir.
lav., 2009, 649, con nota di PERUZZI, ed in Riv. it. dir. lav., 2010, II,
956, con nota di CALAFA`; sentenza 12.10.2010, C-499/08, Ingeniørforeningen
i Danmark, punto 19, in Riv. it. dir. lav., 2011, II, 913, con nota di
FALSONE, ed in Giur. it., 2011, 2099, con nota di GENTILI);
b2) l’art. 3, par. 1, lettere
a) e c), precisa che la direttiva si applica, nei limiti dei poteri
conferiti all’Unione, “a tutte le persone, sia del settore pubblico che
del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico”, per
quanto attiene, da un lato, “alle condizioni di accesso all’occupazione
[…] compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione”, e,
dall’altro, “all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le
condizioni di licenziamento e la retribuzione” (in tal senso, sentenza
Hütter, cit., punto 34, e sentenza 12.01.2010, C-341/08, Petersen, punto 32,
in Riv. critica dir. lav., 2009, 931, con nota di BORELLI, in Dir. relazioni
ind., 2010, 875, con nota di MONACO, in Riv. giur. lav., 2010, II, 660, con
nota di SCHIAVETTI, ed in Dir. mercato lav., 2010, 199, con nota di
ALLOCCA);
b3) qualora una normativa nazionale vieti, in modo generale, alle
amministrazioni pubbliche di assegnare incarichi di studio e consulenza alle
persone provenienti sia dal settore privato sia dal settore pubblico, per il
fatto che esse siano state collocate in quiescenza, essa finisce con l’“escludere
dette persone da qualsiasi reclutamento o assunzione”, così incidendo “direttamente
sulla formazione del rapporto di lavoro e, a fortiori, sull’esercizio, da
parte degli interessati, di determinate attività professionali”; tale
normativa nazionale, “pertanto, dev’essere considerata come fonte di
norme relative alle condizioni di accesso all’occupazione, ai sensi
dell’articolo 3, paragrafo 1, lett. a), della direttiva 2000/78”;
c) ciò premesso, la Corte giunge a ritenere che
la denunziata normativa nazionale istituisce una differenza di trattamento
indirettamente basata sull’età, ai sensi del combinato disposto
dell’articolo 1 e dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva
n. 2000/78/CE; ciò, sulla base del seguente ragionamento:
c1) ai sensi dell’art. 2, par. 1, della direttiva, per “principio della
parità di trattamento” si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione
diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’art. 1 (religione,
convinzioni personali, handicap, età, tendenze sessuali), intendendosi per
discriminazione diretta la situazione in cui “una persona è trattata in
modo meno favorevole di un’altra che si trovi in una situazione analoga”
e, per discriminazione indiretta, la situazione in cui “una disposizione,
un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una
posizione di particolare svantaggio le persone di una particolare età
rispetto ad altre persone”;
c2) nel caso di specie, l’art. 5, comma 9, del decreto-legge n. 95 del 2012,
pur non facendo direttamente riferimento ad una determinata età
(applicandosi il divieto ivi disposto a qualunque persona collocata in
quiescenza, “laddove l’età alla quale queste ultime abbiano potuto godere
di un trattamento di quiescenza non è la stessa per tutte queste persone”),
vi è, tuttavia, un indiretto riferimento ad un criterio collegato all’età “dal
momento che il beneficio di un trattamento di quiescenza è subordinato al
compimento di un certo numero di anni di lavoro e alla condizione di aver
raggiunto una determinata età”;
c3) di conseguenza, il divieto di partecipare ad avvisi di manifestazione di
interesse per l’assegnazione, da parte delle amministrazioni pubbliche, di
incarichi di studio e consulenza “dev’essere considerata come tale da
imporre a detti soggetti un trattamento meno favorevole di quello riservato
a tutte le persone che esercitino ancora un’attività professionale”,
comportando, per l’effetto, “una discriminazione indiretta basata
sull’età dell’interessato”; ciò, a differenza della situazione che
veniva in rilievo nella sentenza del 21.05.2015, C-262/14, SCMD, punti 28 e
30, in quel caso correlata allo “status o [a]lla categoria
socioprofessionale in cui rientrava l’interessato a livello nazionale,
vietando il cumulo del trattamento di quiescenza riscosso con un reddito
ricavato dall’attività professionale”;
d) appurato, pertanto, che il divieto de quo
comporta una disparità di trattamento indirettamente basata sull’età, la
Corte passa a verificare la sussistenza di eventuali giustificazioni ai
sensi dell’art. 6 della direttiva n. 2000/78/CE (il quale fa salvi gli “obiettivi
di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale”,
ivi compresa “la definizione di condizioni speciali di accesso
all’occupazione per i giovani o la fissazione di un’età massima per
l’assunzione”, sempre purché “i mezzi per il conseguimento di tale
finalità siano appropriati e necessari”); al riguardo, la Corte precisa
quanto segue:
d1) la norma italiana “ha lo scopo di garantire il rinnovo del personale
mediante l’assunzione di giovani”, perseguendo un duplice obiettivo: “da
un lato, realizzare un’effettiva revisione della spesa pubblica mediante la
riduzione dei costi di funzionamento dell’amministrazione pubblica, senza
danneggiare la sostanza dei servizi forniti ai cittadini, e, dall’altro,
facilitare il ringiovanimento del personale delle amministrazioni pubbliche,
favorendo l’accesso di persone più giovani alla funzione pubblica”;
d2) l’indicazione contemporanea di diversi obiettivi, collegati gli uni agli
altri oppure classificati per ordine di importanza, non costituisce un
ostacolo all’esistenza di una finalità legittima ai sensi dell’articolo 6,
paragrafo 1, della direttiva n. 2000/78/CE (in tal senso, sentenza
21.07.2011, C-159 e 160/10, Fuchs e Köhler, punti 44 e 46, in Giurisdiz.
amm., 2011, III, 726);
d3) benché considerazioni di bilancio possano essere alla base delle scelte
di politica sociale di uno Stato membro e influire sulla natura o la portata
delle misure di tutela dell’occupazione che esso intenda adottare, esse
tuttavia non possono costituire di per sé uno scopo perseguito da tale
politica (in tal senso, sentenza 20.06.2013, C-20/12, Giersch e a., punto
51, in Dir. pubbl. comparato ed europeo, 2013, 1303, con nota di MONTALDO);
e) pertanto, pur se quella dettata dall’art. 5,
comma 9, del decreto-legge n. 95 del 2012 rientra tra le “misure
necessarie per ridurre i deficit eccessivi dell’amministrazione pubblica
italiana e mira, per la precisione, a evitare un cumulo di retribuzioni e di
trattamenti di quiescenza provenienti da fondi pubblici”, la Corte di
Lussemburgo ricorda che “l’obiettivo della riduzione effettiva della
spesa pubblica può influire sulla natura e sulla portata delle misure di
tutela dell’occupazione ma non può costituire, di per sé, una finalità
legittima”; in particolare, quanto all’obiettivo –come visto, perseguito
dalla norma nazionale– consistente nel garantire un ringiovanimento del
personale in attività, la Corte precisa quanto segue:
e1) la legittimità di simile obiettivo di interesse generale, rientrante
nella politica dell’occupazione, “non può essere ragionevolmente messa in
dubbio, dal momento che esso compare tra gli obiettivi espressamente
enunciati dall’articolo 6, paragrafo 1, primo comma, della direttiva 2000/78
e che, conformemente all’articolo 3, paragrafo 3, primo comma, TUE, la
promozione di un livello di occupazione elevato costituisce una delle
finalità perseguite dall’Unione” (in tal senso, è richiamata la sentenza
16.10.2007, C-411/05, Palacios de la Villa, punto 64, in Europa e dir.
privato, 2008, 269, con nota di CARINI, ed in Riv. it. dir. lav., 2008, II,
286, con nota di IMBERTI);
e2) la promozione dell’assunzione, secondo la giurisprudenza euro-unitaria,
“costituisce incontestabilmente una finalità legittima di politica
sociale o dell’occupazione degli Stati membri, segnatamente quando si tratta
di migliorare le opportunità di inserimento nella vita attiva di determinate
categorie di lavoratori, e in particolare di favorire l’accesso dei giovani
all’esercizio di una professione” (cfr. sentenza Palacios de la Villa,
cit., punto 65, nonché sentenza 19.07.2017, C-143/16, Abercrombie & Fitch
Italia, punto 37, in Labor, 2017, 551, con nota di ORTIS, in Dir. relazioni
ind., 2017, 1241, con nota di INVERSI, in Riv. giur. lav., 2017, II, 545,
con nota di BONARDI, in Arg. dir. lav., 2017, 1486, con nota di NUNIN, ed in
Riv. it. dir. lav., 2017, II, 878, con nota di MARINELLI);
e3) in particolare, è giustificato, a titolo di deroga al principio del
divieto delle discriminazioni basate sull’età, instaurare disparità di
trattamento collegate alle condizioni di accesso all’occupazione, quando
l’obiettivo perseguito consiste nello stabilire un equilibrio strutturale in
ragione dell’età tra giovani funzionari e funzionari più anziani, al fine di
favorire l’assunzione e la promozione dei giovani (cfr. sentenza Fuchs e
Köhler, cit., punto 50);
e4) di conseguenza –conclude, sul punto, la Corte– “gli obiettivi di
politica dell’occupazione perseguiti dalla normativa nazionale in
discussione nel procedimento principale devono essere considerati, in linea
di principio, come tali da poter giustificare obiettivamente e
ragionevolmente una disparità di trattamento basata sull’età”;
f) deve però verificarsi, avverte la Corte, se i
mezzi apprestati per conseguire dette finalità siano “appropriati e
necessari”, secondo il tenore stesso dell’art. 6, par. 1, primo comma,
della direttiva n. 2000/78/CE; al riguardo, occorre nella specie verificare
se l’art. 5, comma 9, del decreto-legge n. 95 del 2012 consenta di
conseguire gli obiettivi di politica dell’occupazione perseguiti dal
legislatore senza con ciò ledere in modo eccessivo gli interessi legittimi
delle persone collocate in quiescenza, le quali si trovano, per effetto di
tale disposizione, private di un’opportunità di nuova assunzione; ai fini di
questa verifica la Corte di Lussemburgo osserva quanto segue:
f1) gli Stati membri dispongono di un ampio margine discrezionale nella
scelta non soltanto di perseguire uno scopo determinato fra altri in materia
di politica sociale e di occupazione, ma altresì nella definizione delle
misure atte a realizzare detto scopo (con richiamo, qui, oltre alla sentenza
Palacios de la Villa, cit., punto 68, anche alla sentenza 22.11.2005,
C-144/04, Mangold, punto 63, in Foro it., 2006, IV, 133, con nota di V.
PICCONE – S. SCIARRA, Principî fondamentali dell’ordinamento comunitario,
obbligo di interpretazione conforme, politiche occupazionali, ivi, 341,
nonché in Lavoro giur., 2006, 459, con nota di NODARI, in Mass. giur. lav.,
2006, 222, con nota di FRANZA, in Riv. giur. lav., 2006, II, 205, con nota
di CALAFÀ, in Riv. critica dir. lav., 2006, 387, con nota di GUARISO, in Riv.
it. dir. lav., 2006, II, 250, con nota di BONARDI, in Giur. it., 2006, 1811,
con nota di CIARONI, in Guida al dir., 2006, 1, 61, con nota di CORRADO, ed
in Dir. lav., 2006, II, 3 e 15, con note di VALLEBONA e di RICCOBONO);
f2) tuttavia –precisa la Corte– “tale margine discrezionale non può avere
l’effetto di svuotare della sua sostanza l’attuazione del principio di non
discriminazione in ragione dell’età” (cfr. sentenza Ingeniørforeningen i
Danmark, cit., punto 33), spettando peraltro alle autorità competenti degli
Stati membri il compito di trovare un giusto equilibrio tra i diversi
interessi in gioco (cfr. sentenza Palacios de la Villa, cit., punto 71),
dovendosi leggere il divieto di discriminazione in base all’età “alla
luce del diritto di lavorare riconosciuto dall’articolo 15, paragrafo 1,
della Carta dei diritti fondamentali. Ne risulta che una particolare
attenzione dev’essere riservata alla partecipazione dei lavoratori anziani
alla vita professionale e, al tempo stesso, alla vita economica, culturale e
sociale. Il mantenimento di queste persone nella vita attiva favorisce
segnatamente la diversità nell’occupazione. Tuttavia, l’interesse
rappresentato dal mantenimento in attività di tali persone dev’essere tenuto
in considerazione rispettando altri interessi eventualmente contrastanti”
(in tal senso, sentenza Fuchs e Köhler, cit., punti da 62 a 64, nonché
sentenza 05.07.2012, C-141/11, Hörnfeldt, punto 37, in Riv. critica dir. lav.
privato e pubbl., 2012, 351, con nota di GUARISO, ed in Lavoro giur., 2013,
75, con nota di COSIO);
f3) l’obiettivo del ringiovanimento della popolazione attiva occupata,
pertanto, può ritenersi che, nel caso di specie, “non eccede quanto è
necessario, visto che si può ragionevolmente prevedere di negare l’ingaggio
o l’assunzione di persone collocate in quiescenza, che hanno completato la
loro vita professionale e che percepiscono un trattamento di quiescenza, al
fine di promuovere la piena occupazione della popolazione attiva o di
favorire l’accesso al mercato del lavoro per i più giovani”; tuttavia,
non appare affatto certo che la misura in questione nel procedimento
principale, consistente nel vietare alle persone collocate in quiescenza di
partecipare alle manifestazioni di interesse per l’assegnazione di incarichi
di studio e consulenza, consenta effettivamente di migliorare le opportunità
di inserimento nella vita attiva delle persone più giovani: ed infatti,
precisa la Corte, “poiché l’esecuzione di incarichi di studio e
consulenza può rivelarsi delicata e complessa, una persona più anziana si
trova probabilmente in condizioni migliori, tenuto conto dell’esperienza da
essa acquisita, per adempiere all’incarico affidatole. Pertanto, la sua
assunzione è benefica sia per l’amministrazione pubblica autrice della
manifestazione di interessi sia nei confronti dell’interesse generale”;
f4) insomma, precisa la Corte, “Benché un ringiovanimento del personale
in attività possa avvenire nell’ipotesi in cui persone già in possesso di
una certa esperienza manifestino il loro interesse per l’esecuzione di
incarichi siffatti, consentendo così a lavoratori più giovani, che
occuperanno il posto da essi liberato, di accedere al mercato del lavoro, è
necessario nondimeno che tali incarichi di studio e consulenza non
corrispondano a impieghi isolati, a tempo determinato e che non offrano
nessuna possibilità di ulteriore evoluzione professionale”;
f5) inoltre, “occorrerebbe verificare se il divieto in questione nel
procedimento principale non ecceda quanto necessario per conseguire lo scopo
perseguito, ledendo in maniera eccessiva le legittime aspettative delle
persone collocate in quiescenza, posto che esso si basa unicamente sul
criterio dell’età che consente di godere di un trattamento di quiescenza e
non prende in considerazione la ragionevolezza o meno del livello di detto
trattamento, di cui gli interessati beneficiano al termine della loro
carriera professionale”;
g) in definitiva, secondo la Corte di giustizia
UE, occorre fissare, per la soluzione della questione prospettata, le
seguenti conclusioni:
g1) deve essere preso in considerazione il livello del trattamento di
quiescenza di cui possono beneficiare gli interessati, “posto che la
normativa nazionale in questione nel procedimento principale consente a
detti soggetti di ricoprire incarichi dirigenziali o direttivi a tempo
determinato e a titolo gratuito, conformemente alle considerazioni di
bilancio invocate dal governo italiano parallelamente allo scopo di politica
dell’occupazione basato su un ringiovanimento del personale in attività”;
g2) spetta al giudice nazionale verificare se il divieto imposto alle
persone collocate in quiescenza sia idoneo a garantire la realizzazione
dell’obiettivo invocato, e soddisfi effettivamente l’intento di conseguirlo
in modo coerente e sistematico (in tal senso, sentenza Petersen, cit., punto
53, e sentenza 10.03.2009, C-169/07, Hartlauer, punto 55, in Ragiusan, 2009,
305, 31);
g3) in tale contesto, il giudice nazionale ha il compito, segnatamente, “di
verificare se la facoltà di assegnare incarichi dirigenziali e direttivi
occupati a titolo gratuito non costituisca, in realtà, uno scopo di politica
di bilancio perseguito dalla normativa in questione nel procedimento
principale, che si ponga in contraddizione con lo scopo di politica
dell’occupazione basato sul ringiovanimento del personale in attività”.
III. – Per completezza, si consideri quanto segue:
h) sul tema della discriminazione indiretta in
base all’età, nella giurisprudenza della Corte di giustizia UE, cfr., in
particolare:
h1) la sentenza 11.09.2019, C-397/18, D.W. c. Nobel Plastiques Ibérica SA
(in Foro it., 2019, IV, 506), secondo cui “La direttiva 2000/78/Ce del
consiglio, del 27.11.2000, che stabilisce un quadro generale per la parità
di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve
essere interpretata nel senso che lo stato di salute di un lavoratore
riconosciuto come particolarmente sensibile ai rischi professionali, ai
sensi del diritto nazionale, che non consente a tale lavoratore di occupare
taluni posti di lavoro per il motivo che ciò comporterebbe un rischio per la
sua stessa salute o per altre persone, rientra nella nozione di ‘handicap’,
ai sensi di tale direttiva, solo qualora detto stato determini una
limitazione della capacità, risultante in particolare da menomazioni
fisiche, mentali o psichiche durature, che, in interazione con barriere di
diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione
dell'interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli
altri lavoratori; spetta al giudice nazionale verificare se, nel
procedimento principale, tali condizioni siano soddisfatte”;
h2) la sentenza 19.07.2017, Abercrombie & Fitch Italia, cit. (menzionata
anche dalla decisione qui in rassegna), secondo cui “L'art. 21 della
carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, nonché l'art. 2, par. 1,
l'art. 2, par. 2, lett. a), e l'art. 6, par. 1, direttiva 2000/78/Ce del
consiglio, 27.11.2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di
trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, devono
essere interpretati nel senso che essi non ostano ad una disposizione, quale
quella di cui al procedimento principale, che autorizza un datore di lavoro
a concludere un contratto di lavoro intermittente con un lavoratore che
abbia meno di venticinque anni, qualunque sia la natura delle prestazioni da
eseguire, e a licenziare detto lavoratore al compimento del venticinquesimo
anno, giacché tale disposizione persegue una finalità legittima di politica
del lavoro e del mercato del lavoro e i mezzi per conseguire tale finalità
sono appropriati e necessari”;
in tal caso la Corte di Lussemburgo, pur riconoscendo la disparità di
trattamento in ragione dell’età, ne ravvisò a fondamento la legittima
finalità di promuovere l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro e
riconobbe l’appropriatezza e la necessità dei mezzi allo scopo previsti, in
ragione, per un verso, dell’incentivo ad assumere scaturente da contratti
più flessibili e, per altro verso, della crisi economica che soffoca
l’accesso all’occupazione;
h3) la sentenza 15.11.2016, C-258/15, Salaberria Sorondo c. Academia Vasca
de Policía y Emergencias (in Lavoro giur., 2017, 235, con nota di COSIO),
secondo cui “L'art. 2, par. 2, direttiva 2000/78/Ce del consiglio,
27.11.2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento
in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, in combinato disposto
con l'art. 4, par. 1, stessa direttiva, deve essere interpretato nel senso
che esso non osta ad una normativa, come quella controversa nel procedimento
principale, la quale prevede che i candidati ad impieghi quali agenti di un
corpo di polizia, che svolgono tutte le funzioni operative o esecutive
incombenti a quest'ultimo, non debbano aver compiuto trentacinque anni di
età”;
h4) la sentenza 10.11.2016, C-548/15, J.J. de La. contro Staatssecretaris
van Financiën (in Foro it., Rep. 2016, voce Unione europea, n. 1973),
secondo cui “L'art. 3, par. 1, lett. b), direttiva 2000/78/Ce del
Consiglio, del 27.11.2000, che stabilisce un quadro generale per la parità
di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve
essere interpretato nel senso che un regime impositivo come quello di cui al
procedimento principale, che prevede che il trattamento fiscale delle spese
di formazione professionale sostenute da una persona sia diverso a seconda
dell'età di quest'ultima, rientra nell'ambito di applicazione ratione
materiae di tale direttiva, nei limiti in cui mira a favorire l'accesso alla
formazione dei giovani”; in tale occasione, nondimeno, la Corte ritenne
che tale regime impositivo differenziato per età fosse compatibile con le
cause di giustificazione indicate dall’art. 6 della direttiva a condizione
che, “da un lato, detto regime sia oggettivamente e ragionevolmente
giustificato da una finalità legittima relativa alla politica del lavoro e
del mercato del lavoro e, dall’altro, i mezzi per conseguire tale obiettivo
siano appropriati e necessari”, aggiungendo (non dissimilmente dalle
conclusioni della pronuncia in rassegna) che “spetta al giudice del
rinvio verificare se tale ipotesi ricorra nel procedimento principale”;
h5) la sentenza 13.09.2011, C-447/09, Prigge c. Deutsche Lufthansa AG (in
Arg. dir. lav., 2012, 415, con nota di GUADAGNO, in Dir. pubbl. comparato ed
europeo, 2012, 242, con nota di MARCHETTI, in Dir. relazioni ind., 2011,
1187, con nota di ZUCARO, in Riv. dir. sicurezza sociale, 2012, 391, con
nota di PAPA, ed in Dir. trasporti, 2013, 455, con nota di SACCHI), secondo
cui:
- “L'art. 2, n. 5, della dir. del consiglio 27.11.2000, 2000/78/Ce, che
stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di
occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretato nel senso
che gli stati membri possono, mediante norme di delega, autorizzare le parti
sociali ad adottare misure ai sensi di tale art. 2 n. 5, nei settori cui
detta disposizione si riferisce rientranti negli accordi collettivi e a
condizione che tali norme di delega siano sufficientemente precise per
garantire che dette misure rispettino i requisiti enunciati al cit. art. 2
n. 5”;
- “una misura come quella di cui trattasi nella causa principale, che
fissa a sessanta anni l'età limite a partire dalla quale i piloti non
possono più esercitare la loro attività lavorativa, mentre la normativa
nazionale e quella internazionale fissano tale età a sessantacinque anni,
non è una misura necessaria alla sicurezza pubblica e alla tutela della
salute ai sensi del medesimo art. 2 n. 5”;
- “l'art. 4 n. 1, della dir. 2000/78 deve essere interpretato nel senso
che osta a che una clausola di un contratto collettivo, come quella di cui
trattasi nella causa principale, fissi a sessanta anni l'età limite a
partire dalla quale i piloti sono considerati non più in possesso delle
capacità fisiche per esercitare la loro attività lavorativa, mentre la
normativa nazionale e quella internazionale fissano tale età a
sessantacinque anni; l'art. 6 n. 1, 1º comma, dir. 2000/78 deve essere
interpretato nel senso che la sicurezza aerea non costituisce una finalità
legittima ai sensi di tale disposizione”;
h6) la sentenza 19.01.2010, C-555/07, Kücükdeveci (in Foro it., 2011, IV,
150, con note di MILITELLO e di GRASSO, in Dir. mercato lav., 2010, 199, con
nota di ALLOCCA, in Giur. cost., 2010, 2729, con nota di RONCHETTI, in Riv.
giur. lav., 2011, II, 139, con nota di PERUZZI, in Riv. it. dir. lav., 2010,
II, 958, con nota di CALAFÀ e DI FEDERICO, ed in Diritti lavori mercati,
2011, 89, con nota di GUARRIELLO e MINOLFI), secondo cui “Il diritto
dell'Unione, in particolare il principio di non discriminazione in base
all'età, quale espresso concretamente nella direttiva del consiglio
27.11.2000 n. 2000/78/Ce, che stabilisce un quadro generale per la parità di
trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere
interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale, come quella di
cui trattasi nella causa principale, che prevede che, ai fini del calcolo
del termine di preavviso di licenziamento, non sono presi in considerazione
i periodi di lavoro compiuti dal dipendente prima del raggiungimento dei
venticinque anni di età”;
h7) la sentenza 12.01.2010, C-229/08, Wolf (in Riv. critica dir. lav., 2009,
930, con nota di BORELLI, in Dir. pubbl. comparato ed europeo, 2010, 387,
con nota di COLAPINTO, in Dir. relazioni ind., 2010, 876, con nota di
MONACO, in Riv. giur. lav., 2010, II, 660, con nota di SCHIAVETTI, ed in Riv.
it. dir. lav., 2010, II, 957, con nota di CALAFA`), secondo cui “L'art.
4, n. 1, direttiva 2000/78/Ce, che stabilisce un quadro generale per la
parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro, deve
essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa nazionale
che fissa a trent'anni l'età massima di assunzione nel servizio tecnico di
medio livello dei vigili del fuoco; l'assunzione di personale in età tropo
avanzata comporterebbe infatti che un numero eccessivo di funzionari non
potrebbe essere assegnato ai compiti più impegnativi dal punto divista
fisico; non sarebbe, d'altra parte, possibile assegnare i neoassunti a detti
compiti per una durata sufficientemente lunga; pertanto, la normativa
nazionale, che fissa a trent'anni l'età massima per l'assunzione nel
servizio tecnico di medio livello dei vigili del fuoco, può essere ritenuta
idonea a garantire il carattere operativo e il buon funzionamento del
servizio dei vigili del fuoco professionali e non eccedente quando è
necessario per il raggiungimento di tale fine”;
h8) la sentenza 17.03.2009, C-217/08, Mariano c. INAIL (in Foro it., 2009,
IV, 446, con nota di RICCI, ed in Guida al dir., 2009, 22, 98, con nota di
CASTELLANETA), secondo cui “Il diritto comunitario non contiene un
divieto di qualsiasi discriminazione di cui i giudici degli stati membri
devono garantire l'applicazione allorché il comportamento eventualmente
discriminatorio non presenta alcun nesso con il diritto comunitario, né, in
circostanze come quelle di causa, gli art. 12 e 13 Ce creano di per sé un
tale nesso; tali articoli non ostano, in dette circostanze, ad una normativa
nazionale in forza della quale, in caso di decesso di una persona a seguito
di un infortunio, spetti unicamente al coniuge superstite una rendita nella
misura del cinquanta per cento della retribuzione percepita da tale persona
prima del suo decesso, mentre il figlio minore della persona deceduta
percepisce solo una rendita pari al venti per cento di detta retribuzione”;
h9) la sentenza 11.07.2006,
C-13/05, Chacón Navas c. Eurest Colectividades SA (in Riv. ambiente e lav.,
2006, 7, 19, con nota di GUARDAVILLA, in Dir. e giustizia, 2006, 34, 102,
con nota di EVANGELISTA, in Guida al dir., 2006, 31, 91, con nota di CORRADO,
ed in Riv. it. dir. lav., 2007, II, 750, con nota di GIAPPICHELLI), secondo
cui “La malattia in quanto tale non può essere considerata un motivo che
si aggiunge a quelli in base ai quali la direttiva 2000/78/Ce vieta
qualsiasi discriminazione” (in particolare, la Corte di giustizia,
nell’occuparsi dell’ambito di applicazione della direttiva n. 2000/78/CE con
particolare riferimento al rapporto fra malattia e handicap, ai fini del
giudizio sul carattere discriminatorio dell’atto di recesso datoriale
intimato al lavoratore che versi per l’appunto in stato di malattia –e pur
affermando che, in linea di principio, il licenziamento di un dipendente
portatore di handicap contrasta con il divieto di discriminazione ex art. 3,
n. 1, della direttiva, a meno che non sia giustificato da ragioni di
incompetenza o incapacità a svolgere certe mansioni— è stata qui netta nel
ritenere che gli stati di malattia e di handicap integrano situazioni
soggettive differenti e non assimilabili: il legislatore comunitario ha
infatti inteso tutelare il lavoratore che risulti affetto da “un limite
che risulta, in particolare, da lesioni fisiche, mentali o psichiche e che
ostacola la partecipazione della persona considerata alla vita professionale”,
mentre al contrario la direttiva “non contiene alcuna indicazione che
lasci intendere che i lavoratori sono tutelati in base al divieto di
discriminazione fondata sull’handicap appena si manifesti una qualunque
malattia”; da ciò, quindi, derivandone, ad avviso della Corte, che la
malattia non possa essere considerata un fattore di discriminazione ai sensi
della direttiva sopra richiamata, né in via diretta né in via analogica);
h10) la sentenza 22.11.2005, Mangold, cit. (ricordata anche nella decisione
in epigrafe), secondo cui “La clausola 8, punto 3, dell'accordo quadro
sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18.03.1999 e attuato con la
direttiva del consiglio 28.06.1999 n. 1999/70/Ce, relativa all'accordo
quadro Ces, Unice e Ceep sul lavoro a tempo determinato, deve essere
interpretata nel senso che non osta ad una normativa quale quella
controversa nella causa a qua, la quale, per motivi connessi con la
necessità di promuovere l'occupazione e indipendentemente dall'applicazione
del detto accordo, ha abbassato l'età oltre la quale possono essere
stipulati senza restrizioni contratti di lavoro a tempo determinato”,
aggiungendo, tuttavia, che “Il diritto comunitario, e in particolare
l'art. 6, n. 1, direttiva del consiglio 27.11.2000 n. 2000/78/Ce, che
stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di
occupazione e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso
che ostano ad una normativa nazionale, quale quella controversa nella causa
a qua, la quale autorizza, senza restrizioni, salvo che esista uno stretto
collegamento con un precedente contratto di lavoro a tempo indeterminato
stipulato con lo stesso datore di lavoro, la stipula di contratti di lavoro
a tempo determinato qualora il lavoratore abbia raggiunto l'età di
cinquantadue anni” (la controversia si riferiva ad una normativa
tedesca, la c.d. legge Hartz, che, nell’intento di promuovere l’occupazione
delle persone anziane, aveva modificato la precedente legislazione,
abbassando il requisito anagrafico richiesto per la stipula di contratti di
lavoro a termine, portandolo da cinquantotto a cinquantadue anni; la Corte,
in particolare, ritenne qui di sanzionare l’illegittimità della norma
nazionale in contestazione, considerando –per un verso– che la misura
adottata costituisse una disparità di trattamento in ragione dell’età “oggettivamente
e ragionevolmente giustificata da una finalità legittima”, alla stregua
della direttiva comunitaria n. 2000/78/CE, ma che, per altro verso, tale
misura fosse “eccedente quanto è appropriato e necessario per realizzare
la finalità perseguita”);
h11) la sentenza 19.03.2002, C-476/99, Lommers (in Lavoro giur., 2002, 833,
con nota di NUNIN), secondo cui “L'art. 2, n. 1 e 4, direttiva del
consiglio 09.02.1976 n. 76/207/Cee, relativa all'attuazione del principio
della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda
l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le
condizioni di lavoro non si oppone ad una normativa che è introdotta da un
ministero al fine di far fronte ad una rilevante sottorappresentazione delle
donne nel suo ambito e che, in un contesto caratterizzato da
un'insufficienza riconosciuta di strutture di accoglienza adeguate e
finanziariamente sostenibili, riserva solo ai dipendenti di sesso femminile
posti in asili nido sovvenzionati in numero limitato che esso mette a
disposizione dei suoi dipendenti, mentre i dipendenti di sesso maschile
possono avervi accesso solo in casi di necessità riconosciuti dal datore di
lavoro; questo vale tuttavia solo laddove la deroga così prevista a favore
dei dipendenti di sesso maschile sia in particolare interpretata nel senso
che essa consente a quelli tra di loro che si assumono da soli la custodia
dei loro figli di avere accesso a questo sistema di asili nido alle stesse
condizioni dei dipendenti di sesso femminile”;
h12) la sentenza 12.12.2002, C-442/00, Rodríguez Caballero (in Foro it.,
2003, IV, 1, con nota di RICCI), secondo cui “Il giudice nazionale deve
disapplicare una normativa interna che escluda -in violazione del principio
di uguaglianza- dalla nozione di ‘retribuzione’, ai sensi dell'art. 2, n. 2,
della direttiva 80/987/Cee, diritti corrispondenti ai c.d. salarios de
tramitación, convenuti in una procedura di conciliazione svoltasi in
presenza di un organo giurisdizionale e da questo approvata; esso deve
applicare ai componenti del gruppo sfavorito da tale discriminazione il
regime in vigore per i lavoratori subordinati i cui diritti dello stesso
tipo rientrano, in forza della definizione nazionale della nozione di
«retribuzione», nell'ambito di applicazione della suddetta direttiva”;
i) nella giurisprudenza amministrativa, ancora in tema di disparità di
trattamento rilevanti ai sensi della direttiva n. 2000/78/CE (la quale è
stata recepita in Italia con il d.lgs. n. 216 del 2003), cfr., di recente:
i1)
Cons. Stato, sez. IV, ordinanza 28.11.2019, n. 8154 (in
Notariato, 2020, 58, con nota di MANCA, nonché oggetto della
News US n. 130 del 10.12.2019, cui si rinvia per ogni
approfondimento), riguardante l’accesso alla professione di notaio e la
norma di cui all’art. 1, comma 3, lett. b), della legge n. 1365 del 1926,
come sostituito dall’art. 13 del d.lgs. n. 166 del 2006 (secondo cui per
l’ammissione al concorso da notaio gli aspiranti devono “non aver
compiuto gli anni cinquanta alla data del bando di concorso”);
con questa ordinanza il Consiglio di Stato, “Una volta che la Corte di
giustizia abbia accertato che la disciplina di accesso all’esercizio della
funzione notarile in uno Stato membro debba essere oggetto di armonizzazione
tra il diritto nazionale di quello Stato ed il diritto europeo”, ha
rimesso alla Corte di giustizia UE la seguente questione pregiudiziale: “se
l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, l’art.
10 TFUE e l’art. 6 della Direttiva del Consiglio 20007/8/CE del 27.11.2000,
nella parte in cui vietano discriminazioni in base all’età nell’accesso
all’occupazione, ostino a che uno Stato membro possa imporre un limite di
età all’accesso alla professione di notaio” (la questione risulta
tuttora pendente presso la Corte di giustizia UE, con il numero C-914/19);
i2) C.g.a., sentenza 17.12.2018, n. 1008 (in Foro amm., 2018, 2202, solo
massima), secondo cui “L'art. 102 del d.P.R. n. 328/1952, nella parte in
cui prevede (art. 1 n. 2) il limite di età non superiore a trentacinque anni
per accedere alla professione di pilota del porto, deve essere disapplicato
perché in contrasto con la normativa comunitaria (direttiva 2000/78) e la
disapplicazione della norma comporta l'illegittimità del bando di concorso
nella parte in cui ha recepito tale limite anagrafico”;
j) per la giurisprudenza della Corte di
cassazione cfr., di recente:
j1) Cass. civ., sez. lavoro, 19.12.2019, n. 34132 (in Ilgiuslavorista.it,
2020, con nota di LANZARA), secondo cui “Ai fini della legittimità del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo di lavoratore divenuto
parzialmente inabile allo svolgimento della prestazione di lavoro, il datore
di lavoro, in sede di prova dell'impossibilità di repechage ha l'onere di
dimostrare l'impossibilità di adottare ‘accomodamenti ragionevoli’ in favore
del suddetto prestatore di lavoro, al fine di consentire un proficuo
reimpiego dello stesso all'interno dell'azienda, nel rispetto di quanto
stabilito dal legislatore Italiano ex art. 3, comma 3-bis, d.lgs. n. 216 del
2003, nonché da quello europeo con la direttiva 78/2000/CE del 27/11/2000,
concernente la parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro.
L'obbligo di adottare tali accomodamenti ragionevoli, finalizzati a
garantire la parità di trattamento a tutti i lavoratori impiegati
nell'impresa, trova un limite nella necessità che essi non incidano
negativamente sulle condizioni di lavoro dei colleghi dell'invalido e non
comportino un onere economico eccessivo e sproporzionato per l'impresa”;
j2) Cass. civ., sez. lav., 10.07.2018, n. 18176 (in Foro it., 2018, I, 4007,
con nota di FRATINI, in Lavoro giur., 2019, 373, con nota di CARVELLO, ed in
Riv. giur. lav., 2019, II, 444, con nota di CALDERARA), secondo cui “È
illegittimo il licenziamento di un avvocato, dipendente di un Ente pubblico,
che abbia redatto e divulgato a terzi un documento con cui criticava, anche
duramente, il proprio datore di lavoro per le posizioni assunte da quest'ultimo
in relazione al fatto che i legali interni dell'azienda dovessero essere
iscritti all'apposito elenco speciale istituito presso l'Albo circondariale
e, conseguentemente, subissero delle limitazioni in ordine alla difesa in
giudizio della società nelle controversie esterne. Nei suoi confronti,
infatti, deve prevalere la scriminante della critica sindacale in ragione
della sua adesione, alcuni giorni prima dei fatti contestati, ad una
organizzazione sindacale”;
j3) Cass. civ., sez. lav., 03.12.2015, n. 24648 (in Riv. giur. lav., 2016,
II, 177, con nota di GAMBARDELLA), secondo cui “Il divieto di
licenziamento discriminatorio, sancito dall'art. 4 l. n. 604 del 1966,
dall'art. 15 stat. lav. e dall'art. 3 l. n. 108 del 1990, è suscettibile -in
base all'art. 3 Cost. e sulla scorta della giurisprudenza della corte di
giustizia in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio, in
particolare, nei rapporti di lavoro, a partire dalla introduzione dell'art.
13 nel trattato Ce, da parte del trattato di Amsterdam del 1997- di
interpretazione estensiva, sicché l'area dei singoli motivi vietati
comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia, che
costituisce cioè l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento
legittimo del lavoratore, quale unica ragione del provvedimento espulsivo,
essendo necessario, in tali casi, dimostrare, anche per presunzioni, che il
recesso sia stato motivato esclusivamente dall'intento ritorsivo”;
k) sulle questioni inerenti all’età nei pubblici
concorsi, ai criteri di computo, agli aumenti dei limiti massimi ed al
correlato diritto euro-unitario (di cui, in specie, proprio alla direttiva
n. 2000/78/CE), cfr., da ultimo, Cons. Stato, sezione IV, sentenza
16.05.2019, n. 3157 (in Foro it., 2019, III, 375, con nota di F. BASSETTA),
che ha dichiarato illegittimo il bando di concorso pubblico per il
reclutamento di allievi agenti del corpo di Polizia penitenziaria, nella
parte in cui impedisce che i candidati beneficino dell'aumento del limite di
età in relazione al servizio militare prestato, anche nella posizione di
volontario in ferma prefissata.
Questa pronuncia, in particolare, nel confermare un orientamento consolidato
della giurisprudenza amministrativa circa le condizioni di applicabilità del
beneficio dell'aumento del limite di età per la partecipazione a concorsi
pubblici (si tratta, in particolare, di un orientamento sviluppato dal Tar
per il Lazio, in specie nelle seguenti pronunce: sez. I, 04.02.2019, n.
1352; Id., 03.12.2012, n. 10072, in Foro amm.- TAR, 2012, 3859, solo
massima; Id., 20.06.2012, n. 5682; sez. I-quater, 07.05.2012, n. 4037; Id.,
04.05.2012, n. 4023; sez. I, 13.02.2012, n. 1413; Id., 30.05.2011, n. 4812;
sez. I-quater, 26.11.2008, n. 10766; Id., 30.10.2007, n. 10624; Id.,
24.11.2005, n. 6815; sez. I, 10.10.2003, n. 8195, in Foro amm.- TAR, 2003,
2970, solo massima), ha precisato entro quali limiti è possibile derogare al
limite d’età ricordando che:
k1) i limiti di età possono essere derogati in aumento per un tempo
(comunque non superiore a tre anni) corrispondente a quello trascorso per
l'espletamento del servizio militare, con richiamo, qui, alla norma
stabilita dall’art. 2, comma 1, n. 2, lett. d), del d.P.R. n. 487 del 1994;
quest’ultima norma è oggi confluita nell’art. 2049 del d.lgs. n. 66 del 2010
(codice dell’ordinamento militare), secondo cui “Per la partecipazione ai
pubblici concorsi il limite massimo di età richiesto è elevato di un periodo
pari all'effettivo servizio prestato, comunque non superiore a tre anni, per
i cittadini che hanno prestato servizio militare”;
k2) nel concetto di servizio militare utile al computo in aumento,
originariamente previsto solo per il periodo obbligatorio di leva, rientra
anche quello prestato quale volontario in ferma prefissata
(Corte di giustizia UE, Sez. VIII,
sentenza 02.04.2020, C-670/18 – C.O. contro Comune di Gesturi -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Assenza servizio lavoratori a rischio per coronavirus.
Domanda
L’Ufficio Personale del mio ente ha ricevuto un certificato del medico di
famiglia per un dipendente affetto da patologia cronica, ai fini
dell’applicazione dell’art. 26, comma 2, del d.l. 18/2020 (Cura Italia). In
ogni caso, il lavoratore attualmente non gode del riconoscimento della
condizione di cui alla l. 104/1992.
E’ sufficiente la documentazione prodotta per fruire del periodo di assenza
previsto dalla norma? E’ sufficiente la certificazione del medico di
famiglia o va allegata altra documentazione?
Risposta
L’articolo 26, comma 2, del decreto stabilisce che: ”Fino al 30 aprile ai
lavoratori dipendenti pubblici e privati in possesso del riconoscimento di
disabilità con connotazione di gravità ai sensi dell’articolo 3, comma 3,
della legge 05.02.1992, n. 104, nonché ai lavoratori in possesso di
certificazione rilasciata dai competenti organi medico legali, attestante
una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da
patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie salvavita, ai
sensi dell’articolo 3, comma 1, della medesima legge n. 104 del 1992, il
periodo di assenza dal servizio prescritto dalle competenti autorità
sanitarie, è equiparato al ricovero ospedaliero di cui all’articolo 19,
comma 1, del decreto legge 02.03.2020, n. 9”.
Nel comma sopra riportato si equiparano le assenze dal servizio prescritte
dalle competenti autorità sanitarie al ricovero ospedaliero con contestuale
applicazione della relativa disciplina delle seguenti categorie di soggetti:
• disabile in condizione di gravità di cui al comma 3, dell’art. 3,
della Legge n. 104/1992 (riconosciuta mediante apposita commissione medico
legale);
• disabile derivante da un quadro clinico a rischio, certificato da
organi medico legali, ai sensi dell’art. 3, comma 1, della Legge n.
104/1992.
Il Ministero del Lavoro, nella circolare del 24/03/2020, a proposito
dell’articolo 26, comma 2, del D.L. n. 18, si è limitato solo a ricordarne i
contenuti senza tuttavia fornire indicazioni operative e senza chiarire
soprattutto chi siano i competenti organi medico legali che attestano le
condizioni di rischio specificate dalla norma.
Specifici chiarimenti sono stati forniti nei giorni scorsi dalla nota della
Presidenza del Consiglio dei Ministri, indirizzata agli organi
istituzionalmente competenti.
La nota chiarisce che “sono organi abilitati a certificare la condizione
di cui all’art. 26, comma 2, sia i medici preposti ai servizi di medicina
generale (c.d. medici di base), che i medici convenzionati con il S.S.N. (ai
sensi dell’articolo 30 accordo collettivo nazionale per la disciplina dei
rapporti con i medici di medicina generale, ai sensi dell’art. 8 del D.Lgs.
n. 502 del 1992), la cui qualificazione giuridica è largamente riconosciuta
(a titolo esemplificativo, Cassazione Penale, sentenza n. 29788/2017,
secondo cui il medico convenzionato con la ASL è pubblico ufficiale con
ambito di competenza anche oltre quella territoriale della ASL, in quanto
“svolge l’attività per mezzo i poteri pubblicistici di certificazione, che
si estrinsecano nella diagnosi e nella correlativa prescrizione di esami e
prestazioni alla cui erogazione il cittadino ha diritto presso strutture
pubbliche, ovvero presso strutture private convenzionate”.
Le certificazioni di questi medici sono a tutti gli effetti da considerarsi
il prodotto dell’esercizio di funzioni pubbliche, dunque proveniente da “organismi
pubblici”.
Di questo avviso è anche il Consiglio di Stato che, con la sentenza n.
4933/2016, ha riconosciuto che la certificazione rilasciata da
professionisti autorizzati a eseguire prestazioni nell’interesse del
Servizio sanitario nazionale, può considerarsi proveniente da “pubblico
organismo”.
A parere di chi scrive è molto interessante e sicuramente condivisibile la
spiegazione che il Capo Ufficio della Presidenza del Consiglio dei Ministri
fornisce, nel proseguo della nota, circa l’interpretazione di cui sopra: «Del
resto, non seguendo tale interpretazione della norma si avrebbero due
effetti ugualmente e gravemente negativi. La norma è diretta a tutelare
persone che, per la loro condizione fisica di estrema fragilità, sono
sottoposte ad altissimo rischio della vita stessa, in caso di contagio. E’
quindi primario interesse collettivo tutelarle e ridurne al massimo
l’esposizione, ampliando la possibilità di autoisolamento. Viceversa, una
interpretazione che restringa ai soli servizi di medicina legale delle ASL
la possibilità di certificare, complicherebbe le modalità e le tempistiche
di accesso al beneficio, paradossalmente aumentando la circolazione di
queste persone.»
Pertanto i lavoratori classificati tra le categorie a rischio potranno
astenersi dal lavoro, rimanendo all’interno della propria abitazione e
questo periodo di «isolamento cautelativo» verrà equiparato alla
condizione di ricovero ospedaliero, quindi con uno stato assimilabile alla
malattia (senza l’applicazione della decurtazione di cui all’art. 71 del
D.L. 25.06.2008, n. 112, convertito in Legge 06.08.2008, n. 133) e come tale
retribuito (01.04.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Coronavirus:
i dubbi delle amministrazioni sulle norme emergenziali in materia di lavoro
pubblico.
Nella pratica operativa continuano a presentarsi dubbi applicativi delle
diverse disposizioni adottate a seguito della dichiarazione, con
deliberazione del Consiglio dei ministri del 31.01.2020, dello stato di
emergenza nazionale.
Proseguono, quindi, le risposte alle innumerevoli
incertezze che devono affrontare gli operatori del settore pubblico, sorti
nell’applicazione delle diverse disposizioni che, pur presentandosi
singolarmente chiare, vanno tra di loro armonizzate e coordinate con le
norme in materia di lavoro pubblico, con le disposizioni civilistiche e con
i contratti collettivi nazionali.
Ecco alcuni dei dubbi più diffusi
manifestati dagli enti:
Il Comune dove lavoro in Sardegna ha pubblicato il 10
marzo un concorso per n. 1 posto di assistente di biblioteca con scadenza
del termine di presentazione delle domande a 30 giorni dalla pubblicazione
del bando.
Nel frattempo sono intervenute:
1) la sospensione dei termini
delle procedure concorsuali come previsto dall’art. 103, Dl n. 18 del
17.03.2020 e
2) la proroga dei termini al 31.07.2020 ai sensi
dell’articolo 2, comma 4, della Legge di Stabilità approvata dal Consiglio
Regionale della Sardegna dell'11.03.2020 che recita testualmente “a
seguito dell'emergenza epidemiologica da COVID-19 e in considerazione del
blocco dell'attività amministrativa degli uffici della Regione autonoma
della Sardegna e di quelli delle amministrazioni locali, i termini di
scadenza relativi a qualsiasi bando, procedure concorsuali, avvisi pubblici,
presentazione di rendicontazioni da parte di enti pubblici e/o privati
cittadini, relativi a qualsiasi fonte di finanziamento sono prorogati al 31.07.2020”.
È stato dichiarato in Sardegna lo stato di emergenza fino al
31.07.2020.
In tale situazione prevale la norma regionale e quindi la
scadenza per la presentazione delle domande è il 31.07.2020?
Ai fini di ricostruire il quadro di riferimento giuridico che governa le
competenze in materia di adozione di misure normative di contrasto alla
pandemia in atto, occorre fare riferimento alle norme recate dal Dl
23.2.2020, n. 6, convertito in legge 05.03.2020, n. 13, con particolare
riferimento all’art. 3, commi 1 e 2, del decreto-legge stesso.
Tali
disposizioni, infatti, testualmente prescrivono che "1. Le misure di cui
agli articoli 1 e 2 sono adottate, senza nuovi o maggiori oneri per la
finanza pubblica, con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei
ministri, su proposta del Ministro della salute, sentiti il Ministro
dell'interno, il Ministro della difesa, il Ministro dell'economia e delle
finanze e gli altri Ministri competenti per materia, nonché i Presidenti
delle regioni competenti, nel caso in cui riguardino esclusivamente una
regione o alcune specifiche regioni, ovvero il Presidente della Conferenza
delle regioni e delle province autonome, nel caso in cui riguardino il
territorio nazionale. 2. Nelle more dell'adozione dei decreti del Presidente
del Consiglio dei ministri di cui al comma 1, nei casi di estrema necessità
ed urgenza le misure di cui agli articoli 1 e 2 possono essere adottate ai
sensi dell'articolo 32, Legge 833/1978, dell'articolo 117, Dlgs 112/1998, e
dell'articolo 50 Tuel.
Le misure adottate ai sensi del presente comma perdono efficacia se non sono
comunicate al Ministro della salute entro ventiquattro ore dalla loro
adozione.”.
La norma, infatti, prescrive che le misure normative con
carattere di urgenza e di natura generale finalizzate al contrasto diffusivo
del coronavirus siano adottate con appositi decreti del Presidente del
Consiglio dei Ministri, affidando, ai Presidenti delle Regioni nella sola
ipotesi in cui attengano esclusivamente alla Regione di competenza o ad
alcune Regioni, nel qual caso la competenza resta, comunque, in capo ai
rispettivi orari di vertice.
La disposizione legislativa, poi, prosegue
statuendo, al comma 2, che la competenza dei Presidenti delle Regioni, in
materia di igiene e sanità pubblica, può essere esercita esclusivamente a
due condizioni, ovvero:
1) nelle more dell’adozione dei provvedimenti
d’urgenza ad opera del Presidente del Consiglio dei Ministri e
2) nelle
situazioni di estrema necessità ed urgenza che il fenomeno impone
nell’ambito regionale di competenza.
Il richiamo normativo che, infine,
viene operato dalla disposizione legislativa alle norme della legge 833/1978
e del Dlgs 112/1990 sta ad indicare, inequivocabilmente, che tali poteri
sono esercitabili, dai Presidenti delle Regioni, nei limiti e con efficacia
estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio
comprendente più comuni e al territorio comunale, nonché che l'adozione dei
provvedimenti d’urgenza in materia igienico-sanitaria spetta allo Stato o
alle regioni in ragione della dimensione dell'emergenza e dell'eventuale
interessamento di più ambiti territoriali regionali.
Stante il quadro normativo sopra delineato, pertanto, la competenza generale
e primaria all’adozione di misure urgenti per scongiurare il rischio di
contagio diffusivo da COVID-19 spetta prioritariamente al Governo, mentre
alle Regioni è affidato un compito di assunzione di adeguate azioni locali
di contrasto che, per espressa previsione normativa e per intuibili ragioni
di coordinamento degli interventi, hanno carattere recessivo nel momento in
cui il Presidente del Consiglio dei Ministri adotti le misure nazionali
necessarie.
Tale assetto di competenze e di conseguenti azioni, infatti,
appare il più coerente anche con il perimetro definito dalla nostra Carta
costituzionale, la quale, all’articolo 117, comma 2, prevede la forma della
legislazione concorrente nella materia della salute pubblica, da
esercitarsi, da parte delle Regioni, nei limiti dei principi fondamentali
dettati dallo Stato, di cui la normazione legislativa sopra richiamata
costituisce espressione.
Ciò esaminato, pertanto, si ritiene che, avendo, il Governo, adottato le
misure d’urgenza in grado di arginare la diffusione da contagio pandemico
contenute nel Dl 17.03.2020, con particolare riferimento alla sospensione
disposta, per le procedure concorsuali, dall’articolo 87, comma 5, del
predetto Dl, il quale testualmente prescrive che "5. Lo svolgimento delle
procedure concorsuali per l'accesso al pubblico impiego, ad esclusione dei
casi in cui la valutazione dei candidati sia effettuata esclusivamente su
basi curriculari ovvero in modalità telematica, sono sospese per sessanta
giorni a decorrere dall'entrata in vigore del presente decreto. Resta ferma
la conclusione delle procedure per le quali risulti già ultimata la
valutazione dei candidati (…)”.
Trattandosi, pertanto, di misura avente
chiara natura di azione di contrasto alla pandemia in atto (vedi il comma 1
dell’art. 3, Dl 6/2020) ed in considerazione di quanto sopra detto in
relazione al riparto di attribuzioni tra diversi livelli di governo
competenti all’adozione di tali misure, nonché del carattere transitorio e
recessivo delle misure adottate dalle Regioni in materia di contrasto alla
diffusione del coronavirus, si ritiene che le disposizioni statali abbiano
determinato, anche con riguardo alla legislazione delle Regioni a statuto
speciale, la ritrazione delle disposizioni adottate dalla Regione Sardegna
intervenute nello specifico ambito di regolazione statale.
Il dubbio che nasce nell’utilizzo del personale dei nidi
e delle materne è legato al particolare profilo professionale delle
dipendenti, in quanto educatrici dell'asilo nido e a quanto stabilito
dall'art. 31, comma 5, del Ccnl 14.09.2000.
In relazione a quanto prescritto dall’articolo 31, comma 5, del Ccnl
14.09.2000, è da ritenere che la previsione contrattuale attenga ad una
situazione del tutto normale ed ordinaria di funzionamento dei servizi e non
ad un evento emergenziale come quello che stiamo attraversando, nell’ambito
del quale si deve ritenere che il personale possa essere utilizzato,
compatibilmente con i contenuti professionali del ruolo ricoperto, anche in
altri servizi dell’amministrazione, tenuto conto che il principio generale
accolto dal nostro sistema giuridico è rappresentato dall’equivalenza
professionale nel contesto della categoria di ascrizione, per il quale,
infatti, tutte le funzioni previste dalla categoria d'inquadramento sono
esigibili dal lavoratore.
Tutto ciò, ovviamente, laddove sussista la stretta
ed assoluta necessità di mantenere in servizio tale personale alla luce di
quanto già detto con riferimento alle prescrizioni dettate dall’articolo 87,
Dl 18/2020.
L'Amministrazione comunale può esentare motivatamente
dal servizio una dipendente che non opera in alcuno dei servizi essenziali
previsti dalle ultime disposizioni per il contenimento del Covid-19 e che
non ha ferie pregresse né altri tipi di permessi/congedi etc. essendo stata,
tra l'altro, appena assunta?
In caso affermativo tale esonero costituisce
servizio prestato a tutti gli effetti di legge?
In base al vigente ordinamento emergenziale, la circostanza che la
lavoratrice non operi nell’ambito dei servizi essenziali non appare
sufficiente al fine di escludere la prestazione lavorativa. Infatti, l’art.
87, commi 1 e 3, Dl 17.03.2020, n. 18, prescrive espressamente che "1. Fino
alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID-2019, (…)
il lavoro agile è la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione
lavorativa nelle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, Dlgs 165/2001, che, conseguentemente: a) limitano la presenza del personale
negli uffici per assicurare esclusivamente le attività che ritengono
indifferibili e che richiedono necessariamente la presenza sul luogo di
lavoro, anche in ragione della gestione dell'emergenza; (…) 3. Qualora non
sia possibile ricorrere al lavoro agile, anche nella forma semplificata di
cui al comma 1, lett. b), le amministrazioni utilizzano gli strumenti delle
ferie pregresse, del congedo, della banca ore, della rotazione e di altri
analoghi istituti, nel rispetto della contrattazione collettiva. Esperite
tali possibilità le amministrazioni possono motivatamente esentare il
personale dipendente dal servizio. Il periodo di esenzione dal servizio
costituisce servizio prestato a tutti gli effetti di legge e
l'amministrazione non corrisponde l'indennità sostitutiva di mensa, ove
prevista. (…).”.
Come si può evincere dalla riportata norma, pertanto, la
lavoratrice, laddove vi siano le condizioni prescritte dalla legge, può
essere adibita a servizi indifferibili che richiedono la necessaria presenza
sul luogo di lavoro, anche in funzione di assicurare servizi essenziali
correlati all’emergenza da coronavirus.
Laddove non sia assolutamente
necessario mantenere il servizio la dipendente, anche mediante l’impiego
dello smart working quale modalità di fornitura della prestazione
lavorativa, e non sia oggettivamente possibile impiegare istituti retribuiti
o indennizzati, legali e contrattuali, giustificativi dell’assenza dal
lavoro, non resterà, come forma del tutto residuale ed eccezionale, che
collocare la dipendente in esonero lavorativo ai sensi della predetta
disposizione legislativa.
Si evidenzia, tuttavia, che tale collocamento
dovrà essere accompagnato dall’adozione di un apposito provvedimento datoriale (di natura civilistica) che riporti le adeguate motivazioni che
supportano l’applicazione dell’istituto esonerativo, tenuto conto che tale
esenzione determina l’obbligo, per l’amministrazione, di considerare il
periodo interessato alla stregua di servizio prestato ad ogni effetto di
legge, anche ai fini retributivi, ancorché in assenza della prestazione
lavorativa (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'01.04.2020). |
marzo 2020 |
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Equivalenza profili professionali e modifica mansioni.
Domanda
Come funziona l’equivalenza dei profili professionali e la possibilità di
cambiare le mansioni dei dipendenti?
Risposta
La concreta possibilità di utile reimpiego in profili professionali
equivalenti rappresenta il legittimo esercizio del potere dello jus
variandi da parte del datore di lavoro pubblico.
La disciplina delle mansioni nel pubblico impiego si rinviene, in primis,
secondo la gerarchia delle fonti, dall’art. 52 del D.Lgs. 30.03.2001, n.
165, il quale, al comma 1, prevede: «Il prestatore di lavoro deve essere
adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni
equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento ovvero a quelle
corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito
per effetto delle procedure selettive di cui all’articolo 35, comma 1,
lettera a). L’esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla
qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell’inquadramento del
lavoratore o dell’assegnazione di incarichi di direzione.»
L’art. 3 del CCNL Regioni-Autonomie Locali del 31.03.1999, non disapplicato
dal recente CCNL Funzioni Locali del 21.05.2018, prevede:
• un sistema di classificazione del personale del comparto enti
locali suddiviso in quattro categorie, collegate alle declaratorie di cui
all’allegato «A», che descrivono requisiti professionali, competenze
richieste, caratteristiche essenziali delle mansioni ascrivibili, nonché una
esemplificazione di profili (art. 3, commi 1, 4, 5, 6);
• che tutte le mansioni ascritte dal contratto all’interno delle
singole categorie, in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili,
e che l’assegnazione delle mansioni equivalenti costituisce atto di
esercizio del potere determinativo dell’oggetto del contratto di lavoro.
(art. 3, comma 2).
Sulla base di quanto sopra riportato, nella fattispecie proposta, si ritiene
necessario per il datore di lavoro pubblico procedere al mutamento del
profilo professionale del dipendente, nel rispetto delle Declatorie-
Allegato A del CCNL Regioni Autonomie Locali del 31/03/1999, come confermato
da ultimo anche dall’art. 19 del CCNL delle Funzioni Locali del 21/05/2018,
che disapplicando l’art. 14 del CCNL Regioni Autonomie Locali
dell’06/07/1995, ha elencato tra gli elementi che devono essere indicati nel
contratto individuale:
a) tipologia del rapporto di lavoro;
b) data di inizio del rapporto di lavoro;
c) categoria e profilo professionale di inquadramento;
d) posizione economica iniziale;
e) durata del periodo di prova;f
f) sede di lavoro;
g) termine finale in caso di rapporto di lavoro a tempo
determinato.
A conferma di quanto sopra esposto sul legittimo esercizio del potere dello
jus variandi del datore di lavoro pubblico, nell’ambito
dell’equivalenza delle mansioni, si nota che nell’elencazione sopra
riportata non compaiono più le mansioni corrispondenti alla qualifica di
assunzione, previsti invece nel disapplicato art. 14 CCNL dell’06/07/1995.
Il rifiuto a sottoscrivere un nuovo contratto di lavoro per il mutamento del
profilo professionale comporta la violazione degli obblighi di diligenza,
obbedienza e fedeltà che gravano sul prestatore di lavoro pubblico. Gli
stessi sono richiamati nel Codice di Comportamento (D.P.R. n. 62/2013) e
comunque ricompresi nell’obbligo generico di cui agli artt. 2104 e 2105 del
codice civile.
Ciò lo possiamo ricavare dal fatto che è espressamente previsto
l’applicazione dell’articolo 2106 del Codice Civile nell’articolo 55, comma 2,
del D.Lgs. 165/2001 e tale articolo richiama proprio gli articoli 2104 e
2105 del Codice Civile (26.03.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Eccedenze
orarie P.O..
Domanda
Alla luce delle più recenti norme contrattuali vi è una qualche possibilità
di riconoscere ai dipendenti incaricati di posizione organizzativa il
riposto compensativo per le ore eccedenti alle 36?
Risposta
Per quanto riguarda la problematica della durata delle prestazioni
settimanali delle posizioni organizzative si ritiene utile precisare che
relativamente all’orario di lavoro, il personale incaricato delle posizioni
organizzative, diversamente dai dirigenti, è tenuto ad effettuare
prestazioni lavorative settimanali non inferiori a 36 ore, mentre le
eventuali prestazioni ulteriori che gli interessati potrebbero aver
effettuato, in relazione all’incarico affidato e agli obiettivi da
conseguire, non sono retribuite e neppure danno titolo o diritto ad
eventuali recuperi compensativi perché non si tratta di ore di lavoro
straordinario.
La durata massima non viene determinata dal CCNL perché sarà collegata,
genericamente e dinamicamente, alla rilevanza ed alle effettive necessità
delle funzioni da svolgere. Il maggiore impegno di tale personale trova
ristoro nel riconoscimento delle specifiche voci di trattamento accessorio
rappresentate dalla retribuzione di posizione e da quella di risultato (art.
15 c. 1 del CCNL 21/05/2018).
Le prestazioni ulteriori rese dal dipendente PO non possono considerarsi
straordinarie o comunque aggiuntive rispetto al minimo delle 36 ore, ma sono
ordinario orario di lavoro. Le regole sul riposo sostituivo dello
straordinario, che presuppongono una eccedenza rispetto al debito orario
settimanale, non sono applicabili ai responsabili di posizione organizzativa
in quanto esclusi dalla disciplina dello straordinario.
A tali regole, fa eccezione solo il caso della prestazione lavorativa resa
nel giorno del riposo settimanale, in considerazione della tutela
costituzionale, legale e contrattuale apprestata per tale riposo; in
presenza di questa particolare fattispecie, il titolare di posizione
organizzativa avrà diritto comunque a fruire di una giornata di riposo
settimanale, che potrà, dunque, essere recuperata secondo modalità da
concordare con il dirigente, in modo comunque proporzionato alla durata
delle prestazioni rese (19.03.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Alcuni
dipendenti di questa amministrazione regionale hanno chiesto l'attivazione
del "lavoro agile" in base alla recente normativa emergenziale.
E' possibile concederlo in mancanza di una regolamentazione preventiva,
criteri di assegnazione ed in alcuni casi di dotazione informatica
necessaria?
Con l'approvazione del DPCM 11.03.2020 si è disposto un mutamento radicale
nella definizione delle condizioni e requisiti per lo svolgimento del c.d. "smart
working" disponendo che le amministrazioni assicurino "lo svolgimento
in via ordinaria delle prestazioni lavorative in forma agile del proprio
personale dipendente, anche in deroga agli accordi individuali e agli
obblighi informativi di cui agli articoli da 18 a 23 della L. 22.05.2017, n.
81 e individuano le attività indifferibili da rendere in presenza",
misura confermata dal D.L. 17.03.2020, n. 18, che, all’art. 87, prevede
ulteriori elementi che si possono così sintetizzare:
- la regola della prestazione lavorativa è il "lavoro agile"
per tutta la durata dell'emergenza;
- tale regola è derogabile esclusivamente per "le attività che
ritengono indifferibili e che richiedono necessariamente la presenza sul
luogo di lavoro" che dovranno essere espressamente e motivatamente
individuate dall'amministrazione;
- il personale potrà utilizzare la propria dotazione informatica
per lo svolgimento della prestazione lavorativa (ricordando che il lavoro
agile potrebbe non comportare necessariamente una prestazione per cui si
necessita di collegamento telematico);
- qualora non sia possibile ricorrere al lavoro agile il personale
non deve comunque prestare servizio in sede e dovrà fruire di ferie
pregresse, congedo, banca ore, rotazione e altri analoghi istituti, nel
rispetto della contrattazione collettiva.
Qualora non risulti possibile alcuna delle citate soluzioni, in ogni caso il
personale non potrà prestare servizio in sede e dovrà essere esonerato dalla
prestazione lavorativa (che costituisce comunque servizio prestato a tutti
gli effetti di legge e l'amministrazione non corrisponde l'indennità
sostitutiva di mensa, ove prevista).
Ciò detto dunque l'amministrazione qualora non abbia proceduto ancora alla
attivazione delle citate misure è situazione di violazione delle misure
sanitarie del citato DPCM e potrà essere chiamato in responsabilità in caso
di contrazione del virus da parte del personale per quanto attiene alle
varie forme di responsabilità diretta.
L'attivazione del lavoro agile non presuppone alcuna preventiva
regolamentazione, valutazione delle condizioni personali e/o istanze
dell'interessato né l'esistenza di dotazione informatica idonea dell'Ente o
dell'interessato.
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Riferimenti normativi e contrattuali
L. 22.05.2017, n. 81 - DPCM
11.03.2020
(18.03.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Delega funzioni.
Domanda
Il dirigente che ha delegato alcune funzioni alla posizione organizzativa
conserva, in ogni caso, il potere di provvedere nell’ambito della materia
oggetto della delega, in caso di assenza del delegato?
Risposta
Il ruolo di delegante (l’intrinseca perdurante piena titolarità del potere
amministrativo delegato), consente al delegante d’ingerirsi costantemente
nel concreto esercizio del potere de quo, anche attraverso la diretta
assunzione di provvedimenti esterni, anche durante la presenza in servizio
del delegato, a maggior ragione nei periodi di assenza dal servizio (per
ferie o altro).
Non è assolutamente necessario un riassetto di qualsiasi genere della
delega.
Si ribadisce: il delegante, con la delega, non si spoglia dei propri poteri;
si limita ad individuare un’ulteriore modalità di esercizio degli stessi.
Per mere ragioni illustrative e di chiarezza, questa logica può essere
esplicitata nel provvedimento di conferimento della delega (12.03.2020
- link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Sulla
domanda di risarcimento del danno proposta direttamente nei confronti del
funzionario pubblico.
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Risarcimento danni – Pubblico impiego – Azione direttamente posta nei
confronti del funzionario – Per l’attività svolta nell’esercizio delle sue
funzioni – Inammissibilità.
É inammissibile la domanda di condanna al
risarcimento del danno proposta, in sede di giurisdizione amministrativa,
direttamente nei confronti del funzionario pubblico per l’attività svolta
nell’esercizio delle sue funzioni, alla stregua del consolidato indirizzo
delle Sezioni unite della Corte di cassazione (1).
---------------
(1) Cass. civ., S.U., ord. 03.10.2016, n. 19677
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.03.2020 n. 1686 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).
---------------
6.1. Parimenti inammissibile è, poi, la domanda di condanna al risarcimento
del danno proposta, in sede di giurisdizione amministrativa, direttamente
nei confronti del funzionario pubblico per l’attività svolta nell’esercizio
delle sue funzioni, alla stregua del consolidato indirizzo delle Sezioni
unite della Corte di cassazione (cfr., fra le tante, ord. 03.10.2016, n.
19677).
7. Per scrupolo motivazionale, comunque, il Collegio osserva nel merito -nei
limiti di quanto evincibile dall’atto di appello- quanto segue.
7.1. Non si è verificata alcuna effettiva e concreta lesione delle
prerogative procedimentali del ricorrente, posto che l’Amministrazione lo ha
messo in condizione di interloquire, con espressa riserva, all’esito, di
un’eventuale modifica del decisum, la cui applicazione, nelle more
della rinnovata fase procedimentale, era stata, per di più, unilateralmente
sospesa.
7.1.1. Sul punto, il Collegio conviene con l’esegesi sostanzialistica
propugnata dal Tribunale.
7.1.2. Invero, la partecipazione al procedimento è un valore sostanziale cui
le forme dell’azione amministrativa sono meramente serventi: pertanto, la
violazione delle forme attinge la soglia dell’illegittimità solo e nei
limiti in cui ne sia conseguito un concreto ed effettivo vulnus alle facoltà
di partecipazione dell’interessato.
7.1.3. Nella specie, di contro, il De. è stato messo nella condizione di
interloquire con l’Amministrazione, di presentare memorie e documenti e di
accedere a quelli in possesso dell’Amministrazione entro un termine prima
facie congruo (30 giorni), riservandosi l’Amministrazione, all’esito di
tale segmento procedimentale, una nuova valutazione dei fatti.
7.1.4. In tal modo, è stato pienamente assicurato il valore (appunto,
sostanziale) della partecipazione procedimentale con un’intensità,
un’ampiezza ed una pienezza del tutto analoga a quella che il ricorrente
avrebbe ottenuto mediante la riedizione del procedimento.
7.1.5. A fortiori, la violazione di forme del procedimento non
determina il radicale vizio della nullità, predicabile solo nei casi
eccezionali enucleati nell’art. 21-septies l. n. 241 del 1990 (cfr., ex
multis, Cass. civ., Sez. un., 05.03.2018, n. 5097 e 03.10.2016, n.
19682; Cons. Stato, Sez. IV, 24.05.2016, n. 2202). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Permessi
giudice popolare.
Domanda
Come vanno giustificate le assenze per l’espletamento delle funzioni di
giudice popolare?
Risposta
Come evidenziato dall’Aran in alcuni suoi orientamenti, tanto in riferimento
al comparto delle Funzioni Locali quanto ad altri comparti (cfr., tra gli
altri, il RAL 1273), la contrattazione collettiva non ha in alcun modo
disciplinato le assenze per l’espletamento delle funzioni di giudice
popolare.
Esse sono regolate dall’art. 11 della legge n. 278 del 01/04/1951, come
sostituito dal D.L. n. 31 del 14/02/1978, convertito nella legge n. 74 del
24/03/1978.
La fonte legale, oltre a stabilire l’obbligatorietà dell’incarico di giudice
di popolare, lo equipara a tutti gli effetti all’esercizio delle funzioni
pubbliche elettive, il che implica, per gli enti locali, la ricorrenza delle
disposizioni in materia introdotte dal d.lgs. 267/2000 (TUEL), ed in
particolare l’art. 79 del predetto Testo Unico, che dispone, per tale tipo
di assenze, che i dipendenti hanno diritto di assentarsi dal servizio per il
tempo strettamente necessario per la partecipazione alle riunioni collegiali
o alle sedute degli organi dei quali sono partecipanti, incluso il tempo
necessario a raggiungere il luogo di svolgimento della seduta.
Si ritiene, per le ragioni di cui sopra, che analoga considerazione debba
farsi pertanto per le assenze del dipendente chiamato a rendere il proprio
servizio come giudice popolare.
Il dipendente è tenuto ad avvertire preventivamente l’amministrazione
dell’assenza producendo copia del decreto di nomina a giudice popolare; ed
al rientro, a giustificazione della stessa, dovrà produrre idonea
certificazione rilasciata dalla competente autorità giudiziaria, che varrà a
coprire l’assenza per alcune ore o anche per l’intera giornata in funzione
di quanto ivi riportato, in relazione alla durata dell’impegno sostenuto (05.03.2020
- link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Trasparenza dei dati relativi a procedimenti disciplinari.
Domanda
Un cittadino, nonché ex dipendente dell’amministrazione, ci chiede
ripetutamente di pubblicare gli atti conclusivi dei procedimenti
disciplinari a carico di suoi ex colleghi, asserendo che sussista un obbligo
ai sensi dell’art. 23, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33,
trattandosi di provvedimenti amministrativi; in alternativa ne richiede una
copia mediante accesso generalizzato.
Il Responsabile della Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPTC),
sentito anche il Responsabile della Protezione Dati (RPD), ritiene che
entrambe le richieste non possano essere accolte.
È corretto?
Risposta
L’orientamento del RPCT del vostro ente è senz’altro condivisibile.
In primo luogo, il riferimento all’art. 23, del d. lgs. 33/2013, non è
assolutamente pertinente poiché, dopo la modifica introdotta dal decreto
legislativo 25.05.2016, n. 97 e, in particolare, dopo l’abrogazione del
comma 2, la norma richiamata prevede l’obbligo di pubblicazione del solo
elenco dei provvedimenti.
Anche ove si proceda alla pubblicazione di singoli provvedimenti, occorre
procedere all’oscuramento dei dati personali in essi contenuti. Per
pubblicare i dati personali è necessario, infatti, che ci sia una specifica
previsione di legge che rappresenti la base giuridica richiesta dal
Regolamento (UE) 2016/679 e dall’art. 2-ter del decreto legislativo
30.06.2003, n. 196, come adeguato al citato Regolamento.
Con riferimento allo specifico quesito proposto è utile anche richiamare una
recente pronuncia dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), nella quale
si sostiene che il d.lgs. 33/2013 “non dispone per le amministrazioni
pubbliche obblighi di pubblicazione di dati riferiti ai procedimenti
disciplinari nei confronti dei propri dipendenti, né in forma integrale, né
come dato aggregato”.
Ci si riferisce alla delibera n. 1237 del 18.12.2019, con la quale l’ANAC ha
fornito indicazioni di portata generale in merito alla trasparenza dei dati
relativi ai procedimenti disciplinari, ammettendo soltanto la possibilità di
pubblicare i dati relativi al numero dei procedimenti avviati, unitamente
alla casistica delle sanzioni disciplinari irrogate, al fine di far
conoscere –e dunque prevenire– le tipologie di condotte sanzionabili in cui
il dipendente può incorrere.
A ben vedere –come peraltro ricorda l’ANAC– tali dati sono già contenuti
nella Relazione annuale del RPCT di cui all’art. 1, comma 14, della legge
06.11.2012, n. 190, che deve essere pubblicata in Amministrazione
Trasparente nella sottosezione “Altri contenuti > Prevenzione della
corruzione”.
Si vedano le domande contraddistinte con ID 12 – Procedimenti disciplinari e
penali, nello schema di file Excel finora utilizzato dagli RPCT, su
indicazione dell’ANAC, ovvero la sezione 8 – Monitoraggio procedimenti
disciplinari, nella nuova versione della Relazione, generata attraverso la
Piattaforma di acquisizione dei Piani Triennali di Prevenzione della
Corruzione e Trasparenza.
In merito al diritto di accesso generalizzato (cosiddetto FOIA) il Garante
per la protezione dei dati personali, chiamato ad esprimersi dagli RPCT, ai
sensi dell’art. 5, come 7, del d.lgs. 33/2013, nell’ambito di procedimenti
di riesame per diniego, ha più volte chiarito che non è ammissibile
l’accesso generalizzato a tali documenti.
A titolo di esempio, si richiama il parere del 21.11.2018 [doc web 9065404],
nel quale, citando precedenti pronunce, il Garante ribadisce che
l’ostensione integrale del documento richiesto, unita al particolare regime
di pubblicità dei dati oggetto di accesso civico, può arrecare un
pregiudizio concreto alla tutela della protezione dei dati personali ai
sensi dell’art 5-bis , comma 2, lettera a), del d.lgs. 33/2013.
Resta aperta, dunque, soltanto la possibilità di esercitare l’accesso ai
sensi della legge 07.08.1990, n. 241, qualora sussista un interesse
qualificato ossia un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente
ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale
è chiesto l’accesso (03.03.2020 - link a www.publika.it). |
febbraio 2020 |
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assenze
per provvedimenti Coronavirus.
Domanda
A seguito dell’emissione delle ordinanze ministeriali/regionali recanti “Misure
urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica
da COVID-2019“, abbiamo sospeso il servizio dell’asilo nido e della
biblioteca civica.
Come devono essere trattate le assenze dal servizio dei questi dipendenti?
Risposta
Le misure urgenti adottate nelle ordinanze di cui al quesito, riguardano
interventi volti a contenere la diffusione del COVID-19 più noto come
Coronavirus. Allo scopo di evitare il diffondersi del virus è stata disposta
la chiusura dei servizi educativi dell’infanzia e delle scuole di ogni
ordine e grado, nonché la sospensione dei servizi di apertura al pubblico
dei musei e degli altri istituti e luoghi della cultura fino al 1° marzo
compreso.
Tale sospensione configura un caso di impossibilità di rendere la
prestazione lavorativa non imputabile ad alcuna delle parti del rapporto di
lavoro: né al datore di lavoro né al lavoratore.
L’autorità che è intervenuta e ha deciso la sospensione dei servizi non ha
infatti agito come datore di lavoro ma come ufficiale di governo.
Peraltro va aggiunto che esistono due diversi tipi di situazioni
riconducibili l’una alle ordinanze regionali, le altre alle ordinanze dei
sindaci dei comuni sede dei principali focolai del virus.
Le ordinanze regionali sospendono il servizio degli asili nido e delle
biblioteche nei rispettivi territori.
Le ordinanze dei sindaci vietano ai residenti nei comuni sedi dei principali
focolai, di uscire dal territorio comunale, impedendo quindi al lavoratore
di prestare il proprio servizio presso un datore di lavoro al di fuori del
territorio comunale oggetto della restrizione.
Non sono rinvenibili nei CCNL vigenti, disposizioni che trattino in modo
specifico la complessiva fattispecie e gli effetti che ne possono derivare
sul rapporto di lavoro.
Ad oggi, pertanto, possono essere fatte valere le istruzioni fornite dall’ARAN
nei casi di eventi calamitosi o eventi atmosferici avversi.
Le indicazioni dell’Agenzia sono quelle di un datore di lavoro che, pur non
essendo tenuto a corrispondere la retribuzione per i periodi oggetto di
assenza, potrà certamente applicare tutta una serie di istituti e discipline
contrattuali che consentono di tutelare la posizione del dipendente.
Le assenze possono pertanto essere giustificate ricorrendo ad istituti
contrattuali e di legge come ferie e permessi retribuiti oppure anche
concordando con il lavoratore interessato, su un più ampio arco temporale,
l’eventuale recupero delle ore non lavorate.
Per quanto riguarda i lavoratori dipendenti degli asili nido e delle
biblioteche, agli stessi, potranno essere chieste mansioni da essi esigibili
in aree diverse da quelle oggetto di sospensione.
Stessa previsione non è evidentemente applicabile ai lavoratori ai quali
sono rivolte le misure restrittive di tipo territoriale.
L’eccezionalità della contingenza in continuo divenire conduce a ritenere
che verrà adottata una soluzione per colmare, nell’emergenza, il vuoto
normativo che incide negativamente sulla sfera del lavoratore e che si
colloca come elemento di differenziazione tra mondo del lavoro privato e
pubblico (27.02.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
tutela della privacy nei concorso riservati alle categorie protette.
Domanda
Quali accortezze occorre avere nella gestione di un concorso riservato alle
categorie protette, per la parte di pubblicazione dei dati via web?
Risposta
Gli enti che bandiscono procedure concorsuali, riservate alla categorie
protette, devono prestare la massima attenzione alla diffusione dei dati dei
partecipanti, dal momento che in ballo c’è il trattamento del dato per il
quale il legislatore europeo e nazionale hanno previsto il massimo della
tutela: lo stato di salute.
La salute, tra tutti i dati sensibili di una persona fisica (il Regolamento
UE 2016/679, all’articolo 9, li definisce “particolari”), è
certamente quello che deve essere maggiormente protetto, soprattutto nelle
comunicazioni via web che l’ente che bandisce il concorso è tenuto a
pubblicare, nello svolgimento della selezione.
Qui di seguito, per rispondere al quesito, vengono tracciati una serie di
suggerimenti legati alle singole fasi procedimentali del concorso.
Fase 1
Pubblicazione elenco degli ammessi e degli esclusi al concorso.
È possibile convocare i candidati ammessi al concorso (o alla preselezione,
se prevista) con un semplice comunicato a firma del presidente della
Commissione che recita più o meno così.
AVVISO
Tutti i candidati che hanno presentato domanda di partecipazione al concorso
riservato alle categorie protette, per la copertura del posto di ……………….
Categoria …………, come da bando pubblicato in data ………….che NON hanno ricevuto
lettera di esclusione, sono convocati il giorno……., alle ore…… presso………..
per sostenere la prima prova scritta del concorso.
Sin qui, il problema dei dati, non si pone.
Fase 2
Per la comunicazione dei candidati ammessi alla seconda prova si può
procedere con un comunicato del presidente della Commissione, in cui compare
solamente l’elenco degli ammessi, con, a fianco, il relativo punteggio. I
nominativi dei candidati dovranno essere sostituiti dall’uso delle iniziali
o, meglio ancora, da dei codici identificati sostitutivi, attribuiti dalla
commissione ad ogni candidato ammesso. Tramite e-mail o telefono, ad ogni
candidato verrà comunicato il proprio codice identificativo. Esempio:
Posizione Candidato
Punteggio prova scritta
01.
Candidato 014-2020 28/30
02.
Candidato 006-2020 27/30
03.
Candidato 003-2020 26/30
Fase 3
Approvazione graduatoria finale. Anche in questo caso il nominativo del
vincitore e dei candidati risultati idonei deve essere sostituito dall’uso
di un codice identificativo che sarà lo stesso utilizzato per la
comunicazione di ammissione alla seconda prova. Esempio:
Posizione Candidato
Punteggio prova scritta Punteggio prova orale
Punteggio totale Vincitore / idoneo
01.
Candidato 014-2020 28/30
27/30
55
Vincitore
02.
Candidato 006-2020 27/30
27/30
54
Idoneo
03.
Candidato 003-2020 26/30
26/30
52
Idoneo
Fase 4
Approvazione verbali del concorso e della graduatoria di merito, di norma,
con determinazione del responsabile del servizio personale. Anche in questo
caso, dovranno essere oscurati tutti i nominativi e sostituiti con dei
Codici identificati, già utilizzati in sede concorsuale. Prestare molta
attenzione anche al contenuto dei verbali della Commissione che verranno
allegati alla determinazione dirigenziale, provvedendo, eventualmente,
all’oscuramento di alcuni dati.
Fase 5
Determinazione di assunzione in servizio del vincitore e approvazione schema
di contratto individuale.
Nel testo della determinazione e nello schema di contratto individuale,
verrà utilizzato il Codice matricola, attribuito preventivamente alla presa
in servizio, al neo-dipendente dal servizio personale.
Ricapitolando: sull’argomento occorre prendere a riferimento le seguenti
norme:
• regolamento (UE) 2016/679, in particolare l’articolo 9, Paragrafo
4;
• decreto legislativo 30.06.2003, n. 196, articolo 2-septies, nel
testo inserito dall’art. 2, comma 1, lett. f), del d.lgs. 10.08.2018, n.
101;
• indicazioni del Garante privacy contenute nel documento del
15.05.2014, recante “Linee guida in materia di trattamento di dati
personali, contenuti anche in atti e documenti amministrativi, effettuato
per finalità di pubblicità e trasparenza sul web da soggetti pubblici e da
altri enti obbligati”, in particolare il Paragrafo 3. rubricato:
Fattispecie esemplificative, Parte 3.b – Graduatorie, laddove si specifica
che:
Non possono quindi formare oggetto di pubblicazione dati concernenti i
recapiti degli interessati (si pensi alle utenze di telefonia fissa o
mobile, l’indirizzo di residenza o di posta elettronica, il codice fiscale,
l’indicatore ISEE, il numero di figli disabili, i risultati di test
psicoattitudinali o i titoli di studio), né quelli concernenti le condizioni
di salute degli interessati (cfr. art. 22, comma 8, del Codice), ivi
compresi i riferimenti a condizioni di invalidità, disabilità o handicap
fisici e/o psichici.
L’insieme di tali disposizioni impedisce, pertanto, agli enti di divulgare i
dati sullo stato di salute delle persone fisiche, anche se partecipano a una
procedura concorsuale, riservata a soggetti in condizioni di disabilità,
compresi i richiami alla legge 12.03.1999, n. 68, recante “Norme per il
diritto al lavoro dei disabili”.
Il divieto risulta ancora più stringente se i dati vengono pubblicati nei
siti web, sia nella sezione dedicata all’Albo pretorio on-line che sulla
sezione Amministrazione trasparente > Bandi di concorso. La violazione del
divieto comporta l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da
parte del Garante privacy, come è possibile verificare consultando il
seguente link.
Il provvedimento sanzionatorio, nella sua parte narrativa, illustra con
precisione le motivazioni che hanno indotto l’Autorità Garante a emanare una
ordinanza-ingiunzione, datata 14.03.2019, dell’importo di euro 10mila, nei
confronti di un comune del centro Italia, per aver effettuato un trattamento
illecito di dati personali mediante la diffusione di dati idonei a rilevare
lo stato di salute.
La sanzione –per la quale è stata anche concessa una rateizzazione di 25
rate mensili, da 400 euro ciascuna– rappresenta il minimo edittale previsto,
dal momento che la misura della sanzione era stata stabilita (con il “vecchio”
Codice privacy) da un minimo di 10.000 a un massimo di 120.000 euro (25.02.2020 - link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Partecipazione impresa famigliare.
Domanda
È possibile per un dipendente
pubblico partecipare attivamente alla gestione di un’attività del figlio in
qualità di collaboratrice familiare?
Risposta
L’impresa familiare alla quale pare fare riferimento il quesito posto– è
disciplinata, nel nostro ordinamento, dall’art. 230 bis del codice civile
[1], ed indica –per
definizione– una tipologia di impresa caratterizzata dal lavoro dei
familiari nella gestione della stessa, le cui caratteristiche principali
sono riconducibili alle seguenti:
• la presenza di un unico imprenditore;
• la collaborazione di uno o più familiari nella gestione
dell’attività.
I familiari possono lavorare nell’impresa con un contratto di lavoro
dipendente, oppure prestare la propria opera in qualità di collaboratori
familiari, ed, in tal caso, hanno diritto al mantenimento, alla
partecipazione agli utili di impresa, alla gestione dell’attività,
limitatamente alla gestione straordinaria, alla destinazione degli utili,
alla produzione e alla cessazione dell’impresa. Si tratta, pertanto di una
collaborazione attiva alla vita dell’impresa ed anche ai guadagni della
stessa.
L’articolo 53, comma 1, del d.lgs. 165/2001, attraverso il richiamo espresso
all’articolo 60 del Testo Unico n. 3/1957, sancisce il cosiddetto dovere di
esclusività per i pubblici dipendenti, i quali “non possono esercitare il
commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle
dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di
lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la
nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione
del Ministro competente.”
Tale divieto assoluto risulta mitigato dai successivi commi del citato
articolo che prevede che:
• le pubbliche amministrazioni non possono conferire ai dipendenti
incarichi, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, che non siano
espressamente previsti o disciplinati da legge o altre fonti normative, o
che non siano espressamente autorizzati (comma 2);
• il conferimento operato direttamente dall’amministrazione, nonché
l’autorizzazione all’esercizio di incarichi che provengano da
amministrazione pubblica diversa da quella di appartenenza, ovvero da
società o persone fisiche, che svolgano attività d’impresa o commerciale,
sono disposti dai rispettivi organi competenti secondo criteri oggettivi e
predeterminati, che tengano conto della specifica professionalità, tali da
escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto,
nell’interesse del buon andamento della pubblica amministrazione o
situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi, che pregiudichino
l’esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente (comma 5).
Al fine di supportare le amministrazioni nell’applicazione della normativa
in materia di svolgimento di incarichi da parte dei dipendenti e di
orientare le scelte in sede di elaborazione dei propri regolamenti e nella
definizione dei “criteri oggettivi e predeterminati”, il tavolo
tecnico (a cui hanno partecipato il Dipartimento della funzione pubblica, la
Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, l’ANCI e l’UPI, avviato
ad ottobre 2013, in attuazione di quanto previsto dall’intesa sancita in
Conferenza unificata il 24.07.2013) ha formalmente approvato il documento
contenente “Criteri generali in materia di incarichi vietati ai pubblici
dipendenti”.
In tale documento, è scritto che sono da considerare vietati ai dipendenti
delle amministrazioni pubbliche –con percentuale di tempo superiore al 50%–
gli incarichi, sia retribuiti che a titolo gratuito, che presentano la
caratteristica della abitualità e professionalità, e si precisa che “l’incarico
presenta i caratteri della professionalità laddove si svolga con i caratteri
della abitualità, sistematicità/non occasionalità e continuità, senza
necessariamente comportare che tale attività sia svolta in modo permanente
ed esclusivo.”
D’altra parte, già la Circolare n. 6 del 1997 del Dipartimento della
Funzione Pubblica citava il caso partecipazione del dipendente pubblico in
società agricole a conduzione familiare, ritenendo che tale attività fosse
compatibile solo se l’impegno richiesto è modesto e non abituale o
continuato durante l’anno, spettando all’amministrazione di appartenenza –in
sede di istruttoria della domanda di autorizzazione– valutare che le
modalità di svolgimento siano tali da non interferire sull’attività
ordinaria.
Alla luce di quanto sopra esposto, si esclude che la dipendente pubblica di
cui al quesito possa partecipare attivamente alla gestione dell’attività di
tabaccheria del figlio in qualità di collaboratrice familiare, non
rinvenendosi le caratteristiche di saltuarietà ed occasionalità previste per
poter legittimamente rilasciare apposita autorizzazione.
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[1] Art. 230-bis Codice Civile: “Salvo che sia configurabile un diverso
rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di
lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento
secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili
dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi, nonché agli
incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla
quantità e qualità del lavoro prestato.
Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché
quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e
alla cessazione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che
partecipano all’impresa stessa. I familiari partecipanti all’impresa che non
hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita
la responsabilità genitoriale su di essi.
Il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo" (20.02.2020 - link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pubblicazione
provvedimenti organi indirizzo e dirigenti.
Domanda
Quali sono i provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo e dai
dirigenti, oggetto degli specifici obblighi di pubblicazione, di cui
all’art. 23, del d.lgs. n. 33/2013?
Risposta
L’articolo 23, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, nella sua versione
iniziale, prevedeva l’obbligo di pubblicare e aggiornare ogni sei mesi, in
distinte partizioni della sezione «Amministrazione trasparente», gli
elenchi dei provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo politico e dai
dirigenti, con particolare riferimento ai provvedimenti finali dei
procedimenti di:
a) autorizzazione o concessione;
b) scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e
servizi, anche con riferimento alla modalità di selezione prescelta ai sensi
del codice dei contratti pubblici, relativi a lavori, servizi e forniture,
di cui al d.lgs. n. 163/2006;
c) concorsi e prove selettive per l’assunzione del personale e
progressioni di carriera di cui all’art. 24 del d.lgs. n. 150/2009;
d) accordi stipulati dall’amministrazione con soggetti privati o
con altre amministrazioni pubbliche.
Il successivo comma 2, stabiliva, invece, che per ciascuno dei provvedimenti
compresi negli elenchi di cui al comma 1 doveva essere pubblicato:
• il contenuto;
• l’oggetto;
• l’eventuale spesa prevista;
• gli estremi relativi ai principali documenti contenuti nel
fascicolo relativo al procedimento.
La pubblicazione doveva avvenire nella forma di una scheda sintetica,
prodotta automaticamente in sede di formazione del documento che contiene
l’atto.
La norma originaria –peraltro non cristallina nella sua formulazione, in
virtù della presenza della locuzione “con particolare riferimento”–
ha subito delle sostanziali modifiche da parte dell’articolo 22, comma 1,
del decreto legislativo 25.05.2016, n. 97, che ha abrogato le lettere a) e
c), del comma 1 e l’intero comma 2.
Alla luce delle modifiche intervenute, il testo dell’art. 23, del d.lgs.
33/2013, risulta, oggi, così strutturato:
Art. 23 Obblighi di pubblicazione concernenti i provvedimenti
amministrativi
1. Le pubbliche amministrazioni pubblicano e aggiornano ogni sei
mesi, in distinte partizioni della sezione «Amministrazione trasparente»,
gli elenchi dei provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo politico e
dai dirigenti, con particolare riferimento ai provvedimenti finali dei
procedimenti di:
[a) autorizzazione o concessione;]
b) scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e servizi,
anche con riferimento alla modalità di selezione prescelta ai sensi del
codice dei contratti pubblici, relativi a lavori, servizi e forniture, di
cui al d.lgs. 18.04.2016, n. 50, fermo restando quanto previsto
dall’articolo 9-bis;
[c) concorsi e prove selettive per l’assunzione del personale e
progressioni di carriera di cui all’art. 24 del d.lgs. 150/2009;]
d) accordi stipulati dall’amministrazione con soggetti privati o con altre
amministrazioni pubbliche, ai sensi degli artt. 11 e 15 della legge
07.08.1990, n. 241.
[2. Per ciascuno dei provvedimenti compresi negli elenchi
di cui al comma 1 sono pubblicati il contenuto, l’oggetto, la eventuale
spesa prevista e gli estremi relativi ai principali documenti contenuti nel
fascicolo relativo al procedimento. La pubblicazione avviene nella forma di
una scheda sintetica, prodotta automaticamente in sede di formazione del
documento che contiene l’atto.]
Alla luce di quanto sopra, la risposta al quesito può essere formulata
come di seguito riportato:
– ogni sei mesi e per la durata di anni cinque, occorre pubblicare
su Amministrazione trasparente > Provvedimenti, un elenco con i principali
provvedimenti degli organi di indirizzo che, nei comuni, sono il Sindaco, la
Giunta e il Consiglio comunale [1],
pertanto, andranno pubblicati i seguenti elenchi:
• deliberazioni di Consiglio comunale;
• deliberazione di Giunta comunale;
• ordinanze del sindaco, ex art. 50 del TUEL 267/2000;
• ordinanze del sindaco, ex art. 54 TUEL 267/2000;
• decreti del sindaco.
Per ciò che concerne i dirigenti (o posizioni organizzative, in enti senza
la dirigenza) occorre pubblicare degli elenchi semestrali di:
• determinazioni dirigenziali;
• ordinanze dirigenziali.
La tempistica degli obblighi di pubblicazione può essere indicata nella
sezione Trasparenza, del Piano Anticorruzione, prevedendo –ma è solo una
nostra indicazione– che gli elenchi del primo semestre dell’anno vengano
pubblicati entro il 30 settembre del medesimo anno e gli elenchi del secondo
semestre, entro il 31 marzo dell’anno successivo.
Per quanto riguarda, invece, gli atti per la scelta del contraente per
l’affidamento di lavori, forniture e servizi, si ritiene che l’obbligo possa
ritenersi già assolto, pubblicando tutti gli atti nella sottosezione Bandi
di gara e contratti, come scrupolosamente previsto dall’articolo 37, del
d.lgs. 33/2013 [2],
mentre per gli accordi con altri soggetti, stipulati ai sensi degli artt. 11
e 15 della legge 241/1990, l’obbligo sarà già assolto con la pubblicazione
degli elenchi delle deliberazioni di Giunta e di Consiglio o, in caso di
accordi di rilevante impatto sull’organizzazione e sulle funzioni dell’ente,
nella sottosezione Disposizioni generali > Atti generali.
L’elenco, in assenza di specifiche indicazioni della legge e dell’ANAC
[3], si ritiene che possa
essere formato come da tabella sotto riportata, prestando la massima
attenzione e cautela al contenuto dell’oggetto dell’atto, soprattutto alla
luce delle vigenti disposizioni in materia di tutela dei dati personali (si
pensi, a titolo di esempio per tutti, alle ordinanze sindacali di TSO e ASO
[4]).
ATTO
NUM. DATA
OGGETTO
Delibera consiliare 01
07.01.2020 Approvazione …
Contrariamente a ciò che si trova pubblicato in alcuni siti web di qualche
ente locale, chi scrive, ritiene che non sia più pubblicabile il contenuto
(cioè il testo integrale) degli atti adottati dagli amministratori e dai
dirigenti. Ciò in virtù dell’introduzione, nella legislazione italiana,
proprio dal d.lgs. 97/2016, dell’innovativo (e per certi versi
rivoluzionario) istituto dell’accesso civico generalizzato (cosiddetto: FOIA)
[5].
Istituto attraverso il quale, qualsiasi cittadino del mondo, potrà avanzare
richiesta di accesso ai dati e documenti detenuti dalle pubbliche
amministrazioni, in forma totalmente gratuita e senza necessità di
motivazione. Una volta consultati gli elenchi e avuto contezza dell’oggetto
dell’atto, sarà estremamente agevole presentare istanza di accesso con il
FOIA o con la legge 241/1990 (Titolo V, motivando la richiesta ex art. 22,
comma 1, lettera b [6]).
I relativi modelli per garantire l’accesso (FOIA o legge 241), dovranno
essere pubblicati e resi facilmente scaricabili e compilabili, dagli enti
nella sottosezione Altri contenuti > Accesso civico.
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[1] Si veda articolo 36, comma 1, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267;
[2] Si veda Allegato 1, delibera ANAC n. 1310 del 28/12/2016, sottosezione
“Provvedimenti”;
[3] Si veda Paragrafo 5.5, della delibera ANAC n. 1310 del 28/12/2016,
recante “Prime linee guida recanti indicazioni sull’attuazione degli
obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni contenute
nel d.lgs. 33/2013 come modificato dal d.lgs. 97/2016”;
[4] TSO = Trattamento Sanitario Obbligatorio; ASO = Assistenza Sanitaria
Obbligatoria;
[5] Si veda articolo 5, comma 2 e seguenti e articolo 5-bis, d.lgs. 33/2013;
[6] Legge 241/1990, art. 22, co. 1, lettera b): per “interessati”, tutti i
soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi,
che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è
chiesto l’accesso (18.02.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Convezione art. 14 per utilizzo P.O..
Domanda
Potreste spiegare meglio come funziona una convenzione tra enti per
l’utilizzo congiunto di un dipendente incaricato di posizione organizzativa?
Risposta
L’articolo 14 del CCNL 22/01/2004 ha introdotto la possibilità di utilizzo
congiunto di un dipendente tra più enti locali, chiarendo che esso deve
essere disciplinato da idoneo accordo tra le amministrazioni interessate,
che disponga innanzitutto in merito alla percentuale di ripartizione della
prestazione lavorativa del dipendente in favore dell’ente di appartenenza
(cui rimane organicamente legato) e in favore dell’ente utilizzatore (dal
quale dipenderà funzionalmente per la quota parte ad esso assegnata).
Già tale originaria disposizione pattizia, ripresa nella stessa direzione
dall’articolo 17, comma 6, del CCNL 21/05/2018, aveva chiarito che nulla
osta a che il dipendente in questione sia titolare di un incarico di
posizione organizzativa presso uno o tutti e due gli enti coinvolti: ciascun
ente, però, dovrà riproporzionare il valore dell’indennità di posizione
attribuita presso di sé e derivante dal processo di pesatura effettuato
secondo le proprie regole, in funzione della percentuale di attribuzione
della prestazione lavorativa spettante; e ciascun ente si farà carico della
propria quota di indennità, dovendo l’ente utilizzatore rimborsare all’ente
di provenienza solo le normali voci retributive del dipendente e non certo
la quota di indennità di posizione attribuita presso l’altra
amministrazione.
Per essere ancora più espliciti, se presso l’ente A (ente di appartenenza),
il dipendente è titolare di un incarico di posizione organizzativa cui è
attribuita una indennità di posizione di euro 10.000,00/annui, e la
convenzione per l’utilizzo congiunto del dipendente prevede una ripartizione
della prestazione lavorativa al 50% (18 h/settimanali per ciascun ente),
ecco che l’ente di appartenenza dovrà riproporzionare tale indennità al 50%,
corrispondendo al dipendente una posizione pari ad euro 5.000,00 annui.
Nulla dovrà l’ente utilizzatore, che chiameremo B, in relazione a tale
somma, che resta di esclusiva competenza e interesse dell’ente A.
Ove lo ritenga, e secondo il proprio regolamento in materia, l’ente B potrà
certamente attribuire altro incarico di posizione organizzativa allo stesso
dipendente, procedendo, quanto alla sua pesatura, esattamente come A, ovvero
seguendo il proprio disciplinare in materia e riproporzionandola al 50%.
L’art. 16, comma 6, del CCNL 21/05/2018, all’ultimo capoverso, aggiunge solo
che “al fine di compensare la maggiore gravosità della prestazione svolta
in diverse sedi di lavoro, i soggetti di cui al precedente alinea possono
altresì corrispondere con oneri a proprio carico, una maggiorazione della
retribuzione di posizione attribuita ai sensi del precedente alinea, di
importo non superiore al 30% della stessa”, intendendo che il solo ente
utilizzatore, ovvero B, può riconoscere, se lo ritiene, una maggiorazione
della posizione eventualmente attribuita presso di sé (e riproporzionata
come illustrato sopra) fino al 30% della stessa. Tale facoltà non è concessa
all’ente di provenienza.
Nell’esempio (con cifre puramente indicative) proposto, perciò:
• Ente A è posizione euro 10.000,00 – utilizzo 50% è nuovo importo
posizione euro 5.000,00 (interamente a carico di A)
• Ente B è posizione euro 9.000,00 – utilizzo 50% è nuovo importo
4.500,00 + (eventualmente) maggiorazione 30% pari a euro 1.350,00, per un
totale di euro 5.850,00 (interamente a carico di B) (13.02.2020 -
link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: La
pretesa risarcitoria nei confronti del funzionario di un ente pubblico, come
responsabile del procedimento indicato come fonte del danno, va proposta al
giudice ordinario.
Considerato l’articolo 28 Cost. (sulla diretta
responsabilità dei funzionari e dipendenti pubblici «per gli atti compiuti
in violazione dei diritti») e l’art. 103 della Costituzione (per il quale il
giudice amministrativo ha giurisdizione «per la tutela nei confronti della
pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari
materie, indicate dalla legge, dei diritti soggettivi»), si evince che la
pretesa risarcitoria nei confronti del funzionario di un ente pubblico, come
responsabile del procedimento indicato come fonte del danno, va proposta al
giudice ordinario: e non porta a diverse conclusioni la circostanza della
avvenuta chiamata in garanzia dell'ente pubblico, perché la connessione non
fa derogare alla giurisdizione.
Nemmeno rileva accertare preliminarmente se il funzionario ha agito in veste
di organo dell'ente pubblico, cioè nell’ambito del rapporto di
immedesimazione organica, ovvero al di fuori del rapporto organico. Nell’uno
e nell’altro caso, invero, la domanda risarcitoria è proposta contro la
persona del funzionario, che è distinta dall'amministrazione (la quale, al
più, è con lui solidamente obbligata).
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4. Va in limine esaminato il terzo motivo di appello, con cui la
società Ni.Ga. ha contestato le statuizioni di prime cure nella parte in cui
hanno dichiarato inammissibile, perché proposta dinanzi al giudice privo di
giurisdizione, la domanda risarcitoria nei confronti dei RUP
dell’Amministrazione appellata.
Per l’appellante si verte nella specie in un’ipotesi di giurisdizione
amministrativa esclusiva: la domanda risarcitoria è stata, infatti,
formulata nei confronti dei funzionari dell’ente pubblico in quanto
anch’essi responsabili dell’inadempimento agli obblighi assunti con
l’accordo ex art. 11 l. n. 241 del 1990 di cui al verbale di riunione
sottoscritto il 01.12.2009. Non sarebbe pertanto in sé dirimente la natura
privata del soggetto convenuto.
4.1. Il motivo è infondato.
4.2. Bene la sentenza appellata ha rilevato il difetto di giurisdizione
amministrativa in parte qua, ritenendo la giurisdizione ordinaria.
Infatti, considerato l’articolo 28 Cost. (sulla diretta responsabilità dei
funzionari e dipendenti pubblici «per gli atti compiuti in violazione dei
diritti») e l’art. 103 della Costituzione (per il quale il giudice
amministrativo ha giurisdizione «per la tutela nei confronti della
pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari
materie, indicate dalla legge, dei diritti soggettivi»), si evince che
la pretesa risarcitoria nei confronti del funzionario di un ente pubblico,
come responsabile del procedimento indicato come fonte del danno, va
proposta al giudice ordinario: e non porta a diverse conclusioni la
circostanza della avvenuta chiamata in garanzia dell'ente pubblico, perché
la connessione non fa derogare alla giurisdizione (Cass., SS.UU., 05.03.2008
n. 5914, 17.05.2010, n. 11932 e 08.03.2011 n. 5408).
Nemmeno rileva accertare preliminarmente se il funzionario ha agito in veste
di organo dell'ente pubblico, cioè nell’ambito del rapporto di
immedesimazione organica, ovvero al di fuori del rapporto organico. Nell’uno
e nell’altro caso, invero, la domanda risarcitoria è proposta contro la
persona del funzionario, che è distinta dall'amministrazione (la quale, al
più, è con lui solidamente obbligata) (Cass., SS.UU., 13.06.2006 n. 13659)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.02.2020 n. 1055 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Questa
Amministrazione (Azienda partecipata da Enti Locali) si trova a dover
bandire alcuni concorsi per l'assunzione di personale di vari profili.
Quali sono i limiti legittimi per la previsione di concorsi non solo per
esami ma anche per titoli volendo selezionare per alcuni di questi personale
particolarmente qualificato?
Le Amministrazioni pubbliche possono prevedere, nell'ambito della propria
autonomia organizzativa e discrezionalità di procedere a bandi di concorso
per soli esami o per titoli ed esami. Tale scelta non è sindacabile nel
merito dal giudice amministrativo anche se l'individuazione dei titoli
valutabili e del peso da attribuire agli stessi incontra qualche
limitazione.
Il DPR 09.05.1994, n. 487, art. 8 "Regolamento recante norme sull'accesso
agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento
dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei
pubblici impieghi" detta all'art. 8 alcuni vincoli di carattere generale
che sono:
- la valutazione dei titoli va effettuata previa individuazione dei
criteri (da inserire nel bando)
- la valutazione è effettuata dopo le prove scritte e prima che si
proceda alla correzione dei relativi elaborati
- ai titoli non può essere attribuito un punteggio complessivo
superiore ad un terzo del massimo (10/30 o equivalente)
- il bando indica i titoli valutabili ed il punteggio massimo agli
stessi attribuibile singolarmente e per categorie di titoli.
- la votazione complessiva è determinata sommando il voto
conseguito nella valutazione dei titoli al voto complessivo riportato nelle
prove d'esame.
Entro questi limiti la giurisprudenza consolidata e costante (anche recente)
riconosce un ampio potere discrezionale nell'individuazione della tipologia
dei titoli richiesti per la partecipazione da esercitare tenendo conto della
professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da
ricoprire, suscettibile di sindacato giurisdizionale esclusivamente sotto i
profili della illogicità, arbitrarietà e contraddittorietà e ciò sia in fase
di predeterminazione (bando) che di valutazione.
Infatti "la Commissione esaminatrice di un pubblico concorso è titolare
di ampia discrezionalità nel catalogare i titoli valutabili in seno alle
categorie generali predeterminate dal bando, nell'attribuire rilevanza ai
titoli e nell'individuare i criteri per attribuire i punteggi ai titoli
nell'ambito del punteggio massimo stabilito, senza che l'esercizio di tale
discrezionalità possa essere oggetto di censura in sede di giudizio di
legittimità, a meno che non venga dedotto l'eccesso di potere per manifesta
irragionevolezza e arbitrarietà".
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
D.P.R. 09.05.1994, n. 487, art. 8
Riferimenti di giurisprudenza
Cons. Stato Sez. VI, 24.01.2020, n. 590 - TAR Campania-Napoli Sez. II,
07.01.2020, n. 47 - TAR Campania-Salerno Sez. I, 07.01.2020, n. 5 - TAR
Basilicata Sez. I, 05.12.2019, n. 879 - TAR Sicilia-Catania Sez. I,
15.11.2019, n. 2737 - Cons. Stato Sez. VI, 14.10.2019, n. 6971 - TAR
Lazio-Roma Sez. III-bis, 30.09.2019, n. 11420 - TAR Campania-Napoli Sez. II,
25.09.2019, n. 4571 - TAR Lazio-Roma Sez. III-ter, 24.09.2019, n. 11306 -
TAR Sardegna Sez. I, 11.12.2018, n. 1015 - TAR Lazio-Roma Sez. II-quater,
05.06.2018, n. 6227
(12.02.2020 - tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: La
piattaforma ANAC per l’acquisizione dei piani triennali di
prevenzione della corruzione.
Domanda
Da una lettura delle disposizioni in merito alla stesura del
PTPCT 2020 e agli adempimenti da eseguire, successivamente
alla approvazione definitiva, è emersa la necessità di
compilare il questionario sul sito di ANAC secondo le
modalità indicate nella “Piattaforma di Acquisizione dei
Piani Triennali per la Prevenzione della Corruzione e per la
Trasparenza – Guida alla compilazione dei questionari per le
Pubbliche Amministrazioni”.
Si chiede se tale compilazione sia obbligatoria e se è da
effettuarsi entro il termine del 31 gennaio 2020, medesimo
termine indicato per la approvazione del PTPCT.
Risposta
L’articolo 1, comma 8, della legge 06.11.2012, n. 190,
prevede che, entro il 31 gennaio di ogni anno, l’organo di
indirizzo politico, su proposta del Responsabile della
Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPCT), adotti il
Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione e
Trasparenza (PTPCT) e lo trasmetta all’Autorità Nazionale
Anticorruzione (ANAC)
Al comma 14, del medesimo articolo, si prevede che, entro il
15 dicembre di ogni anno, il RPCT trasmetta all’organo di
indirizzo politico e all’Organismo Indipendente di
Valutazione (OIV) una relazione recante i risultati
dell’attività svolta e la pubblichi sul sito web
dell’amministrazione.
I due adempimenti (PTPCT e Relazione annuale) sono
evidentemente collegati in quanto il nuovo PTPCT dovrà tener
conto dei risultati dell’annualità precedente.
Generalmente l’ANAC, prima della scadenza del 15 dicembre,
proroga il termine e lo allinea con quello previsto per
l’adozione del PTPCT. Anche quest’anno l’ANAC, con il
Comunicato del 13.11.2019, ha posticipato il termine per la
pubblicazione della relazione annuale del RPCT al
31.01.2020.
Tra i compiti dell’ANAC, vi è quello di verificare e
monitorare l’adozione, da parte delle amministrazioni, del
PTPCT e l’attuazione della normativa e delle misure di
prevenzione della corruzione.
Tale attività si è esplicata non solo attraverso la
cosiddetta vigilanza, ma anche attraverso un’attività di
monitoraggio, finalizzata a valutare la qualità dei PTPCT e
delle misure di prevenzione, la congruità di tali documenti
rispetto alle indicazioni fornite dall’Autorità nei Piani
Nazionali Anticorruzione (PNA) e l’opportunità di eventuali
correttivi.
Dal 2019 è disponibile una Piattaforma, predisposta dall’ANAC,
per l’acquisizione e il monitoraggio dei Piani
Anticorruzione e per la redazione delle relazioni annuali
dei Responsabili. Essa può essere utilizzata anche per il
monitoraggio di competenza del RPCT.
Il Presidente ANAC ne ha dato notizia con il Comunicato del
12.06.2019, consentendo di accreditarsi e di inserire i dati
relativi al PTPCT 2019-2021.
La piattaforma permette:
a) all’Autorità, di condurre analisi qualitative dei dati
grazie alla sistematica e organizzata raccolta delle
informazioni e, dunque, di poter rilevare le criticità dei
PTPCT e migliorare, di conseguenza, la sua attività di
supporto alle amministrazioni;
b) ai RPCT:
– di avere una migliore conoscenza e consapevolezza dei requisiti
metodologici più rilevanti per la costruzione del PTPCT;
– monitorare nel tempo i progressi del proprio PTPCT;
– conoscere, in caso di successione nell’incarico di RPCT, gli
sviluppi passati del PTPCT;
– effettuare il monitoraggio sull’attuazione del PTPCT;
– produrre la relazione annuale.
Il PNA 2019 (delibera ANAC n. 1064 del 13.11.2019) e il
citato Comunicato ANAC non esplicitano in maniera chiara se
sia obbligatorio procedere alla registrazione e
all’inserimento dei dati relativi al PTPCT 2020-2022.
Tuttavia, considerato che viene richiamato, quale base
giuridica della piattaforma, il comma 8, dell’art. 1, della
legge 190/2012, che prevede la trasmissione del PTPCT ad
ANAC, si può ritenere che la Piattaforma sia la modalità per
adempiere a tale previsione normativa.
A sostegno di tale interpretazione si richiama l’allegato 1,
al PNA 2019 nel quale si dice che i RPCT “sono tenuti ora
a registrarsi ed accreditarsi” sulla Piattaforma. La
precisazione che, per il 2020, la Piattaforma opera in forma
sperimentale, sembra relativa esclusivamente all’ambito di
operatività, limitato, per ora, alle sole amministrazioni di
cui all’art. 1, comma 2 del decreto legislativo 30.03.2001,
n. 165.
L’utilizzo della Piattaforma per il monitoraggio di
competenza del RPCT è, invece, facoltativo, come facoltativo
è il livello di approfondimento, non obbligando il sistema
all’inserimento di tutte le misure specifiche.
Non è, invece, previsto un termine per l’inserimento, che
potrà essere effettuato a partire dall’adozione del PTPCT,
essendo un adempimento strumentale al monitoraggio, sia
dell’ANAC che del RPCT.
La Piattaforma si compone di tre sezioni:
• Anagrafica: finalizzata all’acquisizione delle informazioni in
merito all’amministrazione, al Responsabile della
prevenzione della Corruzione e Trasparenza, alla sua
formazione e alle sue competenze;
• questionario Piano Triennale: finalizzato all’acquisizione delle
informazioni relative al Piano Triennale per la Prevenzione
della Corruzione e Trasparenza (PTPCT) e alla programmazione
delle misure di prevenzione della corruzione;
• questionario Monitoraggio attuazione: finalizzato
all’acquisizione delle informazioni relative alle misure di
prevenzione ed allo stato di avanzamento del PTPCT.
Per ulteriori informazioni si rinvia al box 15,
dell’Allegato 1, al PNA 2019 e alle indicazioni disponibili
al
seguente link.
A completamento informativo, si segnala che con comunicato
del 27.11.2019, il Presidente dell’ANAC precisa che
l’utilizzo e la compilazione dei dati nella Piattaforma non
può essere delegato a soggetti esterni all’Amministrazione,
in attuazione del principio secondo cui soggetti terzi non
possono predisporre il PTPCT e neppure fornire contributi
per la redazione dello stesso. Nel Comunicato si specifica,
anche, che non possono far parte della struttura di supporto
al RPCT soggetti esterni all’amministrazione.
Per la relazione annuale 2019, l’ANAC prevede che si possa,
alternativamente, utilizzare la Scheda in formato Excel,
analoga a quella in uso negli anni scorsi (con due sole
sezioni aggiuntive concernenti rispettivamente “la
rotazione straordinaria” e “il pantouflage”), o
generare in modo automatico la relazione attraverso la
Piattaforma, dopo aver completato l’inserimento dei dati
relativi ai PTPCT e alle misure di attuazione (vedi
Comunicato del 13.11.2019).
È prevedibile che, per la relazione 2020, l’ANAC richiederà
esclusivamente la seconda modalità.
Tutto ciò premesso, la risposta allo specifico quesito è la
seguente:
a) la compilazione può ritenersi obbligatoria;
b) il termine per provvedervi non è stato definito, ma non è quello
del 31.01.2020.
Per quanto sopra, l’ente interpellante ha come obbligo di
pubblicare la relazione riferita all’anno 2019 e il PTPCT
2020/2022, approvato con deliberazione della Giunta
comunale, nel proprio sito web nella sezione Amministrazione
trasparente > Altri contenuti > Prevenzione della corruzione
(11.02.2020 - link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La cessazione del rapporto di lavoro.
Il divieto di monetizzazione delle ferie non godute, alla luce della
sentenza della Corte Cost. 06.05.2016 n. 95, è correlato a fattispecie in
cui la cessazione del rapporto di lavoro sia riconducibile ad una scelta o a
un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o a eventi
(mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque
consentano di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il
necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro
con le preferenze manifestate dal lavoratore.
Esulano, invece, dall’ambito
di applicazione di tale divieto le vicende estintive del rapporto di lavoro
non imputabili alla volontà delle parti.
---------------
2. Devono essere brevemente tratteggiati il quadro normativo di riferimento
e i principi giurisprudenziali elaborati in subjecta materia.
2.1. Le modalità di godimento delle ferie annuali continuano ad essere
disciplinate, per il personale di magistratura ordinaria, dalle disposizioni
previste dall'art. 36 del D.P.R. 10.01.1957, n. 3, nonché da quelle
dell'art. 15 della legge 11.07.1980, n. 312 (la cui applicabilità ai
magistrati ordinari discende dalla norma di rinvio contenuta nell'art. 276
dell'Ordinamento Giudiziario) laddove recitano, rispettivamente: "il
godimento del congedo entro l'anno può essere rinviato o interrotto per
eccezionali esigenze di servizio; in tal caso l'impiegato ha diritto al
cumulo dei congedi entro il primo semestre dell'anno successivo" e: "il
congedo ordinario è stabilito in trenta giorni lavorativi da fruirsi
irrinunciabilmente nel corso dello stesso anno solare in non più di due
soluzioni, salvo eventuali motivate esigenze di servizio, nel qual caso
l’impiegato ha diritto al cumulo dei congedi entro il primo semestre
dell'anno successivo”.
