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70-LOTTO EDIFICABILE - ASSERVIMENTO AREA - CESSIONE CUBATURA
71-LOTTO INTERCLUSO
72-MAPPE e/o SCHEDE CATASTALI (valore probatorio o meno)
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dossier MOBBING
anno 2013

PUBBLICO IMPIEGOIl danno da mobbing è una fattispecie che si fa risalire, quanto alla natura giuridica, alla responsabilità datoriale, di tipo contrattuale, prevista dall’art. 2087 del codice civile che pone a carico del datore di lavoro l’onere di adottare nell’esercizio di impresa tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro.
Il concetto di mobbing, sia in punto di fatto che in punto di diritto, è alquanto indeterminato, ancorché quanto ad una ragionevole sua definizione, possa considerarsi tale quell’insieme di condotte vessatorie e persecutorie del datore di lavoro o comunque emergenti nell’ambito lavorativo concretizzanti la lesione della salute psico-fisica e dell’integrità del dipendente e che postulano, ove sussistenti, una adeguata tutela anche di tipo risarcitorio.
Attesa la indeterminatezza della nozione, la giurisprudenza si è preoccupata di indicare una serie di elementi e/o indizi caratterizzanti il fenomeno del mobbing dai quali far emergere la concreta sussistenza di una condotta offensiva nei sensi sopra esposti, come tradottasi con atti e comportamenti negativamente incidenti sulla reputazione del lavoratore, su i suoi rapporti umani con l’ambiente di lavoro e sul contenuto stesso della prestazione lavorativa.
Così per aversi mobbing è richiesto l’azione offensiva posta in essere a danno del lavoratore deve essere sistematica e frequente posta in essere con una serie prolungata di atti e avere le caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione o rivelare intenti meramente emulativi.
Di contro non si ravvisano gli estremi del mobbing nell’accadimento di episodi che evidenziano screzi o conflitti interpersonali nell’ambiente di lavoro e che per loro stessa natura non sono caratterizzati da volontà persecutoria essendo in particolare collegati a fenomeni di rivalità, ambizione o antipatie reciproche che pure sono frequenti nel mondo del lavoro.

Il danno da mobbing è una fattispecie che si fa risalire, quanto alla natura giuridica, alla responsabilità datoriale, di tipo contrattuale, prevista dall’art. 2087 del codice civile che pone a carico del datore di lavoro l’onere di adottare nell’esercizio di impresa tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro (cfr. Cassazione sezione lavoro 25.05.2006 n. 1244).
Il concetto di mobbing, sia in punto di fatto che in punto di diritto, è alquanto indeterminato ancorché, quanto ad una ragionevole sua definizione, possa considerarsi tale quell’insieme di condotte vessatorie e persecutorie del datore di lavoro o comunque emergenti nell’ambito lavorativo concretizzanti la lesione della salute psico-fisica e dell’integrità del dipendente e che postulano, ove sussistenti, una adeguata tutela anche di tipo risarcitorio (in tal senso, Cass. Sezione Lavoro 26.03.2010 n. 1307).
Attesa la indeterminatezza della nozione, la giurisprudenza si è preoccupata di indicare una serie di elementi e/o indizi caratterizzanti il fenomeno del mobbing dai quali far emergere la concreta sussistenza di una condotta offensiva nei sensi sopra esposti, come tradottasi con atti e comportamenti negativamente incidenti sulla reputazione del lavoratore, su i suoi rapporti umani con l’ambiente di lavoro e sul contenuto stesso della prestazione lavorativa.
Così per aversi mobbing è richiesto l’azione offensiva posta in essere a danno del lavoratore deve essere sistematica e frequente posta in essere con una serie prolungata di atti e avere le caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione o rivelare intenti meramente emulativi (Cass. Sezione lavoro n. 4774/2006; Trib. Roma 07.03.2008 n. 69).