Il Consiglio Superiore della Magistratura, in data 20.12.2001, nel
rispondere ad un quesito e con riferimento a precedenti circolari adottate
in materia, ha ribadito l'applicabilità ai magistrati dell'art. 15 della L.
n. 312/1980 ed ha precisato che "normalmente il congedo ordinario deve
essere goduto continuativamente in coincidenza con il periodo feriale" ma
che "per ragioni di servizio è tuttavia possibile una diversa distribuzione,
da parte dei capi degli uffici, del periodo di congedo durante l'anno come
già stabilito da risoluzioni del C.S.M con la possibilità di recupero nel
semestre dell'anno successivo".
Inoltre ha affermato che "il termine posto
dall'art. 15 della legge n. 312/1980 e dall'art. 36 del D.P.R. n. 3/1957
‘entro il primo semestre dell'anno successivo’ è da intendersi come
perentorio e non superabile e che il magistrato, essendo irrinunciabile il
diritto alle ferie, ha il dovere di goderlo entro il detto limite",
ammettendo soltanto che, per ragioni di oggettiva impossibilità, il
magistrato possa fruire delle ferie immediatamente dopo la cessazione della
causa ostativa, eventualmente superando, in via di eccezione, il termine del
primo semestre dell'anno successivo.
Riguardo, poi, ai criteri che devono presiedere alla certificazione delle
esigenze di servizio, comprovanti la necessità di rinvio della fruizione del
congedo ordinario, l'Amministrazione continua a fare sempre riferimento alle
disposizioni contenute nelle circolari AG/EC/4014 del 06.08.1998 e
AG/EC/3730 del 16.06.2000 a firma del Direttore Generale
dell'Organizzazione Giudiziaria e degli Affari Generali, diramate a tutti i
Capi degli Uffici, ove, a precisazione delle su citate statuizioni
normative, si sottolinea che, per quanto concerne l'attestazione della
sussistenza delle esigenze di servizio che comportino il rinvio al congedo
ordinario, è necessario che le stesse siano adeguatamente certificate, sia
sotto il profilo formale sia sotto quello sostanziale, aggiungendo, altresì,
che non sono ritenute adeguate le certificazioni generiche e di stile,
richiedendosi invece la documentata indicazione, volta per volta, di
puntuali riferimenti a situazioni e circostanze che possano essere idonee
allo scopo.
Inoltre, con la seconda circolare citata, l'Amministrazione richiede che i
magistrati debbano predisporre, tempestivamente, le singole richieste di
ferie, anche in presenza di probabili esigenze di ufficio che ne potrebbero
giustificare il diniego e che è compito dei Capi degli Uffici,
eventualmente, rigettare la richiesta mediante la redazione di un
provvedimento che deve indicare specificatamente e dettagliatamente le
ragioni di detto diniego.
Successivamente, nella delibera adottata nella seduta del 14.07.2010 e
nelle circolari datate 30.07.2010 e 21.04.2011, quest'ultima
modificata mediante risoluzione del 20.04.2016 e relazione introduttiva
del 26.03.2015, il Consiglio Superiore della Magistratura è ritornato
nuovamente sul tema, e nel ribadire e sintetizzare quanto già in precedenza
affermato in tema di godimento delle ferie da parte dei magistrati, afferma
nuovamente che, del tutto eccezionalmente, le ferie non godute possono
essere recuperate oltre il primo semestre dell'anno successivo rispetto a
quello di riferimento, purché sia dimostrata la ricorrenza in concreto di
condizioni ostative al rispetto del termine de quo; inoltre, detta una
disciplina secondaria in tema di programmazione delle ferie e di piani di
recupero delle ferie residue, ma sempre nel rispetto delle disposizioni su
citate.
2.2. Nelle more è stato emanato il D.L. 06.07.2012 n. 95 (entrato in
vigore il 07.07.2012) convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012 n. 135, il cui art. 5, comma 8, ha disposto che “le ferie, i riposi ed
i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle
amministrazioni pubbliche … sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto
previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla
corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. La presente
disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro
per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del
limite di età. Eventuali disposizioni normative e contrattuali più
favorevoli cessano di avere applicazione a decorrere dall'entrata in vigore
del presente decreto…”.
2.3. Detta norma è stata oggetto di interpretazione da parte della
giurisprudenza nazionale ed europea, nei termini di seguito tratteggiati.
2.3.1. Con sentenza della Sezione X del 20.07.2016 (causa C. 341/15) la
Corte di Giustizia ha affermato che l'articolo 7, paragrafo 2, della
direttiva 2003/88 deve essere interpretato nel senso che:
- esso osta a una
normativa nazionale che priva del diritto all'indennità finanziaria per
ferie annuali retribuite non godute il lavoratore il cui rapporto di lavoro
sia cessato a seguito della sua domanda di pensionamento e che non sia stato
in grado di usufruire di tutte le ferie prima della fine di tale rapporto di
lavoro;
- un lavoratore ha diritto, al momento del pensionamento,
all'indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute per il
fatto di non aver esercitato le sue funzioni per malattia;
- un lavoratore
il cui rapporto di lavoro sia cessato e che, in forza di un accordo concluso
con il suo datore di lavoro, pur continuando a percepire il proprio
stipendio, fosse tenuto a non presentarsi sul posto di lavoro per un periodo
determinato antecedente il suo pensionamento, non ha diritto all'indennità
finanziaria per ferie annuali retribuite non godute durante tale periodo,
salvo che egli non abbia potuto usufruire di tali ferie a causa di una
malattia;
- spetta, da un lato, agli Stati membri decidere se concedere ai
lavoratori ferie retribuite supplementari che si sommano alle ferie annuali
retribuite minime di quattro settimane previste dall'articolo 7 della
direttiva 2003/88.
In tale ipotesi, gli Stati membri possono prevedere di
concedere al lavoratore che, a causa di una malattia, non abbia potuto
usufruire di tutte le ferie annuali retribuite supplementari prima della
fine del suo rapporto di lavoro, un diritto all'indennità finanziaria
corrispondente a tale periodo supplementare. Spetta, dall'altro lato, agli
Stati membri stabilire le condizioni di tale concessione.
2.3.2. La Corte Costituzionale con la pronuncia interpretativa di rigetto n.
95 del 06.05.2016, ha escluso l'illegittimità costituzionale della norma
in parola, affermando che la stessa va interpretata nel senso che debba
esser sempre riconosciuta la "compensazione economica" allorquando il
godimento delle ferie sia “compromesso dalla malattia o da altra causa non
imputabile al lavoratore".
2.3.3. Sul tema della monetizzazione delle ferie il Consiglio di Stato ha
affermato che "il diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute dal
pubblico dipendente, anche in mancanza di una norma espressa che preveda la
relativa indennità, discende direttamente dallo stesso mancato godimento
delle ferie, in armonia con l'art. 36 Cost., quando sia certo che tale
vicenda non sia stata determinata dalla volontà del lavoratore e non sia a
lui comunque imputabile, e dunque anche in caso di cessazione dal servizio
per infermità; ciò in quanto il carattere indisponibile del diritto alle
ferie non esclude l'obbligo della stessa Amministrazione di corrispondere il
predetto compenso per le prestazioni effettivamente rese, non essendo logico
far discendere da una violazione imputabile all'Amministrazione il venir
meno del diritto all'equivalente pecuniario della prestazione effettuata;
analoga conclusione deve trarsi ove le ferie non siano state fruite per
cessazione dal servizio per infermità" (Cons. Stato, Sez. IV, 13.03.2018,
n. 1580).
Da tale carattere di indisponibilità e irrinunciabilità discende il diritto
al compenso sostitutivo, ogni qual volta la fruibilità del congedo stesso
sia oggettivamente esclusa per causa indipendente dalla volontà del
lavoratore o per fatto specifico della P.A. datrice di lavoro (in materia,
TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 25.06.2015, TAR Sardegna, 13.02.2013 n. 116; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II,
03.05.2011 n.
598; Cons. Stato, Sez. IV, 24.02.2009 n. 1084).
Il diritto alla monetizzazione del congedo ordinario (non fruito) matura
ogniqualvolta il dipendente non ne abbia potuto usufruire (ovvero non abbia
potuto disporre e godere delle sue ferie) a cagione di obiettive esigenze di
servizio o comunque per cause da lui non dipendenti o a lui non imputabili (Cons.
Stato, Sez. III, 21.03.2016 n. 1138).
Quindi il divieto di monetizzazione delle ferie di cui all’art. 5, comma 8,
D.L. 06.07.2012 n. 95 va interpretato nel senso che tale disciplina non
pregiudica il diritto alle ferie ove prevede che non si possano
corrispondere in nessun caso trattamenti economici sostitutivi, giacché
correla il contestato divieto a fattispecie in cui la cessazione del
rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del
lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento,
raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentono di pianificare
per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario
contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le
preferenze manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo, sicché
la norma in parola va interpretata come diretta a reprimere il ricorso
incontrollato alla monetizzazione delle ferie non godute, contrastandone gli
abusi, e a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie,
per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e favorire
comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro, senza arrecare
pregiudizio al lavoratore incolpevole (TAR Emilia Romagna, Parma, 17.01.2017, n. 14; v. anche TAR Friuli Venezia Giulia, 11.07.2018,
n. 247).
2.3.4. E, per il pubblico impiego contrattualizzato, la giurisprudenza del
giudice del lavoro è costante nell'affermare che in tema di pubblico impiego
e monetizzazione delle ferie non fruite, sussiste il diritto del ricorrente
al pagamento delle ferie e dei riposi non goduti, quando lo stesso abbia
provato di essere lavoratore in malattia. Difatti, l'art. 5, comma 8, D.L.
95/2012 deve essere interpretato nel senso che il divieto di monetizzazione
delle ferie residue non si applica nel caso in cui il dipendente non sia
stato nella possibilità di fruire delle stesse a causa di malattia (ex multis: Trib. Taranto sez. lav., 17.10.2019, n. 3418; Trib. La Spezia,
sez. lav., 03.11.2018, n. 282; Trib. Torino, sez. lav., 22.12.2016, n. 1861).
3. Alla luce di quanto precede il ricorso non può essere accolto
(TAR Lazio-Roma, Sez. I,
sentenza 10.02.2020 n. 1712 - massima tratta da www.laleggepertutti.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Concorsi
tempo determinato e utilizzo graduatorie.
Domanda
Si possono ancora svolgere concorsi a tempo determinato o un
ente è obbligato ad utilizzare le graduatorie di altri enti?
Risposta
Riportiamo, innanzitutto, l’articolo 36, comma 2, del d.lgs.
165/2001 che così prevede: “Per prevenire fenomeni di
precariato, le amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle
disposizioni del presente articolo, sottoscrivono contratti
a tempo determinato con i vincitori e gli idonei delle
proprie graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo
indeterminato. È consentita l’applicazione dell’articolo 3,
comma 61, terzo periodo, della legge 24.12.2003, n. 350,
ferma restando la salvaguardia della posizione occupata
nella graduatoria dai vincitori e dagli idonei per le
assunzioni a tempo indeterminato”.
Il tenore letterale della norma, evidentemente prevede una
possibilità di utilizzare le graduatorie di altri enti e di
certo non un obbligo. Anche il Dipartimento della Funzione
Pubblica all’interno della Circolare 5/2013 scrive
chiaramente che: “In caso di mancanza di graduatorie
proprie le amministrazioni possono attingere a graduatorie
di altre amministrazioni mediante accordo”.
È quindi evidente che si tratta di una possibilità.
In alternativa, l’ente, potrà quindi procedere con concorsi
a tempo determinato. Anche in questo caso, vengono a
supporto le parole del Dipartimento della Funzione Pubblica
contenute nel paragrafo 2 della predetta Circolare: “Inoltre,
pur mancando una disposizione di natura transitoria nel
decreto-legge, per ovvie ragioni di tutela delle posizioni
dei vincitori di concorso a tempo determinato, le relative
graduatorie vigenti possono essere utilizzate solo a favore
di tali vincitori, rimanendo precluso lo scorrimento per gli
idonei.
Resta fermo che le assunzioni a tempo determinato si
svolgono, sotto l’aspetto ordinamentale, tenendo conto della
disciplina di cui all’articolo 36 del d.lgs n. 165 del 2001
e sotto l’aspetto finanziario nei limiti di spesa
dell’articolo 9, comma 28, del decreto-legge 31.05.2010, n.
78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010,
n. 122, fatte salve le deroghe previste dalla legge. Si
ricorda che il mancato rispetto dei limiti di cui al citato
comma 28 costituisce illecito disciplinare e determina
responsabilità erariale”.
Quindi, è chiarissimo che un ente può benissimo svolgere
procedure concorsuali a tempo determinato. L’unico caso in
cui non può procedere è solamente in presenza di proprie
graduatorie a tempo indeterminato per le quali l’art. 36
comma 2 prevede invece un obbligo di utilizzo
(06.02.2020 - link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Conferimento
di incarico al personale in quiescenza.
Il Consiglio di Stato, Sez. I, con il
parere
04.02.2020 n. 309, ha analizzato la questione
dell'applicabilità del divieto di conferimento di incarichi al personale in
quiescenza.
Gli incarichi, le cariche e le collaborazioni contemplati dal Dl
95/2012 possono essere attribuiti a chi è ancora in servizio anche se, prima
della scadenza dell'incarico, andrà a riposo.
In ogni caso, prosegue il parere, nell'ipotesi in cui venga conferito un
incarico a un soggetto ancora in servizio, per evitare elusioni, al momento
della collocazione in quiescenza il rapporto deve trasformarsi in un
rapporto a titolo gratuito.
E invero, come previsto dall'articolo 5, comma 9, terzo
periodo, del Dl 95/2012, gli incarichi, le cariche e le collaborazioni di
cui ai periodi precedenti dello stesso comma 9 sono comunque consentiti a
titolo gratuito.
Il Collegio ha evidenziato che la norma di legge si
riferisce, in modo chiaro, solo ai soggetti già lavoratori privati o
pubblici collocati in quiescenza, lasciando fuori dal suo campo di
applicazione chi, invece, all'atto del conferimento dell'incarico (nelle sue
eterogenee forme contemplate dalla legge) non è ancora in quiescenza
(commento tratto da http://quotidianoentilocali.ilsole24ore.com).
---------------
PARERE
4. Preliminarmente, occorre prendere in considerazione la ratio
dell’articolo 5, comma 9, del decreto-legge, 06.07.2012, n. 95, il quale
dispone: «È fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di cui
all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, nonché
alle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato
della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di
statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 2, della legge
31.12.2009, n. 196 nonché alle autorità indipendenti ivi inclusa la
Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) di attribuire
incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o
pubblici collocati in quiescenza.
Alle suddette amministrazioni è, altresì, fatto divieto di conferire ai
medesimi soggetti incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di
governo delle amministrazioni di cui al primo periodo e degli enti e società
da esse controllati, ad eccezione dei componenti delle giunte degli enti
territoriali e dei componenti o titolari degli organi elettivi degli enti di
cui all'articolo 2, comma 2-bis, del decreto-legge 31.08.2013, n. 101,
convertito, con modificazioni, dalla legge 30.10.2013, n. 125. Gli
incarichi, le cariche e le collaborazioni di cui ai periodi precedenti sono
comunque consentiti a titolo gratuito.
Per i soli incarichi dirigenziali e direttivi, ferma restando la gratuità,
la durata non può essere superiore a un anno, non prorogabile né
rinnovabile, presso ciascuna amministrazione. Devono essere rendicontati
eventuali rimborsi di spese, corrisposti nei limiti fissati dall'organo
competente dell'amministrazione interessata. Gli organi costituzionali si
adeguano alle disposizioni del presente comma nell'ambito della propria
autonomia».
Il legislatore ha così introdotto limitazioni al conferimento di incarichi
di studio, di consulenza, dirigenziali, direttivi o cariche in organi di
governo a soggetti, già lavoratori privati o pubblici collocati in
quiescenza, con l’obiettivo di agevolare il ricambio generazionale (TAR
Valle d’Aosta, sentenza 14.06.2016 n. 27; per Cons. St., sez. V, sentenza
15.11.2016 n. 4718 è evidente la ratio “di favorire l’occupazione
giovanile”) nelle pubbliche amministrazioni e conseguire risparmi di
spesa. Tali incarichi sono consentiti a titolo gratuito con una limitazione
temporale per un anno per quelli dirigenziali o direttivi e in tutti gli
altri casi senza limiti di tempo.
Tale obiettivo è scolpito nella circolare n. 6/2014 del Ministro per la
semplificazione e la pubblica amministrazione, secondo cui le modifiche
introdotte con l’art. 6 del D.L. n. 90/2014 “sono volte ad evitare che il
conferimento di alcuni tipi di incarico sia utilizzato dalle amministrazioni
pubbliche per continuare ad avvalersi di dipendenti collocati in quiescenza
o, comunque, per attribuire a soggetti in quiescenza rilevanti
responsabilità nelle amministrazioni stesse, aggirando di fatto lo stesso
istituto della quiescenza e impedendo che gli organi di vertice siano
occupati da dipendenti più giovani. Le nuove disposizioni sono espressive di
un indirizzo di politica legislativa volto ad agevolare il ricambio e il
ringiovanimento del personale nelle pubbliche amministrazioni”.
La Corte costituzionale, con sentenza n. 124 del 2017, ha affermato che con
tale disposizione «si attua un contemperamento non irragionevole dei
principi costituzionali e non si sacrifica in maniera indebita il diritto a
una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro
svolto». In via generale, infatti, è indiscutibile che può corrispondere
ad un rilevante interesse pubblico il ricorso a professionalità
particolarmente qualificate che già fruiscono di un trattamento
pensionistico. Tuttavia, il carattere limitato delle risorse pubbliche
giustifica la necessità di una predeterminazione complessiva –e modellata su
un parametro prevedibile e certo– delle risorse che l’amministrazione,
intesa nel suo complesso, può corrispondere a titolo di retribuzioni e
pensioni.
Tale ratio ispira, le disposizioni dell’art. 5, comma 9, cit. perché il
principio di proporzionalità della retribuzione alla quantità e alla qualità
del lavoro svolto deve essere valutato in un contesto peculiare che non
consente una considerazione parziale della retribuzione e del trattamento
pensionistico.
Sulla base di tali considerazioni la Corte costituzionale ha ritenuto, ad
esempio, non illegittima la disposizione di legge che pone un tetto alle
retribuzioni ancorata a una cifra predeterminata, che corrisponde alla
retribuzione del Primo Presidente della Corte di cassazione, perché attua un
contemperamento non irragionevole dei princìpi costituzionali e non
sacrifica in maniera indebita il diritto a una retribuzione proporzionata
alla quantità e alla qualità del lavoro svolto (Corte cost. 26.05.2017 n.
124).
In sostanza la libertà di lavoro può subire delle limitazioni in una
situazione di difficoltà economica e di problemi occupazionali per i
giovani. Il principio di libertà di lavoro, va contemperato in concreto con
il favore concesso a chi aspira ad entrare nel mondo del lavoro a danno di
chi comunque gode di un trattamento di quiescenza e ha raggiunto l’età per
il pensionamento.
Reputa la Sezione che, in via generale, possa condividersi –trattandosi di
una norma che limita un diritto costituzionalmente garantito, quale quello
di esplicare attività lavorative sotto qualunque forma giuridica–
l’affermazione per cui non possono essere ammesse interpretazioni estensive
o analogiche di siffatta disposizione. La giurisprudenza così ha escluso che
tale norma trovi applicazione in relazione alla “attribuzione dei turni
vacanti per attività specialistica ambulatoriale e domiciliare” (Cons.
St., sez. III, 30.06.2016 n. 2949) o ad “un incarico biennale libero
professionale di "medico competente" (C.G.A.R.S., sentenza 27.05.2019 n.
489) o all’incarico di medico del servizio sanitario a tempo determinato
(TAR Sicilia–Palermo, sentenza 18.06.2018 n. 1374) mentre altra sentenza ha
ritenuto di estenderla all’incarico di difensore civico regionale (Cons. St.,
sez. V, sentenza 15.11.2016 n. 4718).
...
7. Venendo alla terza e ultima questione, relativa all’applicabilità
del comma più volte citato solo a coloro i quali siano già stati collocati a
riposo oppure anche a coloro i quali, nominati quando ancora erano in
servizio, siano stati successivamente collocati a riposo, per la Sezione il
dato letterale depone a favore della prima opzione.
La norma di legge si riferisce, in modo chiaro, solo ai “soggetti già
lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza”, lasciando fuori
dal suo campo di applicazione chi, invece, all’atto del conferimento
dell’incarico (nelle sue eterogenee forme contemplate dalla legge) non è
ancora in quiescenza. Da questo si desume che gli incarichi, le cariche e le
collaborazioni contemplati dalla legge in commento possono essere attribuiti
a chi è ancora in servizio anche se, prima della scadenza dell’incarico,
andrà a riposo.
Tale conclusione trova una prima giustificazione negli ordinari criteri
ermeneutici: poiché si tratta di una norma eccezionale che limita la
possibilità di conferire incarichi, cariche e collaborazioni è certo che non
possa essere oggetto di applicazione analogica (art. 14 Preleggi; si veda
pure TAR Sicilia–Palermo, sentenza 18.06.2018 n. 1374).
In tale senso si è espressa anche la giurisprudenza stabilendo che “incarichi
vietati, dunque, sono solo quelli espressamente contemplati: incarichi di
studio e di consulenza, incarichi dirigenziali o direttivi, cariche di
governo nelle amministrazioni e negli enti e società controllati. Il
legislatore ha voluto perseguire gli obiettivi sopra ricordati, vietando il
conferimento a soggetti in quiescenza di incarichi e cariche che,
indipendentemente dalla loro natura formale, consentono di svolgere ruoli
rilevanti al vertice delle amministrazioni. Un'interpretazione estensiva dei
divieti in esame, non coerente con il fine di evitare che soggetti in
quiescenza assumano rilevanti responsabilità nelle amministrazioni potrebbe
determinare un'irragionevole compressione dei diritti dei soggetti in
quiescenza in violazione dei princìpi enunciati dalla giurisprudenza
costituzionale che ammette limitazioni a carico dei soggetti in questione
purché imposte in relazione a un apprezzabile interesse pubblico”, Cons.
St., sez. III, sentenza 05.09.2017 n. 4195).
La soluzione ora prospettata è, inoltre, avvalorata dai periodi successivi
che permettono di attribuire i predetti incarichi, cariche e collaborazioni,
a titolo gratuito, ai lavoratori già collocati in quiescenza e, in alcuni
casi, per un periodo limitato di tempo. Ed invero, se l’articolo 5, comma 9,
cit. si leggesse nel senso che non può essere conferito incarico a chi prima
della sua scadenza andrà a riposo, non si comprenderebbe la ragione per cui
lo stesso comma prevede poi la possibilità di conferire incarichi, cariche e
collaborazioni a titolo gratuito a chi è già a riposo. Detto in altri
termini, se l’incarico legittimamente conferito cessa, e non può proseguire
neppure a titolo gratuito, la norma non dovrebbe poi prevedere la
possibilità di assegnarlo a titolo gratuito.
Le conclusioni ora raggiunte, però, devono essere precisate allo scopo di
evitare applicazioni sostanzialmente elusive della legge (sulla necessità di
interpretare correttamente la norma per evitare elusioni, ad esempio,
attraverso una diversa denominazione dell’incarico conferito, si veda TAR
Lazio–Roma, sez. III-bis, sentenza 14.11.2016 n. 11301), in ipotesi,
conferendo l’incarico all’interessato poco tempo prima di essere collocato
in quiescenza (teoricamente anche un solo giorno prima).
Reputa la Sezione che nell’ipotesi in cui venga conferito incarico ad un
soggetto ancora in servizio, per evitare elusioni, al momento della
collocazione in quiescenza il rapporto debba trasformarsi in un rapporto a
titolo gratuito. Ed invero, ai sensi dell’articolo 5, comma 9, terzo
periodo, gli incarichi, le cariche e le collaborazioni di cui ai periodi
precedenti dello stesso comma 9 sono comunque consentiti a titolo gratuito.
Occorre infine precisare la durata del rapporto a titolo gratuito dopo la
collocazione in quiescenza. Il quarto periodo del più volte citato comma 9
stabilisce che «per i soli incarichi dirigenziali e direttivi, ferma
restando la gratuità, la durata non può essere superiore a un anno, non
prorogabile né rinnovabile, presso ciascuna amministrazione».
Da tale disposizione si ricava allora che detto rapporto può proseguire per
la durata di un anno se rientrante nel quarto periodo –ossia se concernente
gli incarichi dirigenziali e direttivi– mentre può proseguire sino alla
scadenza se riguardante le altre nomine (incarichi di studio e di consulenza
o cariche in organi di governo delle amministrazioni). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Misure
organizzative per il rispetto del divieto di pantouflage.
Domanda
Il nuovo Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione e
Trasparenza (PTPCT) dell’Amministrazione prevede, tra le
misure a carico del dirigente dell’Ufficio personale,
l’introduzione della clausola di rispetto del divieto di
pantouflage nei nuovi contratti di reclutamento del
personale.
Vorrei sapere in quali tipologie di contratti va inserita.
Risposta
Il divieto di pantouflage o revolving doors
(c.d. porte girevoli) è una delle misure concernenti
l’imparzialità dei funzionari pubblici, introdotte dalla
legge 06.11.2012, n. 190 (c.d. legge Severino). Si tratta di
una sorta di “incompatibilità successiva” che viene a
determinarsi quando un dipendente, che ha esercitato poteri
autoritativi o negoziali per conto di una pubblica
amministrazione, viene successivamente assunto o inizia a
collaborare, a titolo professionale, con il soggetto privato
destinatario dei poteri autoritativi o negoziali. Il divieto
è volto ad evitare che il dipendente sfrutti la propria
posizione nell’intento di precostituirsi situazioni
lavorative vantaggiose, pregiudicando, in tal modo, il
perseguimento dell’interesse pubblico.
La norma di riferimento è l’art. 1, comma 42, lettera l),
della legge 190/2012, che ha introdotto il comma 16-ter
nell’art. 53 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165
[1]. La
sanzione prevista dal legislatore consiste nella nullità dei
contratti conclusi e degli incarichi conferiti in violazione
di tale disposizione e nel divieto, per il soggetto privato
che ha stipulato i contratti o conferito gli incarichi con
l’ex dipendente pubblico, di contrattare con la pubblica
amministrazione per un periodo di tre anni.
In sede attuativa il divieto del pantouflage ha avuto
un particolare rilevo nell’ambito della contrattualistica
pubblica, in quanto gli operatori che partecipano alle gare
sono chiamati a rilasciare una dichiarazione di non aver
stipulato contratti di lavoro o affidato incarichi in
violazione dell’art. 53, comma 16-ter, del d.lgs. 165/2001 e
tale dichiarazione deve essere verificata dalla stazione
appaltante. Le pronunce giurisprudenziali e la riflessione
dottrinale intorno all’ambito di applicazione di tale
divieto sono per lo più originati da fattispecie
riconducibili a gare d’appalto.
Con l’aggiornamento al Piano Nazionale Anticorruzione (PNA)
2018 si suggerisce una misura ulteriore, consistente nel far
sottoscrivere, al dipendente pubblico che cessa
dall’incarico, l’impegno al rispetto del divieto di
pantouflage.
Nel PNA 2019, si anticipa l’assunzione dell’impegno sin
dalla fase di sottoscrizione del contratto, prevedendo che
anche gli atti di assunzione del personale contemplino
l’impegno a rispettare tale divieto.
A ben vedere, già il Piano Nazionale Anticorruzione (PNA)
2013 prevedeva che nei contratti di assunzione del personale
dovesse essere inserita la clausola concernente il divieto
di prestare attività lavorativa (a titolo di lavoro
subordinato o di lavoro autonomo) per i tre anni successivi
alla cessazione del rapporto nei confronti dei destinatari
di provvedimenti adottati o di contratti conclusi con
l’apporto decisionale del dipendente.
Correttamente, dunque, il PTPCT dell’amministrazione prevede
che l’ufficio personale adotti questa misura, che ha anche
l’effetto di rendere preventivamente edotti i dipendenti del
vincolo discendente dall’esercizio di poteri autoritativi o
negoziali.
È ragionevole che l’ufficio personale si ponga il problema
di individuare il corretto ambito di applicazione della
disposizione, in quanto il divieto comporta una limitazione
della libertà di iniziativa economica, costituzionalmente
tutelata, e dunque la finalità di prevenzione della
corruzione deve essere contemperata con il rispetto di tale
libertà.
Occorre esaminare, da un lato, il tipo di rapporto di lavoro
che lega il soggetto alla pubblica amministrazione e,
dall’altro, il contenuto dell’attività lavorativa, in quanto
il divieto discende dall’aver esercitato poteri autoritativi
o negoziali.
Sotto il primo profilo, la norma utilizza la definizione “dipendenti”
senza distinguere tra rapporti di lavoro a tempo determinato
e indeterminato, pertanto è pacifico che si applichi ad
entrambe le tipologie di contratti.
L’art. 21, del decreto legislativo 08.04.2016, n. 39 estende
poi il divieto di pantouflage ai soggetti titolari di
incarichi contemplati nel citato decreto, “ivi compresi”
recita la disposizione “i soggetti esterni con i quali
l’amministrazione, l’ente pubblico o l’ente di diritto
privato in controllo pubblico stabilisce un rapporto di
lavoro subordinato o autonomo”.
A partire da tali previsioni normative l’ANAC estende
l’ambito di applicazione della norma anche ad altri
soggetti, legati alla pubblica amministrazione da un
rapporto di lavoro autonomo (parere ANAC AG/2 del 04.02.2015
ribadito nei ultimi PNA adottati). Questa interpretazione
desta perplessità in quanto, al contrario, proprio la
circostanza che il legislatore abbia equiparato ai
dipendenti i soggetti titolari di incarichi di cui al d.lgs.
39/2013 sembrerebbe confermare che l’ambito di applicazione
non può che essere quello previsto dalla legge.
Sotto il profilo del tipo di funzioni esercitate, con
l’espressione “poteri autoritativi o negoziali” si
intende l’attività di emanazione di provvedimenti
amministrativi e il perfezionamento di negozi giuridici,
mediante la stipula di contratti in rappresentanza giuridica
ed economica dell’ente.
L’ANAC precisa che i dirigenti e i funzionari che svolgono
incarichi dirigenziali o coloro che esercitano funzioni
apicali con deleghe di rappresentanza esterna rientrano in
tale ambito, come anche coloro che ricoprono incarichi
amministrativi di vertice, anche se non emanano direttamente
provvedimenti amministrativi e non stipulano negozi
giuridici. Essi sono, infatti, senz’altro in grado di
incidere sull’assunzione di decisioni da parte delle
strutture di riferimento.
Andando oltre, l’ANAC ritiene che il rischio di
precostituirsi situazioni lavorative favorevoli possa
sussistere anche in capo al dipendente che ha comunque avuto
il potere di incidere in maniera determinante sulla
decisione oggetto del provvedimento finale, collaborando
all’istruttoria, ad esempio attraverso l’elaborazione di
atti endoprocedimentali obbligatori (pareri, perizie,
certificazioni) che vincolano in modo significativo il
contenuto della decisione (parere ANAC AG/74 del 21.10.2015
e orientamento n. 24/2015).
Anche tale interpretazione rischia di estendere in maniera
eccessiva l’ambito di applicazione del divieto, pertanto è
importante che, in sede applicativa, si verifichino in
concreto le funzioni svolte dal dipendente.
Ad esempio, appare eccessivo che un lavoratore che venga
assunto a tempo determinato o un soggetto che stipuli un
contratto di collaborazione professionale, riconducibile ad
un rapporto di lavoro autonomo, debba vincolarsi, in sede di
stipula del contratto, al rispetto della disposizione di cui
all’art. 53, comma 16-ter, del d.lgs. 165/2001, per il solo
fatto che collaborerà in attività procedimentali finalizzate
all’adozione di un provvedimento di autorizzazione,
concessione o erogazione di sovvenzioni, sussidi o vantaggi
economici. La sola collaborazione all’elaborazione dei
provvedimenti o degli atti endoprocedimentali vincolanti non
può giustificare la limitazione alla liberà di iniziativa
economica.
Resta fermo che, se il dipendente poi, nel corso
dell’attività lavorativa, abbia in concreto effettivamente
svolto delle funzioni autoritative o negoziali, nei
confronti di un dato soggetto privato, non possa essere
assunto o collaborare con tale soggetto, per i tre anni
successivi alla cessazione del rapporto con la pubblica
amministrazione.
Di seguito una ipotesi di formulazione della clausola: “Il
sottoscritto dichiara di essere a conoscenza del divieto di
cui all’art. 53, comma 16-ter, del d.lgs. 165/2001 e si
impegna fin d’ora, nel caso eserciti in concreto poteri
autoritativi o negoziali nei confronti di soggetti privati,
a non accettare incarichi lavorativi o professionali presso
i medesimi soggetti, per i tre anni successivi alla
cessazione del rapporto di lavoro.”
---------------
[1] “16-ter. I dipendenti che, negli ultimi tre anni di
servizio, hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali
per conto delle pubbliche amministrazioni di cui
all’articolo 1, comma 2, non possono svolgere, nei tre anni
successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego,
attività lavorativa o professionale presso i soggetti
privati destinatari dell’attività della pubblica
amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri. I
contratti conclusi e gli incarichi conferiti in violazione
di quanto previsto dal presente comma sono nulli ed è fatto
divieto ai soggetti privati che li hanno conclusi o
conferiti di contrattare con le pubbliche amministrazioni
per i successivi tre anni con obbligo di restituzione dei
compensi eventualmente percepiti e accertati ad essi
riferiti”
(04.02.2020 - link a www.publika.it). |
gennaio 2020 |
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pubblicazione
dati concernenti bandi di concorso.
Domanda
Stiamo avviando una procedura di reclutamento di personale e
vorremmo avere un aggiornamento sugli obblighi di
pubblicazione su Amministrazione Trasparente.
Risposta
L’articolo 19, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 è
la disposizione di riferimento per la trasparenza in tema di
bandi di concorso. Tale norma era stata già modificata dal
decreto legislativo 25.05.2016, n. 97 ed è stata
recentemente integrata dall’art. 1, comma 145, della legge
27.12.2019, n. 160 (legge di Bilancio 2020).
L’attuale formulazione dell’art. 19, comma 1 prevede che
siano pubblicati:
• bandi di concorso per il reclutamento a qualsiasi titolo di
personale;
• i criteri di valutazione stabiliti dalla Commissione;
• le tracce delle prove (da intendersi come prova teorico/pratica;
scritta e orale);
• le graduatorie finali, aggiornate con l’eventuale scorrimento
degli idonei non vincitori.
La novità, dunque, riguardano l’obbligo di pubblicare le
tracce di tutte le prove e non più soltanto delle prove
scritte e l’introduzione dell’obbligo di pubblicare le
graduatorie finali aggiornate con l’eventuale scorrimento
degli idonei, anche alla luce della disposizione che ha
ripristinato la possibilità per gli enti di scorrere le
proprie e le altrui graduatorie (legge 27.12.2019, n. 160,
art. 1, comma 148).
Considerato che si tratta di dati personali “comuni”,
occorre far attenzione a pubblicare i soli dati necessari ad
individuare i soggetti; è sufficiente, dunque, indicare
solamente in nome e cognome, evitando luogo e data di
nascita, residenza o altro. Sull’argomento si richiamano le
Linee Guida del Garante privacy del 15.05.2014, pubblicate
in Gazzetta Ufficiale n. 134 del 12.06.2014, che forniscono
una casistica di dati eccedenti da non pubblicare e alcuni
suggerimenti per coniugare adeguatamente trasparenza e
privacy. Attenzione, in particolare, alle selezioni
riservate a disabili (vedere l’ordinanza del Garante del
14.03.2019 – doc web 9116773).
L’art. 1, comma 145, della legge n. 160/2019, modifica poi
il secondo comma dell’art. 19, del d.lgs. 33/2013,
specificando meglio che i dati di cui al comma precedente
devono essere costantemente aggiornati.
La nuova formulazione sopprime il riferimento ad un elenco
dei bandi previsto dal previgente comma 2. Nella
strutturazione della pagina di Amministrazione Trasparente >
Bandi di concorso si suggerisce, per una migliore
consultazione, una articolazione che distingua i bandi in
corso e quelli scaduti.
In merito alla decorrenza e alla durata della pubblicazione
non si dice nulla, pertanto, si applicano le disposizioni
dell’art. 8, del d.lgs. 33/2013 che prevedono la
tempestività di pubblicazione e il termine di cinque anni,
decorrenti dal 1° gennaio dell’anno successivo.
Altra novità della legge di bilancio è l’introduzione del
comma 2-bis, con il quale si prevede che le amministrazioni
debbano pubblicare il collegamento ipertestuale dei dati, ai
fini dell’inserimento nella banca dati del Dipartimento
della funzione pubblica, di cui all’art. 4, comma 5, del
decreto legge 31.08.2013, n. 101, finalizzata al
monitoraggio delle graduatorie concorsuali.
Le modalità attuative di tale ultima disposizione saranno
definite con decreto ministeriale da adottarsi entro
sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge.
Come noto, nonché espressamente precisato nell’incipit
dell’art. 19, la pubblicazione su Amministrazione
Trasparente non sostituisce la pubblicità legale; pertanto
resta fermo l’obbligo di pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale e del bando di concorso o di un avviso contenente
gli estremi del bando e la scadenza dei termini di
presentazione delle domande
(28.01.2020 - link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Permessi
studio art. 45 CCNL.
Domanda
Vorremmo dei chiarimenti sui permessi per diritto allo studio di cui
all’art. 45 del CCNL Funzioni Locali del 21/05/2018.
In particolare, premesso che l’ente al momento non ha provveduto a
regolamentare l’istituto con proprio atto interno, si chiede se tali congedi
possano essere concessi al personale iscritto ad università telematiche e,
in subordine, quale documentazione debba acquisire l’ente al fine di
verificare il rispetto dei requisiti previsti dalla normativa.
Infine, si chiedono chiarimenti in merito ai criteri per la concessione nel
caso in cui, in corso d’anno, il numero di domande ecceda il limite fissato
dalla disposizione contrattuale.
Risposta
L’art. 45 del CCNL 21/05/2018 prevede in merito al diritto allo studio, la
concessione di permessi straordinari retribuiti, nella misura massima di 150
ore annue, concessi per partecipare a corsi destinati al conseguimento di
titoli di studio universitari, post universitari, di scuole di istruzione
primaria, secondaria e di qualificazione professionale, statali, pareggiate
o legalmente riconosciute o comunque abilitate al rilascio di titoli di
studio legali o attestati professionali riconosciuti dall’ordinamento
pubblico e per sostenere i relativi esami.
La disposizione in esame ricalca in larga parte quanto già sancito dal
precedente art. 15 del CCNL 14.09.2000, pertanto si ritengono attualmente
vigenti gli orientamenti applicativi forniti già dall’ARAN nonché dal
Dipartimento della Funzione Pubblica.
Ciò posto, per quanto attiene la possibilità di riconoscere detti permessi a
dipendenti iscritti a università telematiche, il Ministero dell’Istruzione,
Università e Ricerca con nota del 20.05.2009 n. 9/207/RET/R, aveva
interpretato in senso favorevole l’utilizzo dei permessi sostenendo che “la
ratio della norma vada nel senso di garantire il diritto allo studio e
quindi le 150 ore debbano essere concesse anche agli studenti delle
università telematiche”.
Tuttavia, al fine di evitare l’uso distorto dell’istituto, il Dipartimento
della Funzione Pubblica, con Circolare n. 12/2011, pur confermando che non
vi sono preclusioni alla fruizione dei permessi studio da parte dei
dipendenti pubblici iscritti alle università telematiche, ha precisato che “la
fruizione risulta subordinata alla presentazione della documentazione
relativa all’iscrizione e agli esami sostenuti, nonché all’attestazione
della partecipazione personale del dipendente alle lezioni. In quest’ultimo
caso i dipendenti iscritti alle università telematiche dovranno certificare
l’avvenuto collegamento all’università telematica durante l’orario di lavoro”.
L’ARAN si è attestata sul predetto orientamento, stabilendo tuttavia che
l’attestato di partecipazione o frequenza assume un rilievo prioritario in
quanto certifica sia la circostanza dell’effettiva presenza alle lezioni sia
quella che le medesime lezioni si svolgono all’interno dell’orario di
lavoro.
A tal fine, l’autocertificazione potrebbe ammettersi nei casi in cui la PA
possa procurarsi direttamente, ex se, la certificazione necessaria;
contrariamente sarà necessaria una attestazione da parte della stessa
università, che certifichi che quel determinato dipendente ha seguito
personalmente, effettivamente e direttamente le lezioni trasmesse in via
telematica.
Per quanto attiene le modalità di concessione dei permessi, posto che si
consiglia all’ente di approvare apposita regolamentazione, si osserva quanto
segue:
1. l’ARAN ritiene non vi siano preclusioni circa la sostituzione di
un dipendente in corso d’anno, purché sia rispettato il tetto delle 150 ore.
Pertanto, se un dipendente termina l’utilizzo a marzo, potrà cedere le ore
residue per l’anno solare ad altro dipendente;
2. ove non sia prevista alcuna regolamentazione, come regola
generale prescritta dall’art. 45, qualora il numero delle domande presentate
dai lavoratori superi il limite massimo del 3% del personale a tempo
indeterminato in servizio all’inizio di ogni anno, l’attribuzione dei
permessi avviene sulla base dei criteri di priorità indicati nei commi 6, 7
e 8 (23.01.2020 - tratto da e link a
www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'ufficio
personale di questo ente pubblico economico (Settore Sanità) chiede quali
siano gli attuali obblighi di pubblicazione degli incarichi, stipendi e
redditi dei dirigenti alla luce delle recenti vicende (interventi Anac,
Corte Costituzionale ecc…)?
La questione relativa agli obblighi di pubblicazione dei dati patrimoniali e
reddituali dei dirigenti (art. 14, D.Lgs. 14.03.2013, n. 33) ha visto degli
sviluppi particolari che merita riepilogare.
Il D.Lgs. 14.03.2013 n. 33 all'art. 14, comma 1-ter, dispone "Ciascun
dirigente comunica all'amministrazione presso la quale presta servizio gli
emolumenti complessivi percepiti a carico della finanza pubblica, anche in
relazione a quanto previsto dall'articolo 13, comma 1, del decreto-legge
24.04.2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n.
89. L'amministrazione pubblica sul proprio sito istituzionale l'ammontare
complessivo dei suddetti emolumenti per ciascun dirigente".
L'autorità anticorruzione (ANAC) è intervenuta a chiarire nel tempo i
contenuti prescrittivi delle disposizioni in materia con:
- Del. 28.12.2016, n. 1310
- Del. 08.03.2017, n. 241
- Del. 12.04.del 2017, n. 382
La questione, attraverso il ricordo di dirigenti del Garante privacy è poi
giunta al vaglio della Cort. Cost. 21.02.2019, n. 20 "dichiara
l'illegittimità costituzionale dell'art. 14, comma 1-bis, del decreto
legislativo 14.03.2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante il
diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e
diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni), nella
parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di
cui all'art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo anche
per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo
conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall'organo di
indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per
i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall'art. 19, commi 3 e 4,
del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento
del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche)".
A tale pronuncia, non del tutto esaustiva è seguita la Del. 26.06.2019, n.
586 dell’ANAC del la quale ha dato vita a polemiche ed a un nuovo ricorso
(questa volta da parte di dirigenti del settore sanità) che ha portato alla
sua sospensione con il provvedimento del TAR Lazio, Roma, Sez. I, sent.
21.11.2019, n. 7579.
A questa ordinanza è seguito un nuovo Comunicato 04.12.2019 del Presidente
ANAC circa gli effetti della sentenza e del citato complesso di
disposizioni.
La situazione, che rischiava di creare problemi interpretativi e richieste
di risarcimento di danni ha convinto il Governo ad inserire una disposizione
nel "Decreto Milleproroghe 2020", all'art. 1, comma 7, D.L.
30.12.2019, n. 162 il quale dispone "Fino al 31.12.2020, nelle more
dell'adozione dei provvedimenti di adeguamento alla sentenza della Cort.
Cost. 21.02.2019, n. 20, ai soggetti di cui all'articolo 14, comma 1-bis,
D.Lgs. 14.03.2013, n. 33, non si applicano le misure di cui agli artt. 46 e
47 del medesimo decreto.
Conseguentemente, con regolamento da adottarsi entro il 31.12.2020, ai sensi
dell'articolo 17, comma 1, della legge 23.08.1988, n. 400, su proposta del
Ministro per la pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro della
giustizia, il Ministro dell'interno, il Ministro dell'economia e delle
finanze, il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale
e il Ministro della difesa, sentito il Garante per la protezione dei dati
personali, sono individuati i dati di cui al comma 1 dell'articolo 14 del
decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, che le pubbliche amministrazioni e i
soggetti di cui all'articolo 2-bis, comma 2, del medesimo decreto
legislativo devono pubblicare con riferimento ai titolari amministrativi di
vertice e di incarichi dirigenziali, comunque denominati, ivi comprese le
posizioni organizzative ad essi equiparate, nel rispetto dei seguenti
criteri:
a) graduazione degli obblighi di pubblicazione dei dati di cui al
comma 1, lettere a), b), c), ed e), dell'articolo 14, comma 1, del decreto
legislativo 14.03.2013, n. 33, in relazione al rilievo esterno dell'incarico
svolto, al livello di potere gestionale e decisionale esercitato correlato
all'esercizio della funzione dirigenziale;
b) previsione che i dati di cui all'articolo 14, comma 1, lettera
f), del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, siano oggetto esclusivamente
di comunicazione all'amministrazione di appartenenza;
c) individuazione dei dirigenti dell'amministrazione dell'interno,
degli affari esteri e della cooperazione internazionale, delle forze di
polizia, delle forze armate e dell'amministrazione penitenziaria per i quali
non sono pubblicati i dati di cui all'articolo 14 del decreto legislativo
14.03.2013, n. 33, in ragione del pregiudizio alla sicurezza nazionale
interna ed esterna e all'ordine e sicurezza pubblica, nonché in rapporto ai
compiti svolti per la tutela delle istituzioni democratiche e di difesa
dell'ordine e della sicurezza interna ed esterna" di fatto sospendendo
tutti gli obblighi di pubblicazione relativi.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 14.03.2013, n. 33, art. 14
- Del. 08.03.2017, n. 241 dell’ANAC - Del. 12.04.2017, n. 382 dell’ANAC -
Del. 26.06.2019, n. 586 dell’ANAC - Comunicato 04.12.2019 - D.L. 30.12.2019,
n. 162, art. 1
Riferimenti di giurisprudenza
Cort. Cost. 21.02.2019, n. 20
Documenti allegati
Del. 28.12.2016, n. 1310
dell’ANAC - TAR Lazio, Roma, Sez. I, sent. 21.11.2019, n. 7579
(22.01.2020 - tratto da http://www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
PUBBLICO IMPIEGO: Intento persecutorio: risarcibilità dei danni.
Ai fini dell’accertamento di una condotta datoriale mobbizzante, è onere del
lavoratore fornire una sicura prova circa:
(a) la molteplicità dei
comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se
considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato con intento vessatorio;
(b) l’evento
lesivo della propria salute o della propria personalità;
(c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro (o del superiore gerarchico)
ed il pregiudizio alla propria integrità psico-fisica; e
(d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio
unificante di tutti i comportamenti lesivi (TRIBUNALE di Roma, Sez. lavoro, sentenza 21.01.2020 n. 542 -
massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Diritto
a godere le ferie e perdita delle ferie non godute.
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Pubblico impiego privatizzato – Ferie – Godimento – Mancata volontaria
fruizione – Conseguenza – Perdita delle ferie.
Il lavoratore che volontariamente non gode delle
ferie maturate le perde (1)
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(1) Come emerge dalla giurisprudenza nazionale ed euro-unitaria
(causa C-696/16 emessa dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia il
06.11.2018) la regula juris nella materia del godimento delle ferie
da parte del lavoratore è quello per cui, per un verso, il diritto di
ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite deve essere considerato un
principio particolarmente importante del diritto sociale dell’Unione, al
quale non si può derogare, trovando il proprio fondamento nell’art. 31,
paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ed ha
il medesimo valore giuridico, dei Trattati ai sensi dell’art 6 paragrafo 1
TUE: la ratio dell’esercizio dello stesso è quella di consentire al
lavoratore di riposarsi dall’esecuzione dei compiti attribuiti godendo così
di un periodo di relax e svago.
Per altro verso, il datore di lavoro ha l’onere di assicurarsi
concretamente e con trasparenza che il lavoratore sia effettivamente in
condizione di godere delle ferie annuali retribuite invitandolo, se
necessario formalmente, a farlo e nel contempo informandolo –in modo
accurato e in tempo utile– del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie
andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di
riporto autorizzato.
Tuttavia, in un equilibrato contemperamento di principi ed istanze
assiologiche di pari rango, il rispetto di tale onere derivante dall’art. 7
della direttiva 2003/88 non può estendersi fino al punto di costringere
quest’ultimo a imporre ai suoi lavoratori di esercitare effettivamente la
fruizione delle ferie annuali retribuite.
Egli deve limitarsi soltanto a consentire ai lavoratori di godere delle
stesse dando altresì prova di aver esercitato tutta la diligenza necessaria
affinché essi potessero effettivamente di esercitare tale diritto.
L’assetto ora descritto non collide con il principio costituzionale dell’irrinunciabilità
delle ferie, in quanto garantisce, comunque, un equilibrato rispetto delle
esigenze organizzative dell’amministrazione e di quelle di riposo del
lavoratore.
Il presupposto imprescindibile per la perdita della possibilità di godimento
delle ferie al di là di una determinata scadenza temporale è che il
lavoratore non ne abbia goduto liberamente e consapevolmente. La
giurisprudenza della Corte Costituzionale ha chiarito, nel ritenere non
fondata questione di legittimità costituzionale del d.l. n. 95 del 2012,
art. 5, comma 8, conv., con mod. dalla l. n. 135 del 2012 (che prevede, tra
l'altro: "Le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche
di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel
conto economico consolidato della pubblica amministrazione..., sono
obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti
e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti
economici sostitutivi"), che il legislatore correla il divieto di
corrispondere trattamenti sostitutivi a fattispecie in cui la cessazione del
rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del
lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento,
raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentano di pianificare
per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario
contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le
preferenze manifestate dal lavoratore in merito al periodo di godimento
delle ferie (sentenza n. 95 del 2016).
Il Giudice delle Leggi ha precisato che la disciplina statale in questione
come interpretata dalla prassi amministrativa e dalla magistratura
contabile, è nel senso di escludere dall'àmbito applicativo del divieto le
vicende estintive del rapporto di lavoro che non chiamino in causa la
volontà del lavoratore e la capacità organizzativa del datore di lavoro.
Ha chiarito la Corte costituzionale che tale interpretazione, che si pone
nel solco della giurisprudenza del Consiglio di Stato (sez. II, 15.04.2019,
n. 2246) e della Corte di cassazione, non pregiudica il diritto alle ferie,
come garantito dalla Carta fondamentale (art. 36, comma 3), dalle citate
fonti internazionali (Convenzione dell'Organizzazione internazionale del
lavoro h. 132 del 1970, concernente i congedi annuali pagati, ratificata e
resa esecutiva con l. 10.04.1981, n. 157) e da quelle europee (art. 31,
comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea,
proclamata a Nizza il 07.12.2000 e adattata a Strasburgo il 12.09.2007;
direttiva 23.11.1993, n. 93/104/CE del Consiglio, concernente taluni aspetti
dell'organizzazione dell'orario di lavoro, poi confluita nella direttiva n.
2003/88/CE, che interviene a codificare la materia)
(TAR Valle d’Aosta,
sentenza 17.01.2020 n. 1 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).
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SENTENZA
Il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato e che debba essere
respinto per le seguenti ragioni.
Come emerge dalla giurisprudenza nazionale ed euro-unitaria (causa C-696/16
emessa dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia il 06.11.2018) la
regula juris della materia de qua è quello per cui, per un
verso, il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite deve
essere considerato un principio particolarmente importante del diritto
sociale dell’Unione, al quale non si può derogare, trovando il proprio
fondamento nell’art. 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, ed ha il medesimo valore giuridico, dei Trattati ai
sensi dell’art 6 paragrafo 1 TUE: la ratio dell’esercizio dello stesso è
quella di consentire al lavoratore di riposarsi dall’esecuzione dei compiti
attribuiti godendo così di un periodo di relax e svago.
Per altro verso, il datore di lavoro ha l’onere di assicurarsi
concretamente e con trasparenza che il lavoratore sia effettivamente in
condizione di godere delle ferie annuali retribuite invitandolo, se
necessario formalmente, a farlo e nel contempo informandolo –in modo
accurato e in tempo utile– del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie
andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di
riporto autorizzato. Tuttavia, in un equilibrato contemperamento di principi
ed istanze assiologiche di pari rango, il rispetto di tale onere derivante
dall’art. 7 della direttiva 2003/88 non può estendersi fino al punto di
costringere quest’ultimo a imporre ai suoi lavoratori di esercitare
effettivamente la fruizione delle ferie annuali retribuite.
Egli deve limitarsi soltanto a consentire ai lavoratori di godere delle
stesse dando altresì prova di aver esercitato tutta la diligenza necessaria
affinché essi potessero effettivamente di esercitare tale diritto.
Ciò posto nel caso di specie, come si evince con chiarezza dai documenti
prodotti dalle parti, la direzione ha invitato la sig.ra Cr. a
programmare nel più breve tempo possibile la fruizione dei periodi di
congedo ordinario degli anni 2018 e 2019. Tale invito non è stato però
accettato dalla ricorrente che ha avanzato la pretesa di fruire anche del
periodo di congedo maturato per gli anni 2015, 2016 e 2017.
Tale pretesa si rivela però del tutto priva di fondamento. Come si deduce,
infatti, dall’art. 9 del Nuovo Accordo Quadro Nazionale, pubblicato sulla
G.U. n. 100 del 02.05.2018, il congedo ordinario va programmato e fruito
nell’anno solare di riferimento, salvo indifferibili esigenze di servizio
che non ne rendano possibile la completa fruizione o per motivate esigenze
di carattere personale e, limitatamente a queste ultime, compatibilmente con
le esigenze di servizio. In tal caso, la parte residua deve essere fruita
entro i successivi 12 mesi, fino all’entrata in vigore del Nuovo Accordo
Quadro Nazionale (G.U. n. 100 del 02.05.2018), ed entro i successivi 18 mesi
per il periodo successivo all’entrata in vigore del predetto accordo.
Nel caso in esame non risulta esser stata presentata da parte
dell’interessata al direttore di istituto, nei termini di legge e secondo le
puntuali modalità ivi indicate, alcuna istanza di congedo ordinario né
documentazione comprovante anche l’impossibilità oggettiva di godere dei
predetti benefici
Pertanto non è possibile giustificarne la mancata fruizione, né per motivate
esigenze di servizio e né tanto meno per obbiettive esigenze personali.
Sul punto giova ricordare come, anche in base a recenti arresti della
giurisprudenza amministrativa sia di primo grado (TAR Campania–Napoli, sez.
I, sentenza n. 1609 del 16.03.2019; TAR Calabria–Reggio Calabria, sentenza
n. 264 del 15.05.2018; TAR Puglia-Lecce, sez. II, sentenza n. 431 del
14.03.2018) che d’appello (Cons. Stato, Sez. II, Sent. 2246 del 15.04.2019;
parere definitivo, Sezione 1, n. 2756/2016), l’assetto ora descritto non
collide con il principio costituzionale dell’irrinunciabilità delle ferie,
in quanto garantisce, comunque, un equilibrato rispetto delle esigenze
organizzative dell’amministrazione e di quelle di riposo del lavoratore.
Il presupposto imprescindibile per la perdita della possibilità di godimento
delle ferie al di là di una determinata scadenza temporale è che il
lavoratore non ne abbia goduto liberamente e consapevolmente.
La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha chiarito, nel ritenere non
fondata questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 95 del 2012,
art. 5, comma 8, conv., con mod. dalla L. n. 135 del 2012 (che prevede, tra
l'altro: "Le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche
di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel
conto economico consolidato della pubblica amministrazione..., sono
obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti
e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti
economici sostitutivi"), che il legislatore correla il divieto di
corrispondere trattamenti sostitutivi a fattispecie in cui la cessazione del
rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del
lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento,
raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentano di pianificare
per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario
contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le
preferenze manifestate dal lavoratore in merito al periodo di godimento
delle ferie (sentenza n. 95 del 2016).
Il Giudice delle Leggi ha precisato che la disciplina statale in questione
come interpretata dalla prassi amministrativa e dalla magistratura
contabile, è nel senso di escludere dall'àmbito applicativo del divieto le
vicende estintive del rapporto di lavoro che non chiamino in causa la
volontà del lavoratore e la capacità organizzativa del datore di lavoro.
Ha chiarito la Corte costituzionale che tale interpretazione, che si pone
nel solco della giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. II,
Sent. 2246 del 15.04.2019; parere definitivo, Sezione 1, n. 2756/2016) e
della Corte di cassazione, non pregiudica il diritto alle ferie, come
garantito dalla Carta fondamentale (art. 36, comma 3), dalle citate fonti
internazionali (Convenzione dell'Organizzazione internazionale del lavoro h.
132 del 1970, concernente i congedi annuali pagati, ratificata e resa
esecutiva con L. 10.04.1981, n. 157) e da quelle europee (art. 31, comma 2,
della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza
il 07.12.2000 e adattata a Strasburgo il 12.12.2007; direttiva 23.11.1993,
n. 93/104/CE del Consiglio, concernente taluni aspetti dell'organizzazione
dell'orario di lavoro, poi confluita nella direttiva n. 2003/88/CE, che
interviene a codificare la materia).
Ne consegue l’infondatezza delle articolate censure del ricorso che va
pertanto respinto. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Aumento orario temporaneo dipendente part-time.
Domanda
È possibile aumentare il tempo del lavoro di un dipendente a part-time per
un determinato periodo?
Risposta
Il quesito pone in rilievo le disposizioni contrattuali in materia di
rapporto di lavoro a tempo parziale, oggi disciplinate dagli articoli 53, 54
e 55 del CCNL 21/05/2018. Richiede inoltre qualche breve considerazione in
merito al rispetto dei vincoli in materia di spesa di personale.
In linea generale, si ritiene possibile l’incremento dell’ampiezza
percentuale di un rapporto di lavoro costituito a part-time, a condizione,
innanzitutto, che vi sia l’accordo del dipendente. In tal caso, occorrerà
rifarsi alle regole contrattuali in materia, ovvero procedere alla stipula
di un nuovo contratto individuale di lavoro; esso dovrà contenere, ai sensi
dell’art. 53, comma 11, del CCNL anzi richiamato, l’indicazione dell’inizio
della nuova articolazione oraria del rapporto, la durata della prestazione
lavorativa, la collocazione/articolazione temporale puntuale dell’orario e,
naturalmente (ai sensi del comma 12, del tutto opportunamente a parere
nostro) la durata del contratto medesimo. Le parti si daranno reciprocamente
atto che, al raggiungimento del predetto termine contrattuale, torneranno a
osservare la disciplina del contratto individuale di lavoro a part-time
originario, costituito a tempo indeterminato.
Sotto il profilo dei vincoli alla spesa di personale, l’incremento dei costi
derivante dall’aumento delle ore lavorative sarà certamente e pienamente
rilevante ai fini del rispetto del limite di cui all’art. 1, comma 557 e
segg., della legge 296/2006 e s.m.i.
Dal punto di vista della capacità assunzionale invece si ritiene, per
giurisprudenza sufficientemente consolidata presso la Corte dei conti, che
il semplice incremento orario di un rapporto di lavoro a part-time, senza il
raggiungimento della consistenza di un rapporto a tempo pieno, non configuri
una nuova assunzione, e non debba pertanto essere accompagnato dall’utilizzo
di facoltà assunzionale, a condizione che non vengano poste in essere
fattispecie potenzialmente elusive della lettera e dello spirito della
norma, ovvero (detto in modo meno ortodosso) che l’incremento non sia tale
da mascherare un full time dietro percentuali di part-time prossime al 100%.
Varie sezioni regionali della Corte dei conti (tra le altre, si apprezzi la
Sezione regionale di controllo della Corte dei conti della Campania,
deliberazione n. 338/2016/PAR) hanno rimarcato quanto la scelta
dell’individuazione di tale “limite di ragionevolezza” sia del tutto rimessa
all’autonoma valutazione, e conseguente assunzione di responsabilità, da
parte dell’ente.
In ogni caso, in ipotesi di incremento della percentuale di part-time in via
temporanea –con “rientro” del dipendente alla quota originaria
decorso qualche mese– a parere di chi scrive, difficilmente può
concretizzare un utilizzo di facoltà assunzionali, giacché è una scelta, di
fatto, a tempo determinato.
Per completezza, si segnala la possibilità dell’utilizzo di altro strumento
contrattuale, che parrebbe poter rispondere, in alternativa e in modo
probabilmente più lineare, alle esigenze di copertura di una vacanza per un
periodo piuttosto breve: trattasi del lavoro supplementare, regolato
dall’art. 55, commi da 2 a 6, del ridetto CCNL 21/05/2018.
Stabilisce il contratto che, con l’accordo del lavoratore (che potrebbe però
rifiutare la prestazione unicamente per comprovate esigenze lavorative, di
salute o familiari), l’ente possa richiedere al dipendente a part-time la
prestazione di ore di lavoro supplementari (non si tratta, si presti
attenzione, di lavoro straordinario) nel limite del 25% della durata
dell’orario di lavoro contrattualmente stabilito, con riferimento al mese.
Rilevato su base settimanale, tale previsione consentirebbe di richiedere al
dipendente, ad esempio il cui orario sia articolato su 24 ore, fino a 30 ore
complessive, dovendosi semplicemente contenere l’orario giornaliero (giorno
per giorno) entro quello previsto come orario ordinario di lavoro a tempo
pieno del giorno di riferimento (esempio: giornata con orario a tempo pieno
di 6 ore / dipendente a part-time con orario di 4 ore / lavoro supplementare
fino a ulteriori 2 ore).
Il lavoro supplementare è ammesso (comma 3) per specifiche e comprovate
esigenze organizzative o in presenza di particolari situazioni di difficoltà
derivanti da concomitanti assenze di personale non prevedibili e improvvise.
Le ore di lavoro supplementare, entro il limite massimo del 25% suddetto,
sono retribuite al dipendente con un compenso pari alla retribuzione oraria
globale di fatto individuata dall’art. 10, comma 2, lett. d), del CCNL
09/05/2006 (“importo della retribuzione individuale per 12 mensilità cui
si aggiunge il rateo della 13^ mensilità nonché l’importo annuo della
retribuzione variabile e delle indennità contrattuali percepite nel mese o
nell’anno di riferimento, ivi compresa l’indennità di comparto di cui
all’art. 33 del CCNL del 22.01.2004”), maggiorata del 15%, e tali importi
sono posti a carico del fondo per il lavoro straordinario.
Chi scrive ritiene che, attesa la brevissima durata del periodo di
assenza/difficoltà organizzativa, rispetto al quale la scelta della stipula
di un nuovo contratto a part-time incrementato potrebbe apparire forzata
anche in considerazione dell’incertezza in merito all’esatto protrarsi della
stessa, ove l’ente ravvisi compiutamente la sussistenza dei requisiti
contrattuali su richiamati, la soluzione da ultimo analizzata possa
costituire una valida alternativa (16.01.2020 - tratto da e link a
www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Riparto dell’onere probatorio.
Posto che il mobbing ha fonte sia contrattuale ex art. 2087 c.c. sia
extracontrattuale ex art. 2043 c.c., si deve ritenere che spetti al datore
di lavoro dimostrare di aver posto in essere tutte le misure necessarie per
tutelare l’integrità psico-fisica del dipendente, e che invece spetti al
lavoratore dimostrare l’esistenza del nesso causale tra l’evento lesivo e il
comportamento del datore di lavoro.
Ciò che è certo, è che non può configurarsi un danno psichico del
lavoratore, del quale il datore di lavoro sia obbligato al risarcimento
qualora non venga offerta rigorosa prova del danno e della relazione causale
fra il medesimo ed i pretesi comportamenti persecutori (TRIBUNALE di Roma, Sez. lavoro, sentenza 15.01.2020 n. 10057 -
massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Sì al compenso dei dipendenti pubblici se componenti esterni di commissioni
di concorso (15.01.2020 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).
---------------
La Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia, col
parere 18.12.2019 n. 440 fornisce una lettura dell'articolo 3, commi da 12 a 14,
della legge 56/2019 secondo la quale è possibile e doveroso compensare i
componenti esterni delle commissioni di concorso, abbiano o meno la
qualifica dirigenziale. (...continua). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'ufficio
Personale di questo Comune chiede di conoscere il regime delle graduatorie
dei pubblici concorsi a seguito delle novità normative introdotte dalla
legge di bilancio 2020.
In particolare, esiste ancora il divieto di utilizzo per posti diversi da
quelli messi a concorso per le graduatorie dal 2019?
La legge di bilancio 2020 (L. 27.12.2019, n. 160) ha introdotto delle novità
rispetto alla disciplina limitativa introdotta con la L. 30.12.2018, n. 145.
Il comma 147 dell'art. 1 ha previsto che le amministrazioni possano "utilizzare
le graduatorie dei concorsi pubblici, fatti salvi i periodi di vigenza
inferiori previsti da leggi regionali, nel rispetto dei seguenti limiti:
a) le graduatorie approvate nell'anno 2011 sono utilizzabili fino
al 30.03.2020 previa frequenza obbligatoria, da parte dei soggetti inseriti
nelle graduatorie, di corsi di formazione e aggiornamento organizzati da
ciascuna amministrazione, nel rispetto dei princìpi di trasparenza,
pubblicità ed economicità e utilizzando le risorse disponibili a
legislazione vigente, e previo superamento di un apposito esame-colloquio
diretto a verificarne la perdurante idoneità;
b) le graduatorie approvate negli anni dal 2012 al 2017 sono
utilizzabili fino al 30.09.2020;
c) le graduatorie approvate negli anni 2018 e 2019 sono
utilizzabili entro tre anni dalla loro approvazione".
Il successivo comma ha disposto la abrogazione dei commi da 361 a 362-ter e
il comma 365 dell'art. 1, L. 30.12.2018, n. 145, sono abrogati.
Fra le disposizioni abrogate vi è quella contenente l'inciso per cui le
graduatorie "sono utilizzate esclusivamente per la copertura dei posti
messi a concorso nonché di quelli che si rendono disponibili, entro i limiti
di efficacia temporale delle graduatorie medesime, fermo restando il numero
dei posti banditi e nel rispetto dell'ordine di merito, in conseguenza della
mancata costituzione o dell'avvenuta estinzione del rapporto di lavoro con i
candidati dichiarati vincitori", con cioè determinando il ripristino
delle possibilità di utilizzo delle graduatorie ante riforma.
---------------
Riferimenti normativi e contrattuali
L. 27.12.2019, n. 160, art.
1, comma 147 - L. 27.12.2019, n. 160, art. 1, comma 148 - L. 27.12.2019, n.
160, art. 1, comma 149 - L. 30.12.2018, n. 145, art. 1, comma 361 - L.
30.12.2018, n. 145, art. 1, comma 362 - L. 30.12.2018, n. 145, art. 1, comma
362-bis - L. 30.12.2018, n. 145, art. 1, comma 362-ter - L. 30.12.2018, n.
145, art. 1, comma 365
(15.01.2020 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
PUBBLICO IMPIEGO: Rimborso
spese legali. Il mancato avvio del procedimento disciplinare non esclude,
per il dipendente assolto, la mancanza del conflitto di interessi per il
rimborso delle spese legali.
Il Consiglio di Stato, dopo aver ricostruito i principi fondamentali per il
rimborso delle spese legali al dipendente assolto in una causa penale, ha
negato il rimborso in presenza dell'assoluzione dai reati di calunnia,
omissione o rifiuto di atti di ufficio, non potendo escludere nel caso
concreto la loro riconducibilità ad esigenze di servizio, non trovando
immediata e diretta riferibilità nella volontà dell'Ente di appartenenza.
Anzi, il non adempimento da parte del dipendente di un suo dovere di
ufficio, pur considerando lo stesso non rilevante ai fini penali, non lo
pone al di fuori di un possibile conflitto di interessi con la propria
amministrazione, a nulla rilevando la mancata attivazione del procedimento
disciplinare.
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8. Ritiene il Collegio che l’appello sia infondato e vada, pertanto,
respinto.
9. Nell’odierno giudizio viene in questione la spettanza del rimborso delle
spese legali sostenute dal pubblico dipendente, ai sensi dell’art. 18, co.
1, del D.L. n. 67 del 1997, come convertito nella legge n. 135 del 1997, che
testualmente dispone: “Le spese legali relative a giudizi per
responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di
dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti
connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi
istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro
responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei
limiti riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato. Le Amministrazioni
interessate, sentita l’Avvocatura dello Stato, possono concedere
anticipazioni del rimborso, salva la ripetizione nel caso di sentenza
definitiva che accerti la responsabilità”.
9.1. Sui presupposti che indefettibilmente devono essere presenti affinché
il pubblico dipendente possa invocare l’applicazione del citato art. 18 è
attualmente ravvisabile una convergenza di posizioni nella giurisprudenza
amministrativa.
9.2. Come recentemente chiarito anche dalla sentenza n. 8137/2019 di questa
Sezione, la norma subordina la spettanza del beneficio ad una duplice
circostanza:
a) l’esistenza di un giudizio, promosso nei confronti del (e non
anche dal) dipendente, conclusosi con un provvedimento che abbia
definitivamente escluso la sua responsabilità;
b) la sussistenza di un nesso tra gli atti e i fatti ascritti al
dipendente e l’espletamento del servizio e l’assolvimento degli obblighi
istituzionali.
9.3. In ordine alla prima circostanza, è necessario che la pronuncia
giurisdizionale abbia accertato l’assenza di responsabilità ed un tale
presupposto può ritenersi sussistente anche laddove sia stato applicato
l’art. 530, comma 2, del c.p.p. (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28.11.2019, n.
8137; Sez. IV, 04.09.2017, n. 4176; Ad. Gen., 29.11.2012, n. 20/2013; Sez.
IV, 21.01.2011, n. 1713); dovendosi invece negare l’applicazione dell’art.
18 quando il proscioglimento sia conseguenza di cause diverse, quali
l’estinzione del reato, l’intervenuta prescrizione, oppure quando sia stato
disposto per ragioni processuali, quali la mancanza delle condizioni di
promovibilità o di procedibilità dell’azione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
28.11.2019, n. 8137; Sez. IV, 04.09.2017, n. 4176; Sez. VI, 2005, n. 2041).
9.4. Ulteriore presupposto cui l’art. 18 ricollega il riconoscimento del
rimborso delle spese legali è che il dipendente abbia agito in nome, per
conto ed anche nell’interesse dell’Amministrazione; solo in tal caso,
infatti, è possibile ravvisare il nesso di immedesimazione organica in
ordine ai fatti o agli atti oggetto del giudizio (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
28.11.2019, n. 8137).
9.5. Al riguardo è stato ulteriormente precisato che tale presupposto
sussiste solo ove gli atti o i fatti compiuti dall’interessato siano
riconducibili, in un rapporto di stretta dipendenza, con l’adempimento dei
propri obblighi, ossia con l’esercizio diligente della funzione pubblica;
occorrendo, altresì, che sia ravvisabile l’esistenza di un nesso di
strumentalità tra il compimento dell’atto o del fatto e l’adempimento del
dovere, non potendo il dipendente assolvere ai propri compiti, se non
tenendo quella determinata condotta (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 26.02.2013,
n. 1190).
9.6. Peraltro, occorre porre in rilievo come la ricostruzione dell’esatta
portata dei requisiti indefettibili, ai quali l’art. 18 subordina il
rimborso delle spese legali, sia condivisa dalla giurisprudenza della Corte
di Cassazione, in ordine ai rapporti di impiego pubblico contrattualizzato.
9.7. La Cassazione, dando vita ad un orientamento ermeneutico consolidato,
ha affermato l’esigenza che il giudizio, cui la richiesta di rimborso
inerisce, riguardi procedimenti giudiziari strettamente connessi
all’adempimento dei compiti istituzionali. Ed infatti, lo specifico
interesse che deve necessariamente sussistere affinché l’Amministrazione
possa essere chiamata a tenere indenne dalle spese legali il proprio
dipendente, imputato in un procedimento penale, consiste nella circostanza
che l’attività sia riferibile all’Ente di appartenenza, ponendosi in un
rapporto di stretta connessione con il fine pubblico (cfr. Cass.,
29.01.2019, n. 2475; Cass., 06.08.2018, n. 20561; Cass. Lav., 06.07.2018 n.
17874; Cass., 05.02.2016 n. 2366; Cass. Lav, 03.02.2014, n. 2297)
9.8. Risulta pertanto evidente come il rimborso delle spese legali
rappresenti un meccanismo volto ad imputare al titolare dell’interesse
sostanziale le conseguenze dell’operato di chi abbia agito per suo conto; ne
deriva che un siffatto meccanismo di imputazione può operare solo in quanto
siano ravvisabili quel rapporto di stretta dipendenza, nonché quel nesso di
strumentalità tra l’adempimento del doveri istituzionali e il compimento
dell’atto, di cui si è detto in precedenza.
Una diversa conclusione condurrebbe a riconoscere la spettanza del beneficio
in ogni ipotesi di reato proprio, anche laddove il fatto addebitato esuli
dai doveri istituzionali, senza che possa ravvisarsi un collegamento,
diretto e di tipo oggettivo, con l’interesse dell’Amministrazione (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 05.04.2017, n. 1568).
9.9. Alla luce delle accennate coordinate ermeneutiche consegue
ulteriormente che la condotta del dipendente, consistente in atti o in
comportamenti, deve essere espressione della volontà dell’Amministrazione di
appartenenza e a questa riferibile, in quanto finalizzata al corretto
adempimento dei suoi fini istituzionali (cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
28.11.2019, n. 8137).
Sussistendo tali condizioni, il principio di immedesimazione organica
consente, mediante la creazione del rapporto d’ufficio, l’imputazione in
capo all’Amministrazione dell’intera attività, quindi anche degli effetti,
scaturenti dai comportamenti posti in essere dal titolare dell’organo.
9.10. La giurisprudenza ha infine chiarito come la natura eccezionale della
disposizione in esame ne imponga una stretta interpretazione, dovendo
concludersi per la non spettanza del beneficio nel caso in cui l’atto o il
comportamento:
a) non abbiano trovato origine nell’esecuzione dei compiti
istituzionali, ma abbiano avuto luogo ‘in occasione’ dello
svolgimento della pubblica funzione, senza che possa ravvisarsi la
necessaria riferibilità all’Amministrazione di appartenenza (cfr. Cass. civ.,
Sez. I, 31.01.2019, n. 3026; Sez. lav., 06.07.2018, n. 17874; Sez. lav.,
03.02.2014, n. 2297; Sez. lav., 30.11.2011, n. 25379; Sez. lav., 10.03.2011,
n. 5718; Cons. Stato, Sez. V, 05.05.2016, n. 1816; Sez. III, 2013, n. 4849;
Sez. IV, 26.02.2013, n. 1190);
b) costituiscano violazione dei doveri d’ufficio (cfr. Cons. Stato,
Sez. IV, 07.06.2018, n. 3427);
c) possano condurre ad un conflitto con gli interessi
dell’Amministrazione di appartenenza, cioè quando, pur in assenza di
responsabilità penale, sussistano i presupposti per la configurazione di un
illecito disciplinare e l’attivazione del relativo procedimento (cfr. Cons.
Stato, Sez. II, 27.08.2018, n. 2055; Sez. IV, 04.09.2017, n. 4176; Sez. IV,
2013, n. 1190; Sez. IV, 2012, n. 423).
9.11. La necessità che la disposizione sia oggetto di stretta
interpretazione è del resto ricavabile dalla ratio che il legislatore
ha inteso imprimere all’istituto del rimborso delle spese legali.
Lo scopo della norma è quello di sollevare i funzionari pubblici dal timore
di eventuali conseguenze giudiziarie connesse all’espletamento del servizio,
nell’intento di impedire ‘che il dipendente statale tema di fare il
proprio dovere’ (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28.11.2019, n. 8137). Il
fine avuto di mira dal normatore consiste quindi nel tenere indenni i
soggetti che abbiano agito in nome, per conto e nell’interesse
dell’Amministrazione dalle spese legali sostenute per difendersi dalle
accuse di responsabilità, poi rivelatesi infondate.
9.12. Al conseguimento di un siffatto scopo non basta una connessione con il
fatto di reato, di tipo soggettivo ed indiretto, come accadrebbe se lo
svolgimento dell’attività costituisse una mera occasione per il compimento
dell’atto o del comportamento; è necessario, invece, che sussista uno
specifico nesso causale che consenta di affermare la stretta riconducibilità
del fatto contestato all’espletamento del dovere d’ufficio, pena la
dilatazione del perimetro applicativo della norma oltre i confini delineati
dal legislatore.
10. Ricostruita la ragione ispiratrice della predetta disciplina, ne
consegue come del tutto inconferente si riveli il richiamo, operato
nell’atto di appello, agli artt. 11 e 12 del D.P.R. n. 461/2001 sulla
riconducibilità a cause di servizio di lesioni, infermità o aggravamenti di
lesioni o infermità preesistenti, riscontrate in capo al dipendente
appartenente ad amministrazioni pubbliche.
10.1. La ricorrente ha infatti esposto di aver ottenuto con determinazione
dirigenziale n. 1489/D del 27.10.2014 il riconoscimento della dipendenza da
fatti di servizio della patologia riscontrata, nella specie reazione ansioso
depressiva. Ha quindi lamentato la circostanza secondo cui l’Amministrazione
avrebbe aderito al parere espresso dal Comitato di Verifica sulle Cause di
Servizio in ordine al riconoscimento della valenza patogenetica del servizio
prestato, salvo discostarsene successivamente e senza che venisse resa
un’adeguata motivazione nell’ambito del procedimento sull’istanza di
rimborso delle spese legali.
10.2. A giudizio dell’appellante sia l’Amministrazione di appartenenza, che
il Tar avrebbero operato una riedizione illegittima del riconoscimento del
nesso causale effettuato dall’organo tecnico preposto, stravolgendolo
implicitamente.
10.3. Siffatta ricostruzione non coglie nel segno. È infatti da respingere
la tesi, da ultimo ribadita nella memoria di replica prodotta
dall’appellante, secondo cui il parere del C.V.C.S., seppur relativo ad un
diverso procedimento, dovrebbe essere assunto quale indice rivelatore della
presenza del nesso causale anche in altri giudizi, in ragione della natura
vincolata ed insindacabile della valutazione compiuta dal Comitato, siccome
connotata da certezza o da alto grado di credibilità logica e razionale.
10.4. A tale tesi non è possibile accedere proprio alla luce della ratio
ispiratrice dell’istituto del rimborso delle spese legali. Eterogenei,
infatti, sono i criteri che informano le relative discipline e differenti
devono essere i principi che presiedono alle rispettive valutazioni.
10.5. Dal riconoscimento degli eventi di servizio prestato, quali fattori
concausali efficienti sull’insorgenza o l’aggravamento dell’affezione, non
può automaticamente e meccanicamente desumersi un accertamento, differente
per natura e per oggetto, circa la stretta riconducibilità dell’atto o del
fatto ai doveri istituzionali dell’Ente di appartenenza. Ed invero, i fatti
addebitati al dipendente potrebbero, come nel caso di specie, esulare
dall’esercizio della funzione, per rinvenire nell’attività lavorativa solo
l’occasione del loro verificarsi.
10.6. Nel caso all’esame del Collegio, infatti, le condotte che hanno
portato alla contestazione dei reati di calunnia, omissione o rifiuto di
atti d’ufficio, seppur riconosciute come non rilevanti penalmente, non sono
in ogni caso riconducibili ad esigenze di servizio, non trovando immediata e
diretta riferibilità nella volontà dell’Ente di appartenenza. Anzi,
l’astenersi dal porsi alla guida di un mezzo militare non può che rendere
ipotizzabile in capo all’interessata una violazione dei doveri d’ufficio, se
si consideri che la stessa era munita di apposita patente di guida militare.
Ne deriva l’impossibilità di ravvisare un nesso tra l’agire della Sig.ra
-OMISSIS- e la volontà dell’Amministrazione, in ragione del dissolvimento
del rapporto di immedesimazione organica.
10.7. Né ha pregio l’eccezione sollevata dall’appellante in ordine al
riconoscimento di un conflitto di interesse tra Amministrazione e
dipendente. Si legge nell’atto di appello che il predetto conflitto potrebbe
ritenersi sussistente solo ove l’Amministrazione avviasse un procedimento
disciplinare nei confronti del proprio dipendente e procedesse
all’irrogazione di una sanzione, nonostante l’intervenuta assoluzione in
sede penale.
Orbene, la circostanza dell’assoluzione, così come la mancata instaurazione
di un procedimento disciplinare non ha alcuna rilevanza. Il conflitto
d’interesse può infatti rilevare ex se, indipendentemente dall’esito
del giudizio penale (cfr. Cass. Lav., 03.02.2014, n. 2297).
E l’assoluzione, giova ulteriormente precisare, non ha alcuna incidenza in
ordine al giudizio sulla non riconducibilità all’Amministrazione del fatto
addebitato (cfr. Cass. 05.02.2016, n. 2366).
Ne consegue che per ravvisare un conflitto con gli interessi
dell’Amministrazione ed escludere la spettanza del beneficio è sufficiente
che sussistano i presupposti per la configurazione dell’illecito
disciplinare e per l’attivazione del relativo procedimento (cfr. Cons.
Stato, Sez. II, 27.08.2018, n. 2055; Sez. IV, 04.09.2017, n. 4176; Sez. IV,
2013, n. 1190; Sez. IV, 2012, n. 423).
11. Per le ragioni sopra esposte, l’appello va respinto e, per l’effetto, va
confermata la sentenza impugnata
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.01.2020 n. 281 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Annullamento del concorso per mancata pubblicazione bando/estratto in Gu.
È illegittimo il comportamento del Comune che, avendo visto annullare gli
esiti di un concorso per l'assunzione di 4 unità di personale, per la
violazione dell'obbligo di pubblicazione del bando (o di un estratto di
esso) nella Gazzetta ufficiale, abbia provveduto a reclutare il personale
necessario con procedura di mobilità, senza assumere i candidati dichiarati
vincitori all'esito della procedura annullata.
Sono queste le considerazioni del TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, contenute nella
sentenza
10.01.2020 n. 9, con la quale ha condannato un ente a risarcire il danno
patito da 4 candidati vincitori di una procedura concorsuale, annullata dal
giudice amministrativo, avendo l'ente nel frattempo ricoperto i posti
tramite mobilità esterna.
In particolare, all'esito del concorso, un candidato non vincitore aveva
impugnato gli atti della procedura, censurando la violazione dell'obbligo da
parte del Comune di pubblicare il bando sulla Gazzetta ufficiale.
Per cui, accertata l'illegittimità, il Giudice amministrativo aveva
annullato tutti gli atti della selezione e, di conseguenza, l'ente,
nonostante avesse nominato i vincitori, aveva proceduto, erroneamente, al
reclutamento tramite mobilità (commento tratto da
http://quotidianoentilocali.ilsole24ore.com).
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Innanzitutto il Collegio ritiene esistente il danno ingiusto di cui le
stesse si dolgono e parimenti ritiene comprovato il nesso causale tra il
pregiudizio economico lamentato e l’annullamento della procedura concorsuale
indetta dal comune di Bologna ad opera della sentenza del TAR Emilia Romagna
sede di Bologna sez. I n. 145 del 2013.
In effetti, dagli atti di causa non risulta che –dopo l’approvazione della
graduatoria finale del concorso– vi fosse alcun elemento ostativo
all’assunzione delle ricorrenti (vincitrici della selezione) quali
assistenti sociali del comune di Bologna, con conseguente legittima
aspettativa di queste a ricoprire il posto messo a concorso.
E’ lo stesso comune di Bologna, infatti, a comunicare alle odierne
ricorrenti che le ragioni dell’annullamento del procedimento concorsuale che
le aveva viste collocate nella relativa graduatoria tra i candidati
vincitori, risiedono esclusivamente nella mancata pubblicazione del bando di
concorso sulla Gazzetta della Repubblica Italiana e, quindi, in un
comportamento dell’amministrazione banditrice in contrasto con la vigente
normativa in materia che prescrive la pubblicazione del bando per intero o
per estratto anche sulla G.U.R.I..
Parimenti sussiste il comportamento colpevole del comune di Bologna,
comprovato sia dalla illegittima mancata pubblicazione del bando di concorso
anche sulla Gazzetta Ufficiale, come chiaramente rilevato dal TAR nella
citata sentenza, sia dal successivo comportamento del comune che –pur avendo
sostenuto nella propria linea difensiva in primo grado la tesi incentrata
sulla non necessità della suddetta pubblicazione– non ha inteso tuttavia
impugnare la sentenza del giudice di prime cure dinanzi al Consiglio di
Stato.
D’altra parte, dagli stessi atti di causa emerge la necessità e l’urgenza
per il Comune di coprire i posti di assistente sociale rimasti scoperti a
causa dell’annullamento giurisdizionale dei citati atti concorsuali, poiché
a tale precisato fine l’ente ha prontamente attivato le procedure di
mobilità esterna. Pertanto, il Tribunale ritiene fondata l’azione
risarcitoria proposta dalle ricorrenti, avendo accertato l’effettiva
sussistenza, nella specie, di tutti i presupposti di cui all’art. 30 Cod.
proc. amm. e della tutela aquiliana ex art. 2049 Cod. Civ..
Per quanto concerne il quantum da risarcire, il Collegio ritiene che il
Comune di Bologna debba procedere alla liquidazione del pregiudizio subito
dalle ricorrenti sulla base delle seguenti indicazioni:
A) -Va risarcito il danno emergente costituito unicamente dalle
spese sostenute dalle ricorrenti per partecipare al concorso in parola e,
successivamente, per partecipare ad ulteriori concorsi banditi da altri enti
pubblici per la stessa posizione lavorativa di assistente sociale con
rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Tale importo ammonta, come
attendibilmente comprovato dalla difesa delle ricorrenti in € 721,28 per la
sig.ra Em.Fa. ed in € 482,41 per la sig.ra Em.Da.Ve. (v. dettaglio analitico
a pagg. 10 e 11 della mem. depositata dig. il 05/10/2019 da parte
ricorrente);
B) - Non si ritengono invece ristorabili –in quanto non
direttamente connessi con l’evento causativo del pregiudizio e in quanto
relativi a periodi successivi alla presentazione del ricorso- gli ulteriori
danni indicati a pag. 12 della citata memoria per la sig.ra Da.Ve.
(ammontanti ad € 8.514,00), concernendo essi costi e spese di viaggio
sostenuti per recarsi nella sede di lavoro presso cui ha prestato servizio
dal 01/04/2014 al 31/12/2017;
C) - Ad entrambe le ricorrenti va inoltre riconosciuto, a titolo di
danno per lucro cessante, l’importo di € 3.080,38, così composto (come da
dettagliato prospetto riportato a pag. 10 della citata memoria dep. il
05/10/2019): € 500,00 per quota annuale di produttività che le ricorrenti
avrebbero percepito al comune di Bologna; € 50,00 (mancata progressione da
posizione cat. D1 a D2); € 1.840,50 (per perdita permessi retribuiti); €
689,88 (perdita partecipazione concorsi).
Il Tribunale non considera infine risarcibili, in quanto non comprovati
dalle richiedenti il risarcimento, sia i pretesi danni patrimoniali da “perdita
di chances” per la mancata partecipazione ad altri concorsi banditi
successivamente alla comunicazione dell’esito positivo del concorso del
comune di Bologna, sia i danni non patrimoniali indicati nel ricorso quali “la
lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della libertà del
lavoratore”, “il danno…sulla vita professionale e di relazione delle
interessate”, il danno “…alla vita di relazione e familiare” e il
danno derivato “…dall’ansia dovuta all’incertezza del proseguimento
dell’attività lavorativa”.
Sulla precisata questione deve richiamarsi la giurisprudenza costante del
giudice amministrativo, secondo la quale, sul piano probatorio, in tema di
risarcimento da atto illegittimo delle pubbliche amministrazioni va
applicato il principio sancito dall'art. 2697 cod. civ. "in virtù del
quale spetta al danneggiato fornire in giudizio la prova di tutti gli
elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria, e quindi del danno di
cui si invoca il ristoro per equivalente monetario, con la conseguenza che,
laddove la domanda di risarcimento danni non sia corredata dalla prova del
danno da risarcire, la stessa deve essere respinta" (ex multis,
Cons. Stato, sez. V, 22.01.2015, n. 282).
Quale ulteriore considerazione volta a rafforzare l’esclusione della
risarcibilità dei suddetti elementi di danno, il Collegio osserva che
–seppure in posizione di lavoratrici dipendenti a tempo determinato– le
odierne ricorrenti risultano avere prestato la propria attività lavorativa
presso gli enti datori di lavoro senza soluzione di continuità nel periodo
preso a riferimento ai fini risarcitori.
Per le suesposte ragioni, il ricorso è accolto e per l’effetto, il comune di
Bologna è condannato a risarcire le ricorrenti, ciascuna per quanto di
rispettiva spettanza, dei danni dalle stesse subite a causa dell’illegittima
adozione del bando di concorso oggetto di causa, per gli importi meglio
specificati nella parte motiva della presente decisione, oltre a
rivalutazione monetaria e interessi compensativi nella misura legale (per la
sola parte eccedente l’importo della rivalutazione), trattandosi di debito
di valore dal dì del dovuto fino al completo soddisfo. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Misure da adottare nel caso di indagini penali a carico di propri dipendenti.
Domanda
Il dirigente dell’ufficio contratti e un dipendente dello stesso ufficio
sono indagati rispettivamente per abuso d’ufficio e corruzione. Vorrei saper
cosa deve fare l’Amministrazione e, in particolare, il Responsabile della
Prevenzione della Corruzione
Risposta
Premesso che il verificarsi di un episodio di malamministrazione
potenzialmente configurabile come fatto penalmente rilevante, impone al RPCT
una riflessione di carattere generale circa l’adeguatezza delle misure di
prevenzione della corruzione nell’area a rischio “contratti”, la
prima valutazione che l’Amministrazione si trova a compiere è quella
relativa all’opportunità/obbligo di procedere al trasferimento del
dipendente ad altro incarico.
Si tratta della misura cosiddetta della rotazione straordinaria. È bene
chiarire, innanzitutto, che si sta parlando di una misura preventiva,
cautelare e non sanzionatoria. Il dipendente su cui grava il sospetto di una
condotta di natura corruttiva viene rimosso dall’ufficio in cui presta
l’attività, al fine di prevenire il danno all’immagine di imparzialità
dell’Amministrazione.
Per capire se sussista un obbligo di provvedere in tal senso o se, invece,
si tratti di una misura facoltativa, occorre analizzare la normativa (art.
3, comma 1, della legge 27.03.2001, n. 97 e art. 16, c. 1, lettera l-quater
del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165) e le indicazioni ANAC, contenute
nella delibera n. 215 del 26.03.2019.
Inoltre, occorre compiere i necessari distinguo in ragione sia del diverso
inquadramento dei dipendenti che della natura dei delitti di cui sono
indagati.
L’art. 3, comma 1, della legge 97/2001, disciplina il trasferimento del
dipendente per il quale è disposto il giudizio per alcuni dei delitti
previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater
e 320 del codice penale.
Per come è formulata la disposizione “… lo trasferisce ad ufficio
diverso…” la misura è da intendersi come obbligatoria, al momento in cui
il dipendente è rinviato a giudizio per uno dei reati indicati, tra i quali
è contemplata la corruzione ma non l’abuso d’ufficio.
L’art. 16, comma 1, lettera l-quater, del d.lgs. 165/2001, contempla, tra i
compiti e i poteri dei dirigenti generali, il monitoraggio “delle
attività nell’ambito delle quali è più elevato il rischio corruzione svolte
nell’ufficio a cui sono preposti, disponendo, con provvedimento motivato, la
rotazione del personale nei casi di avvio di procedimenti penali o
disciplinari per condotte di natura corruttiva”.
Tale disposizione è evidentemente meno precisa, sia in ordine alla natura
del reato di cui è sospettato il dipendente che al momento del procedimento
penale in cui occorre intervenire.
Nell’aggiornamento al PNA del 2018 [1],
l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) interpretava la norma in maniera
restrittiva sul piano del momento rilevante per applicare la rotazione
straordinaria, individuandolo nella richiesta di rinvio a giudizio formulata
dal pubblico ministero al termine delle indagini preliminari.
Successivamente, con la delibera n. 215 del 26.03.2019, l’ambito di
applicazione della rotazione straordinaria si è esteso, anticipando il
momento dell’adozione della misura cautelare a quello in cui il soggetto
viene iscritto nel registro delle notizie di reato, di cui all’art. 355
c.p.p. sulla considerazione che il termine “procedimento penale”
comprende, anche, la fase delle indagini preliminari.
In merito alla nozione di “condotta di natura corruttiva” invece, l’ANAC
precisa nella citata delibera i reati per i quali la misura è obbligatoria
(esempio: corruzione), distinguendoli dagli altri delitti contro la P.A.
(abuso d’ufficio) per i quali è, evidentemente, facoltativa.
È necessario, pertanto, che non appena l’Amministrazione venga a conoscenza
di indagini penali a carico di un dipendente, acquisisca le informazioni
utili a valutare se e come applicare la rotazione straordinaria.
Nella valutazione si deve tener conto della gravità delle imputazioni e
dello stato degli accertamenti compiuti dall’autorità giudiziaria. In ogni
caso, ciò che l’ANAC raccomanda è di adottare comunque un provvedimento in
cui si dia conto dell’applicazione o meno della misura e di motivarlo
adeguatamente.
Con riferimento al caso proposto, pertanto, si potrebbero fare valutazioni
diverse in relazione alla tipologia di reato di cui sono sospettati (abuso
d’ufficio e corruzione) e tenere conto della fase del procedimento penale.
Il Responsabile della Prevenzione della Corruzione (RPCT) deve, inoltre,
segnalare la questione al Responsabile dell’Ufficio Procedimenti
disciplinari (UPD), al quale spetta l’avvio del procedimento disciplinare,
con l’eventuale sospensione, in attesa della definizione del procedimento
penale, secondo le disposizioni previste, da ultimo, nell’articolo 62 del
CCNL Funzioni locale del 21.05.2018.
In ragione della prosecuzione del procedimento, dell’eventuale rinvio a
giudizio e dell’esito del processo penale, la valutazione in merito alle
misure da adottare dovrà essere ripetuta. Inoltre per il dirigente occorre
valutare, nel caso di sentenza di condanna, le conseguenze in termini di
inconferibilità, ai sensi dell’art. 3, del decreto legislativo 08.04.2013,
n. 39.
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[1] Delibera ANAC n. 1074 del 13/11/2018 (07.01.2020 - tratto
da e link a www.publika.it). |
dicembre 2019 |
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Riduzione a 35 ore settimanali dell’orario di lavoro, polizia locale.
Domanda
È ancora possibile prevedere la riduzione dell’orario di lavoro del
personale turnista, con particolare riferimento alla Polizia locale? E’
necessario inserire delle norme nel Contratto Collettivo Integrativo?
Risposta
Per rispondere al quesito è necessario ricostruire il quadro normativo
legato alla possibilità di ridurre l’orario di lavoro del personale che
svolte attività articolate in turni.
a) La questione della riduzione dell’orario di settimanale a 35 ore
è stata posta nell’art. 22 del CCNL regioni e autonomie locali, del
01.04.1999, che testualmente prevede:
Art. 22 – Riduzione di orario
1. Al personale adibito a regimi di orario articolato in più turni
o secondo una programmazione plurisettimanale, ai sensi dell’art. 17, comma
4, lett. b) e c), del CCNL del 06.07.1995, finalizzati al miglioramento
dell’efficienza e dell’efficacia delle attività istituzionali ed in
particolare all’ampliamento dei servizi all’utenza, è applicata, a decorrere
dalla data di entrata in vigore del contratto collettivo decentrato
integrativo, una riduzione di orario fino a raggiungere le 35 ore medie
settimanali. I maggiori oneri derivanti dall’applicazione del presente
articolo devono essere fronteggiati con proporzionali riduzioni del lavoro
straordinario, oppure con stabili modifiche degli assetti organizzativi.
2. I servizi di controllo interno o i nuclei di valutazione,
nell’ambito delle competenze loro attribuite dall’art. 20 del D.Lgs.
29/1993, verificano che i comportamenti degli enti siano coerenti con gli
impegni assunti ai sensi del comma 1, segnalando eventuali situazioni di
scostamento.
3. La articolazione delle tipologie dell’orario di lavoro secondo
quanto previsto dal CCNL del 06.07.1995 è determinata dagli enti previo
espletamento delle procedure di contrattazione di cui all’art. 4.
4. Le parti si impegnano a riesaminare la disciplina del presente
articolo alla luce di eventuali modifiche legislative riguardanti la materia
[1].
b) Il CCNL del 21.05.2018, all’art. 2, comma 8, stabilisce che per
gli istituti non disciplinati “continuano a trovare applicazione le
disposizioni dei precedenti CCNL non disapplicate”.
c) L’articolo 49 – Disapplicazioni, del citato CCNL del 2018, non
contempla l’art. 22 del CCNL 01/04/1999, tra le norme non più applicabili;
d) In aggiunta, va ricordato che l’art. 3, comma 7, del CCNL 2018,
afferma che “Le clausole del presente titolo sostituiscono integralmente
tutte le disposizioni in materia di relazioni sindacali previste nei
precedenti CCNL, le quali sono pertanto disapplicate”;
e) L’art. 5, comma 3, lettera a), del CCNL 2018, prevede tra le
materie oggetto di “Confronto” l’articolazione delle tipologie dell’orario
di lavoro;
f) La riduzione dell’orario di lavoro (sino) a 35 ore settimanali,
non è prevista tra le materie soggette a contrattazione, come
dettagliatamente elencate nell’art. 7, comma 4, lettere da a) a z), del CCNL
2018.
Tutto ciò premesso, la risposta al quesito è la seguente:
a) le norme sulla riduzione sino a 35 ore settimanali sono ancora
in vigore;
b) la materia non è più soggetta a contrattazione, come invece era
previsto nel comma 3, dell’art. 22, CCNL 1999 che va letto –dopo il
22.05.2018– in combinato disposto con l’art. 3, comma 7, dell’ultimo CCNL;
c) la questione è, oggi, materia di confronto, alla luce dell’art.
5, comma 3, lettera a) del CCNL 2018;
d) di conseguenza è da evitare qualsiasi inserimento nel contratto
decentrato integrativo (dove la clausola sarebbe nulla), ma di prevederlo
nell’ambito delle attività di confronto, come disciplinate nell’art. 5,
comma 2, del CCNL 2018;
e) se la riduzione dell’orario, nel comune per la Polizia locale, è
già prevista, può essere sufficiente una semplice norma di “conferma” in un
verbale di confronto.
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[1] NOTA: Come si può notare, la riduzione non era (e non è!) affatto
scontata e ci deve essere una verifica del Nucleo di Valutazione su come
fronteggiare i costi dell’eventuale riduzione, indicando due possibili
strade: la riduzione del fondo del lavoro straordinario o una stabile
modifica degli assetti organizzativi (19.12.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Commissioni
di concorso, compenso anche ai non dirigenti
Anche i dipendenti privi di qualifica dirigenziale, al pari dei dirigenti,
hanno diritto al compenso per l'incarico in commissione di concorso.
A ribaltare la lettura del decreto concretezza è la sezione regionale di
controllo della Corte dei conti per la Lombardia (parere
18.12.2019 n. 440) chiamata da un Comune
comasco ad affrontare le novità introdotte dell'articolo 3 della legge
56/2019, in tema di compensi ai commissari di concorsi.
Nello specifico il Comune ha domandato ai giudici se, così come previsto per
i dirigenti (comma 14 dell'articolo 3), per il personale privo di quella
qualifica, quando è componente di concorsi pubblici banditi da
un'amministrazione diversa da quella di appartenenza, può essere previsto il
compenso oppure se, in applicazione del principio di onnicomprensività della
retribuzione (comma 12, dell'articolo 3), esiste un divieto di remunerazione
in quanto tali incarichi, anche quando riferiti a concorsi banditi da
un'amministrazione diversa da quella di appartenenza, rientrano nelle
funzioni dell'ufficio ricoperto.
Chiara la risposta dei giudici: ai componenti delle commissioni di concorsi
pubblici, banditi da un'amministrazione diversa da quella di appartenenza,
privi di qualifica dirigenziale, spetta il compenso per l'attività di
presidente, di componente o di segretario di una commissione di concorso.
Le
argomentazioni dei magistrati contabili si fondano sulla considerazione
secondo la quale il comma 12 dell'articolo 3 della legge 56/2019 non si
riferisce all'aspetto retributivo degli incarichi, ma si preoccupa solo di
autorizzare (con legge) le attività, al fine di consentirne lo svolgimento
da parte dei dipendenti pubblici. In altri termini, la disposizione, lungi
dall'escludere ogni compenso per gli incarichi di componenti delle
commissioni di concorso, ha voluto qualificarli espressamente, anche
nell'ipotesi di concorsi banditi da un'amministrazione diversa da quella di
appartenenza (salva in questo caso l'autorizzazione), come compiti conferiti
in ragione dell'ufficio ricoperto.
Si legge ancora nella delibera che una interpretazione più restrittiva della
disciplina tendente ad affermare la possibilità di compensare gli incarichi
in questione soltanto per il personale dirigente, oltre che presentare
innegabili profili di illegittimità costituzionale per la disparità di
trattamento tra personale dirigenziale e personale non dirigenziale,
contrasterebbe con lo stesso impianto dell'articolo 3 che, nell'evidente
presupposto della retribuibilità degli incarichi in questione, ha previsto,
al comma 13, addirittura l'aggiornamento dei compensi.
Su richiesta dell'ente la Corte ha precisato poi che le considerazioni
valgono anche per la partecipazione del segretario comunale a una
commissione esaminatrice di concorso pubblico.
Infine, i giudici rispondono negativamente al quesito con il quale il Comune
ha chiesto se l'entrata in vigore della legge 56/2009 presupponga
necessariamente l'adozione del decreto ministeriale attuativo. Il decreto in
questione riguarda infatti le modalità di istituzione e di
gestione dell'albo nazionale dei componenti delle
commissioni esaminatrici di concorso ed è previsto che in
sua assenza le commissioni esaminatrici continuano a essere
costituite secondo le disposizioni vigenti in materia alla
data di entrata in vigore della legge in argomento (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
15.01.2020). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Circa l’interpretazione di alcuni commi dell’art.
3 della legge 56/2019, c.d. Legge Concretezza, in relazione al
riconoscimento di un compenso ai dipendenti di altre p.a. per incarichi di
presidente, di membro o di segretario di commissioni esaminatrici, i
magistrati contabili della Lombardia hanno precisato che:
●
fino a quando non sarà adottato il d.m. di cui all’art. 3, comma 15, della
legge 56/2019, cui sono demandate le modalità di istituzione e gestione
dell’albo nazionale dei componenti delle commissioni esaminatrici di
concorso, quest’ultime continuano ad essere costituite secondo le
disposizioni vigenti in materia;
●
ai componenti delle commissioni esaminatrici di concorsi pubblici, banditi
da un’amministrazione diversa da quella di appartenenza, privi di qualifica
dirigenziale, spetta un compenso per l’attività di presidente, membro o di
segretario della commissione;
●
anche al segretario comunale che partecipa ad una commissione
esaminatrice di un concorso pubblico bandito da un’amministrazione diversa
da quella presso cui presta servizio come titolare, spetta il compenso per
l’attività svolta di presidente, membro o di segretario della commissione.
Pertanto, agli incarichi di presidente, membro o segretario di una
commissione esaminatrice di un concorso pubblico, anche nell’ipotesi in cui
siano banditi da un’amministrazione diversa da quella di appartenenza,
spetta un compenso (massima
tratta da www.self-entilocali.it).
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Il Sindaco del Comune di Appiano Gentile (CO) presenta tre quesiti
riguardanti l’interpretazione di alcuni commi dell'art. 3, della Legge
19.06.2019 n. 56 in relazione al riconoscimento di compenso a dipendenti (di
amministrazione diversa da quella che ha bandito un concorso pubblico per
l'accesso a un pubblico impiego) per incarichi di presidente, di membro o di
segretario di una commissione esaminatrice. Nel dettaglio chiede:
1. se l'entrata in vigore della Legge 19.06.2019 n. 56
presupponga necessariamente l'adozione del Decreto Ministeriale attuativo;
2. “se, così come previsto dal comma 14 dell'art. 3 della
legge 56/2019 per il personale dirigenziale, ai componenti delle commissioni
di concorsi pubblici, privi di qualifica dirigenziale, banditi da
un'amministrazione diversa da quella di appartenenza, può essere
riconosciuto il compenso per l'attività di presidente, di membro o di
segretario di una commissione di concorso, oppure, in applicazione del
principio di onnicomprensività della retribuzione previsto dal comma 12,
dell'art. 3, della legge sopra richiamata, il legislatore ha voluto
introdurre un divieto di remunerazione in quanto tali incarichi, anche
laddove si tratti di concorsi banditi da un'amministrazione diversa da
quella di appartenenza, rientrano nelle funzioni dell'ufficio ricoperto
(conferiti in ragione dell'ufficio ricoperto dal dipendente pubblico o
comunque conferiti dall'amministrazione presso cui presta servizio o su
designazione della stessa)”;
3. “indicazioni applicative di tale disciplina alla figura
del Segretario Comunale componente di commissioni di concorsi banditi da
un'amministrazione diversa da quella presso cui presta servizio come
titolare”.
...
La questione sollevata in materia di compensi per la partecipazione alle
commissioni per i pubblici concorsi si riferisce alla recente legge
19.06.2019 n. 56 (c.d. Decreto Concretezza, di iniziativa governativa)
entrata in vigore il 07.07.2019.
Come risulta dagli atti parlamentari, tale legge persegue “l’obiettivo di
individuare soluzioni concrete per garantire l’efficienza delle pubbliche
amministrazioni, il miglioramento immediato dell’organizzazione
amministrativa e l’incremento della qualità dei servizi erogati dalle stesse”;
in questo ambito la materia dei concorsi per il reclutamento di personale è
nello specifico disciplinata dall’art. 3, con l’intento di snellire
l’espletamento delle procedure, ivi compresa la formazione delle commissioni
di concorso.
Ciò premesso, riguardo al primo quesito, con il quale
l’Amministrazione chiede se l'entrata in vigore della Legge 19.06.2019 n. 56
presupponga necessariamente l'adozione del Decreto Ministeriale attuativo,
occorre rispondere negativamente dato che il decreto attuativo di cui al c.
15 dell’art. 3 della stessa legge, riguarda le modalità di istituzione e di
gestione dell’Albo nazionale dei componenti delle commissioni esaminatrici
di concorso e che in sua assenza, “le commissioni esaminatrici continuano
ad essere costituite secondo le disposizioni vigenti in materia alla data di
entrata in vigore della presente legge”.
Con il secondo quesito il comune di Appiano Gentile vuole sapere “se,
così come previsto dal comma 14 dell’art. 3 della legge 56/2019 per il
personale dirigenziale, ai componenti delle commissioni di concorsi
pubblici, privi di qualifica dirigenziale, banditi da un’amministrazione
diversa da quella di appartenenza, può essere riconosciuto il compenso per
l’attività di presidente, di membro o di segretario di una commissione di
concorso, oppure, in applicazione del principio di onnicomprensività della
retribuzione previsto dal comma 12, dell’art. 3, della legge sopra
richiamata, il legislatore ha voluto introdurre un divieto di remunerazione
in quanto tali incarichi, anche laddove si tratti di concorsi banditi da
un’amministrazione diversa da quella di appartenenza, rientrino nelle
funzioni dell’ufficio ricoperto (conferiti in ragione dell’ufficio ricoperto
dal dipendente pubblico o comunque conferiti dall’amministrazione presso cui
presta servizio o su designazione della stessa)”.
Per pervenire alla risposta di detto quesito, occorre dare alla disciplina
di riferimento un’interpretazione di carattere sistematico.
In primo luogo, si osserva che la legge n. 56 del 2019, recante “Interventi
per la concretezza delle azioni delle pubbliche amministrazioni e la
prevenzione dell'assenteismo”, all’articolo 6, comma 1, sancisce
espressamente che “le disposizioni di cui agli articoli 1 e 3 recano
norme di diretta attuazione dell'articolo 97 della Costituzione e
costituiscono principi generali dell'ordinamento”, ancorando le indicate
norme all’attuazione dei fondamentali principi del buon andamento ed
imparzialità dell’amministrazione, e così attribuendo agli incarichi ivi
disciplinati un ruolo funzionale al buon andamento della pubblica
amministrazione, attraverso concorsi pubblici da espletarsi in maniera
efficace e spedita, favorendo l’effettiva partecipazione alle commissioni di
concorso, con un forte senso di responsabilizzazione per coloro che ne fanno
parte.
Il
comma 12 dell’art. 3, della legge n. 56/2019, in particolare, va letto
tenendo conto della disciplina generale in materia di incarichi conferibili
ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ai sensi del D.Lgs.
31.03.2001 n. 165.
La norma stabilisce: “Gli incarichi di presidente, di membro o di
segretario di una commissione esaminatrice di un concorso pubblico per
l'accesso a un pubblico impiego, anche laddove si tratti di concorsi banditi
da un'amministrazione diversa da quella di appartenenza e ferma restando in
questo caso la necessità dell'autorizzazione di cui all'articolo 53 del
decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, si considerano ad ogni effetto di
legge conferiti in ragione dell'ufficio ricoperto dal dipendente pubblico o
comunque conferiti dall'amministrazione presso cui presta servizio o su
designazione della stessa.”
La disposizione non si riferisce all’aspetto retributivo degli incarichi
considerati, ma statuisce che gli stessi si intendono conferiti in ragione
dell’ufficio ricoperto con ciò rispondendo alla necessità di una espressa
previsione normativa in tal senso, stante il disposto dell’art. 53, comma 2,
laddove stabilisce che “Le pubbliche amministrazioni non possono
conferire ai dipendenti incarichi, non compresi nei compiti e doveri di
ufficio, che non siano espressamente previsti o disciplinati da legge o
altre fonti normative, o che non siano espressamente autorizzati”.
Il
comma 12 dell’art. 3, nel considerare gli incarichi in argomento
conferiti in ragione dell’ufficio ricoperto, implicitamente distingue gli
stessi dagli incarichi, anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri
di ufficio, ossia dagli incarichi esterni di cui all’art. 53, commi 7 e ss,
del D.Lgs. n. 165/2001 (Ai sensi del comma 6 dell’articolo 53, difatti, “gli
incarichi retribuiti, di cui ai commi seguenti, sono tutti gli incarichi,
anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, per i quali
è previsto, sotto qualsiasi forma, un compenso”), per i quali sono
previste specifiche verifiche ai fini dell'autorizzazione.
Ritiene, pertanto, il Collegio che il
comma 12 dell’art. 3, lungi dall’escludere ogni compenso per gli
incarichi di componenti delle commissioni di concorso, ha voluto, stante il
disposto dell’art. 53, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001, qualificare
espressamente gli incarichi in questione, anche nell’ipotesi in cui si
tratti di concorsi banditi da un'amministrazione diversa da quella di
appartenenza (salva in tal caso l’autorizzazione), come incarichi conferiti
in ragione dell'ufficio ricoperto.
Tale interpretazione trova immediata conferma nel successivo
comma 13 dello stesso articolo 3, che disciplina proprio l’aggiornamento
(anche in deroga all'articolo 6, comma 3, del d.l. 31.05.2010, n. 78,
convertito, con modificazioni, dalla l. 122/2010) dei compensi da
corrispondere al presidente, ai membri e al segretario delle commissioni
esaminatrici dei concorsi pubblici per l'accesso a un pubblico impiego
indetti dalle amministrazioni dello Stato (…), nonché al personale addetto
alla vigilanza delle medesime prove concorsuali.
In linea con l’interpretazione della non esclusione dei compensi per gli
incarichi in argomento è anche il disposto del
comma 14 dello stesso articolo 3 che stabilisce “Fermo restando il
limite di cui all’art. 23-ter del decreto-legge 06.12.2011, n. 201,
convertito, con modificazioni, dalla legge 22.12.2011, n. 214, la disciplina
di cui all’art. 24, comma 3, del decreto legislativo 30.03.2001 n. 165, non
si applica ai compensi dovuti al personale dirigenziale per l’attività di
presidente o di membro della commissione esaminatrice di un concorso
pubblico per l’accesso a un pubblico impiego”, escludendo, quindi,
l’applicazione del principio di onnicomprensività di cui all’art. 24, comma
3, del D.Lgs. n. 165/2001, per il personale dirigente destinatario degli
incarichi in argomento.
D’altra parte, una diversa e più restrittiva lettura della disciplina
contenuta nel
comma 12 e nel comma 14 dell’art. 3, tendente ad affermare la
possibilità di compensare gli incarichi in questione soltanto per il
personale dirigente, oltre che presentare innegabili profili di
illegittimità costituzionale per la disparità di trattamento tra personale
dirigenziale e personale non dirigenziale, contrasterebbe con lo stesso
impianto dell’art. 3 che, nell’evidente presupposto della retribuibilità
degli incarichi di cui trattasi, ha previsto, al comma 13, addirittura
l’aggiornamento dei compensi.
Giova soggiungere che la corresponsione dei compensi soltanto al personale
dirigente si porrebbe, inoltre, in distonia con la stessa ratio della
legge n. 56/2019, diretta, come già sopra evidenziato, ad individuare misure
per espletare i concorsi pubblici in maniera efficace e spedita, perseguendo
il buon andamento della pubblica amministrazione.
In sostanza, la previsione del
comma 12 dell’articolo 3, della legge n. 56/2019, non incide sulla
disciplina della retribuibilità dei compensi, ma sulle modalità di
erogazione e gestione dei compensi stessi, in quanto gli incarichi di
presidente, di membro o di segretario di una commissione esaminatrice di un
concorso pubblico per l'accesso a un pubblico impiego vanno gestiti in
maniera differente da quelli disciplinati ai sensi dell’articolo 53 del
d.lgs. n. 165/2001, essendo i primi conferiti, ad ogni effetto di legge, in
ragione dell’ufficio ricoperto.
Conseguentemente, al secondo quesito occorre rispondere nel senso che ai
componenti delle commissioni di concorsi pubblici, banditi da
un’amministrazione diversa da quella di appartenenza, privi di qualifica
dirigenziale, spetti il compenso per l’attività di presidente, di componente
o di segretario di una commissione di concorso.
Per quanto riguarda il terzo quesito, la Sezione ritiene che la
partecipazione di un Segretario comunale ad una commissione esaminatrice di
un concorso pubblico per l’accesso a un pubblico impiego non costituisca un
caso speciale e che, quindi, le conclusioni su esposte si applichino anche
per la figura del Segretario comunale (Corte dei Conti, Sez. controllo
Lombardia,
parere 18.12.2019 n. 440). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'ufficio
di segreteria generale di questo Ente chiede di conoscere se occorre
procedere, ed in che termini, alla pubblicazione dei dati reddituali e
patrimoniali dei dirigenti ai sensi dell'art. 14, comma 1, lett. f), D.Lgs.
14.03.2013, n. 33 o se permane la sospensione dopo la sentenza della Corte
Costituzionale.
Come noto la vicenda della pubblicazione dei dati reddituali dei dirigenti
pubblici ai sensi dell'art. 14, comma 1, lett. f), D.Lgs. 14.03.2013, n. 33
si è complicata a seguito della declaratoria di incostituzionalità da parte
della Corte Costituzionale con la sentenza 23.01.2019 n. 20 "nella parte
in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui
all'art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo anche per
tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti,
ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall'organo di indirizzo
politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per i titolari
degli incarichi dirigenziali previsti dall'art. 19, commi 3 e 4, del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro
alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche)".
A seguito di detta sentenza ANAC era intervenuta, pur con ampie critiche,
attraverso la Del. 26.06.2019 n. 586 dell'ANAC «Integrazioni e modifiche
della delibera 08.03.2017, n. 241 per l'applicazione dell'art. 14, co. 1-bis
e 1-ter del d.lgs. 14.03.2013, n. 33 a seguito della sentenza n. 20 del
23.01.2019 della Corte Costituzionale» con cui l'Autorità ha modificato
e integrato la citata Del. 08.03.2017, n. 241 e fornito precisazioni sulla
delibera 1134/2017 in merito ai criteri e modalità di applicazione dell'art.