Di contro non si ravvisano gli estremi del mobbing nell’accadimento di episodi che evidenziano screzi o conflitti interpersonali nell’ambiente di lavoro e che per loro stessa natura non sono caratterizzati da volontà persecutoria essendo in particolare collegati a fenomeni di rivalità, ambizione o antipatie reciproche che pure sono frequenti nel mondo del lavoro (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.03.2013 n. 1609 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2012

PUBBLICO IMPIEGO: S. Rocchina, Cos'é il mobbing per la giurisprudenza (Cass. n. 3187/2012) - Per la configurazione di una condotta di "mobbing", l'illegittimità di un atto non è di per sé sufficiente (link a www.diritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing.
Domanda.
Perché si possa configurare il mobbing è sufficiente che vi siano dei comportamenti ostili del superiore nei confronti del lavoratore?
Risposta.
Per «mobbing» si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti:
a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore;
d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.
La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata, sulla base di una valutazione complessiva degli episodi indicati in giudizio, considerando l'idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, anche in assenza della violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato (articolo ItaliaOggi sette del 27.02.2012).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: In tema di responsabilità derivante dagli oneri sostenuti dal comune per far fronte alla soccombenza in una causa civile per mobbing.
Dagli atti di causa risulta che il procuratore regionale ha esercitato l’azione di rivalsa nei confronti dell’appellante avv. G.P., comandante protempore della polizia municipale di Rosolini, presunto responsabile del fatto dannoso conseguente a mobbing, che il Comune di Rosolini, in sede civile, era stato condannato a risarcire al terzo danneggiato.
Nella sentenza appellata n. 2028/2011 sono stati correttamente ravvisati nella fattispecie all’esame gli estremi dell’ipotesi del danno indiretto che, come noto, deriva dall’esecuzione di sentenza definitiva di condanna dell’ente pubblico al risarcimento a favore di terzo danneggiato che ha convenuto in giudizio l’amministrazione ottenendone la condanna.
Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale i rapporti tra azione civile e azione di responsabilità amministrativa sono improntati all’assoluta autonomia, in considerazione dell’esistenza di un diverso petitum e di una diversa causa petendi fra l'azione di responsabilità amministrativa e l'azione civile di danno contro la P.A. Cosicché, quando si verte in ipotesi di danno cosiddetto indiretto, il pagamento al terzo costituisce il presupposto per l’esercizio dell'azione di rivalsa da parte del procuratore regionale, mentre deve essere operato un accertamento autonomo circa la sussistenza delle condizioni necessarie per pervenire ad una statuizione di condanna.
E’ pacifico, comunque, in giurisprudenza che, anche se le sentenze civili di condanna non esplicano efficacia vincolante nel giudizio di responsabilità amministrativa, il giudice contabile può trarre da quel diverso giudizio elementi utili a formare il proprio libero convincimento ex art. 116 c.p.c. (cfr. Corte conti Sez. III Appello n. 623/2005, di questa Sezione n. 297 del 2011 e n. 18 del 2012).
L’odierno appellante P.G. (convenuto nel giudizio di primo grado unitamente a G.G., sindaco pro tempore di Rosolini, e di A.M., dirigente dello stesso Comune, entrambi assolti con la sentenza n. 2028/2011), all’epoca dei fatti di causa comandante della polizia municipale di Rosolini, ha mosso specifica censura avverso la sentenza impugnata sostenendo che non sarebbero state individuate le violazioni degli obblighi di servizio all’interno della peculiare struttura del fenomeno (prima sociologico e psicologico e poi giuslavoristico) denominato mobbing, cui sarebbe stato sottoposto il dipendente comunale G.M., attore nel giudizio civile, e invece sarebbero state recepite acriticamente, in assenza di elementi di prova, le risultanze del giudicato civile dando atto della imputazione a titolo di colpa grave della responsabilità attribuita allo stesso appellante non tenendo conto del contesto organizzativo in cui i fatti sono avvenuti.
In sostanza ha lamentato l’appellante che la sua condanna al pagamento della somma di € 50.000, 00 a favore del Comune di Rosolini sarebbe stata pronunciata dal giudice di primo grado in mancanza di elementi di prova; sarebbero, infatti, insussistenti gli asseriti comportamenti attribuiti all’appellante assunti, nella qualità di comandante della Polizia municipale di Rosolini, in presunta violazione strutturale e perdurante dei doveri di buona amministrazione e dei connessi obblighi di servizio che, ove fossero stati correttamente assolti, non avrebbero consentito la verificazione del mobbing.
Tanto premesso, il Collegio osserva che l’esposta censura dell’appellante non si ritiene fondata. Infatti, da una parte, non è contestabile che il procuratore regionale abbia versato in giudizio tutti gli atti del processo civile, tra cui i verbali delle prove testimoniali formate nello stesso giudizio nelle forme di rito (v. pag. 23 della sentenza del Tribunale di Siracusa n. 91 del 2008) ed abbia acquisito la consulenza tecnica d’ufficio disposta dal giudice civile medesimo, in cui, sotto il profilo medico-legale, è stata positivamente verificata la compromissione dello stato di salute del M. ed il pregiudizio della integrità psico-fisica dello stesso come effetto degli atti di mobbing, cui era stato sottoposto in un lungo arco di tempo, e, dall’altra, che, in base a tali obiettivi elementi, la prospettazione accusatoria è stata accolta dalla sentenza appellata, la quale, per quanto riguarda la specifica posizione del P., ha individuato una serie di comportamenti integranti violazioni gravemente colpose di obblighi di servizio rientranti tipicamente nella peculiare struttura del fenomeno denominato mobbing, cui sarebbe stato sottoposto il dipendente comunale G.M.. In tale ottica risultano accertati una serie di atti di gestione del rapporto di servizio orientati o, comunque, idonei, alla persecuzione ed all’isolamento del dipendente M. con grave compromissione dell’integrità psico-fisica dello stesso.
Gli atti di gestione in questione sono certamente riconducibili all’appellante avv. G.P., quale comandante pro-tempore della polizia municipale di Rosolini dal luglio 2004 al 29.12.2004 e dal 03.03.2005 fino al 14.05.2008.
Infatti, nonostante che con sentenza 903/2003 del Tribunale di Siracusa, il M., dirigente con funzioni di vice comandante della polizia municipale di Rosolini, avesse ottenuto la condanna del Comune ad essere riassegnato alle mansioni di vice comandante dei Vigili Urbani di Rosolini, già illegittimamente revocate con assegnazione ad altro incarico, il P. si adoperava in ogni maniera a che al M., al suo rientro nel corpo della polizia municipale, non fossero attribuiti compiti di responsabilità compatibili con la figura del vicecomandante della polizia municipale praticamente escludendolo dai servizi e dalle funzioni in cui venivano coinvolti tutti gli altri componenti della polizia municipale.
Il P. si rendeva autore dell’ordine di servizio n. 19724 del 18.06.2004 nel quale, con disposizioni, apparentemente conformi al regolamento di polizia municipale, impartiva al rientrante M. di svolgere le proprie mansioni, non di vice comandante, bensì di istruttore direttivo di vigilanza nell’Unità Operativa di viabilità e, con il chiaro intento di isolarlo, disponeva che fosse distaccato in locali lontani dalla sede del Comando di polizia municipale senza assegnazione di alcuna vettura di servizio e con obbligo di timbrare la presenza in servizio negli stessi locali distaccati senza alcun contatto con la sede ordinaria del Comando di polizia municipale.
Nella sentenza civile si dà atto che le condotte illecite poste in essere, innanzitutto dal P., che hanno determinato il demansionamento, l’isolamento e la discriminazione del M. sono state confermate dai testi escussi nel processo civile; in base a dette prove testimoniali è stato attestato senza ombra di dubbio che il M. è stato sostanzialmente privato delle mansioni attinenti alla sua qualifica, gli è stato impedito di svolgere la funzione di vice comandante in palese violazione delle disposizioni del regolamento sui servizi ed uffici comunali; è stato privato della divisa, dell’arma, del tesserino, degli strumenti di lavoro (bollettario delle contravvenzioni) senza alcuna giustificazione; è stato relegato in postazione di lavoro (presso il Palazzo di Città) diversa da sede ordinaria del comando di polizia municipale, in locali di risulta (i locali erano utilizzati anche come deposito di scatoloni e materiali per le pulizie – v. pag.30 della sentenza n. 91 del 2008 del Tribunale di Siracusa in atti); gli ausiliari formalmente sottoposti al coordinamento del M., come da ordini di servizio del 18.06.2004 e dell’08.07.2004 del comandante P., dovevano nei fatti rivolgersi solo allo stesso comandante P. e, in effetti, erano solo da questi coordinati come confermato dai testi escussi (cfr. deposizioni testimoniali di C., I., G., G. ed I.).