14, comma 1, 1-bis e 1-ter, D.Lgs. 14.03.2013, n. 33 alle amministrazioni
pubbliche e agli enti di cui all'art. 2-bis del medesimo decreto, alla luce
della sentenza della Corte Cost. 23.01.2019, n. 20.
A questa delibera sono seguite da più parti richieste di chiarimento, ed in
particolare dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome e della
Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e
Province autonome attraverso riunioni operative con la stessa autorità.
Negli incontri, in attesa dell'intervento legislativo chiarificatore
sull'applicazione dell'art. 14, comma 1-bis, con riferimento alla
pubblicazione dei dati reddituali e patrimoniali [art. 14, comma 1, lett.
f)] richiamato dalla stessa sentenza della Corte Costituzionale, le Regioni,
nella fase transitoria, identificano, entro il 01.03.2020, in appositi atti
legislativi, ovvero normativi o amministrativi generali, gli strumenti utili
all'attuazione della norma tenuto conto delle peculiarità del proprio
assetto organizzativo e alla luce dell'intervento della Corte Costituzionale
e della Del. 26.06.2019 n. 586 dell’ANAC.
Con ordinanza cautelare il TAR Lazio Roma, Sez. I, 21.11.2019 n. 7579, in
accoglimento dell'istanza cautelare di due dirigenti sanitari titolari di
struttura complessa dell'Azienda sanitaria locale di Matera, ha sospeso la
deliberazione dell'omonima Asl con cui veniva richiesta ai suddetti
dirigenti la trasmissione dei dati ex art. 14, comma 1, lett. f), D.Lgs.
14.03.2013, n. 33 e rinviata la causa al merito del 22.04.2019.
Sulla base di questi presupposti e dell'incertezza normativa che ne è
derivata l'Autorità ha ritenuto opportuno, con Del. 04.12.2019 n. 1126:
"- In attesa dell'intervento legislativo nazionale
chiarificatore sull'applicazione dell'art. 14, co. 1, lett. f), d.lgs.
33/2013, di rinviare alla data del 01.03.2020 l'avvio della propria attività
di vigilanza sull'applicazione dell'art. 14, co. 1, lett. f), d.lgs.
14.03.2013, n. 33 -dati reddituali e patrimoniali- con riferimento ai
dirigenti delle amministrazioni regionali e degli enti da queste dipendenti;
- Fermo restando quanto previsto nella delibera ANAC n. 586/2019
per i dirigenti del SSN, di sospendere, alla luce dell'ordinanza cautelare
del TAR Lazio n. 7579 del 21.11.2019, l'efficacia della richiamata delibera
limitatamente alle indicazioni relative all'applicazione dell'art. 14, co.
1, lett. f), del d.lgs. 14.03.2013, n. 33 ai dirigenti sanitari titolari di
struttura complessa fino alla definizione nel merito del giudizio".
Ciò premesso e considerato, venendo al quesito proposto, ne deriva che:
1) l'obbligo di pubblicazione dei dati reddituali dei dirigenti
pubblici ai sensi dell'art. 14, comma 1, lett. f), D.Lgs. 14.03.2013, n. 33
è vigente;
2) tale obbligo legittima le amministrazioni a procedere alla
pubblicazione dei dati in applicazione della citata normativa e della
sentenza della Corte Costituzionale;
3) tuttavia la delibera Anac ha ritenuto opportuno sospendere la
propria attività di vigilanza e la propria deliberazione in materia "con
riferimento ai dirigenti delle amministrazioni regionali e degli enti da
queste dipendenti" ed "ai dirigenti sanitari titolari di struttura
complessa";
4) ANAC non ha disposto analoga sospensione per i dirigenti di
altri settori/comparti.
Pertanto, alla luce di quanto sopra, qualora il richiedente non faccia parte
del SSN dovrà valutare di procedere in ogni caso alla dovuta pubblicazione,
eventualmente valutando forme di minimizzazione e previo ulteriore
approfondimento sui contenuti della sentenza della Corte Costituzionale.
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Riferimenti normativi e contrattuali
D.Lgs. 14.03.2013, n. 33, art. 14 - Del. 26.06.2019 n. 586 dell’ANAC
Riferimenti di giurisprudenza
Corte Cost., sentenza 23.01.2019, n. 20
Documenti allegati
Del. 04.12.2019 n. 1126 dell’ANAC - Comunicato 04.12.2019 del Presidente
ANAC - TAR Lazio-Roma, Sez. I, 21.11.2019 n. 7579
(18.12.2019 - tratto da www.risponde.leggiditalia.it/#doc_week=true). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Responsabilità
e rischi connessi all’incarico di responsabile della prevezione della
corruzione e trasparenza.
Domanda
Sono stato nominato da poco Responsabile della Prevenzione della Corruzione
e Trasparenza dalla mia amministrazione, ma non possiedo una formazione
specifica in materia e non ho del personale assegnato allo staff, per cui
vorrei sapere quali sono le mie responsabilità ed i rischi connessi a tale
incarico.
Risposta
La responsabilità della scelta del dipendente a cui attribuire l’incarico di
Responsabile della Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPCT) è
dell’organo di indirizzo [1]
che è tenuto ad adottare le modifiche organizzative necessarie ad assicurare
allo stesso, funzioni e poteri idonei e, dunque, anche personale e mezzi
tecnici adeguati.
In ogni caso, prima di affrontare il tema della responsabilità e dei rischi,
è necessario comprendere il ruolo del RPCT. Il cardine dei poteri del RPCT,
specifica l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) nella delibera n. 840
del 02.10.2018, è centrato sul prevenire la corruzione. A tale figura non
spetta l’accertamento di responsabilità, ma l’acquisizione di informazioni
sulle modalità di attuazione delle misure e la segnalazione agli organi
competenti (Organismo Interno di Valutazione, vertice politico, ufficio di
disciplina) dei dipendenti che non le attuano.
In aggiunta alla citata delibera, si consiglia di consultare la parte IV del
Piano Nazionale Anticorruzione (PNA) 2019, approvato con deliberazione ANAC
n. 1064 del 13.11.2019 e l’Allegato 3 dello stesso PNA.
Sinteticamente il RPCT deve:
• proporre all’organo di indirizzo il Piano Triennale di
Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT), che contiene l’analisi
dei processi a rischio e le misure di prevenzione, vigilare sull’osservanza
dello stesso e proporre i correttivi necessari in caso di significative
violazioni, modifiche organizzative o funzionali;
• relazionare sull’attività svolta, ai sensi dell’art. 1, comma 14,
secondo periodo, della legge 06.11.2012, n. 190. La norma prevede il termine
del 15 dicembre, ma l’ANAC, da alcuni anni, differisce il termine al 31
gennaio dell’anno successivo. Per quest’anno consultare il comunicato del
Presidente dell’Autorità del 13.11.2019;
• verificare che si attui la rotazione o, in mancanza, che ci siano
adeguate misure alternative;
• individuare i dipendenti coinvolti in procedimenti a rischio
corruzione ai fini dell’inserimento in appositi programmi di formazione.
Il RPCT è, dunque, chiamato a delineare la strategia di prevenzione della
corruzione adeguata all’amministrazione di riferimento e verificare il
rispetto delle misure di prevenzione da parte dei dipendenti.
Pertanto –seppure è importante che il RPCT acquisisca una formazione di
carattere tecnico-giuridico– è bene privilegiare, nella scelta del soggetto,
altre valutazioni. Si deve trattare di un soggetto dalla condotta
integerrima, un dirigente che conosca bene l’amministrazione,
l’organizzazione, i processi di lavoro, che abbia una capacità di analisi e
sia in grado di sensibilizzare il personale.
La negligenza del RPCT può comportare delle significative responsabilità nel
caso di commissione, all’interno dell’amministrazione, di un reato di
corruzione, accertato con sentenza passata in giudicato, nonché nel caso di
ripetute violazioni di misure di prevenzione previste dal piano.
I commi 12 e 14, dell’art. 1 della legge 190/2012, delineano una sorta di
responsabilità oggettiva in capo al RPCT, una responsabilità dirigenziale ex
art. 21, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, una responsabilità
disciplinare (con sanzione non inferiore alla sospensione del servizio con
privazione della retribuzione da un minimo di un mese ad un massimo di sei
mesi) e una responsabilità per danno erariale e all’immagine della pubblica
amministrazione.
Per andare esente da responsabilità il RPCT deve provare di aver predisposto
il PTPCT e vigilato sul funzionamento e l’osservanza dello stesso, nonché di
aver messo in atto tutte le misure, di cui ai commi 9 e 10 dell’art. 1,
della legge 190/2012 e di aver comunicato agli uffici le misure e le
modalità di attuazione. Le prove da fornire per andare esente da
responsabilità sono precisate in dettaglio nel paragrafo 9, della parte IV,
del PNA 2019.
Da ciò consegue che è importante tracciare tutta l’attività di informazione,
formazione e sensibilizzazione del personale. L’ANAC raccomanda anche di
prevedere adeguati meccanismi di monitoraggio e controllo. Pur considerando
la difficoltà di effettuare i controlli connessi al rispetto delle misure
concernenti l’imparzialità dei funzionari pubblici, è importante individuare
degli indicatori utili a verificare se le misure di prevenzione sono state
attuate. Nell’Allegato 1, al PNA 2019, l’ANAC ribadisce che l’individuazione
e la programmazione delle misure rappresentano la parte fondamentale, il “cuore”
del PTPCT e che un elenco generico di misure di prevenzione, non assolve al
compito di definire la strategia di prevenzione della corruzione.
La mancata adozione del PTPCT (come anche del Codice di comportamento)
comporta l’applicazione della sanzione amministrativa da 1.000 a 10.000
euro, ai sensi dell’art. 19, comma 5, lettera b), del decreto legge
24.06.2014, n. 90. Si tratta di una responsabilità in capo
all’Amministrazione ed è evidente che il RPCT non risponde in prima persona
qualora abbia proposto il PTPCT all’organo di indirizzo, ma quest’ultimo non
l’abbia adottato (si veda ad esempio la decisione dell’ANAC relativa al
procedimento sanzionatorio n. 649 del 18.07.2019).
Responsabilità dirette a carico del RPCT conseguono invece alla mancata
predisposizione di misure a tutela del whistleblowing. L’art. 54-bis, comma
6, d.lgs. 165/2001, prevede che “Qualora venga accertata l’assenza di
procedure per l’inoltro e la gestione delle segnalazioni ovvero l’adozione
di procedure non conformi a quelle di cui al comma 5, l’ANAC applica al
responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro.
Qualora venga accertato il mancato svolgimento da parte del responsabile di
attività di verifica e analisi delle segnalazioni ricevute, si applica al
responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro.
L’ANAC determina l’entità della sanzione tenuto conto delle dimensioni
dell’amministrazione o dell’ente cui si riferisce la segnalazione.”
In tema di trasparenza spetta al RPCT delineare chiaramente i soggetti
responsabili della pubblicazione sulle diverse sottosezioni di
Amministrazione Trasparente, al fine di andare esente dalle responsabilità
di cui agli artt. 46 e 47, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33.
L’individuazione di specifiche responsabilità risponde all’obiettivo di
costruire un modello a rete, che coinvolge tutti i soggetti
dell’amministrazione.
In questo ci aiuta anche il Testo Unico sul Pubblico Impiego: l’art. 16,
comma 1, lettera l-bis), l-ter) e l-quater) del d.lgs. 165/2001, individua,
infatti, specifici compiti in materia di prevenzione della corruzione in
capo a ciascun dirigente.
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[1] Articolo 1, comma 7, delle 190/2012 (17.12.2019 - tratto da e link a
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PUBBLICO IMPIEGO: Rinegoziazione
cessione stipendio.
Domanda
È possibile concedere una rinegoziazione di una cessione dello stipendio in
presenza di ritenute per pignoramenti?
Risposta
Si dà per scontato che i pignoramenti, delegazione di pagamento e precedente
cessione sono stati eseguiti nel rispetto dei limiti di legge e che sono
soddisfatti i presupposti generali per la rinegoziazione della cessione ai
sensi dell’art. 39 del DPR 180/1950.
Nella situazione descritta nel quesito si possono verificare due casi:
1) la rinegoziazione della cessione porta ad abbassare oppure a
mantenere invariata la rata mensile di rimborso: in questo caso non c’è
ragione per la quale l’ente debba negare il suo assenso alla
ricontrattazione (mediante estinzione e nuova cessione), dato che questa
operazione non incrementerebbe l’incidenza complessiva del cumulo di
cessione, delegazione e pignoramento sulla retribuzione del dipendente;
2) la rinegoziazione della cessione porta ad incrementare l’importo
della rata mensile di rimborso: in questo caso l’ente non è nelle condizioni
di assentire alla nuova cessione:
• se si supera la soglia di cui all’art. 68,
comma 1, del DPR 180/1950 (“Quando preesistono sequestri o pignoramenti,
la cessione, fermo restando il limite di cui al primo comma dell’art. 5, non
può essere fatta se non limitatamente alla differenza tra i due quinti dello
stipendio o salario valutati al netto delle ritenute e la quota colpita da
sequestri o pignoramenti”);
• se si supera la soglia di cui all’art. 70,
comma 1, del DPR 180/1950 prevista per il cumulo tra delegazione e cessione;
• naturalmente, se si supera la soglia del quinto
della retribuzione per la cessione (12.12.2019 - tratto da e link a
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Lavoro:
è illecito mantenere attivo l’account di posta dell’ex dipendente. Dopo la
cessazione del rapporto di lavoro la società aveva avuto anche accesso alle
e-mail.
Commette un illecito la società che mantiene attivo
l’account di posta aziendale di un dipendente dopo l’interruzione del
rapporto di lavoro e accede alle mail contenute nella sua casella di posta
elettronica. La protezione della vita privata si estende anche all’ambito
lavorativo.
Questi i principi ribaditi dal Garante per la privacy (provvedimento
04.12.2019 n. 216) nel definire il reclamo di un dipendente che
lamentava la violazione della disciplina sulla protezione dei dati da parte
della società presso la quale aveva lavorato.
L’ex dipendente contestava, in particolare, alla società la mancata
disattivazione della e-mail aziendale e l’accesso ai messaggi ricevuti sul
suo account. L’interessato era venuto a conoscenza di questi fatti per caso,
nel corso di un giudizio davanti al giudice del lavoro promosso nei suoi
confronti dalla sua ex azienda, avendo quest’ultima depositato agli atti una
e-mail giunta sulla sua casella di posta un anno dopo la cessazione dal
servizio.
Dagli accertamenti svolti dall’Autorità è emerso che l’account di posta era
rimasto attivo per oltre un anno e mezzo dopo la conclusone del rapporto di
lavoro prima della sua eliminazione, avvenuta solo dopo la diffida
presentata dal lavoratore. In questo periodo la società aveva avuto accesso
alle comunicazioni che vi erano pervenute, alcune anche estranee
all’attività lavorativa del dipendente.
Il Garante ha ritenuto illecite le modalità adottate dalla società perché
non conformi ai principi sulla protezione dei dati, che impongono al datore
di lavoro la tutela della riservatezza anche dell’ex lavoratore. Subito dopo
la cessazione del rapporto di lavoro, un’azienda deve infatti rimuovere gli
account di posta elettronica riconducibili a un dipendente, adottare sistemi
automatici con indirizzi alternativi a chi contatta la casella di posta e
introdurre accorgimenti tecnici per impedire la visualizzazione dei messaggi
in arrivo.
L’adozione di tali misure tecnologiche -ha spiegato il Garante- consente di
contemperare l’interesse del datore di lavoro di accedere alle informazioni
necessarie alla gestione della propria attività con la legittima aspettativa
di riservatezza sulla corrispondenza da parte di dipendenti/collaboratori
oltre che di terzi. Lo scambio di e-mail con altri dipendenti o con persone
esterne all’azienda consente infatti di conoscere informazioni personali
relative al lavoratore, anche solamente dalla visualizzazione dei dati
esterni delle comunicazioni (data, ora oggetto, nominativi di mittenti e
destinatari).
Oltre a dichiarare l’illecito trattamento, il Garante ha quindi ammonito la
società a conformare i trattamenti effettuati sugli account di posta
elettronica aziendale dopo la cessazione del rapporto di lavoro alle
disposizioni e ai principi sulla protezione dei dati ed ha disposto
l’iscrizione del provvedimento nel registro interno delle violazioni
istituito presso l’Autorità. Tale iscrizione costituisce un precedente per
la valutazione di eventuali future violazioni (commento tratto da e link a
www.gpdp.it).
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MASSIMA
RILEVATO che, in base alle risultanze dell’attività
istruttoria, è emerso che la società, dopo la cessazione del rapporto di
lavoro con il reclamante avvenuta il 10.09.2016, ha mantenuto attivo
l’account di posta elettronica individualizzato assegnato al dipendente, al
dichiarato fine di non perdere contatti utili con i clienti che avessero
voluto mantenere rapporti commerciali con la società; alcune informazioni in
tal modo raccolte sono state utilizzate nell’ambito di un procedimento
avviato successivamente all’inizio della raccolta dei dati (con ricorso del
29.06.2017, notificato all’ex dipendente l’11.07.2017) in sede
giurisdizionale nei confronti del reclamante −in particolare mediante
deposito in giudizio di una e-mail pervenuta sull’account il 12.09.2017− per
l’ulteriore e sopravvenuta finalità di difesa di propri diritti;
RILEVATO pertanto che l’account aziendale è rimasto attivo per un
periodo di tempo significativo (pari a circa un anno e sette mesi, durante
il quale la società ha acceduto alle comunicazioni ivi pervenute), fino alla
cancellazione effettuata dalla società (il 03.05.2018) a seguito della
diffida presentata dal reclamante;
RILEVATO altresì che, in relazione a tale modalità di trattamento
dei dati relativi all’ex dipendente, si prende atto che la società ha
dichiarato di aver previamente comunicato “verbalmente” al reclamante
il trattamento connesso al suo indirizzo di posta elettronica, e che ciò non
costituisce elemento idoneo a documentare l’avvenuto adempimento da parte
della società dell’obbligo informativo che l’ordinamento pone in capo al
titolare del trattamento;
RITENUTO che il titolare è tenuto ad informare preventivamente i
dipendenti circa le caratteristiche essenziali dei trattamenti che intende
effettuare, anche con riferimento all’utilizzo di strumenti messi a
disposizione nell’ambito del rapporto di lavoro, ciò anche in applicazione
del principio di correttezza (v. artt. 11, comma 1, lett. a) e 13 del
Codice, testo vigente all’epoca dei fatti oggetto di reclamo, criteri
peraltro confluiti negli artt. 5, par. 1, lett. a) e 13 del Regolamento);
RITENUTO che, conformemente al costante
orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, la protezione della
vita privata si estende anche all’ambito lavorativo
(v. Niemietz c. Allemagne, 16.12.1992 (ric. n. 13710/88), spec. par. 29;
Copland v. UK, 03.04.2007 (ric. n. 62617/00), spec. par. 41; Bărbulescu v.
Romania [GC], 05.09.2017 (ric. n. 61496/08), spec. par. 70-73; Antović and
Mirković v. Montenegro, 28.11.2017 (ric. n. 70838/13), spec. par. 41-42);
RILEVATO che lo scambio di corrispondenza
elettronica (estranea o meno all’attività lavorativa) su un account di tipo
individualizzato con soggetti interni o esterni alla compagine aziendale
configura un’operazione che consente di conoscere alcune informazioni
personali relative all’interessato, anche relativamente ai dati c.d. esterni
delle comunicazioni (data, ora, oggetto, nominativi di mittenti e
destinatari) (v.
Provv. 27.11.2014,
n. 551, doc. web n. 3718714);
VISTO, a tale ultimo proposito, che l’elenco delle comunicazioni
ricevute sull’account aziendale riferito al reclamante dopo la cessazione
del rapporto di lavoro contiene anche messaggi che, in base a quanto si
evince dall’indicazione del mittente e dell’oggetto, non sono riferibili
all’attività professionale dell’ex dipendente (ad es. inviti ricevuti sul
social LinkedIn, inviti ad iniziative culturali, pubblicità di un istituto
bancario alla clientela: v. reclamo 31.10.2018, All. 10);
RILEVATO altresì che nel provvedimento contenente le "Linee
guida del Garante per posta elettronica e Internet" (adottato
dall´Autorità il 01.03.2007 e pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 58 del
10.03.2007), il Garante ha ritenuto che "il contenuto
dei messaggi di posta elettronica –come pure i dati esteriori delle
comunicazioni e i file allegati- riguardano forme di corrispondenza
assistite da garanzie di segretezza tutelate anche costituzionalmente, la
cui ratio risiede nel proteggere il nucleo essenziale della dignità umana e
il pieno sviluppo della personalità nelle formazioni sociali"
(punto 5.2 lett. b) e che ciò, trasposto in ambito
lavorativo, comporta la possibilità che il lavoratore o soggetti terzi
coinvolti (i cui diritti devono essere parimenti tutelati), possano vantare
una legittima aspettativa di riservatezza su talune forme di comunicazione;
rilevato che tali esigenze di tutela devono essere tenute
in considerazione anche nell´ipotesi in cui venga a cessare il rapporto di
lavoro tra le parti;
RITENUTO, in particolare, che il datore di lavoro,
in conformità ai principi in materia di protezione dei dati personali, dopo
la cessazione del rapporto di lavoro debba rimuovere gli account di posta
elettronica aziendali riconducibili a persone identificate o identificabili
(in un tempo ragionevole commisurato ai tempi tecnici di predisposizione
delle misure), previa disattivazione degli stessi e
contestuale adozione di sistemi automatici volti ad informarne i terzi ed a
fornire a questi ultimi indirizzi alternativi riferiti all’attività
professionale del titolare del trattamento, provvedendo altresì ad adottare
misure idonee ad impedire la visualizzazione dei messaggi in arrivo durante
il periodo in cui tale sistema automatico è in funzione; l’adozione di tali
misure tecnologiche ed organizzative consente di contemperare l’interesse
del titolare ad accedere alle informazioni necessarie all’efficiente
gestione della propria attività e a garantirne la continuità con la
legittima aspettativa di riservatezza sulla corrispondenza da parte di
dipendenti/collaboratori nonché dei terzi
(v., da ultimo, provv.to 01.02.2018, n. 53, in www.garanteprivacy.it,
doc. web n. 8159221.
Si veda anche il provv. 05.03.2015, n. 136,
doc. web n. 3985524
e il citato provv. 27.11.2014, n. 551; nello stesso senso v. Raccomandazione
CM/Rec(2015)5 del Comitato dei Ministri agli Stati Membri sul trattamento di
dati personali nel contesto occupazionale, spec. par. 14.5);
RITENUTO che non risulta conforme ai suesposti
principi la prassi già adottata dalla società, consistente nel reindirizzare
automaticamente -per un periodo di tempo anche assai ampio- i messaggi
pervenuti sull’account dell’ex dipendente su un diverso account aziendale,
tenuto conto peraltro che il ricorso della società nei confronti del
reclamante davanti all’autorità giudiziaria ordinaria (in relazione a
ritenute condotte illecite effettuate in violazione del patto di non
concorrenza) è stato presentato in data successiva al reindirizzo
dell’account; tale trattamento è pertanto avvenuto in violazione dei
principi di liceità, necessità e proporzionalità (v. art. 11, comma 1, lett.
d) del Codice, testo vigente all’epoca dei fatti oggetto di reclamo,
criterio peraltro confluito nell’art. 5, par. 1, lett. c) del Regolamento);
PRESO ATTO, con riguardo alla richiesta del reclamante di “imporre
il divieto del trattamento illegittimo” consistente nella persistente
attività dell’account a lui riferito, che la società ha affermato –con
dichiarazione della quale può essere chiamata a rispondere ai sensi
dell’art. 168 del Codice, “Falsità nelle dichiarazioni al Garante e
interruzione dell’esecuzione dei compiti o dell’esercizio dei poteri del
Garante”– di aver disposto la disattivazione dell’account a far data dal
03.05.2018 (dunque prima della proposizione del reclamo al Garante, sebbene
in sede di riscontro all’interpello presentato il 24.04.2018, la società
abbia dichiarato al reclamante che avrebbe provveduto alla disattivazione
solo dopo che quest’ultimo avesse comunicato ai clienti della società gli
estremi del nuovo account per contattare la società; v. nota 15.5.2018, All.
10, reclamo 05.02.2019 cit.);
RITENUTO pertanto che, relativamente a tale istanza, non vi siano i
presupposti per l’adozione di misure correttive da parte dell’Autorità;
VISTO che, in base a quanto dichiarato all’Autorità, la società
allo stato ha adottato un regolamento interno in base al quale subito dopo
la cessazione del rapporto di lavoro l’account aziendale è disattivato con
contestuale adozione di un messaggio automatico volto ad informarne i terzi
e a indicare un account alternativo per contattare la società;
PRESO ATTO, con riguardo all’istanza di accesso alle comunicazioni
pervenute sull’account di posta elettronica aziendale riferito al reclamante
−formulata con il menzionato interpello del 24.04.2018−, che la società ha
inviato al reclamante un sufficiente riscontro in allegato alla nota del
15.05.2018;
RITENUTO pertanto che, anche relativamente a tale istanza,
considerata pure l’assenza di controdeduzioni del reclamante sul punto, non
vi siano i presupposti per l’adozione di provvedimenti da parte
dell’Autorità;
RITENUTO che il reclamo sia fondato in relazione
alla prospettata illiceità del trattamento,
allo stato non più in essere, consistente nella prolungata
attività dell’account di posta aziendale riferito al reclamante dopo la
cessazione del rapporto di lavoro ed all’accesso ai messaggi ivi pervenuti,
peraltro in assenza di una policy aziendale resa nota ai dipendenti
al riguardo;
RITENUTO che ricorrano i presupposti di cui all’art. 17 del
Regolamento n. 1/2019 concernente le procedure interne aventi rilevanza
esterna, finalizzate allo svolgimento dei compiti e all’esercizio dei poteri
demandati al Garante;
...
TUTTO CIÒ PREMESSO
ai sensi dell’art. 57, par. 1, lett. f) e 58, par. 2, lett. b) del
Regolamento, dichiara illecito il trattamento descritto nei
termini di cui in motivazione, consistente nella persistente attività
dell’account aziendale individualizzato per un ampio periodo di tempo dopo
l’interruzione del rapporto di lavoro, con contestuale accesso ai messaggi
ivi pervenuti, ed ammonisce Im.It. S.r.l. sulla necessità di conformare i
trattamenti effettuati sugli account di posta elettronica aziendale dopo la
cessazione del rapporto di lavoro alle disposizioni ed ai principi in
materia di protezione dei dati personali indicati in motivazione. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mappatura
dei processi a rischio corruzione.
Domanda
Siamo un comune con meno di 10.000 abitanti ed abbiamo iniziato a lavorare
alla bozza di PTPCT 2020/2022. Ci potete dire qualcosa sulla mappatura dei
processi, anche alla luce delle ultime indicazioni dell’ANAC?
Risposta
L’ANAC ha fornito alcune preziose informazioni sulla “mappatura” dei
processi, da ultimo, all’interno della bozza di PNA 2019, in consultazione
sino al 15.09.2019. In particolare, l’argomento è stato ampiamente trattato
nell’allegato “1” del PNA, recante “Indicazioni metodologiche per la
gestione dei rischi corruttivi”.
Per l’ANAC, la mappatura dei processi, rappresenta l’aspetto centrale (e,
forse più importante) dell’analisi del contesto interno. Essa consiste nella
individuazione e analisi dei processi organizzativi, presenti nell’ente.
L’obiettivo finale che ci si deve prefiggere è che l’intera attività svolta
dall’ente venga gradualmente esaminata, così da identificare aree che, per
ragioni della natura e peculiarità delle stesse, risultino potenzialmente
esposte a rischi corruttivi.
La mappatura dei processi delinea un modo efficace di individuare e
rappresentare le attività dell’amministrazione e il suo effettivo
svolgimento deve risultare, in forma chiara e comprensibile, nel Piano
Triennale Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT).
Per realizzare una buona e utile indagine è necessario mappare i processi e
non i singoli procedimenti amministrativi (che sono ben più numerosi dei
processi). Un “processo” può essere definito come una sequenza di
attività interrelate ed interagenti che trasformano delle risorse in un
output destinato a un soggetto interno o esterno.
La mappatura dei processi si articola in tre fasi:
1. Identificazione;
2. Descrizione;
3. Rappresentazione.
La prima fase (identificazione) consiste nel definire la lista dei processi
che dovranno essere accuratamente esaminati e descritti. Una volta
identificati i processi, è opportuno comprendere le modalità di svolgimento
del processo, attraverso la loro “descrizione” (fase 2). Tale
procedimento è particolarmente rilevante perché consente di identificare le
criticità del processo, in funzione delle sue modalità di svolgimento. Al
riguardo, le indicazioni dell’ANAC, propendono verso la direzione di
giungere ad una descrizione analitica dei processi dell’amministrazione, in
maniera progressiva, nei diversi cicli annuali di gestione del rischio
corruttivo, tenendo conto delle risorse e delle competenze effettivamente
disponibili nell’ente.
L’ultima fase (3) della mappatura dei processi è la rappresentazione degli
elementi descrittivi di ogni specifico processo preso in esame. La forma più
semplice ed immediata di rappresentazione è quella tabellare dove è
possibile inserire i vari elementi a seconda del livello analitico adottato.
Negli enti locali, non di maggiore dimensione (come può essere il comune che
ha posto il quesito), occorre procedere alla mappatura dei processi con la
giusta gradualità provvedendo:
• all’identificazione di tutti i processi, riferiti all’insieme
dell’attività amministrativa;
• alla descrizione, iniziale, dei processi più a rischio, con
ampliamento annuale;
• alla rappresentazione dei processi in formato tabellare, partendo
da alcuni elementi descrittivi strettamente funzionali.
La mappatura dei processi –vissuta con gradualità e secondo livelli
successivi di affinamento degli elementi considerati– rappresenta un
requisito indispensabile per la formulazione di adeguate misure di
prevenzione e incide nella qualità complessiva della gestione del rischio.
Per la mappatura è fondamentale il coinvolgimento dei responsabili apicali
delle strutture organizzative ed, in tal senso, potrebbe essere opportuno
costituire un apposito gruppo di lavoro. L’ANAC, inoltre, suggerisce di
avvalersi di strumenti e soluzioni informatiche idonee a facilitare la
rilevazione e l’elaborazione dei dati e delle informazioni necessarie, anche
sfruttando ogni possibile sinergia con analoghe iniziative relative ad altri
contesti, quali: il servizio di controllo di gestione; la certificazione di
qualità; l’analisi dei carichi di lavoro; il piano della performance.
Un’ultima –importante– osservazione va rivolta alla possibilità di affidare
la mappatura dei processi ad un soggetto esterno. Numerose sentenze
[1], nel corso degli
ultimi anni, hanno stabilito che si determina un danno erariale per l’ente,
qualora il responsabile anticorruzione (o altro soggetto) affidi all’esterno
il servizio di mappatura dei processi o, peggio ancora, la redazione del
Piano triennale, di cui la mappatura è un elemento essenziale di analisi.
In tal senso il portato normativo dell’articolo 1, comma 8, quarto periodo,
della legge 190/2012 [2],
non lascia dubbi di sorta, così come i costanti orientamenti dell’ANAC che,
testualmente prevedono: «non convince l’affermazione della difesa che la
mappatura del rischio sarebbe un elemento prodromico alla redazione del
piano. Infatti, l’analisi dei rischi è un aspetto fondamentale del piano
stesso e ne costituisce una delle componenti più significative, secondo
quanto previsto dall’ANAC nei propri modelli» (delibera ANAC n. 748 del
05.09.2018).
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[1] Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lazio;
sentenza 04.05.2018; Corte dei conti, sezione giurisdizionale Piemonte,
sentenza n. 253/2019; Delibera ANAC numero 748 del 05.09.2018;
[2] Articolo 1, co. 8, legge 190/2012: “L’attività di elaborazione del piano
non può essere affidata a soggetti estranei all’amministrazione” (03.12.2019 - tratto da e link a
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novembre 2019 |
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Iter
assunzione art. 110.
Domanda
Quale potrebbe essere l’iter per una procedura di assunzione ai sensi
dell’art. 110 del TUEL?
Risposta
Riteniamo che l’iter procedurale da seguire è, in parte, simile a quello
necessario in generale per le assunzioni a tempo indeterminato o a tempo
determinato di altro genere.
L’ente dovrà prevedere, nell’ordine:
1. l’inserimento dell’assunzione a tempo determinato in parola, con
espressa previsione del ricorso all’art. 110, comma 1, del d.lgs. 267/2000
(che rileva, com’è noto, per la copertura di posti previsti in dotazione
organica), all’interno del PTFP (Piano Triennale dei Fabbisogni del
Personale), deliberato dalla giunta comunale, o di suo stralcio/modifica
qualora l’azione assunzionale sia stabilita dall’organo politico a
integrazione di un piano già adottato;
2. l’adozione di determina, a cura del responsabile competente, di
avvio del procedimento e di emanazione dell’avviso per la copertura del
posto de quo;
3. la pubblicazione dell’avviso di selezione, senza obbligo di
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, ma certamente sul sito istituzionale
dell’ente e per il periodo canonico di almeno 30 giorni;
4. l’espletamento della procedura selettiva (sulla quale si tornerà
nel seguito del parere, per tentare di meglio delinearne i contorni);
5. a conclusione della procedura, l’adozione del decreto sindacale
di nomina del candidato prescelto, la stesura del contratto di lavoro a t.d.
e l’immissione in ruolo del candidato selezionato.
La procedura di scelta di un candidato da assumere a tempo determinato ai
sensi dell’art. 110, comma 1, del richiamato TUEL, lungi dal consistere in
una scelta meramente intuitu personae, è stata piuttosto recentemente
inquadrata dal Consiglio di Stato (cfr. la sentenza Sez. V del 29.05.2017),
come procedura avente natura non concorsuale, ma comunque di tipo selettivo:
“L’art. 110, comma 1, t.u.e.l., regolante la procedura, prevede che la
copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di
qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante
contratto a tempo determinato previa selezione pubblica volta ad accertare,
in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza
pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell’incarico”.
Per quanto rivestita di forme atte a garantire pubblicità, massima
partecipazione e selezione effettiva dei candidati, la procedura in
questione non ha le caratteristiche del concorso pubblico e più precisamente
delle “procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle
pubbliche amministrazioni“.
Il terreno è “scivoloso”, ed occorre che l’ente presti la massima
attenzione nel prevedere forme di garanzia del rispetto dei princìpi di
pubblicità, trasparenza, massima partecipazione e selezione, ma anche che
non strutturi la procedura stessa in forma di pubblico concorso, giacché di
ciò non si tratta: il Consiglio di Stato, nella pronuncia citata, asseriva,
tra l’altro, che proprio perché trattasi non di concorso pubblico, ma,
comunque e in ultimo, di scelta di natura fiduciaria, la competenza
giurisdizionale per eventuali controversie è del giudice del lavoro e non di
quello amministrativo.
Si riporta di seguito un passaggio nodale della sentenza esaminata, che
circoscrive un poco i contorni della “selezione” in argomento: “(…)
Procedura meramente idoneativa deve, ai fini della controversia in esame,
ritenersi quella prevista all’art. 110 del T.U.E.L. per la copertura,
autorizzata dallo statuto dell’ente locale, di ‘posti di responsabili dei
servizi e degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta
specializzazione’: la natura di mero ‘incarico a contratto’; la natura
necessariamente temporanea dello stesso; lo scolpito ancoraggio temporale ne
ultra quem al ‘mandato elettivo del sindaco o del presidente della
provincia’; la prefigurata modalità di automatismo risolutorio in caso di
dissesto o di sopravvenienza di situazioni strutturalmente deficitarie; la
possibilità di formalizzazione, sia pure eccezionalmente e motivatamente, di
contratto propriamente ‘di diritto privato’; la mancata previsione della
nomina di una commissione giudicatrice, del (necessario) svolgimento di
prove e della (correlata) formazione di formali graduatorie concorrono ad
evidenziare il triplice carattere di temporaneità, specialità e fiduciarietà
che caratterizza la procedura in questione, che –per tal via– deve
ritenersi, in conformità al comune intendimento, bensì selettiva ma non
concorsuale. (…)” (28.11.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing: elementi essenziali e onere probatorio.
Il fenomeno del mobbing, per assumere giuridica rilevanza, implica
l’esistenza di plurimi elementi, la cui prova compete al prestatore di
lavoro, di natura sia oggettiva che soggettiva e, fra questi, l’emergere di
un intento di persecuzione, che non solo deve assistere le singole condotte
poste in essere in pregiudizio del dipendente, ma anche comprenderle in un
disegno comune e unitario, quale tratto che qualifica la peculiarità del
fenomeno sociale e giustifica la tutela della vittima.
(Nella specie si trattava di scelte di politica e organizzazione aziendale
che hanno riguardato tutti i lavoratori addetti al servizio di guardiania e
custodia come eliminare dalla guardiola il frigorifero, il televisore e la
macchina del caffè, vietare ai custodi l’uso dell’alloggio nel villaggio,
adottare un orario di lavoro spezzato o in singole condotte che hanno
riguardato altri lavoratori o che hanno avuto comunque valenza generale come
l’omessa riparazione della pavimentazione all’esterno della guardiola, ma
tali condotte non avevano un intento persecutorio in danno del ricorrente) (TRIBUNALE di Lecce, Sez. lavoro, sentenza 25.11.2019 n. 3468 -
massima tratta da
www.laleggepertutti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Contenuto
avviso selezione art. 110.
Domanda
Rispetto alle caratteristiche specifiche che potrebbe avere un avviso per un
incarico ex art. 110 del d.lgs. 267/2000, quali suggerimenti potete
proporre?
Risposta
A nostro parere, queste le indicazioni specifiche che ci sentiamo di
suggerire.
L’ente dovrà strutturare l’avviso ponendo in evidenza quali sono le
caratteristiche della professionalità che si ricerca, in cosa consiste
l’alta specializzazione che si va a ricoprire e quali sono le
caratteristiche curriculari, esperienziali e formative che i candidati
debbono possedere per rispondere positivamente alla richiesta di cui sopra;
dovrà altresì chiaramente indicare requisiti, termini e modalità di
presentazione delle domande di ammissione, e criteri di attribuzione
dell’idoneità o meno; dovrà chiarire che a procedura è finalizzata
all’individuazione di soggetti idonei e alla successiva scelta di un
soggetto, tra quelli, cui sarà affidato, eventualmente, l’incarico; dovrà
chiarire la durata dell’incarico, che non potrà comunque eccedere la durata
del mandato del sindaco, e modalità ed eventuali ragioni di revoca
anticipata dello stesso.
L’ente dovrà garantire la pubblicazione su sito istituzionale, meglio nella
sezione dell’Amministrazione Trasparente e nella pagina riservata (per mera
analogia e facilità di reperimento da parte dei potenziali interessati) ai
bandi di concorso; non è assolutamente dovuta, attesa la distinzione
tracciata rispetto ai pubblici concorsi, la pubblicazione in G.U., ma ogni
forma ulteriore di pubblicità (invio per la pubblicazione all’albo di enti
limitrofi, nota su giornali locali, etc.) che l’ente voglia prevedere è
certamente nel senso dell’allargamento della partecipazione e della
trasparenza; si dovrà prevedere una comparazione delle candidature che
pervengano, da effettuarsi, appare sensato, a mezzo della valutazione dei
curricula degli eventuali candidati nonché, se lo si ritiene, attraverso un
colloquio conoscitivo; il fine è, come disposto dalla fonte legale “(…)
accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata
esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto
dell’incarico”.
La comparazione di cui sopra, e la conseguente valutazione del candidato
idoneo alla copertura del posto di che trattasi, potrà essere svolta da una
“commissione”, costituita presso l’ente ad hoc; se lo si
ritiene, in analogia (unicamente per ragioni di “operatività”) con
quelle che si costituiscono per i concorsi, secondo le previsioni del
regolamento comunale in materia; nulla vieta, però, che l’ente individui,
motivando il tutto in seno alla relativa determinazione, altre modalità per
la composizione della commissione, stabilendo, ancora a mero titolo di
esempio, che ne facciano parte il segretario generale, il responsabile di
servizio competente, altro responsabile di servizio che abbia attinenza con
la figura che si intende coprire: è essenziale, però, che la composizione
della commissione abbia natura tecnica, evitando, per ovvie ragioni, il
coinvolgimento di organi politici.
La commissione potrà opportunamente redigere un verbale dei propri lavori,
nel quale motivare le valutazioni attribuite ai curricula e ai colloqui, non
pervenendo all’emanazione di una graduatoria, quanto piuttosto a un giudizio
di idoneità o inidoneità all’incarico (non casualmente il supremo giudice
amministrativo si spinge a definire la procedura de qua come procedura
idoneativa): gli idonei potranno essere più d’uno, ma non si potrà in alcun
modo, successivamente, far ricorso a quella “lista” di idonei per
ulteriori assunzioni.
Una volta terminato il proprio compito, stante, per usare l’espressione del
giudice amministrativo, la natura comunque “fiduciaria”
dell’incarico, appare ragionevole che la commissione rassegni gli esiti del
proprio lavoro al sindaco, perché compia la propria scelta in considerazione
degli elementi che la commissione stessa ha potuto porre alla sua
attenzione, effettuando se lo ritiene anche un ulteriore colloquio con
l’interessato o gli interessati, e adottando infine, se lo ritiene, il
decreto di nomina. Nell’avviso sarà utile precisare che il sindaco si
riserva comunque di non scegliere alcuno dei candidati ritenuti idonei, se
non intende farlo per ragioni ulteriori e rimesse alla sua valutazione.
L’iter indicato sopra, che vuole essere un suggerimento per l’ente nel non
semplice tentativo di regolare operativamente un procedimento che è più
facilmente definibile per ciò che non è piuttosto che per ciò che è, sembra
rispettoso, a parere di chi scrive, di quanto evidenziato tanto a livello
normativo che dalla giurisprudenza più recente. Naturalmente, come sempre e
ancor di più, la motivazione posta alla base delle scelte compiute nelle
varie fasi, è fondamento importantissimo per il buon esito dell’intero
procedimento e per prevenire, per quanto possibile, l’insorgenza di
contenziosi (21.11.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Danno
erariale al sindaco per l'incarico dirigenziale a un funzionario senza
laurea.
Il sindaco che attribuisce un incarico dirigenziale a un funzionario non
laureato arreca un danno erariale al Comune.
Lo ha stabilito la corte dei Corte dei conti del Veneto, con la
sentenza 20.11.2019 n. 182,
con la quale ha condannato il sindaco di un Comune al risarcimento di un
danno erariale per oltre 78 mila euro, a seguito del decreto di conferimento
di un incarico dirigenziale a un funzionario privo del necessario diploma di
laurea.
L'attribuzione dell'incarico a tempo determinato, con decorrenza dal giugno
2013 al maggio 2018, era avvenuta con un decreto del sindaco adottato ai
sensi dell'articolo 110 del Tuel, che disciplina gli incarichi a contratto.
L'argomentazione addotta dai giudici a sostegno della pesante condanna fa
perno sul fatto che quest'ultimo articolo consente la copertura dei posti di
qualifica dirigenziale mediante contratto a tempo determinato «fermi
restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire».
Il requisito della laurea
L'impianto normativo connesso a questo disposto non lascia dubbi in ordine
alla necessità del diploma di laurea per l'accesso alla dirigenza della Pa.
In particolare, l'articolo 19 del Dlgs 165/2001 (testo unico sul pubblico
impiego), con riguardo all'attribuzione degli incarichi dirigenziali a tempo
determinato, fa espresso riferimento alla formazione universitaria e post
universitaria ai fini della verifica della competenza professionale, mentre
l'articolo 28 del medesimo decreto, per quanto riguarda l'accesso alle
qualifiche dirigenziali a tempo indeterminato, prevede anch'esso la
necessità del possesso di titolo di laurea.
Tenuto conto di ciò, il decreto illegittimo ha comportato il riconoscimento
al funzionario di un trattamento economico superiore a quello che gli
sarebbe spettato se l'incarico gli fosse stato attribuito con il
riconoscimento di una posizione organizzativa, e per questo la Corte ha
addebitato al sindaco un danno pari alla differenza retributiva tra le due
posizioni in organico per tutto il periodo di svolgimento dell'incarico.
Il collegio ha respinto l'argomentazione difensiva secondo cui il sindaco
non avrebbe avuto alternative nella scelta del funzionario (dato che era
l'unico dipendente di categoria D disponibile ad assumere l'incarico), senza
tener conto del fatto che la nomina avrebbe fatto risparmiare al Comune i
costi di un conferimento di incarico dirigenziale a un soggetto esterno.
Al contrario, i giudici hanno sostenuto che «esistevano nell'organico
dell'ente altre professionalità a cui attribuire l'incarico», mentre per
quanto concerne il presunto risparmio di spesa la difesa del sindaco «nulla
ha argomentato in merito alla possibilità di affidare la responsabilità
dell'area a un funzionario di categoria D mediante l'istituto della
posizione organizzativa».
La colpa grave
La sezione ha poi ravvisato i connotati di una colpa grave nella condotta
del primo cittadino, in quanto in materia si è ormai consolidato «un
quadro normativo chiaro, privo di insidie sul piano ermeneutico, anche alla
luce della concorde e costante giurisprudenza amministrativa».
A nulla è valso il tentativo della difesa nel sostenere un coinvolgimento di
altri organi comunali nella responsabilità decisionale per il conferimento
dell'incarico dirigenziale illegittimo.
Secondo i giudici la circostanza che, a monte del decreto in questione, la
giunta comunale avesse adottato un piano di fabbisogno del personale
prevedendo la copertura del posto di qualifica dirigenziale mediante
contratto a tempo determinato con incarico in base all'articolo 110 del Tuel
non ha escluso neppure parzialmente la responsabilità del convenuto.
La decisione di giunta, infatti, atteneva unicamente alle modalità di
copertura del posto, e non all'individuazione del soggetto al quale
l'incarico avrebbe dovuto essere conferito da parte del sindaco, nella veste
di titolare della funzione di scelta del responsabile dell'ufficio.
Il segretario generale, chiamato a sua volta in causa dal sindaco in qualità
di soggetto titolare delle «funzioni di assistenza
giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente in ordine alla
conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto e ai
regolamenti» (articolo 97 del tuel), è stato scagionato dal collegio per
aver rappresentato al sindaco subito dopo l'adozione del decreto,
verbalmente e per iscritto, i profili di illegittimità dell'avvenuto
conferimento dell'incarico.
In definitiva, l'addebito del danno erariale è stato posto interamente a
carico del sindaco dell'ente, individuato dalla Corte quale titolare
esclusivo del potere di esercitare la funzione di scelta dell'incarico, con
esclusione peraltro della cosiddetta «esimente politica», riferibile
ai soli atti rientranti nella competenza di uffici tecnici o amministrativi
e approvati, autorizzati o eseguiti in buona fede dagli organi politici (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
10.12.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Accesso alla dirigenza e responsabilità erariale
per mancanza del diploma di laurea.
In materia di conferimento di incarichi dirigenziali a
tempo determinato negli enti locali, la normativa di settore (d.lgs.
267/2000), nell’individuarne la disciplina (art. 110), ha rinviato, quanto a
requisiti e presupposti, alla generale disciplina del pubblico impiego (D.lgs.
29/1993 prima e, poi, D.lgs. 165/2001) e, quindi, all’art. 19 del D.lgs.
165/2001 (la cui applicazione agli enti locali è stata espressamente
prevista dal D.lgs. 150/2009, benché in giurisprudenza, anche di questa
Corte, non si fosse mancato di sottolinearne, anche in precedenza, l’estensibilità
oltre l’impiego statale in quanto rappresentativa di principio generale)
che, al comma 6, stabilisce i requisiti per il conferimento di incarichi
dirigenziali a tempo determinato, prevedendo la concorrenza del requisito
culturale della formazione universitaria con il requisito professionale
dell’esperienza quinquennale in posizioni funzionali previste per l’accesso
alla dirigenza.
Tale ultima disposizione, nel testo
in vigore all’epoca dei fatti (2013) e, cioè, successivamente alle modifiche
apportate dall’art. 40 del D.lgs n. 150/2009, aveva una formulazione
letterale che non poteva (e non può) lasciare adito a dubbio ermeneutico
alcuno in relazione al necessario possesso del titolo di studio della
laurea: la “particolare specializzazione professionale” che è
requisito per l’attribuzione dell’incarico, infatti, deve essere comprovata
“dalla formazione universitaria e postuniversitaria, post universitaria,
da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro…”.
Requisito culturale e di esperienza lavorativa dunque, non possono in alcun
modo essere ritenuti, anche solo sulla base della littera legis,
alternativi tra loro, ma debbono, coerentemente con la ratio legis,
sussistere congiuntamente.
Invero, “il criterio secondo il
quale il legislatore ha inteso disciplinare l’immissione nell’esercizio di
funzioni dirigenziali di soggetti, quali essi siano, in precedenza già non
investiti di tale qualifica, risulta evidentemente informato alla volontà di
acquisire professionalità estranee, tali da presentare qualità aggiuntive e
comunque non minori rispetto ai già elevati requisiti previsti per le nomine
di funzionari appartenenti ai ruoli dirigenziali. Tanto premesso, consegue
da ciò attraverso una lettura sistematica dell’art. 19, c. 6, che la facoltà
da tale norma prevista richiede, nei suoi destinatari, il concorrente
possesso di una particolare specializzazione, sia professionale, che
culturale e scientifica; quando si passi all’accertamento di tali requisiti,
in relazione alle funzioni da attribuire, l’interprete, dal canto suo, non
può sottrarsi alla verifica, sotto ogni profilo, della presenza di tutti gli
elementi che complessivamente rendono il soggetto idoneo all’incarico. Ne
discende che, ferma rimanendo l’esigenza dell’accertamento di un livello di
formazione culturale identificabile nel possesso della laurea, gli elementi
che configurano e completano in estranei il profilo della professionalità
debbano, insieme ad altri, ricavarsi dal già disimpegnato esercizio di
funzioni almeno di pari rilevanza di quelle previste nel nuovo compito.
Quindi, oltre all’accertato possesso di sufficiente formazione culturale, in
un contesto normativo in cui è però prevista l’attribuzione di incarichi
dirigenziali previa verifica della sussistenza di livelli di formazione
particolarmente elevati, occorre che la valutazione venga estesa ad un
puntuale esame dei curricula degli incaricandi”.
L’aver conferito, da parte del convenuto, un incarico dirigenziale a
soggetto non in possesso di diploma di laurea costituisce una violazione
delle predette disposizioni, integrando l’elemento oggettivo della
responsabilità amministrativa.
--------------
In relazione all’elemento soggettivo, ritiene il Collegio che la condotta
del convenuto sia connotata, come prospettato dalla Procura regionale, da
colpa grave.
Invero, il
decreto di conferimento dell’incarico è, formalmente e sostanzialmente, atto
proprio del Sindaco, adottato nell’ambito di funzioni ad esso attribuite in
via esclusiva dal TUEL e dal Regolamento comunale di organizzazione degli
uffici e dei servizi del Comune
La circostanza che, a monte del decreto in questione, la Giunta Comunale,
organo al quale compete la programmazione in materia di personale ex art.
48, comma 2, TUEL, avesse deciso -appunto all’interno di un atto programmatorio a valenza generale quale il Piano occupazionale-
la “copertura del
posto di qualifica dirigenziale dell’Area II “servizi economico-finanziari e tributari” mediante contratto a tempo determinato” con
incarico ai sensi dell’art. 110 TUEL, anziché ricorrere ad altre opzioni
(incarico a tempo determinato a personale esterno, concorso pubblico,
attribuzione di posizione organizzativa) non vale ad escludere, neppure
parzialmente, la responsabilità del convenuto.
Tale decisione, infatti, attiene unicamente alle modalità di copertura del
posto, non alla individuazione e alla scelta del soggetto al quale
l’incarico avrebbe dovuto essere conferito, queste ultime riferibili
unicamente alla volontà del titolare del potere di esercitare la relativa
funzione: il sindaco, appunto.
Né la circostanza che il personale apicale degli uffici o il segretario
comunale fossero tenuti alla predisposizione dell’atto vale ad escludere in
capo al sindaco la responsabilità dell’atto stesso, a ripartirla o ad
attenuarla: si tratta, infatti, di compito di mera redazione materiale del
documento, non di una (com)partecipazione alla formazione della volontà che
nel documento si trasfonde dando, appunto, origine all’atto; la scelta del
soggetto destinatario dell’incarico (e, quindi, la valutazione della
sussistenza della speciale professionalità richiesta dalla norma) è di
esclusiva pertinenza del Sindaco.
--------------
Nell’attuale assetto normativo regolante la figura ed il ruolo del
segretario comunale, dopo l’intervento della legge 127/1997 (che ha abrogato
il parere preventivo obbligatorio di legittimità del segretario sugli atti
degli organi collegiali), al segretario sono attribuite funzioni meramente
consultive e di assistenza agli organi del comune –la cui ampiezza, peraltro,
è delimitata dalla introduzione della figura del Direttore generale- e di
coordinamento dell’attività dei dirigenti, ma non certo funzioni di
amministrazione attiva.
La mera
sottoscrizione degli atti di Giunta e Consiglio comunale quale soggetto verbalizzatore (art. 97, comma 3, TUEL) assolve ad una specifica funzione
redazionale e certificativa, propria del Segretario, che non comporta alcuna
responsabilità diversa da quella di registrazione dei fatti e delle volontà
in conformità a quanto avvenuto nella seduta e, perciò, esterna ed estranea
al processo formativo delle volontà espresse dagli organi collegiali a
seguito di deliberazione (ed, in ipotesi, causative di danno).
--------------
Il conferimento di incarico dirigenziale ex art. 110 TUEL è atto proprio del
Sindaco dal quale è causalmente derivato il contestato danno al Comune con il pagamento di competenze retributive ad un
soggetto privo della professionalità necessaria per la copertura
dell’incarico illegittimamente conferito.
Invero, l’illegittimità dell’incarico conferito a soggetto privo dei requisiti di
studio richiesti dalla norma ha causato all’amministrazione un ingiusto
pregiudizio economico: il danno in caso di prestazioni rese in mancanza del
prescritto titolo di studio e professionale è insito nella lesione della
violazione del sinallagma contrattuale, dal momento che alla retribuzione
percepita non corrisponde una prestazione adeguatamente commisurata e
qualitativamente corrispondente alla professionalità richiesta.
---------------
Oggetto del presente giudizio è la responsabilità risarcitoria del
convenuto, all’epoca Sindaco pro tempore del Comune di Villafranca di
Verona, per l’illegittimo conferimento di incarico dirigenziale intra
dotazione organica, a tempo determinato, ad un dipendente dell’ente poiché
sprovvisto dell’imprescindibile requisito del diploma di laurea, così come
previsto dalla disciplina di rango primario vigente all’atto del
conferimento dell’incarico medesimo, nel giugno 2013.
Secondo la prospettazione della Procura Regionale, il possesso del titolo di
studio della laurea, non solo era un requisito obbligatoriamente richiesto,
ma emergeva in modo chiaro e puntuale dal complesso delle disposizioni
normative regolanti la materia, circostanza che di per sé impediva il venir
meno della gravità delle colpa.
A tale conclusione la Procura è pervenuta in considerazione dell'art. 110
del D.lgs. 267/2000, che prevede che la copertura dei posti di qualifica
dirigenziale possa avvenire mediante contratto a tempo determinato “fermi
restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire”, dell’art.
19 del D.Lgs. 165/2001 -divenuto applicabile a tutte le amministrazioni di
cui all’art. 1, comma 2, del D.lgs. 165/2001 in forza dell’art. 40, comma 1,
lett. f), del D.lgs. 150/2009-, che disciplina il conferimento di incarichi
dirigenziali a tempo determinato e fa riferimento alla “particolare
specificazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla
formazione universitaria e postuniversitaria”, e infine dell’art. 28 del
D.Lgs. 165/2001 che, benché riferito alle nomine in ruolo dei dirigenti per
le quali, appunto, è richiesto il diploma di laurea, è da considerarsi norma
di generale applicazione, anche per ragioni di logica e coerenza del
sistema.
Si tratterebbe di un quadro normativo chiaro, privo di insidie sul piano
ermeneutico, anche alla luce della concorde e costante giurisprudenza
amministrativa da un lato e, dall’altro, della stessa Corte dei Conti, più
volte intervenuta nella materia de qua anche in sede di controllo di
legittimità (Sez. Centr. Contr. Leg. n. 31/2001, n. 3/2003) che in sede
consultiva di controllo (a partire dalla Sez. Contr. Lombardia n. 31/2001) e
ribadita anche dal Dipartimento della Funzione Pubblica fin dal 2008 (parere
n. 35/2008).
La difesa del convenuto non ha formulato contestazioni circa le norme
applicabili, al momento dell’adozione del decreto sindacale n. 11 del
18.06.2013, al conferimento di incarichi dirigenziali ai sensi dell’art. 110
del TUEL -e, quindi, in relazione alla necessità del possesso del requisito
della laurea-, tuttavia ha rappresentato che tale quadro normativo, in ogni
caso farraginoso e di non semplice ricostruzione a causa della tecnica
normativa del rinvio mobile, solo a partire dalla riforma del 2009 non
poneva dubbi interpretativi circa i requisiti professionali e di studio
necessari per il conferimento di incarichi dirigenziali.
In precedenza, infatti, la formulazione letterale dell’art. 19, comma 6, del
D.lgs. 165/2001, elencando i requisiti possesso di laurea/esperienza in
maniera disgiuntiva, consentiva di ritenere legittimo il conferimento di
incarico anche a soggetti non in possesso del titolo di studio, ma in
possesso di concreta esperienza di lavoro maturata presso pubbliche
amministrazioni; solo dopo il d.lgs. 150/2009, il testo della disposizione è
stato mutato in modo tale da non lasciare spazio a soluzioni ermeneutiche
diverse circa la necessaria compresenza di entrambi i requisiti.
Osserva il Collegio che l’adozione da parte dell’odierno convenuto,
all’epoca dei fatti Sindaco pro tempore del Comune di Villafranca di
Verona, del decreto n. 11 del 18.06.2013 integra una condotta antigiuridica,
essendo condivisibile la ricostruzione del quadro normativo applicabile alla
fattispecie dedotta dalla Procura Regionale e, nella sostanza, condivisa
anche dalla difesa del convenuto.
Come già ricordato, in materia di conferimento di incarichi dirigenziali a
tempo determinato negli enti locali, la normativa di settore (d.lgs.
267/2000), nell’individuarne la disciplina (art. 110), ha rinviato, quanto a
requisiti e presupposti, alla generale disciplina del pubblico impiego (D.lgs.
29/1993 prima e, poi, D.lgs. 165/2001) e, quindi, all’art. 19 del D.lgs.
165/2001 (la cui applicazione agli enti locali è stata espressamente
prevista dal D.lgs. 150/2009, benché in giurisprudenza, anche di questa
Corte, non si fosse mancato di sottolinearne, anche in precedenza, l’estensibilità
oltre l’impiego statale in quanto rappresentativa di principio generale)
che, al comma 6, stabilisce i requisiti per il conferimento di incarichi
dirigenziali a tempo determinato, prevedendo la concorrenza del requisito
culturale della formazione universitaria con il requisito professionale
dell’esperienza quinquennale in posizioni funzionali previste per l’accesso
alla dirigenza.
Osserva a tal proposito il Collegio che tale ultima disposizione, nel testo
in vigore all’epoca dei fatti (2013) e, cioè, successivamente alle modifiche
apportate dall’art. 40 del D.lgs n. 150/2009, aveva una formulazione
letterale che non poteva (e non può) lasciare adito a dubbio ermeneutico
alcuno in relazione al necessario possesso del titolo di studio della
laurea: la “particolare specializzazione professionale” che è
requisito per l’attribuzione dell’incarico, infatti, deve essere comprovata
“dalla formazione universitaria e postuniversitaria, post universitaria,
da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro…”.
Requisito culturale e di esperienza lavorativa dunque, non possono in alcun
modo essere ritenuti, anche solo sulla base della littera legis,
alternativi tra loro, ma debbono, coerentemente con la ratio legis,
sussistere congiuntamente.
Come osservato, infatti, già prima dell’intervento del legislatore del 2009
dalla Sezione del controllo di legittimità su atti del Governo di questa
Corte con la delibera n. 3/2003 del 09.01.2003, “il criterio secondo il
quale il legislatore ha inteso disciplinare l’immissione nell’esercizio di
funzioni dirigenziali di soggetti, quali essi siano, in precedenza già non
investiti di tale qualifica, risulta evidentemente informato alla volontà di
acquisire professionalità estranee, tali da presentare qualità aggiuntive e
comunque non minori rispetto ai già elevati requisiti previsti per le nomine
di funzionari appartenenti ai ruoli dirigenziali. Tanto premesso, consegue
da ciò attraverso una lettura sistematica dell’art. 19, c. 6, che la facoltà
da tale norma prevista richiede, nei suoi destinatari, il concorrente
possesso di una particolare specializzazione, sia professionale, che
culturale e scientifica; quando si passi all’accertamento di tali requisiti,
in relazione alle funzioni da attribuire, l’interprete, dal canto suo, non
può sottrarsi alla verifica, sotto ogni profilo, della presenza di tutti gli
elementi che complessivamente rendono il soggetto idoneo all’incarico. Ne
discende che, ferma rimanendo l’esigenza dell’accertamento di un livello di
formazione culturale identificabile nel possesso della laurea, gli elementi
che configurano e completano in estranei il profilo della professionalità
debbano, insieme ad altri, ricavarsi dal già disimpegnato esercizio di
funzioni almeno di pari rilevanza di quelle previste nel nuovo compito.
Quindi, oltre all’accertato possesso di sufficiente formazione culturale, in
un contesto normativo in cui è però prevista l’attribuzione di incarichi
dirigenziali previa verifica della sussistenza di livelli di formazione
particolarmente elevati, occorre che la valutazione venga estesa ad un
puntuale esame dei curricula degli incaricandi”.
L’aver conferito, da parte del convenuto, un incarico dirigenziale a
soggetto non in possesso di diploma di laurea costituisce una violazione
delle predette disposizioni, integrando l’elemento oggettivo della
responsabilità amministrativa.
In relazione all’elemento soggettivo, ritiene il Collegio che la condotta
del convenuto sia connotata, come prospettato dalla Procura regionale, da
colpa grave.
Contrariamente, infatti, a quanto sostenuto dalla difesa del convenuto,
il
decreto di conferimento dell’incarico è, formalmente e sostanzialmente, atto
proprio del Sindaco, adottato nell’ambito di funzioni ad esso attribuite in
via esclusiva dal TUEL e dal Regolamento comunale di organizzazione degli
uffici e dei servizi del Comune di Villafranca di Verona (art. 50, comma 10,
TUEL: “Il sindaco e il presidente della provincia nominano i responsabili
degli uffici e dei servizi, attribuiscono e definiscono gli incarichi
dirigenziali e quelli di collaborazione esterna secondo le modalità ed i
criteri stabiliti dagli articoli 109 e 110, nonché dai rispettivi statuti e
regolamenti comunali e provincia”; Art. 109 TUEL: (Conferimento di
funzioni dirigenziali) “1. Gli incarichi dirigenziali sono conferiti a
tempo determinato, ai sensi dell'articolo 50, comma 10, con provvedimento
motivato e con le modalità fissate dal regolamento sull'ordinamento degli
uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza professionale, in
relazione agli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o
del presidente della provincia (…)”; art, 12, comma 1, lett. c), del
Regolamento secondo cui spetta al Sindaco “l’attribuzione e la
definizione degli incarichi dirigenziali ai responsabili di area” e art.
60, comma 1, dello Statuto comunale: “(Incarichi dirigenziali) 1. L’atto
del Sindaco di conferimento o revoca degli incarichi dirigenziali è adottato
sentita la Giunta e il Direttore Generale, se nominato o il Segretario
Generale.”).
La circostanza che, a monte del decreto in questione, la Giunta Comunale,
organo al quale compete la programmazione in materia di personale ex art.
48, comma 2, TUEL, avesse deciso -appunto all’interno di un atto programmatorio a valenza generale quale il Piano occupazionale: D.G.C. n. 90
del 2013, cfr. doc. 16 allegato all’atto di citazione- la “copertura del
posto di qualifica dirigenziale dell’Area II “servizi economico-finanziari e tributari” mediante contratto a tempo determinato” con
incarico ai sensi dell’art. 110 TUEL, anziché ricorrere ad altre opzioni
(incarico a tempo determinato a personale esterno, concorso pubblico,
attribuzione di posizione organizzativa) non vale ad escludere, neppure
parzialmente, la responsabilità del convenuto.
Tale decisione, infatti, attiene unicamente alle modalità di copertura del
posto, non alla individuazione e alla scelta del soggetto al quale
l’incarico avrebbe dovuto essere conferito, queste ultime riferibili
unicamente alla volontà del titolare del potere di esercitare la relativa
funzione: il sindaco, appunto.
Né la circostanza che il personale apicale degli uffici o il segretario
comunale fossero tenuti alla predisposizione dell’atto vale ad escludere in
capo al sindaco la responsabilità dell’atto stesso, a ripartirla o ad
attenuarla: si tratta, infatti, di compito di mera redazione materiale del
documento, non di una (com)partecipazione alla formazione della volontà che
nel documento si trasfonde dando, appunto, origine all’atto; la scelta del
soggetto destinatario dell’incarico (e, quindi, la valutazione della
sussistenza della speciale professionalità richiesta dalla norma) è di
esclusiva pertinenza del Sindaco.
La difesa del ricorrente, poi, attribuisce al Segretario comunale, che con
il suo comportamento reticente avrebbe omesso di rappresentare alla Giunta e
al Sindaco l’esistenza di profili di illegittimità, l’aver indotto in errore
gli organi politici, privando il Sindaco in particolare di “scegliere
diversamente da come ha fatto” (pag. 18 comparsa).
Anche a prescindere dalla contraddittorietà dell’argomentazione difensiva,
avendo lo stesso convenuto in precedenza sostenuto che la scelta del rag.
Da. per l’attribuzione dell’incarico dirigenziale “si presentava
sostanzialmente come obbligata” (pag. 10 comparsa) essendo quest’ultimo
l’unico dipendente di categoria D disponibile ad assumere l’incarico,
nell’attuale assetto normativo regolante la figura ed il ruolo del
segretario comunale, dopo l’intervento della legge 127/1997 (che ha abrogato
il parere preventivo obbligatorio di legittimità del segretario sugli atti
degli organi collegiali), al segretario sono attribuite funzioni meramente
consultive e di assistenza agli organi del comune –la cui ampiezza, peraltro,
è delimitata dalla introduzione della figura del Direttore generale- e di
coordinamento dell’attività dei dirigenti, ma non certo funzioni di
amministrazione attiva.
Risulta in atti che il segretario comunale di Villafranca di Verona abbia
assolto al proprio compito di consulenza/assistenza, avendo rappresentato al
Sindaco i profili di illegittimità del decreto di conferimento
dell’incarico, sia per le vie brevi prima sia formalmente con PEC nei giorni
immediatamente successivi all’adozione: la Procura ha prodotto, infatti,
copia della comunicazione scritta che la medesima ha dichiarato di aver
consegnato brevi manu al Sindaco e inviato tramite PEC.
La difesa del convenuto ha contestato la veridicità della circostanza,
peraltro confermata dalla medesima Segretario in sede di audizione (doc. 33
Procura), producendo sub doc. 9 una nota (erroneamente qualificata come
dichiarazione) a firma del Vice Segretario generale del Comune di
Villafranca di Verona, dr. Bo., con la quale lo stesso trasmette al
difensore un file di excel (non prodotto in atti) contenente l’elenco degli
atti protocollati in arrivo nel periodo 21.06.2013-30.06.2010, evidenziando
che con le chiavi di ricerca “sindaco” e “Fa.” non si producono
risultati.
E’ di tutta evidenza che, anche al di là della considerazione per cui il
file predetto, in assenza di iniziative processuali di parte convenuta
diverse dalla prova testimoniale richiesta –inammissibile sia per l’omessa
formulazione di specifici capitoli, ma anche irrilevante per le ragioni che
seguiranno-, non avrebbe certo potuto essere acquisito d’ufficio agli atti
del giudizio -con la conseguenza che la mera cognizione dell’ esistenza di
un file non consente di valutarne il contenuto- e anche a voler superare
ogni questione in merito alla natura e alla capacità probatoria di un file
in assenza di forme di certificazione circa la sua completezza, autenticità
ed effettiva corrispondenza con i dati del server (se il protocollo è
elettronico) ovvero dei registri (se il protocollo è cartaceo) del Comune,
l’estratto del protocollo generale dell’ente dal quale non risulta
l’avvenuta protocollazione di una comunicazione, potrebbe unicamente
attestare, appunto, che al protocollo generale non risulta acquisito un
documento, ma non può escludere, in assoluto, che tale documento esista o
sia stato consegnato al destinatario.
E ciò a maggior ragione se si considera che il documento allegato dal
Segretario al proprio esposto (doc. 1 Procura) porta un numero del
protocollo riservato (il n. 89 del 2013: il relativo registro –non prodotto
né offerto in produzione- è conservato nell’Ufficio del Segretario, come
risulta dalla dichiarazione resa dalla d.ssa Sa. in sede di
audizione), circostanza che di certo spiega l’assenza di numero di
protocollo generale e che non è stata oggetto di contestazione alcuna da
parte della difesa del convenuto.
Del resto, la stessa Sa. ha espressamente confermato in audizione di
aver, dapprima, rappresentato verbalmente l’illegittimità dell’atto e di
aver, poi, consegnato la nota scritta brevi manu ed infine di averla
trasmessa anche tramite PEC.
In tale sede, peraltro, la medesima Segretario ha dichiarato anche che nei
colloqui intercorsi con il convenuto, quest’ultimo è apparso a conoscenza
del fatto che il rag. Da. non avrebbe potuto rivestire l’incarico
dirigenziale per difetto del titolo di studio, tant’è che oggetto di
discussione era la possibilità di conferire detto incarico ad altro
dipendente comunale in possesso di laurea, il dr. Gr., che seguiva le
questioni relative alla programmazione di competenza del settore finanziario
e di aver appreso dell’incarico solo successivamente al conferimento,
essendole stata consegnata una copia del relativo decreto sindacale.
A fronte di tali evidenze probatorie, ampiamente circostanziate e non incise
dalle produzioni documentali della difesa, non sembra che possa fondatamente
ritenersi che via siano state condotte omissive imputabili al Segretario
utili a escludere o ridurre la responsabilità del Sindaco.
Quanto, poi,
al ruolo del Segretario comunale in relazione alla citata delibera
della Giunta comunale che ha
approvato il piano occupazionale 2013 (che, peraltro, come si è visto, non è
causativa di danno alcuno), la mera
sottoscrizione degli atti di Giunta e Consiglio comunale quale soggetto verbalizzatore (art. 97, comma 3, TUEL) assolve ad una specifica funzione
redazionale e certificativa, propria del Segretario, che non comporta alcuna
responsabilità diversa da quella di registrazione dei fatti e delle volontà
in conformità a quanto avvenuto nella seduta e, perciò, esterna ed estranea
al processo formativo delle volontà espresse dagli organi collegiali a
seguito di deliberazione (ed, in ipotesi, causative di danno).
Priva di giuridico pregio appare, infine, l’argomentazione difensiva secondo
cui il Sindaco, organo politico, non sarebbe per ciò tenuto, nell’esercizio
delle sue funzioni e nell’adozione degli atti propri –quelli, cioè, per i
quali è titolare di competenza esclusiva quale quello di cui si tratta-,
alla conoscenza delle norme, dovendo provvedervi in sua vece gli uffici
tecnici, invocando all’uopo la giurisprudenza di questa Corte in punto di
esimente politica.
“La disposizione normativa invocata dal ricorrente, infatti, (art. 1,
comma 1-ter, della L. n. 20/1994), prevedendo che la responsabilità dei
componenti di un organo politico viene meno quando essi abbiano in buona
fede autorizzato o approvato atti di competenza di organi tecnici o
amministrativi, non tutela sempre e comunque, come sembra pretendere
l’appellante, il soggetto politico in quanto tale, ma si limita a prevedere
la sua irresponsabilità nelle sole ipotesi in cui esso abbia fatto
affidamento sull’attività gestoria svolta dai dipendenti amministrativi
della quale non abbia potuto apprezzare, per la peculiarità dei relativi
contenuti, il carattere potenzialmente lesivo.
Come ha invero correttamente osservato la Corte territoriale, la richiamata
norma si limita ad attuare il principio di separazione tra politica e
gestione amministrativa, più volte affermato dal legislatore (art. 3 d.lgs.
n. 29/1993, art. 4 d.lgs. n. 165/2001, art. 107 del d.lgs. n. 267/2000) ed
in forza del quale i poteri di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo spettano agli organi di governo delle
amministrazioni pubbliche, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e
tecnica è attribuita mediante poteri autonomi ai dirigenti, Ne segue che
tale norma non consente di ancorare sic et simpliciter l’irresponsabilità
del soggetto politico al particolare ruolo istituzionale che lo diversifica
dai dirigenti, dovendosi detta disposizione considerare inoperante quando il
soggetto stesso abbia direttamente compiuto, nell’ambito delle sue
competenze, atti causativi di danno erariale” (Sez. III App., 432/2016).
Ed è, appunto, questo il caso che ci aggrava: come già ricordato più sopra,
il conferimento di incarico dirigenziale ex art. 110 TUEL è atto proprio del
Sindaco dal quale è causalmente derivato il contestato danno al Comune di
Villafranca di Verona con il pagamento di competenze retributive ad un
soggetto privo della professionalità necessaria per la copertura
dell’incarico illegittimamente conferito.
Venendo ad esaminare il terzo elemento costitutivo della responsabilità
erariale, l’avvenuta causazione di un danno risarcibile, il Collegio osserva
che, come peraltro correttamente rappresentato dalla Procura attrice,
l’illegittimità dell’incarico conferito a soggetto privo dei requisiti di
studio richiesti dalla norma ha causato all’amministrazione un ingiusto
pregiudizio economico: il danno in caso di prestazioni rese in mancanza del
prescritto titolo di studio e professionale è insito nella lesione della
violazione del sinallagma contrattuale, dal momento che alla retribuzione
percepita non corrisponde una prestazione adeguatamente commisurata e
qualitativamente corrispondente alla professionalità richiesta, come
peraltro ormai acquisito dalla costante giurisprudenza di questa Corte (cfr.
Sez. Veneto sent. n. 107/2015; Sez. Sicilia n. 55/2014; Sez. Lombardia n.
280/2013; Sez. Toscana n. 433/2011; Sez. Sardegna n. 1246/2009; Sez.
Piemonte n. 24/2009 per citare, ex multis, alcune tra le più recenti
e, da ultimo, Sez. Campania n. 129/2017).
Alla luce di tali consolidati orientamenti, corretto appare, quindi, il
criterio di quantificazione del danno utilizzato dalla Procura e, cioè, la
differenza fra le retribuzioni percepite dal Dalgal in dipendenza
dall’incarico dirigenziale e quelle che gli sarebbero spettate qualora
avesse ricevuto il riconoscimento di una posizione organizzativa quale
funzionario di cat. D5 (questa sì, legittima e conforme alla normativa e
alle disposizioni contrattuali applicabili ratione temporis: “ART.
8 - Area delle posizioni organizzative.
1. Gli enti istituiscono posizioni di lavoro che richiedono, con assunzione
diretta di elevata responsabilità di prodotto e di risultato:
a) lo svolgimento di funzioni di direzione di unità organizzative
di particolare complessità, caratterizzate da elevato grado di autonomia
gestionale e organizzativa;
b) lo svolgimento di attività con contenuti di alta professionalità
e specializzazione correlate a diplomi di laurea e/o di scuole universitarie
e/o alla iscrizione ad albi professionali;
c) lo svolgimento di attività di staff e/o di studio, ricerca,
ispettive, di vigilanza e controllo caratterizzate da elevate autonomia ed
esperienza.
2. Tali posizioni, che non coincidono necessariamente con quelle già
retribuite con l’indennità di cui all’art. 37, comma 4, del CCNL del
06.07.1995, possono essere assegnate esclusivamente a dipendenti
classificati nella categoria D, sulla base e per effetto d’un incarico a
termine conferito in conformità alle regole di cui all’art. 9.” CCNL del
31.03.1999).
La difesa del convenuto contesta in nuce l’esistenza di un danno
risarcibile rappresentando, al contrario, l’avvenuta realizzazione di una
economia di spesa in quanto il posto avrebbe comunque dovuto essere coperto,
con maggiori costi, con ricorso ad un dirigente esterno, argomentando in
ordine alla necessaria copertura del posto con una figura dirigenziale non
potendosi procedere ad accorpamenti di aree, ma nulla argomentando in merito
alla possibilità di affidare la responsabilità dell’area ad un funzionario
di cat. D mediante l’istituto della posizione organizzativa,
contrattualmente previsto (ed applicabile al caso de quo), appunto
oggetto di contestazione da parte della Procura Regionale.
In conclusione, sussistendone tutti i presupposti, deve essere dichiarata la
responsabilità erariale del convenuto per i fatti di cui è causa e lo stesso
deve essere condannato al risarcimento del danno in favore del Comune di
Villafranca di Verona.
Per le ragioni ampiamente più sopra esposte in merito alla solo presunta
compartecipazione di soggetti terzi (Giunta comunale/Segretario Comunale)
alla formazione della volontà sottostante al decreto di conferimento
dell’incarico, ritiene il Collegio non ricorrere nemmeno i presupposti per
l’applicazione del potere riduttivo, così come richiesto dalla difesa.
In conclusione, la domanda attorea deve essere accolta e il convenuto
condannato al risarcimento in favore del Comune di Villafranca di Verona del
danno complessivamente derivante dai fatti di cui è causa e quantificato in
euro 78.120,00, somma comprensiva della rivalutazione monetaria, oltre agli
interessi legali dalla data della sentenza al saldo effettivo.
Ai sensi dell’art. 31 del c.g.c. il convenuto va inoltre condannato al
pagamento delle spese di giustizia, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Sezione Giurisdizionale Regionale per il Veneto della Corte dei Conti,
ogni diversa e/o contraria domanda od eccezione respinta, definitivamente
pronunciando nel giudizio iscritto al n. 30799 del registro di segreteria
promosso dal Procuratore Regionale nei confronti di Fa.Ma.;
- respinge l’eccezione preliminare di prescrizione;
- in accoglimento della domanda avanzata dalla Procura Regionale
condanna Fa.Ma. al risarcimento del danno nei confronti del Comune di
Villafranca di Verona di euro 78.120,00 (settantottomilacentoventi/00),
somma comprensiva della rivalutazione monetaria, oltre interessi dalla data
della sentenza fino al saldo effettivo (Corte dei Conti Veneto,
sentenza 20.11.2019 n. 182). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Cedere
la propria firma digitale quali reati comporta?
È possibile avere qualche riferimento normativo e
giurisprudenziale nel quale si dispone la sanzione, sia al soggetto che cede
la propria firma digitale, sia al soggetto che impropriamente la usa al
posto del legittimo titolare?
Punto di partenza della riflessione è la norma prevista nel “Codice
dell’Amministrazione digitale” (“Cad”).
L’art. 32, comma 1, del “Cad”, dispone che “il titolare del
certificato di firma è tenuto ad assicurare la custodia del dispositivo di
firma o degli strumenti di autenticazione informatica per l’utilizzo del
dispositivo di firma da remoto, e ad adottare tutte le misure organizzative
e tecniche idonee ad evitare danno ad altri; è altresì tenuto ad utilizzare
personalmente il dispositivo di firma”.
Inoltre, l’art. 21 sempre del “Cad” prevede che “l’utilizzo del
dispositivo di firma elettronica qualificata o digitale si presume
riconducibile al titolare, salvo che questi dia prova contraria”.
Dalla lettura di queste disposizioni emerge chiaramente la volontà del
Legislatore di assicurare un uso affidabile del dispositivo di firma
digitale che, a differenza della firma autografa, ha delle debolezze nella
certa riconducibilità al suo titolare. Del resto, l’associazione “titolare/dispositivo
di firma” è “asettica”, basandosi unicamente su un processo di
identificazione significativa a 2 fattori (qualcosa che hai + qualcosa che
conosci), che nella pratica si concretizza in una smart card/dispositivo usb/password
accesso al server di firma remoto più il Pin.
In altre parole, la modalità di identificazione prevista per attivare la
procedura di firma non prevede un riconoscimento biometrico che obblighi la
presenza del titolare.
La mancanza, poi, di qualsiasi elemento grafometrico/biometrico rende
impossibile l’attività del grafologo utile a determinare l’autenticità della
firma in caso di disconoscimento.
L’utilizzo “improprio” della firma digitale, oltre ad essere vietato
dal Legislatore, genera delle conseguenze anche sul piano giuridico
probatorio del documento amministrativo informatico prodotto. In questo
senso la giurisprudenza si è già espressa con alcune Sentenze, di cui si
menzionano degli esempi:
• Cassazione penale, Sezione V, Sentenze 27.08.2013, n. 35543 e
10.03.2009, n. 16328: “sul piano oggettivo, ai fini della sussistenza del
reato di falso in scrittura privata (art. 485 Cp.), il consenso o
l’acquiescenza della persona di cui sia falsificata la firma, non svolge
alcun rilievo, in quanto la tutela penale ha per oggetto non solo
l’interesse della persona offesa, apparente firmataria del documento, ma
anche la fede pubblica, la quale è compromessa nel momento in cui l’agente
faccia uso della scrittura contraffatta per procurare a sé un vantaggio o
per arrecare ad altri un danno; pertanto anche l’erroneo convincimento
sull’effetto scriminante del consenso costituisce una inescusabile ignoranza
della legge penale. Sul piano soggettivo, nel delitto in questione, per
l’integrazione del dolo specifico non occorre il perseguimento di finalità
illecite, poiché l’oggetto di esso è costituito dal fine di trarre un
vantaggio di qualsiasi natura, legittimo od illegittimo”;
• Cassazione penale, Sezione V, Sentenza 05.07.1990: “posto che
il verbale di ricezione di dichiarazione di appello da parte del Cancelliere
costituisce un atto pubblico facente fede fino a querela di falso, sussiste
il reato di falso in atto pubblico anche qualora tale verbale sia stato
redatto e sottoscritto da un coadiutore giudiziario col consenso del
cancelliere, […]”;
• Cassazione penale, Sezione V, Sentenze 12.07.2011, n. 32856 e
12.05.2011, n. 24917: “in tema di falsità ideologica in atto pubblico
(art. 483 Cp.), ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo è
sufficiente il dolo generico, e cioè la volontarietà e la consapevolezza
della falsa attestazione, mentre non è richiesto l’animus nocendi né
l’animus decipiendi, con la conseguenza che il delitto sussiste non solo
quando la falsità sia compiuta senza l’intenzione di nuocere ma anche quando
la sua commissione sia accompagnata dalla convinzione di non produrre alcun
danno”.
Inoltre, occorre richiamare anche alcune disposizioni del Codice penale in
merito alla falsità degli atti:
• art. 476 Cp. “Falsità materiale commessa dal pubblico
ufficiale in atti pubblici”: “il ‘Pubblico Ufficiale’, che,
nell’esercizio delle sue funzioni, forma, in tutto o in parte, un atto falso
o altera un atto vero, è punito con la reclusione da uno a 6 anni. Se la
falsità concerne un atto o parte di un atto, che faccia fede fino a querela
di falso, la reclusione è da 3 a 10 anni”;
• art. 491-bis Cp. “Documenti informatici”: “se alcuna
delle falsità previste dal presente Capo riguarda un documento informatico
pubblico avente efficacia probatoria, si applicano le disposizioni del Capo
stesso concernenti gli atti pubblici”;
• art. 493 Cp. “Falsità commesse da pubblici impiegati
incaricati di un servizio pubblico”: “le disposizioni degli articoli
precedenti sulle falsità commesse da Pubblici Ufficiali si applicano altresì
agli impiegati dello Stato, o di un altro Ente pubblico, incaricati di un
pubblico servizio, relativamente agli atti che essi redigono nell’esercizio
delle loro attribuzioni”
(20.11.2019 - tratto da www.entilocali-online.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Indennità
PO e servizi convenzionati.
Domanda
Potete spiegare il funzionamento della retribuzione di posizione in caso di
servizi convenzionati?
Risposta
Con riferimento al quesito posto, va subito fatta una precisazione. Un conto
è l’utilizzo dei dipendenti su due enti, mentre un altro conto è laddove
l’ente ha approvato una convenzione ai sensi dell’art. 30 del TUEL.
Nel primo caso, l’art. 17 del CCNL 21.05.2018, precisa che:
1) L’ente di provenienza del dipendente distaccato ad altri servizi
attribuisce la propria retribuzione di posizione, individuata secondo il
proprio sistema per la pesatura delle posizioni organizzative,
riproporzionandola in ragione delle ore effettivamente rese presso il
medesimo, senza alcuna maggiorazione;
2) gli enti presso il quale il dipendente è distaccato a operare
(leggasi: presso altri servizi, anche in convenzione, rispetto a quello del
comune di provenienza), attribuiscono la propria retribuzione di posizione,
secondo le proprie regole in materia, e “al fine di compensare la
maggiore gravosità della prestazione svolta in diverse sedi di lavoro, (…)
possono altresì corrispondere con oneri a proprio carico, una maggiorazione
della retribuzione di posizione attribuita ai sensi del precedente alinea,
di importo non superiore al 30% della stessa”.
Laddove invece ci sia, ai sensi dell’art. 30 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267,
un unico servizio convenzionato, non ricorre il presupposto per le
maggiorazioni né per le disposizioni di cui alle norme contrattuali citate,
giacché il dipendente non è chiamato ad assumere maggiori carichi e
responsabilità connessi a una prestazione frazionata su più servizi, presso
diversi enti. Il dipendente opera, e assume le proprie responsabilità,
presso l’unico servizio istituito a mezzo di convenzione tra i tre enti.
In questo caso, quindi, l’unica possibilità per il riconoscimento, in favore
del responsabile unico, di un’indennità maggiore, compatibilmente con il
sistema all’uopo definito presso l’ente di appartenenza, è l’individuazione
di una retribuzione di posizione più elevata qualora si valuti che
l’assorbimento in convenzione delle attività prima esplicate separatamente
dagli enti “deleganti” prefiguri una pesatura del servizio,
presidiato dal medesimo responsabile, più alta, pur sempre entro il limite
massimo di cui all’articolo 15, comma 2, del CCNL 21/05/2018 (Euro 16.000,00
annui).
L’ente titolare del rapporto di lavoro, pertanto, potrebbe aumentare
l’indennità di posizione in godimento, e gli enti “deleganti”
rimborsarla pro quota, secondo gli accordi convenzionali.
In tal senso, si precisa che la retribuzione di posizione (e di risultato)
attribuita presso l’ente di appartenenza, anche ove incrementata per effetto
della valutazione di cui sopra, deve essere computata, ai fini del rispetto
dell’articolo 23, comma 2, del d.lgs. 75/2017 (contenimento del salario
accessorio nel limite dell’anno 2016), a carico di ciascuno dei comuni
coinvolti sulla base di idonei criteri di riparto (14.11.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Periodo
prova stabilizzazione.
Domanda
Il dipendente assunto con stabilizzazione è soggetto al periodo di prova
previsto dall’art. 20 del CCNL sottoscritto in data 21.05.2018?
Risposta
Ai sensi del citato articolo 20 del contratto del 2018, le eccezioni
all’obbligo di superamento del periodo di prova sono contenute al comma 2
che recita: “Possono essere esonerati dal periodo di prova, con il
consenso dell’interessato, i dipendenti che lo abbiano già superato nella
medesima categoria e profilo professionale oppure in corrispondente profilo
di altra amministrazione pubblica, anche di diverso comparto. Sono, altresì,
esonerati dal periodo di prova, con il consenso degli stessi, i dipendenti
che risultino vincitori di procedure selettive per la progressione tra le
aree o categorie riservate al personale di ruolo, presso la medesima
amministrazione, ai sensi dell’art. 22, comma 15, del D.Lgs. n. 75/2017
[1].”
L’ente, invece, darà applicazione all’art. 20 “Superamento del precariato
nelle pubbliche amministrazioni” del D.Lgs. n. 75/2017, che consente
l’assunzione a tempo indeterminato, nel triennio 2018-2020, dei soggetti in
possesso di tutti i seguenti requisiti:
a) risulti in servizio successivamente alla data di entrata in
vigore della legge n. 124 del 2015 con contratti a tempo determinato presso
l’amministrazione che procede all’assunzione;
b) sia stato reclutato a tempo determinato, in relazione alle
medesime attività svolte, con procedure concorsuali anche espletate presso
amministrazioni pubbliche diverse da quella che procede all’assunzione;
c) abbia maturato, al 31.12.2017, alle dipendenze
dell’amministrazione che procede all’assunzione almeno tre anni di servizio,
anche non continuativi, negli ultimi otto anni.
L’assunzione si concretizzerà con la stipulazione del contratto di lavoro
che dovrà contenere anche l’indicazione del periodo di prova, in questo caso
pari a sei mesi. Il fatto che il lavoratore sia stato in servizio per un
periodo pregresso non esime dal superamento del periodo di prova
contrattualmente stabilito.
Tale posizione trova conferma nella sentenza della Corte di Cassazione,
Sezione lavoro, n. 21376 del 29.08.2018, con riguardo al caso di una
lavoratrice del Comparto Sanità. Si legge nella decisione che “… sia la
legge che il CCNL del Comparto Sanità impongono alle pubbliche
Amministrazioni datrici di lavoro l’espletamento del periodo di prova; la
valutazione espressa in occasione della pregressa esperienza lavorativa era
irrilevante in quanto la datrice di lavoro era tenuta a verificare in
concreto, all’esito del periodo di prova, l’idoneità della lavoratrice allo
svolgimento delle mansioni per le quali era stata assunta con contratto di
lavoro a tempo indeterminato…”.
Le norme che prevedono il superamento del periodo di prova sono richiamate
nella sentenza citata: “Come già affermato da questa Corte nella sentenza
n. 9296/2017, quest’ultima legge art. 70, comma 13, dispone, infatti, che
“in materia di reclutamento, le pubbliche amministrazioni applicano la
disciplina prevista dal D.P.R. 09.05.1994, n. 487, e successive
modificazioni ed integrazioni, per le parti non incompatibili con quanto
previsto dagli artt. 35 e 36, salvo che la materia venga regolata, in
coerenza con i principi ivi previsti, nell’ambito dei rispettivi
ordinamenti”. E l’art. 17 della richiamata fonte normativa (Assunzioni in
servizio), al comma 1, prevede che i candidati dichiarati vincitori sono
assunti in prova nel profilo professionale di qualifica o categoria per il
quale risultano vincitori, la durata del periodo di prova è differenziata in
ragione della complessità delle prestazioni professionali richieste e sarà
definita in sede di contrattazione collettiva, i provvedimenti di nomina in
prova sono immediatamente esecutivi.”
La Corte aggiunge, con riferimento al surrichiamato quadro normativo, che “…
tutte le assunzioni alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche sono
assoggettate all’esito positivo di un periodo di prova, e ciò avviene ex
lege e non per effetto di patto inserito nel contratto di lavoro
dall’autonomia contrattuale e che l’autonomia contrattuale è abilitata
esclusivamente alla determinazione della durata del periodo di prova, ma
tale abilitazione è data dalle norme esclusivamente alla contrattazione
collettiva, restando escluso che il contratto individuale possa
discostarsene (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 3).”
-----------------
[1] “Per il triennio 2018-2020, le pubbliche amministrazioni, al fine di
valorizzare le professionalità interne, possono attivare, nei limiti delle
vigenti facoltà assunzionali, procedure selettive per la progressione tra le
aree riservate al personale di ruolo, fermo restando il possesso dei titoli
di studio richiesti per l’accesso dall’esterno. Il numero di posti per tali
procedure selettive riservate non può superare il 20 per cento di quelli
previsti nei piani dei fabbisogni come nuove assunzioni consentite per la
relativa area o categoria. In ogni caso, l’attivazione di dette procedure
selettive riservate determina, in relazione al numero di posti individuati,
la corrispondente riduzione della percentuale di riserva di posti destinata
al personale interno, utilizzabile da ogni amministrazione ai fini delle
progressioni tra le aree di cui all’articolo 52 del decreto legislativo n.
165 del 2001. Tali procedure selettive prevedono prove volte ad accertare la
capacità dei candidati di utilizzare e applicare nozioni teoriche per la
soluzione di problemi specifici e casi concreti. La valutazione positiva
conseguita dal dipendente per almeno tre anni, l’attività svolta e i
risultati conseguiti, nonché l’eventuale superamento di precedenti procedure
selettive, costituiscono titoli rilevanti ai fini dell’attribuzione dei
posti riservati per l’accesso all’area superiore” (07.11.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
ottobre 2019 |
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ammissione
con riserva alle prove di un concorso.
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Concorso – Prove – Ammissione con riserva – Superamento – Conseguenza -
Definizione del ricorso nel merito – Interesse - Permane.
L’ammissione con riserva alle prove di un concorso,
anche quando il concorrente le abbia superate e risulti vincitore del
concorso, è un provvedimento cautelare che non fa venir meno l’interesse
alla definizione del ricorso nel merito, poiché tale ammissione è
subordinata alla verifica della fondatezza delle sue ragioni e, cioè, “con
riserva” di accertarne la definitiva fondatezza nel merito, senza, però,
pregiudicare nel frattempo la sua legittima aspirazione a sostenere le
prove, aspirazione che sarebbe irrimediabilmente frustrata se la sentenza a
lui favorevole sopraggiungesse all’esaurimento della procedura concorsuale e
fosse quindi, a quel punto, inutiliter data, vanificando l’effettività della
tutela giurisdizionale (1).
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(1)
Cons. St., sez. III, 18.01.2017, n. 209; id.
06.05.2016, n. 1839; id.
16.06.2015, n. 3038.
La Sezione ha ritenuto di non poter condividere il diverso orientamento (Cons.
St., sez. VI, 25.07.2019, n. 5263;
01.04.2019, n. 2155) che, in relazione all’ammissione con riserva
di studenti alla frequenza della facoltà a numero di chiuso di medicina,
ossia a fattispecie di natura comunque selettiva, pur non rilevando il testo
dell’art. 4, comma 2-bis, d.l. 30.06.2005, n. 115, ha affermato che
nondimeno “nel caso di specie, vi sia ugualmente una situazione di
affidamento, con avvio in buona fede di un articolato percorso di studio,
quasi completato, che merita un trattamento non dissimile a quello previsto
dal sopra richiamato art. 4-bis quando vi sia stato il conseguimento di una
abilitazione professionale o di un titolo nei casi ivi previsti”.
La Sezione ha ritenuto che siffatta “apertura” giustificata
essenzialmente dall’esigenza di tutela dell’affidamento nello specifico e
peculiare caso degli studenti di medicina, non possa essere considerata
espressiva di un principio generale che giunga ad estendere in via analogica
la prescrizione normativa di cui all’art. 4, comma 2-bis, cit., all’intero
ambito delle procedura selettive. Ne risentirebbe in modo inaccettabile il
principio della par conditio, e ancor prima il principio del pubblico
concorso, posto che si generebbe, in forza di una mera delibazione del
fumus e del periculum in mora in sede giudiziaria, una corsia
parallela di accesso alla professioni e ai pubblici impieghi, pur quando la
sentenza definitiva, nel pieno contradditorio tra le parti, abbia infine
accertato che le ragioni del ricorrente, beneficiario della tutela
cautelare, siano del tutto infondate.
La tutela cautelare non è la rimozione di un ostacolo procedurale interposto
dall’amministrazione, ma è solo l’effetto della protezione interinale di una
posizione giuridica, in guisa che il tempo del processo non abbia a
compromettere definitivamente le utilità cui il ricorrente aspira.
La Sezione ha escluso che la frequenza con profitto e il superamento
dell’esame finale, abbiamo di fatto ed ex post sancito che il bene della
vita è meritato; o, ancora, che sarebbe irragionevole negare il
conseguimento del titolo agli appellanti in considerazione della cronica
carenza di medici di base.
Siffatte argomentazioni obliterano che, alla luce del principio del pubblico
concorso, l’attribuzione del “bene della vita” è frutto della
competizione fra più aspiranti, in un quadro di regole trasparenti in cui “più
meritevoli” sono considerati solo coloro che legittimamente superano il
concorso, talché consentire ad alcuni di ottenere il predetto bene, senza
passare dal vittorioso esito di una competizione, non può che costituire un
pregiudizio per gli altri aspiranti, i cui posti sono attinti.
La cronica carenza dei medici, inoltre, sotto il profilo strettamente
giuridico, non rileva. E’ compito del legislatore, ove le procedure
selettive non siano sufficienti ad assicurare adeguate coperture,
individuare soluzioni e rimedi per un reclutamento straordinario che
eventualmente tenga conto dell’esistenza di medici già formati seppur
all’esito di un percorso avviatosi in forza di provvedimenti giurisdizionale
di natura cautelare (Consiglio di
Stato, Sez. III,
sentenza 29.10.2019 n. 7410 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Verifiche
sui requisiti di nomina dei componenti delle commissioni di concorso.
Domanda
Stiamo nominando una commissione di concorso per il nostro comune e i
componenti sono tutti esterni all’ente. Dobbiamo compiere delle verifiche
particolari sulla situazione dei componenti?
Risposta
La normativa in materia di prevenzione della corruzione ha interessato anche
le procedure di formazione delle commissioni di concorso, attraverso
l’articolo 1, comma 46, della legge 06.11.2012, n. 190, che ha introdotto
l’art. 35-bis, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, rubricato “Prevenzione
del fenomeno della corruzione nella formazione di commissioni e nelle
assegnazioni agli uffici”. Analoga disposizione è rinvenibile nell’art.
3, del d.lgs. 39/2013, in materia di inconferibilità ed incompatibilità di
incarichi presso le pubbliche amministrazioni.
La nuova disposizione, prevede che coloro che sono stati condannati, anche
con sentenza NON passata in giudicato, per i reati previsti nel Capo I, del
Titolo II del libro secondo del codice penale (articoli da 314 a 335-bis c.p.),
tra gli altri divieti, non possono fare parte, anche con compiti di
segreteria, di commissioni per l’accesso o la selezione a pubblici impieghi.
Come ben specificato nel comma 2, del citato articolo 35-bis, “la
disposizione prevista al comma 1 integra le leggi e regolamenti che
disciplinano la formazione di commissioni e la nomina dei relativi segretari”.
Chiarito l’ambito normativo in cui ci si muove, rispondendo al quesito, è
necessario che l’ente che ha provveduto alla nomina della commissione,
acquisisca, da ciascun componente (presidente + due componenti) e dal
segretario, prima dell’insediamento, un’apposita dichiarazione sostitutiva
di certificazione, resa dall’interessato nei termini e alle condizioni
dell’art. 46 del DPR n. 445/2000, che attesti l’assenza di condanne, anche
non definitive, per i reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica
amministrazione.
Ricevuta la dichiarazione, il servizio personale o altro ufficio del comune,
dovrà provvedere ad acquisire il certificato penale e quello dei carichi
pendenti dei quattro interessati, così da compiere la dovuta verifica sulle
dichiarazioni rese. É consigliabile che le dichiarazioni e l’acquisizione
dei certificati penali, avvenga prima dell’insediamento della commissione
giudicatrice.
Sull’argomento, a completamento informativo, si rinvia alla delibera ANAC n.
447 del 17.04.2019, con la quale l’Autorità ha ritenuto applicabile il
principio dell’inconferibilità dell’incarico di componente o di segretario
di una commissione di concorso, anche nei casi in cui la sentenza –anche non
definitiva– sia stata pronunciata non solo per reato “consumato”, ma
anche per “delitto tentato”
(29.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Scorporo
dell'IRAP dai compensi dei legali interni, Corte dei Conti in linea con la
Cassazione.
A seguito delle recenti indicazioni del giudice di legittimità (si veda il
Quotidiano degli enti locali e della Pa del 29 agosto) i giudici contabili
hanno confermato la corretta procedura di scorporo dai compensi
professionali dei legali interni dell'Irap posta a carico dell'ente.
Secondo
la Corte dei conti della Lombardia (parere
24.10.2019 n. 407), la posizione
della Cassazione rientra a pieno titolo nelle interpretazioni anche a suo
tempo fornite dai giudici contabili secondo le quali pur essendo il soggetto
passivo d'imposta il Comune e non il dipendente, tuttavia, la maggiore
imposta che il datore di lavoro dovrà corrispondere a titolo di
maggiorazione Irap, in ragione del compenso aggiuntivo liquidato al proprio
personale, rientra nel compenso lordo e da questo deve essere inizialmente
scorporato all'atto dell'iscrizione del fondo. In altri termini, non si
tratta di somme aggiuntive poste a carico del datore di lavoro pubblico ma
di una diversa componente fiscale facente parte dei medesimi compensi dovuti
ai legali interni.
Le indicazioni della Cassazione sull'Irap
Il comma 208 dell'articolo unico della legge finanziaria 2006 ha fornito una
interpretazione autentica (con effetti, quindi, retroattivi), sui compensi
professionali corrisposti al personale dell'avvocatura interna, precisando
che gli stessi avrebbero dovuto essere considerati comprensivi anche degli
oneri riflessi a carico del datore di lavoro. Pertanto, mentre i compensi
professionali avrebbero dovuto essere corrisposti al netto degli oneri
assistenziali e previdenziali a carico del datore di lavoro pubblico, nulla
era disposto in merito alla componente fiscale dell'Irap. Ciò aveva
determinato un contrasto interpretativo che è stato risolto dalle Sezioni
Riunite della Corte dei conti (deliberazione 30.06.2010 n. 33) che hanno
evidenziato come avrebbe dovuto essere ricompresa anche la maggiore imposta
che il datore di lavoro deve corrispondere a titolo di maggiorazione Irap,
in ragione del compenso aggiuntivo erogato al proprio personale.
Inoltre, in termini di copertura finanziaria, la nomofilachia contabile
aveva stabilito che gli enti locali avrebbero dovuto seguire i principi che
regolano la costituzione dei fondi, con quantificazione delle somme che
gravano sull'ente a titolo di Irap, rendendole indisponibili, e
successivamente procedere alla ripartizione dell'incentivo, corrispondendo
lo stesso ai dipendenti interessati al netto degli oneri assicurativi e
previdenziali. Ma questa precisazione, tuttavia, non risultava sufficiente
tanto da generare altri diversi orientamenti, sia nella giurisprudenza
contabile sia il quella amministrativa.
La Cassazione chiude ad interpretazioni diverse, precisando che se da una
lato, in ragione dei presupposti impositivi l'onere fiscale non può gravare
sul lavoratore dipendente, dall'altro lato la quantificazione dell'incentivo
non deve gravare sull'ente, quale conseguenza indiretta dell'erogazione del
trattamento retributivo speciale ed aggiuntivo, che comporta un innalzamento
della base imponibile. In altri termini, le disposizioni sulla provvista e
la copertura degli oneri di personale (tra cui l'Irap) si riflettono in
sostanza sulle disponibilità dei fondi per la l'avvocatura interna,
ripartibili nei confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al
netto delle risorse necessarie alla copertura dell'onere Irap gravante
sull'amministrazione.
Le conclusioni del collegio contabile
I giudici contabili della Lombardia non solo confermano le conclusioni della
Cassazione ma precisano anche che tali indicazioni erano già contenute in
proprie precedenti deliberazioni (parere
10.10.2018 n. 267 sul Quotidiano degli
enti locali e della Pa del 26 novembre), secondo cui le amministrazioni
dovranno quantificare le somme che gravano sull'ente a titolo di Irap,
rendendole indisponibili, e successivamente procedere alla ripartizione
dell'incentivo, corrispondendo lo stesso ai dipendenti interessati al netto
degli oneri assicurativi e previdenziali (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
21.11.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO:
L’Irap per gli avvocati dipendenti è a carico del Comune.
In linea con l’orientamento prevalente nella
giurisprudenza giuslavoristica, il soggetto passivo dell’imposta è
l’amministrazione comunale che deve accantonare, rendendole indisponibili,
le risorse necessarie a fronteggiare l’onere IRAP dai fondi per la
progettazione e per le avvocature interne, ripartendo successivamente
l’incentivo ai dipendenti aventi titolo, al netto degli oneri assicurativi e
previdenziali.
---------------
Con la nota sopra citata, il Sindaco del Comune di Pavia pone due quesiti in
merito alla corresponsione dei compensi professionali a favore degli
avvocati dipendenti degli enti locali (art. 9 del Decreto-legge n. 90/2014
convertito in legge con modificazioni dalla Legge n. 114/2014).
In particolare, il primo quesito riguarda l’individuazione di quali
provvedimenti degli organi giudiziari determinano la corresponsione dei
compensi professionali a favore degli avvocati dipendenti degli enti locali.
Il secondo quesito riguarda invece, sempre con riferimento ai medesimi
compensi, quale sia il soggetto passivo dell’IRAP e se questa Sezione
intenda confermare o meno gli orientamenti espressi con
parere 10.10.2018 n. 267
anche alla luce della recente
ordinanza 13.08.2019 n. 21398 della Sezione
lavoro della Corte di Cassazione, con riferimento alla valutazione se il
pagamento dell’Irap dovuta dal Comune sui compensi professionali debba
comportare o meno una corrispondente decurtazione della somma finale
corrisposta al singolo avvocato a titolo di compenso finale.
...
Con riferimento al secondo quesito posto dal Comune di Pavia, nel quale si
chiede, tra l’altro, di confermare o meno orientamenti assunti in materia da
questa stessa Sezione nel passato, occorre preliminarmente riprendere quanto
aveva già affermato la sezione con riferimento al medesimo quesito posto da
altro Comune. In particolare, la Sezione con il
parere 10.10.2018 n. 267, alla luce della ampia giurisprudenza ivi
citata, ribadiva due principi importanti che è necessario tenere distinti ai
fini della analisi del problema.
1. Per quanto riguarda il soggetto passivo del tributo, afferma: “La
Sezione ritiene che il quesito meriti una risposta negativa, nel senso che
il pagamento dell'IRAP dovuta dal Comune sui compensi professionali dei
propri avvocati non deve comportare una corrispondente decurtazione della
somma finale corrisposta al singolo avvocato a titolo di compenso
professionale, con la conseguenza che l’Amministrazione non può operare,
sugli importi corrisposti agli avvocati comunali a titolo di compensi
professionali, la trattenuta dell'IRAP.”
2. Per quanto invece riguarda la copertura degli oneri derivanti dal tributo
stesso afferma: “Si aggiunge che, proprio in quanto è l’ente pubblico ad
essere debitore d’imposta, il medesimo è tenuto a costituire, nel rispetto
dell’ordinamento contabile, la provvista necessaria al pagamento della
medesima. In particolare, in aderenza alla necessità di garantire adeguata
copertura ad una qualunque spesa gravante sulle amministrazioni pubbliche e
di rispettare il principio del pareggio di bilancio posto dall’art. 81 della
Costituzione, “le somme destinate al pagamento dell’IRAP devono trovare
preventiva copertura finanziaria in sede di costituzione dei fondi destinati
a compensare l’attività dell’avvocatura comunale” Corte dei Conti Sezioni
Riunite
deliberazione 30.06.2010 n. 33).”
A tali conclusioni la Sezione giungeva proprio alla luce della citata
delibera delle Sezioni Riunite che aveva affermato in sede nomofilattica: “Pertanto,
ai fini della quantificazione dei fondi per l’incentivazione e per le
avvocature interne, vanno accantonate, a fini di copertura, rendendole
indisponibili, le somme che gravano sull’ente per oneri fiscali, nella
specie, a titolo di Irap. Quantificati i fondi nel modo indicato, i compensi
vanno corrisposti al netto, rispettivamente, degli “oneri assicurativi e
previdenziali” e degli “oneri riflessi”, che non includono, per le ragioni
sopra indicate, l’Irap".
"Può concludersi nel senso che, mentre sul piano dell’obbligazione giuridica,
rimane chiarito che l’Irap grava sull’amministrazione (secondo blocco delle
citate disposizioni), su un piano strettamente contabile, tenuto conto delle
modalità di copertura di “tutti gli oneri”, l’amministrazione non
potrà che quantificare le disponibilità destinabili ad avvocati e
professionisti, accantonando le risorse necessarie a fronteggiare l’onere
Irap, come avviene anche per il pagamento delle altre retribuzioni del
personale pubblico (primo blocco delle citate disposizioni). Pertanto, le
disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri di personale (tra
cui l’Irap) si riflette, in sostanza, sulle disponibilità dei fondi per la
progettazione e per l’avvocatura interna ripartibili nei confronti dei
dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse necessarie
alla copertura dell’onere Irap gravante sull’amministrazione".
La più recente sentenza della Corte di Cassazione (Corte di Cassazione,
Sezione Lavoro,
ordinanza 13.08.2019 n. 21398), citata
nella richiesta di parere del Comune di Pavia, in realtà conferma appieno
questi stessi orientamenti.
Infatti, con riferimento al soggetto passivo dell’onere fiscale afferma: “la
circostanza che l'ammontare dell'imposta debba essere quantificato assumendo
a base di calcolo, ex art. 10 del richiamato d.lgs. n. 446/1997, le
retribuzioni spettanti al personale dipendente ed i compensi corrisposti ai
collaboratori autonomi, non incide sulla natura del tributo, che non
colpisce il reddito bensì il valore aggiunto prodotto dalle attività
autonomamente organizzate; ciò induce il Collegio a ritenere condivisibile
l'orientamento espresso dalla giurisprudenza contabile (Corte dei Conti,
Sezioni Riunite in sede di controllo,
deliberazione 30.06.2010 n. 33)
secondo cui, in ragione dei presupposti impositivi, l'onere fiscale non può
gravare sul lavoratore dipendente e, pertanto, si deve escludere che i commi
207 e 208 dell'art. 1 legge n. 266/2005, nella parte in cui si riferiscono,
rispettivamente, agli «oneri assistenziali e previdenziali a carico
dell'amministrazione» e, quanto al personale delle avvocature interne degli
enti pubblici, agli «oneri riflessi», possano essere interpretati nel senso
di ricomprendere anche la maggiore imposta che il datore di lavoro dovrà
corrispondere a titolo di maggiorazione IRAP, in ragione del compenso
aggiuntivo corrisposto al proprio personale;”.
Con riferimento alla questione della copertura degli oneri derivanti dal
tributo afferma: “il Collegio, pertanto, condivide e fa proprie le
conclusioni alle quali sono già pervenuti i giudici contabili secondo cui,
in sede interpretativa, l'art. 1, comma 207, della legge n. 266/2005 e
l'art. 92 del d.lgs. 163/2006, che del primo ripete il contenuto, vanno
armonizzati con i principi che regolano la costituzione dei fondi, con la
conseguenza che le amministrazioni dovranno quantificare le somme che
gravano sull'ente a titolo di IRAP, rendendole indisponibili, e
successivamente procedere alla ripartizione dell'incentivo, corrispondendo
lo stesso ai dipendenti interessati al netto degli oneri assicurativi e
previdenziali;
in altri termini «le disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri
di personale (tra cui l'IRAP) si riflettono in sostanza sulle disponibilità
dei fondi per la progettazione e per l'avvocatura interna, ripartibili nei
confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse
necessarie alla copertura dell'onere IRAP gravante sull'amministrazione»
(Corte dei conti
deliberazione 30.06.2010 n. 33
cit.)”.
Alla luce di quanto considerato e con riferimento al quesito posto dal
Comune di Pavia in considerazione di nuove pronunce della giurisprudenza, si
evincono dunque solamente valutazioni che portano a confermare nuovamente
l’orientamento già espresso nel passato da questa stessa Sezione e i
principi in esso contenuti
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 24.10.2019 n. 407). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Utilizzo
graduatorie.
Domanda
La Corte dei Conti Sardegna e, recentemente, quella delle Marche sono
intervenute in materia di graduatorie. Potete fare la sintesi di quanto
affermato?
Risposta
Il
parere 06.09.2019 n. 41 della Sezione
regionale delle Marche della Corte dei Conti è intervenuto in maniera
precisa e attenta alla questione dell’utilizzo delle graduatorie dopo le
novità contenute nei commi 360 e seguenti della legge 145/2018. Queste, sono
state in sintesi le conclusioni dei magistrati contabili, che peraltro si
condividono:
• le graduatorie di concorsi banditi dopo il 01.01.2019 si possono
utilizzare solo per i posti messi a concorso; queste graduatorie non possono
essere utilizzate da altri enti;
• le graduatorie dal 2010 al 2018 (comprese quelle di concorsi
banditi entro il 31.12.2018) si possono ancora utilizzare per lo scorrimento
degli idonei e possono ancora essere utilizzate da altri enti;
• rimane valido l’art. 91, comma 4, del d.lgs. 267/2000 che prevede
l’impossibilità di scorrere una graduatoria per posti creati o trasformati
dopo la stessa;
• tutte le graduatorie (sia del 2019 che quelle degli anni
precedenti) si possono ancora utilizzare per assumere a tempo determinato,
in quanto l’art. 36, comma 2, del d.lgs. 165/2001 è ancora vigente, non è
stato abrogato né modificato
(17.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Monetizzazione delle ferie nel pubblico impiego: ammissibilità.
La monetizzazione delle ferie, nel pubblico impiego, è consentita solo in
quei casi in cui il diritto alle stesse sia compromesso da cause non
imputabili al lavoratore quali la malattia, essendo legittimo il divieto di
monetizzazione delle stesse in tutti gli altri casi (nella specie il
lavoratore ha rassegnato le proprie dimissioni con l’intento di godere della
pensione, anche se poi ciò non si è verificato, pertanto ben avrebbe potuto,
preventivando la data di cessazione del rapporto, godere delle ferie
residue)
(TRIBUNALE di Taranto, Sez. lav., sentenza 17.10.2019 n. 3418 -
massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Divieto di monetizzazione delle ferie non godute: può considerarsi assoluto?
Il divieto di monetizzazione delle ferie non godute non può considerarsi
assoluto, nel senso di proibire radicalmente il pagamento del compenso
sostitutivo, pertanto, a fronte di evidenti impossibilità al godimento delle
ferie non attribuibili in alcun modo alla volontà del lavoratore (nella
specie il lavoratore ha tempestivamente comunicato al datore di lavoro il
proprio recesso dal rapporto di lavoro per collocamento in quiescenza e il
datore di lavoro ha comunicato al dipendente la necessità della fruizione
delle ferie residue in costanza del rapporto di lavoro, stante
l’impossibilità della loro monetizzazione, il dipendente non ha potuto
usufruire dei n. 15 giorni di ferie residue nel mese di dicembre e di
gennaio 2015, come inizialmente convenuto tra le parti, a causa di
contestuale richiesta di fruizione di ferie da parte di molti altri
dipendenti, per cui il contemperamento delle esigenze di assicurare la
continuità del servizio e di garantire il recupero delle energie del
dipendente possa risolversi in un aprioristico riconoscimento della
prevalenza delle prima e rendere intempestiva qualsiasi istanza, anche
presentata con ampio anticipo, da parte del lavoratore, ai fini della
conservazione del di lui diritto), il divieto di corrispondere un compenso
sostitutivo configura un comportamento censurabile, non essendo logico far
derivare da una violazione dell’ art. 36 della Costituzione imputabile alla
pubblica amministrazione. il venir meno del diritto all’equivalente
pecuniario di una prestazione comunque effettuata
(TRIBUNALE di Teramo, Sez. lav., sentenza 16.10.2019 n. 514 -
massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE - PUBBLICO IMPIEGO: Compete
al responsabile finanziario il recupero del salario accessorio erogato in
eccesso.
Un regolamento comunale che ha previsto l'erogazione di compensi,
contrattati con le organizzazioni sindacali, ma poi rilevatisi in eccesso
rispetto alla normativa o al contratto nazionale, comporta il recupero dal
personale che quelle risorse addizionali avesse indebitamente ricevuto.
La
competenza al recupero delle somme, mediante trattenute nel limite del
quinto dello stipendio, spetta al responsabile finanziario e non al
responsabile del personale.
Inoltre, la decisione in via unilaterale
dell'ente di correggere la parte del regolamento che dispone in difformità
dalla legge e dal contratto, non viola le regole della contrattazione tutte
le volte che si tratti di disposizioni di natura fiscale o previdenziale,
essendo la contrattazione limitata alla definizione dei soli criteri e
regole di ripartizione tra il personale dipendente.
Sono queste le conclusioni cui è giunto il Consiglio di Stato - Sez. V (sentenza
14.10.2019 n. 6953) che ha respinto le eccezioni dei dipendenti, sia sulla
competenza del dirigente finanziario in materia di recupero delle somme
indebite, sia della presunta violazione delle regole di contrattazione.