Per i fini che qui interessano, altra prova inequivoca di condotta illecita del P. con intenti vessatori e persecutori del M., fra le tante indicate nell’atto di citazione, è quanto riportato nella sentenza del Tribunale di Siracusa n. 91 del 2008 (v. pag. 30), ove è riferita la circostanza che il comandante P., odierno appellante, nell’imminenza del rientro del M. nel Corpo della polizia municipale, incontrava in luogo estraneo all’ufficio (precisamente nei locali di un bar presso una stazione di servizio Agip sulla strada statale 115) vari appartenenti al corpo di polizia municipale invitandoli sostanzialmente a non avere alcun tipo di rapporto con il M. (cfr. verbali di assunzione di sommarie informazioni e, inoltre, deposizione dei testi S., I., C., I.) e, questo, dopo avere preannunciato, pochi giorni dopo che era stata emessa la sentenza del Tribunale di Siracusa n. 937/2003 di riassegnazione del M. alle funzioni di vicecomandante, che “fino a quando c’era lui il M. non sarebbe mai tornato al comando di polizia municipale”.
Risulta, pertanto, provato che sia da imputare principalmente al P. -cui, ai fini della responsabilità amministrativa azionata nei suoi confronti dal pubblico ministero per rivalere il Comune della condanna subita nel giudizio civile, è chiaramente ascrivibile un comportamento soggettivo di colpa grave- l’elusione, come messo in evidenza nella sentenza appellata, della statuizione della sentenza del Tribunale di Siracusa n. 903 del 2003 che ordinava al Comune di Rosolini di riassegnare al M. le funzioni di vice comandante della polizia municipale, avendo lo stesso, dopo avere distaccato il rientrante M. presso l’Unità Organizzativa Viabilità, reiteratamente posto in essere condotte tutte inequivocabilmente dirette ad emarginare il M. attraverso l’isolamento fisico e lo svuotamento di fatto delle funzioni formalmente assegnategli.
Si rivela, altresì infondata, la censura del P. mossa alla sentenza appellata, che viene a tal fine ritenuta illogica e contraddittoria, nella parte in cui, mentre assolve la dott.ssa A., in relazione alla brevità (all’incirca quattro mesi) della durata della condotta vessatoria ad essa imputata nei confronti del M., non adotta lo stesso criterio per quanto riguarda il P., la cui asserita condotta mobbizzante, iniziata con l’emissione della disposizione di servizio del 18.06.2004 n. 19724, sarebbe cessata il 29.12.2004 allorché ha assunto servizio di comandante della polizia municipale del Comune di Campobello di Licata; da ciò avrebbe dovuto dedursi che anche la condotta del P. era stata di breve periodo tenuto conto dell’addotto insegnamento della Cassazione che richiede un tempo di almeno sei mesi perché una condotta possa considerarsi lesiva in quanto espressiva di mobbing .
L’argomentazione dell’appellante non appare sorretta da valido fondamento dovendosi considerare che, se è pur vero che il P. il 29.12.2004 cessò dalle funzioni di comandante della polizia municipale di Rosolini in quanto ebbe ad assumere servizio con le stesse funzioni presso il Comune di Campobello di Licata, è anche vero che il P., usufruendo dell’istituto della mobilità, fece rientro a Rosolini il 03.03.2005 continuando a svolgere le funzioni di comandante della polizia municipale di Rosolini ininterrottamente fino al 14.05.2008, data sotto la quale, in seguito a superamento di concorso, assunse le funzioni di comandante della polizia municipale del Comune di Modica; fino a quando il P. ha mantenuto le funzioni di comandante della polizia municipale di Rosolini sono rimasti immutati per l’intero periodo gli ordini di servizio già impartiti nei confronti del M..