La vicenda
L'interpretazione autentica sulla corretta applicazione delle ritenute
assistenziali e previdenziali, a carico dei fondi destinati ai compensi per
le opere pubbliche, è avvenuta con la legge 266/2005 che ha finalmente
chiarito, operando con effetto retroattivo, come la quota percentuale
spettante ai dipendenti, per gli incentivi alla progettazione delle opere
pubbliche, fosse comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali
a carico dell'ente locale.
Al fine di rendere coerente il proprio
regolamento con la disposizione legislativa, un Comune, che aveva
considerato l'erogazione degli incentivi al netto delle componenti
previdenziali e assistenziali a proprio carico, ha proceduto da un lato, a
correggere in parte qua il regolamento e, dall'altro lato ad attivare le
procedure di recupero delle somme erogate in eccesso al personale.
I dipendenti, dopo aver inutilmente adito il giudice del lavoro, si sono
rivolti al giudice amministrativo, in considerazione della presunta
violazione delle disposizioni del contratto decentrato e dell'affidamento in
buona fede per le somme ricevute. Avendo il tribunale amministrativo di
primo grado respinto le eccezioni di presunta illegittimità del recupero
disposto, il ricorso è proseguito davanti al Consiglio di Stato.
I punti di
contestazione sollevati dai dipendenti riguardavano sia l'incompetenza del
dirigente finanziario al ricalcolo delle somme dovute e al successivo
prelievo nel quinto dello stipendio, sia la violazione delle regole della
contrattazione per aver l'amministrazione proceduto in via unilaterale
anziché riportare in contrattazione le modifiche regolamentari considerate
illegittime.
Le indicazioni del Consiglio di Stato
Secondo i giudici amministrativi d'appello le doglianze dei dipendenti sono
infondate. In merito, infatti, alla competenza del responsabile finanziario,
rispetto a quello del servizio del personale, il collegio ha detto che
spetta al responsabile della ragioneria il calcolo dei compensi pagati in
eccesso e del conseguente recupero sugli stipendi del personale, trattandosi
di effetti limitati e di natura squisitamente contabile.
Al contrario,
spetta al responsabile del servizio del personale una competenza più estesa
che va dalla costituzione del fondo, alla definizione dei criteri e della
modalità del riparto e delle percentuali del compenso incentivante, attività
queste non incise dal recupero delle somme eccedenti che riguardavano
esclusivamente lo scorporo delle ritenute assistenziali e previdenziali
poste erroneamente in capo al Comune.
Non merita, inoltre, condivisione
l'eccezione formulata dai ricorrenti sulla illegittimità della modifica
unilateralmente del regolamento. Sul punto, rileva il Consiglio di Stato, la
legge demanda alla contrattazione collettiva e alla normativa regolamentare
la sola previsione dei criteri e delle modalità di riparto della somma e la
percentuale per le diverse tipologie di lavori, ma non problematiche di
natura fiscali o previdenziali che vanno poste al di fuori dei principi di
contrattazione.
Possibile estensione della decisione
I principi enunciati dal Consiglio di Stato potrebbero essere estensibili
anche ad altre fattispecie di regolamenti eventualmente adottati dagli enti
locali.
Il primo potrebbe riguardare gli incentivi tributari, qualora il
regolamento avesse disposto di ritenere le risorse escluse anche in presenza
di un bilancio approvato dopo il 31/12 ma entro il termine del differimento
disposto dal ministero dell'Interno (Corte dei conti Emilia Romagna
deliberazione n. 52/2019 e, più di recente, Sezione Lombardia delibera n.
412/2019).
Il secondo potrebbe fare riferimento al regolamento sui compensi
alle avvocature interne nel caso di mancato scorporo dell'Irap così come
evidenziato nella sentenza n. 21398/2019 della Cassazione (si veda il
quotidiano degli enti locali e della Pa del 29 agosto).
In ultimo, il
regolamento sugli incentivi tecnici allorché avesse disciplinato effetti
retroattivi del regolamento considerando le risorse escluse dai limiti del
salario accessorio in presenza di attività effettuate prima del 2018 (si
veda il quotidiano degli enti locali e della Pa del 4 novembre) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
25.11.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Principio onnicomprensività.
Domanda
Potreste spiegare il principio dell’onnicomprensività della retribuzione
accessoria di un dipendente pubblico?
Risposta
Ogni compenso accessorio che può essere retribuito a un dipendente pubblico
deve necessariamente transitare dal fondo delle risorse decentrate che è
alimentabile solo con le risorse previste dalla contrattazione nazionale.
Quanto sopra è una conseguenza del cosiddetto principio
dell’onnicomprensività della retribuzione del dipendente pubblico statuito
dall’art. 2, comma 3, del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165.
Su tale aspetto la giurisprudenza si è soffermata più volte.
Il Consiglio di Stato, V sezione, con la sentenza n. 463/2009, pronunciata
in materia di compensi ai messi notificatori, ha avuto modo di precisare che
tali somme aggiuntive possono essere rese disponibili solamente dopo
l’approvazione del C.C.N.L. 14/09/2000, allorquando tale possibilità è stata
appunto prevista in un contratto nazionale. Diversamente nessun compenso può
essere erogato ai dipendenti pubblici.
L’art. 45 del D.Lgs 30.03.2001, n. 165 prevede che il trattamento economico
fondamentale ed accessorio dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni,
fatto salvo quanto previsto all’articolo 40, commi 3-ter e 3-quater, e
all’articolo 47-bis, comma 1, sia definito dai contratti collettivi.
L’art. 40, comma 3-quinquies del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 afferma altresì
che le regioni, per quanto concerne le proprie amministrazioni, e gli enti
locali possono destinare risorse aggiuntive alla contrattazione integrativa
nei limiti stabiliti dalla contrattazione nazionale e nei limiti dei
parametri di virtuosità fissati per la spesa di personale dalle vigenti
disposizioni, in ogni caso nel rispetto degli obiettivi di finanza pubblica
e di analoghi strumenti del contenimento della spesa.
Per quanto concerne specificamente il comparto Funzioni Locali il contratto
collettivo nazionale del 21/05/2018, riprendendo quanto già operato in
passato con l’art. 31, comma 2, del CCNL 22/01/2004, ha introdotto, con
l’art. 67, comma 1, un nuovo consolidamento delle risorse di parte stabile,
definendo come importo unico consolidato, le risorse di parte stabile
destinate nell’anno 2017, come certificate dall’organo di revisione.
Il predetto importo unico consolidato resta confermato, con le stesse
caratteristiche, anche per gli anni successivi.
Nel proseguo del sopra richiamato art. 67 sono elencate, ai commi 2 e 3, le
voci di parte stabile che consentono di incrementare stabilmente l’importo
unico consolidato anno 2017 e le voci di parte variabile che consentono di
alimentare i fondi della contrattazione decentrata integrativa con importi
variabili di anno in anno, comprese quelle “risorse” specificamente
individuate dalla legge (art. 67, comma 3, lett. C).
Il comma 8 introduce una “nuova” possibilità di alimentazione dei
fondi di parte variabile per i fondi delle Regioni a statuto ordinario e per
le città metropolitane, ai sensi dell’art. 23, comma 4, del D.Lgs. n.
75/2017
(10.10.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Natura
giuridica cartellino.
Domanda
I cartellini marcatempo o i fogli presenza hanno natura di atto pubblico?
Risposta
Gli orientamenti giurisprudenziali si sono mossi nel tempo sino a
raggiungere direzioni diametralmente opposte, tuttavia, l’orientamento più
recente può dirsi consolidato.
Le meno recenti pronunce configuravano il cartellino marcatempo come un atto
pubblico. Il Consiglio di Stato, sez. II, con sentenza del 06.04.1991, n.
3891 lo aveva precisato definendo atto pubblico “ogni documento
contenente attestazioni suscettibili di produrre effetti giuridici per una
pubblica amministrazione”, ed in ciò identificando anche il cartellino
orario che è destinato a fornire la prova dell’effettuazione della
prestazione di lavoro ai fini del pagamento della retribuzione. Dal
riconoscimento al cartellino della natura di atto pubblico ne conseguiva
che, comportamenti dei dipendenti finalizzati a falsificare le risultanze
dello stesso, fossero inquadrabili come falso ideologico.
Di parere opposto è la Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 41426 del
25.09.2018, si pronuncia così “i cartellini marcatempo o i fogli presenza
non hanno natura di atto pubblico (allo stesso modo Sez. U, n. 15983 del
11.04.2006; Cassazione 19299 del 16.04.2012), trattandosi di documenti di
mera attestazione del dipendente inerente al rapporto di lavoro, soggetto a
disciplina privatistica, documenti che, peraltro non contengono
manifestazioni dichiarative o di volontà riferibili alla Pubblica
Amministrazione".
La vicenda aveva riguardato alcuni dipendenti i quali timbravano il
cartellino, con modalità tali da attestare falsamente la loro presenza negli
uffici comunali. Ma se è vero che commettevano il reato di truffa aggravata
ai danni dell’ente locale, non è vero che realizzassero un falso in atto
pubblico.
Cartellini e badge rilevano infatti solo nel rapporto con il datore di
lavoro, rapporto che nella Pubblica Amministrazione è di diritto privato.
Sono cioè privi di rilevanza esterna non essendo manifestazione dichiarativa
o di volontà attribuibile alla Pubblica Amministrazione.
L’alterazione delle presenze configura quindi il reato di truffa aggravata
ma non quello di falso in atto pubblico (03.10.2019 - tratto da e
link a www.publika.it). |
settembre 2019 |
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CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ufficio
di staff con incarico gratuito.
Domanda
È possibile costituire l’ufficio di staff (ex art. 90 TUEL) attribuendo un
incarico gratuito ad un collaboratore del sindaco? Cambia qualcosa se il
collaboratore fosse in pensione?
Risposta
Per poter costituire un ufficio alle dirette dipendenze del sindaco (o della
giunta o dei singoli assessori) è necessario che la materia venga
preventivamente disciplinata nel ROUS (Regolamento per l’Ordinamento degli
Uffici e dei Servizi). L’ufficio di staff viene costituito per l’esercizio
delle funzioni di indirizzo e controllo attribuite –in questo caso– al
sindaco.
L’ufficio di staff –struttura eventuale, ma non necessaria in un ente
locale– può essere costituito da dipendenti dell’ente, che lasciano i propri
incarichi e mansioni per dedicarsi ad altro, o, se l’ente non è dissestato o
strutturalmente deficitario, da collaboratori assunti con contratto a tempo
determinato. Se questi collaboratori, sono dipendenti di altra
amministrazione, vengono posti in aspettativa senza assegni (comma 1).
Al personale assunto con contratto di lavoro subordinato e a tempo
determinato, si applica il CCNL del comparto Funzioni locali (comma 2).
L’ufficio di staff trova la sua ragion d’essere nella collaborazione
dell’organo politico, per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e
controllo, per cui sono escluse tutte le attività gestionali che restano in
capo ai dipendenti inquadrati nella struttura organizzativa del comune,
identificati nei dirigenti o posizioni organizzative negli enti senza la
dirigenza (comma 3-bis).
Ricapitolando tutte le disposizioni contenute nell’articolo 90, del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, comprese le ultime modifiche apportate, nel
2014 con il d.l. 90, possiamo riassumere che la costituzione dell’ufficio di
staff:
• non richiede la pubblicazione di avvisi o lo svolgimento di prove
selettive;
• non richiede il possesso di specifici titoli di studio;
• non richiede specifica esperienza professionale;
• non richiede particolari contenuti del curriculum vitae o
professionale;
• non richiede che vi sia una verifica preventiva dell’assenza di
professionalità nell’ambito dell’ente;
• prevede, necessariamente, un carattere oneroso;
• non pone alcun limite alla possibilità di inquadrare i
destinatari degli incarichi, i cui contratti possono, pertanto,
classificarli dalla categoria A fino alla dirigenza, nell’ambito del CCNL
del comparto Funzioni locali;
• non pone alcun limite alla retribuzione;
• non richiede alcuna particolare motivazione sulla scelta del
destinatario;
• è assoggettata ai limiti di spesa per il personale (media della
spesa del triennio 2011/2013).
Dopo aver provato a chiarire il quadro normativo in cui ci si muove, dando
risposta al doppio quesito presentato è possibile scrivere quanto segue:
a) data la chiara portata dei commi 1 e 2 dell’articolo 90, del
TUEL, non è possibile nominare un componente dell’ufficio di staff a titolo
gratuito. Il collaboratore esterno deve essere titolare di un contratto di
lavoro subordinato, a tempo determinato, parametrato a quello dei dipendenti
del comparto Funzioni locali, con le eventuali deroghe –previste nel comma
3– per ciò che concerne il trattamento economico accessorio;
b) non sarebbe vietato nominare nell’ufficio di staff un
collaboratore in pensione, ma resta vietato nominarlo a titolo gratuito.
A completamento si riporta l’articolo 90, nel testo attualmente in vigore:
Articolo 90 Uffici di supporto agli organi di direzione politica
1. Il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi può
prevedere la costituzione di uffici posti alle dirette dipendenze del
sindaco, del presidente della provincia, della giunta o degli assessori, per
l’esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo loro attribuite dalla
legge, costituiti da dipendenti dell’ente, ovvero, salvo che per gli enti
dissestati o strutturalmente deficitari, da collaboratori assunti con
contratto a tempo determinato, i quali, se dipendenti da una pubblica
amministrazione, sono collocati in aspettativa senza assegni.
2. Al personale assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo
determinato si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro del
personale degli enti locali.
3. Con provvedimento motivato della giunta, al personale di cui al
comma 2 il trattamento economico accessorio previsto dai contratti
collettivi può essere sostituito da un unico emolumento comprensivo dei
compensi per il lavoro straordinario, per la produttività collettiva e per
la qualità della prestazione individuale.
3-bis. Resta fermo il divieto di effettuazione di attività
gestionale anche nel caso in cui nel contratto individuale di lavoro il
trattamento economico, prescindendo dal possesso del titolo di studio, è
parametrato a quello dirigenziale
(26.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incaricati senza libertà d’orario.
Non possono regolarlo in base alle esigenze degli uffici.
Un contratto che riconosca prerogative dirigenziali alle posizioni
organizzative sarebbe nullo.
Gli
incaricati di posizione organizzativa non possono regolare la propria
attività con orario di lavoro organizzato sulla base delle esigenze degli
uffici, come le qualifiche dirigenziali.
Sono ancora molto frequenti i casi nei quali negli enti locali, e
specialmente nelle forme associative, si verifichino violazioni palesi alle
disposizioni contrattuali, laddove si consenta ai «quadri» un orario di
lavoro non predeterminato.
Il tutto, nasce da un'interpretazione totalmente erronea dell'articolo 109,
comma 2, del dlgs 267/2000, ai sensi del quale «nei comuni privi di
personale di qualifica dirigenziale le funzioni di cui all'articolo 107,
commi 2 e 3, fatta salva l'applicazione dell'articolo 97, comma 4, lettera
d), possono essere attribuite, a seguito di provvedimento motivato del
sindaco, ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dalla
loro qualifica funzionale, anche in deroga a ogni diversa disposizione».
Tale norma è posta a rimediare alla circostanza che nella gran parte degli
enti locali mancano le qualifiche dirigenziali e, tuttavia, è comunque
necessario applicare il principio di separazione delle funzioni politiche da
quelle gestionali. L'articolo 109, comma 2, rimedia, consentendo di
attribuire le funzioni dirigenziali ai funzionari apicali, abilitati, quindi
ad esercitare dette funzioni dirigenziali. Ma, tale abilitazione non
trasforma i funzionari incaricati nell'area delle posizioni organizzative in
qualifiche dirigenziali.
Si continua ad applicare sempre soltanto e solo, dunque, il Ccnl del
comparto. Sull'orario di lavoro, il Ccnl 21.05.2018 non ha cambiato nulla
rispetto alla contrattazione collettiva previgente.
Resta attuale, allora, l'indicazione fornita nel 2011 dall'Aran con
il
parere 05.06.2011 n. RAL-613, ove si spiega che «il personale
incaricato delle posizioni organizzative è tenuto ad effettuare prestazioni
lavorative settimanali non inferiori a 36 ore (mentre, ai sensi dell'art.
10, comma 1, del Ccnl del 31.03.1999 e salvo quanto previsto dall'art. 39,
comma 2, del Ccnl del 14.09.2000 e dall'art. 16 del Ccnl del 05.10.2001, non
sono retribuite le eventuali prestazioni ulteriori che gli interessati
potrebbero aver effettuato, senza diritto ad eventuali recuperi, in
relazione all'incarico affidato e agli obiettivi da conseguire)».
Conseguentemente l'orario di lavoro va assoggettato «alla vigente disciplina
relativa a tutto il personale dell'ente e agli ordinari controlli sulla
relativa quantificazione». In particolare, spiega l'Aran, «il vigente Ccnl
non attribuisce, in particolare, né al datore di lavoro né al dipendente il
potere o il diritto all'autogestione dell'orario settimanale, consentita,
invece, al solo personale con qualifica dirigenziale».
È da aggiungere che laddove i funzionari incaricati di posizione
organizzativa non rispettassero le previsioni del Ccnl del comparto,
incorrono nella responsabilità disciplinare connessa alla violazione
dell'articolo 57, comma 3, lettera a), che impone di «collaborare con
diligenza, osservando le norme del contratto collettivo nazionale, le
disposizioni per l'esecuzione e la disciplina del lavoro»; l'articolo 59,
comma 3, lettera a), del Ccnl, ancora, considera esplicitamente violazione
disciplinare l'inosservanza delle disposizioni di servizio, anche in tema di
assenze per malattia, nonché dell'orario di lavoro.
È opportuno ricordare che qualsiasi contratto collettivo decentrato o
direttiva interna finalizzata a consentire alle posizioni organizzative di
fruire dell'orario previsto solo per la dirigenza, sarebbe del tutto nulla e
inapplicabile, per violazione di una disciplina riservata esclusivamente
alla contrattazione nazionale collettiva.
Non solo: la tolleranza nei
confronti di orari difformi, che, come visto sopra, implicano responsabilità
disciplinare, determinerebbe nei confronti dei dirigenti a loro volta
responsabilità disciplinare ai sensi dell'articolo 55-sexies, comma 3, del dlgs 165/2001, il quale dispone: «Il mancato esercizio o la decadenza
dall'azione disciplinare, dovuti all'omissione o al ritardo, senza
giustificato motivo, degli atti del procedimento disciplinare, inclusa la
segnalazione di cui all'articolo 55-bis, comma 4, ovvero a valutazioni
manifestamente irragionevoli di insussistenza dell'illecito in relazione a
condotte aventi oggettiva e palese rilevanza disciplinare, comporta, per i
soggetti responsabili, l'applicazione della sospensione dal servizio fino a
un massimo di tre mesi, salva la maggiore sanzione del licenziamento
prevista nei casi di cui all'articolo 55-quater, comma 1, lettera f-ter) e
comma 3-quinquies» (articolo ItaliaOggi del 20.09.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Posizioni
organizzative, è colpa grave il mancato controllo sugli atti dei propri
funzionari.
Con la
sentenza 19.09.2019 n. 350, la
Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la regione Toscana, ha
precisato che il responsabile di posizione organizzativa che appone la
propria firma agli atti predisposti dai funzionari senza operare mai alcun
controllo, nemmeno a campione, è suscettibile di condanna per responsabilità
sussidiaria a titolo di colpa grave, per omessa vigilanza e/o controllo.
Il fatto
Nel caso in esame, la Procura erariale, presso la Sezione Giurisdizionale
della regione Toscana, ha instaurato un giudizio di responsabilità nei
confronti di due dipendenti del comune di Cascina, rispettivamente nella
qualità di funzionario e di Responsabile di Posizione Organizzativa del
Settore “Macrostruttura 6-Educativo e Socio Culturale”; detto giudizio è
scaturito dalla segnalazione, da parte del suddetto comune, di un possibile
danno erariale, conseguente alla condotta, penalmente rilevante, posta in
essere dal menzionato funzionario, fra l'altro destinatario di misura di
custodia cautelare in carcere su richiesta della Procura della Repubblica
presso il Tribunale di Pisa, nonché di provvedimento di sospensione
cautelare adottato dal Comune di Cascina.
Infatti, dall’attività investigativa espletata dalla Guardia di Finanza,
nell’ambito del procedimento penale, era emerso che il funzionario,
assegnato quale unico addetto all’unità operativa “Nidi, Progettazione
Educativa e Diritto allo Studio”, si era appropriato di circa 400.000 euro,
fra i 2012 ed il 2017, stanziati dall'Ente di appartenenza e dalla Regione
Toscana per il potenziamento degli asili nido e per finanziare progetti
sociali a favore di infanti disabili e/o in stato di disagio.
Con riferimento al citato danno, la Procura contabile ha individuato oltre
la responsabilità principale e dolosa del funzionario –la cui condotta
illecita, era stata ampiamente dimostrata dalle risultanze probatorie del
procedimento penale–, anche quella sussidiaria, a titolo di culpa in
vigilando, in capo al Responsabile del Settore in cui il reo operava, poiché
non aveva esercitato sullo stesso alcun controllo, neanche a campione o
saltuario.
Infatti, il Responsabile aveva consentito, o comunque agevolato,
la condotta illecita del funzionario, apponendo, in maniera acritica ed
automatica, la propria firma sui provvedimenti che quest'ultimo gli
sottoponeva, ponendo in essere una condotta gravemente colposa di omesso
controllo e vigilanza, reiterata per ben cinque anni.
Il Responsabile, costituitosi in giudizio, ha eccepito l’impossibilità di
avere, in qualche modo, contezza del disegno criminoso portato avanti dal
funzionario, tant'è che, all’esito dell’attività istruttoria espletata nel
parallelo procedimento penale, non era stata formulata alcuna ipotesi di
reato nei suoi confronti, essendo emersa, invece, la sua totale estraneità
rispetto ai fatti incriminati, escludendo, di conseguenza, qualsiasi
responsabilità per culpa in vigilando.
Altresì, dall’esame degli atti
istruttori, era emerso che la maggior parte degli episodi criminosi
contestati si erano verificati successivamente all’erogazione delle somme da
parte del Comune, ovvero in una fase in cui non avrebbe potuto esserci alcun
controllo da parte del Responsabile.
Peraltro, da un lato gli atti prodotti
dal funzionario erano stati predisposti al di fuori dei protocolli
istituzionali, mediante documentazione ideologicamente e/o materialmente
falsa, dall'altro, nel corso degli anni, non vi era mai stata alcuna
contestazione sull'operato del funzionario da parte di terzi.
Altresì,
l’assenza di culpa in vigilando derivava dal fatto che il Responsabile
gestiva una macrostruttura con un elevato numero di servizi ed unità
operative (almeno 11) e potendo contare su personale limitato: in tale
contesto, di fronte irregolarità perpetrate prevalentemente al di fuori
dell’orario di servizio ed all’esterno della sede di lavoro ed in assenza di
segnali, anche minimi, che potessero far pensare a comportamenti illeciti
del funzionario, tali da giustificare una vigilanza “straordinaria”
sull’operato dello stesso, il controllo non avrebbe potuto essere diverso da
quello di fatto esercitato.
Le considerazioni della Corte
La Corte, entrando nel merito, ha ritenuto che la pretesa erariale fosse
meritevole di accoglimento nei confronti di entrambi i convenuti, ricorrendo
tutti i presupposti della contestata responsabilità amministrativa.
Per
quanto concerne la posizione del funzionario, il Collegio ha riconosciuto
pacifica la ricorrenza del cd "rapporto di servizio" con l’Amministrazione
danneggiata, nonché acclarate la sussistenza ed antigiuridicità delle
condotte contestate, alla luce della valutazione complessiva degli atti di
causa e di quelli derivanti dal parallelo procedimento penale –che ha
portato alla condanna del funzionario alla pena di 6 anni di reclusione per
i delitti di truffa e peculato, continuato ed in concorso con altri, nonché
all'interdizione in perpetuo dai pubblici uffici–, dai quali il giudice
contabile è legittimato a trarre elementi utili al proprio convincimento
(Corte Conti, Sez. giur. Lombardia n. 450/2012; Sez. giur. Friuli Venezia
Giulia n. 270/2011).
Alla responsabilità principale, di carattere doloso, per il Collegio si è
affiancata quella sussidiaria del Responsabile di Po: quest’ultimo, infatti,
pur essendo rimasto del tutto estraneo alle vicende penali, sulla base degli
atti e dei fatti esaminati, si è reso responsabile, a titolo di colpa grave,
di omessa vigilanza e/o controllo.
Infatti, per ben cinque anni, egli ha
firmato i provvedimenti di impegno/liquidazione predisposti dal funzionario,
senza avvertire mai la necessità di svolgere controlli, nemmeno a campione,
sull’attività preliminare ed istruttoria espletata. Considerato che la firma
del Responsabile sulle determine comporta, a suo carico, la piena
responsabilità dell’atto e dei relativi effetti, un controllo, anche
saltuario e a campione, sarebbe stato opportuno, se non necessario, a
prescindere ed indipendentemente da eventuali segnalazioni di anomalie e/o
irregolarità da parte di terzi.
In conclusione, alla luce del considerevole arco temporale di reiterazione,
le condotte omissive del Responsabile sono risultate, per la Corte,
connotate da colpa grave, alla luce dell’estrema noncuranza e superficialità
dimostrate per la salvaguardia delle risorse finanziarie del Comune di
Cascina, nonché, più in generale, per la corretta utilizzazione delle stesse
strumentale all’attuazione di valori di rilievo costituzionale, quali
l'imparzialità ed il buon andamento della Pa (articolo 97 della
Costituzione) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
03.10.2019).
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SENTENZA
4. Alla responsabilità principale, di carattere doloso, del Sig. RO.
(per l’intero importo sopra visto) si affianca quella sussidiaria, a titolo
di colpa grave, della convenuta CA..
A tal riguardo, va in primo luogo rilevata la pacifica sussistenza del cd
rapporto di servizio tra l’Amministrazione danneggiata (Comune di Cascina) e
la Sig.ra CA., quale Responsabile di Posizione Organizzativa Autonoma
nell’ambito del Settore “Macrostruttura 6-Educativo e Socio Culturale”
della predetta Amministrazione.
Per quanto concerne il profilo dell’illiceità delle condotte serbate, il
Collegio, sulla base degli atti e fatti di causa, ritiene sicuramente di
escludere, in armonia con quanto fatto dall’Organo requirente, una
corresponsabilità dolosa della convenuta Ca..
Quest’ultima, infatti, è rimasta del tutto estranea alle vicende penali,
venendo, del resto, pienamente scagionata in quella sede dallo stesso Ro.
(vedasi interrogatorio reso al GIP in data 16.05.2017, ove il Ro. ha
espressamente dichiarato “…Le determine venivano firmate dal Dirigente
nel caso di specie la Dott.ssa Ca. che non era assolutamente consapevole di
quello che facevo”).
Nondimeno, sulla base degli stessi atti e fatti, risulta configurabile una
responsabilità della Sig.ra CA., a titolo di colpa grave per omessa
vigilanza e/o controllo.
Risulta, infatti, che la medesima CA., per un considerevole lasso temporale
(dal 2012 al 2017, epoca di svolgimento delle condotte illecite del Ro.,
secondo quanto emergente dai capi d’imputazione penale), si sia
completamente affidata al Ro. stesso, firmando, in maniera del tutto
acritica, i provvedimenti di impegno/liquidazione delle risorse dal medesimo
istruiti e predisposti, senza avvertire mai la necessità di svolgere
controlli, nemmeno a campione, sull’attività preliminare ed istruttoria
espletata (rectius, che avrebbe dovuto essere espletata) dal medesimo
(vedasi anche la relazione della Guardia di Finanza del 28.06.2017, prot. n.
0218909, con la documentazione contenuta nel dischetto informatico
allegato).
Sul punto, è appena il caso di rimarcare che colui il quale
firma, nell’esercizio precipuo delle competenze relative all’incarico di
responsabilità rivestito, determine comportanti l’attribuzione di risorse
finanziarie pubbliche in favore di soggetti terzi, si assume, con la
predetta sottoscrizione, la (piena) responsabilità dell’atto e dei relativi
effetti.
Di qui la necessità di un controllo, anche saltuario e a
campione, nel caso all’esame per
contro del tutto omesso, sull’attività preliminare e
propedeutica svolta dal responsabile del procedimento (o comunque
sull’operato dello stesso).
Tutto ciò a prescindere ed indipendentemente dalla
segnalazione di anomalie e/o irregolarità da parte di terzi.
Tale conclusione risulta invero confortata (anche) dalla particolare valenza
degli interessi coinvolti (nello specifico, quello alla corretta
utilizzazione delle risorse finanziarie pubbliche), strumentali
all’attuazione di valori di rilievo anche costituzionale (imparzialità e
buon andamento della P.A. ex art. 97 Cost.).
Né può ritenersi, in superamento delle argomentazioni difensive sul punto,
che tale controllo, nella fattispecie all’esame, non avrebbe potuto essere
concretamente esercitato dalla Sig.ra CA., per essersi l’attività illecita
del Sig. Ro. svolta prevalentemente al di fuori del rapporto di servizio
(investendo, in particolare, la richiesta di rimborso, supportata da false
motivazioni, delle somme erogate, a seguito di un’attività di erogazione che
sarebbe risultata di per sé lecita).
A tal riguardo, il Collegio ribadisce che, per quanto emerso in sede penale,
le condotte illecite del Sig. Ro. sono consistite essenzialmente nel:
a) richiedere, con false motivazioni, a vari asili nido la
restituzione di somme erogate in eccesso, al fine di creare una provvista di
cui poi appropriarsi, una volta ottenuta la restituzione di quanto
attribuito in eccesso rispetto al dovuto;
b) riconoscere ad associazioni (TE.TA.) e/o cooperative (TR.) “compiacenti”
contributi cui le stesse non avrebbero avuto diritto, per poi ottenere da
tali soggetti le somme in questione.
In entrambi i casi, l’appropriazione “illecita” è risultata possibile
per essere state le relative risorse previamente assegnate/liquidate con
determine firmate, in assenza di qualsivoglia controllo, da parte della
convenuta Ca..
La medesima assegnazione (e susseguente erogazione) risulta, invero,
anch’essa illecita, in quanto avvenuta in favore di cooperative/associazioni
“compiacenti”, non aventi titolo per beneficiarne, attesa la mancata
presentazione e/o svolgimento dei relativi progetti, ovvero intervenuta in
favore di soggetti (asili nido) astrattamente legittimati ad usufruirne, ma
in concreto destinatari di contributi superiori al dovuto.
Risulta allora evidente come i controlli omessi dalla Sig.ra CA. abbiano
consentito o quanto meno agevolato l’operazione illecita complessiva attuata
dal Ro., partita con l’assegnazione di somme a soggetti terzi (illecita per
le ragioni viste) e sfociata nella definitiva appropriazione (anch’essa
illecita) da parte del Ro. stesso (beneficiario “finale” della
medesima operazione).
Le condotte omissive serbate dalla Sig.ra CA. risultano,
invero, connotate da colpa grave, attesa l’estrema noncuranza e
superficialità mostrate per la salvaguardia delle risorse finanziarie del
Comune di Cascina.
Tutto ciò anche alla luce del considerevole arco temporale di reiterazione
delle condotte in questione e del mancato rinvenimento, nei fascicoli delle
determine acquisiti presso il Comune di Cascina, di traccia alcuna di
attività istruttoria (vedasi su tale ultimo punto pag. 6 della relazione
della Guardia di Finanza del 28.06.2017, prot. n. 218909).
Nondimeno, il Collegio, in considerazione delle peculiari circostanze del
caso concreto e del ruolo effettivamente rivestito nella vicenda de qua,
ritiene di limitare la responsabilità sussidiaria della Sig.ra Ca.
all’importo di euro 150.000,00.
5. In conclusione,
alla luce di tutto quanto sopra esposto, il Sig. RO.Al. va
condannato al pagamento, in favore del Comune di Cascina, dell’importo di
euro 372.863,25, a titolo di responsabilità principale di carattere
doloso.
Nel contempo, la Sig.ra CA.Ga. va condannata al pagamento,
in favore del Comune di Cascina, dell’importo di euro 150.000,00, a titolo
di responsabilità sussidiaria per colpa grave.
Sugli importi per cui è condanna, da ritenersi già comprensivi di
rivalutazione, vanno computati gli interessi, come da dispositivo. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Graduatoria tempo determinato.
Domanda
Quali sono le regole oggi vigenti per le graduatorie a tempo determinato?
Risposta
Le attuali regole che disciplinano il ricorso a contratti a tempo
determinato, per tutte le pubbliche amministrazioni, sono contenute
nell’art. 36, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001, in particolare, l’ultimo
alinea, prevede che: “Per prevenire fenomeni di precariato, le
amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle disposizioni del presente
articolo, sottoscrivono contratti a tempo determinato con i vincitori e gli
idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo
indeterminato. È consentita l’applicazione dell’articolo 3, comma 61, terzo
periodo, della legge 24.12.2003, n. 350, ferma restando la salvaguardia
della posizione occupata nella graduatoria dai vincitori e dagli idonei per
le assunzioni a tempo indeterminato.”
Con
circolare n. 5/2013 il Dipartimento della Funzione Pubblica aveva
ampiamente analizzato la fattispecie, che allora costituiva una novità
legislativa [1],
specificando che: “Le amministrazioni che devono fare assunzioni a tempo
determinato, ferme restando le esigenze di carattere esclusivamente
temporaneo o eccezionale, piuttosto che indire procedure concorsuali a tempo
determinato, devono attingere, nel rispetto, ovviamente, dell’ordine di
posizione, alle loro graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo
indeterminato.”
Aggiungeva, poi, una clausola di salvaguardia destinata alle selezioni già
completate, puntualizzando che: “… pur mancando una disposizione di
natura transitoria nel decreto-legge, per ovvie ragioni di tutela delle
posizioni dei vincitori di concorso a tempo determinato, le relative
graduatorie vigenti possono essere utilizzate solo a favore di tali
vincitori, rimanendo precluso lo scorrimento per gli idonei.”
Fatta questa doverosa premessa, risulta evidente che le selezioni a tempo
determinato non sono più neppure contemplate dalla normativa vigente, di
conseguenza, non si ritiene che le graduatorie a tempo determinato possano
formare oggetto di cessione ad altra pubblica amministrazione.
---------------
[1] L’art. 36 è stato modificato dal D.L. n. 101/2013 per la parte che
interessa il quesito (19.09.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
Compatibilità tra RPCT e Ufficio Procedimenti Disciplinari.
Domanda
Nel nostro comune stiamo riscrivendo il Regolamento di Organizzazione Uffici
e Servizi e dobbiamo individuare i componenti dell’UPD.
E’ possibile designare, in composizione monocratica, l’ufficio del
Segretario comunale che è anche Responsabile Anticorruzione e Trasparenza?
Risposta
La questione se il Responsabile della Prevenzione della Corruzione e
Trasparenza (RPCT) possa anche essere componente dell’Ufficio per i
Procedimenti Disciplinari –ex art. 55-bis, commi 2 e 3, d.lgs. 165/2001– è
sempre stata motivo di riflessione e di vari orientamenti, non sempre
univoci, dall’emanazione della Legge Severino (legge 190/2012) in poi.
Per poter rispondere compiutamente al quesito, in via preventiva, va
ricostruito il perimetro normativo in cui si muove l’articolazione e
organizzazione dell’Ufficio per i Procedimenti Disciplinari (UPD).
Riassuntivamente è possibile affermare che:
a) la presenza di un UPD è obbligatoria in ogni pubblica
amministrazione e gli enti vi provvedono secondo le loro peculiarità;
b) nei comuni, la disciplina in materia di UPD deve trovare
collocazione all’interno del ROUS (ex art. 89 TUEL). In tale disciplina deve
trovare allocazione anche l’UPD dell’UPD: cioè vanno disciplinate le
fattispecie in cui sia oggetto di procedimento disciplinare, il/un
componente dell’UPD;
c) è possibile la gestione in forma associata tra più enti, previa
stipula di apposita convenzione;
d) la composizione dell’UPD può essere monocratica o collegiale;
e) è possibile prevedere –specie negli enti di maggiori dimensioni–
una struttura di supporto per la definizione degli atti istruttori
propedeutici;
f) se la composizione è collegiale vanno definite le modalità di
funzionamento, prevedendo quando è necessario che il collegio sia perfetto o
quando può agire in assenza di alcuni componenti;
g) l‘UPD deve anche curare l’aggiornamento del codice di
comportamento di ente; esaminare le segnalazioni di violazione dei codici di
comportamento; curare la raccolta delle condotte illecite accertate e
sanzionate.
Per quanto riguarda, invece, il rapporto tra queste due, imprescindibili,
figure presenti nell’ordinamento comunale (UPD e RPCT), occorre rifarsi a:
• articolo 1, comma 7, della legge 06.11.2012, n. 190, nel testo
sostituito dall’art. 41, del d.lgs. 97/2016;
• articolo 43, commi 1 e 5, del d.lgs. 14.03.2013, n. 33;
• circolare n. 1/2013, a cura del Dipartimento della funzione
pubblica;
• intesa della Conferenza Unificata del 24 luglio 2013, per
l’attuazione dell’art. 1, commi 60 e 61, della legge 190/2012;
• FAQ n. 3.8 in materia di prevenzione della corruzione,
consultabile nel sito web dell’ANAC;
• orientamento ANAC n. 111 del 04.11.2014;
• PNA 2016, approvato con delibera ANAC n. 831 del 03.08.2016,
Paragrafo 5.2;
• Delibera ANAC n. 700 del 23.07.2019.
Dall’esame dell’ultimo pronunciamento dell’Autorità Anticorruzione (delibera
n. 700/2019) –che ha parzialmente rivisto e meglio precisato le sue
precedenti indicazioni– è possibile concludere che:
– in via generale, l’ANAC ritiene non sussistente, specie nel caso
in cui l’Ufficio Procedimenti Disciplinari sia costituito come Organo
Collegiale, una situazione di incompatibilità tra la funzione di RPCT e
l’incarico di componente UPD, salvo i casi in cui oggetto dell’azione
disciplinare sia un’infrazione commessa dallo stesso RPCT;
– si raccomanda, come altamente auspicabile, laddove possibile, di
distinguere le due figure, soprattutto nelle amministrazioni e negli enti di
maggiori dimensioni e nel caso in cui l’UPD sia organo monocratico.
Dal momento che il comune interpellante ha una popolazione inferiore a
15.000 abitanti –quindi non può definirsi “ente di maggiori dimensioni”–
si ritiene possibile prevedere che il Segretario comunale ricopra,
contemporaneamente, il ruolo di RPCT e UPD. Resta comunque valida, inoltre,
la possibilità di nominare l’UPD, in forma associata e, in tal senso, si
consiglia di prevedere anche tale opzione all’interno del regolamento di
organizzazione (17.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI: Incentivi
antievasione IMU e TARI solo se il bilancio è approvato entro il 31
dicembre.
Gli incentivi economici a favore dei dipendenti comunali per le attività
connesse al recupero dei tributi erariali (Imu e Tari) possono essere
corrisposti solo se l'ente approva tassativamente il bilancio di previsione
entro il 31 dicembre dell'anno precedente.
È questa l'importante indicazione contenuta nel
parere 18.09.2019 n. 52 della sezione regionale di controllo della
Corte dei conti dell'Emilia Romagna.
Il quesito
Il comma 1091, articolo 1, della legge di bilancio 2019 ha previsto la
possibilità per i Comuni di destinare una quota delle risorse derivanti dal
recupero dell'evasione dell'imposta municipale propria (Imu) e della Tari al
potenziamento delle risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla
gestione delle entrate e al trattamento accessorio del personale dipendente,
anche di qualifica dirigenziale, derogando al limite previsto dall'articolo
23, comma 2, del Dlgs 25.05.2017 n. 75.
Tra le condizioni che la norma pone per la sua applicazione vi è quella
secondo la quale l'ente deve aver approvato il bilancio di previsione e il
rendiconto «entro i termini stabiliti dal Tuel».
Ciò premesso un ente locale
ha chiesto alla Corte dei conti dell'Emilia Romagna se il termine per
l'approvazione del bilancio debba intendersi solo con riferimento al 31
dicembre dell'anno di riferimento (così come indicato nell'articolo 163,
comma 1, del Tuel) o può essere correttamente riferito al termine differito
(come previsto dal successivo comma 3, dell'articolo 163 del Tuel), con
specifica legge e/o decreti ministeriali.
La risposta
Per i giudici contabili la risposta al quesito formulato è nel senso che il
termine per l'approvazione del bilancio è da intendersi il 31 dicembre
dell'anno di riferimento e non anche il termine differito.
D'altronde «nell'ipotesi in cui il bilancio di previsione dell'ente non sia
approvato nel termine fisiologicamente indicato, il legislatore,
all'articolo 163 limita l'attività gestionale dell'ente a una serie di
attività tassativamente indicate e tra esse non può rientrarvi quella della
destinazione di incentivi al personale. E ciò in base alla sottesa
considerazione concernente la fase di criticità in cui versa quell'ente che
non sia in grado di corrispondere al fondamentale obiettivo della tempestiva
approvazione del bilancio di previsione, dal che discende, ex lege, una
gestione di tipo provvisorio dell'ente e limitata a specifiche attività».
Conclusioni
La posizione assunta dalla magistratura contabile emiliana spiazza molti
enti locali che hanno seguito l'indicazione fornita dall'Ifel nella nota di
approfondimento al comma 1091 della legge di bilancio 2019 dello scorso 28
febbraio (si veda Il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 04.03.2019).
L'istituto, infatti, aveva ritenuto soddisfatta la condizione imposta dalla
legge anche con l'approvazione del bilancio di previsione entro i termini
prorogati dal decreto ministeriale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
02.10.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI: Incentivi
Imu solo con bilancio entro il 31 dicembre.
La sezione regionale di controllo della Corte dei conti
dell'Emilia Romagna mette in seria crisi l'erogazione dell'incentivo Imu e
Tari introdotto dall'ultima legge di bilancio.
Il
parere 18.09.2019 n. 52
ha stabilito infatti che solo gli enti che hanno approvato il bilancio di
previsione entro il 31 dicembre possono stanziare le somme previste per
l'incentivazione del personale.
La norma della legge di bilancio
L'articolo 1, comma 1091, della legge 145/2018, dopo alcuni anni di assenza,
aveva reintrodotto la possibilità per i Comuni di prevedere somme
incentivanti in favore del personale addetto al raggiungimento degli
obiettivi del settore entrate. Subordinando tuttavia questa facoltà ad
alcune condizioni. In primo luogo, si tratta di una scelta facoltativa,
rimessa alla discrezione degli enti locali interessati.
Inoltre, la destinazione di una somma non superiore al 5 per cento del
maggior gettito accertato e riscosso relativo agli accertamenti Imu e Tari
dell'esercizio fiscale precedente al potenziamento delle risorse comunali
degli uffici entrate e al trattamento accessorio del personale impiegato nel
raggiungimento degli obiettivi del settore entrate, è subordinata
all'approvazione del bilancio di previsione e del rendiconto entro i termini
stabiliti dal testo unico degli enti locali.
Il rispetto del termine di approvazione del bilancio
La norma aveva ingenerato dei dubbi sull'individuazione dei suddetti
termini. In particolare per il bilancio di previsione, poiché l'articolo 151
del Dlgs 267/2000 stabilisce che il bilancio di previsione deve essere
approvato entro il 31 dicembre dell'anno precedente, prevedendo tuttavia che
«i termini possono essere differiti con decreto del ministro dell'Interno,
d'intesa con il ministro dell'Economia e delle finanze, sentita la
conferenza Stato-città e autonomie locali, in presenza di motivate esigenze.
L'Ifel, nella nota del 28.02.2019, ritiene che la condizione richiesta dalla
norma è comunque soddisfatta laddove l'ente approvi il bilancio entro i
termini stabiliti dal decreto ministeriale di proroga.
La Corte dei conti dell'Emilia Romagna, con la deliberazione sopra
richiamata, ha invece ritenuto che il termine per l'approvazione del
bilancio è da intendersi il 31 dicembre dell'anno di riferimento di cui
all'articolo 163, comma 1, del Dlgs 267/2000 e non anche il termine
differito di cui al comma 3 del medesimo articolo. Ciò in quanto l'articolo
163 del Tuel limita l'attività gestionale dell'ente a una serie di attività
tassativamente indicate e tra esse non può rientrarvi quella della
destinazione di incentivi al personale.
La Corte sostiene, infatti, che l'ente, nel caso di mancata approvazione del
bilancio nel termine, versa in una fase di criticità in quanto non è in
grado di corrispondere al fondamentale obiettivo dell'approvazione del
bilancio di previsione, dal che discende ex lege una gestione di tipo
provvisorio e limitata a specifiche attività.
La conclusione è tranchant. L'ente che non ha rispettato il termine del 31
dicembre, pur rispettando il termine fissato dal decreto di proroga, non può
stanziare per quell'anno (l'esercizio di riferimento) il fondo calcolato
sugli accertamenti Imu e Tari. Mettendo fuori gioco la maggior parte dei
Comuni italiani.
Considerazioni
Questa conclusione, a modesto parere di chi scrive, non tiene tuttavia conto
che laddove il legislatore, per consentire agli enti di beneficiare di
eventuali norme agevolative, ha voluto vincolare l'approvazione del bilancio
di previsione alla data del 31 dicembre, lo ha fatto espressamente. Si
pensi, ad esempio, al comma 905 dell'articolo 1 della medesima legge di
bilancio, che ha concesso agli enti che approvano il bilancio entro il 31
dicembre di non applicare alcuni limiti di spesa e di essere dispensati da
alcuni adempimenti, oppure all'analoga norma contenuta nell'articolo 21-bis,
comma 2, del Dl 50/2017.
L'aver fatto riferimento genericamente al termine previsto dal Tuel è indice
della volontà della norma di tenere conto di eventuali differimenti del
termine, sovente dovuti peraltro a cause non imputabili agli enti locali.
Inoltre, seppure è vero che l'ente che non approva il bilancio entro il 31
dicembre si trova a operare nei primi mesi dell'anno successivo in esercizio
provvisorio, tuttavia non si comprende come questa circostanza possa
impedire all'ente di stanziare le somme relative al fondo con l'approvazione
del bilancio di previsione (o meglio dopo l'approvazione del rendiconto
dell'esercizio precedente), incidendo i vincoli dell'esercizio provvisorio
sull'ente solo fino all'approvazione del documento contabile previsionale.
Una siffatta interpretazione appare molto penalizzante, considerando che
spesso i Comuni sono costretti ad approvare il bilancio dopo il termine
ordinario del 31 dicembre (peraltro sempre storicamente prorogato) a causa
delle mancate certezze sulle risorse disponibili, definite solitamente dallo
Stato a ridosso della fine dell'anno, con l'approvazione della legge di
bilancio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
27.09.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO -
TRIBUTI: Con
riferimento alla possibilità di istituire l’incentivo economico a favore dei
dipendenti comunali per le attività connesse alla partecipazione del Comune
all’accertamento dei tributi erariali e dei contributi sociali non
corrisposti e tenuto conto del disposto di cui all’art. 1, comma 1091, della
legge n. 145 del 2018, il termine per l’approvazione del bilancio deve
intendersi il 31/12 dell’anno di riferimento ai sensi dell’art. 163, comma
1, del d.lgs. n. 267/2000.
---------------
Il Sindaco del Comune di Sant’Agata Bolognese (BO) formula
seguente richiesta di parere: con riferimento alla possibilità di istituire
l’incentivo economico a favore dei dipendenti comunali per le attività
connesse alla partecipazione del Comune all’accertamento dei tributi
erariali e dei contributi sociali non corrisposti e tenuto conto del
disposto di cui all’art. 1, comma 1091, della legge n. 145 del 2018, “se
il termine per l’approvazione del bilancio debba intendersi solo con
riferimento al 31/12 dell’anno di riferimento ai sensi dell’art. 163, comma
1, del d.lgs. n. 267/2000 o può essere correttamente riferito al termine
differito, ai sensi dell’art. 163, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000, con
apposita legge e/o decreti ministeriali”.
...
2.1. Passando al merito, la risposta al quesito formulato è nel senso che il
termine per l’approvazione del bilancio è da intendersi il 31/12 dell’anno
di riferimento di cui all’art. 163, comma 1, del d.lgs. n. 267/2000 e non
anche il termine differito di cui all’art. 163, comma 3, del d.lgs. n.
267/2000.
2.2. Depone in tal senso la chiara disposizione di cui al citato art. 1,
comma 1091, della legge n. 145 del 2018, secondo la quale “1091. Ferme
restando le facoltà di regolamentazione del tributo di cui all'articolo 52
del decreto legislativo 15.12.1997, n. 446, i comuni che hanno approvato il
bilancio di previsione ed il rendiconto entro i termini stabiliti dal testo
unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, possono, con proprio
regolamento, prevedere che il maggiore gettito accertato e riscosso,
relativo agli accertamenti dell'imposta municipale propria e della TARI,
nell'esercizio fiscale precedente a quello di riferimento risultante dal
conto consuntivo approvato, nella misura massima del 5 per cento, sia
destinato, limitatamente all'anno di riferimento, al potenziamento delle
risorse strumentali degli uffici comunali preposti alla gestione delle
entrate e al trattamento accessorio del personale dipendente, anche di
qualifica dirigenziale, in deroga al limite di cui all'articolo 23, comma 2,
del decreto legislativo 25.05.2017, n. 75. La quota destinata al trattamento
economico accessorio, al lordo degli oneri riflessi e dell'IRAP a carico
dell'amministrazione, è attribuita, mediante contrattazione integrativa, al
personale impiegato nel raggiungimento degli obiettivi del settore entrate,
anche con riferimento alle attività connesse alla partecipazione del comune
all'accertamento dei tributi erariali e dei contributi sociali non
corrisposti, in applicazione dell'articolo 1 del decreto-legge 30.09.2005,
n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 02.12.2005, n. 248. Il
beneficio attribuito non può superare il 15 per cento del trattamento
tabellare annuo lordo individuale. La presente disposizione non si applica
qualora il servizio di accertamento sia affidato in concessione.”.
Invero, l’inciso di cui alla norma citata consente la facoltà di destinare
risorse per incentivi al personale per l’accertamento di imposte municipali
alla condizione dell’approvazione del bilancio di previsione e del
rendiconto “entro i termini stabiliti dal testo unico di cui al decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267”, e cioè nei termini previsti dall’art.
163, comma 1, Tuel1, e dunque solo nel caso in cui il bilancio di
previsione sia approvato dal Consiglio entro il 31 dicembre dell'anno
precedente.
D’altro canto, nell’ipotesi in cui il bilancio di previsione dell’ente non
sia approvato nel termine fisiologicamente indicato, il legislatore,
all’art. 163 citato, limita l’attività gestionale dell’ente ad una serie di
attività tassativamente indicate e tra esse non può rientrarvi quella della
destinazione di incentivi al personale.
E ciò in base alla sottesa considerazione concernente la fase di criticità
in cui versa quell’ente che non sia in grado di corrispondere al
fondamentale obiettivo della tempestiva approvazione del bilancio di
previsione, dal che discende, ex lege, una gestione di tipo
provvisorio dell’ente e limitata a specifiche attività.
---------------
11. Se il bilancio di previsione non è approvato
dal Consiglio entro il 31 dicembre dell'anno precedente, la gestione
finanziaria dell'ente si svolge nel rispetto dei principi applicati della
contabilità finanziaria riguardanti l'esercizio provvisorio o la gestione
provvisoria. Nel corso dell'esercizio provvisorio o della gestione
provvisoria, gli enti gestiscono gli stanziamenti di competenza previsti
nell'ultimo bilancio approvato per l'esercizio cui si riferisce la gestione
o l'esercizio provvisorio, ed effettuano i pagamenti entro i limiti
determinati dalla somma dei residui al 31 dicembre dell'anno precedente e
degli stanziamenti di competenza al netto del fondo pluriennale vincolato.
2. Nel caso in cui il bilancio di esercizio non sia approvato entro
il 31 dicembre e non sia stato autorizzato l'esercizio provvisorio, o il
bilancio non sia stato approvato entro i termini previsti ai sensi del comma
3, è consentita esclusivamente una gestione provvisoria nei limiti dei
corrispondenti stanziamenti di spesa dell'ultimo bilancio approvato per
l'esercizio cui si riferisce la gestione provvisoria. Nel corso della
gestione provvisoria l'ente può assumere solo obbligazioni derivanti da
provvedimenti giurisdizionali esecutivi, quelle tassativamente regolate
dalla legge e quelle necessarie ad evitare che siano arrecati danni
patrimoniali certi e gravi all'ente. Nel corso della gestione provvisoria
l'ente può disporre pagamenti solo per l'assolvimento delle obbligazioni già
assunte, delle obbligazioni derivanti da provvedimenti giurisdizionali
esecutivi e di obblighi speciali tassativamente regolati dalla legge, per le
spese di personale, di residui passivi, di rate di mutuo, di canoni, imposte
e tasse, ed, in particolare, per le sole operazioni necessarie ad evitare
che siano arrecati danni patrimoniali certi e gravi all'ente.
3. L'esercizio provvisorio è autorizzato con legge o con decreto
del Ministro dell'interno che, ai sensi di quanto previsto dall'art. 151,
primo comma, differisce il termine di approvazione del bilancio, d'intesa
con il Ministro dell'economia e delle finanze, sentita la Conferenza
Stato-città ed autonomia locale, in presenza di motivate esigenze. Nel corso
dell'esercizio provvisorio non è consentito il ricorso all'indebitamento e
gli enti possono impegnare solo spese correnti, le eventuali spese correlate
riguardanti le partite di giro, lavori pubblici di somma urgenza o altri
interventi di somma urgenza. Nel corso dell'esercizio provvisorio è
consentito il ricorso all'anticipazione di tesoreria di cui all'art. 222.
4. All'avvio dell'esercizio provvisorio o della gestione
provvisoria l'ente trasmette al tesoriere l'elenco dei residui presunti alla
data del 1° gennaio e gli stanziamenti di competenza riguardanti l'anno a
cui si riferisce l'esercizio provvisorio o la gestione provvisoria previsti
nell'ultimo bilancio di previsione approvato, aggiornati alle variazioni
deliberate nel corso dell'esercizio precedente, indicanti -per ciascuna
missione, programma e titolo- gli impegni già assunti e l'importo del fondo
pluriennale vincolato.
5. Nel corso dell'esercizio provvisorio, gli enti possono impegnare
mensilmente, unitamente alla quota dei dodicesimi non utilizzata nei mesi
precedenti, per ciascun programma, le spese di cui al comma 3, per importi
non superiori ad un dodicesimo degli stanziamenti del secondo esercizio del
bilancio di previsione deliberato l'anno precedente, ridotti delle somme già
impegnate negli esercizi precedenti e dell'importo accantonato al fondo
pluriennale vincolato, con l'esclusione delle spese: a) tassativamente
regolate dalla legge; b) non suscettibili di pagamento frazionato in
dodicesimi; c) a carattere continuativo necessarie per garantire il
mantenimento del livello qualitativo e quantitativo dei servizi esistenti,
impegnate a seguito della scadenza dei relativi contratti.
6. I pagamenti riguardanti spese escluse dal limite dei dodicesimi
di cui al comma 5 sono individuati nel mandato attraverso l'indicatore di
cui all'art. 185, comma 2, lettera i-bis).
7. Nel corso dell'esercizio provvisorio, sono consentite le
variazioni di bilancio previste dall'art. 187, comma 3-quinquies, quelle
riguardanti le variazioni del fondo pluriennale vincolato, quelle necessarie
alla reimputazione agli esercizi in cui sono esigibili, di obbligazioni
riguardanti entrate vincolate già assunte, e delle spese correlate, nei casi
in cui anche la spesa è oggetto di reimputazione l'eventuale aggiornamento
delle spese già impegnate. Tali variazioni rilevano solo ai fini della
gestione dei dodicesimi (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 18.09.2019 n. 52). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Comma 557 e anagrafe prestazioni.
Domanda
Un incarico conferito ai sensi dell’art. 1, comma 557, della l. 311/2004
deve essere comunicato in PERLAPA oppure configurandosi come tempo
determinato non rientra negli incarichi ai dipendenti?
Risposta
A parere di chi scrive, non avendo in merito indicazioni specifiche da parte
del DFP (Dipartimento della Funzione Pubblica), poiché la natura
dell’istituto previsto dal comma 557, dell’art. 1, della legge n. 311/2004,
è quella di rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato, in deroga al
principio dell’esclusività del rapporto di pubblico impiego, come
ripetutamente ricostruito dalla Corte dei Conti e dal Consiglio di Stato
nelle loro pronunce in materia, esso non rientra tra quelli di cui all’art.
53 del d.lgs. n. 165/2001.
A ulteriore supporto di tale lettura, la Corte dei Conti affianca ormai
univocamente l’istituto in esame, definito “scavalco di eccedenza” e
già assimilato anche, in altre pronunce giurisprudenziali, al comando o
distacco, allo “scavalco condiviso” ex art 14 del CCNL 22/01/2004,
ora assurto al rango di fonte legale con l’introduzione del comma 124 della
legge di bilancio n. 145/2018, e certamente non rilevante per l’Anagrafe
delle prestazioni.
L’istituto di cui al comma 557 citato, in sostanza, non ha la natura di
incarico, sulla quale è incentrata la disposizione del TUPI, e giova
rilevare che, in effetti, tale definizione non è contenuta neppure nella
norma che lo ha istituito (12.09.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Obblighi
di pubblicità e trasparenza bandi di concorso.
Domanda
Tra poche settimane dovremo pubblicare un bando di concorso. Quali sono gli
obblighi di trasparenza che ha il comune?
Risposta
Relativamente ai bandi di concorso, la legislazione vigente prevede vari e
diversi obblighi di pubblicità e trasparenza.
Il primo è rappresentato dalla pubblicazione del bando nella Gazzetta
Ufficiale, 4ª Serie Speciale – Concorsi ed Esami. Come previsto
dall’articolo 4, comma 1-bis, del DPR 09.05.1994, n. 487, per gli enti
locali, la diffusione in Gazzetta può essere sostituita dalla pubblicazione,
sempre nella G.U., del solo avviso di concorso, contenente gli estremi del
bando e l’indicazione della scadenza del termine per la presentazione delle
domande.
Il secondo obbligo è quello di pubblicare il bando e il relativo schema di
domanda di partecipazione all’albo pretorio on-line dell’ente, per tutta la
durata del termine di presentazione della domanda. Per evitare possibili
confusioni tra le date è bene che la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e
quella all’albo pretorio comunale sia prevista nella stessa data.
Sempre nella medesima data, parte il terzo obbligo che è quello di
pubblicare il bando e lo schema di domanda nella sezione del sito web,
denominata Amministrazione trasparente > Bandi di concorso.
Per tale sezione gli obblighi di trasparenza sono fissati nell’articolo 19,
del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, che testualmente recita:
Art. 19 Bandi di concorso
1. Fermi restando gli altri obblighi di pubblicità legale, le
pubbliche amministrazioni pubblicano i bandi di concorso per il
reclutamento, a qualsiasi titolo, di personale presso l’amministrazione,
nonché i criteri di valutazione della Commissione e le tracce delle prove
scritte.
2. Le pubbliche amministrazioni pubblicano e tengono costantemente
aggiornato l’elenco dei bandi in corso.
Come si può notare, gli obblighi contenuti nel decreto Trasparenza (d.lgs.
33/2013) fanno salvi gli altri obblighi di pubblicità legale (Gazzetta e
albo) e non si limitano alla pubblicazione del bando e del fac-simile di
domanda, ma riguardano anche:
• i criteri di valutazione della Commissione (spesso previsti nel
regolamento dei concorsi ed eventualmente integrati dalla Commissione
stessa, nella sua prima seduta);
• le tracce delle prove scritte, intendendo sia quelle estratte per
lo svolgimento delle prove, sia quelle preparate dalla Commissione e non
utilizzate nella procedura concorsuale.
Con le ultime modifiche introdotte dall’articolo 18, del decreto legislativo
25.05.2016, n. 97, è stato soppresso l’obbligo di pubblicare tutti i bandi
espletati nel corso dell’ultimo triennio, accompagnati dall’indicazione, per
ciascuno di essi, del numero dei dipendenti assunti e delle spese sostenute
per l’espletamento del concorso.
Contrariamente a quanto previsto per le commissioni di gara (si veda
articolo 37, comma 1, lettera b, del d.lgs. 33/2013 e art. 29, comma 1,
d.lgs. 50/2016), per i bandi di concorso non vengono previsti obblighi
particolari di pubblicità circa la composizione della commissione
giudicatrice, né per la pubblicazione dei curricula dei suoi
componenti
(10.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sullo
scorrimento delle graduatorie dei concorsi pre-2019 in Corte dei conti vince
il «sì».
Si possono scorrere le graduatorie dei concorsi banditi prima del 2019? Per
la maggioranza delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti
fin qui intervenute, tra cui in modo esplicito quella della Marche, la
risposta è positiva; per i giudici contabili della Sardegna la risposta è
negativa.
È questa l'ennesima occasione su cui una disposizione di legge,
per la verità molto lacunosa tecnicamente, viene letta in modo differente
dai giudici contabili, peraltro nell'assenza in questa occasione di
indicazioni da parte dei ministeri. Il caso torna a sollevare ancora una
volta la necessità di migliorare la tecnica di redazione delle leggi e di
garantire omogeneità nelle interpretazioni.
Il nuovo quadro normativo
Sulla base delle disposizioni della legge di bilancio del 2019, e questo è
un dato acclarato, le graduatorie dei concorsi banditi a partire dallo
scorso 1° gennaio non potranno essere utilizzate per scorrimento né da parte
degli enti che hanno indetto le selezioni concorsuali né da parte di altre
amministrazioni.
Sulla base delle modifiche introdotte dalla legge di
conversione del Dl 135/2018 le graduatorie dei concorsi banditi dal 2019
vanno comunque utilizzate per scorrimento per la sostituzione dei vincitori
non assunti o decaduti o dimessi durante il periodo di validità della
stessa. Con una deroga introdotta dalla legge di conversione del Dl 34/2019
il divieto di scorrimento per le assunzioni degli idonei non si applica al
personale educativo e docente degli enti locali.
Il
parere
06.09.2019 n. 41 della
sezione regionale di controllo della Corte dei conti delle Marche
(già sul Quotidiano degli enti locali e della Pa del 10 settembre) ha
opportunamente aggiunto che queste graduatorie possono comunque essere
utilizzate per le assunzioni del personale a tempo indeterminato, in quanto
la disposizione che lo consente (articolo 36 del Dlgs 165/2001) costituisce
una norma speciale e non è quindi abrogata in modo implicito delle nuove
disposizioni.
Questa stessa deliberazione in modo esplicito e facendo seguito a quanto
implicitamente contenuto nelle pronunce delle sezioni regionali di controllo
della Puglia (parere
09.07.2019 n. 72) e del Veneto (parere
22.05.2019 n. 113) chiarisce che il
legislatore non ha introdotto un divieto di scorrimento delle graduatorie a
tempo indeterminato per i concorsi banditi negli anni precedenti, ma
solamente per quelli banditi a partire dal 2019. Con ciò smentendo il
parere 03.07.2019 n. 36
dei giudici contabili della Sardegna.
È da
considerare assodato che con la legge di bilancio è stata invertita la
logica che ha ispirato il legislatore negli ultimi anni, cioè il favore per
lo strumento dello scorrimento delle graduatorie. Ma, punto del contrasto,
questa inversione si applica solamente per i concorsi del 2019 o si estende
a tutti, con l'abrogazione implicita dell'articolo 3, comma 61, della legge
350/2003?
Effetti e interpretazioni di legge
È del tutto evidente che lo scorrimento delle graduatorie abbrevia i tempi
in cui si porta a conclusione un'assunzione ed è molta "comoda" per l'ente,
perché evita di dovere indire e attuare un concorso e, quindi, comporta
oneri finanziari e organizzativi assai contenuti. Dall'altro lato, è del
tutto evidente che gli idonei non sono dei vincitori e che la possibilità di
attingere senza limiti numerici, tanto più se congiunto all'allungamento dei
periodi di validità delle graduatorie, possono determinare rilevanti effetti distorsivi.
L'eccessiva durata delle graduatorie è stata tolta di mezzo
dalla legge di bilancio, visto che dal 1° gennaio non sono più utilizzabili
le graduatorie approvate fino a tutto il 2009, dal prossimo 30 settembre non
lo saranno più quelle approvate negli anni dal 2010 al 2014 ed entro pochi
anni si ritorna alla validità triennale di tutte le graduatorie. Ma
l'utilizzazione delle graduatorie non ha limiti numerici.
È opportuno ricordare infine, richiamando le indicazioni dei giudici
contabili marchigiani, che lo scorrimento delle graduatorie, sia da parte
dell'ente che ha indetto il concorso sia da parte delle altre
amministrazioni, è vietato per i posti di nuova istituzione o che risultano
dalla trasformazione dei posti esistenti. Un divieto che peraltro deve
essere chiarito dopo che con la legge Madia il rilievo delle dotazioni
organiche è stato significativamente ridimensionato.
E, ancora, si deve ricordare che la possibilità di utilizzare per
scorrimento graduatorie di altri enti sulla base di intese raggiunte dopo
che la loro approvazione costituisce una deroga ai principi di carattere
generale, quindi da applicare in via eccezionale, e comunque le
amministrazioni si devono dare meccanismi predeterminati e trasparenti di
scelta delle graduatorie da utilizzare, senza ad esempio poterne sovvertire
l'ordine di merito (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
12.09.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Graduatorie, largo agli idonei. Sì allo
scorrimento per i bandi antecedenti al 2019. La Corte dei conti Marche
sconfessa la sezione Sardegna.
Graduatorie, largo agli idonei Per i bandi antecedenti al 2019 è ancora
possibile sia lo scorrimento delle graduatorie degli idonei, sia l'utilizzo
delle graduatorie di altri enti.
Lo ha chiarito la Corte conti Marche nel
parere
06.09.2019 n. 41.
In risposta ad alcuni quesiti sulla possibilità di scorrere le graduatorie,
la sezione Marche della magistratura contabile si discosta, correttamente,
dall'erronea interpretazione fornita dalla sezione Sardegna col
parere 03.07.2019 n. 36,
ammettendo che per i bandi antecedenti al 2019 sia ancora possibile sia lo
scorrimento delle graduatorie degli idonei, sia l'utilizzo delle graduatorie
di altri enti.
Nell'affrontare la questione della possibilità di scorrere le graduatorie
degli idonei allo scopo di assumere a tempo determinato, invece, il parere
della sezione Marche inciampa in evidenti equivoci. Esso afferma che «per
le assunzioni a tempo determinato di idonei non vincitori di graduatorie a
tempo indeterminato è possibile derogare all'obbligo di utilizzo delle
graduatorie per i soli posti messi a concorso previsto dal combinato
disposto dei commi 361 e 365 dell'art. 1 della legge n. 145 del 2018».
Quindi, per la sezione Marche, mentre i dipendenti a tempo indeterminato si
possono assumere attingendo solo ai vincitori, al contrario i dipendenti a
tempo determinato potrebbero essere assunti anche chiamando gli idonei non
vincitori.
Questo perché «in sostanza, l'art. 36, comma 2, dlgs 165/2001 costituisce
una normativa di carattere speciale rispetto alle previsioni della legge n.
145 del 2018, dettata da una ratio differente». La specialità di tale
disposizione, secondo la magistratura contabile sarebbe «supportata non
solo dalla interpretazione teleologica dell'intervento normativo che l'ha
introdotta ma anche dalla stessa interpretazione letterale e sistematica
della legge n. 145 del 2018, che ha abrogato solo alcune delle disposizioni
contenute nel medesimo art. 4 del decreto-legge n. 101 del 2013, ma non
quella modificativa dell'art. 36, comma 2, dlgs 165/2001».
Tale impianto interpretativo non regge. L'articolo 36, comma 2, penultimo
periodo, del dlgs 165/2001 dispone: «Per prevenire fenomeni di
precariato, le amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle disposizioni
del presente articolo, sottoscrivono contratti a tempo determinato con i
vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi
pubblici a tempo indeterminato».
È vero che la disposizione citata consente di sottoscrivere i contratti a
termine sia coi vincitori, sia con gli idonei. Ma, altrettanto vero è che
occorra, nel nuovo regime normativo, coordinare tale disposizioni con le
previsioni contenute nell'articolo 1, comma 361, della legge 145/2018, ai
sensi del quale a partire dalle procedure bandite nel 2019 si possono
assumere solo i vincitori e non gli idonei (ferma la possibilità di scorrere
le graduatorie quando per qualsiasi ragione il rapporto di lavoro con i
vincitori non si sia costituito o si sia interrotto entro la vigenza delle
graduatorie).
Lo scopo dichiarato dell'articolo 36, comma 2, del dlgs 165/2001 è evitare
il fenomeno del precariato. In un regime nel quale lo scorrimento delle
graduatorie fino alla chiamata degli idonei è ammesso, un idoneo assunto a
tempo determinato può contare su una futura assunzione a tempo indeterminato
dovuta appunto allo scorrimento della graduatoria; dunque, la sua assunzione
a termine attenua la «precarietà» insita in un contratto flessibile.
Ma, nel nuovo regime, un idoneo non può vantare alcuna fondata aspettativa
allo scorrimento della graduatoria a tempo indeterminato. Quindi, una sua
assunzione con contratto a termine molto difficilmente precederebbe una
successiva assunzione a tempo indeterminato.
Pertanto, la chiamata con contratto a termine di idonei di graduatorie a
tempo indeterminato, esattamente all'opposto della tesi proposta dalla
sezione Marche, finisce proprio per tradursi senza dubbio alcuno nella
produzione di precariato pubblico, in aperta violazione della prescrizione
normativa, che va vista nella combinazione tra articoli 1, comma 361, della
legge 145/2018 e articolo 36, comma 2, penultimo periodo, del dlgs 165/2001,
norma, quindi, da non poter in alcun modo considerare come «speciale»,
ma necessariamente da coordinare e integrare con le disposizioni della legge
di Bilancio 2019
(articolo ItaliaOggi dell'11.09.2019).
---------------
Con nota a firma del Sindaco del Comune di Falconara Marittima (AN), pervenuta via PEC in data 08.08.2019 per il tramite del CAL,
il Comune
di Falconara Marittima ha avanzato a questa Corte una richiesta di parere,
ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge n. 131 del 2003, concernente
l’interpretazione della normativa vigente in materia di utilizzo di
graduatorie concorsuali.
In particolare, l’Ente ha chiesto se:
· alla luce della perdurante vigenza dell’art. 36, comma 2, penultimo
capoverso, del decreto legislativo n. 165 del 2001, le graduatorie di
concorsi, banditi successivamente al 01.01.2019 per posti a tempo
indeterminato, possano essere correttamente utilizzate –nel rispetto dei
limiti e vincoli delle norme contabili– per assunzioni a tempo determinato,
domandando, altresì, in caso positivo, di specificare i limiti e le modalità
procedurali sia nel caso di utilizzo di proprie graduatorie che di
graduatorie di altri comuni;
· alla luce delle vigenti norme, si ritiene ancora possibile l’assunzione
mediante scorrimento degli idonei della graduatoria di altro ente formata a
seguito di un bando pubblicato precedentemente al 01.01.2019, in quanto
fuori dall’ambito applicativo della legge n. 145 del 2018.
Al riguardo, l’Ente ha chiesto l’interpretazione di specifiche disposizioni
di legge, quali l’art. 1, comma 363, della legge n. 145 del 2018; l’art. 4,
comma 3-ter, del decreto-legge n. 101 del 2013; l’art. 36, comma 2, del
decreto legislativo n. 165 del 2001, facendo presente che la propria tesi
interpretativa è favorevole per entrambe le questioni.
...
Nel merito
1. Normativa di riferimento
Passando a trattare il merito della questione sottoposta al vaglio della
Sezione, ferma restando la normativa in materia di vincoli di spesa e di
vincoli assunzionali vigenti, in merito alla quale si rinvia alla costante
giurisprudenza della Corte dei conti (ex multis, Sezione regionale di
controllo per la Puglia,
parere 09.07.2019 n. 72, Sezione regionale di
controllo per il Veneto,
parere 20.12.2018 n. 548), appare opportuno
effettuare un sintetico excursus della normativa in applicazione.
1.1. Il d.l. 31.08.2013, n. 101, convertito in legge 30.10.2013, n.
125, recante “Disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di
razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni”, ha introdotto, all’art.
4, una serie di disposizioni volte a consentire alle pubbliche
amministrazioni di sottoscrivere contratti a tempo determinato con i
vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi
pubblici a tempo indeterminato. In particolare, il medesimo articolo:
· ha modificato l’art. 36, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001,
introducendo l’ultimo periodo, ancora in vigore, che dispone: “Per prevenire
fenomeni di precariato, le amministrazioni pubbliche, nel rispetto delle
disposizioni del presente articolo, sottoscrivono contratti a tempo
determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti
per concorsi pubblici a tempo indeterminato. È consentita l'applicazione
dell'articolo 3, comma 61, terzo periodo, della legge 24.12.2003, n.
350, ferma restando la salvaguardia della posizione occupata nella
graduatoria dai vincitori e dagli idonei per le assunzioni a tempo
indeterminato”;
· ha previsto, al comma 3, che “per le amministrazioni dello Stato, anche ad
ordinamento autonomo, le agenzie, gli enti pubblici non economici e gli enti
di ricerca, l'autorizzazione all'avvio di nuove procedure concorsuali, ai
sensi dell'articolo 35, comma 4, del decreto legislativo 30.03.2001, n.
165, e successive modificazioni, è subordinata alla verifica: a)
dell'avvenuta immissione in servizio, nella stessa amministrazione, di tutti
i vincitori collocati nelle proprie graduatorie vigenti di concorsi pubblici
per assunzioni a tempo indeterminato per qualsiasi qualifica, salve
comprovate non temporanee necessità organizzative adeguatamente motivate; b)
dell'assenza, nella stessa amministrazione, di idonei collocati nelle
proprie graduatorie vigenti e approvate a partire dal 01.01.2007,
relative alle professionalità necessarie anche secondo un criterio di
equivalenza”;
· ha previsto, al comma 3-bis, che “per la copertura dei posti in organico,
è comunque necessaria la previa attivazione della procedura prevista
dall'articolo 33 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive
modificazioni, in materia di trasferimento unilaterale del personale eccedentario”.
· ha previsto, al comma 3-ter, che “resta ferma per i vincitori e gli idonei
delle graduatorie di cui al comma 3 del presente articolo l'applicabilità
dell'articolo 3, comma 61, terzo periodo, della legge 24.12.2003, n.
350”;
· ha disposto, al comma 3-quater, che “l'assunzione dei vincitori e degli
idonei, nelle procedure concorsuali già avviate dai soggetti di cui al comma
3 e non ancora concluse alla data di entrata in vigore della legge di
conversione del presente decreto, è subordinata alla verifica del rispetto
della condizione di cui alla lettera a) del medesimo comma”.
Fino alla legge n. 145 del 2018, gli interventi normativi hanno esteso la
possibilità di utilizzo delle graduatorie concorsuali, mediante il loro
scorrimento, per l’assunzione dei candidati idonei non vincitori.
In particolare, con il decreto-legge n. 101 del 2013, il legislatore ha
limitato l’autorizzazione all’avvio di nuove procedure concorsuali,
prevedendo preliminarmente la verifica di una serie di condizioni quali:
a)
l’avvenuta immissione in servizio, nella stessa Amministrazione, di tutti i
vincitori collocati nelle proprie graduatorie vigenti di concorsi pubblici
per assunzioni a tempo indeterminato per qualsiasi qualifica, salve
comprovate non temporanee necessità organizzative adeguatamente motivate; e
b) l’assenza, nella stessa Amministrazione, di idonei collocati nelle
proprie graduatorie vigenti e approvate a partire dal 01.01.2007,
relative alle professionalità necessarie anche secondo un criterio di
equivalenza.
Oltre a ciò, lo stesso corpo normativo ha previsto ulteriori condizioni,
quali la previa attivazione della procedura prevista dall’articolo 33 del
decreto legislativo n. 165 del 2001, in materia di trasferimento unilaterale
del personale eccedentario.
Inoltre, veniva fatta salva, per i vincitori e gli idonei delle graduatorie
di cui sopra, l’applicabilità dell’articolo 3, comma 61, terzo periodo,
della legge 24.12.2003, n. 350, mentre anche l’assunzione dei
vincitori e degli idonei, nelle procedure concorsuali già avviate dai
soggetti di cui sopra e non ancora concluse alla data di entrata in vigore
della legge di conversione, veniva subordinata alla verifica del rispetto
della condizione dell’avvenuta immissione in servizio, nella stessa
Amministrazione, di tutti i vincitori collocati nelle proprie graduatorie
vigenti di concorsi pubblici per assunzioni a tempo indeterminato per
qualsiasi qualifica, salve comprovate non temporanee necessità organizzative
adeguatamente motivate.
Tali prescrizioni, inizialmente dettate per le amministrazioni dello Stato,
anche ad ordinamento autonomo, le agenzie, gli enti pubblici non economici e
gli enti di ricerca, sono state estese anche agli enti locali dall’art. 3,
comma 5-ter, del decreto-legge n. 90 del 2014, secondo cui i principi
dell’art. 4, comma 3, del decreto-legge n. 101 del 2013, convertito, con
modifiche, dalla legge n. 114 del 2014, si applicano alle amministrazioni di
cui al comma 5 del medesimo art. 3 ovvero alle regioni e agli enti
sottoposti al patto di stabilità interno.
Peraltro, la giurisprudenza ha riconosciuto un “generale favor
dell’ordinamento per lo scorrimento di graduatorie ancora efficaci ai fini
della copertura di posti vacanti nella pianta organica” (si veda, ex multis,
Sezione regionale di controllo per il Veneto, deliberazione n. 371/2018/PAR,
Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria n. 14/2011, Sezione regionale di
controllo per la Campania, deliberazione n. 158/2018/PAR).
In particolare, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che la
decisione di scorrimento della graduatoria preesistente ed efficace
rappresenta ormai la regola generale, mentre l’indizione del nuovo concorso
costituisce l’eccezione e richiede un’apposita e approfondita motivazione,
che dia conto del sacrificio imposto ai concorrenti idonei e delle
preminenti esigenze di interesse pubblico (TAR Lazio, sent. n. 3444/2012,
TAR Campania, Napoli, sent. n. 366/2017, Consiglio di Stato, sent. n.
6247/2013), senza che tuttavia sia configurabile un diritto soggettivo
all’assunzione in capo agli idonei per il solo fatto della disponibilità di
posti in organico: infatti, l’Amministrazione deve sempre motivare le forme
prescelte per il reclutamento, tenendo conto delle graduatorie vigenti e del
fatto che “l’ordinamento attuale afferma un generale favore per
l’utilizzazione delle graduatorie degli idonei, che recede solo in presenza
di speciali discipline di settore o di particolari circostanze di fatto o di
ragioni di interesse pubblico prevalenti, che devono, comunque, essere
puntualmente enucleate nel provvedimento di indizione del nuovo concorso”
(Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 14 del 2011).
1.2. Successivamente, il comma 363 dell’art. 1 della legge n. 145 del 2018
ha modificato il decreto-legge n. 101 del 2013 sopra richiamato, abrogando
la lettera b) del comma 3 e i commi 3-ter e 3-quater dell’art. 4.
In particolare, i commi 360-367 della citata legge, concernenti le modalità
delle procedure concorsuali per il reclutamento del personale nelle
pubbliche amministrazioni, hanno ammesso l’utilizzo delle graduatorie
concorsuali solo per la copertura dei posti messi a concorso e hanno
modificato, in via transitoria, i termini di vigenza delle graduatorie
medesime. I commi in esame riguardano tutte le pubbliche amministrazioni (di
cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001, e
successive modificazioni), con esclusione delle assunzioni del personale
scolastico (ivi compresi i dirigenti) e del personale delle istituzioni di
alta formazione artistica, musicale e coreutica.
In particolare, il comma 360 ha esteso a tutte le procedure concorsuali
delle pubbliche amministrazioni le modalità semplificate che verranno
definite con il regolamento ministeriale di cui al precedente comma 300.
I commi 361 e 365 hanno previsto, con riferimento alle procedure concorsuali
bandite dopo il 01.01.2019, che le relative graduatorie siano impiegate
esclusivamente per la copertura dei posti messi a concorso, fermi restando i
termini di vigenza delle medesime graduatorie.
Tali termini sono stati modificati, in via transitoria, dal successivo comma
362, che ha posto termini di durata specifici a seconda dell'anno di
approvazione della graduatoria, con riferimento agli anni 2010-2018, mentre
è stato confermato il termine già vigente di 3 anni per le graduatorie
approvate a decorrere dal 01.01.2019. E’ stata, inoltre, esplicitamente
confermata la possibilità, per le leggi regionali, di stabilire periodi di
vigenza inferiori.
Infine, i commi 363 e 364 hanno abrogato alcune norme, ai fini del
coordinamento con i principi citati.
Come evidenziato nel recente
parere 03.07.2019 n. 36 della Sezione di
controllo della Corte dei conti per la regione Sardegna, i due interventi
normativi hanno una ratio differente: infatti, mente il primo (decreto-legge
n. 101 del 2013) si colloca in un quadro normativo da cui emerge una
preferenza per l’assunzione di personale mediante lo scorrimento di
graduatorie, proprie o altrui, il secondo (legge n. 145 del 2018), con le
disposizioni innanzi richiamate, ha introdotto una evidente discontinuità
con gli interventi normativi precedenti: infatti, la disciplina dettata
dall’art. 1, comma 361, della legge n. 145 del 2018, nel prevedere che le
graduatorie dei concorsi siano utilizzate “esclusivamente” per la copertura
dei posti messi a concorso, impedisce l’utilizzo della medesima graduatoria
per la copertura di qualsiasi altro posto diverso da quelli messi a
concorso, sia esso della medesima o di altra Amministrazione.
Lo scorrimento della graduatoria viene quindi limitato, a partire dal 2019,
alla sola possibilità di attingere ai candidati “idonei” per la copertura di
posti che, pur essendo stati messi a concorso, non siano stati coperti o
siano successivamente divenuti scoperti nel periodo di permanente efficacia
della graduatoria medesima.
Come rimarcato nella deliberazione sopra richiamata, “la regola introdotta
dal menzionato art. 1, comma 361, della legge n. 145/2018, pertanto,
determina una inversione di tendenza nella utilizzabilità delle graduatorie
di concorso, non consentendo più lo scorrimento da parte di altre
amministrazioni, né da parte della medesima Amministrazione che intendesse
utilizzare una propria graduatoria, ancora efficace, per la copertura di un
posto diverso da quelli messi a concorso. Il successivo art. 1, comma 363,
nell’abrogare alcune norme che prevedevano la possibilità di utilizzare le
graduatorie di altre amministrazioni, si pone in coerenza con la volontà
legislativa espressa nella nuova regola generale di cui al comma 361: da un
lato, infatti, si crea uno stretto collegamento tra graduatoria e posto
messo a concorso; dall’altro, coerentemente, vengono abrogate le norme che
prevedevano l’utilizzo della graduatoria per la copertura di posti diversi
da quelli messi a concorso” (Sezione di controllo per la Sardegna,
parere 03.07.2019 n. 36).
1.3. Si evidenzia che i sopra citati commi della legge n. 145 del 2018 sono
stati modificati di recente dall’articolo 9-bis, comma 1, lettera a), del
decreto-legge 14.12.2018, n. 135, convertito in legge, con
modificazioni, dalla legge 11.02.2019, n. 12, dall'articolo 14-ter,
comma 2, del decreto-legge 28.01.2019, n. 4, convertito in legge, con
modificazioni, dalla legge 28.03.2019, n. 26 e dall’articolo 33, comma
2-bis, del decreto-legge 30.04.2019, n. 34, convertito in legge, con
modificazioni, dalla legge 28.06.2019, n. 58.
In particolare, il comma 361 è stato modificato dall’art. 14-ter del
decreto-legge 28.01.2019, n. 4, che ha aggiunto, dopo le parole «a
concorso», le seguenti: «nonché di quelli che si rendono disponibili, entro
i limiti di efficacia temporale delle graduatorie medesime, fermo restando
il numero dei posti banditi e nel rispetto dell'ordine di merito, in
conseguenza della mancata costituzione o dell'avvenuta estinzione del
rapporto di lavoro con i candidati dichiarati vincitori. Le graduatorie
possono essere utilizzate anche per effettuare, entro i limiti percentuali
stabiliti dalle disposizioni vigenti e comunque in via prioritaria rispetto
alle convenzioni previste dall'articolo 11 della legge 12.03.1999, n. 68,
le assunzioni obbligatorie di cui agli articoli 3 e 18 della medesima legge
n. 68 del 1999, nonché quelle dei soggetti titolari del diritto al
collocamento obbligatorio di cui all'articolo 1, comma 2, della legge 23.11.1998, n. 407, sebbene collocati oltre il limite dei posti ad essi
riservati nel concorso».
Il Collegio osserva come il primo periodo dell’ultima parte del comma 361,
aggiunta dall’art. 14-ter del decreto-legge 28.01.2019, n. 4, non
introduce una deroga al principio di stretto collegamento tra graduatoria e
posto messo a concorso, bensì, con un’endiadi, chiarisce il significato
della locuzione “posti messi a concorso”, evidenziando come la stessa non
coincida con il termine “vincitori”, comprendendo la possibilità di
scorrimento delle graduatorie degli idonei nei casi in cui si verifichino
vicende che possono portare alla mancata costituzione o alla estinzione
anticipata del rapporto di lavoro con i candidati dichiarati vincitori.
Inoltre, a seguito delle modifiche apportate all’art. 1, comma 366, della
legge n. 145 del 2018 ad opera del decreto-legge n. 34 del 2019, i commi
360, 361, 363 e 364 non si applicano alle assunzioni del personale educativo
degli enti locali.
1.4. Infine, si evidenzia come il principio sancito dal comma 361 sopra
citato non sia stato superato dal recente intervento normativo operato con
la legge 19.06.2019, n. 56 (c.d. legge concretezza).
In particolare, l’articolo 3, comma 4, della legge 19.06.2019, n. 56
(c.d. legge concretezza), dispone che: “Al fine di ridurre i tempi di
accesso al pubblico impiego, per il triennio 2019-2021, fatto salvo quanto
stabilito dall’articolo 1, comma 399, della legge 30.12.2018, n. 145,
le amministrazioni di cui al comma 1” ovvero le amministrazioni dello Stato,
anche ad ordinamento autonomo, le agenzie e gli enti pubblici non economici,
“possono procedere, in deroga a quanto previsto dal primo periodo del comma
3 del presente articolo e all'articolo 30 del decreto legislativo n. 165 del
2001, nel rispetto dell'articolo 4, commi 3 e 3-bis, del decreto-legge 31.08.2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.10.2013, n. 125,
nonché del piano dei fabbisogni definito secondo i criteri di
cui al comma 2 del presente articolo: a) all'assunzione a tempo
indeterminato di vincitori o allo scorrimento delle graduatorie vigenti, nel
limite massimo dell'80 per cento delle facoltà di assunzione previste dai
commi 1 e 3, per ciascun anno”.
L’art. 6 della medesima legge ha esteso l’applicazione delle disposizioni
sopra richiamate anche agli enti locali, prevedendo che le stesse “recano
norme di diretta attuazione dell’art. 97 della Costituzione e costituiscono
principi generali dell’ordinamento” (comma 1) e che “le Regioni, anche per
quanto concerne i propri enti e le amministrazioni del Servizio sanitario
nazionale, e gli enti locali adeguano i propri ordinamenti alle disposizioni
della presente legge” (comma 4).
Il citato art. 3, come evidenziato nella rubrica, introduce “Misure per
accelerare le assunzioni mirate e il ricambio generazionale nella pubblica
amministrazione", intervenendo, tra l’altro, in materia di facoltà assunzionali, di procedure per le assunzioni, nonché di concorsi pubblici e
di personale in disponibilità e assunzioni delle categorie protette. In
particolare, il comma 4 del medesimo articolo reca norme transitorie, intese
a ridurre i tempi di accesso al pubblico impiego, in deroga alla procedura
di autorizzazione di cui all’art. 4, comma 3, primo periodo, ed alle norme
sulla mobilità volontaria.
Ritiene questa Sezione che, con il richiamo contenuto nell’art. 3, comma 4,
lettera a), della legge. n. 56 del 2019 allo “scorrimento delle
graduatorie”, il legislatore magis dixit quam voluit, poiché l’intero inciso
di tale comma, più sopra riportato, “Al fine di ridurre i tempi di accesso
al pubblico impiego...”, deve intendersi genericamente riferito allo
snellimento delle procedure di reclutamento del personale, senza alcun
intento di ripristinare la persistente valenza delle graduatorie pregresse.
A riprova di tale assunto, la citata legge n. 56 del 2019 ha espressamente
derogato alle sole disposizioni riferentesi al preventivo espletamento delle
procedure di mobilità e non anche alle più volte menzionate disposizioni
della legge n. 145 del 2018 che hanno escluso (con la decorrenza che più
innanzi sarà specificata) lo scorrimento delle graduatorie per le assunzioni
a tempo indeterminato.
In ragione di tale conclusione, il parere può essere reso nei termini
prospettati dalla richiedente Amministrazione.
2. L’utilizzo, per assunzioni a tempo determinato, di graduatorie di
concorsi per posti a tempo indeterminato e l’art. 36, comma 2, del d.lgs.
165/2001.
2.1. La legge n. 145 del 2018 stabilisce, dunque, un obbligo in capo alle
amministrazioni pubbliche ai sensi dell'art. 1, comma 2, del decreto
legislativo n. 165 del 2001 sulle modalità di utilizzo delle graduatorie di
concorso per il reclutamento del proprio personale: attraverso la previsione
dell'utilizzabilità delle graduatorie “esclusivamente per la copertura dei
posti messi a concorso”, infatti, viene sostanzialmente eliminata tanto la
possibilità di operare uno scorrimento delle graduatorie -nel periodo di
vigenza delle stesse- per far fronte alla copertura di posti che si
rendessero vacanti successivamente all'indizione del concorso, quanto la
possibilità di utilizzo delle graduatorie -nel periodo di vigenza delle
stesse- per la copertura di posti necessari ad altro Ente.
Il Collegio ritiene, tuttavia, che tale principio non possa trovare
applicazione per le assunzioni a tempo determinato.
Il citato comma 363 dell'art. 1, infatti, ha abrogato alcune disposizioni
dell'art. 4 del decreto-legge n. 101 del 2013, convertito in legge, con
modificazioni, dalla legge n. 125 del 2013, che permettevano lo scorrimento
delle graduatorie e l'utilizzo di graduatorie di concorsi banditi da altre
pubbliche amministrazioni, al fine di rendere operativo l'obbligo di cui al
precedente comma 361.
La disposizione in esame, al contempo, non ha abrogato il comma 1 dell'art.
4 del richiamato decreto-legge n. 101 del 2013, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 125 del 2013.
In particolare, l’art. 4, comma 1, del decreto-legge n. 101 del 2013 ha
modificato l’art. 36, comma 2, del decreto legislativo n. 165/2001,
prescrivendo l'obbligo per tutte le pubbliche amministrazioni, al fine di
prevenire fenomeni di precariato, di procedere ad assunzioni a tempo
determinato di vincitori e idonei collocati nelle graduatorie vigenti per
concorsi a tempo indeterminato, proprie o approvate da altre
amministrazioni, previo accordo con le stesse. Con riferimento all’utilizzo
di graduatorie di altri enti, lo stesso art. 36, comma 2, del decreto
legislativo n. 165 del 2001 afferma che “È consentita l'applicazione
dell'articolo 3, comma 61, terzo periodo, della legge 24.12.2003, n.
350, ferma restando la salvaguardia della posizione occupata nella
graduatoria dai vincitori e dagli idonei per le assunzioni a tempo
indeterminato”.
La giurisprudenza della Corte dei conti ha più volte evidenziato come la
disposizione citata, contenuta nell’art. 36, comma 2, del decreto
legislativo n. 165 del 2001, come modificato dall’art. 4, comma 1,
decreto-legge n. 101 del 2013, si collochi nell’ambito di una serie di
disposizioni volte a limitare la possibilità per gli enti locali di
utilizzare contratti di lavoro flessibile, in particolare, il tempo
determinato, ribadendo che la regola generale per assumere è il contratto a
tempo indeterminato, quale strumento ordinario per far fronte al fabbisogno
di personale, mentre le assunzioni a tempo determinato possono avvenire
soltanto per esigenze di carattere "esclusivamente" temporaneo o
eccezionale.
In particolare, è stato affermato come la disposizione sopra
richiamata “introduce un evidente favor per i contratti di lavoro
subordinato a tempo indeterminato, da utilizzare per dare risposta ai
fabbisogni ordinari ed alle esigenze di carattere duraturo, nel rispetto
delle norme contrattuali e della disciplina di settore. Al contempo, relega
le forme contrattuali flessibili all’esclusivo soddisfacimento di esigenze
di carattere temporaneo o eccezionale” (cfr. Corte dei conti, Sezione
regionale di controllo per la Campania, n. 31/2017/PAR).
In tale quadro normativo si colloca la disposizione contenuta nel medesimo
art. 36, comma 2, che, sempre nell'ottica di restringere la possibilità di
ricorso a forme di lavoro flessibile, ha previsto la possibilità per le p.a.,
“al fine di prevenire il precariato”, di sottoscrivere contratti a tempo
determinato con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti
per concorsi pubblici a tempo indeterminato. L'intento del legislatore è,
quindi, quello di evitare, attraverso l’assunzione con contratti a tempo
determinato di vincitori di concorsi per posti a tempo indeterminato, la
creazione dei presupposti del precariato.
Infatti, il Dipartimento della
Funzione pubblica, con la circolare n. 5/2013, ha chiarito che il
lavoratore, che si trova all'interno di una graduatoria a tempo
indeterminato, nel caso in cui sia assunto con contratto a termine potrà poi
“essere assunto con rapporto di lavoro a tempo indeterminato senza necessità
di altre procedure”, una volta verificate le condizioni per l'assunzione
definitiva in ruolo.
Pertanto, per le assunzioni a tempo determinato di idonei non vincitori di
graduatorie a tempo indeterminato è possibile derogare all'obbligo di
utilizzo delle graduatorie per i soli posti messi a concorso previsto dal
combinato disposto dei commi 361 e 365 dell'art. 1 della legge n. 145 del
2018.
In sostanza, l’art. 36, comma 2, d.lgs. 165/2001 costituisce una normativa
di carattere speciale rispetto alle previsioni della legge n. 145 del 2018,
dettata da una ratio differente. Peraltro, come già sopra evidenziato, la
specialità di tale disposizione è supportata non solo dalla interpretazione
teleologica dell’intervento normativo che l’ha introdotta ma anche dalla
stessa interpretazione letterale e sistematica della legge n. 145 del 2018,
che ha abrogato solo alcune delle disposizioni contenute nel medesimo art. 4
del decreto-legge n. 101 del 2013, ma non quella modificativa dell’art. 36,
comma 2, d.lgs. 165/2001.
2.2. L’Ente ha chiesto, altresì, di indicare i limiti e le modalità
procedurali sia nel caso di utilizzo di proprie graduatorie sia nel caso di
(eventuale) utilizzo di graduatorie di altri comuni.
Per quanto riguarda i limiti allo scorrimento di graduatorie, si rinvia alla
costante giurisprudenza della Corte dei conti, che si è pronunciata più
volte sulla necessità che i posti da coprire non siano di nuova istituzione
o trasformazione ai sensi dell’art. 91, comma 4, d.lgs. 267/2001 e sulla
identità di posti tra quello oggetto della procedura che ha dato luogo alla
graduatoria e la nuova esigenza assunzionale (ex multis, Corte dei conti,
sezione regionale di controllo per la Puglia, deliberazione n. 72 del 2019 e
la giurisprudenza ivi richiamata), nonché, nel caso di utilizzo di
graduatorie di altri Enti, sulle condizioni del “previo accordo” tra le
amministrazioni interessate (sul punto si rinvia al par. 4).
Relativamente alle modalità procedurali nel caso di utilizzo di graduatorie
proprie e di altri comuni, si rammenta che tale decisione esula dalla
funzione consultiva della Corte dei conti, concernente l’esame da un punto
di vista astratto e su temi di carattere generale.
Pertanto, la decisione
relativa alle modalità procedurali non può che essere rimessa alla
valutazione dell’Ente, rientrando nella sfera di competenza amministrativa
del singolo Comune e nella discrezionalità e responsabilità diretta degli
organi di governo, fermo restando il rispetto dei principi di trasparenza ed
imparzialità che devono ispirare le suddette procedure.
3. L’utilizzo, per assunzioni a tempo indeterminato, di graduatorie di
concorsi per posti a tempo indeterminato e l’ambito di applicazione della
legge n. 145 del 2018
3.1. Il secondo quesito riguarda la possibilità di attingere a graduatorie
di altre amministrazioni per posti a tempo indeterminato. In particolare,
l’Ente ha chiesto se sia ancora possibile l’assunzione mediante scorrimento
degli idonei della graduatoria di altro Ente formata a seguito di un bando
pubblicato precedentemente al 01.01.2019, in quanto fuori dall’ambito
applicativo della richiamata legge n. 145 del 2018.
A tale riguardo, il Collegio evidenzia come
per i concorsi banditi
successivamente al 01.01.2019, data di entrata in vigore della legge n.
145 del 2018, l’assunzione mediante scorrimento degli idonei della
graduatoria di altro Ente non sia possibile né per le graduatorie proprie né
per quelle di altro Ente (cfr. Sezione regionale di controllo per la
Sardegna,
parere 03.07.2019 n. 36).
Infatti, il citato comma 361 della
legge n. 145 del 2018 ha eliminato sia la possibilità di operare lo
scorrimento delle graduatorie per far fronte alla copertura di posti che si
rendessero vacanti successivamente all’indizione del concorso sia la
possibilità di utilizzo delle graduatorie per la copertura di posti
necessari ad altro Ente.
Al contrario,
per i concorsi banditi antecedentemente al 31.12.2018,
il Collegio ritiene che non si possa affermare lo stesso principio, dal
momento che l'art. 1, comma 365, dispone che “la previsione di cui al comma
361 si applica alle graduatorie delle procedure concorsuali bandite
successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge”.
3.2. Come sopra esposto, il principio sancito dal comma 361 citato è stato
mitigato dall’art. 14-ter del decreto-legge 28.01.2019, n. 4 (si veda
par. 1.3).
4. L’assunzione mediante scorrimento degli idonei della graduatoria di altro
Ente
4.1. Le fattispecie su cui l’Ente ha richiesto il parere si pongono, quindi,
al di fuori dell’ambito applicativo della legge n. 145 del 2018: la prima in
quanto trattasi di utilizzo di graduatorie di concorsi a tempo indeterminato
per assunzioni a tempo determinato, per il quale si applica la normativa
speciale dettata dall’art. 36, comma 2, d.lgs. 165/2001; la seconda in
quanto trattasi di utilizzo, per assunzioni a tempo indeterminato, di
graduatorie di procedure concorsuali a tempo indeterminato, bandite prima
del 01.01.2019, per le quali, ai sensi del comma 365, non è applicabile
il comma 361.
In entrambi i casi, trattandosi appunto di fattispecie non rientranti
nell’ambito applicativo della legge n. 145 del 2018, si impone una
precisazione per quanto concerne l’utilizzo di graduatorie di altri enti.
Come già sopra evidenziato, con riferimento alla prima fattispecie, lo
stesso art. 36, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001 consente
l’utilizzo di graduatorie di altri enti, richiamando l’art. 3, comma 61,
terzo periodo, della legge n. 350 del 2003.
Con riferimento alla seconda fattispecie, il comma 363 della legge n. 145
del 2018 ha abrogato alcune disposizioni contenute nel decreto-legge n. 101
del 2013, ovvero l’art. 1, lettera b), del comma 3 e i commi 3-ter e 3-quater
dell’art. 4.
In particolare, l’art. 3, comma 3-ter, prevedeva che “resta ferma per i
vincitori e gli idonei delle graduatorie di cui al comma 3 del presente
articolo l'applicabilità dell'articolo 3, comma 61, terzo periodo, della
legge 24.12.2003, n. 350”. Il comma citato è stato abrogato a
decorrere dal 01.01.2019.
Tuttavia, la legge n. 145 del 2018 non ha abrogato l’articolo 3, comma 61,
terzo periodo, della legge n. 350 del 2003, che dispone: “In attesa
dell'emanazione del regolamento di cui all'articolo 9 della legge 16.01.2003, n. 3, le amministrazioni pubbliche ivi contemplate, nel rispetto delle
limitazioni e delle procedure di cui ai commi da 53 a 71, possono effettuare
assunzioni anche utilizzando le graduatorie di pubblici concorsi approvate
da altre amministrazioni, previo accordo tra le amministrazioni
interessate”.
La sezione Sardegna, con
parere 03.07.2019 n. 36, ha affermato che
non è
possibile procedere allo scorrimento di graduatoria concorsuale formata da
altro Ente pubblico, per l’assunzione di personale a tempo indeterminato,
evidenziando come l’art. 3, comma 61, sebbene non espressamente abrogato
dalla legge n. 145 del 2018, risulterebbe implicitamente abrogato in quanto
incompatibile con la nuova regola generale di cui al comma 361 della legge
n. 145 del 2018.
Il Collegio evidenzia, a tale riguardo, come tale principio si possa
applicare solo ai casi rientranti nell’ambito applicativo della legge n. 145
del 2018, ossia alle graduatorie delle procedure concorsuali bandite
successivamente al 01.01.2019, per espressa previsione normativa (comma
365). Di conseguenza, l’art. 3, comma 61, della legge n. 350 del 2003
risulterebbe inapplicabile solo per dette graduatorie.
Tale soluzione interpretativa è avallata dall’interpretazione letterale
delle disposizioni contenute nella legge n. 145 del 2018, nonché dalla
stessa ratio dell’intervento normativo: infatti, la legge n. 145 del 2018
prevede che le graduatorie dei concorsi siano utilizzate “esclusivamente”
per la copertura dei posti messi a concorso, impedendo, per le graduatorie
delle procedure concorsuali bandite successivamente alla data di entrata in
vigore della medesima legge, l’utilizzo della graduatoria per la copertura
di qualsiasi altro posto diverso da quelli messi a concorso, sia esso della
medesima o di altra Amministrazione. Il principio espresso nel comma 361 ha
uno specifico ambito applicativo, anche dal punto di vista temporale (comma
365), e non può che valere a prescindere da quale Amministrazione utilizzi
la graduatoria, stante la generalità della previsione, che si riferisce
all’utilizzo di graduatorie in generale.
Inoltre, il Collegio, a conferma della perdurante vigenza dell’art. 3, comma
61, della legge n. 350 del 2003, evidenzia come lo stesso sia tuttora citato
in diverse disposizioni (art. 36, comma 2, del decreto legislativo n. 165
del 2001; art. 1, comma 100, della legge n. 311 del 2004; art. 9, comma
4-bis, del decreto-legge n. 78 del 2010); pertanto, tale articolo non
risulterebbe inapplicabile in ogni caso, ma solo con riguardo alle
fattispecie rientranti nel perimetro applicativo della legge n. 145 del
2018, in quanto non compatibile con la ratio del revirement
normativo, risultando invece applicabile ai casi che si collocano al di
fuori di esso (assunzioni a tempo determinato e assunzioni a tempo
indeterminato in caso di utilizzo di graduatorie di bandi pubblicati prima
del 01.01.2019).
4.2. Con specifico riferimento all’utilizzo di graduatorie di altri Enti, si
evidenzia come le Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti si
siano più volte pronunciate sulla interpretazione del requisito normativo
del “previo accordo” tra le amministrazioni interessate, necessario
per la legittimità dell’assunzione del candidato idoneo in una graduatoria
di concorso bandito da altro Ente, ai sensi dell’art. 3, comma 61, della
legge n. 350 del 2003, affermando come tale previsione debba necessariamente
raccordarsi con la previsione contenuta nell’art. 91, comma 4, del decreto
legislativo n. 267 del 2001.
A tale riguardo, con deliberazione n.
3/2019/PAR, la Sezione regionale di controllo per il Piemonte ha affermato
che “se l’utilizzo delle proprie graduatorie è escluso per i posti
istituiti o trasformati dopo l’indizione del concorso da parte dello stesso
ente, è evidente che tale limite vale anche per l’utilizzo delle altrui
graduatorie” (cfr. anche Sezione regionale di controllo per l’Umbria,
deliberazione n. 28/2018/PAR e Sezione regionale di controllo per il
Piemonte, n. 114/2018).
Peraltro, è stato evidenziato come tale accordo con le altre Amministrazioni
interessate, sebbene la normativa non lo imponga, dovrebbe, per ragioni di
trasparenza, precedere l’indizione del concorso del diverso Ente o
l’approvazione della graduatoria.
In tal senso, la Sezione regionale di
controllo per l’Umbria, con deliberazione n. 124/2013, ha affermato che ciò
che rileva è che “l’accordo stesso, che comunque deve intervenire prima
dell’utilizzazione della graduatoria, si inserisca in un chiaro e
trasparente procedimento di corretto esercizio del potere di utilizzare
graduatorie concorsuali di altri Enti, così da escludere ogni arbitrio e/o
irragionevolezza e, segnatamente, la violazione delle cennate regole di
“concorsualità” per l’accesso ai pubblici uffici” (cfr. anche Sezione
regionale di controllo per il Veneto, deliberazioni nn. 189/2018 e 371/2018,
che si sofferma anche sugli altri requisiti richiesti dall’ordinamento ai
fini del corretto e legittimo utilizzo della graduatoria di altro Ente)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Marche,
parere
06.09.2019 n. 41). |
agosto 2019 |
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PUBBLICO IMPIEGO: Responsabilità oggettiva e onere della prova del lavoratore.
L’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ciò
in quanto la responsabilità del datore di lavoro deve essere collegata alla
violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o
suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento.
Da tale
principio deriva che incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito un
danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure
la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro (TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 01.08.2019 n. 1808
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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II) In via preliminare va affermata la giurisdizione del
giudice amministrativo in relazione alla controversia di cui è causa.
A margine del rilievo della non pertinenza delle pronunce giurisprudenziali
citate dalla ricorrente a sostegno della propria deduzione in ordine al
difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, e non volendo il
Collegio soffermarsi sulla violazione del canone di buona fede processuale,
concretatasi nel caso di specie con il venire contra factum proprium, avendo
la ricorrente adito sua sponte il giudice amministrativo, va rilevato che
nessun dubbio sussiste in ordine alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, trattandosi di controversia attinente al pubblico impiego di
personale non contrattualizzato, ai sensi del combinato disposto di cui
all’art. 133, comma 1, lett. i), c.p.a. e all’art. 3 del D.lgs. 165/2001.
In
tale ipotesi la giurisdizione si estende anche alla cognizione delle azioni
inerenti il risarcimento del danno derivante dal cosiddetto mobbing a
condizione che l'azione proposta possa qualificarsi in termini di
responsabilità contrattuale per violazione dell'obbligo di garanzia imposto
dall'art. 2087 c.c. (Cons. Stato Sez. VI, 20.06.2012, n. 3584) nel caso di
comportamenti vessatori adottati nell'esercizio del potere di supremazia
gerarchica posto a regolazione dello svolgimento del rapporto di lavoro
(Consiglio di Stato, sez. IV, 26/11/2015, n. 5371) e da ricondurre
specificamente al rapporto di servizio.
Ora, secondo la prospettazione della ricorrente le condotte
dell'Amministrazione che avrebbero determinato il danno asseritamente subito
sarebbero proprio riconducibili al rapporto di servizio.
Va comunque in proposito precisato che nessuna rilevanza può avere ai fini
del riparto di giurisdizione la vicenda (distinta) riguardante
l’accertamento della dipendenza da causa di servizio della patologia
riscontrata, che, come si dirà meglio in seguito, neppure rileva sotto il
profilo di merito della presente controversia.
Le questioni riguardanti la pensione privilegiata, di cui la ricorrente ha
interessato la competente sezione regionale della Corte dei Conti, hanno
natura nettamente differente dalla domanda avanzata con il ricorso
introduttivo.
Deve dunque affermarsi la giurisdizione di questo Tribunale.
III) Venendo al merito della controversia, come appena rilevato, va innanzi
tutto osservato che non può trarsi alcun elemento di fondatezza della
domanda risarcitoria avanzata nella presente sede dall’avvenuto accertamento
della dipendenza da causa di servizio della patologia riscontrata alla
ricorrente.
Come condivisibilmente argomentato dalla difesa dell’Amministrazione non può
esserci un’automatica trasposizione sul piano della responsabilità datoriale
dell’accertata inidoneità al servizio attivo.
Ed invero al fine di ritenere sussistente la fattispecie del mobbing
occorrono elementi che, nel procedimento volto ad accertare la dipendenza da
causa di servizio di una certa patologia, non vengono minimamente
considerati, quale, in particolare, l’intento persecutorio.
Sotto tale profilo risultano del tutto irrilevanti e non pertinenti le
argomentazioni sviluppate dalla difesa della ricorrente nelle 39 pagine
della memoria depositata per l’udienza pubblica (e dei 209 documenti),
prevalentemente incentrate sul procedimento per il riconoscimento della
dipendenza da causa di servizio con digressioni varie sulla natura del
Comitato di verifica per le cause di servizio, che, evidentemente non sono
conducenti in relazione alla vicenda di cui è causa.
La giurisprudenza ha avuto modo di osservare che la riconosciuta dipendenza
delle malattie da una "causa di servizio" non implica necessariamente, o può
far presumere, che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di
insicurezza dell'ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla
qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e
dal logoramento dell'organismo del dipendente esposto ad un lavoro
impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori
dall'ambito dell'art. 2087 c.c., che riguarda una responsabilità ancorata a
criteri probabilistici e non solo possibilistici (Consiglio di Stato sez.
VI, 12.03.2015, n. 1282; Cassazione civile sez. lav., 29.01.2013, n. 2038).
Ciò chiarito, ad avviso del Collegio il ricorso non è meritevole di
accoglimento.
Va premesso, in via teorica e generale, che in relazione al mobbing,
fattispecie priva di definizione normativa, sono stati elaborati dalla
giurisprudenza alcuni principi, con specifica attinenza al rapporto di
pubblico impiego, per delinearne gli elementi costitutivi.
Il mobbing c.d. verticale, nel rapporto di impiego pubblico, si sostanzia in
una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa,
continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del dipendente
nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente
ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto
all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà
finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del medesimo dipendente,
tale da provocare un effetto lesivo della sua salute psicofisica (TAR
Milano sez. III, 02.02.2018, n. 310; Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 12.03.2015, n. 1282).
Pertanto, ai fini della configurabilità della condotta lesiva da mobbing, va
accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, di seguito
indicati (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 16.04.2015, n. 1945; Cass. civ.,
sez. lav., 19.02.2016, n. 3291; id., 16.03.2016, n. 5230):
a) la molteplicità e globalità di comportamenti a carattere
persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo
miratamente sistematico o prolungato contro il dipendente secondo un disegno
vessatorio;
b) l'evento lesivo della salute psicofisica del dipendente;
c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore
gerarchico e la lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore;
d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio.
La sussistenza di condotte mobbizzanti deve essere qualificata
dall'accertamento di precipue finalità persecutorie o discriminatorie,
poiché proprio l'elemento soggettivo finalistico consente di cogliere in uno
o più provvedimenti e comportamenti, o anche in una sequenza frammista di
provvedimenti e comportamenti, quel disegno unitario teso alla
dequalificazione, svalutazione od emarginazione del lavoratore pubblico dal
contesto organizzativo nel quale è inserito, che è imprescindibile ai fini
della concretizzazione del mobbing (cfr. Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 14.05.2015, n. 2412).
Conseguentemente un singolo atto illegittimo o anche più atti illegittimi di
gestione del rapporto in danno del lavoratore, non sono, di per sé soli,
sintomatici della presenza di un comportamento mobbizzante (cfr. Consiglio
di Stato, Sez. VI, sentenza 16.04.2015, n. 1945).
Sul piano processuale, la condotta che dà luogo a mobbing deve essere
allegata nei suoi elementi essenziali dal lavoratore, che non può limitarsi
davanti al giudice a dolersi genericamente di essere vittima di un illecito,
ovvero ad allegare l'esistenza di specifici atti illegittimi, ma deve quanto
meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice,
eventualmente, anche attraverso l'esercizio dei suoi poteri ufficiosi, possa
verificare la sussistenza, nei suoi confronti, di un più complessivo disegno
preordinato alla vessazione o alla prevaricazione.
La ricorrenza del mobbing deve essere, dunque, esclusa tutte le volte che la
valutazione complessiva dell'insieme delle circostanze addotte (ed accertate
nella loro materialità), pur se idonea a palesare, singulatim, elementi od
episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare,
secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere esorbitante ed
unitariamente persecutorio e discriminante del complesso di condotte poste
in essere (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.09.2015, n.
4394).
Applicando al caso di specie le suddette coordinate ermeneutiche, ad avviso
del Collegio non risultano provati gli elementi che integrano la fattispecie
risarcitoria da mobbing, dovendosi rammentare che nel giudizio risarcitorio
che si svolge davanti al giudice amministrativo, nel rispetto del principio
generale sancito dal combinato disposto degli artt. 2697 c.c. (secondo cui
chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della
domanda) e 63, co. 1 e 64, co. 1, c.p.a. (secondo cui l'onere della prova
grava sulle parti che devono fornire i relativi elementi di fatto di cui
hanno la piena disponibilità), non può avere ingresso il c.d. metodo
acquisitivo tipico del processo impugnatorio; pertanto, il ricorrente che
chiede il risarcimento del danno deve fornire la prova dei fatti costitutivi
della domanda (Consiglio di Stato, sez. VI, 28.01.2016, n. 284).
In particolare nel caso di specie non risulta assolto l'onere probatorio da
parte della ricorrente in relazione né al profilo oggettivo della condotta
illecita né a quello soggettivo.
Quanto alla condotta illecita sotto un profilo oggettivo la ricorrente si è
limitata ad elencare una serie di episodi che appaiono pacificamente
riconducibili alle ordinarie dinamiche, talvolta anche conflittuali,
nell’ambito del rapporto di impiego. Ed invero il non gradimento da parte
del dipendente delle scelte organizzative dell’Amministrazione, che incidono
sulla sua posizione lavorativa, non può essere ascritto ad una ipotesi di
mobbing.
In termini generali va osservato che molti degli episodi riferiti sono
riconducibili a fisiologiche conflittualità tra subordinati e superiori
gerarchici, particolarmente esasperati in un ambiente, quale quello
militare, in cui il principio della superiorità gerarchica permea
profondamente la disciplina del rapporto di servizio.
Altri episodi sono invece riconducibili ad atti organizzativi assunti
tenendo conto delle fisiologiche carenze di personale che affliggono tale
settore del pubblico impiego.
A prescindere dal fatto che l’Amministrazione nella propria memoria fornisce
una ricostruzione differente degli stessi episodi, i quali dunque risultano
contestati nella loro dimensione fenomenologica, va osservato che nell’atto
introduttivo del giudizio in relazione a tali episodi non è stata neppure
individuata la violazione da parte dell'Amministrazione degli specifici
obblighi inerenti al rapporto di impiego, essendosi limitata la ricorrente a
generiche e non contestualizzate affermazioni sul mobbing, nonché a lati
riferimenti giurisprudenziali sulla fattispecie.
Va in proposito ricordato che "l'art. 2087 c.c. non configura un'ipotesi di
responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro
va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da
norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del
momento. Ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito,
a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di
provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di
lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, e solo se il lavoratore abbia
fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro
l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire
il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è
ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi" (Cassazione sez. lav. 29.01.2013, n. 2038).
Quanto al profilo soggettivo della condotta illecita, l’individuazione
dell’intento persecutorio, che deve costituire il filo conduttore dei
diversi episodi ritenuti mobbizzanti, è dalla ricorrente meramente affermata
ma lungi dall’essere dimostrata. Ciò anche alla luce di quanto rilevato in
relazione agli episodi riferiti, che non sembrano di per sé rivelare alcun
intento persecutorio o di un disegno unitario dell’Amministrazione volto
alla emarginazione o alla persecuzione della dipendente.
L’intento persecutorio imputato all’Amministrazione risulta quindi frutto di
personale convincimento della ricorrente, che tuttavia non risulta
supportato da alcuna concreta ed idonea dimostrazione.
Il lavoratore "non può limitarsi davanti al giudice a genericamente dolersi
di esser vittima di un illecito (ovvero ad allegare l'esistenza di specifici
atti illegittimi), ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento
in base al quale il giudice amministrativo possa verificare la sussistenza
nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione
o alla prevaricazione" (Cons. Stato, sez. IV, 06.08.2013, n. 4135; idem
12.03.2012, n. 1388).
In conclusione, per le ragioni che precedono, il ricorso non è meritevole di
accoglimento e deve essere rigettato. |
luglio 2019 |
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INCARICHI PROFESSIONALI -
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
Danno erariale al segretario comunale che autorizza l'incarico professionale
esterno a un dipendente dell'Ente.
I dipendenti della Pa a tempo parziale -che svolgono un orario lavorativo
non superiore alle 18 ore settimanali- possono essere autorizzati dall'ente
di appartenenza anche a svolgere altra attività lavorativa, inclusa quella
professionale a partita Iva. Tuttavia, l'amministrazione non può conferire
un incarico professionale esterno al medesimo dipendente.
Queste sono in
sintesi le conclusioni della Corte dei conti - Sez. giurisdiz. Puglia (sentenza
31.07.2019 n.
501) che ha condannato per danno erariale in solido il responsabile del
servizio finanziario e il segretario comunale che ha autorizzato l'incarico
esterno di resistenza nei giudizi tributari al medesimo responsabile del
servizio finanziario e dei tributi.
La vicenda
Il commissario straordinario di un Comune di modeste dimensioni aveva
attivato le procedure di recupero delle somme indebitamente corrisposte al
responsabile finanziario e dei tributi per l'incarico professionale di
resistenza in giudizio davanti alle commissioni tributarie.
In
considerazione del mancato versamento degli importi, la Procura della Corte
dei conti ha chiamato a rispondere di danno erariale sia il segretario
comunale, per aver espresso parere favorevole all'incarico professionale al
dipendente, sia il responsabile finanziario e dei tributi che, pur a
conoscenza della normativa, ha formalizzato e ricevuto le parcelle
professionali.
Nel caso di specie, la Procura ha contestato un reale
conflitto tra le due posizioni assunte dal medesimo soggetto, in quanto
l'attività di recupero tributario, non può che rientrare nelle funzioni
istituzionali dell'ente e del responsabile del settore preposto e, qualora esternalizzato, non può essere affidato allo stesso soggetto che svolge,
all'interno, le funzioni di responsabile del servizio.
La difesa dei convenuti
Nelle memorie di costituzione in giudizio è stato rilevato come il
responsabile finanziario fosse un dipendente in part-time, con orario non
superiore alla metà del tempo pieno, autorizzato dall'ente a svolgere
attività professionale esterna.
La disposizione legislativa -articolo 11,
comma 3, Dlgs 546/1992– prevede espressamente che «L'ente locale nei cui
confronti è proposto il ricorso può stare in giudizio anche mediante il
dirigente dell'ufficio tributi …», mentre l'articolo 15, comma 2-bis,
dispone che «Nella liquidazione delle spese a favore dell'ente impositore,
dell'agente della riscossione e dei soggetti iscritti nell'albo di cui
all'articolo 53 del decreto legislativo 15.12.1997, n. 446, se
assistiti da propri funzionari, si applicano le disposizioni per la
liquidazione del compenso spettante agli avvocati, con la riduzione del
venti per cento dell'importo complessivo ivi previsto».
La decisione del collegio contabile
I giudici contabili pugliesi oltre a ritenere fondate le conclusioni cui è
giunto il Pm contabile, di un reale conflitto tra le due posizioni assunte
dal responsabile finanziario -da un lato resistente in giudizio in quanto
dirigente dell'ufficio tributi e dall'altro lato in qualità di libero
professionista- hanno anche accertato l'inconsistenza del pagamento
previsto dalla normativa.
L'Aran ha, infatti, da sempre chiarito che, per l'attività di difesa avanti
alle Commissioni tributarie, ai funzionari può essere riconosciuta
un'integrazione dell'indennità di risultato oppure una diversa forma di
incentivazione, a condizione che sussista al riguardo uno specifico
intervento di regolazione nell'ambito della contrattazione integrativa.
Nel caso di specie, ha precisato il collegio contabile, non c'è stato alcun
iter contrattuale per forme integrative di incentivi al personale, bensì
l'affidamento al dirigente responsabile del settore finanziario di due
incarichi esterni di rappresentanza del Comune davanti alle commissioni
tributarie, in palese violazione di legge.
Inoltre, stante la consapevolezza dei convenuti di tenere un comportamento
vietato dalla legge, si rientra nell'ipotesi di dolo con conseguente
responsabilità solidale dei convenuti al pagamento delle somme indebitamente
corrisposta al responsabile finanziario
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.08.2019).
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MASSIMA
Il thema decidendum del presente giudizio riguarda l’accertamento
della responsabilità dei convenuti –in qualità di dipendenti del Comune di
Roseto Valfortore- per il danno patrimoniale, asseritamente arrecato
all’ente, in conseguenza dell’indebito affidamento di incarico professionale
al responsabile del settore finanziario dott. MI., in difetto dei
presupposti di legge.
...
2. Nel merito, la domanda è fondata.
Occorre premettere che l’obbligo della pubblica
amministrazione di provvedere ai compiti istituzionali con la propria
organizzazione e con il proprio personale, costituisce regola fondamentale
dell’ordinamento, codificata da specifiche disposizioni di legge.
In particolare, l’art. 24, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001, recependo
quanto già previsto dal d.lgs. n. 29 del 1993, ha rafforzato il principio di
onnicomprensività della retribuzione dei dirigenti delle pubbliche
amministrazioni, stabilendo che il trattamento economico contrattualmente
determinato remunera tutte le funzioni e i compiti loro attribuiti, nonché
qualsiasi incarico ad essi conferito in ragione del loro ufficio o,
comunque, conferito dall’Amministrazione presso cui prestano servizio o su
designazione della stessa.
Pertanto, risulta in primo luogo violato il principio di onnicomprensività
della retribuzione, svolgendo il Mi. l’incarico di dirigente a tempo
determinato ex art. 110, comma 2, del d.lgs n. 267 de 2000.
Egli, seppure in regime di part-time, svolgeva le funzioni di
responsabile del settore finanziario e, come tale, era responsabile anche
della gestione dei tributi, ivi compresa, appunto, tutta l'attività relativa
al loro recupero.
Invero, in quanto titolare di posizione organizzativa, al Mi. era già
attribuita l'indennità di posizione, l'indennità di risultato e la specifica
indennità ad personam prevista dall'art. 110, comma 3, del d.lgs. n.
267 del 2000, oltre ad un rimborso spese di viaggio per raggiungere la sede
di servizio (deliberazione della Giunta comunale n. 116 del 13.11.2002).
In merito alle attività attribuite alla responsabilità dell’odierno
convenuto, inoltre, il decreto del Sindaco del Comune di Roseto Valfortore,
n. 5912 del 13.11.2002 dispone espressamente che il dott. Mi. dal 01.01.2003
veniva chiamato o svolgere le funzioni di responsabile del Settore
economico–finanziario, “comprendente tutti servizi economico e finanziari
esemplificativamente riferiti a: ….tributi ed entrate patrimoniali (gestione
di tutte le fasi compreso controllo riscossioni in concessione)”.
Di conseguenza, la rappresentanza dell’ente avanti alle Commissioni
tributarie rientrava appieno tra i compiti istituzionali affidati al Mi.,
con ciò smentendo tutte le eccezioni opposte dai convenuti circa la
legittimità dell’affidamento dell’incarico professionale. Né vi è prova che
l’Amministrazione non fosse in grado di provvedervi per l’eccessivo carico
di lavoro, meramente enunciato dal Mi..
Al riguardo, l'art. 11, comma 3, del D.Lgs 546/1992, come modificato
dall'art. 3-bis del D.L. 31.03.2005, n. 44 prevede espressamente che "L'ente
locale nei cui confronti è proposto il ricorso può stare in giudizio anche
mediante il dirigente dell'ufficio tributi, ovvero, per gli enti locali
privi di figura dirigenziale, mediante il titolare della posizione
organizzativa in cui è collocato detto ufficio".
Il Procuratore regionale, pertanto, ha correttamente contestato agli odierni
convenuti un reale conflitto tra le due posizioni assunte dal medesimo
soggetto (art. 6, comma 2, d.p.c.m. 117/1989). In particolare, l’attore
pubblico ha osservato che l’attività di recupero dell'ICI, non può che
rientrare nelle funzioni istituzionali dell'ente e del responsabile del
settore preposto e, qualora esternalizzato, non può essere affidato allo
stesso soggetto che svolge, all'interno, le funzioni di responsabile del
servizio.
Il Collegio non può che condividere tale assunto.
Per l’attività in questione, al dirigente non spettava alcun compenso.
Priva di pregio appare, al riguardo l’eccezione opposta da parte convenuta
secondo cui il compenso sarebbe comunque spettato al Mi. ex art. 15, comma
2-bis (ora comma 2-sexies) del d.lgs n. 546 del 1992 che dispone “Nella
liquidazione delle spese a favore dell'ente impositore, dell'agente della
riscossione e dei soggetti iscritti nell'albo di cui all'articolo 53 del
decreto legislativo 15.12.1997, n. 446, se assistiti da propri funzionari,
si applicano le disposizioni per la liquidazione del compenso spettante agli
avvocati, con la riduzione del venti per cento dell'importo complessivo ivi
previsto”.
Non vi è dubbio, infatti, che la liquidazione delle spese di difesa avviene
nei confronti dell’Amministrazione, risultata vittoriosa nel giudizio
tributario, e non già nei confronti del soggetto che la rappresenta. Sulla
questione, l'ARAN (RAL 1660) ha chiarito che, per l’attività di difesa
avanti alle Commissioni tributarie, ai funzionari può essere riconosciuta
un’integrazione dell'indennità di risultato oppure una diversa forma di
incentivazione, a condizione che sussista al riguardo uno specifico
intervento di regolazione nell’ambito della contrattazione integrativa.
Nel caso di specie, non vi è stata alcun iter contrattuale per forme
integrative di incentivi al personale, bensì vi è stato l’affidamento al
dirigente responsabile del settore finanziario di due incarichi esterni di
rappresentanza del Comune avanti alle Commissioni tributarie, in palese
violazione di legge.
Sicché il compenso che è stato erogato al Mi., nella veste
di professionista esterno, rappresenta certamente un’indebita spesa
sostenuta dal Comune.
Il danno risarcibile ammonta a complessivi euro 163.991,74.
Responsabili in solido di tale indebita spesa risultano entrambi i convenuti
a titolo di dolo. Al riguardo, occorre chiarire che, nel
processo contabile, per dolo deve intendersi la consapevolezza dell’agente
di tenere un comportamento vietato dalla legge.
Il Mi. è responsabile per aver scientemente lucrato il compenso per la
difesa del Comune, pur nella piena consapevolezza di aver assunto l’obbligo
di svolgere tale attività in veste di dirigente responsabile del settore
finanziario.
La dott.ssa Ce., in qualità di Segretario generale
dell’ente, per il ruolo rivestito di garante della legittimità dell’azione
amministrativa del Comune, che nulla ha obiettato a tutela della corretta e
proficua gestione del denaro pubblico, esprimendo per di più parere
favorevole per l’affidamento dell’incarico in questione e provvedendo ad
impegnare e liquidare il compenso de quo.
L’indebita spesa, pari a complessivi euro 163.991,74, erogata dal Comune di
Roseto Valfortore è la conseguenza unica e diretta delle
condotte tenute dai convenuti, nella piena consapevolezza del totale
dispregio degli interessi dell’Amministrazione.
Ai soli fini della ripartizione interna delle quote di danno, per cui
ciascuno potrà eventualmente rivalersi nei confronti dell’altro responsabile
in solido, per il ruolo preponderante rivestito nella vicenda dal dott. Mi.,
a lui compete la maggior quota di danno pari al 70 per cento del danno
risarcibile, mentre il restante 30 va attribuito alla responsabilità della
dott.ssa Ce..
Trattandosi di responsabilità per dolo deve essere escluso
il ricorso al potere riduttivo dell’addebito.
Sull’importo di euro 163.991,74 per cui è condanna va computata la
rivalutazione monetaria dalla data dei pagamenti e fino alla pubblicazione
della presente sentenza. Per tutte le ragioni espresse, la domanda è
accolta.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
La Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Puglia,
definitivamente pronunciando, accoglie la domanda attrice e, per l’effetto,
CONDANNA
I signori Ma.MI. e Ma.Ce.An.CE. al pagamento in solido della complessiva
somma di euro 163.991,74 (centossessantatremilanovecentonovantuno/74), oltre
rivalutazione monetaria, in favore del Comune di Roseto Valfortore.
Sulle somme rivalutate spettano all’Amministrazione gli interessi al tasso
legale decorrenti dalla data di deposito della sentenza e fino al totale
soddisfo. |
PUBBLICO IMPIEGO: Obblighi
di trasparenza per gli incaricati di posizione organizzativa.
Domanda
Nel nostro ente (con dirigenza) sono state nominate, di
recente, delle posizioni organizzative, ex art. 13 e
seguenti del CCNL Funzioni locali. Su dieci P.O., cinque
hanno anche delle deleghe dirigenziali. I restanti cinque
non l’hanno.
Come si deve comportare l’ente per ciò che concerne gli
obblighi di pubblicità e trasparenza delle P.O.?
Risposta
Per effetto dell’articolo 14, commi 1 e 1-quinquies, del
decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, nel testo inserito
dall’art. 13, comma 1, lettera c), del decreto legislativo
25.05.2016, n. 97, gli obblighi di pubblicazione e
trasparenza per le posizioni organizzative sono notevolmente
differenziati a seconda delle seguenti casistiche:
• Posizione organizzativa in ente con dirigenza, senza delega
dirigenziale;
• posizione organizzativa in ente senza dirigenza o con delega
dirigenziale.
Per gli incaricati di posizione organizzativa, negli enti
CON dirigenza e SENZA delega dirigenziale, l’obbligo è
ristretto alla pubblicazione del curriculum, redatto in
conformità al vigente modello europeo.
Il documento va pubblicato nella sezione Amministrazione
trasparente > Personale > Posizioni organizzative.
Il termine per provvedere alla pubblicazione è previsto
entro tre mesi dal conferimento e l’obbligo decade dopo tre
anni dalla cessazione dall’incarico. L’aggiornamento del
curriculum, deve avvenire in modo “tempestivo” (art. 8, d.lgs. 33/2013), se si verificano delle variazioni
significative rispetto a quelle pubblicate.
Per gli incaricati di posizione organizzativa negli enti
senza dirigenza e in quelli con dirigenti e delega
dirigenziale, gli obblighi restano quelli riportati nel
comma 1, del citato art. 14 e sono i seguenti:
a) l’atto di nomina o di proclamazione, con l’indicazione della
durata dell’incarico o del mandato elettivo;
b) il curriculum;
c) i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della
carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati
con fondi pubblici;
d) i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti
pubblici o privati, ed i relativi compensi a qualsiasi
titolo corrisposti;
e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza
pubblica e l’indicazione dei compensi spettanti;
f) le dichiarazioni di cui all’articolo 2, della legge 05.07.1982, n. 441, nonché le attestazioni e dichiarazioni di cui
agli articoli 3 e 4 della medesima legge, come modificata
dal presente decreto, limitatamente al soggetto, al coniuge
non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli
stessi vi consentano. Viene in ogni caso data evidenza al
mancato consenso. Alle informazioni di cui alla presente
lettera concernenti soggetti diversi dal titolare
dell’organo di indirizzo politico non si applicano le
disposizioni di cui all’articolo 7.
Per gli obblighi della lettera f) –situazione reddituale e
patrimoniale– è intervenuta la sentenza della Corte
costituzionale n. 20/2019, che ha escluso l’obbligo per i
dirigenti e le P.O., con la sola eccezione dei titolari
degli incarichi dirigenziali, previsti dall’art. 19, commi 3
e 4, del d.lgs. 165/2001.
Per la seconda tipologia di incarichi, gli obblighi vengono
assolti –entro tre mesi dal conferimento dell’incarico–
con pubblicazione dei dati e delle informazioni su
Amministrazione trasparente > Personale > Titolari di
incarichi dirigenziali (dirigenti non generali). I dati
dovranno essere pubblicati in tabelle che distinguano le
seguenti situazioni:
• dirigenti;
• dirigenti individuati discrezionalmente;
• titolari di posizione organizzativa con funzione dirigenziali.
Anche in questo caso, l’aggiornamento dei dati deve essere
tempestivo e l’obbligo cessa, dopo tre anni dal termine
dell’incarico di P.O. (art. 14, comma 2, d.lgs. 33/2013) (30.07.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Trasformazione part-time.
Domanda
Può essere negata la richiesta da parte di un lavoratore di
avere il proprio rapporto di lavoro trasformato da tempo
pieno a tempo parziale?
Risposta
Con l’art. 73 del decreto-legge n. 112 del 2008, convertito,
in legge n. 133 del 2008, è stato modificato il regime
giuridico relativo alla trasformazione del rapporto da tempo
pieno a part-time, con una novella all’art. 1, comma 58,
della legge n. 662 del 1996. Inoltre, sempre con il medesimo
provvedimento, è stato modificato il comma 59 del citato
articolo, incidendo sulla destinazione finanziaria dei
risparmi derivanti dalla trasformazione dei rapporti.
In sintesi, le novità apportate con il decreto-legge n. 112
del 2008 riguardano i seguenti aspetti:
• è stato eliminato ogni automatismo nella trasformazione del
rapporto, che attualmente è subordinato alla valutazione
discrezionale dell’amministrazione interessata;
• stata soppressa la mera possibilità per l’amministrazione
di differire la trasformazione del rapporto sino al termine
dei sei mesi nel caso di grave pregiudizio alla funzionalità
dell’amministrazione stessa;
• è stata contestualmente introdotta la possibilità di
rigettare l’istanza di trasformazione del rapporto
presentata dal dipendente nel caso di sussistenza di un
pregiudizio alla funzionalità dell’amministrazione;
• è stata innovata la destinazione dei risparmi derivanti
dalle trasformazioni, prevedendo che una quota sino al 70%
degli stessi possa essere destinata interamente
all’incentivazione della mobilità, secondo le modalità ed i
criteri stabiliti in contrattazione collettiva, per le
amministrazioni che dimostrino di aver proceduto ad attivare
piani di mobilità e di riallocazione di personale da una
sede all’altra.
Non vi è quindi nessun automatismo, ma la trasformazione
deve sempre essere concessa (25.07.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO -
SEGRETARI COMUNALI: Segretari
comunali: quella dannosa voglia di "dirigente apicale"
(in memoria di Stefano Fedeli)
(14.08.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com).
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Non è compito dei segretari comunali
svolgere funzioni di direzione di strutture amministrative
assumendo la qualità di dirigenti. Tali funzioni possono
essere gestite, specie nei comuni di grandi dimensioni, solo
per in via temporanea e suppletiva, avendo prima dimostrato
l’assoluta carenza di professionalità interne.
La
sentenza 23.07.2019 n. 489
della Corte dei conti, Sezione giurisdiz. per la Puglia, è
particolarmente rilevante perché smonta in modo ultimativo
il castello di sabbia del “dirigente apicale” ed
indica in modo chiaro e puntuale quali sono le peculiarità
della funzione dei segretari comunali.
E’ una sentenza importantissima, che evidenzia le gravissime
pecche purtroppo contenute nella superficiale
sentenza
22.02.2019 n. 23 della
Corte costituzionale (sul punto:
cliccare qui e
cliccare anche qui),
in particolare nella debolissima parte nella quale la
Consulta ha in modo vistosamente erroneo considerato
costituzionalmente legittimo lo spoil system, anche in
considerazione delle funzioni dirigenziali viste come
“tipiche” della figura del segretario comunale.
Una svista imperdonabile, che viene indirettamente, ma
ferocemente evidenziata dalle considerazioni della Corte dei
conti della Puglia, che, limitandosi a leggere ed applicare
in maniera niente più che piana e corretta le disposizioni
normative e contrattuali, ricorda come le funzioni
dirigenziali siano, per i segretari comunali, solo un
accessorio, eventuale e non tipizzante per nulla le proprie
funzioni. Con buona pace di chi pervicacemente cerca di
ammantare la figura con quel ruolo di “dirigente apicale”
che la mancata riforma Madia ha impedito venisse in essere.
E’ bene specificare che la Corte dei conti ha riconosciuto
la responsabilità per danno erariale a carico di un
segretario comunale di un comune di grandi dimensioni, che
per anni ha svolto funzioni di dirigente di una quantità
ingiustificabile anche solo logicamente, prima che
organizzativamente, di servizi, ottenendo maggiorazioni
retributive persino superiori a quelle ammesse dal
contratto. Non si può non fare proprie le considerazioni,
sul punto, della Corte dei conti: “Quello che sconcerta
ancor di più, e che rende irrimediabilmente grave sotto il
profilo omissivo la sua condotta, e che la ricollega causalmente al danno qui azionato è il fatto che il soggetto
che è rimasto passivo e inerte in ordine a emolumenti
ricevuti e spiccatamente esorbitanti rispetto al dovuto, sia
proprio colui che istituzionalmente aveva il dovere
giuridico di conformare alla legalità l’agere
amministrativo”.
Lo sconcerto è forte. E dura da anni, esattamente da quel
1997 che introducendo l’inutile figura del direttore
generale ha scatenato in molti (non tutti, ovviamente) i
segretari comunali gli appetiti da “dirigente apicale”.
Si sono visti incarichi di direttore generale in comuni con
pochissimi dipendenti e senza Peg, incarichi in comuni
convenzionati ma singoli per ciascun comune, cifre
elevatissime non giustificate da funzioni nuove e diverse.
Uno spreco di denaro pubblico, che nel 2009 portò alla
cancellazione (purtroppo limitata ai soli comuni con
popolazione fino a 100.000 abitanti) del direttore generale.
Sconcerta, comunque, ancora che la voglia di “apicalità” e,
soprattutto, di ottenere maggiorazioni retributive, invece
di passare dalla via maestra di una migliore contrattazione
collettiva capace di valorizzare le funzioni effettivamente
caratterizzanti dei segretari, in modo strisciante anche
sigle sindacali abbiano lavorato per creare una condizione
di “dirigente apicale” di fatto (preparatoria, senza
successo, alla riforma Madia), soffiando sul fuoco delle
ambizioni personali.
La gran parte dei segretari comunali sa qual è il proprio
ruolo, conosce la profonda differenza del coordinamento
rispetto alla gestione operativa, valorizza la prima in
funzione del miglior funzionamento della seconda.
Per non pochi, al contrario, la funzione del segretario
praticamente non può che ridursi a quella di un dirigente
che assommi su di sé (salvo, spesso, poi deleghe diffuse e
in bianco) funzioni gestionali, gestite fin troppo, poi, nel
rispetto della “fiducia” contrattata a suon di inevitabili
reciproche concessioni con sindaci disposti a remunerare
queste funzioni dirigenziali anche ben oltre i limiti
contrattuali. Con sprezzo dell’evidente rischio di danno
erariale.
Questa visione della “apicalità” dirigenziale necessitata
del segretario comunale viene letteralmente posta nel nulla
dalla sentenza della Corte dei conti. Essa evidenzia quali
siano le rilevanti e complesse competenze previste
dall’articolo 97 del d.lgs 267/2000, non negando,
ovviamente, che è operante il comma 4, lettera d), per
effetto del quale il sindaco può attribuire al segretario
ogni altra funzione.
Sagacemente, il giudice contabile
osserva, però: “Tale ultima previsione, pur integrando una
sorta di clausola in bianco, si dà consentire, in linea di
principio (per ragioni di flessibilità organizzativa),
l’affidamento al segretario di funzioni gestionali, va però
contemperata con altre disposizioni affermative di principi
di ordine generale, come quella secondo cui i compiti c.dd.
di amministrazione attiva spettano ai dirigenti e non
possono essere loro sottratti se non in virtù di una norma
primaria espressa (cfr. l’art. 4, comma 2 e 3, l’art. 15 e
ss. del citato t.u.p.i.; l’art. 107, comma 4, del t.u.o.e.l.)”.
L’attribuzione di funzioni dirigenziali ai segretari
comunali non è posta in posizione di equivalenza con la
scelta di assegnare incarichi di direzione ai dirigenti.
Questi ultimi sono titolari in via esclusiva della gestione.
Il che non può non portare alla conclusione secondo la quale
l’assegnazione di funzioni di direzione ai segretari (lo
stesso vale per l’attivazione dell’articolo 110 del Tuel) va
saldamente giustificato con l’evidenziazione di una
situazione non rimediabile se non con una temporanea
attività di “supplenza”, fermo restando che se
l’organizzazione prevede una struttura di vertice, essa non
può restare acefala o essere a tempo indefinito affidata
alla preposizione direzionale di un soggetto che non può e
non deve svolgere la funzione direzionale in via
continuativa, come il segretario comunale.
Sul punto, la Corte dei conti della Puglia è chiarissima:
“l’Accordo integrativo del 22.12.2003, sottoscritto in
attuazione dell’articolo 41, comma 4, del CCNL, e il
successivo Accordo integrativo del 13.01.2009. In
particolare, il primo dei citati accordi ha stabilito a
quali condizioni possa essere concessa la maggiorazione
dell’indennità in parola, condizioni che possono essere sia
di carattere oggettivo che di carattere soggettivo. Senza
entrare nello specifico di tali condizioni,
basti qui mettere in luce che il contratto precisa
che tale maggiorazione è consentita a condizione che al
segretario siano affidati incarichi gestionali comunque
afferenti alle sue funzioni istituzionali, ma “in via temporanea e dopo
aver accertato l’inesistenza delle necessarie
professionalità all’interno dell’Ente”. L’Accordo fissa poi
la misura minima e massima di tale maggiorazione, che non
può essere inferiore al 10% e superiore al 50% della
retribuzione di posizione in godimento, ad eccezione dei
comuni inferiori a 3.000 abitanti”.
Dunque, è l’ordinamento giuridico ad impedire di considerare
come fungibili gli incarichi dirigenziali. Essi sono
competenza esclusiva dei dirigenti. La scelta di affidarli
al segretario è transeunte e motivata da una verifica reale
di assenza di professionalità interne.
Spiega ancora la
Corte dei conti: “Tanto è vero che le sopra indicate
disposizioni contrattuali integrative si sono fatte carico
di precisare che l’attribuzione al segretario di funzioni
dirigenziali possa avvenire solo con atto formale del capo
dell’Amministrazione e in ogni caso previo accertamento
dell’assenza di adeguate figure professionali interne e
(solo) in via temporanea. Ciò evidenza chiaramente che la
strada dell’affidamento di compiti gestionali ai segretari
sia percorribile solo in via transitoria, e in caso di
eccezionale assenza delle necessarie professionalità
all’interno dell’Ente (ex multis, Cass., S.L. 12.06.2007, n.
13708; Cons. St., Sez. V, 25.09.2006, n. 5625; cfr.
anche Parere Min. Interno 17.12.2008): solo in tal modo è
possibile conciliare la facoltà concessa dal citato art. 97, co. 4, lett. d), del t.u.o.e.l.,
da un lato (come detto) con
l’intestazione ex lege di tali funzioni ai dirigenti,
dall’altro con l’esercizio in concreto dei compiti
gestionali negli enti di piccole dimensioni (notoriamente
privi di dirigenza e, sovente, anche di dipendenti inidonei
a svolgerle) o in particolari frangenti, tali da generare
situazioni di paralisi gestionale non risolvibili aliunde
(ex multis, Tar Piemonte, sez. II, 04.11.2008 n. 2739; Cons.
St., sez. IV, 21.08.2006 n. 4858). Dunque, nel rispetto di
tali presupposti al segretario possono essere attribuite
funzioni dirigenziali”.
L’ultimo passaggio enfatizzato in
grassetto smentisce le diverse ed erronee conclusioni cui,
invece, purtroppo è giunta la Consulta.
Può, comunque, un comune decidere per scelta organizzativa
di puntare su un segretario “dirigente apicale” di fatto e
quindi in ogni caso dotarlo di funzioni dirigenziali in via
continuativa, sì da giustificare anche una remunerazione
superiore alle maggiorazioni previste contrattualmente?
La risposta della Sezione Puglia è radicale e negativa: “Non
coglie nel segno sul punto l’assunto difensivo che fa leva
sulla asserita legittimità della retribuzione di posizione
in quanto finalizzata a remunerare funzioni gestionali
affidate non in via temporanea ma continuativa. In
proposito, per vero, è appena il caso di osservare che
la
stessa attribuzione di funzioni gestionali affidate non in
via temporanea, ma stabile e duratura al segretario generale
–sia pure attraverso diversi provvedimenti a tempo
riguardanti distinti servizi– si appalesa contra legem
perché effettuata in difetto dei presupposti normativi”.
C’è un vizio di legittimità genetico e non superabile nella
scelta di attribuire funzioni gestionali ai segretari
comunali. Che, per altro, sebbene spesso ottengano queste
funzioni a seguito delle “contrattazioni” spesso improprie
coi sindaci, poi pagano molto caramente, in termini di
serenità operativa e condizioni di lavoro, la disponibilità
data a riscontro delle maggiorazioni contrattuali.
Nel caso di specie, lo sconcerto mostrato dalla Corte dei
conti, sorge anche solo guardando l’incredibile elenco di
incarichi dirigenziali assegnati al segretario, con
molteplici decreti sindacali:
-
gestione dell’Ufficio Legale,
-
gestione della Segreteria Comunale,
-
gestione della Presidenza del Consiglio Comunale,
-
gestione del Servizio Sistemi Informativi e Statistica,
-
gestione del Contratto d’Area,
-
gestione del del 2° Settore “Attuazione Politiche per
l’Occupazione”,
-
gestione del del 5° Settore “Attuazione Politiche Sociali,
Educative, Culturali e Ricreative”,
-
gestione dell’Ufficio di Piano.
Una “non organizzazione”, uno schema organizzativo
semplicemente assurdo e non credibile, con una
concentrazione direzionale ingiustificabile, implausibile e
oggettivamente irrazionale.
Per altro, spiega la sentenza della Sezione Puglia “nessuno
dei competenti decreti sindacali di conferimento evidenzia
(se non nel limitato caso di cui al decreto n. 52 del
13.10.2010, in cui il segretario è stato incaricato ad
interim, per tre giorni, della gestione del Settore Bilancio
a causa del congedo del titolare dell’ufficio) alcun
elemento da cui arguire la mancanza in concreto di idonee
professionalità all’interno dell’Ente o la presenza di
situazioni contingenti di sorta, ulteriori rispetto alla
richiamata astratta esigenza di riorganizzare gli uffici, o
a quella generica di sgravare il dirigente fino ad allora
designato dal relativo carico”.
Indicazioni che sarebbero
state ancor più generali, in considerazione della dimensione
del comune, di quasi 60.000 abitanti, che, secondo la Corte
“induce ad ipotizzare –in difetto di contrarie allegazioni– un organico dirigenziale di assoluto rilievo e
consistenza, anche in termini di presenza di idonee figure
dirigenziali nei settori di competenza gestionale affidati,
invece, al segretario”.
La conclusione della Corte è caustica: “In definitiva,
il
sistema ordinamentale sopra tratteggiato [...] non consente
che ai segretari siano conferite funzioni gestionali in
pianta stabile, se non nei casi limite sopra indicati
(comuni privi di idonee figure dirigenziali, situazioni di
paralisi gestionale, ecc.) e previa adeguata motivazione”.
Laddove i segretari sono caricati di queste funzioni, la
verifica puntuale spesso porterebbe ad osservare situazioni
del tutto improprie, come quelle della sentenza, in cui la
caccia alla mostrina di “dirigente apicale” porta a
situazioni paradossali e dannose per l’erario; oppure, a
situazioni del tutto opposte, nelle quali, specie in piccoli
comuni, il segretario viene subissato di funzioni e
competenze, senza mezzi, senza strumenti, con strutture
spesso torpide, che agiscono a “tenaglia” con
l’amministrazione nello schiacciare l’ordinato svolgersi
delle competenze della figura.
La Corte costituzionale con la
sentenza
22.02.2019 n. 23 ha perso
l’occasione enorme di riallineare l’ordinamento a logica e
razionalità. La sentenza della Corte dei conti della Puglia
è lì, scolpita, a ricordarci di questa occasione
drammaticamente sfuggita. |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Nomina
di un RPCT diverso dal vicesegretario.
Domanda
Nel nostro comune è vacante il posto di segretario comunale
da molti mesi. Per sopperire a tale vacanza è stato nominato
un vicesegretario che lo sostituisce. Nel frattempo il
Sindaco ha nominato Responsabile Anticorruzione e
Trasparenza un altro funzionario del comune e non il
vicesegretario.
La nomina è legittima ?
Risposta
L’articolo 1, comma 7, della legge 06.11.2012, n. 190,
prevede che negli enti locali, il Responsabile della
prevenzione della corruzione e della trasparenza sia
individuato (dal sindaco, nei comuni) –di norma– nel
segretario o nel dirigente apicale, salva diversa e motivata
determinazione.
Come si può notare, la nomina del segretario comunale, in
qualità di RPCT, rappresenta la situazione di “normalità”,
ma non è l’unica ed esclusiva prevista dalle disposizioni in
materia di prevenzione della corruzione nella pubblica
amministrazione.
Per ciò che concerne l’incarico di vicesegretario occorre
rifarsi, invece, all’articolo 97, comma 5, del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, il quale stabilisce che
il ROUS (Regolamento di organizzazione uffici e servizi),
può prevedere un vicesegretario, con il compito di
coadiuvare il segretario e sostituirlo nei casi di assenza o
impedimento.
Nel caso specifico segnalato nel quesito, non si ritiene che
le funzioni svolte dal vicesegretario comunale debbano, per
forza o in automatico, riguardare anche l’incarico di RPCT.
La diversa valutazione compiuta dal sindaco, che ha
individuato un altro responsabile, è certamente legittima e
dovrà essere debitamente sostenuta dalle motivazioni
inserite nell’atto di nomina (23.07.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Ufficio
di staff con incarico gratuito.
Domanda
È possibile costituire l’ufficio di staff (ex art. 90 TUEL)
attribuendo un incarico gratuito ad un collaboratore del
sindaco? Cambia qualcosa se il collaboratore fosse in
pensione?
Risposta
Per poter costituire un ufficio alle dirette dipendenze del
sindaco (o della giunta o dei singoli assessori) è
necessario che la materia venga preventivamente disciplinata
nel ROUS (Regolamento per l’Ordinamento degli Uffici e dei
Servizi). L’ufficio di staff viene costituito per
l’esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo
attribuite –in questo caso– al sindaco.
L’ufficio di staff –struttura eventuale, ma non necessaria
in un ente locale– può essere costituito da dipendenti
dell’ente, che lasciano i propri incarichi e mansioni per
dedicarsi ad altro, o, se l’ente non è dissestato o
strutturalmente deficitario, da collaboratori assunti con
contratto a tempo determinato. Se questi collaboratori, sono
dipendenti di altra amministrazione, vengono posti in
aspettativa senza assegni (comma 1).
Al personale assunto con contratto di lavoro subordinato e a
tempo determinato, si applica il CCNL del comparto Funzioni
locali (comma 2).
L’ufficio di staff trova la sua ragion d’essere nella
collaborazione dell’organo politico, per l’esercizio delle
funzioni di indirizzo e controllo, per cui sono escluse
tutte le attività gestionali che restano in capo ai
dipendenti inquadrati nella struttura organizzativa del
comune, identificati nei dirigenti o posizioni organizzative
negli enti senza la dirigenza (comma 3-bis).
Ricapitolando tutte le disposizioni contenute nell’articolo
90, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, comprese
le ultime modifiche apportate, nel 2014 con il d.l. 90,
possiamo riassumere che la costituzione dell’ufficio di
staff:
• non richiede la pubblicazione di avvisi o lo svolgimento di
prove selettive;
• non richiede il possesso di specifici titoli di studio;
• non richiede specifica esperienza professionale;
• non richiede particolari contenuti del curriculum vitae o
professionale;
• non richiede che vi sia una verifica preventiva
dell’assenza di professionalità nell’ambito dell’ente;
• prevede, necessariamente, un carattere oneroso;
• non pone alcun limite alla possibilità di inquadrare i
destinatari degli incarichi, i cui contratti possono,
pertanto, classificarli dalla categoria A fino alla
dirigenza, nell’ambito del CCNL del comparto Funzioni
locali;
• non pone alcun limite alla retribuzione;
• non richiede alcuna particolare motivazione sulla scelta
del destinatario;
• è assoggettata ai limiti di spesa per il personale (media
della spesa del triennio 2011/2013).
Dopo aver provato a chiarire il quadro normativo in cui ci
si muove, dando risposta al doppio quesito presentato è
possibile scrivere quanto segue:
a) data la chiara portata dei commi 1 e 2 dell’articolo 90,
del TUEL, non è possibile nominare un componente
dell’ufficio di staff a titolo gratuito. Il collaboratore
esterno deve essere titolare di un contratto di lavoro
subordinato, a tempo determinato, parametrato a quello dei
dipendenti del comparto Funzioni locali, con le eventuali
deroghe –previste nel comma 3– per ciò che concerne il
trattamento economico accessorio;
b) non sarebbe vietato nominare nell’ufficio di staff un
collaboratore in pensione, ma resta vietato nominarlo a
titolo gratuito.
A completamento si riporta l’articolo 90, nel testo
attualmente in vigore: "Articolo 90 Uffici di supporto agli organi di direzione
politica
1. Il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei
servizi può prevedere la costituzione di uffici posti alle
dirette dipendenze del sindaco, del presidente della
provincia, della giunta o degli assessori, per l’esercizio
delle funzioni di indirizzo e di controllo loro attribuite
dalla legge, costituiti da dipendenti dell’ente, ovvero,
salvo che per gli enti dissestati o strutturalmente
deficitari, da collaboratori assunti con contratto a tempo
determinato, i quali, se dipendenti da una pubblica
amministrazione, sono collocati in aspettativa senza
assegni.
2. Al personale assunto con contratto di lavoro subordinato
a tempo determinato si applica il contratto collettivo
nazionale di lavoro del personale degli enti locali.
3. Con provvedimento motivato della giunta, al personale di
cui al comma 2 il trattamento economico accessorio previsto
dai contratti collettivi può essere sostituito da un unico
emolumento comprensivo dei compensi per il lavoro
straordinario, per la produttività collettiva e per la
qualità della prestazione individuale.
3-bis. Resta fermo il divieto di effettuazione di attività
gestionale anche nel caso in cui nel contratto individuale
di lavoro il trattamento economico, prescindendo dal
possesso del titolo di studio, è parametrato a quello
dirigenziale" (18.07.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Incarichi a contratto misurati. Non sono strumenti ordinari per
coprire. Il Tar Calabria chiarisce la portata limitata del dlgs 267 (art.
110).
A giudizio del Tar, l’incarico è stato attribuito
senza tenere in alcun modo conto della circostanza relativa alla presenza
nel proprio organico dei ricorrenti, dipendenti a tempo indeterminato.
Gli incarichi a contratto non sono uno strumento ordinario di copertura dei
fabbisogni e possono essere assegnati esclusivamente nel caso di dimostrata
assenza nell'organico di professionalità.
La
sentenza 17.07.2019 n. 456 del TAR Calabria-Reggio Calabria
chiarisce la portata limitata delle disposizioni dell'articolo 110 del dlgs
267/2000, evidenziando i corretti presupposti e condizioni per attivare gli
incarichi a contratto. Il Tar ha annullato la deliberazione con la quale era
stata decisa l'assunzione di un responsabile di servizio (in un comune privo
di dirigenti) ai sensi dell'articolo 110 del Tuel (Testo unico enti locali),
per violazione delle disposizioni normative, per altro ponendo le spese a
carico del comune soccombente e trasmettendo il fascicolo alla procura della
Corte dei conti.
A giudizio del Tar, l'incarico è stato attribuito «senza tenere in alcun
modo conto della circostanza relativa alla presenza nel proprio organico dei
ricorrenti, dipendenti a tempo indeterminato la cui idoneità professionale a
ricoprire l'incarico in discorso non è mai stata contestata e, dall'altro,
che non ha assolto minimamente all'onere di esplicitare le ragioni per cui
si è ritenuto di dover ricorrere alla procedura in discorso».
Il comune ha violato le previsioni dell'art. 19, comma 6, del dlgs 165/2001,
norma da applicare obbligatoriamente insieme con l'art. 110 del Tuel. La
difesa dell'ente locale aveva espresso la tesi secondo la quale i contratti
di cui all'articolo 110 del Tuel non richiederebbero la previa, necessaria,
valutazione circa l'esistenza di analoghe professionalità all'interno
dell'ente, è stata respinta. Il Tar spiega che detta tesi «si scontra con
la necessità di leggere la norma in discorso in connessione con gli artt. 19
comma 6, 7 comma 6 e 36 del dlgs 165/2001».
Proprio il comma 6 dell'art. 19 del dlgs 165/2001 impone di motivare gli
incarichi a contratto a partire proprio dalla rilevazione dell'assenza
irrimediabile di professionalità interne. Tale dimostrazione, spiega il Tar,
è necessaria perché sia rispettato il principio di «autosufficienza»
del personale, secondo il quale «ogni ente pubblico, dallo Stato all'ente
locale, deve provvedere ai propri compiti con la propria organizzazione ed
il proprio personale».
Il fondamento di tale principio, prosegue la sentenza, deriva non solo non
solo «dal canone costituzionale di buona amministrazione, di cui i
principi di efficacia ed economicità dell'azione amministrativa
costituiscono attuazione, ma anche nella considerazione che -atteso che ogni
ente pubblico ha una sua organizzazione e un suo personale- è con questa
organizzazione e con questo personale che l'ente deve attendere alle sue
funzioni».
Da qui la fondamentale statuizione: utilizzare personale esterno alla
dotazione organica è ammesso, ma entro limiti ristretti. Non solo occorre
che gli incarichi a contratto si attivino nei limiti ed alle condizioni in
cui la legge lo consenta, ma è necessario dimostrare che si tratti di un
rimedio straordinario ad una carenza temporanea di professionalità. Infatti,
afferma il Tar, «tutte le forme di esternalizzazione dell'attività
pubblica quali le consulenze, le collaborazioni esterne, i contratti a tempo
determinato, hanno la comune e generale funzione di acquisire
professionalità qualitativamente e quantitativamente assenti nella pubblica
amministrazione, oppure quella di sopperire ad esigenze eccezionali ed
impreviste, di natura transitoria».
Di conseguenza gli incarichi ai sensi dell'art. 110 non solo debbono essere
preceduti dalla dimostrata assenza di professionalità, non solo debbono
essere affidati a persone dotati di una competenza estremamente peculiare e
in possesso dei particolari requisiti imposti dall'art. 19, comma 6, dlgs
165/2001, ma debbono essere necessariamente connessi ad esigenze
transitorie, alle quali porre rimedio in via definitiva con l'adeguamento
della dotazione organica e, quindi, l'assunzione in ruolo delle
professionalità mancanti, così da rispettare il principio di autosufficienza
e non ripetere all'infinito il ricorso agli incarichi a contratto,
trasformandoli surrettiziamente in strumenti di ordinaria copertura dei
fabbisogni (articolo ItaliaOggi del 28.12.2019).
---------------
SENTENZA
... per l'annullamento:
- della deliberazione n. 4 del 27.06.2016, pubblicata all’Albo
Pretorio il 05.07.2016, con la quale è stata approvata la programmazione del
fabbisogno di personale a tempo determinato;
- del successivo Avviso pubblico del 12.07.2016 per l’assunzione di
un funzionario tecnico categoria D3 ai sensi dell’art. 110, comma 1, del
D.Lgs. 267/2000;
- della deliberazione n. 27 del 12.08.2016, avente ad oggetto il
conferimento dell’incarico di funzionario tecnico ai sensi dell’art. 110,
comma 1, del D.Lgs. 267/2000.
...
1. Con il ricorso in epigrafe l’Architetto Gi.Ma. e l’Ingegnere Al.Ca.,
entrambi dipendenti a tempo indeterminato del Comune di Rosarno, chiedono
l’annullamento della deliberazione n. 4 del 27.06.2016, con la quale è stata
approvata la programmazione del fabbisogno di personale a tempo determinato
dell’ente per l’anno 2016, del successivo avviso pubblico del 12.07.2016 per
l’assunzione di un funzionario tecnico categoria D3, ai sensi dell’art. 110,
comma 1, del d.lgs 267/2000, nonché della deliberazione n. 27 del 12.08.2016
avente ad oggetto il conferimento dell’incarico di funzionario tecnico ai
sensi dell’art. 110, comma 1, del d.lgs 267/2000.
2. Espongono in fatto i ricorrenti che, all’esito dell’approvazione (di cui
alla Delibera del Commissario Prefettizio n. 35 del 27.08.2015) del nuovo
organigramma dell’Ente, e dell’accorpamento (di cui alla successiva Delibera
del Commissario Prefettizio n. 51 del 14.04.2016) delle due aree tecniche –“Lavori
Pubblici” e “Urbanistica ed Edilizia”- in un’unica unità
operativa complessa, gli stessi venivano privati della responsabilità di
posizione organizzativa di cui godevano prima delle citate modifiche alla
struttura burocratica del comune e che, all’esito delle elezioni
amministrative del 2016, la nuova amministrazione insediatasi decideva di
procedere, con i provvedimenti gravati, a reperire all’esterno il
funzionario a cui affidare la direzione dell’area tecnica, con contratto a
tempo determinato ex art. 110, comma 1, del TUEL.
3. Contro la detta decisione e contro i conseguenti provvedimenti di
approvazione del bando di selezione e di conferimento dell’incarico al
controinteressato sono perciò insorti i ricorrenti con il ricorso in
epigrafe affidato, alle seguenti censure:
3.1. Violazione e falsa applicazione dell’art. 110, comma 1, del
D.Lgs. n. 267/2000.
L’amministrazione avrebbe omesso di considerare che, in seno alla struttura
burocratica del comune, erano già in servizio gli odierni ricorrenti, sicché
il provvedimento gravato sarebbe stato adottato in difetto della condizione
normativa che consente di attivare i contratti a tempo determinato solo in
assenza di analoghe professionalità, nei ruoli dell'Amministrazione.
Il provvedimento impugnato, per altro verso, violerebbe l’art. 9, comma 28,
del D.L. 78/2010, il quale stabilisce che, a decorrere dall'anno 2011, le
Amministrazioni dello Stato e degli altri enti pubblici anche ad ordinamento
autonomo, possono avvalersi di personale a tempo determinato o con
convenzioni ovvero con contratti di collaborazione coordinata e
continuativa, nel limite del 50% della spesa sostenuta per le stesse
finalità nell’anno 2009.
3.2. Violazione di legge e, in particolare, dell'art. 3 della legge
n. 241/1990 per omessa e/o insufficiente motivazione del provvedimento.
Sarebbe evidente il vizio di motivazione del provvedimento gravato, che, in
violazione anche dell’art. 19, comma 6, del dlgs 165/2001, non
rappresenterebbe né l’esigenza di una specifica qualificazione
professionale, non rinvenibile nei ruoli dell'Amministrazione, né le ragioni
del ricorso all’incarico a contratto, invece che al concorso pubblico.
3.3. Violazione del legittimo affidamento dei ricorrenti.
Si sostiene che i ricorrenti, in possesso dei requisiti professionali
richiesti per l’espletamento dell’incarico, hanno visto del tutto disattesa
la propria aspettativa di continuare a ricoprire la predetta posizione
lavorativa. L’Amministrazione intimata avrebbe, infatti, leso il loro
legittimo affidamento attraverso la decisione di assumere a tempo
determinato un nuovo funzionario tecnico nonostante la presenza di analoghi
profili professionali nei ruoli dell’Amministrazione.
...
5.1. Vanno preliminarmente scrutinate le eccezioni preliminari formulate
dalla resistente amministrazione, che il Collegio giudica infondate.
Quanto alla eccezione di inammissibilità del ricorso per mancata
partecipazione dei ricorrenti alla procedura selettiva, in disparte ogni
considerazione sul fatto che, seguendo la tesi della resistente
amministrazione, l’architetto Ma., avrebbe dovuto, per continuare a
coltivare il proprio interesse a ricorrere, partecipare ad una selezione per
una qualifica già posseduta, appare evidente che il vulnus alle
posizioni giuridiche di entrambi i ricorrenti si è perfezionato con la
scelta dell’amministrazione di procedere a reperire all’esterno la
professionalità a cui affidare la direzione dell’area tecnica.
In altri termini, la lesione della sfera giuridica dei ricorrenti era già
compiuta al momento dell’indizione della procedura selettiva ex art. 110,
co. 1, del TUEL e nessun rilievo può avere, ai fini del radicamento
dell’interesse a ricorrere, la loro mancata partecipazione alla ridetta
selezione, per altro evidentemente rivolta a selezionare all’esterno del
personale dell’ente il soggetto a cui conferire l’incarico.
Il Collegio reputa altresì prive di fondamento le eccezioni di
improcedibilità del ricorso legate ai successivi provvedimenti
amministrativi adottati dall’ente (la proroga del contratto del
controinteressato o addirittura i provvedimenti di riorganizzazione della
struttura). Le descritte circostanze, in uno con quella relativa allo
scadere del contratto di lavoro del controinteressato, anche se
determinassero la cessazione degli effetti dei provvedimenti gravati, non
potrebbero comunque considerarsi idonee a far venir meno l’interesse alla
decisione dei ricorrenti che potrebbero, nei termini prescritti dall’art.
30, comma 5, del codice del processo amministrativo, attivare la tutela
risarcitoria, come già ipotizzato in ricorso.
6. Nel merito, risultano, nei termini di cui si dirà, fondati ed assorbenti
i primi due motivi di ricorso.
La tesi della resistente amministrazione secondo la quale i
contratti ex 110, comma 1, del TUEL non richiedono la previa, necessaria,
valutazione circa l’esistenza di analoghe professionalità all’interno
dell’ente, si scontra con la necessità di leggere la norma in discorso in
connessione con gli artt. 19 comma 6, 7 comma 6 e 36 del dlgs 165/2001, che,
in disparte ogni altra considerazione, è resa ineludibile per tabulas
dalla mera lettura dell’art. 88 del dlgs 267/2000 a mente del quale “All'ordinamento
degli uffici e del personale degli enti locali, ivi compresi i dirigenti ed
i segretari comunali e provinciali, si applicano le disposizioni del decreto
legislativo 03.02.1993, n. 29 e successive modificazioni ed integrazioni, e
le altre disposizioni di legge in materia di organizzazione e lavoro nelle
pubbliche amministrazioni nonché quelle contenute nel presente testo unico.”
In altri termini, la procedura finalizzata alla copertura
dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche
dirigenziali o di alta specializzazione, mediante contratto a tempo
determinato, ai sensi dell’art. 110, comma 1, del TUEL, non può derogare dal
rispetto delle prescrizioni dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001,
il quale fornisce due fondamentali e correlate indicazioni:
- l’incarico può essere conferito a soggetti esterni a condizione
che la correlata professionalità sia “non rinvenibile nei ruoli
dell'Amministrazione”; occorre, quindi, preliminarmente dimostrare,
l’assenza totale nei ruoli dell’amministrazione di persone aventi la
professionalità necessaria;
- gli “incarichi sono conferiti, fornendone esplicita
motivazione”, la quale è funzionale alla verifica della particolare e
comprovata qualificazione professionale, richiesta ai funzionari da
sottoporre a selezione, e della insussistenza di professionalità equivalenti
all’interno dell’ente, anche ai fini del controllo della Corte dei Conti
sugli atti di conferimento dei predetti incarichi
(Cass. civ. Sez. lavoro,
sentenza 22.02.2017 n. 4621).
6.2. Tanto premesso, il Collegio non può esimersi dal
ricordare come sia un principio basilare del nostro ordinamento, da tempo
unanimemente riconosciuto dalla giurisprudenza contabile, quello in virtù
del quale ogni ente pubblico, dallo Stato all'ente locale, deve provvedere
ai propri compiti con la propria organizzazione ed il proprio personale.
Detto principio trova in realtà il suo fondamento non solo
nel canone costituzionale di buona amministrazione, di cui i principi di
efficacia ed economicità dell'azione amministrativa costituiscono
attuazione, ma anche nella considerazione che -atteso che ogni ente pubblico
ha una sua organizzazione e un suo personale- è con questa organizzazione e
con questo personale che l'ente deve attendere alle sue funzioni.
La possibilità di ricorrere a personale esterno è ammessa
nei limiti ed alle condizioni in cui la legge la preveda, stante che tutte
le forme di esternalizzazione dell'attività pubblica quali le consulenze, le
collaborazioni esterne, i contratti a tempo determinato, hanno la comune e
generale funzione di acquisire professionalità qualitativamente e
quantitativamente assenti nella pubblica amministrazione, oppure quella di
sopperire ad esigenze eccezionali ed impreviste, di natura transitoria.
6.3. Tanto premesso, nel caso di specie,
dall’esame della documentazione versata in atti, risulta
pacificamente, da un lato, che il Comune di Rosarno ha attivato la
procedura di cui all’art. 110, comma 1, del TUEL senza tenere in alcun modo
conto della circostanza relativa alla presenza nel proprio organico dei
ricorrenti, dipendenti a tempo indeterminato la cui idoneità professionale a
ricoprire l’incarico in discorso non è mai stata contestata e, dall’altro,
che non ha assolto minimamente all’onere di esplicitare le ragioni per cui
si è ritenuto di dover ricorrere alla procedura in discorso.
7. In conclusione, il ricorso deve essere accolto con conseguente
annullamento degli atti impugnati. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi
PO e superamento limiti.
Domanda
Il Sindaco ha firmato dei decreti di nomina dei Responsabili
dei Servizi corrispondendo importi di retribuzione di
posizione che non rispettano il tetto del 2016. Cosa ci
suggerite?
Risposta
In risposta al vostro quesito, innanzitutto suggeriamo di
verificare se il calcolo dei valori delle posizioni
organizzative sono stati effettuati tenendo in
considerazione il concetto di “destinato” o meglio
dire “finalizzato” all’istituto così come riassunto
dalla Corte dei conti della Sicilia nella Deliberazione n.
172/2018: “il limite massimo di spesa di riferimento,
pertanto, non può essere quello quantificato tenendo conto
della ipotetica struttura organizzativa né quello relativo
alle somme effettivamente erogate e riferite all’esercizio
2016, piuttosto deve essere quello rappresentato
dall’ammontare delle risorse stanziate in bilancio nel
medesimo esercizio finanziario, nel rispetto del contratto
di lavoro e dei vincoli di finanza pubblica”.
Di fatto, nel 2017 non potevano essere stanziate somme in
misura incompatibili con l’art. 23, comma 2, del d.lgs.
75/2017 che prevede di non superare il trattamento
accessorio del 2016, tetto che va rispettato come unico
aggregato tra fondo e posizioni organizzative.
Pertanto, già in fase di attribuzione delle somme per
retribuzione di posizione e di risultato, l’ente avrebbe
dovuto preoccuparsi di verificare il rispetto della norma.
Purtroppo, però, dal momento in cui viene identificato
l’importo in un decreto del Sindaco, tale somme diventa a
nostro parere esigibile da parte del lavoratore, il quale,
se non corrisposta potrebbe rivolgersi al giudice del
lavoro.
Va però altresì precisato che, in ogni caso, il Sindaco non
ha un’autonoma e illimitata discrezionalità nell’aumentare
gli importi delle posizioni organizzative, in quanto il
sistema ha sempre previsto la necessità di avere nell’ente
criteri per la graduazione delle aree. Quindi, in assenza di
questi, c’è da chiedersi se i decreti di nomina del Sindaco
siano legittimi o non possano essere anche rivisti in
autotutela.
In ogni caso, tornando alla questione, se dalla somma
aritmetica dei valori come sopra determinati risulta che un
ente non ha rispettato il tetto dell’anno di riferimento,
non vi è alcun dubbio che ha creato un superamento del
vincolo finanziario che dovrà essere recuperato negli anni
successivi.
Ora, se diamo per assodato che i valori delle p.o. siano “giusti”
e quindi quelli stanziati, l’ente non avrebbe potuto
stanziare quelle somme di parte variabile nel fondo negli
anni di riferimento perché quei valori portano al
superamento del limite che, appunto, ora dovrà essere
recuperato sui fondi degli anni successivi.
Se invece l’ente ritiene che l’errore sia nella
quantificazione del valore delle p.o. dovrà agire in
autotutela con la revisione dei decreti di nomina (11.07.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Allattamento genitore lavoratore autonomo.
Domanda
Un papà chiede le 2 ore di allattamento giornaliere per suo
figlio. La madre è lavoratrice autonoma e gode
dell’indennità di maternità riconosciuta dall’INPS. La
domanda del padre può essere accolta?
Risposta
I riposi giornalieri del padre, meglio noti come le 2 ore di
allattamento, sono disciplinati all’art. 40 del d.lgs.
151/2001.
La norma di legge prevede che al padre siano riconosciuti 2
periodi di riposo della durata di 1 ora ciascuno (se
l’orario di lavoro è di almeno 6 ore) solo nelle seguenti
ipotesi:
a) nel caso in cui i figli siano affidati al solo padre;
b) in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne
avvalga
c) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente;
d) in caso di morte o di grave infermità della madre.
L’alternatività nel godimento dei riposi giornalieri da
parte del padre è prevista solo in relazione alla madre
«lavoratrice dipendente» che non se ne avvalga.
Quindi, solo se la madre è lavoratrice subordinata, è
prevista la regola dell’alternatività, ovvero il padre può
godere dei riposi giornalieri solo se la madre non se ne
avvale. Vale a dire che se la madre subordinata è in congedo
di maternità, il padre non può godere dei riposi
giornalieri.
Al contrario, nel caso di madre “lavoratrice autonoma”
non vi è alcun divieto normativo di cumulo tra godimento
dell’indennità di maternità e la fruizione dei riposi
giornalieri.
Le ragioni della diversa disciplina nascono dalla diversa
condizione lavorativa delle madri, meno tutelata dal punto
di vista economico per la lavoratrice autonoma rispetto alle
garanzie che la legge offre alla lavoratrice dipendente.
La cumulabilità del congedo di maternità della lavoratrice
autonoma con i riposi giornalieri del padre è confermata
dalla Cassazione con sentenza n. 22177 del 12.09.2018 (04.07.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
giugno 2019 |
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EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Comporta
responsabilità amministrativa l’erroneo calcolo degli oneri di
urbanizzazione posti a carico dei privati ai quali è rilasciata la
concessione edilizia. Il termine di prescrizione decorre dalla data di
rilascio del titolo edilizio.
Fermo restando la concorrente responsabilità degli organi di governo
dell’Ente, causa danno erariale la condotta del responsabile dell’ufficio
tecnico che non abbia segnalato, tra l’altro, la necessità di adottare la
delibera di adeguamento dei costi in esame sulla base delle variazioni
ISTAT.
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FATTO
1. Con la sentenza n. 87/2017, depositata il 06.03.2017 e notificata il
15.05.2017 la Sezione giurisdizionale regionale della Corte dei conti per la
Puglia, in parziale accoglimento della domanda risarcitoria in tal senso
proposta dalla Procura regionale, ha condannato il sig. Fr.Ma., responsabile
del Settore tecnico del Comune di Salve (LE), a pagare a quest’ultimo, la
somma complessiva di euro 10.000,00, omnicomprensivi di rivalutazione
monetaria, oltre interessi, in misura legale, fino al momento del soddisfo.
1.1. Le contestazioni della Procura, condivise dalla sentenza del giudice di
primo grado attengono alla mancata applicazione nel Comune di Salve (LE),
per il periodo dal 2008 al 2011, del corretto valore del costo di
costruzione da utilizzare per la quantificazione del contributo finanziario
a carico dei privati in sede di rilascio dei permessi di costruire.
1.2. La Sezione regionale, dopo avere affermato la concretezza e l’attualità
del danno sin dalla data del rilascio del permesso di costruire ha accolto
parzialmente la domanda attrice, rideterminando il danno addebitabile al Ma.
in euro 16.839,77.
Ha sostenuto la Sezione che la parte di danno relativa al periodo
interessato dagli aggiornamenti disposti dalla Giunta Comunale non può
essere collegata completamente imputata al convenuto, essendo tali decisioni
state assunte dall'organo di governo, e che pertanto nel periodo in cui sono
intervenute le delibere di Giunta (aprile 2009 e giugno 2011), può
quantificarsi pari a due terzi di quello prodottosi nel 2009 (2.927,06) ed
alla metà di quello scaturito per l'anno 2011 (2.742,28).
Rilevato il recupero da parte del Comune, con riguardo alle pratiche
edilizie del 2008 dell'importo di euro 3.090,61 e per quelle relative al
2009 dell'importo di euro 2.235,53, ha portato in diminuzione per intero
dalla somma il primo importo ed il secondo in riduzione nei limiti della
quota di danno addebitata al convenuto per l'anno 2009 ossia pari ad un
terzo.
In applicazione del potere riduttivo dell'addebito ha, poi, rideterminato
l'importo di danno nella misura di euro 10.000,00 comprensivi anche della
rivalutazione monetaria maturata sino alla data di deposito in Segreteria
della decisione; oltre gli interessi in misura legale, calcolati a decorrere
dalla suddetta data sino al soddisfo.
2. Avverso la sentenza ha proposto appello il sig. Ma. rilevando vari motivi
di gravame.
...
DIRITTO
1. La presente fattispecie ha ad oggetto il danno causato al Comune di
Salve (LE) a causa della mancata applicazione nel Comune di Salve (LE), per
il periodo dal 2008 al 2011, del corretto valore del costo di costruzione da
utilizzare per la quantificazione del contributo finanziario a carico dei
privati in sede di rilascio dei permessi di costruire.
Con il primo motivo l’appellante lamenta, sostanzialmente,
l’inattualità del danno, atteso che il Comune può ancora intervenire nel
termine di prescrizione decennale per recuperare la differenza tra i costi
di costruzione riscossi e quelli dovuti.
Il motivo non ha pregio, perché anche se ciò è vero, le relative partite
contabili non risultano in atto incassate, né è certo se mai lo saranno: la
concretezza e l’attualità del danno, infatti, risiede nella perdita
dell’originaria fonte di credito per l’Ente Locale e poiché gli oneri di
costruzione sono stati riscossi in misura inferiore al dovuto, il
procedimento volto al recupero dei differenziali si appalesa, all’attualità,
di esito incerto e non prevedibile, considerato che i contribuenti, per via
del tempo trascorso, potrebbero più facilmente contestarne la legittimità.
La stessa giurisprudenza del giudice amministrativo ritiene che il costo di
costruzione, sia una prestazione patrimoniale di natura impositiva che trova
la sua ratio nell’incremento patrimoniale che il titolare del permesso di
costruire consegue in dipendenza dell’intervento edilizio e che viene
determinato al momento del rilascio della concessione, che costituisce il
fatto costitutivo del relativo obbligo giuridico.
Relativamente alla dedotta assenza dell’elemento soggettivo della colpa
grave rileva preliminarmente il Collegio che, alla luce della posizione
rivestita dall’appellante, nel 2008, così come negli anni successivi, di
responsabile del settore Tecnico del predetto comune, rientrava, senza alcun
dubbio, tra i doveri e gli obblighi intestati a tale tipologia di
funzionario, la vigilanza sull’ammontare degli introiti, da parte del
Comune, relativi al settore di competenza.
Infatti, gli artt. 4 e 11 del D.L.vo n. 165/2001 e 111 del D.L.vo n.
267/2000 stabiliscono che agli amministratori spettano poteri di indirizzo
politico, mentre ai dirigenti la relativa attuazione e la concreta gestione.
D’altronde, la normativa in materia, nazionale e regionale, prevedeva che il
costo di costruzione venisse determinato periodicamente dalle Regioni e
adeguato annualmente sulla base delle variazioni ISTAT.
E che gli adempimenti di cui trattasi rientrassero tra gli atti di gestione,
trattandosi di autorizzazioni e concessioni edilizie da corredare,
necessariamente con la determinazione del relativo quantum da versare, è
fuor di dubbio.
Ma anche a voler considerare, per gli anni 2008 e 2010 l’inerzia dell’organo
politico, che, secondo l’appellante, non avrebbe adottato la deliberazione
annuale di adeguamento dei costi in questione, resta, pur sempre, inalterata
la responsabilità del Martella il quale, in qualità di responsabile del
settore, avrebbe dovuto segnalare tale inadempimento e sollecitarlo al fine
di evitare le conseguenze dannose derivanti dal mancato adeguamento, nel
tempo, del contributo in argomento.
In tal senso la sentenza deve essere confermata.
In ordine al quantum debetaur, invece, osserva il Collegio che la
documentazione depositata nel corso del giudizio, dalla quale risulta per
tabulas che il Comune ha già recuperato la somma di € 3.772,26, relativa
ai contributi di costruzione per l’anno 2008, la somma di € 3.446,62,
relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2009; la somma di €
5.796,91, relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2010; la somma di
€ 4.065,08, relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2011, consente
di potere dichiarare la cessazione della materia del contendere fino alla
concorrenza della somma, di € 8.915,09.
Va infatti, nella determinazione del quantum, seguito il calcolo
operato in sentenza (sulle cui modalità si è formato giudicato), e va tenuto
conto che, ai fini della determinazione del danno al 21.12.2016 è già stato
decurtato, con riguardo alle pratiche edilizie del 2008 l'importo di €
3.090,61 e per quelle relative al 2009 l'importo di € 2.235,53.
Pertanto dalla somma di € 10.000,00 (di cui è condanna) va detratta la somma
di euro somma di € 681.65 (€ 3.772,26 – € 3.090,61) relativa ai contributi
di costruzione per l’anno 2008, la somma di € 403,69 (1/3 di € 3.446,62 – €
2.235,53) relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2009; la somma di
€ 5.796,91, relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2010; la somma
di € 2.032,84, relativa ai contributi di costruzione per l’anno 2011 ( pari
ad ½ di € 4.065,08).
Per il resto, la sentenza deve essere confermata con il rigetto
dell’appello, fermo restando che, con riferimento alla somma residua pari a
€ 1.084.91, l’interessato potrà far valere –in sede esecutiva– l’eventuale
ulteriore recupero, da parte del Comune, della somma di cui è condanna.
Ogni ulteriore motivo non espressamente affrontato deve ritenersi assorbito
e, in ogni caso, respinto.
Le spese sono compensate ai sensi dell’art. 31, comma 3 c.g.c.
P.Q.M.
La Corte dei Conti - Sezione Terza Centrale d’appello, definitivamente
pronunciando, disattesa ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione,
dichiara cessata la materia del contendere fino alla concorrenza di €
8.915,09.
Respinge l’appello e conferma la sentenza impugnata fino alla concorrenza di
€ 1084.91, nei termini di cui in motivazione (Corte dei Conti, Sez. III
centrale d'appello,
sentenza 27.06.2019 n. 127). |
PUBBLICO IMPIEGO: Cambio
turno.
Domanda
È possibile per un dipendente chiedere autonomamente il “cambio
turno”? Come funziona?
Risposta
Premesso che la fattispecie non è normata da alcuna
disciplina di contratto e di legge, il cambio turno non
esiste dal punto di vista giuridico, per cui l’unico
soggetto che legittimamente può regolamentare in materia è
il datore di lavoro (dirigente) nell’esercizio dei suoi
poteri conferitegli dall’art. 5, comma 2, del d.lgs.
165/2001.
La regolamentazione va inserita nel disciplinare sull’orario
di lavoro e non richiede alcuna partecipazione sindacale
diversa dalla sola informazione.
Ciò detto, le motivazioni che legittimano il cambio turno
sono definite e perimetrate dal datore di lavoro che deve
tenere conto del rischio che conduce un abuso di questo
istituto.
Non sono le motivazioni personali generiche dei lavoratori a
prevalere sull’esigenza di rispettare le condizioni
legittimanti l’indennità di turno (in proposito si legga la
delibera della Corte dei Conti Molise n. 25/2016).
Un utilizzo incontrollato di cambi turni può far venire meno
la legittimità della corresponsione della relativa
indennità, producendo ad esempio un disequilibrio tra turni
mattutini e pomeridiani nell’arco del mese, è quindi dovere
e compito del datore di lavoro monitorare e regolamentare un
corretto e proprio utilizzo del cambio turno.
Tale ipotesi, del resto, è certamente riconducibile ad una
forma di flessibilità, non normata, e che per questa ragione
richiede di essere regolamentata tenuto conto di quanto
sopra (27.06.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto:
Chiarimenti e linee guida in materia di collocamento
obbligatorio delle categorie protette. Articoli 35 e 39 e
seguenti del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 - Legge
12.03.1999, n. 68 - Legge 23.11.1998, n. 407 - Legge
11.03.2011, n. 25
(direttiva
24.06.2019 n. 1/2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Danno
erariale alla commissione di concorso che forma una graduatoria errata.
Alla commissione di concorso è richiesto uno standard
minimo professionale nella valutazione dei titoli dei candidati al momento
della formazione della graduatoria, specialmente quando una sua errata
valutazione possa comportare un ribaltamento della posizione utile del
candidato che aspira alla copertura del posto a vantaggio del secondo
classificato.
In caso di annullamento della graduatoria disposto dal
tribunale amministrativo, pertanto, le spese inutilmente sopportate
dall'ente pubblico devono essere poste a carico della commissione che abbia
operato al di sotto della ordinaria esigibilità.
Queste sono le conclusioni cui è giunta la Corte dei conti della Toscana (sentenza
20.06.2019 n. 262).
La vicenda
Il bando di concorso per la nomina a tempo determinato di un addetto stampa
prevedeva il possesso dell'iscrizione all'albo dei pubblicisti o dei
giornalisti, mentre per la formazione della graduatoria la commissione
avrebbe dovuto valutare i candidati secondo questi punteggi: «Titoli di
studio: diploma di laurea o laurea specialistica in materie attinenti fino a
20 punti; Titoli culturali o professionali, fino ad un massimo di 30 punti;
3. Curriculum fino ad un massimo di 40 punti; colloquio fino ad un massimo
di 10 punti».
Avverso la scelta del candidato vincitore, il secondo idoneo in graduatoria
chiedeva alla commissione di modificare la medesima, in considerazione del
fatto che al vincitore erano stati attribuiti dei punteggi sul titolo di
studio della laurea che non possedeva. A seguito di questa richiesta, la
commissione di concorso confermava il vincitore modificando tuttavia i
punteggi complessivi dei titoli, avendo proceduto da un alto alla
eliminazione del punteggio erroneamente attribuito al vincitore nel titolo
di studio, ma dall'altro lato modificava anche il punteggio dei titoli
culturali e professionali in modo tale da far restare immutata la
graduatoria.
Il Tar cui era ricorso il candidato estromesso annullava la graduatoria e
condannava l'ente pubblico alle spese di giudizio, che la procura contabile
riteneva inutilmente sborsate dall'ente pubblico e quindi configuranti danno
erariale da porre a carico della commissione di concorso, che era
interamente rinviata a giudizio.
La conferma del danno erariale
Il collegio contabile toscano ha preliminarmente evidenziato come la
medesima commissione abbia inizialmente corretto il proprio errore per aver
attribuito un punteggio su un titolo di studio non posseduto dal candidato
risultato vincitore, ammettendo i propri sbagli. La sussistenza della colpa
grave è dovuta sicuramente alla imperizia con la quale la commissione di
concorso ha proceduto all'attribuzione di un punteggio inesistente al
vincitore della selezione, imperizia questa che giustifica da sola il danno
erariale che è pari al valore del rimborso delle spese di giudizio
sopportate dall'ente pubblico.
Per i giudici contabili, infatti, la colpa grave è caratterizzata dal
comportamento il cui grado di diligenza, perizia, prudenza, correttezza e
razionalità sono da ritenersi inferiori allo standard minimo professionale
esigibile e tale da rendere prevedibile o probabile il concreto verificarsi
dell'evento dannoso (tra le tante: Corte conti, Sezione II Appello, sentenza
n. 611/2011 e Sezione I Appello n. 357/2018).
Secondo la Corte dei conti, pertanto, l'errore commesso dalla commissione di
concorso è da classificarsi al di sotto della ordinaria esigibilità, con la
conseguenza del danno erariale subito dall'ente pubblico pari alle spese di
giudizio sopportate inutilmente
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 25.06.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Articolazione orario lavoro.
Domanda
Abbiamo la necessità di aprire lo sportello al pubblico
anche il sabato modificando quindi l’orario di lavoro a due
dipendenti. Avrei bisogno di sapere cosa dobbiamo fare per
procedere in tal senso?
Risposta
La modifica dell’articolazione dell’orario di lavoro è
oggetto di confronto con le parti sindacali. La dinamica del
confronto è indicata all’art. 5 del contratto che riportiamo
di seguito:
1. Il confronto è la modalità attraverso la quale si instaura un
dialogo approfondito sulle materie rimesse a tale livello di
relazione, al fine di consentire ai soggetti sindacali di
cui all’art. 7, comma 2, di esprimere valutazioni esaustive
e di partecipare costruttivamente alla definizione delle
misure che l’ente intende adottare.
2. Il confronto si avvia mediante l’invio ai soggetti sindacali
degli elementi conoscitivi sulle misure da adottare, con le
modalità previste per la informazione. A seguito della
trasmissione delle informazioni, ente e soggetti sindacali
si incontrano se, entro 5 giorni dall’informazione, il
confronto è richiesto da questi ultimi. L’incontro può anche
essere proposto dall’ente, contestualmente all’invio
dell’informazione. Il periodo durante il quale si svolgono
gli incontri non può essere superiore a trenta giorni. Al
termine del confronto, è redatta una sintesi dei lavori e
delle posizioni emerse.
3. Sono oggetto di confronto, con i soggetti sindacali di cui
all’articolo 7, comma 2:
a) l’articolazione delle tipologie dell’orario di
lavoro;
b) i criteri generali dei sistemi di valutazione
della performance;
c) l’individuazione dei profili professionali;
d) i criteri per il conferimento e la revoca
degli incarichi di posizione organizzativa;
e) i criteri per la graduazione delle posizioni
organizzative, ai fini dell’attribuzione della relativa
indennità;
f) il trasferimento o il conferimento di attività
ad altri soggetti, pubblici o privati, ai sensi dell’art. 31
del D. Lgs. n. 165/2001;
g) la verifica delle facoltà di implementazione
del Fondo risorse decentrate in relazione a quanto previsto
dall’art. 15, comma 7;
h) i criteri generali di priorità per la mobilità
tra sedi di lavoro dell’amministrazione;
i) negli enti con meno di 300 dipendenti, linee
generali di riferimento per la pianificazione delle attività
formative.
A seguire e a confronto concluso (30 giorni) va redatta una
determina dirigenziale (20.06.2019 - tratto da e link
a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Danno
erariale, prescrizione e responsabilità solidale tra dirigente e
responsabile del procedimento.
La
sentenza
17.06.2019 n. 117 della
Corte di Conti, Sez. III Giur.le Centrale d’Appello, merita particolare
attenzione poiché affronta due temi frequenti nei giudizi contabili,
offrendo utili chiarimenti.
L’uno riguarda la condivisione della responsabilità per il danno
erariale tra il dirigente e il responsabile del procedimento; l’altro
il termine di prescrizione e, nella specie, il momento della sua decorrenza
in materia di indebite erogazioni quando soggetto erogante e soggetto
concedente non coincidano.
Solidarietà tra dirigente e responsabile del procedimento
In linea generale e di principio il dirigente è responsabile del danno
erariale prodotto dall’atto amministrativo (illegittimo) di cui è
firmatario.
Tale responsabilità può essere condivisa, in ragione dell’apporto causale,
con il responsabile del procedimento.
Ai sensi dell’art. 5 e ss, Legge 241/1990 quest’ultimo è tenuto a curare
l’istruttoria e tutti quegli adempimenti previsti dalla legge e/o delegati
dal dirigente, necessari alla formazione della volontà amministrativa. Il
dirigente può accogliere i risultati dell’istruttoria e, dunque, provvedere
di conseguenza oppure può respingerli, sollecitando ulteriori attività di
accertamento, ovvero rinunciare all’adozione dell’atto.
Recentemente è stata apprezzata una certa tendenza di alcuni dirigenti a
ridurre e/o esimersi dalla propria responsabilità amministrativa
riversandola sul responsabile del procedimento. Taluni, addirittura, per
fortuna molto pochi, usano dell’istituto allo scopo di precostitursi un
coobbligato solidale, una sorta di assicurazione gratuita per la
responsabilità professionale.
Il giudice contabile, con la sentenza in nota, ha precisato che la
responsabilità per danno erariale derivante dall’emissione di una
illegittima e dannosa determina dirigenziale vada attribuita al solo
dirigente quando “manchi del tutto l’evidenza della partecipazione alla fase
istruttoria del responsabile del procedimento”, evidenza da individuarsi
almeno nella presentazione per la firma della bozza del provvedimento
finale.
La formale attribuzione della responsabilità del procedimento, infatti, “non
è elemento sufficiente, di per sé, a fondare una sua responsabilità per
l’emissione di atti a conclusione di procedimenti nei quali non sia
concretamente intervenuto”.
Lo stesso dicasi nell’ipotesi in cui –pur essendo intervenuto– non abbia
firmato (con il dirigente) l’atto amministrativo incriminato.
La prescrizione del danno
Secondo la consolidata giurisprudenza del giudice contabile (SS.RR.,
15.01.2003, n. 2/QM) “l’art. 1, comma 2, della l. n. 20/1994, nel costituire
declinazione della regola generale sulla prescrizione dei diritti espressa
nell’art. 2935 c.c., deve essere interpretato nel senso che la prescrizione
non può decorrere prima che il “fatto” (cioè “l'evento” dannoso, costituito
da condotta e depauperamento patrimoniale) sia conosciuto, o conoscibile
secondo l’ordinaria diligenza, da parte dell’ente danneggiato.”
Nel caso all’esame della Corte -indebite erogazioni- deve escludersi che
il dies a quo della prescrizione possa identificarsi con l’erogazione del
beneficio, poiché nel particolare procedimento mancava, al momento
dell’erogazione, una “conoscibilità oggettiva” dell’illecito da parte
dell’ente erogatore il quale non era né il soggetto concedente né
l’intestatario di poteri di controllo.
Sono atti interruttivi del decorso del termine prescrizionale, tra gli
altri, la notifica dell’invito a dedurre e la notificazione dell’atto di
citazione
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.06.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Cause di inconferibilità per incarico ex art. 110, comma 1, del tuel
267/2000.
Domanda
Dopo le elezioni amministrative del 26.05.2019, il nostro sindaco
(confermato) intende avviare una procedura pubblica finalizzata alla
copertura di un posto di responsabile apicale di area –con posizione
organizzativa, in ente senza dirigenza– ai sensi dell’articolo 110, comma 1,
del TUEL. Tra i “papabili” figura un ex assessore che ha terminato il
proprio mandato il 26/05/2019. Il comune ha meno di 15.000 abitanti.
Come ci dobbiamo comportare se l’ex assessore partecipa alla procedura? Lo
dobbiamo ammettere?
Risposta
Il riferimento normativo in materia di inconferibilità e incompatibilità di
incarichi dirigenziali presso le pubbliche amministrazioni (compresi i
comuni), va rinvenuto nel decreto legislativo 08.04.2013, n. 39.
In particolare, va evidenziato che l’articolo 2, comma 2, del citato decreto
prevede che le norme si applicano, negli enti locali, anche al conferimento
di incarichi dirigenziali a personale non dirigenziale, come in effetti
accade nei comuni, nei comuni privi di figure dirigenziali, con i titolari
di posizione organizzativa, a cui il sindaco conferisce le funzioni
dirigenziali, ai sensi degli articoli 50, comma 10 e 109, comma 2, del Testo
Unico Enti Locali.
Venendo allo specifico quesito, si ritiene che le cause di inconferibilità,
non siano rinvenibili, nel caso segnalato, dal momento che il vostro comune
ha meno di 15.000 abitanti.
L’articolo 7, comma 2, lettera b) –che richiama la precedente lettera a)–
prevede, infatti, una causa di inconferibilità per i componenti dei consigli
o delle giunte (fissata in uno o due anni), ma solamente per gli incarichi
dirigenziali nei comuni sopra 15.000 abitanti.
In tali enti (ma solo in quelli) si deve rispettare quello che alcuni
commentatori hanno definito il “periodo di raffreddamento”,
intendendo per esso un lasso temporale che non comporta un’esclusione
permanente dal conferimento dell’incarico dirigenziale, ma solo di natura
temporanea.
La normativa, in pratica, vuol impedire che un soggetto che si trovi in una
posizione tale da compromettere l’imparzialità, acceda all’incarico senza
soluzione di continuità. È necessario un periodo di raffreddamento, utile a
garantire la condizione di imparzialità all’incarico (18.06.2019 -
tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Aumento
orario part-time.
Domanda
Un dipendente del Comune è stato assunto ad aprile 2018 con contratto di
lavoro a tempo indeterminato e part-time (18 ore settimanali).
Le ore di lavoro possono essere aumentate da 18 ore fino a 30 settimanali?
Quali sono le condizioni? C’è bisogno di una modifica del programma del
fabbisogno del personale?
Risposta
L’art. 3, comma 101, della legge n. 244/2008 sancisce che la trasformazione
del rapporto di lavoro da part-time a full time può avvenire nel rispetto e
nelle modalità previste dalle disposizione vigenti in tema di assunzioni.
Le varie sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti hanno da tempo
chiarito che l’aumento del part-time che non determini la trasformazione a
tempo pieno non entra nei vincoli alle assunzioni a tempo indeterminato.
L’inclusione dell’ampliamento dell’orario di lavoro di un dipendente assunto
a part-time nel tetto delle capacità assunzionali è limitata alla vera e
propria trasformazione del rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo
pieno, mentre ne rimane esclusa l’ipotesi dell’incremento delle ore
lavorative.
Un mero aumento orario non integra, infatti, una nuova assunzione, sicché
non fa scattare la soggezione ai limiti e divieti alle stesse, sempre che
ciò non si traduca in una manovra elusiva.
A tal proposito, si ritiene di affermare, sulla base della giurisprudenza
contabile formatasi in materia, che l’aumento orario a n. 35 ore
settimanali, una in meno del full-time, costituirebbe già manovra elusiva (Sez.
Sardegna n. 67/2012).
E’ necessario per effettuare l’ampliamento de quo rispettare il limite
generale della spesa di personale (Sez. Basilicata n. 51/2016 e Sez. Puglia
n. 159/2017) e procedere alla modifica del PTFP (13.06.2019 - tratto
da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
Corte dei Conti conferma: i pensionamenti da quota 100 entrano nei calcoli
del turn-over.
Per determinare le proprie capacità assunzionali le Regioni e gli enti
locali non devono tenere conto dei risparmi derivanti da cessazioni per
prepensionamenti a seguito di collocamento in eccedenza e/o sovrannumero
fino a che gli stessi non abbiano raggiunto i requisiti previsti dalla legge
Fornero per il collocamento in quiescenza. La disposizione deve essere
considerata ancora pienamente in vigore in quanto non modificata dal
legislatore né in modo espresso né in modo implicito.
Questa in sintesi
l'indicazione contenuta nel
parere 11.06.2019 n. 123 della Corte dei
conti della Sicilia.
È opportuno sottolineare che questa indicazione si riferisce alle previsioni
dettate nei Dl 95/2012 e 101/2013 e illustrate nella circolare della
funzione pubblica n. 4/2014. Essa non si estende ad altre forme di
collocamento anticipato in quiescenza, quindi non si applica ai
pensionamenti di quota 100, Dl 4/2019.
I giudici contabili siciliani hanno ripreso le indicazioni già fornite dalla
stessa funzione pubblica sull'applicazione delle citate disposizioni
legislative.
Le indicazioni
In primo luogo, gli enti locali e le Regioni che hanno collocato in
eccedenza e/o sovrannumero dei dipendenti per i quali è scattato il
prepensionamento perché in possesso dei requisiti previsti per il
collocamento in quiescenza sulla base della normativa precedente al Dl
201/2011, dovevano sopprimere quei posti dalla dotazione organica. Quindi
dovevano privarsi della possibilità di reperire nel futuro quelle
professionalità, con una diminuzione permanente e «strutturale» della spesa
per il personale, quanto meno in termini teorici, cioè gli oneri derivanti
dalla copertura di tutti i posti previsti in dotazione organica.
In secondo luogo, l'utilizzazione di questa opportunità ha determinato la
conseguenza di non poter utilizzare immediatamente i risparmi derivanti da
queste cessazioni, ma di rinviarne l'utilizzazione al momento in cui il
dipendente avrebbe dovuto essere collocato in quiescenza sulla base dei
vincoli legislativi ordinari. Per cui il risparmio per l'ente è dato anche
dal rinvio di questa fonte di spesa.
Non vi sono elementi nel parere per ritenere che questi principi si
applicano anche ai pensionamenti sulla base della cosiddetta quota 100. In
primo luogo, non vi sono riferimenti legislativi che vanno in questa
direzione. In secondo luogo, per l'utilizzazione di questo strumento non è
in alcun modo richiesto che i dipendenti siano stati preventivamente
dichiarati in eccedenza e/o in sovrannumero (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
25.09.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Distacco
sindacale e straordinario.
Domanda
Un dipendente dell’Ente è stato collocato dallo scorso 1
novembre in distacco sindacale part-time al 50%.
Per il restante 50% presta regolarmente servizio presso
questo Ente in due giorni settimanali (con orario
giornaliero di 9 ore).
Può svolgere nelle suddette giornate lavoro supplementare di
cui all’articolo 55 del CCNL del 21/05/2018?
Risposta
Occorre in primo luogo chiarire che la nozione di “lavoro
supplementare” utilizzata nel CCNL del Comparto Funzioni
Locali, sottoscritto in data 21.05.2018, attiene al rapporto
di lavoro a tempo parziale e fa riferimento
all’effettuazione di prestazioni di lavoro eccedenti
l’orario ridotto concordato tra le parti ma contenute entro
i limiti dell’orario a tempo pieno. Nell’eventualità di
svolgimento di prestazioni aggiuntive del dipendente che
superino anche la durata dell’orario normale di lavoro
occorre, invece, riferirsi alla nozione di lavoro
straordinario.
Fatta questo doverosa premessa, occorre fare riferimento, ai
fini del corretto inquadramento della situazione
rappresentata, a quanto dettato in materia di flessibilità
dei distacchi sindacali dall’articolo 8 del CCNQ sulle
modalità di utilizzo dei distacchi, aspettative e permessi,
nonché delle altre prerogative sindacali, sottoscritto il
04/12/2017.
Il comma 5 del summenzionato articolo 8 stabilisce che “il
trattamento economico del lavoratore in distacco sindacale
part-time ai sensi del comma 3 è quello previsto all’art.
19, comma 3 (Trattamento economico). Per il diritto alle
ferie e per lo svolgimento del periodo di prova in caso di
vincita di concorso o passaggio di qualifica (purché in tale
ipotesi sia confermato il distacco sindacale con prestazione
lavorativa ridotta) si applicano le norme previste nei
singoli contratti collettivi di lavoro per il rapporto di
lavoro part-time –orizzontale o 10 verticale– secondo le
tipologie del comma 4. Tale ultimo rinvio va inteso solo
come una modalità di fruizione dei distacchi sindacali che,
pertanto, non si configurano come un rapporto di lavoro
part-time – e non incidono sulla determinazione delle
percentuali massime previste, in via generale, per la
costituzione di tali rapporti di lavoro”.
Pertanto, la summenzionata disposizione chiarisce che i
rinvii alle norme in materia di part-time operati
nell’ambito del CCNQ quale riferimento per la disciplina da
applicare alle fattispecie menzionate vanno intesi meramente
come una modalità di fruizione dei distacchi sindacali, non
configurando, pertanto, un rapporto di lavoro part-time ai
sensi del contratto collettivo del comparto.
Ne deriva, quindi, che il caso sottoposto non va considerato
alla stregua di un rapporto di lavoro a tempo parziale e
che, conseguentemente, la nozione di lavoro supplementare
non è appropriata (06.06.2019 - tratto da
e link a www.publika.it). |
maggio 2019 |
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PUBBLICO IMPIEGO: Furbetti
cartellino e reato di truffa.
Domanda
La falsa attestazione della presenza in servizio integra il
reato di truffa aggravata anche se il raggiro produce nel
complesso assenze di pochi minuti?
Risposta
La copiosa e recente giurisprudenza che si è occupata dei
furbetti del cartellino non ammette sconti nemmeno nei casi
in cui la falsa attestazione della presenza in servizio
derivi da manomissioni del sistema di rilevazione
dell’orario di presenza che nel complesso producono assenze
di pochi minuti.
Le ragioni delle diverse Cassazioni Penali (Cassazione
Penale, sentenza, n. 20130 del 08.05.2018; Cassazione
Penale, n. 3262 del 23.01.2019; Cassazione Penale n. 9900
del 05.03.2018; Cassazione Penale n. 22972 del 22.05.2018)
si esprimono all’unisono, muovendo dall’assunto che la falsa
attestazione del pubblico dipendente circa la presenza in
ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli
presenza, è condotta fraudolenta, idonea aggettivamente ad
indurre in errore l’amministrazione di appartenenza circa la
presenza sul luogo di lavoro e integra il reato di truffa
aggravata ove il pubblico dipendente si allontani senza far
risultare, mediante timbratura del cartellino, i periodi di
assenza, sempre che siano da considerare economicamente
apprezzabili.
Apprezzabile però, non è sinonimo di rilevante.
Non va tenuto conto solo dell’aspetto economico del danno
patrimoniale, incarnato nell’indebita percezione, da parte
del lavoratore, di un emolumento retributivo in assenza di
prestazione lavorativa resa; l’esiguità dell’aspetto
economico non prevale infatti sul grave tradimento del
rapporto fiduciario esistente tra dipendente e
Amministrazione datrice di lavoro.
Le norme non ammettono una soglia di tolleranza al di sotto
della quale non è integrata la fattispecie di reato: non nel
caso di falsa attestazione della presenza in servizio, in
qualunque modo essa avvenga.
Anche una indebita percezione di poche centinaia di euro
costituisce quindi un danno economicamente apprezzabile per
il datore di lavoro pubblico.
L’esiguità della somma può tutt’al più integrare
l’attenuante della speciale tenuità ma non certo impedire la
configurabilità del reato di truffa aggravata.
In relazione alle situazioni che si palesano come meno gravi
in quanto afferenti ad intervalli temporali esigui e a
corrispondenti valori economici di somme indebitamente
percepite, è stata sollevata questione di legittimità
costituzionale dell’art. 55-quinquies (False attestazioni o
certificazioni) del d.lgs. 165/2001 nella parte in cui non
prevede un’ipotesi attenuata per i casi di minore gravità.
La Corte Costituzionale, con ordinanza n. 184, depositata il
04.10.2018, ha dichiarato la manifesta inammissibilità della
questione di legittimità costituzionale dell’art.
55-quinquies del d.lgs. 165/2001 (30.05.2019 - tratto
da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Sul
danno erariale derivante dal riconoscimento ex post,
da parte del comune, di debiti a titolo di corrispettivi per
lo svolgimento di lavori saltuari e occasionali svolti da
privati cittadini e sulla portata dell'ex "parere di
legittimità", del "parere di regolarità
tecnica" e del "parere di regolarità contabile".
Le delibere di Giunta oggetto del presente giudizio non
hanno valore come riconoscimento di debiti fuori bilancio
per l’incompetenza assoluta dell’organo esecutivo del
Comune.
Infatti, solo il riconoscimento formale da parte del
Consiglio Comunale consente l’imputazione del debito assunto
irregolarmente al bilancio dell’ente.
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Sussiste la piena responsabilità del sindaco
e degli assessori (Giunta
Comunale)
per aver posto in essere una condotta antigiuridica –connotata da
colpa grave- tesa al riconoscimento di debiti da parte di un
organo incompetente a riconoscere i debiti dell’Ente,
soprattutto in assenza dei presupposti normativi per
l’applicabilità dell’art. 191, 3 comma, e/o per il
riconoscimento di cui all’art. 194 del TUEL.
---------------
Parimenti responsabile il geometra responsabile dell’area
tecnica e del personale, per aver apposto il parere di
regolarità tecnica in calce alle delibere di cui è causa
senza verificare la legittimità e regolarità delle procedure
relative alla fase dell’impegno contabile e della spesa,
alla fase contrattuale e di assegnazione dei lavori e alla
fase di verifica della regolare esecuzione degli stessi.
---------------
Altrettanto responsabile il
segretario comunale, per il quale valgono le seguenti
considerazioni.
E’ indubbio che il segretario comunale svolge una specifica
funzione di garante della legalità e di correttezza
amministrativa dell’azione dell’ente locale, di assistenza e
di collaborazione giuridica ed amministrativa proprio in
virtù dell’art. 17, comma 68, della l. 127 del 1997, ma
ancor prima in virtù della l. 142 del 1990.
L’intervenuta soppressione, ai sensi dell’art. 17,
comma 85, della legge citata, del parere di legittimità su
ogni proposta di deliberazione giuntale o consiliare, non
costituisce commodus discessus da ogni responsabilità.
Al contrario, l’evoluzione normativa in
materia, ben lungi dall'evidenziare una sottrazione del
segretario in questione alla responsabilità amministrativa
per il parere eventualmente espresso su atti della Giunta o
del Consiglio, ne ha invece sottolineato le maggiori
responsabilità in ragione della rilevata estensione di
funzioni, di tal che non assume alcun rilievo esimente
l'art. 17, commi 85 e 86, l. n. 127/1997 che ha
espressamente abrogato l'istituto del parere preventivo di
legittimità del segretario comunale.
Sul punto il Collegio ritiene di condividere quanto
affermato da questa Corte, secondo cui
la soppressione del parere di legittimità del segretario su
ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta o al
Consiglio “non esclude che permangano in capo al segretario
tutta una serie di compiti ed adempimenti che, lungi dal
determinare un'area di deresponsabilizzazione del medesimo,
lo impegnano, invece, ad un corretto svolgimento degli
stessi, pena la sua soggezione, in ragione del rapporto di
servizio instaurato con l'Ente locale, all'azione di
responsabilità amministrativa, ove di questa ricorrano gli
specifici presupposti”.
Nel caso di specie, il segretario,
partecipando alla seduta di Giunta, avrebbe dovuto svolgere
la sua funzione di garante del diritto ponendo in evidenza
le gravi violazioni di legge che, con l’approvazione delle
delibere di riconoscimento, si stavano effettuando, e,
nell’ipotesi in cui gli assessori avessero comunque deciso
di deliberare il riconoscimento, avrebbe dovuto esigere la
verbalizzazione della sua opposizione.
---------------
Non appare revocabile in dubbio che nell’ambito del
controllo sulla regolarità e correttezza dell’azione
amministrativa, rientri a pieno titolo il controllo sulla
legittimità della proposta di deliberazione, ovverosia la
verifica del rispetto delle norme che presidiano l’attività
amministrativa nello specifico campo, nonché la legittimità
del fine pubblico perseguito e la correttezza sostanziale
delle soluzioni adottate.
Ne deriva che la lettura combinata
dall’art. 49 e 147-bis, comma 1, del TUEL permette di
individuare, innanzitutto, il contenuto del parere di
regolarità tecnica, che non si limita a verificare
l’attendibilità tecnica della soluzione proposta, ma involge
l’insieme del procedimento amministrativo, coprendo e
inglobando le regole sia tecniche, di un determinato
settore, che quelle generali in ordine alla legittimità
dell’azione amministrativa, ivi compresa la legittimità
della spesa, in considerazione del fatto che ciascun centro
di responsabilità, proponente un qualsiasi atto deliberativo
recante spesa, gestisce autonomamente il piano esecutivo di
gestione assegnato al proprio settore.
Invece, con il “parere di
regolarità contabile” il fine perseguito dal
legislatore è stato quello di assegnare al responsabile del
servizio di ragioneria un ruolo centrale nella tutela degli
equilibri di bilancio dell'ente e, a tal fine,
nell’esprimere tale parere egli dovrà tener conto, in
particolare, delle conseguenze rilevanti in termini di
mantenimento nel tempo degli equilibri finanziari ed
economico-patrimoniali, valutando:
a) la verifica della sussistenza del parere di regolarità
tecnica rilasciato dal soggetto competente;
b) il corretto riferimento (si sottolinea effettuato
dall’organo proponente) della spesa alla previsione di
bilancio annuale, ai programmi e progetti del bilancio
pluriennale e, ove adottato, al piano esecutivo di gestione.
Orbene, secondo il sistema delle
competenze assegnate dal TUEL e ridisegnate dalla riforma
operata con il d.l. n. 174/2012, la verifica della
legittimità delle deliberazioni, sia esse di giunta che di
consiglio, non rientra tra il controlli che il responsabile
del servizio di ragioneria deve effettuare prima
dell’emissione del proprio parere di regolarità contabile.
Da tutto quanto sopra, anche con riferimento a quanto
affermato in ordine alle funzioni e responsabilità del
segretario comunale, si ritiene che il
parere di regolarità contabile non possa che coprire la legittimità
della spesa in senso stretto del termine, cioè la corretta
imputazione al capitolo del bilancio dell’ente, la regolare
copertura finanziaria e il rispetto degli equilibri di
bilancio, esulando dai compiti del responsabile del servizio
di ragioneria ogni valutazione sulla legittimità dell’atto
deliberativo, perché di competenza di altri organi
istituzionali dell’ente.
---------------
La questione all’esame del Collegio riguarda una ipotesi di
danno erariale derivante dal riconoscimento ex post,
da parte del Comune di Santa Domenica Talao, di debiti a
titolo di corrispettivi per lo svolgimento di lavori
saltuari e occasionali svolti da privati cittadini.
Il Procuratore regionale contesta agli odierni convenuti
che, con l’adozione delle diciannove delibere di giunta
sopra citate, siano state violate le disposizioni di cui
agli artt. 191 e seguenti del TUEL che concernono
l’assunzione degli impegni di spesa negli enti locali,
nonché dell’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001 e dell’art. 92
del TUEL relativi all’utilizzo delle forme di lavoro
flessibile.
L’art. 191 del TUEL stabilisce che “Gli enti locali
possono effettuare spese solo se sussiste l'impegno
contabile registrato sul competente programma del bilancio
di previsione e l'attestazione della copertura finanziaria
di cui all’art. 153, comma 5”.
Il successivo comma 3 afferma che “Per i lavori pubblici
di somma urgenza, cagionati dal verificarsi di un evento
eccezionale o imprevedibile, la Giunta, entro venti giorni
dall'ordinazione fatta a terzi, su proposta del responsabile
del procedimento, sottopone al Consiglio il provvedimento di
riconoscimento della spesa con le modalità previste
dall'articolo 194, comma 1, lettera e), prevedendo la
relativa copertura finanziaria nei limiti delle accertate
necessità per la rimozione dello stato di pregiudizio alla
pubblica incolumità. Il provvedimento di riconoscimento è
adottato entro 30 giorni dalla data di deliberazione della
proposta da parte della Giunta, e comunque entro il 31
dicembre dell'anno in corso se a tale data non sia scaduto
il predetto termine. La comunicazione al terzo interessato è
data contestualmente all'adozione della deliberazione
consiliare”.
Orbene, dall’esame delle delibere di
riconoscimento indicate nell’atto di citazione non risulta
che le stesse siano state precedute dalla necessaria
delibera a contrarre con il relativo impegno di spesa sul
relativo capitolo di bilancio con l’attestazione di
copertura finanziaria da parte del responsabile del servizio
economico-finanziario.
Né dalle stesse è rinvenibile, al di là di un’apodittica
affermazione, la giustificazione di ragioni di urgenza o di
eccezionalità e imprevedibilità dell’evento che avrebbero
potuto giustificare il ricorso alla procedura disciplinata
dal terzo comma del medesimo articolo 191 suddetto.
Stante quanto sopra, si sarebbe, allora,
dovuto fare ricorso all’istituto del riconoscimento del
debito fuori bilancio di cui all’art. 194 del TUEL, la cui
competenza viene, però, ascritta al Consiglio comunale e non
all’organo esecutivo dell’ente locale.
Nel caso di specie, pertanto, il rapporto obbligatorio
intercorre tra il privato fornitore e il soggetto
amministratore o funzionario o dipendente dell’ente che ha
consentito la prestazione, ai sensi del già richiamato art.
191, comma 4.
Inoltre, gli artt. 36 del D.Lgs. n 165/2001 e 92 del TUEL,
richiamati dal Procuratore nel suo atto di citazione,
disciplinano la possibilità per le pubbliche amministrazioni
di ricorrere a forme contrattuali di lavoro flessibile con
rapporti di lavoro a tempo parziale e a tempo determinato,
pieno o parziale, sempre, però, nel rispetto della
disciplina vigente in materia e “per comprovate esigenze
di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale,
(sempre) nel rispetto delle condizioni e modalità di
reclutamento (del personale) assicurando la trasparenza ed
escludendo ogni forma di discriminazione".
Orbene, ai fini dell’accertamento della responsabilità dei
convenuti citati, ad avviso del Collegio, nessun rilievo
assume il diverso inquadramento giuridico dei fatti operato
dai difensori.
Infatti, sia che tali interventi vengano inquadrati tra le “borse
lavoro” o tra gli “appalti di servizi”, in
nessuno dei due casi vi è stato un atto propedeutico –quale
ad esempio un bando per l’assegnazione delle borse, o una
delibera di acquisizione dei servizi richiesti- che abbia
concorso a manifestare all’esterno una volontà in tal senso,
da parte dell’amministrazione del Comune di Santa Domenica
Talao.
In tutti i casi, sia l’eventuale assegnazione della borsa o
l’adozione di qualsivoglia forma di lavoro flessibile sia, a
maggior ragione, la stipulazione di un contratto d’appalto
di servizi, necessitano di una forma scritta “ad
substantiam”, nel pieno rispetto di uno dei principi
cardine dell’ordinamento giuridico, quando una delle parti
contrattuali è una Pubblica Amministrazione.
Tale principio è sancito dall’art. 17 della Legge di
contabilità generale dello Stato (R.D. n. 2440 del 1923)
che, ammettendo anche forme più semplificate di stipulazione
contrattuale, prevede per tutte la forma scritta (scrittura
privata; obbligazione stesa ai piedi del capitolato; atto
separato sottoscritto; lettera commerciale).
Tale principio trova la sua giustificazione non solo e non
tanto in ragioni di ordine generale attinenti l’interesse
pubblico perseguito dalla p.a., ma anche nella
considerazione che un’attività estremamente
procedimentalizzata, quale quella in esame, al di là del
nomen juris utilizzato ai fini del suo inquadramento,
non sarebbe concepibile che possa essere conclusa con una
stipulazione orale.
Ciò anche perché la forma scritta rappresenta uno strumento
indefettibile di garanzia del regolare svolgimento
dell'attività negoziale della p.a., nell'interesse sia del
cittadino sia della stessa amministrazione e,
conseguentemente, in assenza della forma scritta il
contratto è nullo (in terminis: Cass, sez. I civile,
sent. n. 5263/2015; n. 7297/2009; sez. III civile, ord. n.
16307/2018).
Per il principio su esposto, prive di pregio, ad avviso del
Collegio, sono le contestazioni che le difese muovono
all’atto di citazione secondo cui nel caso di specie si
verserebbe in una ipotesi di affidamento di un appalto di
servizi sotto soglia.
Infatti, il superamento o meno della “soglia” (art 29
del D.Lgs n. 163/2006 applicabile ratione temporis;
oggi art. 36 del D.Lgs. n. 50/2016) implica esclusivamente
un maggiore o minore rigore nella scelta del contraente, ma
nessuna incidenza può avere in ordine alla necessaria forma
scritta dei contratti della p.a.
Atteso quanto sopra, ritiene il Collegio che nessuna valida
obbligazione sia sorta in capo all’amministrazione del
Comune di Santa Domenica Talao e, pertanto, sussiste la
responsabilità amministrativo-contabile in capo ai
convenuti, in quanto con la loro condotta hanno causato un
indubbio danno erariale consistente nell’erogazione di
corrispettivi non dovuti in quanto conseguenti a
obbligazioni nulle.
A ciò si aggiunga che sono state violate
tutte le norme del TUEL
(prima citate) poste a presidio della
correttezza delle procedure di spesa degli enti locali e,
per quanto già detto,
le delibere di Giunta oggetto del presente giudizio non hanno
nemmeno valore come riconoscimento di debiti fuori bilancio
per l’incompetenza assoluta dell’organo esecutivo del
Comune.
Infatti, solo il riconoscimento formale da parte del
Consiglio Comunale consente l’imputazione del debito assunto
irregolarmente al bilancio dell’ente.
In ordine alle singole condotte il Collegio svolge le
seguenti considerazioni.
Sussiste la piena responsabilità del sindaco
Lu.Al.Gi.
e degli assessori
Es.Fu.Fr., La Gr.Ma.Gi., Fa.Gi., La.Ra.Ma., Le.Fr. e
Pa.An.Sa.
per aver posto in essere una condotta antigiuridica –connotata da
colpa grave- tesa al riconoscimento di debiti da parte di un
organo incompetente a riconoscere i debiti dell’Ente,
soprattutto in assenza dei presupposti normativi per
l’applicabilità dell’art. 191, 3 comma, e/o per il
riconoscimento di cui all’art. 194 del TUEL.
Inoltre, nessuna istruttoria è stata svolta dal sindaco o
dai componenti la giunta ma, soprattutto, nessuna prova
viene fornita in ordine all’eccezionalità e imprevedibilità
dei lavori e alla loro utilità per il Comune.
Parimenti responsabile il geom. Fa.Be., responsabile
dell’area tecnica e del personale, per aver apposto il
parere di regolarità tecnica in calce alle delibere di cui è
causa senza verificare la legittimità e regolarità delle
procedure relative alla fase dell’impegno contabile e della
spesa, alla fase contrattuale e di assegnazione dei lavori e
alla fase di verifica della regolare esecuzione degli
stessi.
In merito nessun valore esimente, ad avviso del Collegio,
può avere la perizia a firma del geom. To.Gr., datata
19.10.2016, in quanto riferentesi a delibere diverse
rispetto a quelle oggetto della citazione in questione.
Altrettanto responsabile il dott. Mo.Ca.An., segretario
comunale, per il quale valgono le seguenti considerazioni.
E’ indubbio che il segretario comunale svolge una specifica
funzione di garante della legalità e di correttezza
amministrativa dell’azione dell’ente locale, di assistenza e
di collaborazione giuridica ed amministrativa proprio in
virtù dell’art. 17, comma 68, della l. 127 del 1997, ma
ancor prima in virtù della l. 142 del 1990.
L’intervenuta soppressione, ai sensi dell’art. 17, comma
85, della legge citata, del parere di legittimità su ogni
proposta di deliberazione giuntale o consiliare, non
costituisce commodus discessus da ogni
responsabilità.
Al contrario, l’evoluzione normativa in
materia, ben lungi dall'evidenziare una sottrazione del
segretario in questione alla responsabilità amministrativa
per il parere eventualmente espresso su atti della Giunta o
del Consiglio, ne ha invece sottolineato le maggiori
responsabilità in ragione della rilevata estensione di
funzioni, di tal che non assume alcun rilievo esimente
l'art. 17, commi 85 e 86, l. n. 127/1997 che ha
espressamente abrogato l'istituto del parere preventivo di
legittimità del segretario comunale.
Sul punto il Collegio ritiene di condividere quanto
affermato da questa Corte, secondo cui la
soppressione del parere di legittimità del segretario su
ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta o al
Consiglio “non esclude che permangano in capo al
segretario tutta una serie di compiti ed adempimenti che,
lungi dal determinare un'area di deresponsabilizzazione del
medesimo, lo impegnano, invece, ad un corretto svolgimento
degli stessi, pena la sua soggezione, in ragione del
rapporto di servizio instaurato con l'Ente locale,
all'azione di responsabilità amministrativa, ove di questa
ricorrano gli specifici presupposti”
(Sez. giur. Toscana, sent. n. 217/2012).
Il segretario Mo., partecipando alla seduta di Giunta,
avrebbe dovuto svolgere la sua funzione di garante del
diritto ponendo in evidenza le gravi violazioni di legge
che, con l’approvazione delle delibere di riconoscimento, si
stavano effettuando, e, nell’ipotesi in cui gli assessori
avessero comunque deciso di deliberare il riconoscimento,
avrebbe dovuto esigere la verbalizzazione della sua
opposizione.
Niente di tutto questo è avvenuto, e pertanto deve
confermarsi la responsabilità del segretario comunale.
Considerazioni contrarie vanno svolte, invece, per la
convenuta De Lu.Ma.Ro., quale responsabile del servizio
economico-finanziario del Comune, che ha emesso i relativi
pareri di “regolarità contabile”.
Il responsabile del servizio economico-finanziario, ai sensi
dell’art. 49 del TUEL, come modificato dall’art. 3, comma 1,
lett. b), del d.l. n. 174/2012, convertito in l. n.
213/2012, su ogni proposta di deliberazione ha l’obbligo di
esprimere un parere di regolarità contabile, qualora la
stessa comporti riflessi diretti o indiretti sulla
situazione economico finanziaria o sul patrimonio dell’ente.
Tale parere, che rientra tra quelli preventivi, è previsto
dall’art. 147 del TUEL, a mente del quale “Gli enti
locali, nell'ambito della loro autonomia normativa e
organizzativa, individuano strumenti e metodologie per
garantire, attraverso il controllo di regolarità
amministrativa e contabile, la legittimità, la regolarità e
la correttezza dell'azione amministrativa”.
Il successivo art. 147-bis afferma che “Il controllo di
regolarità amministrativa e contabile è assicurato, nella
fase preventiva della formazione dell'atto, da ogni
responsabile di servizio ed è esercitato attraverso il
rilascio del parere di regolarità tecnica attestante la
regolarità e la correttezza dell'azione amministrativa. Il
controllo contabile è effettuato dal responsabile del
servizio finanziario ed è esercitato attraverso il rilascio
del parere di regolarità contabile e del visto attestante la
copertura finanziaria”.
Pertanto, il legislatore della novella del 2012, con la
suddetta norma ha inteso differenziare il contenuto del “controllo
di regolarità amministrativa e contabile” (di competenza
del responsabile del servizio o della funzione), che si
esprime attraverso il parere di regolarità tecnica e
riguarda la “regolarità e la correttezza dell’azione
amministrativa”, dal “controllo contabile” che,
esprimendosi attraverso il parere di regolarità contabile
(di competenza del responsabile di ragioneria), ha riguardo
all’aspetto meramente contabile e finanziario del
provvedimento, attraverso, anche, l’apposizione del visto
attestante la copertura finanziaria.
Pertanto, non appare revocabile in dubbio
che nell’ambito del controllo sulla regolarità e correttezza
dell’azione amministrativa, rientri a pieno titolo il
controllo sulla legittimità della proposta di deliberazione,
ovverosia la verifica del rispetto delle norme che
presidiano l’attività amministrativa nello specifico campo,
nonché la legittimità del fine pubblico perseguito e la
correttezza sostanziale delle soluzioni adottate.
Ne deriva che la lettura combinata
dall’art. 49 e 147-bis, comma 1, del TUEL permette di
individuare, innanzitutto, il contenuto del parere di
regolarità tecnica, che non si limita a verificare
l’attendibilità tecnica della soluzione proposta, ma involge
l’insieme del procedimento amministrativo, coprendo e
inglobando le regole sia tecniche, di un determinato
settore, che quelle generali in ordine alla legittimità
dell’azione amministrativa, ivi compresa la legittimità
della spesa, in considerazione del fatto che ciascun centro
di responsabilità, proponente un qualsiasi atto deliberativo
recante spesa, gestisce autonomamente il piano esecutivo di
gestione assegnato al proprio settore.
Invece, con il “parere di regolarità
contabile” il fine perseguito dal legislatore è stato
quello di assegnare al responsabile del servizio di
ragioneria un ruolo centrale nella tutela degli equilibri di
bilancio dell'ente e, a tal fine, nell’esprimere tale parere
egli dovrà tener conto, in particolare, delle conseguenze
rilevanti in termini di mantenimento nel tempo degli
equilibri finanziari ed economico-patrimoniali, valutando:
a) la verifica della sussistenza del parere di regolarità
tecnica rilasciato dal soggetto competente;
b) il corretto riferimento (si sottolinea effettuato
dall’organo proponente) della spesa alla previsione di
bilancio annuale, ai programmi e progetti del bilancio
pluriennale e, ove adottato, al piano esecutivo di gestione.
Orbene, secondo il sistema delle
competenze assegnate dal TUEL e ridisegnate dalla riforma
operata con il d.l. n. 174/2012, la verifica della
legittimità delle deliberazioni, sia esse di giunta che di
consiglio, non rientra tra il controlli che il responsabile
del servizio di ragioneria deve effettuare prima
dell’emissione del proprio parere di regolarità contabile.
Da tutto quanto sopra, anche con riferimento a quanto
affermato in ordine alle funzioni e responsabilità del
segretario comunale, si ritiene che il
parere di regolarità contabile non possa che coprire la
legittimità della spesa in senso stretto del termine, cioè
la corretta imputazione al capitolo del bilancio dell’ente,
la regolare copertura finanziaria e il rispetto degli
equilibri di bilancio, esulando dai compiti del responsabile
del servizio di ragioneria ogni valutazione sulla
legittimità dell’atto deliberativo, perché di competenza di
altri organi istituzionali dell’ente.
Conseguentemente, ritiene il Collegio, di rigettare l’azione
del Procuratore regionale nei confronti di De Lu.Ma.Ro..
Al proscioglimento segue il rimborso delle spese di lite,
poste a carico dell’Amministrazione comunale, che si
liquidano equitativamente in euro 1.500,00.
Riguardo alla quantificazione del danno e alla sua
ripartizione fra i rimanenti convenuti, si condivide
parzialmente quanto indicato in citazione e quindi:
...
P.Q.M.
La Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la regione
Calabria, definitivamente pronunciando, in accoglimento
parziale dell’atto di citazione:
assolve Ma.Ro. De Lu. da ogni addebito e liquida alla
medesima a titolo di spese del giudizio la somma di €
1.500,00 oltre IVA, CPA e spese generali come per legge,
posta a carico dell’Amministrazione di appartenenza;
condanna i sotto elencati convenuti al pagamento in favore
del Comune di Santa Domenica Talao delle somme:
1) Lu.Al.Gi., € 2.294,00 oltre alla rivalutazione monetaria e
agli interessi legali dalla data della presente sentenza e
sino all’effettivo soddisfo.
2) La Gr.Ma.Gi., € 679,00, oltre alla rivalutazione monetaria e
agli interessi legali dalla data della presente sentenza e
sino all’effettivo soddisfo.
3) Es.Fu.Fr., € 369,00, oltre alla rivalutazione monetaria e
agli interessi legali dalla data della presente sentenza e
sino all’effettivo soddisfo.
4) Fa.Gi., € 690,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli
interessi legali dalla data della presente sentenza e sino
all’effettivo soddisfo.
5) La Bo.Ra.Ma., € 1.425,00, oltre alla rivalutazione monetaria
e agli interessi legali dalla data della presente sentenza e
sino all’effettivo soddisfo.
6) Pa.An.Sa., € 25,00, oltre alla rivalutazione monetaria e
agli interessi legali dalla data della presente sentenza e
sino all’effettivo soddisfo.
7) Le.Fr., € 340,00, oltre alla rivalutazione monetaria e agli
interessi legali dalla data della presente sentenza e sino
all’effettivo soddisfo.
8) Mo.Ca.An., € 2.444,00, oltre alla rivalutazione monetaria e
agli interessi legali dalla data della presente sentenza e
sino all’effettivo soddisfo.
9) Fa.Be., € 2.444,00, oltre alla rivalutazione monetaria e
agli interessi legali dalla data della presente sentenza e
sino all’effettivo soddisfo (Corte dei Conti, sez. giurisdiz,
Calabria,
sentenza 27.05.2019 n. 185). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: REATI
CONTRO LA PA/ Abuso d’ufficio per il sindaco che punisce lo zelo. Punito il
comportamento ritorsivo contro un dipendente diligente.
Abuso d’ufficio
per il sindaco che non rinnova l’incarico e nega l’indennità al responsabile
di area come ritorsione per il suo zelo. E il reato -oltre alla valutabilità
del danno il danno economico e professionale- scatta a prescindere dal
diritto o meno del dipendente alla riconferma.
La colpa del funzionario era di aver agevolato l’accertamento della
responsabilità contabile, poi esclusa, del primo cittadino e della giunta in
merito ad alcune nomine, e nell’aver dato seguito, malgrado sconsigliato in
maniera “pressante”, ad iniziative per presunti illeciti della polizia
locale. Un comportamento virtuoso che gli era costato il rinnovo della
nomina a responsabile dell’area vigilanza e le indennità: in pratica un
demansionamento.
Per la Corte di Cassazione (Sez. VI penale,
sentenza 23.05.2019 n. 22871), che avalla la linea della Corte
d’Appello, il sindaco con le sue azioni ritorsive e discriminatorie, aveva
prima di tutto violato la Costituzione. E, in particolare l’articolo a
tutela del buon andamento e dell’imparzialità della Pa, e l’articolo ,
secondo il quale i cittadini a cui sono affidate funzioni pubbliche devono
adempierle con disciplina e onore.
Una lettura che non era piaciuta al ricorrente, secondo il quale, la Corte
di merito aveva valorizzato la Carta per il reato di abuso d’ufficio
(articolo del Codice penale) anziché norme specifiche. Ad avviso della
difesa, infatti, la Costituzione non ha un contenuto precettivo, mentre per
contestare il reato sarebbe stato necessario individuare la violazione di
una specifica disciplina.
La Cassazione condivide l’impostazione dei giudici di merito che, pur avendo
analizzato le norme sul conferimento degli incarichi e sull’impiego
pubblico, non le hanno messe al centro della loro decisione.