Nella sentenza del Tribunale di Siracusa n. 91 del 2008 è stato ben precisato che, dopo il primo trasferimento del P. avvenuto in data 29.12.2004, il M. sollecitava il sindaco G.G. all’assegnazione delle mansioni vicarie di vice comandante della polizia municipale in attesa della nomina del nuovo comandante.
Il sindaco, nonostante le chiare previsioni del mansionario dei profili professionali, nominava il segretario generale comandante facente funzioni ed il dirigente dott.ssa A. per gli affari relativi alla polizia municipale.
Il giudice civile conclude affermando, in conformità alle evidenze istruttorie processuali, che l’amministrazione comunale di Rosolini, in persona del comandante P., che era rientrato per mobilità dal Comune di Campobello di Licata, del segretario generale e dello stesso sindaco, non solo ha pervicacemente omesso di ottemperare alla sentenza n. 937/2003 arrivando a sopprimere la figura del vicecomandante della polizia municipale dalla dotazione organica, ma ha continuato ad isolare il M. fisicamente e psicologicamente.
Da ciò è facile dedurre gli atti di gestione del rapporto di servizio orientati o, comunque, idonei, alla persecuzione ed all’isolamento del dipendente M. con grave compromissione dell’integrità psico-fisica dello stesso (come accertato nella consulenza tecnica d’ufficio esperita nel giudizio civile) si sono protratti fino alla suddetta data del 14.05.2008.
Tenuto conto, comunque, che non sia da escludere che a determinare la situazione di mobbing, cui è stato assoggettato il M. nell’arco dell’intero periodo suindicato, abbiano concorso con i loro comportamenti anche il segretario generale ed il sindaco pro-tempore, come messo in evidenza nella predetta sentenza n. 91 del 2008 del Tribunale di Siracusa, il Collegio ritiene che il danno da porre a carico dell’appellante sia definitivamente determinato in € 25.000,00 oltre interessi e rivalutazione monetaria con effetto dalla data in cui, in esecuzione della sentenza civile e della successiva transazione, sono state liquidate dal Comune le somme dovute al terzo danneggiato (Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale d'appello per la Regione siciliana - sentenza 22.02.2012 n. 78 - link a www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Da un canto, il prestatore di lavoro, che chiede la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita (lesione idonea a determinare la dequalificazione del dipendente stesso), deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa.
Il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo. Inoltre mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale -da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno- deve essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni.
Ne discende che il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) subìto a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa. Tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la prova in base alla regola generale di cui all’art. 2697 c.c..
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L'elemento oggettivo della fattispecie del mobbing è integrato dai ripetuti soprusi che, se posti in essere dai superiori dà luogo al c.d. mobbing verticale, mentre se posti in essere dai colleghi origina il c.d. mobbing orizzontale, i quali possono anche essere formalmente legittimi ed assumono connotazione illecita allorquando aventi l'unico scopo di danneggiare il lavoratore nel suo ruolo e nella sua funzione lavorativa, così da determinare il suo isolamento (fisico, morale e psicologico), all'interno del contesto lavorativo. L'elemento psicologico è integrato dal dolo generico o dal dolo specifico di danneggiare psicologicamente la personalità del lavoratore.
Pertanto, ai fini della configurabilità della condotta lesiva, qualificata danno da emarginazione lavorativa o mobbing, sono rilevanti, innanzitutto, la strategia unitaria persecutoria, che non si sostanzia in singoli atti da ricondurre nell'ordinaria dinamica del rapporto di lavoro (come i normali conflitti interpersonali nell'ambiente lavorativo, causati da antipatia, sfiducia, scarsa stima professionale, ma che non sono caratterizzati dalla volontà di emarginare il lavoratore), che ha come disegno unitario la finalità di emarginare il dipendente o di porlo in una posizione di debolezza, con la conseguenza che la ricorrenza di un'ipotesi di condotta mobbizzante deve essere esclusa allorquando la valutazione complessiva dell'insieme di circostanze addotte ed accertate nella loro materialità, pur se idonea a palesare singulatim elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro.