Chiarito che il demansionamento c’era stato perché non erano stati
assecondati i desiderata del sindaco, il reato, e la conseguente
valutabilità dei danni, ci sono, infatti, al di là del diritto al rinnovo
dell’incarico e all’indennità. La Cassazione spiega che l’abuso d’ufficio «fa
riferimento a una condotta che non è genericamente connotata da abuso, ma
deve essere caratterizzata da violazione di norme di legge o di regolamento
ovvero dall’omessa astensione».
Il legislatore ha voluto dunque delimitare con più precisione la sfera
dell’illecito «in modo che non consentisse indebite interferenze
nell’azione amministrativa e implicasse la chiara definizione dei canoni di
riferimento». E non si può affermare che il riferimento alla legge non
includa le fonti sovraordinate: prima fra tutte la Costituzione. In questo
quadro pesa l’articolo , da valutare in sinergia con l’articolo , che impone
di esercitare con disciplina e onore le funzioni pubbliche e ai pubblici
ufficiali di assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’
amministrazione.
Solo in apparenza la Carta introduce canoni di carattere generale, in realtà
le direttive hanno un immediato risvolto applicativo. È chiaro il rilievo
dato all’inosservanza del principio di imparzialità che mette “fuori
legge” ingiustificate preferenze, favoritismi e vessazioni intenzionali
e discriminatorie
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.05.2019).
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La condotta evidenzia discriminazioni e ritorsioni.
Risponde del reato di abuso di ufficio il sindaco che discrimina e fa
ritorsioni nei confronti del responsabile di un settore amministrativo
dell'ente locale, non rinnovandogli l'incarico perché non ha seguito le sue
indicazioni e procurandogli un danno connesso alla mancata corresponsione di
indennità associate alla posizione e a un sostanziale demansionamento.
Così la Corte di Cassazione, Sez.
VI penale, con la
sentenza 23.05.2019 n. 22871.
Il delitto di abuso d'ufficio nella formulazione che risulta dalle modifiche
introdotte dalla legge 234/1997, fa riferimento a una condotta che non è
genericamente connotata da abuso, ma deve essere caratterizzata da
violazione di norme di legge o di regolamento ovvero dall'omessa astensione.
Il legislatore ha voluto in questo modo delimitare con più precisione la
sfera dell'illecito, circoscrivendolo entro un ambito che non consentisse
indebite interferenze nell'azione amministrativa e implicasse la chiara
definizione dei canoni esterni di riferimento.
Nel caso in esame è stato ravvisato il delitto di abuso di ufficio quando «la
condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che
regolano l'esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata
alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale
il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello
sviamento di potere, che integra la violazione di legge, poiché lo stesso
non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima
l'attribuzione».
E nel contempo si comprende che sia stato dato rilievo all'inosservanza del
principio costituzionale dell'imparzialità, che preclude ingiustificate
preferenze o favoritismi ovvero intenzionali vessazioni o discriminazioni.
Ciò significa che l'articolo 323 del codice penale (reato di abuso di
ufficio), pur non essendo di per sé riferibile alla violazione di norme
poste da fonti diverse da quelle menzionate, tuttavia ricomprende la
violazione di quei canoni costituzionali, che assumono precisa valenza e
costituiscono la base stessa dell'esercizio dei pubblici uffici. Ne deriva,
affermano i giudici di legittimità, che il riscontro del carattere
discriminatorio e ritorsivo dell'azione amministrativa non vale solo a
qualificare ab extrinseco il movente, ma rileva sul piano oggettivo,
connotando il contenuto di tale azione e rendendo la condotta penalmente
tipica.
Per la Cassazione è corretto il ragionamento dei giudici di merito, che
hanno ravvisato l'illiceità della condotta del sindaco ricorrente proprio in
ragione del suo contenuto discriminatorio e ritorsivo, contrastante non con
evanescenti principi generali bensì con una precisa direttiva, sottostante
all'azione di qualsiasi pubblico ufficiale, che implica l'osservanza della
causa del potere assegnato e il rifiuto di qualsivoglia pregiudiziale
discriminazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.05.2019).
---------------
MASSIMA
2. Il secondo motivo è infondato.
2.1. Va in effetti rimarcato che la contestazione di cui al capo B), per la
quale è stata pronunciata condanna, nel far riferimento al disposto
dell'art. 97 Cost. e dell'art. 1, comma 1, legge 241 del 1990, intendeva far
leva essenzialmente sul carattere discriminatorio e ritorsivo della condotta
del ricorrente in danno del Sa., indicando in tale quadro alcuni elementi
descrittivi, aventi lo scopo di corroborare tale assunto, costituiti
dall'utilizzo di una motivazione apparente, dalla nomina di altro soggetto
privo di diploma di laurea, in assenza di una procedura comparativa, dal
contributo che era stato fornito dal Sa. per l'accertamento della
responsabilità contabile del Sindaco e della Giunta per i fatti di cui
all'originario capo A), dal fatto che il Sa. aveva contravvenuto alle
espresse richieste del Sindaco di non dar corso ad iniziative per presunti
illeciti commessi da agenti della Polizia locale.
La Corte ha sul punto condiviso l'impostazione del primo Giudice, che
proprio sul carattere discriminatorio e ritorsivo della condotta in danno
del Sa. ha fondato il proprio giudizio, nel quale non ha assunto un rilievo
centrale il riferimento agli artt. 110 d.lgs. 267 del 2000 e 19 d.lgs. 165
del 2001, pur menzionati nel capo di imputazione.
2.2. Ciò posto, le doglianze del ricorrente non possono trovare
accoglimento.
L'art.
323 cod. pen. nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte
dalla legge 234 del 1997, fa riferimento ad una condotta che non è
genericamente connotata da abuso, ma deve essere caratterizzata da
violazione di norme di legge o di regolamento ovvero dall'omessa astensione.
Il legislatore ha voluto in tal modo delimitare con più precisione la sfera
dell'illecito, circoscrivendolo entro un ambito che non consentisse indebite
interferenze nell'azione amministrativa e implicasse la chiara definizione
dei canoni esterni di riferimento.
In tale prospettiva la violazione di legge o di regolamento non può che
essere intesa come rappresentativa del superamento di quei canoni esterni,
posti da fonti ben individuate.
D'altro canto non può in alcun modo affermarsi che il riferimento alla legge
non includa altresì quello a fonti sovraordinate, prima di tutto la Carta
fondamentale, cioè la Costituzione, ove parimenti in grado di definire in
modo preciso i limiti dell'azione amministrativa.
Ed anzi deve al riguardo rimarcarsi come l'intera disciplina di tale azione
debba essere collocata nell'ambito costituzionale, in relazione a precise
direttive che dalla Costituzione possano desumersi sia sul versante della
stretta correlazione tra il potere affidato e la fonte di esso sia su quello
dell'effettivo svolgimento dell'azione amministrativa.
In tale quadro viene in evidenza l'art.
97 Cost., da valutare in sinergia con l'art.
54 Cost.: ed invero si desume da tali norme che
le funzioni pubbliche devono essere esercitate con disciplina ed onore e che
i pubblici uffici devono essere organizzati secondo disposizioni di legge,
in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità
dell'amministrazione.
Solo in apparenza per tale via sono introdotti canoni di carattere generale,
in quanto in realtà siffatte direttive contengono un immediato risvolto
applicativo, imponendo da un lato il rispetto della causa di
attribuzione del potere, in modo che lo stesso non sia esercitato al di
fuori dei suoi presupposti, e dall'altro l'imparzialità dell'azione,
la quale non deve essere contrassegnata da profili di discriminazione e
ingiustizia manifesta, aspetti di per sé contrastanti con l'intero assetto
costituzionale dei poteri amministrativi, come in concreto poi disciplinati
dalla legge.
Ben si comprende su tali basi che sia stato ravvisato il
delitto di abuso di ufficio quando «la condotta del pubblico ufficiale
sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma
anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un
interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito,
realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che
integra la violazione di legge, poiché lo stesso non viene esercitato
secondo lo schema normativo che ne legittima l'attribuzione»
(Cass. Sez. U. n. 155 del 29/09/2011, dep. nel 2012, Rossi, rv. 251498;
Cass. Sez. 6, n. 27816 del 02/04/2015, Di Febo, rv. 263932).
E nel contempo si comprende che sia stato dato rilievo
all'inosservanza del principio costituzionale dell'imparzialità, che
preclude ingiustificate preferenze o favoritismi ovvero intenzionali
vessazioni o discriminazioni
(Cass. Sez. 6, n. 49549 del 12/06/2018, Laimer, rv. 274225; Cass. Sez. 2, n.
46096 del 27/10/2015, Giorgino, rv. 265464).
Ciò significa che l'art.
323 cod. pen., pur non essendo di per sé riferibile alla violazione di
norme poste da fonti diverse da quelle menzionate, tuttavia ricomprende la
violazione di quei canoni costituzionali, che assumono precisa valenza e
costituiscono la base stessa dell'esercizio dei pubblici uffici.
Ne deriva che il riscontro del carattere discriminatorio e
ritorsivo dell'azione amministrativa non vale solo a qualificare ab
extrinseco il movente, ma rileva sul piano oggettivo, connotando il
contenuto di tale azione e rendendo la condotta penalmente tipica.
2.3. Ed allora deve rilevarsi la correttezza del
ragionamento dei Giudici di merito, che hanno ravvisato l'illiceità della
condotta del ricorrente proprio in ragione del suo contenuto discriminatorio
e ritorsivo, contrastante non con evanescenti principi generali bensì con
una precisa direttiva, sottostante all'azione di qualsiasi pubblico
ufficiale, implicante l'osservanza della causa del potere assegnato e il
rifiuto di qualsivoglia pregiudiziale discriminazione.
In particolare, anche sulla scorta di quanto rilevato dal Giudice del lavoro
nel provvedimento del 15/10/2014, è stato osservato:
- che l'apertura del procedimento per il mancato
rinnovo al Sa. dell'incarico di Responsabile dell'Area Vigilanza era stato
caratterizzato da motivazioni (riferite alla necessità di rotazione per
ragioni di prevenzione della corruzione) del tutto pretestuose, prive di
qualsivoglia riscontro e intrinsecamente contraddittorie rispetto a quanto
in diversa occasione rilevato;
- che il Sa. si era per contro distinto nel
propiziare l'accertamento della responsabilità erariale del Sindaco e della
Giunta nella vicenda della nomina di Ci.Ro. (oggetto dell'originario capo A)
e nel contravvenire ai pressanti suggerimenti del Sindaco di non dar corso
ad iniziative riguardanti presunti illeciti addebitabili all'agente Ch.;
- che al momento di procedere alla nomina del
nuovo Responsabile dell'Area Sicurezza, il Sindaco aveva del tutto omesso di
procedere ad una valutazione comparativa, assegnando l'incarico a Qu.Lu.
appena transitato in mobilità nel ruolo del Comune, ma sprovvisto del
diploma di laurea, e ponendo il Sa. in posizione addirittura subordinata a
colui che era stato il suo vice;
- che la richiesta di assegnazione di un'indennità
di coordinamento o di maggiorazione dell'indennità di posizione, era stata
negata senza una sostanziale motivazione, dopo che nel luglio 2013 il
Sindaco, con una mail, aveva mostrato di correlare l'accoglimento della
richiesta al modo in cui il Sa. avrebbe gestito la questione riguardante gli
illeciti addebitati al Ch..
Tali elementi sono stati tutt'altro che arbitrariamente
posti a fondamento del carattere ritorsivo e discriminatorio del trattamento
riservato al Sa., non rilevando la circostanza che il predetto avesse o meno
uno specifico diritto al rinnovo ovvero al riconoscimento dell'indennità, a
fronte del contenuto assunto dall'azione amministrativa e del concreto
sviamento del potere, esercitato con modalità contrastanti con le ragioni
poste a fondamento di esso.
Prive di rilievo risultano in tale prospettiva anche le deduzioni, peraltro
largamente assertive, riguardanti l'interpretazione degli artt. 50, 107, 109
e 110 d.lgs. 267 del 2000, a fronte del carattere assorbente del rilevato
profilo di illiceità, qualificato anche dalla mancata adozione di
un'adeguata valutazione comparativa, tale da costituire specifica
giustificazione della determinazione assunta: va invero
rilevato come tale mancanza costituisca dato sintomaticamente idoneo a
rafforzare il giudizio in ordine al contenuto discriminatorio di tale
determinazione, così come la sostanziale assenza di una specifica
motivazione del mancato riconoscimento dell'indennità, a fronte di quanto
precedentemente prospettato in termini di correlazione con i desiderata del
Sindaco, suffraga la valenza ritorsiva del diniego, quand'anche legato a
valutazione discrezionale (per il
rilievo della motivazione deve del resto richiamarsi Cass. Sez. 6, n. 13341
del 27/10/1999, Stagno D'Alcontres, rv. 215278, nonché la più recente Cass.
Sez. 6, n. 21976 del 05/04/2013, Paiardini, rv. 256549).
E' del tutto inconferente infine la circostanza che la fonte dell'indennità
fosse costituita da una convenzione, non riconducibile né alla legge né al
regolamento: in realtà deve ribadirsi come la valutazione di illiceità
riposi anche in questo caso sulla valenza discriminatoria e ritorsiva del
diniego, nei termini già descritti.
3. E' parimenti infondato il terzo motivo.
3.1. Con riguardo al tema della c.d. doppia ingiustizia, si
rileva in generale che accanto al profilo della violazione di legge o di
regolamento (o della violazione dell'obbligo di astensione) che deve
connotare la condotta, deve individuarsi il profilo dell'ingiustizia del
vantaggio patrimoniale o del danno, che costituiscono, in alternativa,
l'evento consumativo del delitto di abuso di ufficio.
Tale ingiustizia può essere individuata sia in base a
profili autonomi rispetto a quelli che connotano la condotta sia quale
proiezione di quegli stessi profili, ove idonei a qualificare il risultato
prodotto (sul punto Cass. Sez. 6,
n. 48913 del 04/11/2015, Ricci, rv. 265473; Cass. Sez. 6, n. 11394 del
29/01/2015, Strassoldo, rv. 262793).
D'altro canto la nozione di danno ingiusto deve
essere intesa non solo con riguardo a situazioni patrimoniali e a diritti
soggettivi perfetti (Cass. Sez. 6,
n. 39452 del 07/07/2016, Brigandì, rv. 268222), dovendosi
aver riguardo ad ogni tipo di aggressione arrecata a situazioni soggettive
di pertinenza di un soggetto, nel presupposto che la stessa sia
giuridicamente ingiustificata e tale da produrre conseguenze lesive.
Assume infatti rilievo la fattispecie di danno ingiusto
evocata dall'art.
2043 cod. civ., riferibile anche alla lesione di interessi legittimi
(sul punto dopo l'analisi di Cass. Civ. Sez. U., n. 500 del 22/07/1999, rv.,
si rinvia per più recenti puntualizzazioni del tema a Cass. Civ., Sez. 1, n.
16196 del 20/06/2018, rv. 649479; Cass. Sez. L., n. 7043 del 13/04/2004, rv.
572035), ferma restando la concreta valutabilità della «chance»,
particolarmente rilevante nel caso di comparazione di poche posizioni.
3.2. In tale prospettiva è all'evidenza infondata la doglianza incentrata
sulla non configurabilità di un diritto soggettivo del Sa. a vedersi
confermato l'incarico ed a fruire dell'indennità richiesta.
Al contrario deve condividersi l'assunto dei Giudici di merito secondo i
quali la condotta discriminatoria e ritorsiva del
ricorrente, sostenuta altresì da quello specifico animus, si è
proiettata sul Sa., determinando l'intenzionale pregiudizio della sua
posizione, valutabile in termini professionali e patrimoniali, pur a
prescindere dalla sussistenza di un vero e proprio diritto soggettivo, in
quanto ha compromesso in quello specifico momento la possibilità del Sa. di
continuare a svolgere le medesime mansioni, ne ha per contro determinato il
sostanziale demansionamento, con sottoposizione a soggetto precedentemente a
lui sottoposto, ha significato il mancato riconoscimento dell'indennità, che
lo stesso Sindaco aveva mostrato di voler condizionare a comportamenti in
linea con i suoi desiderata.
Tali effetti lesivi della condotta sono stati dunque
correttamente qualificati come di per sé ingiusti, in quanto tali da
pregiudicare la posizione del Sa. e da non trovare alcuna giuridica
giustificazione, avuto riguardo alle illecite determinazioni assunte.
Non rileva in senso contrario che
in prosieguo di tempo, dopo l'annullamento disposto dal Giudice del lavoro,
fosse stato riattivato il procedimento con valutazione comparativa, cui il
Sa. aveva omesso di partecipare, e fosse stata assunta una nuova
determinazione in merito alla spettanza dell'indennità con esito negativo
per lo stesso Sa., avallato questa volta dal Giudice del lavoro, a fronte di
addotti persistenti profili di discriminatorietà.
Va infatti rimarcata in questa sede la lesione già
prodottasi, in conseguenza dell'illecito esercizio delle funzioni
amministrative e del contenuto discriminatorio delle relative
determinazioni, tali da arrecare di per sé, «hic et nunc», un
pregiudizio contra ius, peraltro assistito dall'intenzionalità,
insita nello stesso connotato di ritorsione sotteso all'agire
amministrativo. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nessun
margine per nuove posizioni organizzative dal riallineamento retributivo
negli Enti senza dirigenti.
Il decreto Semplificazioni (Dl 135/2018) ha previsto la possibilità di poter
incrementare le retribuzioni di posizione dei titolari di posizione
organizzativa, nei soli enti privi di dirigenti, in base ai maggiori valori
previsti dal nuovo contratto delle Funzioni locali, ma condizionando questa
maggiore spesa a una equivalente riduzione della spesa per assunzioni a
tempo indeterminato.
I maggiori importi ottenuti, considerati dal legislatore fuori dai tetti del
salario accessorio (articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017), non potranno
essere distratti per il pagamento di nuove posizioni organizzative ma solo
di quelle esistenti. La equivalente riduzione delle assunzioni a tempo
indeterminato richieste dalla normativa non potrà che riferirsi alla
capacità assunzionale disponibile e non alle assunzioni attivate mediante la
mobilità volontaria neutra, stante la loro soggezione ai soli limiti della
spesa media sostenuta nel triennio 2011-2013.
Sono questi i chiarimenti della Corte dei conti della Lombardia nel
parere 23.05.2019 n. 210.
Le disposizioni del decreto Crescita
L'articolo 11-bis, comma 2, del Dl 135/2018 ha previsto che, per i soli
Comuni privi di posizioni dirigenziali, il limite previsto dall'articolo 23,
comma 2, del Dlgs 75/2017 (salario accessorio non superiore a quello
sostenuto nell'anno 2016), non si applica al trattamento accessorio dei
titolari di posizione organizzativa del comparto Funzioni locali «limitatamente
al differenziale tra gli importi delle retribuzioni di posizione e di
risultato già attribuiti alla data di entrata in vigore del predetto CCNL e
l'eventuale maggiore valore delle medesime retribuzioni successivamente
stabilito dagli enti ai sensi dell'articolo 15, commi 2 e 3, del medesimo
CCNL, attribuito a valere sui risparmi conseguenti all'utilizzo parziale
delle risorse che possono essere destinate alle assunzioni di personale a
tempo indeterminato che sono contestualmente ridotte del corrispondente
valore finanziario».
I dubbi di un Comune
La disposizione legislativa ha generato alcuni dubbi in merito
all'utilizzazione del differenziale ottenuto da un possibile riallineamento
al nuovo contratto per i titolari di posizione organizzativa, il cui importo
massimo è passato da 12.911,42 a 16.000,00 euro, da finanziare mediante una
correlata riduzione della spesa per assunzioni a tempo indeterminato.
Il primo dubbio riguarda la possibilità di poter destinare, questo maggior
valore, complessivamente ottenuto su tutte le posizioni organizzative
presenti alla data di entrata in vigore del nuovo contratto delle funzioni
locali (21.05.2018), per finanziare l'acquisizione di una nuova posizione
organizzativa. Il secondo dubbio riguarda il termine di assunzione di
personale a tempo indeterminato, ossia se il riferimento debba essere fatto
alla spesa del personale per assunzioni a tempo indeterminato ivi inclusa la
mobilità volontaria.
Le indicazioni del collegio contabile
In merito al differenziale indicato nel decreto Semplificazioni, per il
giudici contabili lombardi l'importo non potrà che essere riferito ai soli
titolari di posizione organizzativa presenti alla data della stipula del
nuovo contratto, finanziando il maggior importo ottenuto con una equivalente
riduzione delle assunzioni di personale a tempo indeterminato, nel rispetto
del limite della spesa del personale (media spesa sostenuta nel triennio
2011-2013).
Di conseguenza è escluso che questo maggior valore acquisito a seguito del
riallineamento ai valori più alti previsti dal nuovo contratto, possa essere
separato per poter remunerare una nuova posizione organizzativa, essendo la
sua destinazione unicamente vincolata ad aumentare l'importo delle posizioni
organizzative presenti alla data del contratto.
Avuto riguardo, invece, alla riduzione della spesa del personale, questa non
potrà che riferirsi a una riduzione del valore finanziario del turn-over
(ossia alla capacità assunzionale disponibile) mentre la mobilità
volontaria, qualora realizzata da due amministrazioni soggette ai vincoli
del turn-over (e quindi neutra), incontrerà il solo limite della spesa
sostenuta che non potrà in ogni caso superare il valore medio del triennio
2011-2013
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.06.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni
organizzative, aumento della retribuzione solo per incarichi già esistenti.
Negli enti privi di dirigenza, l'esclusione dal computo del tetto del
salario accessorio 2016 degli incrementi del costo per la retribuzione di
posizione e di risultato dei titolari di posizione organizzativa può
avvenire solo per gli incarichi già in essere alla data del 21.05.2018.
Il
maggior importo che deriva da questi incrementi può essere compensato solo
utilizzando la capacità assunzionale a tempo indeterminato e non anche i
risparmi derivanti dalla mancata assunzione mediante l'istituto della
«mobilità neutra».
Possono così essere sintetizzate le conclusioni cui giunge la Corte dei
conti Lombardia con il
parere 23.05.2019 n. 210,
in risposta a un ente locale che ha posto alcuni dubbi applicativi sulla
corretta applicazione dell'articolo 11-bis, comma 2, del decreto
Semplificazioni.
L'esclusione dal tetto del salario accessorio
In primo luogo, l'ente locale ha chiesto se la disposizione di maggior
favore introdotta dal Dl 135/2018, a favore degli enti privi di dirigenza,
debba essere riferita alla singola posizione organizzativa o all'importo
complessivo delle posizioni organizzative dell'ente, con possibilità, ad
esempio, di istituirne una nuova. Per i giudici contabili non ci sono dubbi:
la disposizione consente una deroga al tetto del salario accessorio 2016
solo per la parte relativa alla differenza tra gli importi già riconosciuti
alla data di entrata in vigore del nuovo contratto (21.05.2018) e
l'eventuale maggior valore attribuito successivamente alle posizioni già
esistenti.
Pertanto, solo questo differenziale potrà essere escluso dal computo del
limite stabilito dall'articolo 23, comma 2, del Dl 75/2017. In ogni modo,
viene puntualizzato che l'incremento potrà avvenire solo se viene rispettato
il limite di spesa di personale che per i Comuni oltre mille abitanti è dato
dalla media delle corrispondenti somme del triennio 2011/2013, mentre per i
Comuni fino a mille abitanti dal tetto dell'anno 2008.
Il finanziamento
Altro aspetto posto all'attenzione della Corte riguarda la corretta
interpretazione nell'inciso utilizzato dalla norma in esame nella parte in
cui si stabilisce che i maggiori costi derivanti da questi incrementi sono «a
valere sui risparmi conseguenti all'utilizzo parziale delle risorse che
possono essere destinate alle assunzioni di personale a tempo indeterminato
che sono contestualmente ridotte del corrispondente valore».
La disposizione, viene precisato nella deliberazione, deve essere letta nel
senso che la quota destinata alla maggiorazione dell'indennità di posizione
e di risultato delle posizioni organizzative ha quale effetto quello di
limitare le risorse per le assunzioni di personale a tempo indeterminato a
valere sulle capacità assunzionali, come le assunzioni con concorso o con
scorrimento di graduatorie, e non anche quelle derivanti da assunzioni di
personale mediante l'istituto della mobilità volontaria proveniente da enti
soggetti a vincoli assunzionali (mobilità neutra)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.06.2019).
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PARERE
Il Sindaco del comune di San Vittore Olona (MI) con la nota sopra
indicata ha formulato i seguenti quesiti: “in merito all'applicazione del
comma 2 dell'art. 11-bis del decreto legge 14.12.2018 n. 135 convertito con
legge 11.02.2019, n. 12 per un Comune privo di dirigenza.
In particolare, si chiede:
- se il possibile aumento dell'indennità di posizione riguarda
la singola posizione organizzativa o l'importo complessivo delle posizioni
organizzative dell'ente anche ad esempio costituendone una ulteriore;
- se il "medesimo risparmio sulle assunzioni a tempo
indeterminato" riguarda la capacità assunzionale (assunzioni a mezzo di
concorsi) o anche le mobilità ex art. 30 d.lgs. 165/2001”.
...
I quesiti formulati chiedono di interpretare l’art. 11-bis, comma 2, del
d.l. 135/2018 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 12/2019 che
recita ”Fermo restando quanto previsto dai commi 557-quater e 562
dell'articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296, per i comuni privi di
posizioni dirigenziali, il limite previsto dall'articolo 23, comma 2, del
decreto legislativo 25.05.2017, n. 75, non si applica al trattamento
accessorio dei titolari di posizione organizzativa di cui agli articoli 13 e
seguenti del contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) relativo al
personale del comparto funzioni locali - Triennio 2016-2018, limitatamente
al differenziale tra gli importi delle retribuzioni di posizione e di
risultato già attribuiti alla data di entrata in vigore del predetto CCNL e
l'eventuale maggiore valore delle medesime retribuzioni successivamente
stabilito dagli enti ai sensi dell'articolo 15, commi 2 e 3, del medesimo
CCNL, attribuito a valere sui risparmi conseguenti all'utilizzo parziale
delle risorse che possono essere destinate alle assunzioni di personale a
tempo indeterminato che sono contestualmente ridotte del corrispondente
valore finanziario”.
Come è noto, l’art. 23, comma 2, del decreto legislativo n. 75/2017 dispone
l’invarianza della spesa al 2016 relativa al trattamento accessorio del
personale, comprensiva anche dell’indennità di posizione e di risultato
delle posizioni organizzative.
L’art 11-bis, comma 2, del d.l. n. 135/2018 consente una deroga alla
disposizione appena ricordata, per i comuni privi di dirigenza, disponendo
che l’invarianza della spesa non si applica alle indennità
dei titolari di posizioni organizzative, di cui agli artt. 13 e ss. del CCNL
relativo al comparto funzioni locali, limitatamente alla differenza tra gli
importi già attribuiti alla data di entrata in vigore del contratto
(21.05.2018) e l’eventuale maggior valore attribuito successivamente alle
posizioni già esistenti, ai sensi dell’art. 15 del CCNL in parola.
Il differenziale da escludere dal computo di cui all’art.
23, comma 2, del decreto legislativo n. 75/2017 è soltanto la maggiorazione
delle indennità attribuite alle posizioni organizzative già in servizio al
momento dell’entrata in vigore del contratto collettivo nazionale. Tale
maggiorazione deve, in ogni caso, essere contenuta nei limiti di spesa per
il personale, prevista dai commi 557-quater e 562 dell’art. 1 della legge n.
296/2006.
Per quanto riguarda il secondo quesito, questa Sezione ritiene che la
spesa del personale derivante dall’istituto della mobilità abbia come limite
il rispetto dell’art. 1, comma 557-quater ovvero del comma 562 della legge
n. 296/2006, stante la neutralità della stessa, sempre che l’ente cedente
sia sottoposto a vincoli assunzionali.
Da ultimo, si evidenzia che, una volta che l’ente decida di avvalersi della
possibilità prevista dalla normativa in parola la quota destinata alla
maggiorazione dell’indennità di posizione e di risultato delle posizioni
organizzative negli enti privi di dirigenti ha come effetto di limitare le
risorse per le assunzioni di personale a tempo indeterminato (assunzioni che
non siano quelle attuate con l’istituto della mobilità che incontrano
soltanto il limite sopra richiamato).
Infatti, le suddette risorse ”sono contestualmente ridotte del
corrispondente valore finanziario”, ossia del valore finanziario
corrispondente al valore della maggiorazione in esame, così come disposto
dal predetto art. 11-bis, comma 2, del d.l. n. 135/2018. |
PUBBLICO IMPIEGO: La
formazione obbligatoria in materia di anticorruzione,
trasparenza, privacy e codici di comportamento.
Domanda
La formazione in materia di anticorruzione, trasparenza e
privacy è obbligatoria in ogni anno? È possibile prevederla
ad anni alterni?
Risposta
Gli obblighi di formazione in materia di prevenzione della
corruzione e trasparenza, sono previsti da specifiche
disposizioni, contenute nell’articolo 1, della legge 06.11.2012, n. 190 (cd Legge Severino). In particolare,
meritano l’attenzione degli operatori:
• il comma 5, lettera b);
• il comma 8;
• il comma 10, lettera c);
• il comma 11.
In materia di attività formative è necessario, inoltre,
tenere a mente anche il contenuto dell’articolo 15, comma 5,
del decreto Presidente della Repubblica 16.04.2013, n. 62
[1], che
testualmente recita:
5. Al personale delle pubbliche amministrazioni sono rivolte
attività formative in materia di trasparenza e integrità,
che consentano ai dipendenti di conseguire una piena
conoscenza dei contenuti del codice di comportamento, nonché
un aggiornamento annuale e sistematico sulle misure e sulle
disposizioni applicabili in tali ambiti.
Sull’argomento è intervenuta in più occasioni anche l’ANAC
[2],
ribadendo che la formazione riveste un ruolo strategico
nella prevenzione della corruzione e deve essere rivolta al
personale dipendente, prevedendo due livelli differenziati:
a) livello generale, rivolto a tutti i dipendenti: riguardante
l’aggiornamento delle competenze e le tematiche dell’etica e
della legalità;
b) livello specifico, rivolto al responsabile della prevenzione, ai
referenti, ai componenti degli organismi di controllo, ai
dirigenti e funzionari addetti alle aree di rischio. In
questo caso la formazione dovrà riguardare le politiche, i
programmi e i vari strumenti utilizzati per la prevenzione e
tematiche settoriali, in relazione al ruolo svolto da
ciascun soggetto dell’amministrazione.
Ogni ente, nell’apposito capitolo dedicato alla formazione
del Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione e
Trasparenza (PTPCT), dovrà quantificare le ore/giornate
annue dedicate allo svolgimento dell’attività formativa,
definendo anche le categorie di lavoratori a cui la stessa
viene indirizzata.
Per quanto riguarda il Livello Generale, è possibile
valutare l’opzione di erogare la formazione anche con
cadenza biennale, a tutto il personale, mentre la formazione
di Livello Specifico è necessario che venga prevista per
ogni anno, nei confronti di tutte le figure che intervengono
nell’attuazione delle misure previste in materia di
prevenzione della corruzione e trasparenza.
Le modalità su come si sia svolta l’attività formativa
nell’ente, risultano oggetto di una specifica sezione della
Relazione che deve essere compilata e pubblicata nel sito
web, da parte del Responsabile prevenzione corruzione e
trasparenza (RPCT).
Se si affronta la questione della trasparenza e degli
obblighi di pubblicità, occorre, necessariamente, ragionare
anche di tutela dei dati personali. In particolare ciò è
necessario dopo la piena attuazione del Regolamento (UE) n.
2016/679, che è decorsa dal 25.05.2018.
Così come previsto dall’articolo 32, paragrafo 4, del
medesimo Regolamento, occorre prevedere un obbligo di
formazione per tutte le figure (dipendenti e collaboratori)
presenti nell’organizzazione degli enti.
Sono direttamente interessati alla formazione:
1. i Responsabili del trattamento;
2. i Sub-responsabili del trattamento;
3. gli incaricati del trattamento;
4. il Responsabile Protezione Dati.
Una efficace attività formativa in materia di privacy
costituisce un tassello rilevante del sistema di gestione
della tutela dei dati personali, in grado di dare
concretezza al principio di accontuability, inteso come
capacità di dimostrare di aver adottato misure di sicurezza
idonee ed efficaci.
Le Pubbliche amministrazioni, pertanto, dovranno
organizzarsi per:
• pianificare un percorso di formazione per tutte le figure
coinvolte, inserendolo nel Piano Formativo annuale, tenendo
conto della struttura dell’ente, i profili organizzativi, le
finalità di ciascun corso, la possibilità di associare, con
altri enti, l’attività formativa;
• prevedere idonee risorse in sede di approvazione del bilancio;
• prevedere prove finali di verifica del percorso formativo e
sessioni di aggiornamento sulla base delle modifiche
normative, organizzative e tecniche che interverranno;
• stabilire aree di priorità nell’attività formativa partendo –ad
esempio– dal Responsabile Protezione dei Dati (RPD) e dai
suoi collaboratori; dalle figure apicali presenti nell’ente;
i neo assunti; gli amministratori di sistema e tutto il
personale autorizzato al trattamento.
Negli enti locali, la formazione in materia di privacy deve
essere integrata con la digitalizzazione dei processi, con
la riforma del Codice di Amministrazione digitale, con i
codici di comportamento degli enti e con le ultime recenti
novità normative in materia di trasparenza, prevenzione
della corruzione, Foia e whistleblowing.
La formazione non deve essere considerata un mero
adempimento burocratico, ma un’opportunità per:
• rendere consapevoli gli operatori dei rischi connessi al
trattamento dei dati, delle misure di sicurezza;
• migliorare i processi organizzativi e i servizi erogati;
• evitare danni reputazionali;
• ridurre i rischi di sanzioni amministrative e rendere più
competitiva l’organizzazione.
Riassumendo:
a) la formazione in materia di prevenzione della corruzione,
trasparenza e privacy è obbligatoria per ogni anno e le
eventuali relative spese stanno fuori da tutti i tetti per
la formazione;
b) le ore/giornate annue vanno indicate nel PTPCT;
c) è possibile valutare (indicandolo nel Piano) di somministrare la
formazione di Livello generale ad anni alterni.
Da ultimo si sottolinea che anche l’Aggiornamento al PNA del
2018 [3],
ribadisce che "sarebbe necessario garantire una maggiore
formazione, a tutti i livelli, in materia di prevenzione
della corruzione e della trasparenza”.
---------------
[1] Regolamento recante codice di comportamento dei
dipendenti pubblici, a norma dell’articolo 54 del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165.
[2] Delibera n. 72/2013; Determinazione n. 12 del
28/10/2015, paragrafo 5.
[3] Delibera ANAC n. 1074 del 21.11.2018 (21.05.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pa
responsabile del danno anche quando il dipendente agisce a scopo personale.
Lo Stato o l’ente pubblico rispondono del danno subìto dal terzo per
l’illecito del dipendente, anche quando agisce solo per scopi personali,
estranei ai fini dell’amministrazione. La corresponsabilità scatta purché
l’azione illecita sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le
funzioni svolte dal dipendente infedele. E dunque se questa non sarebbe
stata possibile senza l’esercizio del ruolo, per quanto svolto in modo
illecito.
---------------
A. Inquadramento della fattispecie.
1. La sentenza impugnata ha rigettato la domanda risarcitoria
della vittima del peculato del cancelliere in base all'orientamento della
giurisprudenza di legittimità (richiamando: Cass. 21/11/2006, n.
24744; Cass. 17/09/1997, n. 9260; Cass. 06/12/1996, n. 10896; Cass.
13/12/1995, n. 12786; Cass. 03/12/1991, n. 12960) secondo
cui, affinché ricorra la responsabilità della P.A. per un fatto lesivo
posto in essere dal proprio dipendente, poiché il fondamento di quella
risiede nel rapporto di immedesimazione organica, deve sussistere,
oltre al nesso di causalità fra il comportamento e l'evento dannoso,
anche la riferibilità all'Amministrazione del comportamento stesso, la
quale presuppone che l'attività posta in essere dal dipendente si
manifesti come esplicazione dell'attività dell'ente pubblico e cioè
tenda, pur se con abuso di potere, al conseguimento dei fini
istituzionali di questo nell'ambito delle attribuzioni dell'ufficio o del
servizio cui il dipendente è addetto; tale riferibilità viene meno,
invece, quando il dipendente agisca come un semplice privato per un
fine strettamente personale ed egoistico, che si riveli del tutto
estraneo all'amministrazione o perfino contrario ai fini che essa
persegue ed escluda ogni collegamento con le attribuzioni proprie
dell'agente, atteso che in tale ipotesi cessa il rapporto organico fra
l'attività del dipendente e la P.A. (militando nello stesso senso anche
Cass. 12/04/2011, n. 8306, nonché, in precedenza e tra le altre:
Cass. 08/10/2007, n. 20986; Cass. 18/03/2003, n. 3980).
2. Il ricorrente si affida ad un unitario motivo, con cui denuncia, in
riferimento all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione
e falsa applicazione dell'art. 28 Cost. e dell'art. 2049 cod. civ.,
dolendosi dell'esclusione della responsabilità del Ministero; nega che
«ai fini dell'applicazione dell'art. 28 Cost., oltre al nesso di causalità
fra il comportamento del funzionario e l'evento dannoso, debba
necessariamente ricorrere anche l'ulteriore, troncante presupposto
della "riferibilità all'amministrazione di quel comportamento"»;
contesta che debba «ricadere esclusivamente sul danneggiato la
scelta dell'Amministrazione di affidare la direzione di un ufficio a
soggetto rivelatosi privo dei requisiti morali»; chiede che risponda del
«danno ... occasionato dalla mancanza o inefficienza dei controlli».
3. Sostiene, ancora, il Di Be. che il principio secondo cui la
responsabilità dell'Amministrazione, nelle ipotesi previste dall'art. 28
Cost., debba ritenersi esclusa ogni qual volta l'agente, profittando
delle sue precipue funzioni, abbia dolosamente commesso il fatto per
ritrarre egli stesso utilità, non troverebbe giustificazione nel dettato
costituzionale, né in norme di legge, integrando un «disparitario
postulato assolutamente privo di sostrato logico e giuridico, che non
solo svuota di ogni contenuto quella norma di garanzia
(evidentemente posta a tutela dell'amministrato), ma ne sbilancia
smaccatamente gli effetti a tutto favore dell'Amministrazione»; sicché
la Corte di merito avrebbe dovuto piuttosto aderire al diverso
orientamento espresso con la sentenza di questa Corte, VI Sez. Pen.,
n. 13799 del 31.03.2015, secondo cui «è configurabile la
responsabilità civile della P.A. anche per le condotte dei dipendenti
pubblici dirette a perseguire finalità esclusivamente personali
mediante la realizzazione di un reato doloso, quando le stesse sono
poste in essere sfruttando, come premessa necessaria, l'occasione
offerta dall'adempimento di funzioni pubbliche, e costituiscono,
inoltre, non imprevedibile sviluppo dello scorretto esercizio di tali
funzioni, in applicazione di quanto previsto dall'art. 2049 cod. civ.»
(annullato così il rigetto della domanda risarcitoria nei confronti di
imputato che, quale agente di Ufficio notifiche esecuzioni e protesti, si
era appropriato di titoli di credito ed effetti cambiari a lui consegnati per il protesto, commettendo i reati di peculato, falso e truffa).
4. Pertanto, per il ricorrente la responsabilità del Ministero si
fonda sul fatto che, come emerso nelle fasi di merito, lo Sc.
aveva esplicato l'attività criminosa, non imprevedibile in assoluto,
nella qualità di funzionario di cancelleria e che solo grazie a quella
veste istituzionale gli era stato possibile accedere alla cassaforte ove i
libretti vincolati erano custoditi, falsificare i mandati di pagamento e
conseguirne di persona l'incasso.
5. Dal canto suo il Ministero, eccepita la tardività del ricorso,
invoca la giurisprudenza di legittimità sulla necessità, ai fini della
responsabilità diretta dell'Amministrazione, della riferibilità a questa
della condotta del funzionario o del dipendente, come esplicazione
dell'attività di quella in virtù del rapporto organico, ricollegabile ad
attribuzioni proprie di lui: tanto da escludere ogni responsabilità nel
caso, come quello in esame, di condotta sorretta da un fine
strettamente personale ed egoistico del funzionario o dipendente ed
anzi contrario agli scopi istituzionali perseguiti dall'Amministrazione.
6. Con la memoria depositata per l'udienza del 09/04/2019, poi, il
Ministero nega la rilevanza dell'invocata giurisprudenza di legittimità
penale, da un lato perché anch'essa postula i caratteri dell'assoluta
imprevedibilità ed eterogeneità della condotta dell'agente rispetto ai
suoi compiti istituzionali (in modo da non consentire un collegamento
con essi) e dall'altro perché la stessa P.A. avrebbe potuto costituirsi
parte civile nel procedimento penale per peculato contro il suo
funzionario evidentemente infedele, attesa la natura plurioffensiva del
delitto di peculato per il quale quello è stato poi condannato.
7. Il Pubblico Ministero, infine, nella requisitoria scritta con
ampiezza di riferimenti ricostruisce i termini della questione, iniziando
dalla disamina della natura della responsabilità di Stato ed Enti
pubblici per i fatti illeciti commessi dai propri dipendenti e funzionari;
illustra una prima impostazione ermeneutica, propria della prevalente
odierna giurisprudenza civilistica e di quella penalistica più risalente
(ma pure di quella amministrativa), per la quale la responsabilità
dello Stato per il fatto illecito dei propri dipendenti sussiste solo in
applicazione di criteri pubblicistici e quindi esclusivamente in caso di
attività corrispondente ai fini istituzionali e, in virtù del rapporto
organico, allorché quella vada imputata direttamente all'ente (con
orientamento definito consolidato da Cass. n. 15930/2002, seguita poi,
tra le altre, da Cass. nn. 2089 e 27246 del 2008, 8306 e 29727 del 2011,
21408/2014 e 8991/2015); ma ricorda pure una seconda
interpretazione, propria soprattutto della giurisprudenza penalistica
(Cass. pen. nn. 21195/2011, 40613/2013, 13799 e 44760 del 2015) e di
una giurisprudenza civilistica ora più remota e poi superata, ora
minoritaria (Cass. nn. 20928/2015 e 17836/2007), ora riferita a rapporti
di preposizione privatistici (Cass. nn. 2226/1990, 20924/15, 22058/2017,
4298/2019) e quindi non assimilabili al rapporto che lega il pubblico
dipendente allo Stato o all'ente pubblico, la quale riconosce la
responsabilità di questi pure in applicazione di criteri privatistici,
corrispondenti a quelli elaborati per la responsabilità del preponente
ai sensi dell'art. 2049 cod. civ., ammettendola così in ipotesi di nesso
di occasionalità necessaria tra condotta illecita e danno.
8. Nella stessa requisitoria scritta si dubita poi della sussistenza di
un effettivo contrasto: da un lato, per la costanza nella configurazione
di una responsabilità diretta e, dall'altro, per la sussistenza di questa
esclusivamente in caso di condotta del dipendente strumentalmente
connessa con l'attività d'ufficio, benché non esclusa in ipotesi di
condotta dolosa o con abuso di poteri o con violazione di legge o di un
ordine, purché si innesti nell'attività dell'ente e sia anche soltanto
indirettamente collegabile alle sue attribuzioni e non sia connotata dal
carattere dell'imprevedibilità ed eterogeneità rispetto a queste ultime,
sì da escluderne ogni collegamento con le medesime, dovendo
rimettersi il superamento delle discrasie all'apprezzamento di fatto
delle circostanze concrete. Per l'errore di diritto consistente nella
violazione di tale principio si chiede così l'accoglimento del ricorso.
B. L'ordinanza di rimessione.
9. L'ordinanza di rimessione
(05/11/2018, n. 28079), esclusa la
tardività del ricorso in base al testo dell'art. 327 cod. proc. civ.
applicabile in ragione della data di instaurazione del giudizio in primo
grado, identifica come oggetto della controversia la questione della
sussistenza o meno della responsabilità civile della Pubblica
Amministrazione per i danni cagionati dal fatto penalmente illecito del
dipendente quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed
agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee
all'amministrazione di appartenenza; ed individua la ragione della sua
devoluzione a queste Sezioni Unite nella rilevata non univocità, sul
punto, delle conclusioni della giurisprudenza di legittimità.
10. Da un lato, la prevalente giurisprudenza civile di legittimità ha
ravvisato il fondamento della responsabilità di Stato ed enti pubblici
nell'art. 28 della Costituzione -la cui ratio è quella di un più agevole
od ampio conseguimento del risarcimento da parte del danneggiato-
e, basandosi tale norma sul rapporto di immedesimazione organica,
solo in virtù del quale l'attività posta in essere dal funzionario (o
dipendente) è sempre imputabile all'ente di appartenenza, ne ha
desunto la configurazione di una responsabilità diretta o per fatto
proprio, ma soltanto se l'attività dannosa si atteggi come esplicazione
dell'attività dello Stato o dell'ente pubblico e cioè tenda, sia pur con
abuso di potere, al conseguimento dei suoi fini istituzionali,
nell'ambito delle attribuzioni dell'ufficio o del servizio cui il dipendente
è addetto (richiamando: Cass. 12/08/2000, n. 10803; Cass.
30/01/2008, n. 2089; Cass. 17/09/1997, n. 9260).
Ne conseguirebbe
l'esclusione di quella responsabilità in tutti i casi in cui la condotta sia
sorretta da un fine esclusivamente privato od egoistico, o a maggior
ragione se contrario ai fini istituzionali dell'ente (Cass. 12/04/2011, n.
8306; Cass. 8/10/2007, n. 20986, Cass. 21/11/2006, n. 24744;
Cass. 18/03/2003, n. 3980; Cass. 12/08/2000, n. 10803; Cass.
13/12/1995, n. 12786).
11. Dall'altro lato, però, almeno in tempi recenti la giurisprudenza
penale di legittimità configura la responsabilità civile della pubblica
amministrazione pure per le condotte dei pubblici dipendenti dirette a
perseguire finalità esclusivamente personali e mercé la realizzazione
di un reato doloso, ove poste in essere sfruttando l'occasione necessaria
offerta dall'adempimento delle funzioni pubbliche cui essi
sono preposti, nonché integranti il non imprevedibile od eterogeneo
sviluppo di un non corretto esercizio di tali funzioni, in applicazione
del criterio previsto dall'art. 2049 cod. civ. (Cass. pen., 20/01/2015,
n. 13799 -poi richiamata da Cass. pen. 03/04/2017, n. 35588, ma
preceduta da Cass. pen. 11/06/2003, n. 33562- in consapevole
contrasto con l'orientamento precedente, di cui è stata ulteriore
espressione la più recente Cass. pen. 04/06/2015, n. 44760).
12. Ad analoga estensione della responsabilità civile si assiste
nella giurisprudenza civile di legittimità in altri ambiti di preposizione,
meramente privatistici, quali quelli propri dei funzionari di banche o
dei promotori di queste o di società di intermediazione finanziaria, in
ordine ai quali è stata riconosciuta la responsabilità dei preponenti
anche nei casi in cui sussista un nesso di occasionalità necessaria tra
le incombenze attribuite al preposto e il danno arrecato a terzi: nesso
che è presupposto indispensabile della responsabilità del preponente
ex art. 2049 cod. civ. e non viene meno in caso di commissione da
parte del preposto di un illecito penale per finalità di carattere
esclusivamente personale (v. già Cass. 06/03/2008, n. 6033;
successivamente, v.: Cass. 16/04/2009, n. 9027; Cass. 24/07/2009,
n. 17393; Cass. 25/01/2011, n. 1741; Cass. 24/03/2011, n. 6829;
Cass. 13/12/2013, n. 27925; Cass. 04/03/2014, n. 5020; Cass.
10/11/2015, n. 22956).
Di qui il rilievo della non univocità della
giurisprudenza in materia e la rimessione della relativa questione a
queste Sezioni Unite.
C. La normativa applicabile.
13. Pertinenti per la risoluzione
della questione sono:
- l'art. 28 della Costituzione, per il quale, com'è noto: «I
funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono
direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative,
degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la
responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici»;
- l'art. 2049 cod. civ., rubricato «responsabilità dei padroni e dei
committenti», per il quale «i padroni e i committenti sono responsabili
per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi
nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti».
14. Sostanzialmente neutri ai fini che qui interessano, per il rinvio
espresso che operano ai principi ed alle norme vigenti, si rivelano
invece alcuni articoli del t.u. 10.01.1957, n. 3 (Testo unico delle
disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), in
particolare gli artt. 22 e 23, i cui rispettivi primi commi prevedono:
- «l'impiegato che, nell'esercizio delle attribuzioni ad esso conferite
dalle leggi o dai regolamenti, cagioni ad altri un danno ingiusto ai sensi
dell'art. 23 è personalmente obbligato a risarcirlo. L'azione di
risarcimento nei suoi confronti può essere esercitata congiuntamente con
l'azione diretta nei confronti dell'Amministrazione qualora, in base alle
norme ed ai principi vigenti dell'ordinamento giuridico, sussista anche la
responsabilità dello Stato»;
- «è danno ingiusto, agli effetti previsti dall'art. 22, quello derivante
da ogni violazione dei diritti dei terzi che l'impiegato abbia commesso per
dolo o per colpa grave; restano salve le responsabilità più gravi previste
dalle leggi vigenti».
D. La normativa costituzionale.
15. È noto l'ampio dibattito,
soprattutto in dottrina e all'indomani
dell'entrata in vigore della Carta fondamentale, sulla portata dell'art.
28 della Costituzione: superate le prime tesi sulla natura meramente
sussidiaria della responsabilità di Stato od ente pubblico rispetto a
quella dell'agente, è invalso il riconoscimento della natura
concorrente o solidale delle due responsabilità, ricostruita quella dello
Stato od ente pubblico come diretta, in forza dei principi
sull'immedesimazione organica dovendo escludersi che l'attività posta in
essere al di fuori dei compiti istituzionali dal pubblico funzionario o
dipendente potesse imputarsi allo Stato o ente pubblico.
16. Non ha incontrato il favore degli interpreti la ricostruzione
della responsabilità della Pubblica Amministrazione per l'illecito del
suo dipendente quale responsabilità indiretta (o per fatto altrui,
dovendo la Pubblica Amministrazione sopportare i rischi delle
conseguenze dannose degli atti posti in essere da coloro che agiscono
per suo conto), né altra tesi eclettica, che ha prospettato la natura
composita di quella stessa responsabilità, dovendo l'Amministrazione
rispondere in via diretta per i danni causati nello svolgimento
dell'attività provvedimentale (l'unica rispetto alla quale si
configurerebbe un'immedesimazione organica, in quanto esplicazione
della funzione diretta al perseguimento del pubblico interesse e posta
in essere da funzionari dotati del potere rappresentativo -organi in
senso stretto- attraverso cui l'Ente esprime la sua volontà ed agisce
nei rapporti esterni) ed in via indiretta per i danni causati
nell'espletamento di ogni altra attività, tra cui quella materiale.
17. Nella prevalente dottrina pubblicistica la tesi della
responsabilità diretta da rapporto organico in funzione limitativa si
fonda sulla tesi del contenimento dell'innovazione portata dalla norma
costituzionale: questa non starebbe nell'immutazione della natura
della responsabilità dell'Ente, che andrebbe sempre qualificata, come
nel sistema anteriore all'entrata in vigore della Costituzione, in
termini di responsabilità diretta o per fatto proprio; essa invece
starebbe nella previsione, accanto alla responsabilità diretta della
pubblica amministrazione, di una concorrente responsabilità, sempre
diretta, del funzionario o del dipendente, che invece, nel sistema
previgente, poteva essere chiamato a rispondere, in solido con l'Ente
di appartenenza, solo ove tale responsabilità solidale fosse prevista
da specifiche disposizioni di legge; la norma costituzionale avrebbe
cioè disegnato un sistema fondato su due responsabilità concorrenti e
solidali, entrambe dirette, spettando esclusivamente al danneggiato
la scelta se far valere l'una o l'altra od entrambe.
19. La giurisprudenza amministrativa è, poi, ferma nel ritenere
interrotta l'imputazione giuridica dell'attività posta in essere da un
organo della pubblica amministrazione nei casi in cui siano posti in
essere fatti di reato (Cons. Stato, Sez. 6, 14/11/2014, n. 5600), o di
atti adottati in ambienti collusivi penalmente rilevanti (Cons. Stato,
Sez. 5, 04/03/2008, n. 890; TAR Reggio Calabria, Sez. 1, 11.08.2012, n. 536), o comunque allorché il soggetto agente, legato alla
P.A. da un rapporto di immedesimazione organica, abbia posto in
essere il provvedimento amministrativo, frutto del reato contro la
P.A., nell'ambito di un disegno criminoso e quindi perseguendo un
interesse personale del tutto avulso dalle finalità istituzionali dell'Ente
(TAR Sicilia-Catania 25/07/2013, n. 2166, per il quale il venir meno
dell'imputabilità dell'atto all'Amministrazione, per interruzione del
rapporto organico, determina la nullità dell'atto stesso, per mancanza
di uno degli «elementi essenziali» -ex art. 21-septies, l. n. 241 del
1990- individuabile nel soggetto o per mancanza di volontà in capo
alla stessa P.A., escludendosi che l'atto de quo possa dirsi posto in
essere da una P.A. nell'esplicazione di un'attività amministrativa).
20. E la stessa Corte costituzionale ha reiteratamente statuito (tra
le altre: Corte cost. n. 64 del 1992, con richiami a Corte cost. n. 18
del 1989, n. 26 del 1987, n. 148 del 1983, n. 123 del 1972) che l'art.
28 Cost. stabilisce la responsabilità diretta per violazione di diritti
tanto dei dipendenti pubblici per gli atti da essi compiuti, quanto dello
Stato o degli enti pubblici, rimettendone la disciplina dei presupposti
al legislatore ordinario, con la precisazione che (Corte cost. nn. 18 del
1989 e 88 del 1963) la responsabilità dello Stato o dell'ente pubblico
può esser fatta valere anteriormente o contestualmente a quella dei
funzionari e dei dipendenti, non avendo carattere sussidiario.
E. La normativa codicistica.
21. Il codice civile regola la
responsabilità dei padroni e
committenti, mutuandola pedissequamente dalla previsione del Code
civil francese (ed in particolare dal suo originario art. 1384, che oggi
corrisponde all'art. 1242, in forza dell'Ordonnance n. 2016-31 del
10/02/2016, in vigore dal 01/10/2016), a mente del quale «les
maitres et les commettants ... sont solidairement responsables du
dommage causé ... par leurs domestiques et préposés dans les
fonctions auxquelles ils les ont employés»; in tale fattispecie si
conferma, analogamente ad altre ipotesi di responsabilità civile senza
colpa, la deroga al principio ohne Schuld keine Haftung, che permea
sia l'altro ordinamento cardine dei sistemi romanisti (quello tedesco in
punto di Deliktsrecht, benché in via di graduale superamento e solo in
determinati settori, mediante la ricostruzione di obblighi derivanti
direttamente, prima della riforma del 2002, dalla norma sulla buona
fede e, poi, dalla novella del BGB sulla sussistenza di obblighi di
protezione più ampi rispetto a quelli di prestazione, tali da riverberare
i loro effetti anche a favore di chi non è parte del contratto), sia il
sistema originario di common law (in cui la Tort Law presuppone
appunto ed almeno in linea generale un difetto di due diligence).
22. Il concetto di padrone o committente, in origine riferito ad
economie rudimentali e connotate da rapporti assai stretti di
preposizione, è stato via via ampliato in forza di un'interpretazione
evolutiva, per essere esteso a molte figure di soggetti che, per
conseguire i propri fini, si avvalgono dell'opera di altri a loro legati in
forza di vincoli di varia natura (e non necessariamente di dipendenza:
su tale specifico punto, tra le prime, v. Cass. 16/03/2010, n. 6325).
23. Si è, al riguardo, superata l'originaria configurazione della
responsabilità in esame come soggettiva o per fatto proprio, quando
questo si identificava almeno in una colpa in eligendo o in vigilando: il
testo normativo non concede al responsabile alcuna prova liberatoria,
cosicché il ricorso alla fictio della presunzione assoluta di colpa si
risolve nell'introduzione artificiosa nella norma di un presupposto che
le è irrilevante; al contrario (benché in dottrina si parli anche di
responsabilità diretta o per il fatto proprio di essere il preponente), si
è dinanzi ad una responsabilità oggettiva per fatto altrui.
24. Si tratta (per tutte: Cass. 09/06/2016, n. 11816, ove ulteriori
richiami giurisprudenziali; più di recente: Cass. ord. 12/10/2018, n.
25373; Cass. 14/02/2019 n. 4298; quanto al rapporto tra ente
pubblico concedente e concessionario, Cass. 20/02/2018, n. 4026,
espressamente fonda la responsabilità del primo sull'inserimento del
secondo nell'apparato organizzativo della P.A.) di un'applicazione
moderna del principio cuius commoda eius et incommoda, in forza del
quale l'avvalimento, da parte di un soggetto, dell'attività di un altro
per il perseguimento di propri fini comporta l'attribuzione al primo di
quella posta in essere dal secondo nell'ambito dei poteri conferitigli.
25. Ma una tale appropriazione di attività deve comportarne
l'imputazione nel suo complesso e, così, sia degli effetti favorevoli che
di quelli pregiudizievoli: un simile principio risponde ad esigenze
generali dell'ordinamento di riallocazione dei costi delle condotte
dannose in capo a colui cui è riconosciuto di avvalersi dell'operato di
altri (poco importa se per scelta od utilità, come nel caso delle
persone fisiche, o per necessità, come in ogni altro caso, in cui è
indispensabile il coinvolgimento di persone fisiche ulteriori e distinte
per l'imputazione di effetti giuridici ad entità sovraindividuali).
26. Dalla correlazione di tale specifica forma di responsabilità ai
vantaggi che sia lecito per il preponente attendersi dall'avvalimento
dell'altrui operato la giurisprudenza civile di legittimità per i rapporti
privatistici di preposizione e quella più recente penale di legittimità
hanno ricavato la necessità di un nesso di occasionalità necessaria tra
esercizio delle incombenze e danno al terzo (quale ultimo elemento
costitutivo della fattispecie, oltre al rapporto di preposizione ed
all'illiceità del fatto del preposto): nesso che è stato ritenuto
sussistente non solamente se il fatto dannoso derivi dall'esercizio
delle incombenze, ma pure nell'ipotesi in cui tale esercizio si limiti ad
esporre il terzo all'ingerenza dannosa del preposto ed anche se questi
abbia abusato della sua posizione od agito per finalità diverse da
quelle per le quali le incombenze gli erano state affidate.
27. Alla stregua di tale elaborazione, il nesso di occasionalità
necessaria (e la responsabilità del preponente) sussiste nella misura
in cui le funzioni esercitate abbiano determinato, agevolato o reso
possibile la realizzazione del fatto lesivo, nel qual caso è irrilevante
che il dipendente abbia superato i limiti delle mansioni affidategli, od
abbia agito con dolo e per finalità strettamente personali (tra molte:
Cass. 24/09/2015, n. 18860; Cass. 25/03/2013, n. 7403); alla
condizione però che la condotta del preposto costituisca pur sempre il
non imprevedibile sviluppo dello scorretto esercizio delle mansioni,
non potendo il preponente essere chiamato a rispondere di un'attività
del preposto che non corrisponda, neppure quale degenerazione od
eccesso, al normale sviluppo di sequenze di eventi connesse
all'espletamento delle sue incombenze (Cass. 11816/2016, cit.).
28. Non ha infatti giuridico fondamento accollare a chicchessia le
conseguenze dannose di condotte del preposto in alcun modo
collegate alle ragioni, anche economiche, della preposizione, ove cioè
non riconducibili al novero delle normali potenzialità di sviluppo di
queste -anche sotto forma di deviazione dal fine perseguito o di
contrarietà ad esso o di eccesso dall'ambito dei poteri conferiti-
secondo un giudizio oggettivo di probabilità di verificazione.
29. L'appropriazione dei risultati delle altrui condotte deve, in
definitiva, essere correlata (e, corrispondentemente, limitata) alla
normale estrinsecazione delle attività del preponente e di quelle
oggetto della preposizione ad esse collegate, sia pure considerandone
le violazioni o deviazioni oggettivamente probabili: sicché chi si
avvale dell'altrui operato in tanto può essere chiamato a rispondere, per di
più senza eccezioni e la rilevanza del proprio elemento
soggettivo, delle sue conseguenze dannose in quanto egli possa
ragionevolmente raffigurarsi, per prevenirle, le violazioni o deviazioni
dei poteri conferiti o almeno tenerne conto nell'organizzazione dei
propri rischi; e così risponde di quelle identificate in base ad un
giudizio oggettivizzato di normalità statistica, cioè riferita non alle
peculiarità del caso, ma alle ipotesi in astratto definibili come di
verificazione probabile o -secondo i principi di causalità adeguata
elaborati da questa Corte fin da Cass. Sez. U. 11/01/2008, n. 576-
«più probabile che non», in un dato contesto storico.
F. La natura della responsabilità dello Stato e degli enti pubblici.
30. Deve allora constatarsi una
non piena coerenza tra le
impostazioni ermeneutiche di questa Corte di legittimità: una prima,
propria della prevalente odierna giurisprudenza civilistica e di quella
preponderante penalistica più risalente (e, per la verità, anche quella
amministrativa), per la quale la responsabilità dello Stato (o degli enti
pubblici) per il fatto illecito dei propri dipendenti (o funzionari) è
diretta e sussiste, in forza di criteri pubblicistici, esclusivamente in
caso di attività corrispondente ai fini istituzionali, quando cioè, in virtù
del rapporto organico, quella vada imputata direttamente all'ente; una seconda, propria soprattutto della giurisprudenza penalistica più
recente e di parte di quella civilistica (ora più remota e poi superata,
ora minoritaria, ora riferita in prevalenza a rapporti di preposizione
privatistici), in base alla quale sussiste la responsabilità dello Stato o
dell'ente pubblico in applicazione di criteri privatistici, corrispondenti
sostanzialmente a quelli in tema di responsabilità del preponente ai
sensi dell'art. 2049 cod. civ., sol che sussista un nesso di
occasionalità necessaria tra condotta illecita e danno.
31. Ritengono queste Sezioni Unite di comporre la disomogeneità
tra dette impostazioni rilevando che nessuna ragione giustifichi più,
nell'odierno contesto socio-economico, un trattamento differenziato
dell'attività dello Stato o dell'ente pubblico rispetto a quello di ogni
altro privato, quando la prima non sia connotata dall'esercizio di
poteri pubblicistici: e che, così, vada riconsiderato il preponderante
orientamento civilistico dell'esclusione della responsabilità in ipotesi di
condotte contrastanti coi fini istituzionali o sorrette da fini egoistici.
32. In particolare, deve ammettersi la coesistenza dei due sistemi
ricostruttivi, quello della responsabilità diretta soltanto in forza del
rapporto organico e quello della responsabilità indiretta o per fatto
altrui: entrambi sono validi, poiché il primo non esclude il secondo ed
ognuno viene in considerazione a seconda del tipo di attività della
P.A. di volta in volta posta in essere.
33. Infatti, il comportamento della P.A. che può dar luogo, in
violazione dei criteri generali dell'art. 2043 cod. civ., al risarcimento
del danno (secondo la compiuta definizione di Cass. Sez. U.
22/07/1999, n. 500) o si riconduce all'estrinsecazione del potere
pubblicistico e cioè ad un formale provvedimento amministrativo,
emesso nell'ambito e nell'esercizio di poteri autoritativi e discrezionali
ad essa spettanti, oppure si riduce ad una mera attività materiale,
disancorata e non sorretta da atti o provvedimenti amministrativi
formali (sulla distinzione, determinante prima di tutto in materia di
giurisdizione, v. da ultimo Cass. Sez. U. ord. 13/12/2018, n. 32364;
tra le altre più remote, v. Cass. Sez. U. 25/11/1982, n. 6363).
34. Orbene, nel primo caso (attività provvedimentale o, se si
volesse generalizzare, istituzionale in quanto estrinsecazione di
pubblicistiche ed istituzionali potestà), l'immedesimazione organica -di regola- pienamente sussiste e bene è allora ammessa la sola
responsabilità diretta in forza della sicura imputazione della condotta
all'ente; del resto, con l'introduzione dell'art. 21-septies legge n. 241
del 1990 pure la carenza di un elemento essenziale -in genere
esclusa se l'atto integra l'elemento oggettivo di un reato- comporta
la mera nullità e non più l'inesistenza dell'atto, come invece voleva la
dottrina tradizionale (col che potrebbe forse sostenersi l'attribuibilità
all'ente dell'atto nullo poiché delittuoso, sia pure a certe condizioni).
35. Nel secondo caso, di attività estranea a quella istituzionale o
comunque materiale, ove pure vada esclusa l'operatività del criterio
di imputazione pubblicistico fondato sull'attribuzione della condotta
del funzionario o dipendente all'ente (questione non immediatamente
rilevante ai fini che qui interessano e che si lascia impregiudicata),
non può però negarsi l'operatività di un diverso criterio: non vi è
alcun motivo per limitare la responsabilità extracontrattuale dello
Stato o dell'ente pubblico -se correttamente ricostruita, pure ad
evitarne strumentali distorsioni o improprie sconsiderate dilatazioni-
al di fuori dell'esercizio di una pubblica potestà quando ricorrano gli
altri presupposti validi in caso di avvalimento dell'operato di altri.
36. Ogni diversificazione di trattamento, per di più nel senso di
evidente favore, si risolverebbe in un ingiustificato privilegio dello
Stato o dell'ente pubblico, in palese contrasto con il principio di
uguaglianza formale di cui all'art. 3, comma primo, Cost. e col diritto
di difesa tutelato dall'art. 24 Cost. e riconosciuto anche a livello
sovranazionale dall'art. 6 della Convenzione europea dei diritti
dell'Uomo (firmata a Roma il 04/11/1950, ratificata con legge 04.08.1955, n. 848, pubblicata sulla G.U. n. 221 del 24/09/1955 ed
entrata in vigore il 10/10/1955) e dall'art. 47 della Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione europea (adottata a Nizza il 07/12/2000 e
confermata con adattamenti a Strasburgo il 12/12/2007; pubblicata,
in versione consolidata, sulla G.U. dell'U.E. del 30/03/2010, n. C83,
pagg. 389 ss.; efficace dalla data di entrata in vigore del Trattato di
Lisbona -ratificato in Italia con L. 02.08.2008, n. 130- e cioè
01/12/2009): poiché escluderebbe quella più piena tutela risarcitoria,
invece perseguibile con la concorrente responsabilità del preponente.
37. Ed una tale diversificazione neppure potrebbe difendersi in
base a generiche esigenze finanziarie pubbliche, poiché la tutela dei
diritti non può mai a queste essere -se non altro sic et simpliciter o
in linea di principio- sacrificata (come, in campo sovranazionale,
riconosce da sempre, perfino in tema di esecuzione coattiva contro lo
Stato, la Corte di Strasburgo: da ultimo, Corte eur. dir. Uomo
14/11/2017, IV sez., Spahie e aa. c. Bosnia-Erzegovina, in ric. n.
20514/15 e altri) e poiché in ogni caso va garantita, affinché possa
dirsi apprestato un rimedio effettivo, almeno un'adeguata tutela
risarcitoria in caso di violazione dei diritti fondamentali sanciti dalla
Convenzione, incombendo il relativo onere a ciascuno Stato ed ai suoi
organi, primi fra tutti quelli giurisdizionali (per tutte, sui relativi
principi generali: Corte eur. dir. Uomo 11/06/2010, Grande Camera,
GMgen c/ Germania, ric. 22978/05, pp. 115 a 119).
38. In definitiva, non può più accettarsi, perché in insanabile
contrasto con tali principi fondamentali e da superarsi con una
interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, la
conclusione che, quando gli atti illeciti sono posti in essere da chi
dipende dallo Stato o da un ente pubblico (e cioè da chi è legittimo
attendersi una particolare legalità della condotta), la tutela risarcitoria
dei diritti della vittima sia meno effettiva rispetto al caso in cui questi
siano compiuti dai privati per mezzo di loro preposti.
39. Si tratta, riprendendo una tesi non ignota alla stessa dottrina
pubblicistica (sopra, punto 16), della ricostruzione sistematica di un
regime di responsabilità articolato, corrispondente alla composita
natura delle condotte dello Stato e degli enti pubblici: a seconda che
cioè esse siano poste in essere nell'esercizio, pur se eccessivo o
illegittimo, delle funzioni conferite agli agenti ed oggettivamente
finalizzate al perseguimento di scopi pubblicistici, oppure che siano
poste in essere da costoro quali singoli, ma approfittando della
titolarità o dell'esercizio di quelle funzioni (o poteri o attribuzioni),
sia
pur piegandole al perseguimento di fini obiettivamente estranei o
contrari a quelli pubblicistici in vista dei quali erano state conferite.
40. Nel primo caso, l'illecito è riferito direttamente all'Ente e
questi ne risponderà, altrettanto direttamente, in forza del generale
principio dell'art. 2043 cod. civ.; nel secondo caso, con le precisazioni
di cui appresso, la responsabilità civile dell'Ente deve invece dirsi
indiretta, per fatto del proprio dipendente o funzionario, in forza di
principi corrispondenti a quelli elaborati per ogni privato preponente e
desunti dall'art. 2049 cod. civ.
41. Tale conclusione comporta che debba prescindersi in modo
rigoroso da ogni colpa del preponente anche pubblico e lascia intatta
la concorrente e solidale responsabilità del funzionario o dipendente
(salvo eventuali limitazioni espressamente previste indotte dalla
peculiarità di determinate materie, come nel caso del personale
scolastico -ex art. 61 cpv. legge 11.07.1980, n. 312, su cui v.
Corte cost. n. 64 del 1992- o dei magistrati ex lege 113/1987, su cui v.
tra le altre Corte cost. n. 18 del 1989); e ad essa, beninteso, deve
farsi eccezione quando vi sia un'esplicita diversa previsione normativa
che, ad esempio per la peculiarità della specifica materia, mandi
esente da responsabilità l'ente pubblico e mantenga esclusivamente
quella dell'agente o viceversa.
42. Ritengono queste Sezioni Unite che debba allora superarsi la
rigida alternatività, con rapporto di mutua esclusione, fra i criteri di
imputazione pubblicistico o diretto e privatistico o indiretto: l'art. 28
Cost. non preclude l'applicazione della normativa del codice civile,
piuttosto essendo finalizzata all'esclusione dell'immunità dei
funzionari per gli atti di esercizio del potere pubblico ed alla
contemporanea riaffermazione della responsabilità della P.A.; ne
consegue che la concorrente responsabilità della P.A. e del suo
dipendente per i fatti illeciti posti in essere da quest'ultimo al di fuori
delle finalità istituzionali di quella deve seguire, in difetto di deroghe
normative espresse, le regole del diritto comune.
43. Del resto, più non osta all'applicabilità dell'art. 2049 cod. civ.
l'originaria sua ricostruzione come estrinsecazione di una colpa in
eligendo vel in vigilando, la quale sarebbe esclusa in tesi nel rapporto
organico in forza della predeterminazione normativa dei criteri di
selezione e di un sistema pubblicistico di controlli, entrambi
estrinsecazione di poteri discrezionali: infatti, la norma in esame
prescinde, nella sua corrente ricostruzione, da ogni profilo di colpa.
44. Nemmeno l'ontologica differenza tra rapporto di preposizione
institoria e rapporto organico tra Stato od ente pubblico e suo
funzionario o dipendente osta alla generalizzazione del principio
dell'art. 2049 cod. civ., poiché questo è solamente espressione di un
generale criterio di imputazione di tutti gli effetti, non solo favorevoli
ma anche pregiudizievoli, dell'attività non di diritto pubblico dei
soggetti di cui ci si avvale; e che la P.A. possa rivestire la qualità di
parte lesa nel procedimento penale avente ad oggetto la condotta del
dipendente infedele non muta la responsabilità della prima nei
confronti dei terzi, soltanto rilevando nei rapporti interni con quello.
45. Ancora, solo in caso di responsabilità indiretta è pienamente
coerente col sistema generale (se non derogato da discipline speciali)
di imputazione, nei rapporti interni, del carico dell'obbligazione
risarcitoria l'attribuzione (talora normativamente prevista: v. ad es.
l'art. 22, cpv., del richiamato d.P.R. 10.01.1957, n. 3) di questo
per intero al dipendente colpevole (in armonia con il sistema appunto
di cui all'art. 2049 cod. civ.: da ultimo, Cass. 05/07/2017, n. 16512),
salva per quest'ultimo la prova della colpa pure dell'amministrazione.
G. L'occasionalità necessaria.
46. Alla puntualizzazione dell'ambito di operatività del criterio di
imputazione ricondotto ai principi dell'art. 2049 cod. civ. va premesso
un richiamo ai principi in tema di causalità nel diritto civile.
47. A partire dalla fondamentale elaborazione di queste Sezioni
Unite di cui alle sentenze nn. 576 ss. del dì 11/01/2008 (alla cui
esauriente motivazione, tuttora valida e meritevole di piena
condivisione, qui basti un richiamo), ai fini della definizione della
causalità materiale nell'ambito della responsabilità extracontrattuale
va fatta applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41
cod. pen., sicché un evento è da considerare causato da un altro se,
ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in
assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non).
48. Tuttavia, il rigore del principio dell'equivalenza delle cause,
posto dall'art. 41 cod. pen. (per il quale, se la produzione di un evento
dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad
ognuna di esse efficienza causale), trova un temperamento nel
principio di causalità efficiente, desumibile dal capoverso della
medesima disposizione, in base al quale l'evento dannoso deve
essere attribuito esclusivamente all'autore della condotta
sopravvenuta, solo se quest'ultima risulti tale da rendere irrilevanti le
altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle regolari linee di
sviluppo della serie causale già in atto.
49. Al contempo, neppure è sufficiente tale relazione per dar luogo ad una
causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie
causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che appaiano ex
ante idonee a determinare l'evento secondo il principio della c.d. causalità
adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale: quest'ultima, a
sua volta, individua come conseguenza normale imputabile quella che -secondo l'id quod plerumque accidit e così in base alla regolarità
statistica o ad una probabilità apprezzabile ex ante- integra gli estremi
di una sequenza costante dello stato di cose originatosi da un evento
originario (ivi compresa la condotta umana), che ne costituisce
l'antecedente necessario e sufficiente. E, sempre secondo i citati
precedenti di queste Sezioni Unite, la sequenza costante deve essere
prevedibile non da un punto di vista soggettivo, cioè da quello dell'agente,
ma in base alle regole statistiche o scientifiche (se non proprio, in
sostanza, di empiria reiterata e verificata) e quindi per così dire
oggettivizzate, da cui inferire un giudizio di probabilità di verificazione
dell'evento.
50. Il principio della regolarità causale, rapportato ad una valutazione ex
ante, diviene la misura della relazione probabilistica in astratto (e
svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra evento generatore del danno
ed evento dannoso (nesso causale), da ricostruirsi anche sulla base dello
scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene alla sfera dei
doveri di avvedutezza comportamentale va più propriamente ad iscriversi
entro l'elemento soggettivo dell'illecito (la colpevolezza), ove questo per
l'ordinamento rilevi; ma non potendo escludersi una loro efficienza
peculiare nel senso dell'elisione, a certe condizioni, del nesso causale tra
l'illecito ed il danno, come precisato dalle sezioni semplici di questa
Corte (su cui vedi, per tutte, Cass. ord. 01/02/2018, nn. 2478, 2480 e
2482).
51. Non è questa la sede per esaminare le differenze tra causa ed occasione
o concausa, né per sanare la contradictio in adiecto della nozione di
occasionalità necessaria: infatti, basta qui rilevare che questa coinvolge
una peculiare specie di relazione di causalità, visto che, nella concreta
elaborazione che finora se ne è operata e con le precisazioni di cui
appresso, una tale occasionalità necessaria si identifica con quella
peculiare relazione tra l'uno e l'altro tale per cui la verificazione del
danno- onseguenza non sarebbe stata possibile senza l'esercizio dei poteri
conferiti da altri, che assurge ad antecedente necessario anche se non
sufficiente; ma qui va affermata la necessità che tale valutazione di
impossibilità sia operata in base ai principi della causalità adeguata
appena riassunti e così ad un giudizio controfattuale, oggettivizzato ex
ante, di regolarità causale atta a determinare l'evento, vale a dire di
normalità -in senso non ancora giuridico, ma naturalistico-statistico-
della sua conseguenza.
52. Ne consegue che il preponente pubblico, con tale espressione potendo
descrittivamente identificarsi lo Stato o l'ente pubblico nella fattispecie
di interesse, risponde del fatto illecito del proprio funzionario o
dipendente ogni qual volta questo non si sarebbe verificato senza
l'esercizio delle funzioni o delle attribuzioni o dei poteri pubblicistici:
e ciò a prescindere dal fine soggettivo dell'agente (non potendo dipendere
il regime di oggettiva responsabilità dalle connotazioni dell'atteggiamento
psicologico dell'autore del fatto), ma in relazione all'oggettiva
destinazione della condotta a fini diversi da quelli istituzionali o -a
maggior ragione- contrari a quelli per i quali le funzioni o le
attribuzioni o i poteri erano stati conferiti.
53. La conseguenza è l'integrale applicazione della disciplina della
responsabilità extracontrattuale, che implica a sua volta un'adeguata
delimitazione di tale conclusione: in primo luogo, valgono i principi e le
regole in tema di accertamento del nesso causale secondo le regole sopra
ricordate; in secondo luogo, vige l'elisione del nesso in ipotesi di fatto
naturale o del terzo o del danneggiato che sia di per sé solo idoneo a
determinare l'evento; in terzo luogo, si applica la regola generale
dell'art. 1227 cod. civ. in tema di concorso del fatto colposo del
danneggiato (su cui v., tra le altre, le già richiamate Cass. ord. nn. 2478,
2480 e 2482 del 2018).
54. Soprattutto, però, è insito nel concetto stesso di causalità adeguata
che la sequenza tra premesse e conseguenze sia rigorosa e riferita a quelle
tra queste che appaiano, con giudizio controfattuale di oggettivizzazione ex
ante della probabilità o di regolarità causale, come sviluppo non anomalo,
anche se implicante violazioni o deviazioni od eccessi in quanto anch'esse
oggettivamente prevenibili, di attività rese possibili solo da quelle
funzioni, attribuzioni o poteri.
55. In tanto può giustificarsi, infatti, la scelta legislativa di far carico
al preponente degli effetti delle attività compiute dai preposti, in quanto
egli possa raffigurarsi ex ante quali questi possano essere e possa
prevenirli o tenerli in adeguata considerazione nell'organizzazione della
propria attività quali componenti potenzialmente pregiudizievoli: e quindi
in quanto possa da lui esigersi di prefigurarsi gli sviluppi che possono
avere le regolari (in quanto non anomale od oggettivamente improbabili)
sequenze causali dell'estrinsecazione dei poteri (o funzioni o attribuzioni)
conferiti al suo preposto, tra i quali rientra la violazione aperta del
dovere di ufficio la cui cura è stata affidata, non per nulla quello essendo
circondato di garanzie o meccanismi di salvaguardia anche interni alla
stessa organizzazione del preponente (come rileva Cass. pen. n. 13799 del
2015 cit.).
56. Ne deriva che quest'ultimo andrà esente dalle conseguenze dannose di
quelle condotte, anche omissive, poste in essere dal preposto in
estrinsecazione dei poteri o funzioni o attribuzioni conferiti, che fosse
inesigibile prevenire o raffigurarsi oggettivamente come sviluppo non
anomalo, secondo un giudizio controfattuale oggettivizzato ex ante, di
quell'estrinsecazione, quand'anche distorta o deviata o vietata: in tanto
assorbita od a tanto ricondotta, almeno quanto alla sola qui rilevante
fattispecie dei danni causati dall'illecito del pubblico funzionario, ogni
altra conclusione sull'occasionalità necessaria, tra cui l'estensione alla
mera agevolazione della commissione del fatto.
H. Sintesi.
57. Per sintetizzare quanto fin qui esposto, occorre dunque postulare una
natura composita della responsabilità dello Stato o dell'ente pubblico per
il fatto illecito del dipendente o funzionario, per applicare i principi
della responsabilità indiretta elaborati per l'art. 2049 cod. civ.
all'attività non provvedimentale (o istituzionale) della pubblica
amministrazione; e, in base ad essi, affermarne la concorrente e solidale
responsabilità per i danni causati da condotte del preposto pubblico
definibili come corrispondenti ad uno sviluppo oggettivamente non
improbabile delle normali condotte di regola inerenti all'espletamento delle
incombenze o funzioni conferite, anche quale violazione o come sviamento o
degenerazione od eccesso, purché anche essi prevenibili perché
oggettivamente non improbabili.
58. Sono pertanto fonte di responsabilità dello Stato o dell'ente pubblico
anche i danni determinati da condotte del funzionario o dipendente, pur se
devianti o contrarie rispetto al fine istituzionale del conferimento del
potere di agire, purché:
- si tratti di condotte a questo legate da un nesso di
occasionalità necessaria, tale intesa la relazione per la quale, in difetto
dell'estrinsecazione di detto potere, la condotta illecita dannosa - e
quindi, quale sua conseguenza, il danno ingiusto - non sarebbe stata
possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base al
giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta; nonché
- si tratti di condotte raffigurabili o prevenibili oggettivamente,
sulla base di analogo giudizio, come sviluppo non anomalo dell'esercizio del
conferito potere di agire, rientrando nella normalità statistica pure che il
potere possa essere impiegato per finalità diverse da quelle istituzionali o
ad esse contrarie e dovendo farsi carico il preponente delle forme, non
oggettivamente improbabili, di inesatta o infedele estrinsecazione dei
poteri conferiti o di violazione dei divieti imposti agli agenti.
59. Infine, adeguata protezione del preponente dal rischio di rispondere del
fatto del proprio ausiliario o preposto al di là dei generali principi in
tema di risarcimento del danno extracontrattuale si ravvisa
nell'applicazione anche in materia di danni da attività non provvedimentale
della P.A. dei principi in tema di elisione del nesso causale in ipotesi di
caso fortuito o di fatto del terzo o della vittima di per sé solo idoneo a
reciderlo e di quelli in tema di riduzione del risarcimento in caso di
concorso del fatto almeno colposo di costoro.
60. La questione sottoposta a queste Sezioni Unite dall'ordinanza
interlocutoria va così risolta alla stregua del seguente principio di
diritto: «lo Stato o l'ente pubblico risponde civilmente
del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del dipendente
anche quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per
finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee a quelle
dell'amministrazione di appartenenza, purché la sua condotta sia legata da
un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che il
dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita
dannosa -e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi- non sarebbe
stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in
base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza
l'esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviato o abusivo od
illecito, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo»
(Corte di Cassazione, Sezz.
unite civili,
sentenza
16.05.2019 n. 13246). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Calcolo
congedo parentale.
Domanda
Come va calcolato il congedo parentale quando vi sono dei giorni festivi nel
periodo di riferimento? E quando invece viene chiesto un solo giorno della
settimana?
Risposta
L’art. 43, comma 5, del CCNL del 21.05.2018, prevede che i periodi di
assenza di congedo parentale, nel caso di fruizione continuativa,
comprendono anche gli eventuali giorni festivi che ricadano all’interno
degli stessi. Tale modalità di computo trova applicazione anche nel caso di
fruizione frazionata, ove i diversi periodi di assenza non siano
intervallati dal ritorno al lavoro del lavoratore o della lavoratrice.
Nel caso in cui la lavoratrice usufruisca per l’intero mese di congedo
parentale, il computo dei giorni di congedo parentale deve tenere conto
delle domeniche nella modalità sopra indicata, mancando la ripresa in
servizio.
Non avendo specificato il mese di riferimento non è possibile confermare il
numero dei giorni. Il conteggio va fatto calendario alla mano.
Nel caso in cui la dipendente usufruisca del congedo tutte le settimane per
il solo giorno lavorativo del sabato, il computo tiene conto dei soli sabati
ricadenti in quel mese, escludendole domeniche, in quanto rinvenibile la
ripresa in servizio tra i sue periodi di congedo parentale richiesti.
In pratica tra un sabato e quello successivo la lavoratrice deve rientrare
in servizio affinché il conteggio tenga conto della sola giornata del
sabato.
Per ogni ulteriore dettaglio si rimanda al messaggio INPS n. 28379 del
25.10.2006.
La frazionabilità va intesa nel senso che tra un periodo (anche solo di un
giorno per volta) e l’altro di congedo parentale deve essere effettuata una
ripresa effettiva del lavoro (a questo fine le ferie non sono utili INPDAP
circ. n. 24 del 29/05/2000, Dipartimento FP circ. n. 14/00 del 16/11/2000,
INPS circ. n. 109 del 06/06/2000) (16.05.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: D.
Pusceddu,
E dopo il 20 maggio come vengono retribuite le Posizioni Organizzative?
(16.05.2019 - link a www.fpcgilbergamo.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
termine del 20 maggio entro il quale incaricare le posizioni organizzative
non è vincolante
(15.05.2019 - link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Il
datore di lavoro è tenuto a lavare la divisa degli addetti alla manutenzione
e pulitura di parchi e giardini?
Domanda
Il datore di lavoro è tenuto a lavare la divisa degli addetti alla
manutenzione e pulitura di parchi e giardini?
Risposta
La materia non riceve disciplina nella fonte contrattuale, pertanto è
necessario ricorrere alla prevalente giurisprudenza che offre uno strumento
di guida, soprattutto quando si muove uniformemente, come nel caso
specifico.
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 29964/2017
conferma un principio ormai consolidato, secondo il quale il datore di
lavoro dell’Ente Locale non è tenuto a far lavare le tute quando non siano
“dispositivi di protezione individuale” ma servano, semplicemente, ad
evitare l’usura degli abiti civili.
La vicenda ha riguardato gli addetti ai servizi di manutenzione e pulitura
di parchi e giardini di un Comune, convocato in giudizio. La pretesa era
quella di vedersi riconosciuto il diritto all’indennità per il lavaggio
delle tute adoperate per lo svolgimento del lavoro.
Il giudice di primo grado e la Corte d’Appello respingono le richieste in
ragione della natura della divisa, non riconducibile ad un dispositivo di
protezione individuale (Dpi) così come declinato all’art. 74 del d.lgs. n.
81/2008.
La disposizione di legge stabilisce che per “dispositivo di protezione
individuale” debba intendersi qualsiasi attrezzatura destinata ad essere
indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più
rischi suscettibili di minacciare la sicurezza o la salute durante il
lavoro.
La norma esclude espressamente da tale categoria gli indumenti di lavoro
ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la
sicurezza e la salute del lavoratore.
La Corte ha in questo caso escluso l’assimilazione tra le tute fornite dal
Comune ai dipendenti e i Dpi, negando ogni nesso con la tutela della salute
e dell’igiene dei lavoratori.
In definitiva, le tute sono estranee al tema della salute e hanno come unica
funzione quella di preservare gli abiti civili dall’usura dovuta allo
svolgimento dell’attività.
L’obbligo di lavaggio sussiste solo ove finalizzato alla tutela della salute
e sicurezza del lavoratore (09.05.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: M.
T. Desideri,
Mancata
promozione del procedimento disciplinare e responsabilità dirigenziale
(09.05.2019 - link a www.filodirito.com). |
PUBBLICO IMPIEGO: Danno
da disservizio per il dipendente che si allontana senza timbrare.
Pochi minuti di allontanamento dal posto di lavoro, senza autorizzazione,
non sempre comportano il licenziamento ma possono rientrare in una sanzione
disciplinare conservativa, disciplinata dal contratto di lavoro degli enti
locali in caso di violazione dei doveri di servizio. Il danno erariale,
invece, corrisponde sicuramente ai minuti di allontanamento non registrati
cui si aggiunge anche il danno da disservizio, corrispondente alle risorse
inutilmente spese per l'attivazione e la conclusione della procedura
disciplinare, mentre non si configura danno all'immagine previsto dalla
disposizione di legge.
Queste sono le conclusioni cui è giunta la Corte dei Conti, Sez.
giurisdiz. per la Basilicata,
sentenza 08.05.2019 n. 18).
Il caso
La vicenda è quella del dipendente di un ente locale, con funzioni di
autista, che nei periodi nei quali non era impiegato nelle sue funzioni, si
rifiutava di svolgere attività di ufficio dimostrando incapacità di
attendere ai suoi compiti di servizio. Convocato dal responsabile per
chiarire questa continua situazione di inoperatività lavorativa, era
risultato assente dalla sede.
A seguito della ricostruzione delle sue
assenze dal servizio, nei periodi di non impiego come autista, l'ente aveva
attivato una procedura disciplinare dalla quale emergeva che molte delle ore
venivano passate presso il collega al centralino, mentre l'allontanamento
dal servizio, senza autorizzazione, pur ammesso dall'interessato, si
riducevano a soli 23 minuti di omessa timbratura.
L'Ufficio dei procedimento disciplinari non ha, tuttavia, giudicato
sufficienti i minuti di allontanamento dall'ufficio, per irrogare la
sanzione disciplinare espulsiva -sanzione tesa a reprimere la
falsificazione dei dati di presenza in servizio- ritenendo invece congrua
quella conservativa prevista dall'articolo 3, comma 6, lettera d)
(persistente insufficiente rendimento), lettera g) (comportamento di elusione dei sistemi di rilevamento elettronico della presenza) e lettera i)
(comportamenti che cagionino danno grave all'ente) del contratto
Regioni-Enti Locali del 11.04.2008, quale frutto di noncuranza e
trascuratezza dei doveri di ufficio.
A seguito di segnalazione, da parte
dell'Ufficio dei procedimenti disciplinari, alla Procura della Corte dei
conti, in presenza di avvio della procedura disciplinare del licenziamento
con sospensione immediata del dipendente -poi terminata con la sanzione
conservativa della sospensione dal servizio di quattro mesi- il dipendente
è stato rinviato a giudizio per responsabilità erariale.
Il Pm ha quantificato il danno erariale in tre separate poste. La prima
corrispondente alla mancata presenza in servizio, per violazione del sistema
di rilevazione delle presenze, pari al pagamento delle prestazioni non rese.
La seconda posta di danno, qualificata da disservizio, è stata considerata
pari al alla spesa sostenuta per l'impiego dei soggetti coinvolti nel
procedimento disciplinare distolti dai loro compiti di istituto. L'ultima
posta di danno erariale, quantificabile ex lege, qualificabile come danno
all'immagine, è stata quantificata pari a sei mensilità così come previsto
dall'articolo 55-quater del Dlgs 165/2001. Il dipendente ha confutato la
tesi del Pm evidenziando che l'allontanamento per pochi minuti era dovuto a
una dimenticanza.
Le indicazioni del collegio contabile
Il collegio contabile ha osservato che, dalla documentazione i del
procedimento disciplinare, è emerso che lo stesso dipendente abbia ammesso
di aver sbagliato per non avere timbrato l'uscita, ritenendo per questo
motivo configurabile la piena responsabilità del dipendente anche se per
soli 23 minuti, sia pure di natura non fraudolenta, che ha cagionato un
nocumento di lieve entità e tuttavia suscettibile di essere commisurato in
termini risarcitori per una somma pari a 9,50 euro.
Anche l'altra posta di danno erariale da disservizio è applicabile, in
considerazione del procedimento disciplinare che ha impiegato dipendenti
pubblici distogliendoli dai loro compiti istituzionali per causa dei
comportamenti negligenti del dipendente. Mentre l'ultima posta di danno,
qualificata dalla Procura come danno all'immagine, direttamente previsto
dalla normativa, nel caso di specie non risulta applicabile in quanto la
condotta del dipendente non è stata considerata dalla stessa amministrazione
come effettuata in modo fraudolento ma per trascuratezza nell'assolvimento
dei doveri di ufficio
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.05.2019). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Enti
senza dirigenti, incarichi fino a 5 anni.
Incarichi fino a cinque anni per le posizioni organizzative nei comuni senza
dirigenza. Mancano pochi giorni alla data del 20 maggio 2019, entro la quale
occorre riattribuire gli incarichi di posizione organizzativa, a seguito
dell'adeguamento della connessa disciplina alle regole contenute nel Ccnl
21/05/2018. Sulla durata degli incarichi, come anche sui criteri per la loro
assegnazione, proprio il Ccnl induce a un equivoco.
L'articolo 14, comma 1, dispone che «gli incarichi relativi all'area delle
posizioni organizzative sono conferiti dai dirigenti per un periodo massimo
non superiore a tre anni, previa determinazione di criteri generali da parte
degli enti». Questa disposizione induce molti a ritenere conseguentemente
che la durata degli incarichi sia stata ridotta dai 5 anni espressamente
previsti dal precedente Ccnl 31/03/1999, al più breve triennio.
Tuttavia, questa chiave di lettura non appare soddisfacente. L'articolo 14
del Ccnl 21/05/2018 contiene una regolamentazione degli incarichi delle
posizioni organizzative riferita con ogni evidenza agli enti nei quali sono
presenti i dirigenti. Non a caso il comma uno precisa che gli incarichi «sono
conferiti dai dirigenti». Negli enti privi di dirigenza, dunque, la
disciplina non può che essere differente. E la conferma si trova nella
disposizione contenuta nell'articolo 17, comma 1, sempre del Ccnl 21/05/2018:
«negli enti privi di personale con qualifica dirigenziale, i responsabili
delle strutture apicali, secondo l'ordinamento organizzativo dell'ente, sono
titolari delle posizioni organizzative disciplinate dall'art. 13».
Come si nota, mentre negli enti in cui siano presenti qualifiche
dirigenziali l'articolo 14 attribuisce ai dirigenti il compito di conferire
gli incarichi, nel caso di enti senza qualifiche dirigenziali il Ccnl dedica
una previsione speciale e precisa, quella dell'articolo 17, comma 1. Che è
da considerarsi esclusiva; negli enti senza dirigenti, dunque, non si
applicano le previsioni dei primi due commi dell'articolo 14, ma il diverso
meccanismo stabilito dal comma 1 dell'articolo 17.
Si tratta di un automatismo: l'articolo 17, semplificando, dispone che i
funzionari ai quali i sindaci abbiano attribuito le funzioni dirigenziali ai
sensi dell'articolo 109, comma 2, del dlgs 267/2000 e che in conseguenza di
ciò siano stati nominati come responsabili dei servizi ai sensi
dell'articolo 50, comma 10, sempre del dlgs 267/2000, sono necessariamente
posizioni organizzative. Quindi, negli enti privi di dirigenti non occorre
nessun atto di assegnazione dell'incarico nell'area delle posizioni
organizzative, essendo detto incarico connesso al precedente provvedimento
amministrativo di competenza sindacale di nomina come responsabile di
servizio, al vertice di una struttura amministrativa.
Così stando le cose, poiché negli enti privi di dirigenza non si applica
l'articolo 14, comma 1, del Ccnl 21/05/2018, allora non si può considerare
operante nemmeno il limite temporale di tre anni ivi previsto.
A ben vedere, in questa tipologia di enti, l'incarico nell'area delle
posizioni organizzative non può che avere la identica durata dell'incarico
di funzioni dirigenziali e di preposizione al vertice di una struttura
gestionale. Se, quindi, un sindaco incarichi un funzionario di funzioni
dirigenziali ai sensi dell'articolo 109, comma 2, del Tuel e lo preponga ad
una struttura di vertice per una durata anche superiore ai tre anni, non si
può non concludere che il funzionario resta incaricato come posizione
organizzativa per tutta la durata dell'efficacia degli atti adottati dal
sindaco ai sensi degli articoli 109, comma 2, e 50, comma 10, del Tuel:
norme, queste, che per altro non contengono alcun termine specifico di
durata degli incarichi; solo il comma 1 dell'articolo 109, applicabile per
analogia, precisa che detti incarichi debbano essere a tempo determinato.
Una durata massima di 5 anni degli incarichi di funzioni dirigenziali la si
può desumere sempre per analogia, riferendosi alle previsioni dell'articolo
19, comma 2, del dlgs 165/2001
(articolo ItaliaOggi del 03.05.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
conferimento degli incarichi di posizione organizzativa.
Nei giorni scorsi Anci ha diffuso il
proprio quaderno operativo (Istruzioni tecniche, linee guida,
note e modulistica) sul «Regolamento sugli incarichi di posizione
organizzativa. Aggiornamento al CCNL 21/05/2018. Criteri generali di
conferimento e sistema di graduazione della retribuzione di posizione».
L'occasione si presta ad alcune riflessioni.
Il contratto del comparto Funzioni locali per il periodo 2016-2018
introduce, tra le altre, una novità particolarmente significativa: la
possibilità di attribuire alle posizioni organizzative deleghe delle
funzioni dirigenziali che comportino anche la firma di provvedimenti finali
aventi rilevanza esterna. Si viene, così, a delineare una figura intermedia
tra il dirigente e il funzionario, dotata di un elevato grado di autonomia
gestionale e organizzativa o preposta ad attività ad alto contenuto
professionale, comprese quelle per le quali è richiesta l'iscrizione ad un
albo professionale oppure un'elevata competenza specialistica (conseguita
attraverso titoli universitari o pregresse esperienze professionali, in
posizioni di responsabilità o di alta qualificazione professionale). Questa
figura, così ridefinita e innovata rispetto al passato, rappresenta un
importante punto di raccordo tra le decisioni politico-amministrative e la
gestione operativa dell'ente, in quanto finalizzata a garantire e monitorare
direttamente lo svolgimento dei processi esecutivi.
Il nuovo contratto collettivo offre, quindi, ai Comuni, una maggiore
autonomia organizzativa e, nell'esercizio della potestà regolamentare,
permette di incentivare e premiare le posizioni organizzative.
In questa prospettiva vanno lette, quindi, le disposizioni che prevedono la
possibilità di riservare una quota non inferiore al 15% delle risorse
stanziate, a favore di queste figure, per la retribuzione di risultato. È,
inoltre, introdotta la possibilità di conferire incarichi a interim alle
figure che siano già titolari di posizione organizzativa per ricoprire
funzioni di altra posizione organizzativa, prevedendo una ulteriore
incentivazione economica, sempre a titolo di retribuzione di risultato.
Il quadro sulla natura «semi-dirigenziale», che questa figura ha
assunto con la novità contrattuale descritta, si completa con la previsione
secondo cui le risorse per la sua remunerazione sono ricavate dal fondo per
il trattamento economico accessorio del personale del comparto e che sono
stanziate in bilancio.
Per gli enti i tempi sono ormai brevi per adeguarsi a questa nuova realtà
contrattuale. Il contratto impone infatti che i nuovi regolamenti contenenti
la disciplina relativa ai criteri per il conferimento degli incarichi, alla
graduazione della retribuzione di posizione e ai criteri per l'attribuzione
della retribuzione di risultato siano adottati entro il 20 maggio. E gli
incarichi di posizioni organizzative già conferiti sulla base del previgente
contratto? È logico presumere che decadano a tale data.
È quindi in atto una piccola rivoluzione: si tratta, infatti, di figure che
devono perdere il loro carattere di «fiduciarietà». Devono essere
attribuite dal dirigente (dal sindaco solo in quei Comuni in cui non vi sono
dirigenti) a funzionari di categoria D (alla categoria C ove la predetta
categoria sia mancante) secondo criteri oggettivi e trasparenti, oltre che
opportunamente graduati. Su quest'aspetto interviene egregiamente l'Anci che
suggerisce dei «criteri generali per il conferimento degli incarichi di
P.O. e per la graduazione della loro retribuzione», definendo una
metodologia che è in grado di esprimere la coerenza tra la rilevanza del
ruolo assegnato alla posizione e la relativa retribuzione. Nelle note dell'Anci,
il criterio della cosiddetta «trasversalità» è interpretato come
finalizzato a valorizzare la complessità e la misura dei rapporti interni ed
esterni che la posizione organizzativa incaricata dovrà gestire nello
svolgimento dei propri compiti tecnici.
La «complessità operativa e organizzativa» è interpretata con riferimento
non solo alla composizione numerica dell'unità organizzativa, cui è preposta
la figura in esame, ma anche all'inquadramento contrattuale della stessa. In
parole semplici, il livello di complessità si presume maggiore ove l'unità
sia composta da dipendenti di categoria D. Il parametro potrebbe essere
legato anche «alla graduazione della struttura dirigenziale ove la PO è
incardinata, ove, ad esempio, si ritenga non affidabile il solo riferimento
al personale assegnato». Ma si guarda anche al numero e alla difficoltà
(soprattutto in termini di tempistica e di attività istruttoria) dei
passaggi per arrivare al risultato finale del procedimento affidato alla
posizione organizzativa.
Riguardo al «rischio contenzioso», l'Anci non può che rinviare, del
tutto correttamente, al Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione
e della Trasparenza. In particolare, «viene valutata l'intensità e la
rilevanza dell'incidenza del prodotto finale nei confronti del destinatario
in relazione agli interessi coinvolti». Mentre la responsabilità finanziaria
non può che essere rapportata al budget assegnato, «a livello di entrata
e di spesa».
Diversamente graduata è, logicamente, la strategicità a seconda che l'ente
disponga o meno di figure dirigenziali. Nel primo caso, infatti, è valutata
la significatività delle deleghe dirigenziali; nel secondo, invece, a essere
valutato è il peso delle funzioni conferite rispetto all'attuazione del
programma di mandato del Sindaco. La previsione dell'area delle posizioni
organizzative come delineata dal nuovo contratto del comparto funzioni
locali 2016-2018 presuppone, in sostanza, un'equilibrata differenziazione
del peso e quindi anche dei valori economici delle diverse posizioni,
ricercando soluzioni che sfruttino appieno l'ampio ventaglio reso
disponibile dalle nuove previsioni anche al fine di offrire serie
prospettive di miglioramento di carriera e di apprezzamento economico al
personale. Sarà quindi necessaria l'adozione di nuovi regolamenti, tesi allo
sviluppo delle potenzialità organizzative e gestionali dei singoli che
potranno essere premiate mediante il progressivo affidamento di incarichi
sempre più importanti e maggiormente remunerati.
È necessario quindi, a tal fine, adottare un sistema flessibile volto a
privilegiare un'esatta corrispondenza del punteggio agli elementi
qualitativi e quantitativi che caratterizzano la singola posizione
organizzativa, e che tenga conto delle peculiarità organizzative e
gestionali del singolo ente (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
02.05.2019). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Utilizzo
graduatorie triennio 2010-2013.
Domanda
È possibile avviare il reclutamento degli idonei che figurano nelle
graduatorie approvate dal 2010 al 2013 pubblicando nel sito web dell’ente un
avviso per manifestazione di interesse rivolto in generale a tutti coloro
che sono collocati in tali graduatorie, per poi trasmettere l’invito a
partecipare ai corsi di formazione previsti dall’art. 1, comma 362, della l.
145/2018 solamente a coloro che avranno manifestato il loro interesse?
Risposta
Come noto, la legge di bilancio per l’anno 2019 ha prorogato fino al
30.09.2019 la validità delle graduatorie approvate dal 01.01.2010 al
31.12.2013, ma ne ha subordinato l’utilizzo ai seguenti adempimenti:
1) frequenza obbligatoria, da parte degli idonei, di corsi di
formazione e aggiornamento organizzati da ciascuna amministrazione, nel
rispetto dei princìpi di trasparenza, pubblicità ed economicità e
utilizzando le risorse disponibili a legislazione vigente;
2) superamento, da parte degli idonei, di un apposito
esame-colloquio diretto a verificarne la perdurante idoneità.
Naturalmente, anche in questi casi devono essere rispettati i principi
generali in materia di graduatorie concorsuali, tra i quali, in particolare,
l’obbligo di interpellare individualmente tutti gli idonei, nell’ordine in
cui sono collocati in graduatoria. Una volta che l’ente, sulla base del
piano dei fabbisogni di personale, abbia deciso di reclutare personale
mediante scorrimento di graduatoria concorsuale, è quindi necessario
procedere come segue:
• in primo luogo deve essere individuata la graduatoria da
scorrere, secondo le consuete regole: coincidenza di categoria, profilo,
requisiti di accesso e articolazione oraria a tempo pieno/parziale dei posti
oggetto del concorso rispetto al posto/ai posti da coprire, precedenza alle
graduatorie efficaci dell’ente, per poi valutare accordi con altri enti
titolari di graduatorie (applicando gli eventuali criteri di scelta che
l’ente si è dato autonomamente), precedenza alle graduatorie più datate
rispetto a quelle più recenti;
• nel caso in cui si tratti di graduatoria di altro ente, dovrà
essere stipulato il relativo accordo/convenzione;
• dopo avere individuato la graduatoria oggetto di scorrimento e
una volta data evidenza pubblica a tale decisione con il provvedimento che
dà avvio alla procedura, l’ente deve sempre interpellare individualmente
tutti gli idonei non ancora chiamati.
Nel caso particolare in cui sia stato deciso lo scorrimento di una
graduatoria approvata dal 2010 al 2013, sarà necessario:
• trasmettere a ciascuno degli idonei (con modalità che consentano
di provarne la ricezione) un invito a manifestare l’interesse
all’assunzione, invito che dovrà anche illustrare le successive fasi della
procedura e le relative modalità di notificazione;
• una volta ricevute le manifestazioni di interesse, organizzare il
corso di formazione e aggiornamento;
• pubblicare, nel sito web dell’ente (Amministrazione Trasparente,
sezione dedicata al personale) un avviso contenente:
• le date, gli orari, i contenuti e le modalità di frequenza al
corso di formazione e aggiornamento;
• la disciplina delle assenze rispetto al calendario del corso:
casistica, modalità di giustificazione, numero di assenze oltre il quale è
prevista la non ammissione all’esame finale;
• le modalità di svolgimento dell’esame-colloquio finale.
• In adempimento agli obblighi di trasparenza, l’invito e l’avviso
dovranno infine riportare:
• le principali informazioni riguardanti l’”offerta assunzionale”:
numero di posti per i quali la graduatoria viene scorsa, unità organizzative
di assegnazione, eventuali altri dettagli sulle figure che si intendono
reclutare (mansioni, sede di prima assegnazione, articolazione prevista
dell’orario di lavoro, ecc.);
• le conseguenze della mancata partecipazione alla procedura per
quanto riguarda la posizione giuridica degli idonei.
Lo scorrimento della graduatoria consisterà nella chiamata di coloro che
avranno regolarmente frequentato il corso di formazione e superato l’esame
finale, nell’ordine in cui figurano nella graduatoria, fino ad esaurimento
dei posti disponibili (o per l’unico posto da coprire).
Se si tratta di graduatoria di altro ente, occorrerà informare l’ente
titolare circa gli esiti dello scorrimento (02.05.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
aprile 2019 |
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PUBBLICO IMPIEGO: Il
regolamento comunale non può prevedere compensi extra per l'avvocatura.
Il decreto legge 90/2014 ha previsto che all'avvocature degli enti pubblici
siano versati compensi professionali (così dette propine) in caso di
sentenza favorevole dell'ente, sia in caso di vittoria delle spese sulla
parte soccombente, sia in caso di pronunciata compensazione delle spese. A
di fuori delle ipotesi tipizzate dalla legge, il regolamento dell'ente che
estenda i compensi professionali ad altre fattispecie è da considerare
illegittimo, come ad esempio in caso di provvedimenti decisori pur
apparentemente favorevoli all'ente locale ma che non presuppongono una
pronuncia sulle questioni processuali e di merito e che, talora, nemmeno
comportano una decisione sulle spese.
Queste sono le indicazioni puntualizzate dalla Corte dei conti siciliana (parere
29.04.2019 n. 88).
Il dubbio del Comune
Il Commissario straordinario di un Comune ha chiesto ai magistrati contabili
un parere sulla possibile coerenza tra il regolamento dell'ente e la
normativa legislativa che prevede la corresponsione dei compensi
professionali agli avvocati pubblici esclusivamente in presenza di una
sentenza favorevole all'ente con spese poste a carico della parte
soccombente o con compensazione delle spese.
Il dubbio nasce dalla
disposizione regolamentare sulle propine agli avvocati interni, che
estenderebbe la loro remunerazione anche in diversi casi di provvedimenti
decisori pronunciati dagli organi giudiziari, nonché in presenza
dell'estinzione del giudizio per perenzione, rinuncia di controparte o
abbandono della controversia o, in generale, per inattività della
controparte in qualsiasi fase del giudizio cautelare, di merito o di
esecuzione che comporti la completa salvaguardia dei beni e diritti
dell'ente, oltre che di abbandono o rinuncia con onere delle spese.
Le precisazioni del collegio contabile
I giudici contabili siciliani hanno premesso che la figura dell'avvocato
pubblico, all'interno delle singole amministrazioni, ha una natura ibrida
compresa tra il lavoratore dipendente e il professionista tanto da essere al
contempo, il proprio cliente, ma anche il suo datore di lavoro. Questa
duplice funzione si riflette anche sulla struttura del suo trattamento
economico composto, pur nella varietà delle situazioni, per una quota, dallo
stipendio tabellare e dalle relative voci integrative e accessorie e, per
altra quota, da compensi aggiuntivi correlati all'esito favorevole delle
liti. Da questa condizione discende che i compensi professionali,
considerati aggiuntivi, potranno essere erogati esclusivamente nelle ipotesi
tassativamente previste dalla legge.
È indubbio che le disposizioni del Dl
90/2014 prevedono questa remunerazione aggiuntiva esclusivamente in caso di
esito vittorioso della lite, riscontrabile nelle sentenze che definiscono la
fase di giudizio respingendo le domande di controparte per ragioni
processuali o di merito, ma certamente non nei casi di estinzione del
giudizio per perenzione, rinuncia di controparte o abbandono della
controversia o, in generale, per inattività della controparte in qualsiasi
fase del giudizio cautelare, di merito o di esecuzione che comporti la
completa salvaguardia dei beni e diritti dell'ente, oltre che di abbandono o
rinuncia con onere delle spese. In queste ultimi casi l'attività
dell'avvocato interno trova ristoro nello stipendio tabellare erogato quale
dipendente pubblico.
Questa indicazione trova la sua ragione nella stessa disposizione
legislativa che ha previsto il compenso aggiuntivo anche in caso di
transazione ma solo qualora questa faccia seguito a una «sentenza
favorevole». A maggior ragione nei casi evidenziati dall'ente locale se non
si è in presenza di una sentenza favorevole nulla sarà dovuto all'avvocato
interno, essendo le sue attività remunerate con lo stipendio tabellare.
Qualsiasi regolamento predisposto dall'ente locale al di fuori dell'ipotesi
legislativa è, pertanto, da considerare illegittimo per violazione di norma
imperativa
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 08.05.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Dichiarazione
di inconferibilità e incompatibilità.
Domanda
In presenza di affidamento di un incarico, ai sensi
dell’art. 110 del TUEL 267/2000, quando è necessario
acquisire la dichiarazione prevista dal d.lgs. 39/2013?
Risposta
Nell’ambito delle strategie per prevenire la corruzione
nella pubblica amministrazione, uno dei provvedimenti
attuativi della legge Severino (legge 06.11.2012, n. 190) è
il decreto legislativo 08.04.2013, n. 39, recante “Disposizioni
in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi
presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti
privati in controllo pubblico, a norma dell’articolo
1, commi 49 e 50, della legge 06.11.2012, n. 190”.
Per gli enti locali, le disposizioni normative contenute nel
d.lgs. 39/2013 si applicano, solamente, al segretario
comunale e ai dirigenti. Negli enti locali, privi di figure
dirigenziali, la norma si applica anche alle posizioni
organizzative [1]
a cui vengono attribuite le funzioni dirigenziali, a mente
degli articoli 50, comma 10; 107 e 109, comma 2, del TUEL
18.08.2000, n. 267.
Delimitato l’ambito applicativo della norma, va chiarito che
la questione della dichiarazione sull’insussistenza della
cause di inconferibilità e incompatibilità trova la sua
disciplina nell’articolo
20, del d.lgs. 39/2013, laddove si prevede che:
a) all’atto del conferimento dell’incarico
–quindi prima che esso abbia inizio– l’interessato presenta
una dichiarazione sulla insussistenza di una delle cause di
inconferibilità del decreto
(comma
1);
b) nel corso dell’incarico l’interessato presenta
annualmente una dichiarazione sulla insussistenza di una
delle cause di incompatibilità di cui al presente decreto
(comma
2);
c) le dichiarazioni di cui sopra sono pubblicate
nel sito web dell’ente che ha conferito l’incarico
(comma
3),
nella sezione Amministrazione trasparente > Personale;
d) la dichiarazione sulla insussistenza delle
cause di inconferibilità è condizione per l’acquisizione
dell’efficacia dell’incarico
(comma
4).
Per gli incarichi dirigenziali presenti in un ente locale le
situazioni in cui non è possibile conferire l’incarico (inconferibilità,
appunto) sono essenzialmente tre, disciplinate
rispettivamente:
– nell'articolo 3, comma 1;
– nell'articolo 4 comma 1;
– nell'articolo 7, comma 2, del decreto.
Nel primo caso (art.
3, comma 1) si tratta di soggetti condannati, anche
con sentenza non passata in giudicato, per uno dei reati
previsti dal
capo I del titolo II del libro secondo del codice penale
[2], anche nel caso di applicazione della pena su richiesta ai
sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale (c.d.
patteggiamento).
Nel secondo caso (art.
4, comma 1) riguarda soggetti che, nei due anni
precedenti, abbiano svolto incarichi e ricoperto cariche in
enti di diritto privato regolati o finanziati
dall’amministrazione che conferisce l’incarico, ovvero
abbiano svolto in proprio attività professionali, se queste
sono regolate, finanziate o comunque retribuite
dall’amministrazione o ente che conferisce l’incarico.
L’ultimo caso (art.
7, comma 2), riguarda:
a) i soggetti che nei due anni precedenti siano stati componenti
della Giunta o del Consiglio della provincia, del comune o
della forma associativa tra comuni che conferisce l’incarico
(le inconferibilità di cui al presente articolo non si
applicano ai dipendenti della stessa amministrazione che,
all’atto di assunzione della carica politica, erano titolari
di incarichi);
b) i soggetti che nell’anno precedente abbiano fatto parte della
Giunta o del Consiglio di una provincia, di un comune con
popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma
associativa tra comuni avente la medesima popolazione, nella
stessa regione dell’amministrazione locale che conferisce
l’incarico, nonché a coloro che siano stati presidente o
amministratore delegato di enti di diritto privato in
controllo pubblico da parte di province, comuni e loro forme
associative della stessa regione.
All’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), in virtù dell’art.
16 del decreto, spetta il compito di vigilare sul
rispetto, da parte delle amministrazioni pubbliche delle
disposizioni di cui al d.lgs. 39/2013, anche con l’esercizio
di poteri ispettivi e di accertamento di singole fattispecie
di conferimento degli incarichi. In questi anni l’ANAC, in
più circostanze, ha avuto modo di intervenire, con propri
atti, sulla delicata materia del conferimento di incarichi
in presenza di situazioni conclamate o a rischio di
inconferibilità o incompatibilità.
Le principali disposizioni dell’ANAC –per coloro che
intendessero approfondire la questione– sono:
– Orientamento n. 4/2014;
– Orientamento n. 99/2014;
– Delibera n. 1001 del 21.09.2016;
– Delibera n. 613 del 31.05.2016;
– PNA 2016, approvato con delibera n. 831 del 03.08.2016, paragrafo
3.7;
– Delibera n. 833 del 03.08.2016;
– Delibera n. 925 del 13.09.2017;
– Delibera n. 207 del 13.03.2019.
Premesso quanto sopra, la risposta al quesito è la seguente:
- la dichiarazione prevista dall’art.
20, comma 1, del d.lgs. 39/2013, relativa
all’insussistenza di cause di inconferibilità dell’incarico
di:
– segretario comunale;
– dirigente di ente locale;
– posizione organizzativa, in enti senza la dirigenza;
– incarico ex art. 110 TUEL 267/2000 (enti con o senza dirigenti);
deve essere acquisita prima del conferimento dell’incarico e
pubblicata, in modo tempestivo, nel sito web dell’ente che
conferisce l’incarico.
In assenza della dichiarazione di cui al
comma 1, dell’art. 20, d.lgs. 39/2013, l’atto
di nomina non acquisisce efficacia, con tutte le negative
conseguenza che ne consegue (23.04.2019
- tratto da e link a www.publika.it).
---------------
[1] Cfr.
art. 2, comma 2, d.lgs. 39/2013
[2]
Capo I - Dei delitti dei pubblici ufficiali contro la
pubblica amministrazione
●
Art. 314 — Peculato
●
Art. 315 — Malversazione a danno di privati
[ABROGATO]
●
Art. 316 — Peculato mediante profitto
dell'errore altrui
●
Art. 316-bis — Malversazione a danno dello
Stato
●
Art. 316-ter — Indebita percezione di
erogazioni a danno dello Stato
●
Art. 317 — Concussione
●
Art. 317-bis — Pene accessorie
●
Art. 318 — Corruzione per l'esercizio della
funzione
●
Art. 319 — Corruzione per un atto contrario
ai doveri d'ufficio
●
Art. 319-bis — Circostanze aggravanti
●
Art. 319-ter — Corruzione in atti giudiziari
●
Art. 319-quater — Induzione indebita a dare o
promettere utilità
●
Art. 320 — Corruzione di persona incaricata
di un pubblico servizio
●
Art. 321 — Pene per il corruttore
●
Art. 322 — Istigazione alla corruzione
●
Art. 322-bis — Peculato, concussione,
induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione e
istigazione alla corruzione di membri delle Corti
internazionali o degli organi delle Comunità europee o di
assemblee parlamentari internazionali o di organizzazioni
internazionali e di funzionari delle Comunità europee e di
Stati esteri
●
Art. 322-ter — Confisca
●
Art. 322-ter 1 — Custodia giudiziale dei beni
sequestrati
●
Art. 322-quater — Riparazione pecuniaria
●
Art. 323 — Abuso d'ufficio
●
Art. 323-bis — Circostanze attenuanti
●
Art. 323-ter — Causa di non punibilità
●
Art. 324 — Interesse privato in atti di ufficio
[ABROGATO]
●
Art. 325 — Utilizzazione d'invenzioni o
scoperte conosciute per ragione di ufficio
●
Art. 326 — Rivelazione ed utilizzazione di
segreti di ufficio
●
Art. 327 — Eccitamento al dispregio e vilipendio delle
istituzioni, delle leggi o degli atti dell'autorità
[ABROGATO]
●
Art. 328 — Rifiuto di atti d'ufficio.
Omissione
●
Art. 329 — Rifiuto o ritardo di obbedienza
commesso da un militare o da un agente della forza pubblica
●
Art. 330 — Abbandono collettivo di pubblici uffici,
impieghi, servizi o lavori [ABROGATO]
●
Art. 331 — Interruzione d'un servizio
pubblico o di pubblica necessità
●
Art. 332 — Omissione di doveri di ufficio in occasione di
abbandono di un pubblico ufficio o di interruzione di un
pubblico servizio [ABROGATO]
●
Art. 333 — Abbandono individuale di un pubblico ufficio,
servizio o lavoro [ABROGATO]
●
Art. 334 — Sottrazione o danneggiamento di
cose sottoposte a sequestro disposto nel corso di un
procedimento penale o dall'autorità amministrativa
●
Art. 335 — Violazione colposa di doveri
inerenti alla custodia di cose sottoposte a sequestro
disposto nel corso di un procedimento penale o dall'autorità
amministrativa
●
Art. 335-bis — Disposizioni patrimoniali
|
PUBBLICO IMPIEGO: I
permessi orari per motivi personali o familiari.
DOMANDA:
La nuova enunciazione dell’art. 32 CCNL 2018, che subordina l'autorizzazione
di permessi retribuiti alla indicazione di particolari motivi personali o
familiari, ha convinto molti dipendenti che tale giustificativo sia di fatto
il riconoscimento di ulteriori tre giorni di ferie.
Pervengono pertanto
richieste di fruizione di tali permessi o con indicazioni generiche “per
motivi personali” o con le più originali motivazioni. L’unico passaggio
previsto nell'art. 32 per negare il permesso è l’inciso “compatibilmente con
le esigenze di servizio” con una formulazione che sembra invertire l’onere
della giustificazione.
Non è il dipendente a dover giustificare l’assenza,
ma il datore di lavoro a dover giustificare quali esigenze di servizio
impediscano il riconoscimento del diritto all'assenza.
Onde evitare
confusione si chiede se sia possibile all’ente disciplinare la materia,
magari dopo un confronto ex art. 5 CCNL con le organizzazioni sindacali,
individuando le fattispecie/motivazioni per le quali verrà autorizzato il
permesso ed escludendo tutte le altre (prevedendo ovviamente qualche margine
di discrezionalità per casi non previsti) sulla base che il riconoscimento
del permesso è comunque subordinato al bilanciamento di interessi ed anche
la semplice presenza in servizio è da considerarsi una "esigenza di
servizio" prevalente su altre motivazioni.
RISPOSTA:
Si riportano, sul punto, le osservazioni formulate dall’Aran con parere
CFL27 del 30 ottobre scorso. La formulazione dell’art. 32 del CCNL Funzioni
Locali 21.05.2018 in materia di permessi retribuiti non prevede più la
necessità di documentare i motivi e le ragioni per le quali viene richiesto
il permesso, anche se la motivazione, che consente di ricondurre tale tutela
alle esigenze personali e familiari dell’interessato, va, comunque, indicata
nella richiesta avanzata dal dipendente, in quanto la stessa resta il
presupposto legittimante per la concessione del permesso.
Ove la suddetta
richiesta non appaia del tutto motivata o adeguatamente giustificata, a
seguito della comparazione degli interessi coinvolti (interesse del
lavoratore evidenziato nella domanda alla fruizione dei permessi e ragioni
organizzative e di servizio), il datore di lavoro potrà far valere la
prevalenza delle esigenze di servizio, negando la concessione del permessi.
L’ente, tuttavia, non è chiamato in alcun modo a valutare nel merito la giustificatezza o meno della ragione addotta, ma solo la sussistenza di
ragioni organizzative od operative che impediscano la concessione del
permesso.
Quello che emerge dal parere dall’Aran è che -anche nell'ambito
della nuova disciplina dell’istituto- il lavoratore non è titolare di un
diritto soggettivo perfetto alla fruizione dei permessi ed il datore di
lavoro pubblico non è in nessun caso obbligato a concedere gli stessi. Quest’ultimo,
ben può, nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede, anche
negarne la fruizione, ma solo in presenza di ragioni organizzative od
operative che ne impediscano la concessione.
Al fine di evitare comportamenti e risposte difformi a fronte di richieste
analoghe, è possibile, e anche opportuno, regolamentare -non le fattispecie
per le quali verrebbe autorizzato il permesso, perché in questo caso si
andrebbe a limitare l’ambito della norma contrattuale- bensì le ragioni
organizzative in cui tale permesso può essere negato
(tratto da e link a www.ancirisponde.ancitel.it). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Regolamento
incentivi sponsorizzazioni.
Domanda
Chi approva il Regolamento per la disciplina delle sponsorizzazioni, in cui
si prevede anche un incentivo per i dipendenti, così come previsto dall’art.
67, comma 3, lettera a), del CCNL 21/05/2018?
Risposta
Il Testo Unico degli Enti Locali (TUEL), approvato con il decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, fa risalire la competenza esclusiva del
Consiglio comunale nell’approvazione dei regolamenti comunali, così come
previsto all’art. 42, comma 2, lettera a). Il potere regolamentare dei
comuni risulta disciplinato anche nell’art. 7 del medesimo TUEL.
Gli unici regolamenti che sono di competenza della Giunta sono i Regolamenti
per l’Organizzazione Uffici e Servizi (ROUS), così come espressamente
previsto dall’art. 48, comma 3, del TUEL.
Anche in questo caso, tra l’altro, la Giunta deve disciplinare
l’organizzazione degli uffici e servizi, sulla base di criteri generali,
propedeuticamente emanati dal Consiglio (ancora art. 48, co. 3, TUEL). Le
materie che si possono disciplinare all’interno del ROUS sono analiticamente
indicate nell’art. 89, comma 2, del TUEL e, con tutta evidenza, non vi è
prevista la disciplina delle sponsorizzazioni, la cui fonte normativa va
rinvenuta nell’art. 19 del Codice dei contratti (d.lgs. 18.04.2016, n. 50);
nell’articolo 119 del TUEL e, prima ancora, nell’articolo 43, della legge
27.12.1997, n. 449.
All’interno di tali regolamenti, gli enti, possono anche prevedere la
possibilità di riconoscere delle incentivazioni di carattere economico nei
confronti del proprio personale dipendente (dirigenti e non dirigenti), come
previsto nei vari contratti nazionali del comparto.
Il parere dell’ANCI, citato nel quesito, si riferisce ad un comune che,
nell’anno 2007, aveva disciplinato l’“Approvazione dei criteri per la
disciplina e la gestione delle sponsorizzazioni”, con deliberazione di
Giunta.
L’escamatoge [1]
di chiamarli “criteri”, anziché regolamento, a nostro modesto parere,
rientra tra le varie e multiformi “tecniche elusive”, applicate negli
enti per sottrarre alla competenza del Consiglio (massimo organo di
indirizzo e controllo politico-amministrativo), la possibilità di poter
esaminare e votare un regolamento di carattere generale, nel quale sono
previste anche delle ricadute economiche per il personale.
A completamento informativo, si fa presente che gli ispettori del MEF-RGS,
nello loro verifiche amministrative-contabili presso i comuni, verificano
sempre che le somme previste nella parte variabile del fondo, relative ai
proventi delle sponsorizzazioni, siano precedute dall’approvazione di un
regolamento in Consiglio comunale.
---------------
[1] Trovata ingegnosa, trucco, sotterfugio messo in atto con abilità e
astuzia, spesso al limite della disonestà, per risolvere una situazione
compromessa o uscire da una posizione difficile (17.04.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO:
Doppi criteri con dirigenti o senza. La pesatura dei settori
determina la retribuzione aggiuntiva al tabellare.
Regole per conferire e revocare gli incarichi di posizione organizzativa e
criteri per graduare le aree.
Sono questi i due aspetti per i quali l’Anci, nel
nuovo Quaderno sul tema,
propone soluzioni operative per un facile utilizzo da parte degli enti
locali. D’altronde la scadenza è alle porte: entro il 20 maggio vanno
adottati i nuovi sistemi, pena il divieto di confermare, prorogare o
attribuire nuovi incarichi.
Il contratto nazionale 21.05.2018 ha riscritto le regole dell’istituto e
quindi, come anche già contenuto in alcuni recenti pareri dell’Aran sono tre
gli adempimenti urgenti: revisione dell’assetto organizzativo, approvazione
dei criteri di nomina e revoca e definizione dei parametri di graduazione
dei settori.
Il primo aspetto va da sé. Ciascun ente deve individuare dove
sono collocate le posizioni organizzative nella propria struttura, tenendo
conto delle uniche due possibilità di incarichi: di direzione di aree o di
alta professionalità.
Dopo queste precisazioni, l’Anci si concentra sul secondo aspetto. Nella
proposta del regolamento contenuto nel Quaderno, si trovano quindi alcuni
punti essenziali tra cui: la durata (che non può essere superiore ai tre
anni), i requisiti che devono avere i soggetti che verranno nominati e le
procedure di individuazione dei dipendenti più idonei a ricoprire gli
incarichi.
A questo proposito, va ricordata la forte differenza tra enti con
la dirigenza, nei quali sono appunto i dirigenti a nominare le posizioni
organizzative attraverso anche un avviso esplorativo, rispetto a quanto
invece previsto dall’articolo 17, comma 1, del contratto nazionale del 21.05.2018, ovvero che negli enti privi di posizioni dirigenziali i
responsabili delle strutture apicali sono posizioni organizzative.
Terzo elemento chiave: i criteri per graduare le aree. L’azione serve per
pesare i settori anche per corrispondere la retribuzione di posizione che va
dai 5mila ai 16mila euro per i dipendenti di categoria D e dai 3mila ai
9.500 per i dipendenti di categoria C. Su questo aspetto l’Associazione dei
Comuni fornisce esempi concreti sia di graduazione sia di raccordo tra
quanto pesato e retribuzioni.
I criteri che vengono proposti sono la complessità relazione e la
complessità operativa e organizzativa a cui si aggiunge la verifica delle
attività soggette a rischio-contenzioso e la responsabilità finanziaria.
Ulteriore differenza tra piccoli e grandi enti: laddove non c’è la dirigenza
l’Anci propone come ulteriore elemento la strategicità, mentre negli enti
con le posizioni dirigenziali il criterio aggiuntivo, obbligatorio per
contratto nazionale, è quello della delega delle funzioni dirigenziali. Il
Nucleo o l’Oiv, quindi, pesano le varie aree. A questo punto è necessario
correlare i punteggi con le retribuzioni da corrispondere.
Nel Quaderno operativo si trovano interessanti soluzioni che, partendo dal
garantire il minimo previsto contrattualmente (5mila euro), con valori
proporzionali di pesatura quantificano il valore finale della retribuzione
di posizione. La retribuzione di risultato, invece, andrà contrattata
all’interno del decentrato
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.04.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nuovi
incarichi, tempi stretti per le regole di nomina e revoca.
Dall’Anci il Quaderno operativo con le istruzioni e gli schemi di delibera.
Disciplina da approvare entro il 20 maggio dopo il confronto con i
sindacati.
Stringono i tempi per aggiornare le regole sulle nuove posizioni
organizzative. Sul tema arrivano le istruzioni dell’Anci, con un
nuovo
Quaderno operativo pubblicato questa mattina.
Il contratto nazionale del 21.05.2018 ha totalmente rivisto le modalità di
affidamento degli incarichi e le regole per la graduazione delle aree. Lo
strumento dell’Associazione porta con sé, quindi, molto interesse tenuto
conto che le posizioni organizzative in essere verranno meno il 20 maggio
prossimo.
Nel documento si parte proprio da questa scadenza e viene da subito
ricordato che il contratto ha previsto delle precise relazioni sindacali che
devono partire al più presto. Per determinare i criteri di nomina e di
revoca delle posizioni organizzative e quelli per la graduazione delle aree
è infatti necessario avviare il confronto con i sindacati. La procedura
prevede che vi sia un’informazione preventiva alle organizzazioni sindacali
e che queste abbiano cinque giorni di tempo per avviare il confronto. Il
tutto deve però chiudersi entro trenta giorni. Agenda alla mano, quindi, per
essere pronti con tutto al 20 maggio gli enti devono accelerare i tempi
inviando ai sindacati i criteri generali per la costruzione dei sistemi
proprio in questi giorni.
L’Anci ricorda poi che ci sono altri importanti passaggi da fare ai tavoli
con le rappresentanze sindacali. In sede di contrattazione integrativa, ad
esempio, saranno da contrattare i criteri per l’erogazione della
retribuzione di risultato, mentre vengono ulteriormente precisate le
dinamiche sulle risorse stanziate per l’istituto nel delicato rapporto con
il fondo del trattamento accessorio. Infatti, se l’ente stanzia per le
posizioni organizzative somme equivalenti a quelle del 2017 non ci sono
problemi. Se però l’ente dovesse stanziare più somme, e queste comportano la
riduzione del fondo per rispettare il tetto dell’anno 2016 previsto
dall’articolo 23, comma 2, del Dlgs 75/2017, si deve per forza passare dalla
contrattazione. Nel caso contrario, invece, cioè stanziando meno risorse per
le posizioni organizzative, si creerebbe la possibilità di aumentare il
fondo; azione che però deve transitare dal confronto.
Gli enti senza la dirigenza hanno però beneficiato di un’ulteriore
possibilità: scomputare dalle capacità assunzionali eventuali incrementi di
valore degli importi dovuti al fatto che il valore massimo della
retribuzione di posizione è salito con il nuovo contratto nazionale a 16mila
euro. La soluzione è prevista all’articolo 11-bis del Dl 135/2018 e l’Anci
si è impegnata di chiedere che la norma diventi applicabile anche negli enti
con la dirigenza.
Il documento dell’Associazione propone quindi due strumenti operativi. Da
una parte si trova una bozza di deliberazione di Giunta per l’approvazione
dei criteri e dall’altra un vero e proprio regolamento, ovviamente
adattabile da parte di ciascun ente, che si suddivide in due ulteriori sotto
sezioni: i criteri per la nomina e la revoca delle posizioni organizzative e
quelli per la graduazione delle aree. Secondo l’Anci, è opportuno porre
quest’ultima azione in capo a un soggetto terzo: il nucleo o l’organismo
indipendente di valutazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.04.2019). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Risoluzione
unilaterale.
Domanda
È obbligatorio procedere alla risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro
al compimento dei 65 anni di età del dipendente, limite ordinamentale per
gli enti pubblici ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. d), della Legge
70/1975?
Risposta
Al compimento dei 65 anni di età occorre appurare l’anzianità contributiva
del dipendente anche tenendo conto delle contribuzioni presenti in altre
casse pensionistiche ed eventualmente non ricongiunte.
Il primo controllo da effettuare è verificare se il dipendente al 31.12.2011
aveva raggiunto requisito a pensione di cui alla Legge 247/2007 (Pre-Fornero):
– anzianità contributiva pari a 40 anni (39 anni, 11 mesi e 16
giorni);
– quota 96 (60 anni e 6 mesi di età con 35 anni e 6 mesi di
contributi).
In caso positivo occorre collocare a riposo d’ufficio il dipendente.
Se il dipendente non ha raggiunto nessuno dei requisiti sopra esposti alla
data del 31.12.2011, l’Amministrazione lo accompagna al primo traguardo
utile che dovrà verificarsi al raggiungimento del diritto a pensione
anticipata oppure pensione di vecchiaia (11.04.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incentivi,
le risorse vanno nella contrattazione decentrata e a preventivo.
La Corte di Appello di Catanzaro, Sez. lavoro, con sentenza 14.02.2019 n. 1972, si è occupata delle conseguenze della
richiesta di liquidazione degli incentivi legati ad un progetto obiettivo in
assenza della copertura finanziaria.
Nel confermare la sentenza di primo grado vengono evidenziate e confermate
alcune regole che presiedono alla corretta attivazione dei progetti
obiettivo, con l’utilizzo delle risorse previste dall’articolo 15 del Ccnl
01.04.1999, che meritano di essere commentate anche alla luce del nuovo Ccnl
delle funzioni locali del 21.05.2018.
La sentenza risulta particolarmente interessante in quanto si occupa, anche
solo incidentalmente, ma in modo efficace, della sostanziale differenza tra
il lavoro straordinario, che è fondamentalmente legato alla quantità della
prestazione lavorativa, e gli incentivi, inclusi quelli connessi ai progetti
obiettivo, che, invece, concernono la qualità della prestazione e sono
inscindibilmente legati al conseguimento dei risultati, preventivamente
definiti attraverso opportuni indicatori.
La pronuncia del Giudice di appello
Il giudice di appello ha constatato che le risorse necessarie per finanziare
lo specifico progetto obiettivo non erano presenti e, comunque, i ricorrenti
non sono riusciti a dimostrarne la loro preventiva definizione attraverso il
fondo risorse accessorie e la contrattazione decentrata e, quindi, il
progetto incentivante non trovava copertura nell’ambito dei principi sanciti
dagli artt. 40 e 45 , Dlgs 165/2001, in base ai quali “gli oneri di tutti i
trattamenti economici accessori del personale devono trovare integrale
copertura nelle generali risorse destinate al finanziamento della
contrattazione integrativa”, anzi proprio consci di tale specifica
situazione interdittiva i ricorrenti azionavano in subordine una richiesta
di indebito arricchimento ex art. 2041 Cc che, comunque, veniva rigettata,
sia perché improponibile -in quanto esisteva una causa connessa ad un
rapporto contrattuale (lo svolgimento del lavoro straordinario) che,
tuttavia, non veniva attivata- sia perché i dipendenti non hanno fornito
prova della perdita patrimoniale subita; relativamente a tale ultimo
aspetto, infatti, risulta insufficiente l’aver dimostrato di aver conseguito
gli obiettivi del progetto e, quindi, aver generato una utilità per l’ente.
Peraltro già il giudice di primo grado aveva eccepito, in tema di
ingiustificato arricchimento, che i ricorrenti non avevano dimostrato
l’attività svolta al di fuori dell’orario di lavoro e la estraneità rispetto
alle mansioni proprie dei ricorrenti (che, evidentemente, l’avrebbero
attratto nella causa del contratto a titolo di prestazione straordinaria
solo nella ipotesi di svolgimento della prestazione lavorativa al di fuori
dell’orario di lavoro); tutto ciò, peraltro, si collega perfettamente alla
vigenza del principio della onnicomprensività del trattamento retributivo
del dipendente pubblico che “lasciano emergere la chiara mancanza dei fatti
costitutivi della domanda”.
L’ente si è opposto dimostrando che la contrattazione decentrata per l’anno
di riferimento (il 2013) non prevedeva, in alcun modo, risorse variabili
destinate a finanziare lo specifico progetto obiettivo, circostanza che i
ricorrenti non sono stati in grado di contestare ed il tentativo di
dimostrare che, comunque, le risorse erano previste nella contrattazione
decentrata relativa all’anno successivo (il 2014) “è del tutto inconferente
perché è pacifico dagli stessi atti a firma del dirigente (…) che si
trattava di un progetto” incentivante sviluppatosi dal mese di aprile al
mese dicembre del 2013.
Inoltre, già il giudice di primo grado aveva ritenuto ininfluente il
riferimento alle indicazioni metodologiche formulate dall’Organismo
Indipendente di Valutazione, al fine di poter correttamente svolgere il
compito di validazione dei risultati, affidatogli dall’ordinamento interno;
l’Oiv, infatti, si era limitato a stabilire che il progetto doveva essere
preventivamente approvato e dovevano essere indicati preventivamente i
risultati ai fini dell’erogazione dell’incentivo; ma tali affermazioni non
inficiano minimamente l’esigenza che le risorse siano preventivamente
individuate in modo certo e nel rispetto dei vincoli finanziari vigenti.
D’altra parte proprio l’Oiv aveva avuto modo di precisare, richiamando un
noto e consolidato orientamento dell’Aran, che comunque al “fine
dell’erogazione delle relative spettanze, l’iter dovrà essere completato con
la verifica, a cura degli uffici competenti, (…) degli aspetti di natura finanziario-contabile, con particolare riferimento ai seguenti elementi:
1. risorse quantificate secondo criteri trasparenti e ragionevoli,
analiticamente illustrati nella relazione da allegare al contratto
decentrato;
2. risorse previste nel bilancio annuale;
3. quantificazione delle spettanze in ragione della verifica dei risultati
del progetto”.
Gli orientamenti Aran
Nel precedente assetto contrattuale, proprio per perimetrare correttamente
tali istituti incentivanti, l’Aran era intervenuto con il parere n. 499-15L
per indicare le condizioni necessarie per la corretta applicazione
dell’istituto ed aveva avuto modo di pronunciarsi su tali tipologie di
progetti e sulle risorse variabili che li finanziano, ex art. 15, comma 5,
del Ccnl 01.04.1999. In particolare venivano evidenziate alcune specificità,
tra le quali:
1. l'incremento delle risorse deve essere comunque correlato ad uno o più
obiettivi di miglioramento della performance organizzativa o di attivazione
di nuovi processi, relativi ad uno o più servizi, individuati dall'ente nel
piano della performance o in altri analoghi strumenti di pianificazione
della gestione;
2. deve trattarsi, comunque, di obiettivi che richiedano il concreto,
diretto e prevalente apporto del personale dell'ente;
3. la quantificazione dell'incremento deve essere correlata alla rilevanza
dei risultati attesi nonché al maggiore impegno richiesto al personale
coinvolto;
4. le risorse possono essere rese disponibili solo a consuntivo e sono
erogate al personale in funzione del grado di effettivo conseguimento degli
obiettivi di performance organizzativa ai quali l'incremento è stato
correlato, come risultante dalla relazione sulla performance o da altro
analogo strumento di rendicontazione adottato dall'ente.
5. quanto sopra detto non vale, tuttavia, ad escludere che gli obiettivi di
performance organizzativa, individuati per giustificare l'incremento,
possano essere anche "obiettivi di mantenimento" di risultati positivi già
conseguiti l'anno precedente, fermo restando, in ogni caso, il rispetto
delle condizioni sopra evidenziate, con particolare riferimento alla
necessità che, anche per il perseguimento dell'obiettivo di mantenimento,
continui ad essere richiesto un maggiore, prevalente e concreto impegno del
personale dell'ente alla cui incentivazione le risorse sono destinate, oltre
ad essere necessario uno specifico apparato motivazionale in grado di
spiegare, in relazione alle condizioni di contesto, le ragioni di misure di
incentivazione allo scopo di mantenere i livelli di servizio già raggiunti.
L’autorizzazione del dirigente
Un ultimo aspetto, di non secondaria importanza, è il fatto che il progetto
sia stato autorizzato dal dirigente dell’unità operativa di appartenenza dei
ricorrenti; a tal proposito l’autorizzazione del dirigente, a parte
eventuali profili di responsabilità non oggetto del giudizio, come quelle di
natura disciplinare o patrimoniale, non può in alcun modo sanare
l’inesistenza della provvista e non è neppure in grado di caratterizzare
come incentivanti attività che, comunque, rientrino nell’ambito delle
prestazioni esigibili dall’amministrazione e per le quali i ricorrenti non
azionavano la richiesta di remunerazione a titolo di lavoro straordinario,
se non in primo grado, ma senza aver dimostrato lo svolgimento della
prestazione al di fuori dell’ordinario orario di lavoro.
Il Ccnl Funzioni locali
Il Ccnl Funzioni locali 21.05.2018, in attesa di nuovi orientamenti dell’Aran,
pone gli enti di fronte al dilemma circa la possibilità di attivare i
cosiddetti “progetti-obiettivo” che nel Ccnl 01.04.1999 potevano essere
finanziati con il ricorso a risorse variabili ex art. 15, comma 5, del
richiamato Ccnl.
Il tema è di estrema attualità ed alcuni aspetti essenziali
di quanto appena esposto tornano utili per definire un corretto
inquadramento nell’ambito del più recente Ccnl delle funzioni locali
sottoscritto il 21.05.2018, nel rispetto delle prerogative
dell’amministrazione in materia di disciplina del sistema di misurazione e
valutazione della performance, prerogative previste dall’art. 7, Dlgs
150/2009, e dei confini di operatività dei due modelli di relazioni
sindacali che, in materia, hanno rilievo: il confronto e la contrattazione
integrativa; di questi aspetti sono certamente di rilievo la connessione con
la performance organizzativa, con il piano della performance e con la
relazione sulla performance; aspetti già trattati in un apposito contributo
sulle pagine di questa rivista.
Infine, è utile segnalare come anche le linee guida n. 1/2017 (“Linee
guida per il Piano della performance”) del Dipartimento della Funzione
Pubblica specificano che, tra le tipologie di unità di riferimento della
rilevazione della performance organizzativa, rientrano anche quelle “iniziative,
che possono essere identificate come progetti e sono caratterizzate da un
inizio e una fine (a differenza delle attività ricorrenti)”, che “promuovono
innovazioni rilevanti, che potranno modificare e migliorare nel tempo il
portafoglio delle attività ricorrenti e ripetute e rivestono, quindi, una
rilevanza strategica”
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.04.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Gli incarichi spettano al sindaco. Sua la competenza a reclutare
dirigenti a contratto. Corte conti Molise: è una
delle poche attribuzioni gestionali assegnate al primo cittadino.
Spetta in via esclusiva al sindaco la competenza ad incaricare i dirigenti a
contratto, mentre sull'apparato amministrativo incombe il dovere di
compiere l'istruttoria preventiva, la sottoscrizione del contratto e il
compimento degli adempimenti successivi.
La
sentenza 08.04.2019 n. 10
della Corte dei conti, sezione giurisdizionale Molise fornisce indicazioni
molto utili sul piano operativo sulla complessa procedura intesa al
reclutamento di dirigenti a contratto ai sensi dell' articolo 110 del dlgs
267/2000.
Competenze del sindaco.
La sentenza ha escluso l'illegittimità del
conferimento dell'incarico, e di conseguenza dell'illiceità dell'esborso
connesso al compenso erogato, derivante dalla circostanza che la nomina sia
stata disposta con decreto del sindaco.
I giudici della sezione Molise hanno avuto facilmente modo di dimostrare la
legittimità del decreto sindacale di nomina, richiamando la previsione
piuttosto chiara dell' articolo 50, comma 10, del dlgs 267/2000: «Il sindaco
e il presidente della provincia nominano i responsabili degli uffici e dei
servizi, attribuiscono e definiscono gli incarichi dirigenziali e quelli di
collaborazione esterna secondo le modalità ed i criteri stabiliti dagli
articoli 109 e 110, nonché dai rispettivi statuti e regolamenti comunali e
provinciali».
Si tratta, dunque, di una delle poche competenze in qualche misura
gestionali che l'ordinamento degli enti locali attribuisce direttamente al
sindaco, invece che a dirigenza giunta o consiglio.
La sentenza evidenzia piuttosto chiaramente che si tratta di una competenza
gestionale vera e propria: infatti, i giudici considerano possibile
assimilare in qualche misura il decreto sindacale ad una determinazione
dirigenziale, perché l' attribuzione di un incarico dirigenziale a contratto
comporta anche l'impegno di spesa.
Il sindaco, dunque, nell'adottare il decreto di incarico, non solo può, ma
anche deve impegnare contestualmente la spesa necessaria, per finanziare la
connessa retribuzione.
Competenze dell'apparato.
Se al sindaco, quindi, compete incaricare con
proprio decreto il dirigente a contratto, all'apparato amministrativo
spetta svolgere tutta l'attività istruttoria connessa, che va dall'elaborazione dell'avviso pubblico alla gestione della selezione, all'espressione di avvisi e pareri sulla legittima adozione dell' iniziativa.
Secondo la sentenza, non necessariamente occorrono i pareri di regolarità
amministrativa e contabile, previsti dall'articolo 49 del Tuel, il quale li
impone solo per le proposte di deliberazione di giunta e consiglio.
Tuttavia, la pronuncia della magistratura contabile ritiene che non sia un
vizio di legittimità nemmeno l'assenza del visto di regolarità contabile
attestante la copertura finanziaria: esso, infatti, si limita ad attestare
l'effettiva disponibilità in bilancio delle somme, senza potersi esprimere
in alcun modo sulla legittimità dell' atto.
Tocca ancora all'apparato (sulla base dell'organizzazione interna di
ciascun ente) adottare, poi, tutti gli atti attuativi dell'incarico.
In particolare, la Sezione Molise avverte che compete al dirigente o
responsabile preposto sottoscrivere il contratto che regola l'incarico
assegnato dal sindaco, così come compete ovviamente all'ufficio stipendi
erogare materialmente il compenso. Né il decreto sindacale di incarico può
considerarsi illegittimo se successivamente il contratto non venga
sottoscritto.
È, quindi, sia nella fase istruttoria preliminare, sia nella fase attuativa
successiva, che eventualmente l'apparato amministrativo può e deve
evidenziare vizi giuridico-contabili. Nel caso di specie, la Procura
regionale aveva attivato l'azione di responsabilità perché i dirigenti a
contratto erano stati assunti pur avendo il comune violato il patto di
stabilità: ma, di tale violazione il sindaco ebbe cognizione sei mesi dopo
l'adozione dei decreti, senza che mai prima né revisori dei conti, né
ragioniere o apparato amministrativo avessero mai espresso in atti problemi
connessi al rispetto del patto.
Per questa ragione, la sentenza ha assolto il sindaco, lasciando intendere
sullo sfondo che eventuali responsabilità erariali andrebbero ricercati non
in capo al primo cittadino, ma alla compagine amministrativa: era essa a
dover avvertire il sindaco della condizione finanziaria e comunque a tenerne
conto nel momento in cui dovesse stipulare il contratto o erogare lo
stipendio
(articolo ItaliaOggi del 19.04.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: Pluralità di condotte lesive e intento persecutorio.
È configurabile il “mobbing” lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo,
integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello
soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo è onere del
lavoratore che lo denunci e che chieda di essere risarcito provare
l’esistenza di tale danno, ed il nesso causale con il contesto di lavoro
(respinta, nella specie, la richiesta di risarcimento avanzata da un
dipendente, di un Caf; mancava, infatti, la prova che le singole condotte
tenute dalla struttura avessero avuto come obiettivo quello di emarginare e
ledere il lavoratore) (Corte di
Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 05.04.2019 n. 9664
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
---------------
6.3. La sentenza della Corte territoriale non è incorsa
infatti nella
violazione delle disposizioni in tema di distribuzione dell'onere della
prova (2697 cod. civ.).
Premesso che è configurabile il "mobbing"
lavorativo ove ricorra l'elemento obiettivo, integrato da una pluralità di
comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo
dell'intendimento persecutorio del datore medesimo è onere del
lavoratore che lo denunci e che chieda di essere risarcito provare
l'esistenza di tale danno, ed il nesso causale con il contesto di lavoro
(cfr. Cass. 06/08/2014 n. 17698, 21/05/2018 n. 12437).
La Corte
territoriale esattamente applicando tale regola e sulla base delle
allegazioni e delle prove acquisite in giudizio ha escluso che fosse stata
offerta la prova che le singole condotte denunciate fossero connotate
da un'emarginazione o di un intento persecutorio del datore di lavoro,
nella sostanza escludendo che il comportamento datoriale sia stato
caratterizzato da iniziative che potessero ledere i diritti fondamentali
del dipendente mediante l'adozione di condizioni lavorative
"stressogene". |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Non
autorizzazione stipula CCDI.
Domanda
Può l’organo di governo non condividere l’ipotesi di Contratto integrativo
e, quindi, non autorizzare il presidente della delegazione trattante di
parte pubblica alla sottoscrizione del contratto definitivo?
Risposta
Il CCNL prevede una precisa procedura per la stipulazione del contratto
decentrato integrativo, che si articola nelle fasi sotto riportate:
• Nomina delegazione di parte pubblica
• Direttive dell’organo politico: spetta al competente organo di
direzione politica (giunta o altro analogo organo, in relazione alla
tipologia degli enti del comparto), necessariamente ed in via preventiva, la
formulazione delle direttive alla delegazione trattante, per definirne gli
obiettivi strategici ed i vincoli anche di ordine finanziario.
• Prima convocazione per l’avvio del negoziato
• Svolgimento delle trattative
• Firma dell’Ipotesi di contratto decentrato integrativo
• Verifica della compatibilità degli oneri finanziari: tale
controllo, di competenza dell’organo di revisione, è finalizzato non solo
alla verifica della compatibilità degli oneri delle clausole del contratto
decentrato con i vincoli posti dal contratto nazionale e dal bilancio
dell’ente, ma anche del rispetto delle disposizioni inderogabili di norme di
legge che incidono sulla misura e sulla corresponsione dei trattamenti
accessori.
• Esame dell’organo di direzione politica: Il presidente della
delegazione di parte pubblica trasmette l’Ipotesi di accordo e le relative
relazioni (illustrativa e tecnico-finanziaria), corredate del parere
positivo dell’organo di controllo, all’organo di direzione politica per la
necessaria verifica, sulla base di una propria e autonoma valutazione di
merito, di alcuni specifici contenuti dell’ipotesi di contratto integrativo:
a) corrispondenza alle indicazioni delle direttive, con particolare
riferimento al raggiungimento dei risultati ed obiettivi ivi espressamente
indicati;
b) conformità dei contenuti contrattuali anche agli obiettivi ed ai
programmi generali dell’ente;
c) convergenza con le linee di politica sindacale e del personale perseguite
dall’ente;
d) utilizzo efficiente, efficace ed economico delle risorse disponibili;
e) adeguamento del contratto integrativo alla soluzione di problemi
organizzativi e funzionali dell’ente;
f) coerenza dei costi del contratto integrativo con le indicazioni di
carattere finanziario contenute nelle direttive e compatibilità degli stessi
con i vincoli di bilancio e con le altre norme contrattuali in materia di
quantificazione delle risorse;
g) rispetto delle disposizioni inderogabili che incidono sulla misura e
sulla corresponsione dei trattamenti accessori;
• Sottoscrizione definitiva del contratto decentrato integrativo
• Adempimenti successivi alla sottoscrizione definitiva: invio del
contratto decentrato sottoscritto definitivamente all’ARAN e al CNEL.
Quindi, di fatto, poiché l’ipotesi prima di diventare “definitiva”
torna all’organo di governo, sarà sempre possibile, da parte di quest’ultimo
indicare di non procedere alla stipula. Ovviamente, dovranno essere
individuate precise motivazioni nel rispetto dei principi di correttezza e
buona fede, più volt invocati dal CCNL 21.05.2018 (04.04.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Danno
erariale al sindaco che dà la posizione organizzativa prima del
pensionamento.
Responsabilità contabile al sindaco che abbia nominato una posizione
organizzativa prima del suo pensionamento. In questo caso il danno erariale
è equivalente al totale delle somme maggiorate, pagate sulla pensione del
dipendente in quiescenza, fino alla data del rinvio a giudizio. Spetterà,
invece, all'Inps attivare le eventuali procedure per la riduzione della
pensione futura, data l'attribuzione della maggiorazione stipendiale
avvenuta in modo illegittimo e illecito.
Queste sono le conclusioni della Corte dei conti, sezione giurisdizionale,
dell'Umbria (sentenza 03.04.2019 n. 21).
La vicenda
In un ente privo di posizioni dirigenziali, il sindaco aveva conferito a una
dipendente la posizione organizzativa e, solo dopo quattro giorni dal
conferimento dell'incarico, aveva ricevuto dalla medesima la domanda di
collocamento a riposo. Il pensionamento veniva successivamente disposto,
grazie ai requisiti posseduti dalla richiedente, anche se a soli undici
giorni dalla sua nomina a responsabile del servizio.
La Procura contabile ha rinviato a giudizio il sindaco per il danno erariale
procurato alla pubblica amministrazione per aver attuato una scelta
arbitraria, mediante assegnazione della posizione organizzativa alla
dipendente, permettendo alla medesima di fruire di un maggior importo del
suo trattamento pensionistico.
L'importo della pensione della dipendente, infatti, è stato calcolato
comprendendo una indennità di posizione parametrata non al periodo di
esercizio effettivo della responsabilità del servizio ma su base annua. In
altri termini il Primo cittadino, con dolo o almeno colpa grave, non avrebbe
fatto gli interessi dell'ente ma esclusivamente procurato un vantaggio alla
dipendente per la maggiore pensione ricevuta.
Il vantaggio pensionistico della dipendente, pari a circa 3mila euro annui,
corrisponde al danno erariale che andrà pertanto moltiplicato per gli anni
di indebita fruizione. Inoltre, in considerazione della certezza dei
pagamenti per gli anni successivi, dalla data del rinvio a giudizio, la
Procura ha anche proceduto alla quantificazione del maggior danno stimato
sulla vita media della pensionata.
Il sindaco si è difeso da una lato in quanto a suo dire la nomina sarebbe
avvenuta a seguito della richiesta di esonero della precedente titolare di
posizione organizzativa per motivi personali, mentre dall'altro lato ha
stigmatizzato la posizione della Procura che non avrebbe tenuto conto delle
responsabilità specifiche del segretario comunale e del responsabile del
personale. Il primo per aver inoltrato al sindaco la richiesta di dimissioni
immediate della precedente titolare di posizione organizzativa, con obbligo
di procedere all'assegnazione della titolarità dell'ufficio ad altra
dipendente con i requisiti previsti dal contratto, essendo all'oscuro della
successiva sua decisione di essere collocata a riposo. Il secondo per aver
predisposto la determinazione di collocamento a riposo della dipendente
senza alcuna informazione preventiva sui requisiti pensionistici posseduti
dalla medesima.
La decisione del collegio contabile
Le eccezioni del sindaco non sono state considerate meritevoli di tutela da
parte del collegio contabile in quanto, negli enti privi di dirigenti, la
nomina dei responsabili dei servizi spetta in via esclusiva al sindaco, cui
è automaticamente associata, per disposizione contrattuale, la posizione
organizzativa con relativa retribuzione di posizione.
In merito alla richiesta di dimissioni presentate dalla precedente titolare
di posizione organizzativa, il sindaco non ha tenuto conto della sua
naturale scadenza che, non per caso, coincideva con la data della successiva
richiesta della dipendente nominata di essere collocata a riposo. In questo
caso, stante il breve periodo di vacanza del posto di responsabile del
servizio, il sindaco avrebbe ben potuto attribuire ad interim le funzioni ad
altra posizione organizzativa.
Sulla quantificazione del danno erariale, oltre al potere riduttivo
spettante alla Corte per la compartecipazione di altri soggetti che hanno
assunto un ruolo passivo nella vicenda, l'ulteriore danno richiesto dalla
Procura, sul calcolo del valore attuale degli esborsi futuri basati sulla
vita media della dipendente, non può trovare accoglimento, non essendosi il
danno ancora prodotto.
Tuttavia, al fine di evitare ulteriori danni alle finanze pubbliche,
l'illegittimità e l'illiceità dell'attribuzione della posizione
organizzativa sarà comunicata all'Inpc che opererà le dovute valutazioni
sulla pensione reale dovuta alla dipendente
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 07.05.2019).
---------------
SENTENZA
3. Nel merito, la responsabilità del convenuto va affermata in relazione
all’adozione, realizzata a propria firma e nella sua qualità di vertice
dell’Amministrazione comunale, dei provvedimenti di sostituzione della
dott.ssa Ru. con la dott.ssa Vo., di cui ai decreti n. 5 e n. 6 del
20.12.2011 (rispettivamente aventi ad oggetto “revoca dell’incarico di
responsabile del servizio UMD 7 e conferimento incarico responsabile del
servizio UMD 7 anno 2011” e “pesatura posizione organizzativa UMD 7”), per
conferire a quest’ultima, per appena otto giorni, la posizione organizzativa
comprensiva della relativa indennità pensionabile da durare per l’intero
periodo di corresponsione del trattamento pensionistico.
La competenza all’adozione di questi atti, concernenti la nomina dei
responsabili dei servizi e degli uffici e all’attribuzione degli incarichi
dirigenziali, è chiaramente attribuita al Sindaco (art. 50, comma 10, del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267-TUEL) e tale disposizione di
legge risulta, peraltro, espressamente richiamata nei due decreti sindacali
(numero 5 e numero 6) citati.
Né possono valere, in contrario avviso, le giustificazioni addotte in ordine
ad una asserita “autorevolezza” e “solennità” della richiesta avanzata per
il tramite del segretario comunale che avrebbe preceduto la decisione finale
di competenza del sindaco Buschi, ovvero le analoghe giustificazioni in
ordine ai successivi passaggi amministrativi conseguenti alle decisioni da
costui assunte.
La questione della legittimità del conferimento avvenuto assume, dunque, un
rilievo del tutto particolare rispetto alla condotta gravemente colposa del
convenuto. Infatti, l’incarico originariamente conferito sarebbe scaduto
naturalmente il 31.12.2011 e non vi era pertanto alcuna reale urgenza
di provvedere alla sostituzione fino a tale data.
Inoltre, come sottolineato dalla Procura, nell’ipotesi dell’asserita urgenza
egli ben avrebbe potuto affidare l’incarico ad interim, per i pochi giorni
restanti fino al 31.12.2011, a uno degli altri soggetti che
ricoprivano posizioni organizzative, senza che si addivenisse all’esborso
dell’ulteriore indennità da parte del Comune di San Giustino.
Viceversa, la condotta del sindaco Bu. si è rivelata essere preordinata
alla costituzione di un trattamento stipendiale più favorevole nei confronti
della dott.ssa Vo., con conseguenze permanenti sul connesso trattamento
pensionistico e con la realizzazione di un danno reale e concreto a carico
dell’INPS, come quantificato nella parte dispositiva della presente
sentenza.
4. Il periodo per il quale calcolare il danno va dall’inizio dell’anno 2013
fino a tutto il novembre 2018, per un importo pari ad € 17.728,53 (2.996,54
moltiplicato per sei anni, meno un mese), che il Collegio ritiene congruo
abbattere del cinquanta per cento, considerando che l’azione del sindaco,
determinante l’attuale e concreto pregiudizio danno patrimoniale ai danni
dell’istituto di previdenza -tuttora protratto nel tempo- sia stata
agevolata nel percorso amministrativo anche dalla mancata attivazione di
altri soggetti facenti parte dell’apparato amministrativo comunale, in fase
di controllo, ovvero esterni ad esso, in fase di esecuzione dei
provvedimenti in questione.
In questi limiti può provvedere il Collegio, non potendo invero disporre
l’estensione del contraddittorio nel presente giudizio, come richiesto dal
convenuto (art. 83 CGC).
5. Con riguardo alla quantificazione del danno va altresì precisato che non
può trovare accoglimento la richiesta –avanzata da parte attrice– della
condanna per il danno relativo alle prestazioni economiche del trattamento
pensionistico che troveranno realizzazione successiva.
Tale richiesta, riguardando la previsione di un danno futuro, esula dalla
competenza di questa Sezione a conoscere della domanda relativa ad un danno
concreto ed attuale. Come risulta dalla giurisprudenza contabile e come
ricordato anche dalla Corte di Cassazione, questa Corte, in sede
giurisdizionale, non ha la titolarità di poteri di prevenzione del danno
erariale: “né d’altra parte alla Corte dei conti in sede giurisdizionale è
affidato il compito di prevenire danni erariali non ancora prodotti” (Cass.,
Sez. Un., 22.12.2009, n. 27092).
Nel respingere tale richiesta, tuttavia questo Collegio ritiene di rimettere
gli atti alla Amministrazione previdenziale interessata, che opererà le
dovute valutazioni.
6. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come
in dispositivo.
P.Q.M.
la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale regionale per l’Umbria,
disattesa ogni contraria istanza, eccezione e deduzione, definitivamente
pronunciando, condanna Bu.Fa. al pagamento della somma di € 8.864,76
(euro ottomilaottocentosessantaquattro,76) in favore dell’INPS, più
rivalutazione monetaria con decorrenza dalle date di pagamento dei singoli
ratei di pensione e, sul totale risultante, interessi dalla data di
pubblicazione della sentenza.
Condanna altresì il convenuto al pagamento delle spese di giudizio, che si
liquidano in € 122,33 (centoventidue/33).
Manda alla Segreteria per la trasmissione della presente sentenza alla
competente sede INPS e per tutti gli ulteriori adempimenti. |
PUBBLICO
IMPIEGO: Danno
erariale per dirigente e funzionario che abbelliscono il conto dei residui
attivi.
Il dirigente finanziario e il funzionario contabile che hanno alterato la
situazione contabile reale attraverso una sovrastima dei residui attivi
mediante opportune «correzioni», per quanto spinti dall'organo di indirizzo
politico, contribuiscono al danno erariale procurato all'ente pubblico.
L'alterazione delle poste di bilancio «corrette» avendo lo scopo di
dissimulare il disavanzo, oltre a indurre in errore l'organo di indirizzo
politico che approva il bilancio, incide sulle scelte gestionali e impedisce
l'adozione di misure di risanamento, ingannando allo stesso tempo i terzi,
creditori, dipendenti, organi di controllo sulla reale situazione
finanziaria dell'ente.
Sono le indicazioni contenute nella
sentenza 02.04.2019 n. 140 della Corte dei conti, Sezione
giurisdizionale Toscana.
La vicenda
A seguito dell'indagine penale che ha condotto il dirigente dell'area
contabile e il funzionario responsabile dell'ufficio del bilancio al
patteggiamento della pena per falso ideologico, la Procura contabile ha
convenuto in giudizio entrambi per dichiarare il danno erariale prodotto
alle casse comunali avendo dissimulato la reale situazione finanziaria
dell'ente. Il Pm contabile ha, infatti, contestato ai convenuti di aver
dolosamente coperto lo stato di deficit finanziario dell'ente attraverso la
correzione contabile dei residui attivi, rispetto alla loro reale
consistenza.
Questo ha permesso di creare un consistente deficit finanziario mediante
l'omesso versamento di contributi previdenziali Inpdap, irregolari
stabilizzazioni di personale a tempo determinato, indebita corresponsione di
somme integrative. Entrambi i convenuti si sono difesi in via principale
denunciando la prescrizione del danno erariale, essendo trascorsi i cinque
anni previsti dalla normativa rispetto all'invito a dedurre.
Si sono ritenuti, inoltre, estranei al danno erariale, in quanto
l'alterazione dei dati contabili era avvenuta a causa delle pressioni
esercitate dall'organo di indirizzo politico nonché del direttore
amministrativo, cui avrebbero dovuto essere addebitate in via esclusiva le
responsabilità contabili, per aver omesso di attivare procedure idonee per
risanare i conti pur conoscendo l'entità del disavanzo finanziario
dissimulato.
Il funzionario, in via subordinata ha chiesto che fosse considerata una
diversa ripartizione del danno erariale, in funzione del diverso ruolo
decisionale.
La conferma del danno erariale
In merito alla prescrizione, il Collegio contabile ha disatteso l'eccezione
in quanto, per giurisprudenza consolidata, in presenza di dolo accertato in
sede penale, la prescrizione decorre solo a partire dalla data di richiesta
di rinvio a giudizio in sede penale e , a quella data, la prescrizione non
era maturata.
La condanna dei convenuti al danno erariale deve essere confermata in quanto
esecutori materiali di un piano ideato e promosso dal rettore e dal
direttore amministrativo, per presentare, a fronte del grave disavanzo, un
bilancio che risultasse in pareggio o in attivo. Le falsificazioni commesse
dai convenuti consistevano nel "correggere" le poste di bilancio,
proprio allo scopo di occultare il grave disavanzo e indurre in errore il
consiglio di amministrazione dell'Università che approvava i bilanci,
confidando nell'esattezza dei dati.
Il collegio contabile ha ricordato che il bilancio è lo strumento per
determinare il reddito dell'esercizio e la situazione patrimoniale e
finanziaria dell'ente, con la conseguenza che la sua non veridicità, oltre a
ingannare i terzi, creditori, dipendenti, organi di controllo eccetera,
incide sulle scelte gestionali e impedisce l'adozione di misure di
risanamento.
Il danno, calcolato in via equitativa, deve tuttavia essere posto in misura
prevalente a carico del dirigente e in minore misura a carico del
funzionario in considerazione del diverso ruolo rivestito
nell'amministrazione e alla posizione di inferiorità gerarchica
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.05.2019).
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SENTENZA
1. In via preliminare deve essere esaminata l’eccezione di prescrizione
sollevata dai convenuti.
L’art. 1, comma 2, L. 20/1994 prevede che la prescrizione decorre dalla data
in cui si è verificato il fatto dannoso “ovvero in caso di occultamento
doloso del danno, dalla data della sua scoperta”. Secondo la giurisprudenza
l’attività intenzionale di occultamento è rinvenibile laddove il
responsabile si sia adoperato per impedire la conoscibilità del fatto
dannoso (sez. II app., 11.10.2018 n. 588; sez. II app., 03.10.2017 n. 655).
Quanto alla nozione di “scoperta”, si è affermato che “non è sufficiente la
conoscenza o conoscibilità ipotetica di un illecito, ma occorre la
conclusione del processo di valutazione istruttoria degli elementi fattuali,
con la qualificazione giuridica degli stessi e l’individuazione dei soggetti
cui le medesime condotte sono causalmente riconducibili” (sez. II app.,
19.10.2018 n. 5979).
La conoscenza del fatto, quindi, si identifica con la conoscibilità
giuridica, non con la mera conoscenza, da parte del soggetto danneggiato,
dell’illecito (sez. I app., 14.04.2016 n. 149).
In conseguenza di tale principio, secondo la giurisprudenza prevalente, i
fatti dannosi aventi rilevanza penale assumono una concreta qualificazione
giuridica, tale da potersi dire “scoperti”, solo al momento della richiesta
di rinvio a giudizio in sede penale (da ultimo: sez. II app., 04.09.2018 n.
523; sez. III app., 06.10.2016 n. 514; sez. III app., 13.06.2016 n. 228; sez.
app. Sicilia, 01.07.2016 n. 85; sez. app. Sicilia, 04.07.2016 n. 94), in quanto
“solo dal momento del rinvio a giudizio è maturata l’esatta conoscenza della
condotta illecita in tutta la sua gravità e articolazione” (sez. III app.,
30.12.2016 n. 1462).
Nella fattispecie, i convenuti sono stati condannati per reati di falso per
avere falsamente attestato delle poste contabili al fine di far apparire in
pareggio o in attivo il bilancio dell’Ateneo. Tale condotta integra senza
ombra di dubbio un occultamento doloso del danno. La data della scoperta dei
fatti, nella loro completezza e nell’accezione fatta propria dalla
giurisprudenza succitata, deve collocarsi nella data della richiesta di
rinvio a giudizio del 29.06.2012.
A questo proposito deve aversi riguardo al fatto che dalle indagini penali è
scaturito un processo, per i reati commessi nell’ambito della gestione
amministrativa dell’Università nel periodo 2003-2008, con 19 capi di
imputazione, nell’ambito del quale sono stati rinviati a giudizio i vertici
amministrativi dell’ente in quel periodo e, in particolare i Rettori, i
Direttori amministrativi, i componenti del Collegio dei Revisori dei conti,
il responsabile dell’Ufficio Economato, oltre ad alcuni soggetti privati,
per un totale di 16 imputati, tra i quali gli odierni convenuti.
La condotta di In. e Sa. si inquadra, così, in un più ampio
fenomeno di mala gestio, con la conseguenza che solo dal momento del
rinvio a giudizio, al termine di complesse indagini penali, si è raggiunto
il corretto inquadramento della fattispecie dannosa e la quantificazione del
danno.
Come si legge nella sentenza del Tribunale di Siena n. 746/2016 che
ha definito in primo grado il processo penale: “Le indagini (prima) ed il
processo (poi) sono stati caratterizzati da una forte eterogeneità del loro
oggetto, potendosi individuare tre diversi “filoni”, assolutamente distinti
tra loro: si tratta sostanzialmente di tre processi autonomi, celebrati in
un simultaneus processus, aspetto questo che, se da un lato ha consentito al
Tribunale di avere un quadro completo della opaca e dissennata gestione
amministrativa di UNISI, dall’altro ha comportato la celebrazione di un
complesso ed articolato dibattimento e di una istruttoria caratterizzata da
una inevitabile frammentarietà e disomogeneità”.
Il completo disvelamento dei fatti, quindi, non può farsi risalire né al
26.09.2008, data di presentazione alla Procura della Repubblica dell’esposto
del Rettore e del Direttore Amministrativo dell’Università in cui si
denunciavano, come si legge nella sentenza penale, i problemi finanziari
dell’Università e falsità di alcune soltanto delle voci di bilancio, né al
07.04.2009, data in cui l’Ateneo ha inviato alla Procura della Repubblica e
alla Procura Regionale della Corte dei conti la relazione finale della
Commissione Ma. “sulla indagine amministrativo-disciplinare circa
l’accertamento della crisi finanziaria dell’Università degli studi di
Siena”.
E’ vero, infatti, che tale relazione contiene la confessione dei convenuti,
come rilevato dalle difese, ma è vero anche che il giudice penale ha
ritenuto non attendibili le dichiarazioni di In. e Sa. per una
serie di ragioni tra le quali il fatto che: “i dichiaranti non hanno
riferito con immediatezza tutti i fatti e le circostanze di cui erano a
conoscenza (tacendo quelli più importanti)”.
Solo al termine di “lunghe e complesse indagini da parte della Procura della
Repubblica”, sono stati accertati il reale passivo dell’Università, le cause
del dissesto finanziario, la falsità dei bilanci, il ruolo assunto dai
diversi imputati, la qualificazione giuridica dei fatti e le
corresponsabilità.
L’eccezione di prescrizione è, quindi, infondata in quanto l’invito a
dedurre è stato notificato nell’agosto del 2017, entro la data di scadenza
del termine quinquennale di prescrizione a decorrere dalla data della
richiesta di rinvio a giudizio.
2. Venendo al merito del giudizio, pacifico il rapporto di servizio in
quanto i convenuti, all’epoca dei fatti, erano, dipendenti in qualità,
rispettivamente, di direttore dell’area contabile e di responsabile
dell’ufficio contabile dell’Amministrazione danneggiata, ritiene il Collegio
che sussista piena prova della condotta illecita di In. e Sa..
Il Tribunale di Siena, Ufficio del G.I.P., con sentenza del n. 103 del
17.05.2013, ha applicato, ai sensi dell’art. 444 e ss. c.p.p., a Interi
Salvatore la pena di diciotto mesi e a Sa.Mo. la pena di
quattordici mesi di reclusione per reati di falso ideologico in atto
pubblico commessi in concorso con il Rettore e il Direttore Amministrativo
dell’Università di Siena.
Più in particolare, i convenuti, quali esecutori materiali di un piano
ideato e promosso dal Rettore e dal Direttore Amministrativo, per
presentare, a fronte del grave disavanzo, un bilancio che risultasse in
pareggio o in attivo, o in leggero disavanzo, attestavano falsamente nei
bilanci consuntivi 2003, 2004, 2005, 2006, 2007 dati contabili non
corrispondenti al vero, facendo risultare residui attivi in parte
inesistenti, attraverso la correzione di poste in bilancio, inducendo così
in errore il Consiglio di Amministrazione che, sul presupposto
dell’esattezza dei dati, approvava il bilancio.
La giurisprudenza ritiene che, ferma restando la potestà del giudice di
procedere all’accertamento dei fatti in modo difforme da quello contenuto
nella pronuncia ex art. 444 c.p.p., la sentenza di patteggiamento assuma un
valore probatorio qualificato, superabile solo attraverso specifiche prove
contrarie (sez. II app., 30.07.2018 n. 471; sez. I app., 05.02.2018 n. 35;
sez. II app. 26.05.2016 n. 574; sez. Veneto, 11.09.2018 n. 140; sez.
Toscana, 25.06.2018 n. 167) che, nella specie, non sono state offerte. In
sede penale, peraltro, i convenuti hanno confessato di avere posto in essere
la condotta illecita e, in questa sede, non hanno mosso contestazioni in
merito.
3. Sussiste anche il nesso causale tra la condotta illecita e il danno.
Secondo i convenuti il danno sarebbe stato causato unicamente dalle scelte
dei vertici dell’Università, che avrebbero omesso di assumere iniziative per
ridurre l’indebitamento e adottato politiche di sperpero delle risorse
pubbliche, e non da In. e Sa. i quali lo avrebbero soltanto
parzialmente coperto. L’eccezione è destituita di fondamento.
Le falsificazioni commesse dai convenuti consistevano nel “correggere” le
poste di bilancio, proprio allo scopo di occultare il grave disavanzo e ad
indurre in errore il Consiglio di Amministrazione dell’Università che
approvava i bilanci, confidando nell’esattezza dei dati. Poiché il bilancio
è lo strumento per determinare il reddito dell’esercizio e la situazione
patrimoniale e finanziaria dell’ente, è evidente che la sua non veridicità,
oltre ad ingannare i terzi, creditori, dipendenti, organi di controllo ecc.,
incide sulle scelte gestionali e impedisce l’adozione di misure di
risanamento. I convenuti, quindi, con la loro condotta hanno contribuito in
maniera diretta a causare l’ingente danno subito dall’Università.
4. La Procura ha chiesto la condanna dei convenuti a risarcire il danno
patrimoniale e il danno di immagine causato all’Università.
La domanda di condanna al risarcimento del danno di immagine è
inammissibile.
L’art. 17, comma 30-ter, d.l. 78/2009, conv. in l. 102/2009 stabilisce che
l’azione per il risarcimento del danno di immagine può essere esercitata
solo nei casi e nei modi previsti dall’art. 7 l. 97/2001, ossia per i
delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione previsti
dal Capo I del Titolo II del Libro secondo del codice penale, accertati con
sentenza penale irrevocabile di condanna.
Le Sezioni Riunite hanno risolto i
contrasti interpretativi sorti nell’ambito della giurisprudenza contabile
affermando che l’art. 17, comma 30-ter, va inteso nel senso che le Procure
della Corte dei conti possono esercitare l’azione per il risarcimento del
danno all’immagine solo per i delitti di cui al Capo I del Titolo II del
Libro secondo del codice penale (SS.RR., 19.03.2015 n. 8/QM). L’art. 1, comma
1-sexies, l. 20/1994, inserito dall’art. 1, comma 62, l. 190/2012, in tema
di quantificazione del danno all’immagine della Pubblica Amministrazione, fa
anch’esso riferimento al danno derivante dalla commissione di un reato
contro la stessa Pubblica Amministrazione accertato con sentenza passata in
giudicato.
In questo quadro normativo è sopraggiunto il D.Lgs. 26.08.2016 n.
174 il quale all’art. 4, comma 1, lett. g) dell’Allegato 3 al Codice di
Giustizia Contabile ha abrogato l’art. 7 l. 97/2001 e all’art. 4, comma 1,
lett. h), il primo periodo dell’art. 17, comma 30-ter, d.l. 78/2009. All’art.
51, comma 7, infine, il Codice di Giustizia Contabile stabilisce che la
sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti
delle Pubbliche Amministrazioni per i delitti commessi ai danni delle
stesse, è comunicata al Procuratore Regionale della Corte dei conti affinché
promuova l’eventuale azione di responsabilità.
Parte della giurisprudenza contabile ha affermato che, a seguito delle
predette abrogazioni e dell’introduzione dell’art. 51, comma 7, C.G.C. i
presupposti dell’azione per danno all’immagine sarebbero stati ridefiniti
con la conseguenza che le condizioni per promuovere l’azione sarebbero che
si tratti di un reato contro la Pubblica Amministrazione, e non più soltanto
dei delitti di cui al Capo I del Titolo II del Libro secondo del codice
penale, oltre che tale reato sia stato accertato con sentenza passata in
giudicato (sez. app. Sicilia, 28.11.2016 n. 183; sez. Emilia Romagna,
05.01.2018 n. 7; sez. Veneto, 12.9.2017 n. 101).
Questa sezione ha ritenuto,
invece, con orientamento dal quale non vi è motivo di discostarsi che, pur a
seguito dell’ingresso in vigore del D.Lgs. 174/2016, siano tuttora vigenti
le limitazioni al perseguimento del risarcimento del danno di immagine già
previste dall’art. 17, comma 30-ter, d.l. 78/2009 e art. 7 l. 97/2001 (sez.
Toscana, 10.07.2018 n. 174, con ampia motivazione cui si rinvia). Nella
specie sono assenti entrambe le condizioni di proponibilità della domanda di
risarcimento del danno di immagine. I convenuti, infatti, sono stati
condannati con sentenza del Tribunale di Siena-ufficio del G.I.P., n. 103
del 17.05.2013 per i delitti di cui all’art. 479 in relazione all’art. 476
comma 2, c.p. i quali non sono ricompresi nel Capo I del Titolo II del Libro
secondo del codice penale. La sentenza prodotta, inoltre, è priva del timbro
di irrevocabilità, cosicché non vi è nemmeno la prova che la stessa sia
irrevocabile.
5. Il danno patrimoniale complessivo subito dall’Università di Siena è stato
quantificato dalla Guardia di Finanza in € 63.857.125,41 (per debiti fiscali
e previdenziali e relativi interessi e sanzioni, irregolari stabilizzazioni
di personale a tempo determinato, indebita corresponsione di somme
integrative ai Collaboratori ed Esperti Linguistici).
La condotta illecita
dei convenuti, come sopra esposto, ha contribuito a causare tale danno e,
visto il ruolo della condotta dei convenuti nel programma delittuoso, il
Collegio reputa equo, ex art. 1226 c.c., quantificare il danno loro
addebitabile in complessivi € 400.000,00, in solido, con ripartizione
interna di € 300.000,00 a carico di In.Sa. e di € 100.000,00 a
carico di Sa.Mo. in considerazione del diverso ruolo rivestito
nell’Amministrazione e alla posizione di inferiorità gerarchica di Sa..
Sull’importo per cui è condanna, già comprensivo di
rivalutazione, dovranno essere corrisposti gli interessi legali dal deposito
della sentenza al soddisfo.
6.Le spese di giudizio, da suddividersi in quote uguali tra i convenuti,
seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
la Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Toscana, in
composizione collegiale, definitivamente pronunciando:
RESPINGE l’eccezione di prescrizione sollevata da entrambi i convenuti;
DICHIARA inammissibile la domanda di condanna al risarcimento del danno all’
immagine dell’Università;
CONDANNA In.Sa. e Sa.Mo. al risarcimento del danno
patrimoniale in favore dell’Università degli studi di Siena della somma di €
400.000,00 in solido, con ripartizione interna di € 300.00,00 a In.Sa. e di € 100.000,00 a Sa.Mo., inclusa rivalutazione
monetaria, oltre interessi legali dal deposito della sentenza al soddisfo;
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano in € 324,66
(Euro trecentoventiquattro/66). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
PERSONALE/ Programmazione, conta la
spesa. La dotazione organica coincide con il budget massimo.
Le recenti delibere della Corte conti riconoscono più
flessibilità agli enti.
Programmazione del personale in base alla spesa.
Sono sempre più numerose le deliberazioni della Corte dei
conti che ribadiscono il venire meno del tradizionale
concetto di dotazione organica a seguito dell'emanazione del
dlgs n. 75/2017 e delle relative Linee di indirizzo
ministeriali.
Tale evoluzione apre scenari interessanti rispetto alla
programmazione del personale, che gli enti possono già
sfruttare in sede di revisione del piano triennale
2019-2021, oltre che a maggior ragione in sede di
definizione del piano triennale 2020-2022, da inserire nel
prossimo Dup.
La prima pronuncia che merita di essere richiamata è il
parere 20.12.2018 n. 548 della Sezione regionale
di controllo per il Veneto.
Essa evidenzia che nella nuova impostazione la dotazione
organica si traduce di fatto nella definizione di una «dotazione
di spesa potenziale massima» per l'attuazione del piano
triennale dei fabbisogni di personale.
Secondo il collegio, l'obiettivo è quello di rendere più
duttile l'azione della pubblica amministrazione e di
superare l'automatismo nel mantenimento dei posti in
organico nella struttura dell'ente anche nel momento della
cessazione dei dipendenti che veniva a prodursi nelle
circostanze, in verità molto diffuse, nelle quali le
amministrazioni non adeguavano la dotazione organica alle
mutate esigenze emergenti dalla programmazione.
A trarre le conseguenze operative di questa impostazione è,
innanzitutto, la
deliberazione
01.04.2019 n. 4 della sezione autonomie. Essa
afferma che le amministrazioni, all'interno del limite
finanziario massimo (spesa potenziale massima), «ottimizzando
l'impiego delle risorse pubbliche, perseguendo obiettivi di
performance organizzativa, efficienza, economicità e qualità
dei servizi ai cittadini mediante l'adozione del piano
triennale dei fabbisogni di personale (in coerenza con la
pianificazione pluriennale delle attività e della
performance, nonché con le apposite linee di indirizzo)
possono procedere all'eventuale rimodulazione della
dotazione organica in base ai fabbisogni programmati
«garantendo la neutralità finanziaria della rimodulazione».
La pronuncia ha quindi ritenuto che gli enti fino a 1.000
abitanti possano utilizzare la propria capacità assunzionale
senza essere strettamente vincolati al rispetto della regola
«per teste», che consentirebbe solo una assunzione
per ogni cessazione indipendentemente da ogni considerazione
sulla spesa.
Secondo la Sezione, invece, si può prescindere dalla
corrispondenza numerica tra personale cessato e quello
assumibile, a condizione che permanga l'invarianza della
spesa e, quindi, venga rispettato il tetto di spesa.
Conseguentemente, purché si verifichino dette condizioni, il
limite assunzionale può ritenersi rispettato anche quando, a
fronte di un'unica cessazione a tempo indeterminato e pieno,
l'ente, nell'esercizio della propria capacità assunzionale,
proceda a più assunzioni a tempo parziale che ne assorbano
completamente il monte ore.
Tale autorevole conclusione si presta a essere applicata ad
altre fattispecie attinenti non solo agli enti di minori
dimensioni.
Ad esempio, gli enti che non avevano posti dirigenziali
nella ex dotazione organica ma solo plurime posizioni
organizzative, potrebbero procedere alla soppressione di
alcune di queste e dalla loro sostituzione, in termini di
correlativa spesa di personale, con una posizione
dirigenziale di nuova istituzione.
Oppure, caso inverso, enti che sopprimono una posizione
dirigenziale paiono legittimati ad utilizzare le relative
economie per finanziare l'istituzione di nuove p.o. e
finanche a rimodulare il fondo per il pagamento del salario
accessorio del personale non dirigente, sempre nel rispetto
della spesa potenziale massima
(articolo ItaliaOggi del 17.05.2019). |
marzo 2019 |
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Comma
557 e limiti lavoro flessibile.
Domanda
Il cosiddetto “scavalco di eccedenza” di cui all’art. 1, comma 557,
della legge 311/2004 è da ricomprendere tra le limitazioni sul lavoro
flessibile?
Risposta
Occorre evidenziare che già la Sezione delle Autonomie con la citata
deliberazione n. 23/2016/QMIG ha chiarito che «se l’Ente decide di
utilizzare autonomamente la prestazione di un dipendente a tempo pieno
presso altro ente locale al di fuori del suo ordinario orario di lavoro, la
prestazione aggiuntiva andrà ad inquadrarsi all’interno di un nuovo rapporto
di lavoro autonomo o subordinato a tempo parziale, i cui oneri dovranno
essere computati ai fini del rispetto dei limiti di spesa imposti dall’art.
9, comma 28, per la quota di costo aggiuntivo».
Quindi l’assunzione de qua, al di fuori dell’ordinario orario di
lavoro del dipendente utilizzato, soggiace al limite di spesa del lavoro
flessibile che ha dei parametri temporali di riferimento ben definiti. Il
riferimento è la spesa sostenuta per le medesime finalità nell’anno 2009 o,
per le amministrazioni che nel 2009 non abbiano sostenuto spese per lavoro
flessibile, il limite è computato con riferimento alla media sostenuta per
la stessa finalità nel triennio 2007–2009.
Il limite di cui al predetto comma 28, dell’art. 9, D.L. n. 78/2010, conv.
Legge n. 122/2010, è stato più volte confermato dal legislatore (vedasi ad
esempio modifiche art. 11, comma 4-bis, D.L. n. 90/2014) con il precipuo
fine di ridurre il fenomeno del precariato.
Occorre dunque distinguere tale limite, riferito all’utilizzo di forme di
lavoro flessibile con l’imputazione al fondo delle risorse decentrate del
salario accessorio in godimento al soggetto utilizzato parzialmente.
L’Aran, in un parere piuttosto risalente, n. 104-33C1, in risposta alla
domanda rivolta da un ente per sapere se anche la quota dell’indennità di
comparto del personale a tempo determinato debba essere a carico delle
risorse decentrate stabili, o se potesse essere posta a carico del bilancio,
ha chiarito che il personale a tempo determinato è destinatario delle stesse
regole del CCNL previste per il personale a tempo indeterminato. Pertanto
anche in caso di personale utilizzato ai sensi della Legge n. 311/2004 vale
il criterio dell’imputazione del salario accessorio al fondo delle risorse
decentrate (28.03.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mobilità
per interscambio.
Domanda
Come funzione la mobilità per interscambio o compensazione?
Risposta
Il Dipartimento della Funzione Pubblica, con la
nota prot. n. 20506 del 27.03.2015,
al fine di chiarire alcuni dubbi interpretativi in tema di ricollocazione
del personale degli enti di area vasta, ha inserito, tra gli altri
argomenti, anche un paragrafo dedicato alla mobilità per interscambio (o per
compensazione).
Il Dipartimento prevede che la stessa possa essere mutuata dal d.p.c.m.
325/1988 che, all’articolo 7, dispone che è consentita in ogni momento,
nell’ambito delle dotazioni organiche, la mobilità dei singoli dipendenti
presso la stessa o altre pubbliche amministrazioni, anche di diverso
comparto, nei casi di domanda congiunta di compensazione con altri
dipendenti.
Si deve, in ogni caso, trattare di corrispondente categoria e profilo
professionale e l’operazione può concludersi previo nulla osta
dell’amministrazione di provenienza e di quella di destinazione. Ciò che si
realizza è solamente una reciproca sostituzione di dipendenti che ricoprono
un determinato ruolo, sostanzialmente neutra, in quanto non copre fabbisogni
evidenziati nel piano occupazionale, né genera nuovi fabbisogni.
Il contesto normativo che riguarda tale istituto è sicuramente quello della
mobilità volontaria disciplinato dall’art. 30 del TUPI, con la sola
eccezione, puntualizzata anche dal Dipartimento citato, che si possa
prescindere dall’adozione di veri e propri avvisi pubblici di mobilità.
È però indispensabile che le amministrazioni coinvolte accertino che non vi
siano controinteressati al passaggio, nel rispetto dei principi di
imparzialità e trasparenza, eventualmente ricorrendo, a seconda della
dimensione organizzativa e del numero di dipendenti, ad un interpello
interno finalizzato a verificare l’eventuale contestuale interesse alla
mobilità di altri dipendenti da sottoporre a valutazione (può essere
semplicemente un’e-mail destinata ai lavoratori appartenenti alla medesima
categoria e profilo professionale oggetto della mobilità in parola).
Non è necessario che l’ente si doti di apposita regolamentazione in materia,
potendo far riferimento ai comportamenti e/o regole già in uso per la
mobilità, dato che l’esigenza rimane quella di individuare, nell’ambito del
personale delle pubbliche amministrazioni, il soggetto più idoneo per titoli
e competenze possedute (non è mai una graduatoria), alla copertura della
posizione di lavoro interessata, in risposta comunque al criterio di buon
andamento dell’azione amministrativa
(05.09.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Danno all'immagine della PA, la sanzione al dipendente
assenteista dev'essere proporzionata.
Per contrastare i furbetti del cartellino, la specifica (e rilevante)
normativa sanzionatoria prevede la quantificazione del danno all'immagine
accanto agli aspetti disciplinari della procedura che accelera il
licenziamento. La mancanza di proporzionalità del danno all'immagine è
questione sulla quale la magistratura contabile ha sollevato la questione di
legittimità costituzionale (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 17.10.2018).
La Corte dei conti siciliana, invece, nella
sentenza
27.03.2019
n. 213 ha preferito azzerare il danno all'immagine di un
dipendente per le poche ore di violazione della propria presenza in ufficio,
non essendo stata fornita puntuale dimostrazione del clamore mediatico
necessario per la quantificazione equitativa del danno subito dall'ente.
La vicenda
Essendo stata accertata l'assenza ingiustificata, perché non autorizzata, di
un dipendente comunale, il dirigente avviava la procedura del licenziamento
senza preavviso con invio della documentazione alla competente procura della
Corte dei conti. Il Pm contabile quantificava in 81,54 euro il danno
erariale, corrispondente alle ore indebitamente fruite dal dipendente, e in
circa 10mila euro il danno all'immagine, pari a sei mensilità dello
stipendio del dipendente.
Nelle proprie memorie difensive, non accolte dal Pm, il dipendente ha evidenziato la sproporzione tra il danno delle ore
addebitate e la quantificazione automatica del danno all'immagine,
confutando la mancata dimostrazione del pregiudizio subito dall'ente, anche
in termini di notizie mediatiche del tutto assenti nel caso di specie.
La posizione del Corte
La contestazione riguarda la nuova disposizione dell'articolo 55-quater del
Dllgs n. 165/2001 che ha previsto, nei casi di assenteismo fraudolento «la
denuncia al pubblico ministero e la segnalazione alla competente procura
regionale della Corte dei conti entro 15 giorni dall'avvio del procedimento
disciplinare», precisando, inoltre, che «la procura della Corte dei conti,
quando ne ricorrono i presupposti, emette invito a dedurre per danno
d'immagine entro tre mesi dalla conclusione della procedura di
licenziamento».
La nuova norma ha anche stabilito che «l'ammontare del danno risarcibile è
rimesso alla valutazione equitativa del giudice anche in relazione alla
rilevanza del fatto per i mezzi di informazione e comunque l'eventuale
condanna non può essere inferiore a sei mensilità dell'ultimo stipendio in
godimento, oltre interessi e spese di giustizia».
Il collegio contabile siciliano, tuttavia, contesta la legittimità della
quantificazione automatica elaborata dalla procura, in quanto a fronte di
81,54 euro di danno erariale, corrispondenti alla falsa attestazione della
propria presenza in servizio, il Pm non ha dimostrato il pregiudizio subito
dall'ente, anzi, risulta che la vicenda non ha avuto alcuna diffusione
mediatica.
Per il Collegio contabile, infatti, va accolta un'interpretazione
che ammette una nozione unitaria del danno all'immagine come davvero
compromettente la reputazione dell'ente danneggiato, ipotizzabile solo in
presenza di una propagazione di notizie da cui sia potuto derivare uno
scadimento dell'opinione pubblica sulla correttezza dell'operato delle
amministrazioni, escludendo la presunzione di dannosità intrinseca o in re ipsa.
Ora, se tale non fosse la lettura, la medesima sarebbe censurabile
sotto il profilo dell'esorbitanza dalla delega, dato che la legge 04.03.2009 n. 15 non contiene alcun principio che possa giustificare un simile
intervento da parte del legislatore delegato.
Conclusioni
In conclusione, l'inserimento della quantificazione del danno in sei
mensilità previsto dal legislatore, in conclusione, può solo considerarsi
quale parametro utile alla quantificazione del danno che il legislatore ha
inteso fornire, stante la natura estremamente astratta e intangibile del
bene leso, per assicurare proporzionalità, certezza e omogeneità delle
decisioni.
Il dipendente, pertanto, deve essere condannato per il solo danno erariale
pari alle ore indebitamente percepite, senza addebito per danno all'immagine
non essendo stato provato dalla procura
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.04.2019). |
PUBBLICO
IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: La
presenza del RPCT nel Nucleo di valutazione.
Domanda
Siamo un comune con meno di 15.000 abitanti e dobbiamo rinnovare la
composizione del Nucleo di Valutazione, attraverso una modifica al
Regolamento di Organizzazione degli Uffici e Servizi.
A un corso ci è stato detto che sarebbe bene non prevedere la presenza
Segretario comunale, che è anche RPCT, in tale organismo. Sapete dirci
qualcosa a riguardo?
Risposta
Con le modifiche apportate alla legge Severino (legge 06.11.2012, n. 190),
dall’art. 41, comma 1, lettera h), del d.lgs. 25.05.2016, n. 97, sono state
meglio precisate le funzioni e i compiti dell’Organismo di Valutazione (OIV)
o altra struttura analoga presente negli enti locali (il Nucleo di
valutazione), nell’ambito del più vasto quadro di interventi di prevenzione
della corruzione.
Con le nuove disposizioni compete all’OIV o NdV:
• validare la relazione sulle performance (art. 10, d.lgs.
150/2009), dove sono riportati i risultati raggiunti rispetto a quelli
programmati e alle risorse, anche per gli obiettivi sulla prevenzione della
corruzione e trasparenza;
• verificare la coerenza tra gli obiettivi di trasparenza e quelli
indicati nel Piano della performance;
• attestare l’assolvimento, da parte degli enti, degli obblighi di
trasparenza (griglie annuali);
• verificare che i PTPCT siano coerenti con gli obiettivi di
programmazione strategico-gestionale;
• esaminare la Relazione annuale del RPCT, recante i risultati
dell’attività svolta in materia di prevenzione della corruzione e
trasparenza. Per tale verifica l’OIV può chiedere al RPCT informazioni e
documenti aggiuntivi;
• l’ANAC, nell’ambito della propria attività di vigilanza può
coinvolgere l’OIV, per acquisire ulteriori informazioni sulla trasparenza.
Come si può notare, sono molte le occasioni, durante l’anno, in cui il
Nucleo di valutazione, deve valutare gli atti e i documenti prodotti dal
Responsabile della Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPCT),
tenendo conto che, negli enti locali, di norma, il ruolo di RPCT coincide
con quello di segretario comunale [1].
Proprio per evitare possibili situazioni di conflitto d’interesse è
certamente buona cosa evitare, quanto più possibile, che il segretario
comunale, se è anche RPCT, faccia parte del Nucleo di Valutazione.
Tale precauzione è stata, da ultimo, ribadita dall’ANAC nell’Aggiornamento
2018, del Piano Nazionale Anticorruzione, approvato con delibera n. 1074 del
21.11.2018 (in vigore dal 05.01.2019).
Nella Parte IV della citata delibera, rubricata “Semplificazioni per i
piccoli comuni”, Paragrafo 4 – Le nuove proposte di semplificazione
[2], viene ribadito il
principio che l’ANAC “ritiene non compatibile prevedere nella
composizione del Nucleo di Valutazione, la figura del RPCT, in quanto
verrebbe meno l’indefettibile separazione di ruoli in ambito di prevenzione
del rischio corruzione che la norma riconosce a soggetti distinti ed
autonomi, ognuno con responsabilità e funzioni diverse Il Responsabile si
troverebbe nella veste di controllore e controllato, in quanto, in qualità
di componente del Nucleo di valutazione è tenuto ad attestare l’assolvimento
degli obblighi di pubblicazione, mentre in qualità di Responsabile anche per
la trasparenza è tenuto a svolgere stabilmente un’attività di controllo
proprio sull’adempimento dei suddetti obblighi da parte dell’amministrazione.”
Nello stesso documento l’ANAC, introduce una sorta di deroga per i piccoli
comuni (quelli sotto 5.000 abitanti), prevedendo testualmente: “Tenuto
conto delle difficoltà applicative che i piccoli comuni, in particolare,
possono incontrare nel tenere distinte le funzioni di RPCT e di componente
del nucleo di valutazione, l’Autorità auspica, comunque, che anche i piccoli
comuni, laddove possibile, trovino soluzioni compatibili con l’esigenza di
mantenere separati i due ruoli. Laddove non sia possibile mantenere distinti
i due ruoli, circostanza da evidenziare con apposita motivazione, il ricorso
all’astensione è possibile solo laddove il Nucleo di valutazione abbia
carattere collegiale e il RPCT non ricopra il ruolo di Presidente”.
Premesso quanto sopra e rispondendo allo specifico quesito, alla luce delle
normative sopra meglio richiamate e degli orientamenti dell’Autorità
Anticorruzione, si consiglia di non prevedere la figura del segretario
comunale all’interno del Nucleo di valutazione, considerando valida e
logica, tale indicazione, anche nei piccoli comuni con popolazione sotto i
5.000 abitanti.
---------------
[1] Articolo 1, comma 7, legge 190/2012, come modificato dall’art. 41,
comma 1, lett. f), d.lgs. 97/2016.
[2] Pagina 154 (26.03.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
rotazione straordinaria, tra obbligo normativo e scelta di opportunità.
Domanda
Un dipendente del Comune, responsabile di procedimento nel Settore appalti e
gare, è stato iscritto nel registro delle notizie di reato nell’ambito di un
procedimento penale per corruzione in atti di gara.
Pur non essendo ancora intervenuto il rinvio a giudizio, è obbligatorio per
l’ Amministrazione rimuovere il dipendente dall’incarico svolto, o resta una
scelta di mera opportunità?
Risposta
Il 07.02.2019 è stata pubblicata sul sito dell’Autorità Nazionale
Anticorruzione, per la fase di consultazione e ricezione di osservazioni, la
“bozza di delibera in materia di applicazione della misura della
rotazione straordinaria di cui all’art. 16, comma 1, lettera l-quater, del
d.lgs. n. 165 del 2001”. Le disposizioni ivi contenute, ancorché non
ancora efficaci, offrono interessanti spunti per rispondere al quesito, il
cui tema giuridico sotteso, oltre ad essere disciplinato dal Testo unico per
il pubblico impiego, trova oggi ampia trattazione –come chiaramente
descritto da ANAC– all’interno del Piano Nazionale Anticorruzione 2013 e dei
successivi aggiornamenti 2016, 2017 e 2018.
Ai sensi del predetto articolo, i dirigenti di uffici dirigenziali generali,
comunque denominati, “provvedono al monitoraggio delle attività
nell’ambito delle quali è più elevato il rischio corruzione svolte
nell’ufficio a cui sono preposti, disponendo, con provvedimento motivato, la
rotazione del personale nei casi di avvio di procedimenti penali o
disciplinari per condotte di natura corruttiva.”
E’ previsto, pertanto, l’obbligo per l’amministrazione di assegnare il
personale sospettato di “condotte di natura corruttiva” che abbiano o
meno rilevanza penale, ad altro servizio. Nella logica del sistema
anticorruzione della legge Severino (legge 06.11.2012, n. 190), si tratta di
una misura di natura non sanzionatoria dal carattere cautelare e preventivo,
finalizzata a garantire che, negli ambiti dove si sono verificati i fatti
oggetto del procedimento penale o disciplinare, siano attivate idonee misure
di prevenzione del rischio corruttivo, al fine di tutelare l’immagine di
imparzialità dell’amministrazione.
La rotazione straordinaria della fase di avvio del procedimento penale, è da
tenere ben distinta dall’istituto del “trasferimento ad altro ufficio”
di cui all’art. 3, comma 1 della legge 27.03.2001, n. 97 recante “Norme
sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti
del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle pubbliche
amministrazioni”; la disposizione prevede, infatti, che quando nei
confronti di un dipendente “è disposto il giudizio per alcuni dei delitti
previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter e 320 del
codice penale e dall’articolo 3 della legge 09.12.1941, n. 1383,
l’amministrazione di appartenenza lo trasferisce ad un ufficio diverso da
quello in cui prestava servizio al momento del fatto, con attribuzione di
funzioni corrispondenti, per inquadramento, mansioni e prospettive di
carriera, a quelle svolte in precedenza”.
Pertanto, in caso di formale rinvio a giudizio i dipendenti accusati di una
serie specifica di reati, devono essere trasferiti ad ufficio diverso da
quelli in cui prestavano servizio.
A livello normativo emergono, quindi, due sostanziali differenza tra i
suddetti istituti:
1. la “rotazione straordinaria” è strumento utilizzabile in
prima battuta già al momento della conoscenza dell’iscrizione nel registro
degli indagati, di cui all’art. 335 c.p.p., mentre il “trasferimento a
seguito di rinvio a giudizio” segue, per l’appunto, il formale atto del
giudice per le indagini preliminari;
2. nel caso del “trasferimento a seguito di rinvio a giudizio”,
diversamente da quanto accade per la “rotazione straordinaria” –dove
vi è un generico rinvio a “condotte di tipo corruttivo”– il
legislatore individua, quale presupposto per l’applicazione della misura,
specifiche fattispecie di reato, sebbene in numero ridotto rispetto
all’intera gamma di reati previsti dal Titolo II Capo I del Libro secondo
del Codice Penale.
A ciò aggiungasi, tuttavia, in relazione all’ambito oggettivo di
applicazione della “rotazione straordinaria”, che ANAC nel documento
in consultazione –rivedendo una posizione precedentemente assunta (PNA 2016
e Aggiornamento 2018 al PNA)– ha stabilito che “l’elencazione dei reati
(delitti rilevanti previsti dagli articoli 317, 338, 319, 319-ter,
319-quater, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353 e 353-bis del codice
penale), di cui all’art. 7 della legge n. 69 del 2015, per “fatti di
corruzione” possa essere adottata anche ai fini della individuazione delle
“condotte di natura corruttiva” che impongono la misura della rotazione
straordinaria”.
Ne discende che:
a) per i reati previsti dai richiamati articoli del codice penale
(tra gli altri concussione, corruzione per un atto contrario ai doveri di
ufficio, corruzione in atti giudiziari, induzione indebita a dare o
promettere utilità), è da ritenersi obbligatoria l’adozione di un
provvedimento motivato, con il quale viene valutata la condotta “corruttiva”
del dipendente ed eventualmente disposta la rotazione straordinaria;
b) per gli altri reati contro la pubblica amministrazione, di cui
al Capo I, Titolo II, Libro secondo del Codice Penale (delitti rilevanti nel
d.lgs. 08.04.2013, n. 39 in materia di incompatibilità e inconferibilità e
d.lgs. 31.12.2012, n. 235 in materia di incandidabilità), la rotazione è
solo facoltativa, restando in capo all’amministrazione la valutazione circa
la gravità del delitto.
Alla luce del sopra descritto quadro normativo è possibile fornire risposta
al quesito indicando i passaggi che dovranno essere posti in essere
dall’Amministrazione, tenendo anche conto che a breve diverranno efficaci le
direttive ANAC, ora in consultazione:
1. verificare nello specifico se “la condotta corruttiva”
per cui è stato iscritto nel registro degli indagati il dipendente integri,
in astratto, una delle fattispecie di cui agli artt. 317, 338, 319, 319-ter,
319-quater, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353 e 353-bis del codice
penale;
2. in caso di esito positivo –come pare dedursi nel caso di specie,
avendo il responsabile del procedimento in astratto commesso il reato, ex
art. 319 c.p. “corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio”–
predisporre obbligatoriamente il provvedimento di rotazione straordinaria,
adeguatamente motivato (deve essere stabilito che la condotta corruttiva
imputata può pregiudicare l’immagine di imparzialità dell’amminsitrazione),
con il quale viene individuato il diverso ufficio al quale il dipendente
viene trasferito.
3. trattandosi di provvedimento temporaneo, fissare il termine di
efficacia in massimo cinque anni (come suggerito da ANAC tramite rinvio alla
legge 97/2001) e comunque nell’eventuale rinvio a giudizio del dipendente;
momento in cui l’amministrazione potrà nuovamente disporre il trasferimento,
o limitarsi a confermare quello già disposto (19.03.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Sul
reato di abuso d'ufficio.
L'inosservanza dell'art. 13 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, secondo il quale "il permesso di costruire è rilasciato
dal dirigente o responsabile dello sportello unico nel rispetto delle leggi,
dei regolamenti e degli strumenti urbanistici" integra il requisito della
violazione di legge rilevante ai fini della configurabilità del reato di
abuso di ufficio.
Per quanto riguarda, poi, l'elemento soggettivo, si è affermato che esso
consiste nella consapevolezza dell'ingiustizia del vantaggio patrimoniale e
nella volontà di agire per procurarlo e può essere desunta dalla
macroscopica illiceità dell'atto.
---------------
Entrambi i motivi di ricorso riguardano il reato di abuso d'ufficio
contestato all'imputato e la sua sussistenza sotto i profili oggettivo e
soggettivo.
Ancora una volta deve richiamarsi preliminarmente quanto in precedenza
osservato circa la smaccata evidenza della abusività dell'immobile
costruito, nonché delle plurime irregolarità, per contrasto a specifiche
disposizioni normative, che hanno caratterizzato il rilascio della
concessione edilizia.
Va a tale proposito ricordato che l'inosservanza dell'art. 13 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, secondo il quale "il permesso di costruire è rilasciato
dal dirigente o responsabile dello sportello unico nel rispetto delle leggi,
dei regolamenti e degli strumenti urbanistici" integra il requisito della
violazione di legge rilevante ai fini della configurabilità del reato di
abuso di ufficio (Sez. 3, n. 39462 del 19/06/2012, Rullo, Rv. 254015).
Per quanto riguarda, poi, l'elemento soggettivo, si è affermato che esso
consiste nella consapevolezza dell'ingiustizia del vantaggio patrimoniale e
nella volontà di agire per procurarlo e può essere desunta dalla
macroscopica illiceità dell'atto (così, da ultimo, Sez. 6, n. 31 594 del
19/04/2017, Pazzaglia, Rv. 270460) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.03.2019 n. 11505). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Tetto spesa polizia locale.
Domanda
Le assunzioni delle polizia locale avvalendosi della deroga
di cui all’art. 35-bis del d.l. 113/2018, devono comunque
rispettare il “tetto” di spesa di personale in valore
assoluto?
Risposta
Le assunzioni extra di polizia municipale, effettuate ai
sensi dell’articolo 35-bis del decreto sicurezza, non
possono essere fatte in deroga ai vincoli di spesa di
personale contenuti nell’articolo 1, commi 557 e 562, della
legge 296/2006, che, ricordiamo, per i Comuni oltre i mille
abitanti è dato dalla media delle spese di personale del
triennio 2011/2013, mentre per i Comuni fino a mille
abitanti dal “tetto” del 2008.
Questa è la conclusione cui giungono i magistrati contabili
della Lombardia con due diverse, ma identiche nei contenuti,
deliberazioni: la n. 49/2019/PAR (depositata il 13.02.2019)
e la n. 61/2019/PAR (depositata il 26.02.2019).
Il dubbio posto dagli Enti richiedenti il parere nasce
nell’osservare che nella formulazione dell’articolo 35-bis
del decreto legge 113/2018 viene previsto espressamente che
le assunzioni possono essere fatte “… fermo restando il
conseguimento degli equilibri di bilancio …” ma non
anche il rispetto dei vincoli in materia di spesa di
personale contenuti nell’articolo 1, commi 557 e 562, della
legge 296/2006, e, pertanto, si chiede se il valore della
spesa destinata alle assunzioni di personale appartenente
alla polizia municipale possa essere fatta in deroga ai
predetti vincoli di spesa di personale.
Nelle deliberazioni in esame viene chiarito che i vincoli
imposti dal legislatore statale sulla spesa del personale
rappresentano un principio di coordinamento della finanza
pubblica, salvo eventuali deroghe previste dalla legge.
Pertanto, le assunzioni extra di polizia municipale, che i
Comuni intendono effettuare avvalendosi del decreto
sicurezza, devono avvenire nel rispetto dei vincoli di spesa
di personale contenuti nell’articolo 1, commi 557 e 562,
della legge 296/2006.
Il summenzionato principio vale anche nel caso in cui
all’assunzione si provveda tramite l’istituto della mobilità (14.03.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni
organizzative: la durata dell'incarico non deve coincidere con quella del
mandato del sindaco (13.03.2019
- link a https://luigioliveri.blogspot.com). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
diritto alle ferie.
Il divieto di monetizzazione delle ferie di cui all’art. 5, comma 8, d.l.
06.07.2012 n. 95, convertito con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, l. 07.08.2012 n. 135, va interpretato nel senso che
tale disciplina non pregiudica il diritto alle ferie ove
prevede che non si possano corrispondere in nessun caso
trattamenti economici sostitutivi, giacché correla il
contestato divieto a fattispecie in cui la cessazione del
rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un
comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad
eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti
di età), che comunque consentono di pianificare per tempo la
fruizione delle ferie e di attuare il necessario
contemperamento delle scelte organizzative del datore di
lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in
merito ai periodi di riposo.
Ciò al fine specifico di reprimere il ricorso incontrollato
alla monetizzazione delle ferie non godute, contrastandone
gli abusi, e a riaffermare la preminenza del godimento
effettivo delle ferie, per incentivare una razionale
programmazione del periodo feriale e favorire comportamenti
virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro.
---------------
Come risulta dalla esposizione in fatto, la questione
giuridica sottoposta all’attenzione del Collegio verte su un
unico punto. Si tratta di comprendere se sia dovuta la
monetizzazione del periodo di ferie non goduto nel caso in
cui il mancato godimento sia dipeso da assenza continuativa
del dipendente dovuta a malattia.
L’amministrazione intimata, in sintesi, difende la
correttezza del diniego opposto affermando di avere
liquidato il compenso sostitutivo in favore del ricorrente,
facendo corretta applicazione della disciplina di
riferimento e, segnatamente, dell’art. 14 d.P.R. 31.07.1995,
n. 395, dell’art. 18 d.P.R. 16.03.1999 n. 254 e dell’art. 11
d.P.R. 11.09.2007, n. 170.
Il ricorrente contesta, argomentando con ampi svolgimenti,
l’interpretazione e l’applicazione che l’amministrazione ha
fornito delle sopra citate disposizioni.
In particolare, nella memoria depositata il giorno
11.01.2019, in vista dell’udienza pubblica, la difesa del
ricorrente afferma, in sintesi, che ciascuna delle
disposizioni richiamate dall’amministrazione, in assenza di
una lettura costituzionalmente orientata, collide con il
principio della indisponibilità del diritto alle ferie
sancito nell'art. 36, ultimo comma, della Costituzione.
Il precetto costituzionale, secondo il ricorrente, deve
essere inteso nel senso che ove il lavoratore abbia prestato
ininterrottamente la propria opera nel periodo di
riferimento delle ferie, il compenso sostitutivo delle
stesse spetta in ogni caso, a nulla rilevando l’esistenza di
disposizioni che concedano, limitino o escludano il diritto
all’equivalente pecuniario.
La pretesa del ricorrente è fondata.
Alcune premesse di carattere generale.
Il diritto costituzionale indisponibile ad un periodo
annuale di ferie retribuito, connotato, al pari del diritto
al riposo settimanale, dal requisito dell'irrinunciabilità,
rinviene il proprio fondamento giuridico tanto
nell'interesse, meramente privatistico, comune ad entrambe
le parti del rapporto, di conservare le energie fisiche del
lavoratore al fine di una più razionale utilizzazione delle
stesse, quanto nell'interesse, eminentemente pubblico, alla
tutela della persona del lavoratore.
La dottrina, in modo unanime, ha da tempo affermato che nel
caso delle ferie annuali risultano prevalenti proprio gli
interessi etico-sociali rispetto a quelli fisiologici, cui
sono, invece, essenzialmente preordinate le altre pause, di
minore durata e di maggiore frequenza.
In materia di ferie, l'intervento della Corte costituzionale
è stato ripetuto e sempre molto incisivo nel riservare una
tutela particolarmente intensa al diritto al riposo feriale,
attraverso un consolidato filone giurisprudenziale che parte
dal 1963 (con la celebre sentenza n. 66) per arrivare alla
storica sentenza n. 158 del 2001 che ha affermato che la
garanzia costituzionale del riposo annuale, espressamente
sancita nel 3° comma dell'art. 36 della Costituzione, non
consente deroghe e va per ciò assicurata ad ogni lavoratore
senza distinzione di sorta.
Anche la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea
ha sancito, al paragrafo 2 dell'art. 31, il diritto del
lavoratore a una limitazione della durata massima del lavoro
e a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie
annuali retribuite, utilizzando una formula che riprende
quasi letteralmente quella contenuta nelle Costituzioni
italiana e portoghese.
Venendo alla questione della monetizzazione delle ferie
occorre rilevare che ha avuto modo di pronunciarsi
recentemente il Consiglio di Stato affermando che “il
diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute dal
pubblico dipendente, anche in mancanza di una norma espressa
che preveda la relativa indennità, discende direttamente
dallo stesso mancato godimento delle ferie, in armonia con
l'art. 36 Cost., quando sia certo che tale vicenda non sia
stata determinata dalla volontà del lavoratore e non sia a
lui comunque imputabile, e dunque anche in caso di
cessazione dal servizio per infermità; ciò in quanto il
carattere indisponibile del diritto alle ferie non esclude
l'obbligo della stessa Amministrazione di corrispondere il
predetto compenso per le prestazioni effettivamente rese,
non essendo logico far discendere da una violazione
imputabile all'Amministrazione il venir meno del diritto
all'equivalente pecuniario della prestazione effettuata;
analoga conclusione deve trarsi ove le ferie non siano state
fruite per cessazione dal servizio per infermità”
(Consiglio di Stato sez. IV, 13.03.2018, n. 1580).
In definitiva, il mancato godimento delle ferie, non
imputabile all'interessato, non preclude di suo l'insorgenza
del diritto alla percezione del compenso sostitutivo. Si
tratta, infatti, di un diritto che per sua natura prescinde
dal sinallagma prestazione lavorativa-retribuzione che
governa il rapporto di lavoro subordinato e non riceve,
quindi, compressione in presenza di altra causa esonerativa
dall'effettività del servizio.
Da tale carattere di indisponibilità e irrinunciabilità
discende il diritto al compenso sostitutivo, ogni qual volta
la fruibilità del congedo stesso sia oggettivamente esclusa
per causa indipendente dalla volontà del lavoratore o per
fatto specifico della P.A. datrice di lavoro (in materia,
Tar Calabria, Catanzaro, sez. I, 25.06.2015, Tar Sardegna
13.02.2013 n. 116; Tar Calabria, Catanzaro, sez. II,
03.05.2011 n. 598; Consiglio di Stato, sez. IV, 24.02.2009
n. 1084).
La giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di
pronunciarsi anche sulla portata del divieto di
monetizzazione delle ferie di cui all'art. 5, comma 8, d.l.
06.07.2012 n. 95, convertito con modificazioni, dall'art. 1,
comma 1, l. 07.08.2012 n. 135.
Esso va interpretato nel senso che tale disciplina non
pregiudica il diritto alle ferie ove prevede che non si
possano corrispondere in nessun caso trattamenti economici
sostitutivi, giacché correla il contestato divieto a
fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è
riconducibile a una scelta o a un comportamento del
lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità,
pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che
comunque consentono di pianificare per tempo la fruizione
delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle
scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze
manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo,
sicché la norma in parola va interpretata come diretta a
reprimere il ricorso incontrollato alla monetizzazione delle
ferie non godute, contrastandone gli abusi, e a riaffermare
la preminenza del godimento effettivo delle ferie, per
incentivare una razionale programmazione del periodo feriale
e favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto
di lavoro, senza arrecare pregiudizio al lavoratore
incolpevole (Tar Emilia Romagna, Parma sez. I, 17.01.2017,
n. 14).
E, per il pubblico impiego contrattualizzato, la
giurisprudenza del giudice del lavoro è costante
nell’affermare che in tema di pubblico impiego e
monetizzazione delle ferie non fruite, sussiste il diritto
del ricorrente al pagamento delle ferie e dei riposi non
goduti quando lo stesso abbia provato di essere lavoratore
in malattia. Difatti, l'art. 5, comma 8, d.l. 95/2012 deve
essere interpretato nel senso che il divieto di
monetizzazione delle ferie residue non si applica nel caso
in cui il dipendente non sia stato nella possibilità di
fruire delle stesse a causa di malattia (ex multis,
Tribunale Torino sezione lavoro, 22.12.2016, n. 1861).
In conclusione, il ricorso deve essere accolto con
conseguente annullamento dell'atto impugnato, nella parte in
cui è stato negato il compenso sostitutivo per i giorni di
congedo ordinario non fruito negli anni 2013 e precedenti e
2014, e conseguente condanna dell'Amministrazione al
pagamento del compenso sostitutivo (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 08.03.2019 n. 211 - massima tratta da
www.laleggepertutti.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nei procedimenti di tipo concorsuale,
l'impugnazione del provvedimento endoprocedimentale lesivo …
deve successivamente estendersi agli ulteriori atti
pregiudizievoli quale l'approvazione definitiva della
graduatoria di concorso ai pubblici impieghi, determinandosi
altrimenti l'inutilità dell'eventuale decisione di
accoglimento del ricorso proposto contro l'esclusione.
Fermo restando quindi l'onere di impugnazione immediata
dell’atto endoprocedimentale di carattere direttamente ed
autonomamente lesivo, rimane l'onere di estendere il gravame
anche al provvedimento conclusivo del procedimento
concorsuale, ovverosia l'atto di approvazione della
graduatoria finale da parte del concorrente escluso, in
quanto, diversamente opinando, dovrebbe riconoscersi effetto caducante e non meramente viziante all'eventuale
annullamento del provvedimento endoprocedimentale, tesi che
risulta seguita in giurisprudenza da orientamento di segno
decisamente minoritario … e che non appare condivisibile,
non ravvisandosi un rapporto di
presupposizione-consequenzialità immediato, diretto e
necessario tra l’atto endoprocedimentale impugnato e
l’approvazione della graduatoria finale.
---------------
Il ricorso è improcedibile per l’omessa impugnazione dei
provvedimenti di approvazione delle graduatorie del concorso
impugnato.
Secondo un costante e pacifico orientamento
giurisprudenziale “nei procedimenti di tipo concorsuale,
l'impugnazione del provvedimento endoprocedimentale lesivo …
deve successivamente estendersi agli ulteriori atti
pregiudizievoli quale l'approvazione definitiva della
graduatoria di concorso ai pubblici impieghi, determinandosi
altrimenti l'inutilità dell'eventuale decisione di
accoglimento del ricorso proposto contro l'esclusione
(Consiglio Stato nn. 1347/2012, 4320/2003 e 4241/2008);
fermo restando quindi l'onere di impugnazione immediata
dell’atto endoprocedimentale di carattere direttamente ed
autonomamente lesivo, rimane l'onere di estendere il gravame
anche al provvedimento conclusivo del procedimento
concorsuale, ovverosia l'atto di approvazione della
graduatoria finale da parte del concorrente escluso, in
quanto, diversamente opinando, dovrebbe riconoscersi effetto caducante e non meramente viziante all'eventuale
annullamento del provvedimento endoprocedimentale, tesi che
risulta seguita in giurisprudenza da orientamento di segno
decisamente minoritario … e che non appare condivisibile,
non ravvisandosi un rapporto di
presupposizione-consequenzialità immediato, diretto e
necessario tra l’atto endoprocedimentale impugnato e
l’approvazione della graduatoria finale” (Cons. St., sez.
VI, 11.06.2018, n. 3530).
Nel caso in esame, i ricorrenti non hanno provveduto a
impugnare le graduatorie di merito formatesi a seguito della
conclusione del concorso, con la conseguenza che il ricorso
è improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse (TAR
Lazio-Roma, Sez. III-bis,
sentenza 06.03.2019 n. 2955 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
PUBBLICO IMPIEGO: L'art. 6-bis della legge n. 241 del 1990 prevede l'obbligo di astensione
dell'organo amministrativo in conflitto di interessi "anche potenziale".
Poiché l'aggettivo "potenziale" rende ambigua la
qualificazione della situazione di conflitto di interessi che impone
l'obbligo di astensione dell'organo che deve svolgere una determinata
attività all’interno dell’ufficio pubblico, e l’espressione gravi ragioni di
convenienza è ancora generica, è opportuno osservare-precisare che possono
configurarsi ipotesi di potenziale conflitto di interessi, con conseguente
obbligo di astensione, solo quando ragionevolmente l'organo amministrativo
chiamato a svolgere una determinata attività si trovi in una posizione
personale e/o abbia relazioni con terzi che possono, anche astrattamente,
inquinare l'imparzialità dell’azione amministrativa, con riferimento alla
potenzialità del verificarsi di una situazione tipizzata di conflitto.
---------------
2.4. Il conflitto di interessi ‘potenziale’ e le “gravi ragioni di
convenienza”.
L'art. 6-bis della legge n. 241 del 1990 (introdotto come visto dall’art. 1,
co. 41, della legge n. 190 del 2012 e applicabile come norma generale anche
al settore dei contratti pubblici) prevede l'obbligo di astensione
dell'organo amministrativo in conflitto di interessi "anche potenziale".
Similmente l’art. 53 del d.lvo n. 165 del 2001, nel testo modificato dalla
legge n. 190 del 2012, prevede la verifica o la dichiarazione di situazioni
di conflitto di interesse anche potenziale. Ed ancora, l’art. 7 del d.P.R.
n. 62 del 16.04.2013 prevede l’obbligo di astensione anche nel caso in
cui sussistano “gravi ragioni di convenienza”. Infine l’art. 51 c.p.c.
contiene anche esso ipotesi tipizzate di conflitto che conduce all’obbligo
di astensione e le medesime “gravi ragioni di convenienza” di cui all’art.
7. In sintesi nell’ordinamento è presente il concetto di conflitto di
interessi non tipizzato.
Preliminarmente occorre porsi la domanda se alle fattispecie di cui ci
occupiamo, cioè i conflitti nel settore dei contratti, si applichino anche
gli art. 6-bis, 53, 7 e 51 citati, atteso che essi costituiscono norma
generale mentre l’art. 42 del codice è norma speciale, destinata a
prevalere, come afferma la stessa ANAC al paragrafo 1.2 delle Linee Guida.
Poiché l’art. 42 richiama solo l’art. 7 del D.P.R 16.04.2013, n. 62 e
non anche l’art. 6-bis della legge n. 241 né l’art. 53 del d.lvo n. 165 del
2001 né l’art. 51 c.p.c., senza operare quindi alcun riferimento esplicito
alla categoria del conflitto “anche potenziale” né alle “gravi ragioni di
convenienza” ma solo a quella dell’“interesse finanziario, economico o altro
interesse personale”, se ne dovrebbe dedurre la inapplicabilità di tali
norme nella parte riferita ad una tale categoria di conflitto potenziale o
derivante dalle gravi ragioni di convenienza. Tale conclusione sarebbe
errata, perché il rapporto di specialità accennato al paragrafo 2.1 di
questo parere opera solo ove sussista un conflitto tra norme, mentre nella
specie le disposizioni di cui agli art. 6-bis, 53, 7 e 51 citati non sono in
contrasto con l’art. 42 ma sono ad esso complementari.
Sorge piuttosto il problema di individuare esattamente la portata delle
norme e il significato esatto dell’aggettivo “potenziale”, e
dell’espressione “gravi ragioni di convenienza”.
Si deve tenere presente, infatti, che l’art. 6-bis della legge n. 241 recita
semplicemente: “Il responsabile del procedimento e i titolari .. etc. …
devono astenersi in caso di conflitto di interessi segnalando ogni
situazione di conflitto, anche potenziale”. Similmente l’art. 53 del d.lvo
n. 165 del 2001. La norma, quindi, non definisce le situazioni di conflitto
di interessi la cui nozione non può che essere ricavata dall’art. 7 del
d.P.R. n. 62 del 2013 che riguarda specificatamente il conflitto a carico
dei dipendenti pubblici. Dal canto suo l’art. 7 citato contiene la
elencazione di conflitti tipizzati (rapporto di coniugio, parentela,
tutoraggio etc.) e vi aggiunge una norma di chiusura riguardante “gravi
ragioni di convenienza”, non utilizzando il concetto di conflitto
potenziale. Anche le “gravi ragioni” sono quindi sussunte dall’art. 42 nel
concetto di conflitto di interessi.
Per sciogliere il nodo giova rammentare che il confluito di interessi è una
situazione di pericolo in sé, e qualunque pericolo è per sua natura una
potenza e non un atto. Il danno all’interesse funzionalizzato non si è
ancora verificato (salvo quello all’immagine). Qualificare la natura del
pericolo, e quindi del conflitto, come “situazione potenziale”, cioè
ritenere che il Legislatore si sia voluto riferire a un “conflitto
potenziale”, sarebbe quindi una tautologia. Dunque, altro è il significato
della norma per la cui ricerca occorre compiere una attività interpretativa
che attribuisca all’aggettivo “potenziale” un significato suo proprio e
autonomo.
Una seconda interpretazione è che l’aggettivo riferisca a un “potenziale
conflitto” (non a un “conflitto potenziale”), cioè a una situazione in grado
di determinare essa il conflitto, cioè una interferenza tra l’interesse funzionalizzato e quello privato.
Tale interpretazione, però, si appalesa, se ristretta in questi semplici
termini, troppo generica e generalizzata. Essa finirebbe col comprendere un
numero infinito di situazioni razionalmente, ma solo astrattamente,
individuabili a tavolino, misurabile utilizzando la categoria del possibile
piuttosto che quella del probabile, con conseguente impossibilità di fornire
elementi precisi di valutazione. Questa è la strada percorsa dalla UE con la
definizione che si è sopra criticata e occorre guardarsi dal pericolo di
percorrerla utilizzando categorie di situazioni troppo generiche ed
indeterminate. Con ulteriore affinamento si può concludere che in primo
luogo occorra distinguere situazioni di conflitto di interessi da un lato
conclamate, palesi e soprattutto tipizzate (quali ad esempio i rapporti di
parentela o coniugio) che sono poi quelle individuate dall’art. 7 del d.P.R.
n. 62 del 2013 citato; dall’altro non conosciuti o non conoscibili, e
soprattutto non tipizzati (che si identificano con le “gravi ragioni di
convenienza” di cui al penultimo periodo del detto art. 7 e dell’art. 51 c.p.c.). Si tratta, ad avviso della Sezione, di situazioni da definire (non
tipizzate ma) qualificate teleologicamente, come meglio si vedrà avanti al
paragrafo 3 di questo parere.
In sostanza, rilevano sia palesi situazioni di conflitto di interessi, sia
situazioni di conflitto di interessi (in questo senso) potenziali, perché
tale nozione include non soltanto le ipotesi di conflitto attuale e
concreto, ma anche quelle che potrebbe derivare da una condizione non
tipizzata ma ugualmente idonea a determinare il rischio.
Ritiene la Sezione che tali situazioni non possano essere individuate con
riferimento a un numero aperto, indeterminato e indefinito di rapporti e
relazioni del soggetto pubblico (come emergerebbe dalla definizione del reg.
UE sopra citato), ma debbano essere indagate, come già accennato, solo alla
luce dell’art. 7 del d.P.R. n. 62 del 2013 e dell’art. 51 c.p.c. La
struttura delle due norme è, infatti, identica e complementare. Nel primo
comma l’art. 51, con parole diverse, ripercorre le ipotesi di cui all’art.
7, primo periodo, nel secondo comma si riferisce esattamente alle “gravi
ragioni di convenienza” come il penultimo comma del citato art. 7.
Le situazioni di “potenziale conflitto” sono, quindi, in primo luogo, quelle
che, per loro natura, pur non costituendo allo stato una delle situazioni
tipizzate, siano destinate ad evolvere in un conflitto tipizzato (ad es. un
fidanzamento che si risolva in un matrimonio determinante la affinità con un
concorrente). Ciò con riferimento alle previsioni esplicite riguardanti sia
il rapporto di coniugio, parentela, affinità e convivenza, sia alla
possibile insorgenza di una frequentazione abituale, sia al verificarsi
delle altre situazioni contemplate nel detto art. 7 (pendenza di cause,
rapporti di debito o credito significativi, ruolo di curatore, procuratore o
agente, ovvero di amministratore o gerente o dirigente di enti, associazioni
anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti)
Si devono inoltre aggiungere quelle situazioni le quali possano per sé
favorire l’insorgere di un rapporto di favore o comunque di non indipendenza
e imparzialità in relazione a rapporti pregressi, solo però se inquadrabili
per sé nelle categorie dei conflitti tipizzati. Si pensi a una situazione di
pregressa frequentazione abituale (un vecchio compagno di studi) che ben
potrebbe risorgere (donde la potenzialità) o comunque ingenerare dubbi di
parzialità (dunque le gravi ragioni di convenienza).
Entrambi i tipi di situazione, quelle che evolvono de futuro verso il
conflitto e quelle favorenti de praeterito il conflitto,
costituiscono la declinazione delle gravi ragioni di convenienza di cui agli
art. 7 e 51 citati in cui si risolvono, ed anche del “potenziale conflitto”
di cui agli articoli 6-bis e 53 citati. In sostanza la qualificazione
“potenziale” e le “gravi ragioni di convenienza” sono espressioni
equivalenti perché teleologicamente preordinate a contemplare i tipi di
rapporto destinati, secondo l’id quod plerumque accidit, a risolversi
(potenzialmente) nel conflitto per la loro identità o prossimità alle
situazioni tipizzate.
Tuttavia, proprio poiché l'aggettivo "potenziale" rende ambigua la
qualificazione della situazione di conflitto di interessi che impone
l'obbligo di astensione dell'organo che deve svolgere una determinata
attività all’interno dell’ufficio pubblico, e l’espressione gravi ragioni di
convenienza è ancora generica, è opportuno osservare-precisare che possono
configurarsi ipotesi di potenziale conflitto di interessi, con conseguente
obbligo di astensione, solo quando ragionevolmente l'organo amministrativo
chiamato a svolgere una determinata attività si trovi in una posizione
personale e/o abbia relazioni con terzi che possono, anche astrattamente,
inquinare l'imparzialità dell’azione amministrativa, con riferimento alla
potenzialità del verificarsi di una situazione tipizzata di conflitto
(Consiglio di Stato, Sez. Consultiva per gli Atti Normativi,
parere 05.03.2019 n. 667 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing
risarcito in via transattiva, il superiore è responsabile per danno
indiretto.
Vessazioni, denigrazioni e demansionamenti che se protratti costituiscono
mobbing o se occasionali costituiscono straining sono fonte di
responsabilità amministrativo-contabile. Ciò anche quando si addivenga ad
accordo transattivo sul risarcimento da corrispondere alla vittima degli
abusi.
La Corte dei Conti del Piemonte con la
sentenza
05.03.2019 n.
25 si è espressa sul danno indiretto derivante dall'accordo
transattivo tra un Comune e un suo dipendente. In quanto il comportamento
dei superiori gerarchici nei confronti del dipendente hanno comportato un
danno biologico, morale, esistenziale e professionale, risarciti dall'ente
in via transattiva a seguito di sentenza del giudice del lavoro.
Le condotte mobbizzanti
Al dipendente era stata assegnata quale nuova sede di lavoro un angusto
locale sito nel cimitero, che esternamente somigliava a una tomba di
famiglia, ricavato nella parte superiore dell'ossario, ancora in uso, del
cimitero. Il locale aveva le dimensioni di circa tre metri per tre e non era
dotato di collegamento telefonico esterno, né di collegamento alla rete
informatica del Comune, oltre a essere isolato da tutti i restanti uffici
amministrativi dell'ente.
Dagli atti non era emersa alcuna concreta esigenza
organizzativa collegata alla nuova e improvvisa ricollocazione del
dipendente. Presso la sede cimiteriale, il comportamento vessatorio da parte
dei superiori gerarchici era proseguito. Il dipendente era rimasto del tutto
privo di mansioni proprie della categoria di appartenenza, per qualità,
quantità, forma e sostanza.
Le prove del giudizio civile
Mentre il giudice civile giunge a condannare l'amministrazione a risarcire
il privato utilizzando i parametri del danno e della colpa, nella
consecutiva azione di rivalsa per danno indiretto, il giudice contabile deve
indagare la colpa grave del dipendente pubblico che ha agito in nome e per
conto della medesima, valutandone il comportamento dannoso tenuto
nell'esercizio delle funzioni a esso affidate.
La ricostruzione operata dal
Giudice in sede civile, stante aderenza e congruità rispetto alle risultanze
istruttorie acquisite, è stata ritenuta dalla Corte dei conti, persuasiva e
lineare, dunque condivisibile. Da ciò la valutazione della Corte dei conti,
di adeguatezza e ragionevolezza della scelta dell'ente di addivenire a
transazione con il dipendente.