E’ evidente che la fattispecie così descritta postula il riscontro di un elemento psicologico della condotta non semplicemente colposo, ma doloso, sia pur nella forma del dolo generico.
In caso di denunziato mobbing si può ritenere sussistente l'illecito solo se si accerti che l'unica ragione della condotta è consistita nel procurare un danno al lavoratore, mentre bisogna escluderlo in caso contrario, indipendentemente dall'eventuale prevedibilità e occorrenza in concreto di simili effetti. Una restrizione del genere, se permette per un verso di rinvenire nel mobbing un'ulteriore manifestazione del divieto di agire intenzionalmente a danno altrui, che costituisce canone generale del nostro ordinamento giuridico e fondamento dell'"exceptio doli generalis", consente per altro verso di escludere dall'orbita della fattispecie tutte quelle vicende in cui fra datore di lavoro e lavoratore si registrano semplicemente posizioni divergenti o perfino conflittuali, affatto connesse alla fisiologia del rapporto di lavoro.
A fronte della denuncia di un lavoratore di condotte vessatorie da parte del datore, il giudice che esclude la ricorrenza delle caratteristiche proprie del fenomeno mobbing (reiterazione, sistematicità e intenzionalità) deve valutare i fatti accertati anche nell'ambito della fattispecie di inadempimento agli obblighi contrattuali di cui all'art. 2087 c.c., da accertare alla stregua delle regole ivi stabilite per il relativo inadempimento contrattuale, le quali prescindono dalla necessaria presenza del dolo.

Rammenta in proposito il Collegio che la giurisprudenza di legittimità civile –il cui orientamento il Collegio condivide pienamente- si è a più riprese confrontata con un tema che è pienamente assimilabile a quello per cui è causa, riposante nel demansionamento e nella dequalificazione del lavoratore.
In più occasioni si è avuto modo di affermare, a tal proposito, che, da un canto, il prestatore di lavoro, che chiede la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita (lesione idonea a determinare la dequalificazione del dipendente stesso), deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa (ex multis, Cassazione civile , sez. lav., 05.12.2008, n. 28849).
Sotto altro profilo, ancora di recente si è rilevato che il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo. Inoltre mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale -da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno- deve essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni.
Ne discende che il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa. Tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la prova in base alla regola generale di cui all’art. 2697 c.c. (Cassazione civile, sez. lav., 17.09.2010, n. 19785).
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Rammenta in proposito il Collegio che secondo qualificata dottrina e giurisprudenza, sia civile che amministrativa, l'elemento oggettivo della fattispecie del mobbing è integrato dai ripetuti soprusi che, se posti in essere dai superiori dà luogo al c.d. mobbing verticale, mentre se posti in essere dai colleghi origina il c.d. mobbing orizzontale, i quali possono anche essere formalmente legittimi ed assumono connotazione illecita allorquando aventi l'unico scopo di danneggiare il lavoratore nel suo ruolo e nella sua funzione lavorativa, così da determinare il suo isolamento (fisico, morale e psicologico), all'interno del contesto lavorativo. L'elemento psicologico è integrato dal dolo generico o dal dolo specifico di danneggiare psicologicamente la personalità del lavoratore.
Pertanto, ai fini della configurabilità della condotta lesiva, qualificata danno da emarginazione lavorativa o mobbing, sono rilevanti, innanzitutto, la strategia unitaria persecutoria, che non si sostanzia in singoli atti da ricondurre nell'ordinaria dinamica del rapporto di lavoro (come i normali conflitti interpersonali nell'ambiente lavorativo, causati da antipatia, sfiducia, scarsa stima professionale, ma che non sono caratterizzati dalla volontà di emarginare il lavoratore), che ha come disegno unitario la finalità di emarginare il dipendente o di porlo in una posizione di debolezza, con la conseguenza che la ricorrenza di un'ipotesi di condotta mobbizzante deve essere esclusa allorquando la valutazione complessiva dell'insieme di circostanze addotte ed accertate nella loro materialità, pur se idonea a palesare singulatim elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro.