La responsabilità dei superiori
Numerosi elementi hanno fatto ritenere la vicenda direttamente imputabile
alla responsabilità dei superiori gerarchici. In questi casi la
responsabilità sussiste quando una pluralità di atteggiamenti anche se non
singolarmente illeciti, convergono in un intento univoco: perseguitare il
dipendente coinvolto con forme di emarginazione, prevaricazione,
mortificazione, cui consegue il crescente pregiudizio dell'equilibrio
psicofisico del dipendente. Le condizioni di svolgimento del servizio
impongono al datore di lavoro di tutelare oltre che l'integrità fisica,
anche la personalità morale del lavoratore.
La condotta del datore di lavoro nei confronti del dipendente integra in
questi casi mobbing: condotta protratta nel tempo, consistente nel
compimento di una pluralità di atti giuridici o meramente materiali, anche
leciti, tuttavia finalizzati alla segregazione e oppressione del dipendente.
Nondimeno, anche in caso di mancata allegazione di prova di un preciso
intento persecutorio, e posto che lo straining è una forma attenuata di
mobbing perché mancante del carattere di continuità delle condotte
vessatorie, non è preclusa la possibilità di ottenere il risarcimento del
danno con conseguente imputazione di responsabilità
amministrativo-contabile.
Il datore di lavoro deve sempre, in ogni caso, scongiurare condotte che per
gravità e caratteristiche della frustrazione arrecata possono ricondurre a
un danno ingiusto
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.06.2019). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: L’obbligo
di astensione sancito dall’art.
51 c.p.c. sussiste solo allorché la grave inimicizia sia reciproca,
trovi fondamento esclusivamente in rapporti personali, derivi da vicende
estranee allo svolgimento delle funzioni e si estrinsechi in dati di fatto
concreti, precisi e documentati; la grave inimicizia non equivale alla mera
presentazione di una denuncia o comunque di un atto di impulso idoneo a dare
inizio ad un procedimento giudiziale, né può, in linea di principio,
originare dall'attività consiliare del componente il collegio per questioni
comunque inerenti all'esercizio professionale, ma deve riferirsi a ragioni
private di rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai
compiti istituzionali.
Sul carattere tassativo delle cause di incompatibilità di cui al richiamato
articolo 51 c.p.c. si è ripetutamente espressa la giurisprudenza che ha
chiarito come esse sfuggano “ad ogni tentativo di manipolazione analogica
all'evidente scopo di tutelare l'esigenza di certezza dell'azione
amministrativa e la stabilità della composizione delle commissioni
giudicatrici. Tanto soprattutto per evitare interferenze o interventi
esterni, preordinati, con effetto parimenti abusivo a quello dell'omessa
astensione di chi versi in patente conflitto d'interessi, a determinare,
mediante usi forzati o infondati di detti obblighi, una composizione gradita
o intimorita dell'organo giudicante”.
Il Consiglio di Stato ha, altresì, evidenziato che tali precisazioni sono
ancora più necessarie “sol che si pensi alla regola evincibile dall'art.
51, I c., n. 3), c.p.c., per cui il Giudice (e per analogia il
commissario di concorso) ha l'obbligo di astenersi "...se egli stesso... ha
causa pendente... con una delle parti...". In altre parole, la norma, come
s'è visto applicabile per analogia nell'esercizio del pubblico potere,
individua come causa sufficiente, per l'astensione e la richiesta di
ricusazione, il solo fatto oggettivo della pendenza di una lite tra il
Presidente o il commissario di concorso ed uno dei candidati, senza
necessità di verifica di elementi ulteriori. Ebbene, nella specie si trattò
d'un esposto che l'appellato indirizzò a vari soggetti tra cui la predetta
Procura in relazione a certi fatti anteriori, ma il TAR non s'avvede
anzitutto che già l'asserita (o attuata) presentazione di denuncia in sede
penale da parte del ricusante nei confronti del Giudice (o, per analogia,
del commissario di concorso) non costituisce causa di legittima ricusazione
perché essa non è di per sé idonea a creare una situazione di causa pendente
(per la natura oggettiva della giurisdizione penale) o di grave inimicizia”.
---------------
7. Parimenti infondato è il motivo di ricorso con cui il ricorrente deduce
la illegittimità della delibera impugnata per violazione del principio di
imparzialità, in ragione del fatto che il Commissario Straordinario che ha
adottato il provvedimento impugnato (dott. In.) versava in una situazione di
incompatibilità nei confronti del Me., che aveva proposto contro di lui più
esposti e denunce “nell’adempimento di preciso obbligo di rapporto”
(pag. 5 del ricorso).
Anche tale rilievo è del tutto destituito di fondamento alla luce del
consolidato orientamento secondo il quale l’obbligo di astensione sancito
dall’art.
51 c.p.c. sussiste solo allorché la grave inimicizia sia reciproca,
trovi fondamento esclusivamente in rapporti personali, derivi da vicende
estranee allo svolgimento delle funzioni e si estrinsechi in dati di fatto
concreti, precisi e documentati (Consiglio di Stato, sez. V, sentenza n.
7170/2018); la grave inimicizia non equivale alla mera presentazione di una
denuncia o comunque di un atto di impulso idoneo a dare inizio ad un
procedimento giudiziale, né può, in linea di principio, originare
dall'attività consiliare del componente il collegio per questioni comunque
inerenti all'esercizio professionale, ma deve riferirsi a ragioni private di
rancore o di avversione sorte nell'ambito di rapporti estranei ai compiti
istituzionali (Cassazione, sez. II, sentenza n. 27923/2018).
Sul carattere tassativo delle cause di incompatibilità di cui al richiamato
articolo 51 c.p.c. si è ripetutamente espressa la giurisprudenza che ha
chiarito come esse sfuggano “ad ogni tentativo di manipolazione analogica
(arg. ex Cons. St., VI, 03.03.2007 n. 1011; id., 26.01.2009 n. 354; id.,
19.03.2013 n. 1606) all'evidente scopo di tutelare l'esigenza di certezza
dell'azione amministrativa e la stabilità della composizione delle
commissioni giudicatrici. Tanto soprattutto per evitare interferenze o
interventi esterni, preordinati, con effetto parimenti abusivo a quello
dell'omessa astensione di chi versi in patente conflitto d'interessi, a
determinare, mediante usi forzati o infondati di detti obblighi, una
composizione gradita o intimorita dell'organo giudicante” (Consiglio di
Stato, sez. III, sentenza n. 1577/2014).
Il Consiglio di Stato ha, altresì, evidenziato che tali precisazioni sono
ancora più necessarie “sol che si pensi alla regola evincibile dall'art.
51, I c., n. 3), c.p.c., per cui il Giudice (e per analogia il
commissario di concorso) ha l'obbligo di astenersi "...se egli stesso... ha
causa pendente... con una delle parti...". In altre parole, la norma, come
s'è visto applicabile per analogia nell'esercizio del pubblico potere,
individua come causa sufficiente, per l'astensione e la richiesta di
ricusazione, il solo fatto oggettivo della pendenza di una lite tra il
Presidente o il commissario di concorso ed uno dei candidati, senza
necessità di verifica di elementi ulteriori. Ebbene, nella specie si trattò
d'un esposto che l'appellato indirizzò a vari soggetti tra cui la predetta
Procura in relazione a certi fatti anteriori, ma il TAR non s'avvede
anzitutto che già l'asserita (o attuata) presentazione di denuncia in sede
penale da parte del ricusante nei confronti del Giudice (o, per analogia,
del commissario di concorso) non costituisce causa di legittima ricusazione
perché essa non è di per sé idonea a creare una situazione di causa pendente
(per la natura oggettiva della giurisdizione penale) o di grave inimicizia (cfr.
Cons. St., IV, 02.04.2012 n. 1958)” (Consiglio di Stato, sez. III,
sentenza n. 1577/2014).
Il Collegio non ravvisa, nel caso di specie, la sussistenza dei presupposti,
così come individuati dalla giurisprudenza sopra richiamata, necessari per
poter configurare la contestata causa di incompatibilità. Il ricorrente,
invero, fa riferimento ad esposti e denunce che, oltre ad attenere al
rapporto lavorativo tra i due soggetti e non a rapporti personali, non sono
idonei a dimostrare la reciprocità dell’assunta inimicizia. Si osserva,
peraltro, che non risulta neanche dimostrato che dalle suddette denunce
siano derivati condanne o procedimenti penali a carico del dott. In. (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 04.03.2019 n. 416 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
febbraio 2019 |
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Invio
PTFP sindacati.
Domanda
Il Piano triennale dei fabbisogni di un comune va inviato
per informazione preventiva ai sindacati?
Risposta
L’art. 6 del d.lgs. 165/2001 prevede al comma 4 che “nell’adozione
degli atti di cui al presente comma, è assicurata la
preventiva informazione sindacale, ove prevista nei
contratti collettivi nazionali”.
La risposta, quindi, va cercata all’interno del CCNL
21.05.2018 delle Funzioni Locali e a nostro parere non vi è
alcuna indicazione esplicita a tal proposito. Quindi la
risposta al quesito è negativa.
Riteniamo, inoltre, che non sia possibile individuare
eventuali diverse “aperture” nella direzione
dell’obbligo di informazione preventiva in altri contesti
del CCNL citato, ma che l’elenco delle materie oggetto di
informazione, contrattazione o confronto sia tassativo.
Ricordiamo, inoltre, proprio per fare un esempio di un CCNL
che ha previsto una relazione sindacale che nel Comparto
Istruzione e Ricerca all’art. 68 comma 10 vi è scritto: Sono
oggetto di informazione […] “il piano dei fabbisogni di
personale”.
Quindi, in quel contratto è stata voluta la relazione
sindacale, nel CCNL Funzioni Locali, evidentemente no (28.02.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Danno alla salute a causa dell’attività lavorativa.
Incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività
lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre
all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il
nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova
sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte
le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno
(Corte di
Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 27.02.2019 n. 5749
- massima tratta da
www.laleggepertutti.it).
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4. Il primo motivo è connotato da assoluta genericità delle
critiche
mosse alla decisione impugnata.
Peraltro, la decisione si pone in linea
con i principi reiteratamente affermati da questa Corte in tema di
responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c. e di
riparto
dell'onere della prova, principi secondo i quali tale norma "non configura
un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del
datore di lavoro -di natura contrattuale- va collegata alla violazione
degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti
dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento; ne consegue
che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa
dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare,
oltre all'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro,
nonché il nesso tra l'una e l'altra, e solo se il lavoratore abbia fornito
tale prova sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere
adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del
danno" (cfr. Cass. 19.10.2018 n. 26495, Cass. 08.10.2018 n. 24742 e,
da ultimo, Cass. 122808/2018).
5. In tema di malattie ed eziologia plurifattoriali, la prova della causa
di lavoro o della speciale nocività dell'ambiente di lavoro, che grava
sul lavoratore, deve essere valutata in termini di ragionevole
certezza, nel senso che, esclusa la mera possibilità dell'origine
professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un
rilevante grado di probabilità (cfr. Cass. 08.05.2013 n. 10818).
Né la
riconosciuta dipendenza delle malattie da una "causa di servizio"
implica necessariamente, o può far presumere, che gli eventi dannosi
siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell'ambiente di lavoro,
potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente
usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento
dell'organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per
un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori dall'ambito
dell'art. 2087 cod. civ., che riguarda una responsabilità contrattuale
ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici (cfr. Cass.
29.01.2013 n. 2038).
6. Infine, le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o
a malattia professionale, in quanto riconducibili alla generale nozione
di infortunio o malattia contenuta nell'art. 2110 c.c., sono
normalmente computabili nel previsto periodo di conservazione del
posto, mentre, affinché l'assenza per malattia possa essere detratta
dal periodo di comporto, non è sufficiente che la stessa abbia
un'origine professionale, ossia meramente connessa alla prestazione
lavorativa, ma è necessario che, in relazione ad essa ed alla sua
genesi, sussista una responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087
c.c. (cfr. Cass. 27.06.2017 n. 15972).
Ciò che nella specie è stato
escluso dal giudice del gravame con motivazioni che, come sopra
precisato, non sono state idoneamente contrastate dai rilievi mossi in
questa sede. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Limite spesa lavoro flessibile.
Domanda
La condizione per poter utilizzare il 100% della spesa
sostenuta nell’anno 2009 per assunzioni flessibili è
l’obbligo di riduzione della spesa previsto dall’art. 1,
comma 557, della l. 296/2006 da intendersi riferito al
rispetto della spesa del triennio 2001/2013 di cui al comma
557-quater?
Risposta
Il comma 557-quater, dell’art. 1, della legge 27.12.2006, n.
296 (legge finanziaria 2007), è stato aggiunto dal comma
5-bis, dell’art. 3, del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito
con modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114 e recita
quanto segue: "1.557-quater. Ai fini dell’applicazione
del comma 557, a decorrere dall’anno 2014 gli enti
assicurano, nell’ambito della programmazione triennale dei
fabbisogni di personale, il contenimento delle spese di
personale con riferimento al valore medio del triennio
precedente alla data di entrata in vigore della presente
disposizione".
Dal momento che la norma è del 2014, il triennio precedente
è quello che comprende gli anni 2011, 2012 e 2013.
La norma che disciplina il “tetto” di spesa per il
lavoro flessibile (pari al 100% della spesa del 2009) è
quella stabilita all’art. 9, comma 28, del decreto-legge n.
78/2010, convertito nella legge 30.07.2010, n. 122 che, per
la parte che ci interessa, dispone: "Le limitazioni
previste dal presente comma non si applicano agli enti
locali in regola con l’obbligo di riduzione delle spese di
personale di cui ai commi 557 e 562 dell’articolo 1 della
legge 27.12.2006, n. 296, e successive modificazioni,
nell’ambito delle risorse disponibili a legislazione vigente".
Pertanto, la risposta al quesito non può che essere
affermativa (21.02.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Relazioni
sindacali e indennità, doppio nodo per gli incarichi di posizione
organizzativa.
Due nodi assai intricati nella
disciplina degli incarichi di posizione organizzativa sono costituiti dalle
relazioni sindacali e dal tetto massimo delle risorse che possono essere
destinate al finanziamento delle indennità di posizione e di risultato.
Relazioni sindacali
Nelle relazioni sindacali sommiamo il confronto, la contrattazione e la
potestà per gli enti di deliberare senza il rispetto di particolari vincoli.
Il confronto deve essere effettuato, previa informazione preventiva e tanto
su richiesta dei soggetti sindacali quanto per iniziativa diretta dell'ente,
sui criteri di conferimento, revoca e graduazione di questi incarichi.
Esso è inoltre necessario per verificare le modalità di implementazione del
fondo per la contrattazione decentrata nel caso in cui l'ente decida di
tagliare le risorse destinate al salario accessorio delle posizioni
organizzative e si ricorda che è questa la forma di relazione sindacale
prevista per i criteri generali di valutazione delle performance, compresa
quella delle posizioni organizzative.
La contrattazione decentrata è necessaria per decidere i criteri generali
per la determinazione della indennità di risultato e per stabilire una
eventuale correlazione tra questa indennità e l'erogazione di incentivi
previsti da specifiche disposizioni di legge, quindi ad esempio per
prevedere una diminuzione dell'indennità nel caso in cui i compensi per i
contenziosi condotti con successo dagli avvocati dell'ente o quelli per le
funzioni tecniche superino soglie prefissate. Spetta invece alle
amministrazioni decidere, senza che siano richieste particolari forme di
relazione sindacale, la quota del fondo da riservare al finanziamento
dell'indennità di risultato, garantendo comunque che essa non scenda al di
sotto del 15%.
Nell'applicazione di questa previsione contrattuale in alcune
amministrazioni si sta scegliendo di abbassare questo compenso rispetto al
25% della indennità di posizione, che sulla base del contratto 31.03.1999,
era la precedente soglia massima, così da potere utilizzare queste risorse
per aumentare la indennità di posizione e/o per aumentare il numero di
questi incarichi.
Il tetto delle risorse
Non meno intricato è il nodo del tetto delle risorse che le amministrazioni
possono destinare al finanziamento delle posizioni organizzative. Il
contratto prende atto che l'articolo 23 del Dlgs 75/2017 stabilisce che le
risorse del salario accessorio non devono superare quelle del 2016, vincolo
che si applica non solo al fondo per la contrattazione decentrata, ma anche
ai compensi per i titolari di posizioni organizzativa.
Per il finanziamento di queste risorse è previsto che negli enti con la
dirigenza lo stesso sia a carico del bilancio dell'ente, come avviene da
sempre negli enti senza la dirigenza, con contestuale taglio di queste somme
dalla parte stabile del fondo. Una disposizione che vuole rendere più
flessibili gli spazi di autonomia organizzativa, consentendo alle
amministrazioni di deliberare senza doversi preoccupare di acquisire il
consenso sindacale per il finanziamento degli eventuali oneri aggiuntivi.
Possibilità che è vanificata dal tetto delle risorse per il salario
accessorio, fatta salva che si arrivi la possibilità –di scuola nella gran
parte delle realtà- che i soggetti sindacali accettino una decurtazione del
fondo per il salario accessorio per finanziare aumenti per le posizioni
organizzative.
Le novità del Dl semplificazioni
Con l'articolo 11-bis, comma 2, del Dl 135/2018, Dl semplificazione, come
risulta dopo la conversione, è consentito ai Comuni senza dirigenti di
aumentare le risorse destinate al salario accessorio delle posizioni
organizzative diminuendo nella stessa misura le capacità assunzionali a
tempo indeterminato, cioè quelle dell'anno e i resti del triennio
precedente, capacità che peraltro molto spesso non sono interamente
utilizzate.
Il testo accoglie in modo assai parziale la richiesta dell'Anci, visto che
questa possibilità è preclusa agli enti con i dirigenti, cioè a quelli che
hanno una dimensione maggiore
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.02.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Posizioni organizzative, si parte dal confronto sindacale ma la
decisione è dell'Ente.
Le amministrazioni devono ridefinire l’assetto delle
posizioni organizzative e devono farlo entro il 20 maggio prossimo, pena
l’impossibilità di procedere al conferimento dei relativi incarichi. Ciò
deve avvenire agendo su due aspetti entrambi oggetto di confronto sindacale:
la definizione dei criteri generali per il conferimento e per la revoca e la
definizione dei criteri per la graduazione ai fini dell’attribuzione della
indennità di posizione.
Si tratta di materie che le amministrazioni possono disciplinare
autonomamente in quanto decorso il termine di 30 giorni dal momento
dell’avvio del confronto sindacale le materie rientrano nella piena
disponibilità delle amministrazioni.
Il confronto, che deve essere richiesto entro 5 giorni dall’informativa o
proposto dall’Ente, non implica che le parti debbano raggiungere un accordo
ma rappresenta una modalità relazionale attraverso la quale le parti
esprimono le proprie valutazioni e consentono loro di partecipare alla
definizione delle misure che l’ente intende adottare; il confronto si
conclude con la redazione di una sintesi delle posizioni emerse che vengono
offerte alle Amministrazioni cui compete la decisione finale.
Istituzioni delle posizioni organizzative
L’istituzione delle posizioni organizzative deve avvenire con riferimento a
posizioni di lavoro che presentino le seguenti caratteristiche:
a) deve trattarsi di funzioni di direzioni di unità organizzative
che presentino particolare complessità;
b) le funzioni di direzioni devono caratterizzarsi per l’elevato
grado di autonomia gestionale e organizzativa.
In alternativa l’istituzione di posizioni organizzative può riguardare
attività ad alto contenuto professionale per le quali è richiesta una
elevata competenza specialistica (maturata o mediante titoli di livello
universitario o attraverso rilevanti e consolidate esperienze professionali,
in posizioni di responsabilità o di alta qualificazione professionale), che
deve essere verificata in sede di conferimento attraverso l’esame del
curriculum.
Non è pertanto possibile prevedere l’istituzione di posizioni organizzative
al di fuori delle caratteristiche sopra enunciate e, quindi, le
amministrazioni non possono limitarsi alla mera individuazione ma devono
specificamene motivare la presenza, rispetto alle posizioni individuate e
indipendentemente dalla persona cui l’incarico verrà conferito, di tali
caratteristiche. L’assenza di un idoneo apparato motivazionale che consenta
di ricondurre le posizioni istituite alla caratteristiche previste dall’art.
13 del Ccnl funzioni locali espone gli atti di macro organizzazione al
rischio di declaratoria di illegittimità.
Criteri generali per il conferimento degli incarichi
L’amministrazione deve, quindi, disciplinare le regole per il conferimento
degli incarichi di posizione organizzativa che, nei comuni con dirigenti
sono conferiti da quest’ultimi, i quali devono attenersi ai criteri generali
definiti dall’Ente.
Il criteri generali devono da un lato dettagliare, per ciascuna posizione
organizzativa istituita, i requisiti culturali, le attitudini, la capacità
professionale e l’esperienza acquisita e dall’altro considerare la natura e
la caratteristica dei programmi da realizzare.
Tra i criteri da utilizzare per il conferimento dell’incarico
l’Amministrazione deve tenere in adeguata considerazione anche gli esiti
delle valutazioni individuali in attuazione dell’art. 3, comma 5, e
dell’art. 25, comma 2, del Dlgs 150/2009.
Nei comuni senza dirigenza le posizioni organizzative sono conferite ai
responsabili delle strutture apicali e le disposizioni contrattuali devono
essere lette unitamente alla previsione di sui all’art. 50, comma 10, Dlgs
267/2000 secondo il quale la nomina dei responsabili degli uffici e dei
servizi è affidata alla competenza del Sindaco e al successivo art. 109,
comma 2, del medesimo Decreto secondo il quale ai responsabili dei servizi
vengono affidate le funzioni tipicamente dirigenziali previste dall’articolo
107, commi 2 e 3.
La graduazione della posizioni
La graduazione delle posizioni è fondamentalmente finalizzata a definire
l’entità della retribuzione di posizione nei limiti minimi e massimi
previsti dall’articolo 15 del Ccnl funzioni locali.
Il valore medio delle retribuzioni di posizione è legato all’entità delle
risorse complessivamente disponibili per retribuzione di posizione e di
risultato che non deve superare l’importo destinato a tale finalità nel 2016
e di questo importo il valore complessivo massimo destinato alla
retribuzione di posizione non può superare l’80%; l’altro elemento che
incide sul valore medio è il numero di posizioni istituite. Il valore
complessivo 2016 può essere superato previa riduzione del fondo risorse
decentrate e solo previa contrattazione decentrata.
Ai fini della graduazione gli aspetti che devono essere considerati sono i
seguenti: a) la complessità organizzativa; b) la rilevanza delle
responsabilità amministrative e gestionali; rispetto questi macrocriteri
l’amministrazione definisce i criteri di dettaglio e le metriche di
valutazione pervenendo ad una graduatoria.
Il valore della retribuzione di posizione dipenderà dal numero di
graduazioni che si intendono attivare e dal numero di posizioni che si
intendono istituire; una eccessiva frammentazione delle graduazioni in
presenza di un numero ridotto di posizioni rischia di rendere poco gestibile
il sistema delle graduazioni. Per cui è corretto che all’aumentare del
posizioni istituite possa aumentare il numero delle graduazioni; il
trade-off tra questi due elementi (numero di posizioni e numero delle
graduazioni) deve essere risolto con criteri di ragionevolezza e tenendo ben
presente l’applicabilità in concreto dei criteri, che devono essere
predeterminati e indipendenti dal dipendente al quale sarà conferito
l’incarico.
A tale proposito i criteri utilizzati per declinare i macro fattori previsti
dal Ccnl devono essere tali da essere concretamente applicabili in relazione
alle caratteristiche e alle responsabilità connesse a ciascuna posizione
istituita. Per esempio, in relazione alla complessità organizzativa possono
essere parametri significativi il numero dei servizi e uffici che rientrano
nella direzione della posizione nonché il numero dei dipendenti. Con
riferimento alla rilevanza può essere utile il riferimento alla
significatività dei processi presidiati e al livello di rischio definito
nell’ambito del Piano triennale di prevenzione delle corruzione.
Occorre prestare attenzione nel valutare la rilevanza all’utilizzo di
criteri di incerta applicazione; a titolo di esempio stabilire come uno dei
criteri per valutare la rilevanza il numero dei pareri può rendere incerta
l’applicazione per quelle posizioni in cui l’entità effettiva dei pareri non
è predeterminabile o comunque dipende da specifiche situazioni di contesto
che possono cambiare da un anno all’altro (mentre la graduazione deve avere
una sua stabilità e robustezza).
Negli enti con dirigenza, nell’ambito dei criteri per la graduazione,
l’articolo 15 del Ccnl richiede di considerare anche l’ampiezza e il
contenuto delle eventuali funzioni delegate con attribuzioni di poteri di
firma di provvedimenti finali a rilevanza esterna; tuttavia tali ultimi
aspetti attengono a misure che dipendono dallo stile organizzativo e
manageriale del dirigente che conferisce gli incarichi e non sono
predeterminabili in quanto ciò significherebbe imporre al dirigente, per
specifiche posizioni organizzative, una sorta di “obbligo” di delega,
quando previsto in sede di graduazione, che nel nostro assetto normativo non
è configurabile e comunque lederebbe l’autonomia organizzativa, gestionale e
manageriale del dirigente medesimo
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.02.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni
organizzative, il tempo stringe per gli Enti Locali alle prese con le
delibere.
Rimangono appena otto o nove settimane alle amministrazioni locali e
regionali per adottare i criteri di istituzione, conferimento, revoca e
graduazione della retribuzione per le posizioni organizzative.
La mancata adozione di queste disposizioni regolamentari entro il 21 maggio,
cioè entro un anno dall'entrata in vigore del contratto del personale delle
funzioni locali per il triennio 2016/2018, stipulato il 21.05.2018,
determina infatti la decadenza delle posizioni organizzative. Come chiarito
dall'Aran, anche se la loro scadenza "naturale" fissata dalle
amministrazioni fosse successiva.
Ma si deve aggiungere che, per non rischiare di superare il termine nelle
more dello svolgimento delle relazioni sindacali, le bozze di deliberazione
devono essere trasmesse ai soggetti sindacali entro la metà del mese di
aprile.
Informazione preventiva dei soggetti sindacali
Cominciamo proprio da questo aspetto: i criteri di conferimento, revoca e
graduazione delle posizioni organizzative, che l'ente adotta con una
deliberazione della giunta avente natura regolamentare, sono oggetto di
informazione preventiva e, a richiesta dei soggetti sindacali, di confronto.
Ricordiamo che il confronto deve essere chiesto dai rappresentanti dei
lavoratori (oltre che potere essere avviato direttamente da parte degli
enti) entro 5 giorni dalla ricezione della informazione e che esso, in
assenza di una intesa, inibisce all'ente la possibilità di deliberare prima
di un mese dal suo avvio: per cui prudenzialmente, salvo che i suoi
contenuti siano stati preventivamente concordati, si deve considerare che si
può arrivare a 40 giorni circa dalla comunicazione iniziale per potere
assumere la deliberazione.
Istituzione
Sulla base del nuovo contratto le amministrazioni devono decidere quali e
quante posizioni organizzative istituire, scegliendo in questo ambito tra
quelle preposte alla direzione di unità organizzative e le alte
professionalità, senza poterne più istituire per gli uffici di staff.
Devono inoltre disciplinare i criteri di conferimento sulla base dei
principi dettati dal nuovo contratto nazionale e che continuano a essere gli
stessi fissati nel 1999: «le funzioni ed attività da svolgere, la natura
e caratteristiche dei programmi da realizzare, i requisiti culturali
posseduti, le attitudini e la capacità professionale».
Criteri che lasciano ampi spazi di discrezionalità ma che non consentono
scelte di tipo esclusivamente fiduciario. In questo ambito occorre anche
disciplinare le procedure -ad esempio se le scelte sono precedute da un
avviso e dalla presentazione di candidature-e la durata –che per gli enti
con dirigenti non può essere superiore a 3 anni.
Revoca
Le amministrazioni devono disciplinare le procedure di revoca, intendendo
come tale solo quella anticipata, essendo possibile la mancata conferma alla
scadenza e il conferimento ad altro dipendente. La revoca in tutti gli enti
può essere disposta sulla base del contratto per mutamenti organizzativi e/o
per una valutazione negativa; si deve aggiungere che, sulla base delle
previsioni della legge 190/2012 (anticorruzione), può essere disposta in
caso di rotazione straordinaria, cioè a seguito di procedimenti penali e
che, sulla scorta del Dlgs 267/2000, ma solamente negli enti senza
dirigenti, può essere motivata dalla inosservanza delle direttive impartite
dall'organo di governo.
Graduazione degli incarichi
Gli enti devono disciplinare i criteri di graduazione degli incarichi di
posizione organizzativa nella forcella compresa tra 5.000 e 16.000 euro.
Occorre chiarire che non è obbligatorio per le amministrazioni fissare la
misura considerando che il tetto debba necessariamente essere fissato in
16.000 euro: questa è la soglia massima, per cui le amministrazioni possono
anche scegliere una cifra più bassa.
Il contratto prevede 2 criteri per tutti gli enti, la rilevanza delle
responsabilità e la complessità; per gli enti con la dirigenza ne viene
aggiunto un terzo: l'ampiezza e il contenuto dei compiti delegati, con la
connessa attribuzione della titolarità ad assumere atti a rilevanza esterna
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.02.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Tassazione pensioni complementari.
Domanda
Le pensioni complementari integrative dei dipendenti
pubblici sono tassate come quelle dei privati?
Risposta
Le regole in materia di previdenza complementare pagano il
conto di quella che dal punto di vista giuridico viene
definita dicotomia delle fonti del diritto.
La riforma Maroni del 2005 ha riscritto e novellato la
previdenza complementare con il d.lgs. 252/2005, tuttavia,
non essendo occorsa l’armonizzazione con il pubblico
impiego, dette regole non sono mai valse per i lavoratori
pubblici, ma soltanto per i lavoratori dipendenti di aziende
private. Questo almeno fino alla Legge di Bilancio del 2018
che ha introdotto dei correttivi e livellato alcune
differenze.
La disparità di trattamento tra lavoratori privati e
pubblici si faceva sentire in diversi ambiti: si pensi alla
diversa libertà di destinazione delle quote di TFR nella
modalità di finanziamento della previdenza complementare,
alle diverse regole di accesso alle prestazioni
pensionistiche (anticipazioni), al diverso limite di
deducibilità fiscale dei contributi versati a previdenza
complementare, e, in particolare, al diverso regime di
tassazione delle prestazioni previdenziali.
In questo ultimo caso, le differenze producevano una
disparità di trattamento al limite della legittimità
costituzionale.
In tema di tassazione delle prestazioni, le regole applicate
ai dipendenti pubblici erano quelle contenute nel d.lgs.
124/1993 che prevedevano l’assoggettamento a tassazione
progressiva (IRPEF a scaglioni).
Le pensioni complementari dei privati sono assoggettate, dal
2005, ad una tassazione a titolo di imposta del 15%, ridotta
di una quota pari allo 0,30% per ogni anno eccedente il 15°
di partecipazione a forme di previdenza complementare, fino
ad un massimo di 6 punti percentuali di riduzione.
La legge di Bilancio del 2018, al comma 156, fa valere anche
per i lavoratori pubblici, le regole in materia di
tassazione delle prestazioni, contenute nel d.lgs. 252/2005.
La riforma non ha coinvolto il passato e i montanti già
accumulati, ma solo il futuro, talché:
• posizione maturata dal 01/2018: assoggettate a una tassazione a
titolo d’imposta del 15% ridotta di una quota pari allo
0,30% per ogni anno eccedente il 15° di partecipazione a
forme di previdenza complementare, con il limite massimo del
6%.
• posizione maturata prima del 01/2018: assoggettate a tassazione
progressiva (14.02.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mancato godimento delle ferie imputabile alla volontà del lavoratore.
Vige il divieto di monetizzazione delle ferie nel Pubblico Impiego nei
soli casi in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una
scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, licenziamento
disciplinare, mancato superamento del periodo di prova) o ad eventi
(mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età) che comunque
consentano di pianificare per tempo la fruizione delle ferie residue e di
attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore
di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito al periodo
di godimento delle ferie
(TRIBUNALE di Foggia, Sez. lav., sentenza 12.02.2019 n. 5193 -
massima tratta da www.laleggepertutti.it). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Procedure
per progressioni verticali e pubblicazione in GU.
Domanda
Le procedure per le progressioni verticali vanno pubblicate in Gazzetta
Ufficiale?
Risposta
In riferimento alle procedura di cui all’art. 22, comma 15, del D.Lgs.
75/2017 si ricorda che gli elementi che caratterizzano questa selezione
sono:
a) limite costituito dalla facoltà assunzionale;
b) procedure selettive;
c) possesso dei titoli di studio richiesti per l’accesso
dall’esterno;
d) riserva limitata al 20% dei posti, per ciascuna categoria,
destinati a nuove assunzioni nel piano dei fabbisogni;
e) prove;
f) valutazione positiva per almeno tre anni, attività svolta e
risultati conseguiti.
Se tali requisiti sono soddisfatti si prescinde, a nostro parere, dalla
pubblicazione del bando nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, in quanto
trattasi di procedura riservate a personale già reclutato nella P.A.
L’obbligo di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
Italiana dei bandi di concorso nel pubblico impiego, previsto dall’articolo
4 del d.p.r. 487/1994, integra la previsione generale dell’art. 35, terzo
comma, del d.lgs. 165/2001 e s.m.i., recante principi in materia di
procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni.
La regola generale, che impone l’obbligo di pubblicazione sulla GURI è
attuativa dell’art. 51, primo comma, e dell’art. 97, comma due e quattro,
della Costituzione, ove vengono garantiti nell’accesso agli uffici pubblici
condizioni di uguaglianza, buon andamento, imparzialità dell’amministrazione
e accesso mediante concorso.
Nella procedura di cui trattasi tali condizioni non devono essere garantite,
ad eccezione della selettività, in quanto la procedura è riservata alle
professionalità interne, già reclutate nella PA.
Per quanto sopra illustrato si ritiene che sia sufficiente la pubblicazione
del bando sul sito dell’ente, nell’area dell’Amministrazione Trasparente,
dedicata al personale (07.02.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Conflitto
d’interessi per presidente commissione di concorso.
Domanda
Il nostro comune ha bandito un concorso per due posti di categoria D, di cui
uno riservato ad un interno, ex art. 24, comma 1, del d.lgs. 150/2009. Tra i
candidati ammessi al concorso c’è un dipendente di categoria C, in possesso
di laurea, in servizio presso il 1° Settore. La Commissione di concorso è
presieduta dal funzionario P.O., responsabile del medesimo settore.
Ci si interroga se il funzionario si trovi in situazione di conflitto
d’interesse, con obbligo di astensione.
Risposta
La questione oggetto del quesito, riguarda una ipotesi di conflitto
d’interessi tra il presidente della Commissione di concorso pubblico e un
candidato, interno, che partecipa alla procedura concorsuale. Non v’è dubbio
che tra i due soggetti, per ragioni di lavoro, siano intercorsi ed
intercorrano tutt’ora dei rapporti professionali, per cui è corretto porsi
l’interrogativo.
Per redimere la vicenda, il primo consiglio da fornire è quello di
verificare le norme, in materia di conflitto d’interessi, rinvenibili negli
atti regolamenti del comune. A tal riguardo può essere utile andare a
rivedere cosa si è previsto:
a) nello Statuto del comune;
b) nel regolamento dei concorsi;
c) nel regolamento di organizzazione degli uffici e servizi (ROUS);
d) nel Codice di comportamento di ente;
e) nel Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione e
Trasparenza.
Per ciò che concerne i riferimenti legislativi nazionali, occorre prendere
in considerazione le disposizioni dell’art. 6-bis, della legge 07.08.1990,
n. 241 e agli articoli 6 e 7, del Codice di comportamento dei dipendenti
delle pubbliche amministrazioni, approvato con DPR 62/2013.
Detto delle regole di tipo “generale” che soprassiedono alla non
semplice questione del conflitto d’interessi, anche di natura potenziale,
nel caso specifico è bene tenere in debita considerazione, anche, le
posizioni assunte, nel tempo, dal giudice amministrativo, il quale ha
provveduto ad identificare alcune ipotesi di concreta applicazione, con
riferimento alla composizione delle commissione di concorso, in ambito
universitario (ma il caso è assimilabile), sostenendo che:
– l’appartenenza allo stesso ufficio del candidato e il legame di
subordinazione o di collaborazione tra i componenti della commissione e il
candidato stesso non rientrano nelle ipotesi di astensione di cui all’art.
51 c.p.c. (Consiglio di Stato, sez. III, 28.04.2016, n. 1628, Consiglio di
Stato, sez. V, 17.11.2014 n. 5618; sez. VI, 27.11. 2012, n. 4858);
– i rapporti personali di colleganza o di collaborazione tra alcuni
componenti della commissione e determinati candidati non sono sufficienti a
configurare un vizio della composizione della commissione stessa, non
potendo le cause di incompatibilità previste dall’art. 51 (tra le quali non
rientra l’appartenenza allo stesso ufficio e il rapporto di colleganza)
essere oggetto di estensione analogica, in assenza di ulteriori e specifici
indicatori di una situazione di particolare intensità e sistematicità, tale
da dar luogo ad un vero e proprio sodalizio professionale (Consiglio di
Stato, sez. VI, 23.09.2014 n. 4789);
– «la conoscenza personale e/o l’instaurazione di rapporti
lavorativi ed accademici non sono di per sé motivi di astensione, a meno che
i rapporti personali o professionali non siano di rilievo ed intensità tali
da far sorgere il sospetto che il candidato sia giudicato non in base al
risultato delle prove, bensì in virtù delle conoscenze personali (Cons.
Stato, VI, n. 4015 del 2013, cit.)» (Consiglio di Stato, VI, 26.1.2015,
n. 327 e da ultimo Consiglio di Stato, sez. III, 28.04.2016, n. 1628);
– «perché i rapporti personali assumano rilievo, deve trattarsi
di rapporti diversi e più saldi di quelli che di regola intercorrono tra
maestro ed allievo o tra soggetti che lavorano nello stesso ufficio, essendo
rilevante e decisiva la circostanza che il rapporto tra commissario e
candidato, trascendendo la dinamica istituzionale delle relazioni
docente/allievo, si sia concretato in un autentico sodalizio professionale,
in quanto tale “connotato dai caratteri della stabilità e della reciprocità
d’interessi di carattere economico” (Cons. Stato, Sez. VI, n. 4015 del
2013), in “un rapporto personale di tale intensità da fare sorgere il
sospetto che il giudizio non sia stato improntato al rispetto del principio
di imparzialità” (Cons. Stato, Sez. VI, 27.04.2015, n. 2119)» (Consiglio
di Stato, sez. III, 28.04.2016, n. 1628);
– «sussiste una causa di incompatibilità –con conseguente
obbligo di astensione– per il componente di una commissione giudicatrice di
concorso universitario ove risulti dimostrato che fra lo stesso e un
candidato esista un rapporto di natura professionale con reciproci interessi
di carattere economico ed una indubbia connotazione fiduciaria» (Cons.
Stato Sez. VI, 31.05.2013, n. 3006, TAR Lazio, Roma, 21.02.2014 n. 2173);
– in sede di pubblico concorso l’incompatibilità tra esaminatore e
concorrente si può realmente ravvisare non già in ogni forma di rapporto
professionale o di collaborazione scientifica, ma soltanto in quei casi in
cui tra i due sussista un concreto sodalizio di interessi economici, di
lavoro o professionali talmente intensi da ingenerare il sospetto che la
valutazione del candidato non sia oggettiva e genuina, ma condizionata da
tale cointeressenza (TAR Lazio, Roma, 21.02.2014 n. 2173, TAR Lazio, Roma
Sez. III-bis, 11.07.2013, n. 6945).
Sempre sul medesimo argomento anche l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC)
è stata chiamata ad esprimersi e lo ha fatto con:
a)
delibera n. 209 del 01.03.2017;
b)
delibera n. 384 del 29.03.2017;
c)
delibera n. 1186 del 19.12.2018.
La condivisibile posizione dell’ANAC, relativamente a una fattispecie simile
a quella prospettata nel quesito, prevede che “ai fini della sussistenza
di un conflitto di interessi fra il Segretario generale valutatore e un
candidato, la collaborazione professionale, per assurgere a causa di
incompatibilità, così come disciplinata dall’art. 51 c.p.c., deve
presupporre una comunione di interessi economici o di vita tra gli stessi di
particolare intensità e tale situazione può ritenersi esistente solo se
detta collaborazione presenti i caratteri della sistematicità, stabilità,
continuità tali da dar luogo ad un vero e proprio sodalizio professionale”.
In conclusione, rispondendo al quesito, è possibile sostenere che –in
assenza di specifiche disposizioni normative comunali, previste in atti
regolamentari e statutari o norme del Piano Anticorruzione– non si ravvisa
un conflitto d’interessi e il conseguente obbligo di astensione, tra il
candidato, dipendente interno, e il presidente della commissione di un
concorso pubblico, a meno che, tra i due soggetti, non sia presente una
comunione di interessi economici o di vita di particolare intensità che
possa dar luogo a un sodalizio professionale (05.02.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
L'art. 12, primo comma, del d.P.R. n. 487 del 1994
stabilisce che <<Le commissioni esaminatrici, alla prima
riunione, stabiliscono i criteri e le modalità di
valutazione delle prove scritte>>.
La giurisprudenza ritiene, al riguardo, che non vi sia vizio
invalidante qualora tali criteri, pur se non nella prima
seduta della commissione, vengano comunque definiti prima
che si proceda alla correzione delle prove scritte. Ciò che
conta infatti è che venga garantita la trasparenza
nell’espletamento della prova concorsuale, risultato questo
che si ottiene qualora la determinazione e la verbalizzazione
dei criteri avvenga in un momento nel quale non possa
sorgere il sospetto che questi ultimi siano volti a favorire
o sfavorire alcuni concorrenti.
Né può ritenersi che la fissazione e la pubblicizzazione dei
criteri di valutazione sarebbero necessarie per consentire
ai candidati di poter meglio calibrare le proprie risposte.
L’unica funzione svolta dalla prescrizione contenuta nel
richiamato articolo 12 è, come detto, quella di garantire la
trasparenza ed imparzialità nella fase di correzione e di
verificare ex post la correttezza e congruità delle
operazioni valutative; è dunque estranea alla sua ratio la
funzione di orientamento ex ante dei candidati nello
svolgimento delle prove concorsuali.
---------------
Per pacifico orientamento giurisprudenziale, in materia di
pubblici concorsi, le commissioni esaminatrici, chiamate
prima a fissare i parametri di valutazione e poi a giudicare
le prove svolte dai candidati, non effettuano una
ponderazione di interessi, ma esercitano un'amplissima
discrezionalità tecnica, sulla quale il sindacato di
legittimità del giudice amministrativo è limitato al
riscontro del vizio di eccesso di potere in particolari
ipotesi limite, riscontrabili dall'esterno e con
immediatezza dalla sola lettura degli atti (errore sui
presupposti, travisamento dei fatti, manifesta illogicità o
irragionevolezza).
Anche la scelta concernente l'individuazione dei criteri di
massima per la valutazione delle prove è quindi sindacabile
dal giudice amministrativo solo qualora appaia evidente che
l'esercizio del potere discrezionale sia trasmodato in uno o
più dei vizi sintomatici dell'eccesso di potere.
---------------
Come noto, l’invalidità ad effetto caducante –che comporta l’automatico travolgimento dell'atto
consequenziale– si verifica solamente quando l'atto
successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale, quale inevitabile conseguenza dell'atto
anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni
di interessi (cfr. sul punto Consiglio di Stato, sez. V, 05.11.2014, n. 5463 che esclude che l’annullamento del
bando di concorso abbia effetto caducante sugli atti
successivi; si veda anche più in generale Consiglio di
Stato, sez. VI, 27.04.2011, n. 2482).
---------------
Con altra censura viene dedotta la violazione degli artt. 3 e
97 Cost. nonché dell’art. 12 del d.P.R. n. 487 del 1995, in
quanto la griglia di valutazione delle prove scritte sarebbe
stata approvata dopo l’effettuazione delle stesse.
In proposito si osserva quanto segue.
L'art. 12, primo comma, del d.P.R. n. 487 del 1994
stabilisce che <<Le commissioni esaminatrici, alla prima
riunione, stabiliscono i criteri e le modalità di
valutazione delle prove scritte>>.
La giurisprudenza ritiene tuttavia che non vi sia vizio
invalidante qualora tali criteri, pur se non nella prima
seduta della commissione, vengano comunque definiti prima
che si proceda alla correzione delle prove scritte. Ciò che
conta infatti è che venga garantita la trasparenza
nell’espletamento della prova concorsuale, risultato questo
che si ottiene qualora la determinazione e la verbalizzazione dei criteri avvenga in un momento nel quale
non possa sorgere il sospetto che questi ultimi siano volti
a favorire o sfavorire alcuni concorrenti (cfr. Consiglio di
Stato, VI, 19.03.2015, n. 1411; id. 26.01.2015, n.
325; id. VI, 03.03.2014, n. 990).
Né può ritenersi che la fissazione e la pubblicizzazione dei
criteri di valutazione sarebbero necessarie per consentire
ai candidati di poter meglio calibrare le proprie risposte.
L’unica funzione svolta dalla prescrizione contenuta nel
richiamato articolo 12 è, come detto, quella di garantire la
trasparenza ed imparzialità nella fase di correzione e di
verificare ex post la correttezza e congruità delle
operazioni valutative; è dunque estranea alla sua ratio la
funzione di orientamento ex ante dei candidati nello
svolgimento delle prove concorsuali (cfr. Consiglio di
Stato, VI, 19.03.2015, n. 1411).
Ciò premesso, risulta dagli atti depositati in giudizio che,
nella vicenda in esame, i criteri di valutazione delle prove
scritte sono stati definiti prima dell'inizio della
correzione. Ne consegue che la censura in esame non può
essere accolta.
Infine, con l’ultimo motivo del ricorso introduttivo, i
ricorrenti lamentano il peso eccessivo attribuito dalla
Commissione all’indicatore “originalità”, rilevando che tale
indicatore sarebbe del tutto inadeguato per valutare prove
di carattere matematico-scientifico quali quelle da essi
espletate.
A questo proposito il Collegio osserva che, per pacifico
orientamento giurisprudenziale, in materia di pubblici
concorsi, le commissioni esaminatrici, chiamate prima a
fissare i parametri di valutazione e poi a giudicare le
prove svolte dai candidati, non effettuano una ponderazione
di interessi, ma esercitano un'amplissima discrezionalità
tecnica, sulla quale il sindacato di legittimità del giudice
amministrativo è limitato al riscontro del vizio di eccesso
di potere in particolari ipotesi limite, riscontrabili
dall'esterno e con immediatezza dalla sola lettura degli
atti (errore sui presupposti, travisamento dei fatti,
manifesta illogicità o irragionevolezza). Anche la scelta
concernente l'individuazione dei criteri di massima per la
valutazione delle prove è quindi sindacabile dal giudice
amministrativo solo qualora appaia evidente che l'esercizio
del potere discrezionale sia trasmodato in uno o più dei
vizi sintomatici dell'eccesso di potere (cfr. Consiglio di
Stato, sez. V, 28.02.2018, n. 1218; id. sez. IV, 30.08.2017, n. 4107).
Ciò premesso, è opinione del Collegio che gli interessati
non abbiano sufficientemente illustrato le ragioni per le
quali l’indicatore originalità sarebbe del tutto inadeguato
per procedere alla valutazione delle prove da loro in
concreto espletate, essendosi gli stessi limitati a
formulare una affermazione generale ed indimostrata secondo
cui l’originalità sarebbe sempre estranea alle materie
matematiche e scientifiche. Non sono stati pertanto
evidenziati quegli elementi di irragionevolezza nella scelta
in concreto operata dall’Amministrazione che soli avrebbero
potuto giustificare il sindacato di questo giudice.
Per questi motivi, anche la censura in esame è infondata.
Si può ora passare all’esame dei motivi aggiunti con i quali
è stata impugnata la graduatoria finale di merito del
concorso di cui è causa.
I ricorrenti deducono in questa sede il vizio di invalidità
derivata riproponendo le stesse censure già dedotte nel
ricorso introduttivo.
Come visto, però, le censure contenute nel ricorso
introduttivo sono tutte infondate; non può pertanto
sussistere il vizio di invalidità derivata.
Con altra censura contenuta nei motivi aggiunti, i
ricorrenti rilevano che il TAR del Lazio, con sentenze n.
1376 del 2017 e n. 1121 del 2017, ha annullato l’art. 8,
comma 4, del d.m. n. 95 del 2016, norma applicata nel caso
in esame che disciplinava le modalità di calcolo del
punteggio complessivo da attribuirsi a prova scritta e prova
pratica. Secondo gli stessi ricorrenti queste pronunce
produrrebbero effetto favorevole anche nei loro confronti in
quanto trattasi di sentenze aventi efficacia erga omnes.
A questo proposito il Collegio deve innanzitutto rilevare
che, essendo il primo atto lesivo della posizione dei
ricorrenti quello che ha disposto la loro mancata ammissione
alla prova orale, l’illegittimità dell’art. 8, comma 4, del
d.m. n. 95 del 2016 (o comunque l’illegittimità del criterio
di calcolo del punteggio complessivo di prova scritta e
prova pratica) avrebbe potuto e dovuto essere dedotta
nell’atto introduttivo del presente giudizio con il quale è
stato appunto impugnato il provvedimento che ha disposto la
mancata ammissione alla prova orale.
Ciò posto, si deve escludere che l’efficacia erga omnes
delle pronunce rese dal TAR del Lazio possa
automaticamente ricadere a favore dei ricorrenti.
Va difatti osservato che l’annullamento della norma
regolamentare contenuta nell’art. 8, comma 4, del d.m. n. 95
del 2016, seppur recepita dal bando di concorso, non ha
comportato l’automatico travolgimento dei provvedimenti di
mancata ammissione dei concorrenti alla prova orale, e ciò
in quanto, come noto, l’invalidità ad effetto caducante –che comporta l’automatico travolgimento dell'atto
consequenziale– si verifica solamente quando l'atto
successivo venga a porsi nell'ambito della medesima sequenza procedimentale, quale inevitabile conseguenza dell'atto
anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni
di interessi (cfr. sul punto Consiglio di Stato, sez. V, 05.11.2014, n. 5463 che esclude che l’annullamento del
bando di concorso abbia effetto caducante sugli atti
successivi; si veda anche più in generale Consiglio di
Stato, sez. VI, 27.04.2011, n. 2482) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 04.02.2019 n. 251 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Troppo
su Facebook: licenziato. Condotta grave rubare tempo alle attività di
servizio. Sentenza della Cassazione. La notifica
telematica è valida anche con l’invio in Word.
Licenziato il dipendente che sta sempre su Facebook. Decisiva la cronologia
del pc, l’incolpato non può smentire i 4.500 accessi con password al social
in 18 mesi: «condotta contraria all’etica comune». Anche senza il pdf conta
che lo scopo sia raggiunto.
Tempi duri per i dipendenti che
stanno sempre su Facebook dal pc aziendale. Scatta il licenziamento
disciplinare: rubare tempo alle attività di servizio costituisce una
condotta «grave» perché in contrasto con «l'etica comune» e
finisce per incrinare la fiducia del datore. Ancora. È valida la notifica
telematica anche se alcuni documenti sono inviati in Word: conta il
risultato della conoscenza dell'atto.
È quanto emerge dalla
sentenza 01.02.2019 n. 3133 della Sez. lavoro della Corte di
Cassazione.
Condotte estranee
Bocciato il ricorso della segretaria assunta part-time presso lo studio
medico: gran parte della giornata lavorativa risulta trascorsa su Internet
per motivi privati; lo dimostrano i circa 4.500 accessi soltanto sul social
network blu, sui circa 6 mila totali al web, effettuati nel corso di
diciotto mesi dal computer della sua postazione. E risulta «senza dubbio
grave» la condotta addebitata perché la lavoratrice approfitta della
fiducia del datore che non sottopone il pc della dipendente a rigide
verifiche.
A inchiodarla è la semplice cronologia degli accessi alla rete, dunque non
un particolare dispositivo di controllo installato sul pc, ma semplici dati
che sono registrati da qualsiasi computer: risulta esclusa ogni violazione
dell'articolo 4 dello statuto dei lavoratori perché non si configura una
verifica sulla produttività o l'efficienza ma finiscono nel mirino condotte
estranee alla prestazione.
Credenziali e riferibilità
In effetti la dipendente incolpata non contesta la navigazione in rete
durante l'orario di servizio per motivi estranei all'ambito lavorativo:
d'altronde al social creato da Mark Zuckerberg si accede solo con password e
con l'inserimento delle credenziali la lavoratrice non riesce a smentire che
gli accessi contestati siano riferibili a lei.
Inutile dolersi, poi, per la mancata ammissione della consulenza tecnica
d'ufficio richiesta per ricostruire l'assetto del personal computer:
l'istanza è un mezzo puramente esplorativo, al di là dei dubbi che in
assoluto suscita l'ipotesi di identificare chi ha utilizzato il pc con un
esame tecnico postumo. Non può poi essere esaminata la violazione delle
regole della privacy: è una questione che non risulta sollevata nel corso
dei gradi di merito.
Difformità dirimente
Veniamo alla questione processuale. È esclusa la nullità nonostante la
violazione delle regole del processo telematico che impongono di notificare
atti in formato pdf: risulta dirimente che sia comunque raggiunto lo scopo
legale della notificazione. Né rileva che il documento notificato con
estensione doc o docx potrebbe essere modificato, diversamente dal pdf: in
effetti il ricorso di legittimità deve essere depositato in formato cartaceo
e dunque conta soltanto che non vi siano difformità tra quanto notificato in
via telematica e ciò che risulta agli atti della Suprema corte.
Alla lavoratrice non resta che pagare le spese di giudizio e il contributo
unificato aggiuntivo (articolo ItaliaOggi del
02.02.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Posizioni organizzative, aumenti di stipendio fino ai nuovi tetti
contrattuali solo negli Enti senza dirigenti.
Ha resistito alla falcidia degli emendamenti in fase di conversione del
decreto semplificazioni il possibile incremento della remunerazione delle
posizioni organizzative, ma solo per gli enti privi di dirigenza. Il
finanziamento degli aumenti, decisi in via autonoma da questi enti, dovrà
avvenire all'interno delle risorse previste dal contratto nazionale
(articolo 15, commi 2 e 3, del contratto 21.05.2018), ma dovrà essere
coperto, se sussiste la capacità di spesa in bilancio, con una riduzione per
equivalente della capacità assunzionale.
Le indicazioni dell'emendamento approvato
L'emendamento ha accolto la richiesta elaborata dall'Anci, limitandone
l'applicazione ai soli enti privi di dirigenti, in considerazione delle
maggiori responsabilità connesse agli incaricati di posizione organizzativa,
dove il sindaco attribuisce a questo personale anche le funzioni
dirigenziali (articolo 107 del testo unico degli enti locali). Non sono
state, invece, considerate sufficienti le indicazioni strategiche contenute
nel contratto del 21.05.2018 che ha previsto in modo innovativo, ai
titolari di posizione organizzativa negli enti con dirigenza, il possibile
conferimento di deleghe dirigenziali.
I limiti all'incremento economico
La possibilità riconosciuta agli enti privi di dirigenti, tuttavia, rimane
condizionata a una serie di verifiche di neutralità finanziaria della spesa.
Il primo limite è dato dall'obbligatoria, correlata e identica riduzione
delle capacità assunzionali, ossia riducendo il ricorso alle assunzioni
esterne (concorsi, scorrimento di graduatorie, passaggio da tempo parziale a
tempo pieno e mobilità non neutre). Si ricorda che le capacità assunzionali
per l'anno 2019 sono pari al 100% del valore economico delle cessazioni
avvenute nell'anno 2018, alle quali andranno aggiunti gli eventuali resti
assunzionali non utilizzati nel triennio precedente, pari agli importi delle
cessazioni, degli anni 2017, 2016 e 2015, non utilizzate.
Altro limite è rappresentato dalla spesa complessiva del personale che non
potrà essere superiore alla spesa media sostenuta nel triennio 2011-2013
(comma 557-quater dell'articolo 1 della legge 296/2006) ovvero, per gli enti
con popolazione inferiore a 1.000 abitanti, alla spesa sostenuta nell'anno
2008 (comma 562 della legge finanziaria 2007).
La terza e ultima condizione, essendo la maggiore spesa corrente finanziata
dal bilancio, riguarda pur sempre il mantenimento degli equilibri di parte
corrente.
Qualora queste condizioni fossero rispettate, allora i maggiori importi
erogati ai titolari di posizioni organizzative (nel limite massimo di 16.000
euro per il personale di categoria D e 9.500 per quello di categoria C),
rispetto a quelli corrisposti alla data di entrata in vigore della legge di
conversione, non sarà soggetta al limite stabilito dall'articolo 23, comma
2, del Dlgs 75/2017 che prevede di non superare i valori del salario
accessorio stanziati nell'anno 2016 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'01.02.2019). |
gennaio 2019 |
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PUBBLICO IMPIEGO: Risarcibile
il danno da mancata assunzione se il bando di concorso è illegittimo.
L'annullamento del bando di concorso per selezionare personale destinato
alla Provincia di Campobasso, ritenuto illegittimo, può determinare la
condanna della pubblica amministrazione al risarcimento per perdita di
chance soprattutto nel caso in cui risulti fondata la possibilità di
accedere (anche per i curricula dei partecipanti) all'assunzione.
Questo, in sintesi, l'importante approdo al quale giunge il TAR Molise con la
sentenza
31.01.2019 n. 46.
La richiesta di risarcimento
Il giudice molisano ha affronta la questione della legittimità della
richiesta di risarcimento danni per mancata assunzione. Nel caso specifico,
i ricorrenti hanno impugnato innanzi al Capo dello Stato un bando di
assunzione a tempo determinato (indetto dalla Provincia di Campobasso)
annullato per la presenza di una clausola (illegittima) che impone il
requisito della residenza in un Comune della Regione.
Successivamente, su ricorso della Provincia, il decreto presidenziale è
stato annullato in primo grado, mentre il Consiglio di Stato (appello
promosso dai ricorrenti) ha ribadito l'illegittimità del bando. Il lungo
decorso dei tempi, però, ha impedito ai ricorrenti di partecipare alle
selezioni e per effetto di quanto, gli stessi, si sono determinati a
chiedere il risarcimento dei danni per mancata assunzione.
La Provincia, chiamata in causa, nelle proprie memorie ha chiesto al giudice
di respingere l'istanza stante il «mancato assolvimento dell’onere della
prova sulla condotta illegittima e sul danno ingiusto» nonché per «mancanza
di una perdita di chance risarcibile, stante la non elevata possibilità dei
ricorrenti di risultare vincitori nella selezione, trattandosi, (…), di una
mera aspettativa di fatto».
La decisione
Il giudice accoglie invece le istanze risarcitorie fondando il proprio
ragionamento sulla circostanza per cui «l’imposizione quale requisito» di
partecipazione alla selezione della «residenza dei concorrenti (…),
censurata perché contraria alla legge e ai principi costituzionali, è
rilevante ai fini dell’invocata tutela e spiega il nesso di causalità tra la
condotta antigiuridica (colposa o dolosa) e il procurato pregiudizio patito
dagli aspiranti che hanno subito l’esclusione dal bando per via della
mancanza del requisito di residenza».
«Tale pregiudizio, si legge in sentenza, deve ritenersi sicuramente
risarcibile ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile norma che impone
il dovere primario di non cagionare danni ingiusti».
L'elemento soggettivo della responsabilità civile, prosegue il giudice, deve
ritenersi «insito nel comportamento colpevole, derivato dalla scelta
inopinata di violare, nella procedura, i fondamentali parametri della
Costituzione e della legge (art. 1 legge n. 241/1990), vale a dire i
principi di uguaglianza, imparzialità, trasparenza, pari opportunità,
proporzionalità, ragionevolezza, adeguatezza, non discriminazione, nonché il
principio di legalità di cui all’articolo 51, comma primo, della
Costituzione, a tenore del quale tutti i cittadini italiani possono accedere
agli uffici pubblici, secondo i requisiti stabiliti dalla legge».
L'utilizzo del requisito della residenza –pur consentito in limitatissime
ipotesi dal decreto legislativo 165/2001– nel caso di specie è stato
utilizzato in maniera fuorviante e non appropriata in quanto non necessario
«all’assolvimento di servizi altrimenti non attuabili o almeno non attuabili
con identico risultato».
Il risarcimento
L'accertata illegittimità dell'azione amministrativa, integra pertanto «ex
se l’illiceità della condotta» (Cassazione civile, sezioni unite n.
500/1999, n. 13164/2005; n. 20358/2005; Cons. Stato n. 3169/2001, n.
1261/2004, n. 5500/2004, n. 478/2005) aprendo al risarcimento per danno
ingiusto.
In questo senso, il danno da perdita di chance «si verifica tutte le volte
in cui il venir meno di un’occasione favorevole, cioè la perdita della
possibilità di conseguire un risultato utile, è determinato e causato
dell’adozione di un atto illegittimo da parte della Pa determinando un
mancato guadagno». Nel caso di specie, in base ai curricula risultava
«provata» l'elevata possibilità di risultare vincitori della selezione.
Il giudice, infine, non condivide però il calcolo del quantum del
risarcimento fondato sulla mancata percezione delle retribuzioni dovendo
questa, caso mai, essere ricalibrata tenendo conto del numero degli
aspiranti che –senza il criterio della residenza– avrebbero potuto essere
più numerosi. Pertanto, conclude il giudice, la determinazione del
risarcimento deve avvenire «secondo una valutazione equitativa, ex articolo
1226 del codice civile, commisurandola ove possibile al grado di probabilità
che quel risultato favorevole avrebbe potuto essere conseguito»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.02.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO: Risarcimento
per perdita di chance all'escluso dal concorso per il requisito della
residenza in Regione.
Va risarcito a titolo di perdita di chance il concorrente escluso da una
selezione per mancanza del requisito della residenza in un Comune della
Regione, requisito dichiarato illegittimo a seguito della decisione di
ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
Lo ha stabilito il TAR
Molise con la
sentenza
31.01.2019 n. 46.
Si trattava di bando della Provincia di Campobasso per l'istaurazione di
rapporti di lavoro a tempo determinato per il profilo professionale di
istruttore direttivo - categoria D1.
La prova del danno
Secondo il Tar non vi è necessità di una ulteriore prova della condotta che
ha causato il danno ingiusto (articolo 2043 del codice civile) né sussiste
margine per la scusabilità dell'errore della Pa dal momento che non poteva
giustificabilmente sfuggire all'Amministrazione (e ai suoi funzionari) il
dato palese e inequivocabile dell'illegittimità radicale della clausola di
preclusione territoriale contenuta nel bando.
È evidente e non necessita di
prova il fatto che dal comportamento illegittimo della Provincia sia
derivato un danno patrimoniale, qualificabile in termini di pregiudizio per
la perdita di chance, da parte dei ricorrenti. È palese la sussistenza del
rapporto causale tra il fatto ostativo (l'esclusione dalla selezione) e il
pregiudizio della perdita di una ragionevole probabilità di conseguimento
del risultato atteso dai ricorrenti, di collocarsi, previo superamento della
prova, in una posizione non solo idonea ma utile nello scorrimento di una
delle sei graduatorie di concorso definitivamente approvate.
La perdita di chance
I giudici molisani hanno poi ricordato che il danno da perdita di chance si
verifica tutte le volte in cui il venir meno di un'occasione favorevole,
cioè la perdita della possibilità di conseguire un risultato utile, è
determinato e causato dell'adozione di un atto illegittimo da parte della Pa,
determinando un mancato guadagno. La chance è un bene giuridico autonomo,
integrante il patrimonio del soggetto.
Va così risarcita la perdita di
chance, ove sussista la lesione di un interesse giuridicamente tutelato,
avendo la pretesa di risarcimento a oggetto non un danno futuro e incerto ma
un danno attuale, quale è appunto la perdita dell'occasione favorevole. La
lesione della chance, quindi, comporta un danno valutabile in relazione alla
probabilità perduta, piuttosto che al vantaggio sperato.
No al danno esistenziale
Il Tar ha poi considerato che non può essere, nella fattispecie,
riconosciuta la sussistenza di un danno esistenziale, poiché non vi è prova
alcuna che dall'evento dannoso (l'esclusione dal concorso) sia derivata una
compromissione dell'integrità psico-fisica dei ricorrenti e, non essendo
stato provato alcun danno emergente (quale potrebbe essere stata, ad
esempio, un'eventuale spesa sostenuta da ciascun ricorrente per acquisire la
possibilità di partecipare alla selezione), il Tar ha quindi verificato la
misura del mancato guadagno
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.02.2019). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Malattia e congedo straordinario per assistenza familiare.
Domanda
La malattia interrompe il congedo straordinario retribuito per assistenza a
familiare portare di handicap grave?
Risposta
La fonte del diritto che disciplina il congedo straordinario retribuito è
l’art. 42, comma 5 e seguenti, del d.lgs. 151/2001. Si tratta di uno
strumento rivolto a tutelare il diritto indisponibile della persona disabile
di ricevere assistenza da parte dei soggetti legittimati indicati dalla
norma.
Appare evidente che il presupposto affinché questo possa accadere, siano le
buone condizioni di salute del soggetto che realizza l’intento
assistenziale. Ma cosa accade se durante il congedo retribuito, il
richiedente si ammala?
Va ricordato che la misura del congedo retribuito è pari a due anni (art.
42, comma 5-bis, d.lgs. 151/2001), fruibili continuativamente ma anche in
modo frazionato (a giorni interi, ma non ad ore).
Sono pertanto molto diverse le situazioni di fronte alle quali ci si può
imbattere.
Può accadere che nei due anni di congedo occorra un episodio morboso di
lunga durata, ma può anche accadere che in un periodo frazionato molto breve
di congedo straordinario, occorra un evento morboso che attraversa gli
stessi periodi di congedo in precedenza programmati.
È indubbio che il giustificativo dell’assenza di un dipendente deve essere
riconducibile ad un solo istituto giuridico: malattia o congedo
straordinario?
Il dipartimento della Funzione Pubblica, organo competente in materia, non
offre soluzioni interpretative che invece l’INPS ha fornito nella circolare
n. 64 del 15.03.2001 come segue: “Il verificarsi, per lo stesso soggetto,
durante il “congedo straordinario”, di altri eventi che di per sé potrebbero
giustificare una astensione dal lavoro, non determina interruzione nel
congedo straordinario. In caso di malattia o maternità è però fatta salva
una diversa esplicita volontà da parte del lavoratore o della lavoratrice
volta ad interrompere la fruizione del congedo straordinario, interruzione
che può comportare o meno, secondo le regole consuete, l’erogazione di
indennità a carico dell’INPS; in tal caso la possibilità di godimento, in
momento successivo, del residuo del congedo straordinario suddetto, è
naturalmente subordinata alla presentazione di nuova domanda. A proposito
della indennizzabilità o meno dell’evento di malattia o di maternità che
consente l’interruzione del congedo straordinario si sottolinea in
particolare che, considerato che la fruizione del congedo straordinario
comporta la sospensione del rapporto di lavoro, l’indennità è riconoscibile
solo se non sono trascorsi più di 60 giorni dall’inizio della sospensione
(in linea di massima coincidente, come è noto, con l’ultima prestazione
lavorativa)”.
Le indicazioni fornite dall’Inps valgono sicuramente per le aziende private,
per le quali l’Inps indennizza il congedo straordinario. Diversa è la
condizione della Pubblica Amministrazione, che si fa carico dell’indennità
di congedo straordinario e che può cautamente assumere gli indirizzi forniti
dall’Inps non trascurando la ratio degli istituti e la valenza sociale degli
interessi tutelati (31.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: L'assoluzione
piena del dipendente pubblico non basta da sola per il rimborso delle spese
legali.
La costituzione dell'ente come parte civile e la tipologia di reato
contestato contrario ai doveri d’ufficio possono essere rilevanti per
escludere il rimborso delle spese legali sostenute per la difesa del
dipendente pubblico, perché da sola sufficiente l'assoluzione piena non è
sufficiente.
Queste in sintesi le conclusioni della Corte di Cassazione - Sez. I civile
(ordinanza
29.01.2019 n. 2475).
I fatti
La vicenda riguarda l'assoluzione piena, disposta dal giudice penale, per il
reato di corruzione e con costituzione di parte civile da parte dell'ente.
Pur riguardando un amministratore regionale, la disciplina applicabile, per
espressa previsione delle legge regionale, è quella dei dipendenti delle
amministrazioni statali (articolo 18, comma 1, del Dl 67/1997). La richiesta
di rimborso delle spese legali sostenute da parte dell'amministratore ha
fatto seguito alla piena assoluzione del dipendente ma con rifiuto da parte
dell'ente.
Il Tribunale di primo grado ha confermato la non rimborsabilità delle spese
legali, in considerazione del conflitto di interessi reso evidente dalla
costituzione di parte civile dell'ente. Sulla stessa linea la sentenza della
Corte d’appello che, nonostante la piena formula assolutoria dai reati
ascritti, ha ritenuto che il reato di corruzione non potesse avere alcun
riferimento diretto a un espletamento di un servizio o all'assolvimento di
obblighi istituzionali. Infatti, il reato di corruzione è di per sé
sufficiente a ritenere che si versasse in una condotta contraria ai doveri
d'ufficio, di qui il conflitto di interessi con l'ente di appartenenza che
esclude la rimborsabilità delle spese.
Il ricorso in Cassazione è stato motivato per una non corretta
interpretazione, a dire dell'amministratore regionale, della normativa sul
conflitto di interessi, dove l'assoluzione piena nel giudizio penale ne
cancella sin dall'origine gli effetti, a nulla rilevando la costituzione di
parte civile dell'ente. Se ciò non fosse vero le funzioni del dipendente
verrebbero incise sin dall'inizio a prescindere dall'esito del procedimento
penale.
Le precisazioni della Cassazione
Secondo i giudici di legittimità il rimborso delle spese legali, reclamate
dal dipendente all'ente di appartenenza, devono obbligatoriamente trovare la
loro causa in un interesse della pubblica amministrazione. Questo interesse
si realizza solo qualora sussista un legame inscindibile con l'attività
espletata dal dipendente pubblico e un fine pubblico della funzione svolta.
Questo principio implica, pertanto, che ci sia un nesso di strumentalità tra
l'adempimento del dovere e il compimento dell'atto, nel senso che il
dipendente non avrebbe assolto i suoi compiti se non compiendo quel fatto o
quell'atto.
In conclusione, se l'accusa è quella di aver commesso un reato che contempli
l'ente locale come parte offesa (e, quindi, in oggettiva situazione di
conflitto di interessi), il diritto al rimborso non sorge affatto,
escludendo dunque che esso emerga solo nel momento in cui il dipendente sia
stato, in ipotesi, assolto dall'accusa.
Anche a voler escludere la costituzione di parte civile dell'ente, il
rimborso delle spese è stato negato in quanto l'imputazione penale ha
riguardato fatti di grave violazione dei doveri d'ufficio -delitto di
corruzione- che avrebbero potuto, qualora accertati positivamente,
legittimare l'ente a chiedere il risarcimento dei danni al dipendente.
L'assoluzione piena ha, invece, impedito che l'ente potesse reclamare un
risarcimento, non potendo in questo caso il dipendente chiedere anche il
rimborso delle spese sopportate in presenza di questi interessi contrapposti
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'11.02.2019).
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MASSIMA
I primi due motivi, da esaminare congiuntamente poiché connessi,
sono infondati.
La Corte d'appello ha fatto corretta applicazione dei principi in materia a
tenore dei quali (v. Cass. n. 2366/2016) l'Amministrazione è legittimata a
contribuire alla difesa del suo dipendente imputato in un procedimento
penale sempre che sussista un interesse specifico al riguardo e tale
interesse è ravvisabile qualora sussista l'imputabilità dell'attività
all'Amministrazione stessa e dunque una diretta connessione di tale attività
con il fine pubblico (così anche Cass. n. 5718/2011; n. 24480/2013; Cass. n.
27871/2008; Cass., n. 20561/2018).
La connessione dei fatti con l'espletamento del servizio o con
l'assolvimento di obblighi istituzionali va intesa nel senso che tali atti e
fatti devono essere riconducibili all'attività funzionale del dipendente
stesso in un rapporto di stretta dipendenza con l'adempimento dei propri
obblighi, dovendo trattarsi di attività che necessariamente si ricollegano
all'esercizio diligente della pubblica funzione, nonché occorre che vi sia
un nesso di strumentalità tra l'adempimento del dovere e il compimento
dell'atto, nel senso che il dipendente non avrebbe assolto ai suoi compiti
se non compiendo quel fatto o quell'atto (Consiglio di Stato, 26.02.2013, n.
1190, e 22.12.1993, n. 1392).
Quanto all'ulteriore requisito costituito dall'assenza di un conflitto di
interessi con l'Amministrazione di appartenenza, preme rilevare che questa
Corte ha affermato che il conflitto d'interessi è rilevante
indipendentemente dall'esito del giudizio penale e dalla relativa formula di
assoluzione; ne consegue che al dipendente comunale, assolto
dall'imputazione, non compete il rimborso delle spese legali qualora il
giudice penale abbia evidenziato che i fatti ascrittigli esulavano dalla
funzione svolta e costituivano grave violazione dei doveri d'ufficio (Cass.
n. 2297/2014).
Pertanto, i motivi in esame non hanno fondamento in quanto vertono
esclusivamente sulla censura della decisione impugnata che non avrebbe
tenuto conto dell'assoluzione con la formula "perché il fatto non
sussiste", formula ritenuta erroneamente, di per sé, legittimante il
rimborso delle spese legali della difesa nel processo penale; invece, il
presupposto cui è subordinato tale rimborso consiste nel fatto che la
condotta di reato, come ascritta all'imputato, si ponga in violazione dei
doveri d'ufficio, con conseguente dissoluzione del rapporto
d'immedesimazione organica del dipendente con l'Ente di appartenenza.
In altri termini, ai fini del rimborso richiesto è necessario che il fatto
di reato oggetto dell'imputazione penale non configuri una fattispecie
ontologicamente in conflitto con i doveri d'ufficio che determini ipso facto
la legittimazione dello stesso Ente di costituirsi parte civile.
Da tale argomentazione discende che l'assoluzione, ancorché con la formula "piena",
non legittima il richiesto rimborso; il principio è stato ribadito da questa
Corte, secondo il cui orientamento se l'accusa è quella di aver commesso un
reato che contempli l'ente locale come parte offesa (e, quindi, in oggettiva
situazione di conflitto di interessi), il diritto al rimborso non sorge
affatto, escludendo dunque che esso emerga solo nel momento in cui il
dipendente sia stato, in ipotesi, assolto dall'accusa (Cass., ord. n.
18256/2018; in termini anche Cass. S.U., 04.06.2007 n. 13048). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Congedo papà
anno 2019.
Domanda
Il congedo obbligatorio dei papà è fruibile anche dai lavoratori pubblici o
solo dai privati? E cosa cambia nel 2019?
Risposta
Il congedo obbligatorio dei padri lavoratori nasce nella legge Fornero n. 92
del 26.06.2012 e riceve successiva disciplina nelle diverse Leggi di
Bilancio che hanno di volta in volta prorogato la disciplina sperimentale,
ampliando il congedo di anno in anno.
Si tratta di uno strumento di sostegno alla genitorialità che mira a
promuovere una cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei
figli all’intero della coppia.
Tuttavia, come ha avuto modo di chiarire anche il Dipartimento della
Funzione Pubblica con nota del 20.02.2013, la disciplina che regolamenta
questo istituto non è direttamente applicabile ai rapporti di lavoro dei
dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
Esistono due diversi tipi di congedo dei padri: quello obbligatorio e quello
facoltativo.
La disciplina di dettaglio dell’istituto, contenuta nel decreto del
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 22.12.2012, ha precisato
che, mentre i giorni di congedo obbligatorio sono aggiuntivi rispetto al
congedo di maternità, la fruizione, da parte del padre, del congedo
facoltativo, è invece condizionata alla scelta della madre lavoratrice di
non fruire di altrettanti giorni del proprio congedo di maternità, con
conseguente anticipazione del termine finale del congedo post partum
della madre, di un numero di giorni pari al numero di giorni fruiti dal
padre.
Quindi l’attenzione va rivolta a quei casi in cui un padre lavoratore
dipendente di un’azienda privata, goda del congedo facoltativo, “accorciando”
in questo modo di pari durata, il congedo obbligatorio della mamma
dipendente pubblica.
La disciplina vigente fino al 31.12.2018 è rappresentata in questo modo:
L. n. 92 del 28.06.2012 - Art. 24, comma a)
2013-2014-2015:
1 GIORNO OBBLIGATORIO - 2 GIORNI FACOLTATIVI
L. n. 208 del 28.12.2015 - Art. 1, comma 205
2016:
2 GIORNI OBBLIGATORI - 2 GIORNI FACOLTATIVI
Legge di Bilancio 2017 - Art. 1, comma 354
2017:
2 GIORNI OBBLIGATORI
2018:
4 GIORNI OBBLIGATORI - 1 GIORNO FACOLTATIVO
La legge di Bilancio del 2019, modifica e novella il contenuto del comma
354, art. 1, della Legge di Bilancio 2017, prevedendo per l’anno
2019 quanto segue:
• 5 giorni di congedo obbligatorio per il padre lavoratore
dipendente;
• 1 giorno di congedo facoltativo per il padre lavoratore
dipendente (24.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Assenteisti,
truffa aggravata anche se il danno è lieve.
È configurabile il reato di truffa aggravata per il dipendente che attesti
la sua presenza malgrado si sia allontanato dall'ufficio, anche se il danno
economico causato all'ente sia di per sé poco rilevante dal punto di vista
economico. Difatti, la condotta incide sull'organizzazione dell'ente stesso
e lede gravemente il rapporto fiduciario tra il singolo impiegato e il
datore di lavoro pubblico. In queste ipotesi può, eventualmente,
configurarsi l'attenuante della speciale tenuità del danno.
Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, Sez. II penale, con la
sentenza
23.01.2019 n. 3262.
Il caso
Al centro della vicenda c'è l'ennesimo caso di furbetti del cartellino.
Questa volta il protagonista è un solo dipendente pubblico, indagato per
truffa aggravata perché quasi quotidianamente, aggirando il sistema di
rilevazione dell'orario di presenza, decurtava minuti dalle sue giornate
lavorative. Per questo motivo il Gip aveva disposto la misura interdittiva
della sospensione dall'esercizio dei pubblici uffici per la durata di due
mesi.
Il dipendente pubblico però ha impugnato la decisione ottenendo dal
tribunale del riesame la revoca della misura. Per quest'ultimo, infatti, il
raggiro contestato era sì quasi quotidiano, ma di fatto inconsistente perché
avrebbe prodotto nel complesso assenze di pochi minuti quantificabili in
termini retributivi in poco più di 50 euro, traducendosi perciò in un danno
poco apprezzabile per la pubblica amministrazione.
La decisione
La Cassazione, con una sentenza concisa e ben argomentata, boccia totalmente
la decisione del riesame. Il Tribunale, infatti, ha escluso la
configurabilità della truffa valorizzando elementi che, al più, evidenziano
la sua non particolare gravità ma non ne impediscono la configurabilità. La
Corte ricorda che la falsa attestazione del pubblico dipendente relativa
alla sua presenza in ufficio, in qualunque modo essa avvenga, integra il
reato di truffa aggravata, sempre che i periodi di assenza siano
economicamente apprezzabili.
In quest'ottica, anche una indebita percezione
di poche centinaia di euro costituisce un danno economicamente apprezzabile
per il datore di lavoro pubblico, potendo l'esiguità della somma integrare
l'attenuante della speciale tenuità (articolo 62, comma 4, codice penale)
non certo impedire la configurabilità del reato previsto dall'articolo 640,
comma 2, n. 1, del codice penale.
Il Collegio rincara poi la dose affermando che per valutare l'entità del
danno non basta avere riguardo alla perdita economica ma assume rilievo
anche l'incidenza della condotta delittuosa sull'organizzazione dell'ente
pubblico, il quale potrebbe aver subito un pregiudizio rilevante per effetto
delle pur minime assenze, non tanto sotto un profilo quantitativo, ma sul
piano dell'efficienza degli uffici.
Per i giudici di legittimità, infatti, le singole assenze incidono
sull'organizzazione dell'ufficio «alterando la preordinata dislocazione
delle risorse umane» e «modificando arbitrariamente le prestabilite modalità
di prestazione della propria opera».
In sostanza, chiosa il Collegio, lo svolgimento della quotidiana attività
amministrativa è «messa a repentaglio dalle personali iniziative di quei
dipendenti che mutino a proprio piacimento i prestabiliti orari di presenza
in ufficio» e che forniscono una «prestazione diversa da quella
doverosa»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.01.2019).
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MASSIMA
2. Ciò premesso, come osservato dal P.M. ricorrente, il Tribunale ha
erroneamente escluso la configurabilità della contestata truffa,
valorizzando elementi atti ad evidenziarne la non particolare gravità, ma
che non ne impedivano la configurabilità.
2.1. Questa Corte (Sez. 5, sentenza n. 8426 del 17/12/2013, dep. 2014, Rv.
258987 - 01) ha già osservato che la falsa attestazione del
pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata sui
cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, integra il reato di truffa
aggravata ove il soggetto si allontani senza far risultare, mediante
timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza,
sempre che questi ultimi siano economicamente apprezzabili, osservando che
anche una indebita percezione di poche centinaia di euro, corrispondente
alla porzione di retribuzione conseguita in difetto di prestazione
lavorativa, costituisce un danno economicamente apprezzabile per
l'amministrazione pubblica.
2.2. L'affermazione può essere condivisa, ma con la
precisazione che la speciale tenuità del danno arrecato alla PA potrebbe al
più legittimare il riconoscimento della circostanza attenuante di cui
all'art. 62, comma 1, n. 4, c.p. (tenuto anche conto dell'entità del
profitto percepito), non certo impedire la configurabilità del reato.
2.3. Questa Corte (Sez. 6, sentenza n. 30177 del 04/06/2013, Rv. 256643) ha
già chiarito che, anche ai fini della configurabilità della
circostanza attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità, rilevano,
oltre al valore economico del danno, anche gli ulteriori effetti
pregiudizievoli cagionati alla persona offesa dalla condotta delittuosa
complessivamente valutata (fattispecie relativa ad una truffa commessa in
danno di Poste Italiane S.p.A. attraverso l'utilizzo abusivo dei cartellini
di ingresso e la conseguente alterazione dei dati sulle presenze in ufficio,
in cui è stata esclusa l'attenuante, richiamando la grave lesione del
rapporto fiduciario determinata dalla condotta delittuosa).
2.4. Osserva, in proposito, il collegio che assume all'uopo
rilievo anche l'incidenza dell'accertata condotta delittuosa
sull'organizzazione dell'ente interessato, che ben potrebbe aver subito
pregiudizio rilevante per effetto delle pur minime assenze de quibus,
poiché esse (ed il danno che ne consegue a carico della PA interessata)
vanno valutate non soltanto sotto un profilo quantitativo, in riferimento al
quantum di retribuzione in ipotesi indebitamente percepito dal deceptor,
ma anche in quanto mettano in pericolo l'efficienza degli uffici: le singole
assenze incidono, infatti, sull'organizzazione dell'ufficio, alterando la
preordinata dislocazione delle risorse umane, nella quale il singolo
funzionario non può ingerirsi, modificando arbitrariamente le prestabilite
modalità di prestazione della propria opera quanto agli specifici orari di
presenza.
La dislocazione degli impiegati nei singoli uffici è,
infatti, predisposta dai dirigenti a ciò preposti curando l'utile e
razionale impiego delle risorse disponibili, al fine di assicurare la
proficuità (anche in favore dell'utenza) dello svolgimento della quotidiana
attività amministrativa, certamente messa a repentaglio dalle personali
iniziative di quei dipendenti che mutino a proprio piacimento i prestabiliti
orari di presenza in ufficio (con il rischio di creare nocive scoperture ed
inutili accavallamenti, e comunque fornendo una prestazione diversa da
quella doverosa, non soltanto per durata, ma anche quanto all'orario di
inizio e di fine).
3. Il provvedimento impugnato va, pertanto, annullato, con rinvio per nuovo
esame al Tribunale di Reggio Calabria (Sezione per il riesame delle misure
coercitive), che valuterà nuovamente gli elementi acquisiti, uniformandosi
al seguente principio di diritto: «la falsa attestazione
del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata sui
cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, integra il reato di truffa
aggravata ove il soggetto si allontani senza far risultare, mediante
timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza,
che rilevano di per sé -anche a prescindere dal danno economico cagionato
all'ente truffato fornendo una prestazione nel complesso inferiore a quella
dovuta- in quanto incidono sull'organizzazione dell'ente stesso, modificando
arbitrariamente gli orari prestabiliti di presenza in ufficio, e ledono
gravemente il rapporto fiduciario che deve legare il singolo impiegato
all'ente; di tali ultimi elementi è necessario tenere conto anche ai fini
della valutazione della configurabilità della circostanza attenuante di cui
all'art. 62, comma 1, n. 4 c.p.». |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO:
Progressioni
verticali.
Domanda
Quali sono le modalità per realizzare le progressioni di carriera?
Risposta
A legislazione vigente esistono due normative che ammettono le progressioni
di carriera. La prima è l’art. 24 del d.lgs. 150/2009 (Brunetta):
Art. 24. Progressioni di carriera
“1. Ai sensi dell’articolo 52, comma 1-bis, del decreto legislativo n.
165 del 2001, come introdotto dall’articolo 62 del presente decreto, le
amministrazioni pubbliche, a decorrere dal 1° gennaio 2010, coprono i posti
disponibili nella dotazione organica attraverso concorsi pubblici, con
riserva non superiore al cinquanta per cento a favore del personale interno,
nel rispetto delle disposizioni vigenti in materia di assunzioni.
2. L’attribuzione dei posti riservati al personale interno è finalizzata a
riconoscere e valorizzare le competenze professionali sviluppate dai
dipendenti, in relazione alle specifiche esigenze delle amministrazioni”.
La seconda è l’art. 22, comma 15, del d.lgs. 75/2017 (Madia):
Art. 22, comma 15
“Per il triennio 2018-2020, le pubbliche amministrazioni, al fine di
valorizzare le professionalità interne, possono attivare, nei limiti delle
vigenti facoltà assunzionali, procedure selettive per la progressione tra le
aree riservate al personale di ruolo, fermo restando il possesso dei titoli
di studio richiesti per l’accesso dall’esterno. Il numero di posti per tali
procedure selettive riservate non può superare il 20 per cento di quelli
previsti nei piani dei fabbisogni come nuove assunzioni consentite per la
relativa area o categoria. In ogni caso, l’attivazione di dette procedure
selettive riservate determina, in relazione al numero di posti individuati,
la corrispondente riduzione della percentuale di riserva di posti destinata
al personale interno, utilizzabile da ogni amministrazione ai fini delle
progressioni tra le aree di cui all’articolo 52del decreto legislativo n.
165 del 2001”.
Nel primo caso la norma fa riferimento ai concorsi pubblici e ammette una
riserva non superiore al 50% a favore del personale interno.
In altre parole, l’ente può bandire un concorso per la copertura di due
posti (ad esempio: Istruttore Direttivo Amministrativo, Cat. D), di cui uno
riservato a personale interno che risulta idoneo nella graduatoria. In
questo caso, quindi, la riserva –per forza– deve essere calcolata sui posti
messi a concorso svolgendo prima le procedure di mobilità di cui all’art.
34-bis e all’art. 30 del d.lgs. 165/2001.
Nel secondo caso il riferimento è al 20% dei posti previsti nei piani
triennali dei fabbisogni 2018/2020, ma non si parla di posti messi a
concorso pubblico.
In questo caso, quindi, la riserva del 20% si può applicare sui posti che
l’ente, in base al Piano Triennale del fabbisogni, può assumere nel
triennio. Quindi, se i posti sono CINQUE, uno può essere coperto con una
procedura selettiva riservata al personale interno.
Ne restano quattro. Se di questi 4 posti, uno viene ricoperto con la
mobilità di cui all’art. 30, comma 2-bis, del d.lgs. 165/2001, ciò non
inficia la regolarità della procedura. Il riferimento è all’art. 30, comma
2-bis, perché quella è la procedura di mobilità che è propedeutica
all’indizione del concorso pubblico. Si ricorda, infine, che la norma “Madia”
è valida solo per il triennio 2018/2020 (17.01.2019 - tratto da e
link a www.publika.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Dirigenti,
niente compenso extra per gli incarichi in più.
Gli incarichi aggiuntivi che comportano la reggenza ad interim di altre
unità organizzative diverse da quella di cui il dirigente è titolare non
implicano la duplicazione della retribuzione, trattandosi di funzioni
rientranti nei compiti istituzionali del dirigente pubblico e non di
funzioni diverse ed ulteriori per le quali esista una precisa e specifica
previsione che attribuisca il relativo potere e preveda un compenso
aggiuntivo.
Lo afferma la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con l'ordinanza
15.01.2019 n. 836 .
Il caso
Il caso riguarda il dirigente di una Asl il quale aveva chiesto in sede
giudiziale il riconoscimento, in aggiunta al trattamento retributivo
percepito, dell'indennità di posizione e di risultato per il periodo in cui
aveva ricoperto altri incarichi dirigenziali in aggiunta a quello di cui era
titolare. Richiesta accolta dal Tribunale, secondo cui l’attività non
rientra nei compiti e nelle funzioni proprie del dirigente.
L'appello proposto dall'Asl, che ha invocato l'applicazione del principio di
onnicomprensività della retribuzione dei dirigenti, è stato rigettato dalla
Corte d'appello, la quale ha a sua volta ritenuto che l'attività svolta dal
dirigente non rientrava tra i compiti istituzionali strettamente connessi
all'incarico conferito, per cui non avrebbe potuto trovare applicazione il
principio di onnicomprensività.
L'onnicomprensività
Di tutt'altro avviso la Corte di cassazione, chiamata in causa dalla Asl
secondo cui il contratto ha definito la struttura della retribuzione
prevedendo, oltre allo stipendio tabellare, solo la retribuzione di
posizione e di risultato, per cui anche in relazione al conferimento di
incarichi ad interim deve valere il principio di onnicomprensività.
La Suprema Corte ha richiamato il principio ormai consolidato secondo cui
nel pubblico impiego privatizzato vige il principio di onnicomprensività
della retribuzione dirigenziale, in ragione del quale il trattamento
economico remunera tutte le funzioni e i compiti attribuiti ai dirigenti
secondo il contratto individuale o collettivo, nonché qualsiasi incarico
conferito dall'amministrazione di appartenenza o su designazione della
stessa.
Nel caso specifico, anche se la reggenza ad interim comportasse
contemporaneamente l'assunzione di responsabilità di due distinte unità
operative, secondo i giudici della Cassazione non può spettare la
duplicazione della retribuzione, trattandosi sempre di funzioni rientranti
nei compiti istituzionali del dirigente pubblico e non di funzioni diverse
ed ulteriori per le quali esista una precisa e specifica previsione che
attribuisca il relativo potere e preveda un compenso aggiuntivo.
La posizione dell'Aran
Più aperta la posizione dall'Aran, espressa più volte in sede di
orientamenti applicativi dei contratti della dirigenza. L'Agenzia sostiene
che è da escludere radicalmente che a un dirigente possano essere erogate
due o più retribuzioni di posizione. Tuttavia, sfruttando le clausole
contrattuali che impongono di utilizzare integralmente le risorse destinate
al finanziamento della retribuzione di posizione e destinare quelle
eventualmente residue per la retribuzione di risultato, l'Agenzia ritiene
che sia possibile utilizzare tali risorse per valorizzare il risultato dei
dirigenti incaricati ad interim in modo da tenere conto anche delle
responsabilità connesse alla gravosità della situazione determinatasi per
effetto dell'affidamento di più incarichi contemporaneamente.
La valorizzazione deve essere realizzata tenendo conto dei criteri di
determinazione del valore della retribuzione di risultato adottati dai
singoli enti che tengano conto anche del “peso” dell'incarico ad interim e
del maggiore impegno che complessivamente grava sul dirigente per effetto
del doppio incarico.
La retribuzione di risultato erogata al dirigente dovrà
dunque tenere conto della valutazione complessiva dei risultati conseguiti
dallo stesso nell'espletamento degli incarichi conferiti, secondo le
modalità stabilite dal sistema di valutazione adottato, escludendo che si
possa operare un semplice riproporzionamento del maggiore importo della
retribuzione di risultato stabilito in relazione alla durata temporale
dell'incarico ad interim
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.02.2019).
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MASSIMA
1. Con unico motivo di ricorso la Asl denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt. 2, terzo comma, e 24, terzo comma, e dell'art. 58
d.lgs. 165/2001 in relazione all'art. 360 n. 3 cod. proc. civ. per erronea
applicazione del principio di onnicomprensività della retribuzione dei
dipendenti pubblici.
Sostiene che la pronuncia impugnata si pone in contrasto con l'indirizzo
consolidato sia della giurisprudenza ordinaria che di quella contabile, che
proprio nella specifica materia si è più volte pronunciata in relazione al
profilo del danno erariale conseguente all'illegittima duplicazione della
retribuzione di posizione in favore del dirigente.
In particolare, la contrattazione collettiva dirigenziale del comparto
sanità ha definito la struttura della retribuzione prevedendo, oltre allo
stipendio tabellare, solo la retribuzione di posizione e di risultato, per
cui anche in relazione al conferimento di incarichi ad interim vige il
principio di onnicomprensività. In ogni caso, poi, gli incarichi di
dirigenza ad interim affidati al dott. Sa. mai potrebbero ritenersi
incarichi extraistituzionali, ai sensi e per gli effetti dell'art. 58 d.lgs.
165 del 2001.
2. Il ricorso merita accoglimento.
3. In via generale, va osservato che la giurisprudenza di legittimità
formatasi negli ultimi anni ha affermato il principio -da ritenere ormai
consolidato- secondo cui nel pubblico impiego privatizzato vige il principio
di onnicomprensività della retribuzione dirigenziale, in ragione del quale
il trattamento economico dei dirigenti remunera tutte le funzioni e i
compiti loro attribuiti secondo il contratto individuale o collettivo,
nonché qualsiasi incarico conferito dall'amministrazione di appartenenza o
su designazione della stessa. Così è stato ritenuto che
il dirigente
ministeriale, cui sia stato conferito un incarico aggiuntivo di reggenza
presso un altro ufficio pubblico, non ha diritto ad una maggiore
remunerazione, né, in caso di conferimento illegittimo di tale incarico, può
trovare applicazione l'art. 2126 cod. civ., riferibile alle ipotesi in cui
la prestazione lavorativa sia eseguita in assenza di titolo per la nullità
del rapporto di lavoro e non a quelle in cui i compiti attribuiti, sia pure
sulla base di determinazioni amministrative illegittime, siano comunque
riconducibili alla qualifica posseduta (Cass. n. 3094 del 2018).
3.1. Specificamente, quanto alla dirigenza medica, è stato chiarito che il
principio dì onnicomprensività della retribuzione, affermato dagli artt. 24,
comma 3, e 27, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, nonché dall'art. 60,
comma 3, del c.c.n.l. comparto dirigenza sanitaria dell'08.06.2000, opera
inderogabilmente in tutti i casi in cui l'attività svolta sia riconducibile
a funzioni e poteri connessi all'ufficio ricoperto, ed a mansioni cui il
dirigente è obbligato rientrando nei normali compiti di servizio, salvi i
soli incarichi retribuiti a titolo professionale dall'Amministrazione sulla
base di una norma espressa che gliene attribuisca il potere, sempre che ciò
non costituisca comunque espletamento di compiti di istituto (Cass. n. 8261
del 2017).
4. Poiché nel caso in esame è pacifico che gli incarichi aggiuntivi
concernevano la reggenza ad interim di altre unità operative diverse da
quella di cui il Santoro era titolare, ancorché ciò comportasse
contemporaneamente l'assunzione di (responsabilità di due distinte unità
operative, non può 'spettare la duplicazione della retribuzione, trattandosi
sempre di funzioni rientranti nei compiti istituzionali del dirigente
pubblico e non di funzioni diverse ed ulteriori per le quali esista una
precisa e specifica previsione che attribuisca il relativo potere e preveda
un compenso aggiuntivo.
5. Il ricorso va dunque accolto e la sentenza va cassata. |
PUBBLICO
IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
Responsabile Trasparenza e Responsabile Protezione Dati.
Domanda
Nel nostro comune (sopra 15.000 abitanti) è stato nominato Responsabile
della Prevenzione della Corruzione, il segretario comunale, che è anche
Responsabile della Trasparenza.
Dopo il nuovo Regolamento Europeo sulla privacy, abbiamo nominato anche il
Responsabile per la Protezione dei Dati che è un dipendente dell’ente.
Che rapporto ci deve essere tra le due figure? È possibile nominare RPD il
RPCT?
Risposta
Prima di entrare nel merito specifico del quesito è bene fornire qualche
indicazione di contesto.
Quello appena trascorso, si potrebbe definire come l’anno della privacy, dal
momento che hanno trovato attuazione le seguenti disposizioni legislative:
1. Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio
del 27.04.2016 “relativo alla protezione delle persone fisiche con
riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione
di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (Regolamento generale sulla
protezione dei dati)” pienamente operativo dal 25.05.2018;
2. Decreto legislativo 18.05.2018, n. 51, in vigore dal 08.06.2018,
recante Attuazione della direttiva (UE) 2016/680 del Parlamento europeo e
del Consiglio, del 27.04.2016, relativa alla protezione delle persone
fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle
autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e
perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera
circolazione di tali dati e che abroga la decisione quadro 2008/977/GAI del
Consiglio, (trattamento dei dati giudiziari);
3. Decreto legislativo 10.08.2018, n. 101, in vigore dal
19.09.2018, recante “Disposizioni per l’adeguamento della normativa
nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 27.04.2016, relativo alla protezione delle
persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla
libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE
(regolamento generale sulla protezione dei dati)”.
Per ciò che riguarda il trattamento dei dati personali da parte di soggetti
pubblici, ai fini della trasparenza, così come disciplinata dal d.lgs.
33/2013, è necessario sottolineare che l’art. 2-ter, del d.lgs. 196/2003
–aggiunto dal d.lgs. 101/2018– dispone che la base giuridica per il
trattamento dei dati, effettuato per l’esecuzione di un compito di interesse
pubblico “è costituita esclusivamente da una norma di legge o, nei casi
previsti dalla legge, di regolamento”.
Il regime normativo del trattamento dei dati delle persone fisiche, da parte
dei soggetti pubblici, pertanto, è rimasto sostanzialmente inalterato,
venendo ribadito il principio che il trattamento dei dati risulta consentito
unicamente se ammesso da una norma di legge o di regolamento, dove previsto
da una legge.
Per i comuni, quindi, resta acclarato che, prima di pubblicare nel proprio
sito web (Albo pretorio on-line e/o Amministrazione trasparente) dati e
documenti contenenti dati personali (sia in forma integrale o in estratto,
compresi gli allegati), occorre verificare che la disciplina in materia di
trasparenza contenuta nel d.lgs. n. 33/2013 o in altre normative, anche di
settore, preveda un espresso obbligo di pubblicazione.
A completamento della presente premessa, è bene ricordare, tuttavia, che
l’attività di pubblicazione dei dati sui siti web per finalità di
trasparenza –anche se effettuata in presenza di idoneo presupposto
normativo– deve sempre avvenire nel rispetto di tutti i principi applicabili
al trattamento dei dati personali [1],
quali quelli di liceità, correttezza e trasparenza; minimizzazione dei dati;
esattezza; limitazione della conservazione; integrità e riservatezza tenendo
anche conto del principio di “responsabilizzazione” del titolare del
trattamento.
In particolare, assumono rilievo i principi di adeguatezza, pertinenza e
limitazione a quanto necessario, rispetto alle finalità per le quali i dati
personali sono trattati («minimizzazione dei dati») e quelli di
esattezza e aggiornamento dei dati, con il conseguente dovere di adottare
tutte le misure ragionevoli per cancellare o rettificare tempestivamente i
dati inesatti rispetto alle finalità per le quali sono trattati.
Per ciò che attiene ai rapporti tra Responsabile della Trasparenza e
Responsabile della Protezione dei Dati, alcuni spunti di sicuro interesse
sono rinvenibili nella delibera ANAC n. 1074 del 21/11/2018 (pubblicata
sulla GU n. 296 del 21/12/2018), al Paragrafo 7, rubricato “Trasparenza e
nuova disciplina della tutela dei dati personali (Reg. UE 2016/679)”.
In sintesi, nel documento citato che contiene “Approvazione definitiva
dell’Aggiornamento 2018 al Piano Nazionale Anticorruzione”, l’ANAC
sostiene che:
a) se si tratta di due soggetti interni (si ricorda che il RPD
potrebbe anche essere soggetto esterno all’ente), è bene le due figure non
siano coincidenti nella stessa persona (il Segretario comunale, nei comuni),
dal momento che la sovrapposizione dei due ruoli potrebbe determinare una
limitazione allo svolgimento delle due attività, tenuto conto dei numerosi
compiti e responsabilità che le norme attribuiscono al RPCT e al RPD;
b) Eventuali eccezioni possono essere ammesse solo in enti di
piccoli dimensioni (comuni sotto 5.000 abitanti, per esempio) qualora la
carenza di personale renda, da un punto di vista organizzativo, non
possibile tenere distinte le due funzioni. In tali casi, le amministrazioni,
con motivato e specifico provvedimento (del Sindaco), potranno attribuire
allo stesso soggetto il ruolo di RPCT e RPD;
c) Il RPD, per le questioni di carattere generale riguardanti il
trattamento e la protezione dei dati personali, può certamente rappresentare
una figura di riferimento anche per il RPCT, anche se non potrà mai
sostituirsi ad esso nell’esercizio delle sue specifiche prerogate, stabilite
dalle legge 190/2012 e dalle successive disposizioni. Si pensi, al riguardo,
alla stesura della sezione Trasparenza del Piano Anticorruzione o alla
definizione delle istanze di riesame, nell’ambito dell’accesso civico
generalizzato (cd. FOIA), qualora la decisione del servizio detentore
dell’atto o del documento, riguardi profili attinenti alla protezione dei
dati. In tali casi, infatti, per obbligo di legge, il RPCT deve richiedere
un parere al Garante Privacy italiano ed è tenuto ad attenersi a quanto da
esso stabilito, a prescindere da una eventuale e preventiva consultazione
che l’ufficio, in prima istanza, possa aver intrattenuto con il RPD.
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[1] Vedi art. 5, Regolamento UE 2016/679 (15.01.2019 - tratto
da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Cumulo congedo biennale e permessi l. 104/1992.
Domanda
Un dipendente è stato collocato in congedo straordinario ex art. 42, comma
5, del d.lgs. 151/2001 per il periodo dal 1 gennaio al 28 gennaio.
Lo stesso ha fatto pervenire all’ente una richiesta di permessi ex art. 33
della l. 104/1992 per i giorni 29, 30 e 31 gennaio. È possibile accogliere
la summenzionata richiesta?
Risposta
Occorre in primis rilevare che il d.lgs. 119/2011 ha parzialmente
riordinato la normativa in materia del congedo (parentale e straordinario) e
di permessi per l’assistenza a persone con disabilità grave modificando
l’articolo 42, comma 5, del d.lgs. 151/2001.
Infatti, fino all’entrata in vigore del d.lgs. 119/2011, permessi e congedo
straordinario erano considerati due benefici aventi la medesima finalità,
ragion per cui non era prevista la possibilità di contemporanea fruizione (cumulabilità
invece ammessa esplicitamente per i permessi l. 104/1992 e congedo parentale
ordinario o congedo per la malattia del figlio).
Con l’entrata in vigore del citato d.lgs. 119/2011 il cumulo è invece
possibile.
Possibilità che è stata recepita dal Dipartimento della Funzione Pubblica
con
circolare n. 1 del 03/02/2012.
Si segnala che di recente l’INPS è ritornata sull’argomento con il
messaggio n. 3114 del 07.08.2018, nella quale al punto 4 ha avuto
modo di precisare che “è possibile cumulare nello stesso mese, purché in
giornate diversi, i periodi di congedo straordinario ex art. 42, comma 5,
del d.lgs. n. 151/2001 con i permessi ex art. 33 della legge n. 104/1992 ed
ex art. 33, comma 1, del d.lgs. n. 151/2001 (3 giorni di permesso mensili,
prolungamento del congedo parentale e ore di riposo alternative al
prolungamento del congedo parentale). Si precisa, al riguardo, che i periodi
di congedo straordinario possono essere cumulati con i permessi previsti
dall’articolo 33 della legge n. 104/1992 senza necessità di ripresa
dell’attività lavorativa tra la fruizione delle due tipologie di benefici.
Quanto sopra può accadere anche a capienza di mesi interi e
indipendentemente dalla durata del congedo straordinario” (10.01.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Incarichi
a contratto, niente spoils system nei Comuni.
L'incarico dirigenziale a contratto secondo quanto
previsto dall'articolo 110 del Tuel deve avere durata minima triennale e non
cessa automaticamente alla scadenza del mandato elettivo del sindaco o del
presidente della Provincia.
Lo sostiene il TAR Puglia-Lecce, Sez. III, con l'ordinanza
09.01.2019 n. 14.
La questione
Il ricorrente ha chiesto l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia,
dell'avviso pubblico di selezione indetta dalla Provincia di Taranto per il
conferimento di incarico a tempo determinato di un dirigente secondo
l’articolo 110, comma 1, del Tuel. Sulla materia esistono due riferimenti
normativi:
• quello generale, applicabile a tutte le Pa, espresso
dall'articolo 19 del Dlgs 165/2001, il cui comma 6 dispone che la durata
degli incarichi non può eccedere il termine di tre per quelli di livello
generale anni, di cinque per gli altri;
• e quello speciale per gli enti locali, contenuto all'articolo 110
del Tuel, che al comma 3 lega la durata degli incarichi dirigenziali al
mandato elettivo del sindaco o del presidente della Provincia in carica.
Il termine
Facendo riferimento a un apparato giurisprudenziale espresso dalla sezione
lavoro della Cassazione, il Tar Puglia rammenta che negli enti locali si
deve applicare il Dlgs 165/2001 e non già il Tuel. E questo perché la
disciplina statale integra quella degli enti locali: la prima, con la
predeterminazione della durata minima dell'incarico, è volta a evitare il
conferimento di incarichi troppo brevi e a consentire al dirigente di
esercitare il mandato per un tempo sufficiente a esprimere le sue capacità e
a conseguire i risultati per i quali l'incarico gli è stato affidato; la
seconda ha la funzione di fornire al sindaco/presidente uno strumento per
affidare incarichi di rilievo sulla base dell'intuitus personae, anche al di
fuori di un rapporto di dipendenza stabile e oltre le dotazioni organiche e
di garantire la collaborazione del funzionario incaricato per tutto il
periodo del mandato, fermo restando il rispetto del suddetto termine minimo
nell'ipotesi di cessazione di tale mandato.
Questo è tanto più vero alla luce delle modifiche introdotte all'articolo
110, comma 1, dall'articolo 11, comma 1, lettera a), del Dl 90/2014, in base
al quale gli incarichi a contratto devono essere conferiti previa selezione
pubblica volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di
comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie
oggetto dell' incarico.
Niente spoils system
Sulla base di questa posizione espressa dalla Suprema Corte, i giudici del
Tar Puglia concludono che l'incarico dirigenziale deve avere durata minima
triennale e non può interrompersi automaticamente alla scadenza del mandato
elettivo del presidente della provincia, come diretta applicazione
dell'articolo 19 del Dlgs 165/2001, applicabile agli enti locali anche nel
caso degli incarichi dirigenziali a soggetti esterni in base all’articolo
110.
Rilevano dunque i presupposti per la sospensione dell'efficacia dell'avviso
pubblico di selezione per il conferimento dell'incarico e disapplicano, in
via incidentale e cautelare, il decreto di nomina. Per la sentenza occorrerà
attendere il prossimo 2 ottobre, data fissa dal collegio per la trattazione
di merito del ricorso
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.01.2019).
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MASSIMA
Ritenuto, ad una sommaria delibazione propria della presente fase cautelare
del giudizio:
- che non sembrano fondate le eccezioni preliminari formulate dalla
Provincia di Taranto e che, in particolare, appare sussistere la
giurisdizione del Giudice Amministrativo, in quanto, nella fattispecie
concreta in esame, la gravata determinazione dirigenziale n. 178 del 21.11.2018 (di approvazione dell’avviso pubblico per il conferimento di
incarico a tempo determinato, ex art. 110 del Decreto Legislativo n.
267/2000) e, quindi, il relativo avviso pubblico sono stati adottati in data
successiva e non già antecedente rispetto agli atti impugnati connessi
(decreto del Presidente della Provincia di Taranto n. 99 del 15.11.2018 e atto dirigenziale prot. n. 35837 del 19.11.2018), sicché i
provvedimenti macro-organizzativi in questione, in quanto consequenziali,
non possono configurarsi quali atti presupposti degli atti gestionali di che
trattasi;
- che il ricorso risulta assistito dal necessario fumus boni iuris,
considerato:
- che “In tema di affidamento, negli enti locali, di incarichi
dirigenziali a soggetti esterni all’amministrazione si applica il D.Lgs. n.
165 del 2001, art. 19, nel testo modificato dal D.L. n. 155 del 2005, art.
14-sexies, convertito con modificazioni nella L. n. 168 del 2005, secondo
cui la durata di tali incarichi non può essere inferiore a tre anni né
eccedere il termine di cinque, e non già il D.Lgs. n. 257 del 2000, art.
110, comma 3 (T.U. Enti locali), il quale stabilisce che la incarichi a
contratto non possono avere durata superiore al mandato elettivo del Sindaco
in carica. La disciplina statale integra quella degli enti locali: la prima,
con la predeterminazione della durata minima dell'incarico, è volta ad
evitare il conferimento di incarichi troppo brevi ed a consentire al
dirigente di esercitare il mandato per un tempo sufficiente ad esprimere le
sue capacità ed a conseguire i risultati per i quali l’incarico gli è stato
affidato; la seconda ha la funzione di fornire al Sindaco uno strumento per
affidare incarichi di rilievo sulla base dell’intuitus personae, anche al di
fuori di un rapporto di dipendenza stabile e oltre le dotazioni organiche, e
di garantire la collaborazione del funzionario incaricato per tutto il
periodo del mandato del Sindaco, fermo restando il rispetto del suddetto
termine minimo nell’ipotesi di cessazione di tale mandato” (Cassazione
Civile, Sezione Lavoro, 13.01.2014, n. 478, tuttora e vieppiù
condivisibile alla luce delle modifiche introdotte al testo del citato art.
110 T.U.E.L. dall’art. 11, comma 1, lett. a), del Decreto Legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla Legge 11.08.2014, n.
114 - obbligo di previa selezione pubblica; si veda, anche, per analoghe
considerazioni, Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 05.05.2017, n. 11015);
- che, quindi, appare fondata ed assorbente la prima censura, in
quanto l’incarico dirigenziale del ricorrente (dirigente del Settore
Pianificazione e Ambiente, incarico non apicale, ma di tipo tecnico-professionale, involgente lo svolgimento di funzioni gestionali e di
esecuzione rispetto agli indirizzi politici deliberati dagli Organi di
governo degli Enti di riferimento, pure attribuito all’esito di selezione
pubblica) deve avere durata minima triennale (e, pertanto, con scadenza il
20.11.2020), anziché (automaticamente) alla scadenza del mandato
elettivo del Presidente della Provincia, ai sensi dell’art. 19 del Decreto
Legislativo n. 165/2001 e successive modifiche ed integrazioni, applicabile
agli Enti Locali anche nel caso degli incarichi dirigenziali a soggetti
esterni ex art. 110 del Decreto Legislativo n. 267/2000;
- sussistono, pertanto, i presupposti per la invocata sospensione
dell’efficacia della determinazione dirigenziale n. 178 del 21.11.2018
della Provincia di Taranto e del relativo avviso pubblico di selezione per
il conferimento di incarico a tempo determinato di Dirigente, ex art. 110,
comma 1, del Decreto Legislativo n. 267/2000, con disapplicazione, in via
incidentale e cautelare, ai sensi dell’art. 8, comma 1 del c.p.a., dell’atto
dirigenziale prot. n. 35837 del 19.11.2018 e del Decreto del
Presidente della Provincia di Taranto n. 99 del 15.11.2018, in parte
qua e nei limiti dell’interesse del ricorrente (e, peraltro, con ordinanza
n. 174/2019, il Tribunale Civile di Taranto - Sezione Lavoro ha accolto il
ricorso proposto ex art. 700 c.p.c., ordinando, per l’effetto, in via
provvisoria alla Provincia di Taranto di riconoscere al ricorrente il
diritto a svolgere, fino al 20.11.2020, l’incarico di Dirigente del
Settore Pianificazione e Ambiente, conferitogli ex art. 110 del Decreto
Legislativo n. 267/2000);
Rilevata, altresì, la sussistenza del danno grave ed irreparabile; |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Codice di
comportamento.
Domanda
Il nostro comune ha approvato il codice di comportamento di ente a gennaio
2014, secondo le indicazioni del d.p.r. 62/2013 e la delibera ANAC n. 75 del
24.10.2013. Dobbiamo procedere all’approvazione di un nuovo codice?
Risposta
Tra le numerose misure previste dalla legge Severino (legge 06.11.2012, n.
190) in materia di prevenzione della corruzione, l’adozione del Codice di
comportamento di amministrazione, rappresenta una delle misure più
significative e pregnanti, dal momento che riguarda lo strumento con cui
vengono regolate le condotte dei dirigenti e dei dipendenti, finalizzandole
verso una migliore attenzione per l’interesse pubblico e l’imparzialità
della pubblica amministrazione, prevista dall’art. 97 della costituzione.
La materia risulta, ad oggi, disciplinata dal nuovo articolo 54 del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, rubricato, appunto, “Codice di
comportamento”.
La vigente normativa prevede, infatti:
a) un codice nazionale, definito dal Governo e approvato con
decreto del Presidente della Repubblica (DPR 16.04.2013, n. 62), la cui
violazione è “fonte di responsabilità disciplinare”;
b) un codice per ogni amministrazione pubblica, definito con “procedura
aperta alla partecipazione” e con parere obbligatorio dell’OIV o NdV, la
cui violazione è anch’essa fonte di responsabilità disciplinare.
Entrambi i codici devono essere pubblicati, nel sito web istituzionale,
nella sezione Amministrazione trasparente> Disposizioni generali> Atti
generali.
È bene, inoltre, ricordare (art. 2, DPR 62/2013) che i codici di
comportamento, per quanto compatibili, si applicano anche:
– a tutti i collaboratori e consulenti con qualsiasi tipologia di
contratto o incarico e a qualsiasi titolo;
– ai titolari di organi e di incarichi negli uffici di diretta
collaborazione delle autorità politiche;
– ai collaboratori, a qualsiasi titolo, di imprese fornitrici di
beni o servizi e che realizzano opere in favore dell’amministrazione.
Sulla pratica e concreta applicazione delle norme contenute nei due codici
(nazionale e di ente) devono vigilare i dirigenti o le posizioni
organizzative, negli enti senza la dirigenza, nonché le strutture di
controllo interno (art. 147, TUEL 267/2000) e gli UPD (Uffici Provvedimenti
Disciplinari, art. 55-bis, d.lgs. 165/2001).
Chiarito ciò, rispondendo al quesito, è possibile sostenere che, al momento
attuale, nessuna norma di legge prevede l’obbligo di procedere alla
revisione del codice di comportamento approvato nell’ente, qualche anno fa.
Possiamo aggiungere, però, che la materia è oggetto di specifico studio da
parte dell’ANAC, che sta svolgendo un doveroso approfondimento sui punti più
rilevanti della disciplina, partendo dalla constatazione della scarsa
innovatività dei codici di amministrazione “di prima generazione”,
approvati – come prevedeva la norma – entro sei mesi dall’emanazione del DPR
62/2013.
Secondo l’ANAC, infatti, nella stragrande maggioranza dei casi, il codice di
ente si è limitato a riprodurre le previsioni del codice nazionale,
omettendo di individuare quegli obiettivi di lunga durata, finalizzati alla
riduzione del rischio corruttivo. Per tale ragione l’ANAC (delibera n. 1074
del 21/11/2018, Parte Generale, Paragrafo 8 “I codici di comportamento”),
ha previsto di emanare delle apposite Linee guida sull’adozione dei nuovi
codici di comportamento di amministrazione (definiti “di seconda
generazione”), preannunciando che le suddette Linee guida saranno
emanate nei primi mesi dell’anno 2019.
Alla luce del manifestato intendimento dell’ANAC, è consigliabile procedere
all’approvazione del Piano triennale Anticorruzione e Trasparenza 2019/2012,
secondo la normale scadenza di legge del 31.01.2019, riservandosi di “mettere
mano” al nuovo codice di comportamento di amministrazione –che dovrà
essere approvato sempre previo svolgimento della procedura aperta– appena
saranno applicabili le Linee guida dell’ANAC sulla specifica materia (08.01.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
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