E’ evidente che la fattispecie così descritta postula il riscontro di un elemento psicologico della condotta non semplicemente colposo, ma doloso, sia pur nella forma del dolo generico.
In caso di denunziato mobbing si può ritenere sussistente l'illecito solo se si accerti che l'unica ragione della condotta è consistita nel procurare un danno al lavoratore, mentre bisogna escluderlo in caso contrario, indipendentemente dall'eventuale prevedibilità e occorrenza in concreto di simili effetti. Una restrizione del genere, se permette per un verso di rinvenire nel mobbing un'ulteriore manifestazione del divieto di agire intenzionalmente a danno altrui, che costituisce canone generale del nostro ordinamento giuridico e fondamento dell'"exceptio doli generalis", consente per altro verso di escludere dall'orbita della fattispecie tutte quelle vicende in cui fra datore di lavoro e lavoratore si registrano semplicemente posizioni divergenti o perfino conflittuali, affatto connesse alla fisiologia del rapporto di lavoro.
La giurisprudenza di legittimità civile, poi, rileva che “a fronte della denuncia di un lavoratore di condotte vessatorie da parte del datore, il giudice che esclude la ricorrenza delle caratteristiche proprie del fenomeno mobbing (reiterazione, sistematicità e intenzionalità) deve valutare i fatti accertati anche nell'ambito della fattispecie di inadempimento agli obblighi contrattuali di cui all'art. 2087 c.c., da accertare alla stregua delle regole ivi stabilite per il relativo inadempimento contrattuale, le quali prescindono dalla necessaria presenza del dolo.” (Cassazione civile, sez. lav., 20.05.2008, n. 12735)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.01.2012 n. 14 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2011

PUBBLICO IMPIEGOBacchettati i fannulloni. Mobbing, nessun danno per chi non è produttivo. Sentenza della Cassazione sui dipendenti della pubblica amministrazione.
La Cassazione ammonisce i «fannulloni» all'interno della pubblica amministrazione. Non ha infatti diritto al risarcimento per il danno da mobbing il dipendente pubblico che viene sanzionato e sostituito perché l'ufficio è poco produttivo.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione civile che, con la sentenza 27.12.2011 n. 28962, ha respinto il ricorso di un funzionario pubblico sanzionato e poi sostituito per la scarsa produttività del suo ufficio che, dopo alcuni mesi, si era dimesso.
In questi casi, ha spiegato la sezione lavoro, il capo non pone in essere una condotta persecutoria finalizzata alle dimissioni del lavoratore ma aumenta l'efficienza degli uffici.
In particolare gli Ermellini hanno ricordato che per mobbing si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisio-psichico e del complesso della sua personalità.
In altri termini, «ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psicofisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio».
Dunque, la domanda di risarcimento del danno proposta dal lavoratore per il mobbing subito è soggetta a specifica allegazione e prova in ordine agli specifici fatti asseriti come lesivi e l'illecito del datore di lavoro nei confronti del lavoratore consistente nell'osservanza di una condotta protratta nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione del dipendente (cosiddetto mobbing, che rappresenta una violazione dell'obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall'art. 2087 cc) si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimentali dello stesso datore di lavoro indipendentemente dall'inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato.
La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata, procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi, considerando l'idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro.
Anche la procura generale del Palazzaccio aveva sollecitato di negare il risarcimento al funzionario dell'Agenzia delle entrate (articolo ItaliaOggi del 29.12.2011 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGOMobbing/ Sono un'operaia e lavoro in un grande stabilimento, dove, per motivi di salute, sono stata esonerata dallo svolgere determinate mansioni. Il mio caporeparto mi ha sottoposta, per un determinato periodo, a trattamenti umilianti, degradanti e vessatori; mi sono stati imposti ritmi di lavoro insostenibili, rivolgendomi frasi offensive e minacciando di trasferirmi in un altro stabilimento, nel caso non avessi seguito gli ordini.
Questi possono essere definiti trattamenti vessatori? È mobbing? Io vorrei querelarlo, ma non voglio fare passi falsi.

No, in questo caso è esclusa la configurabilità di un reato.
La condotta del caporeparto non è penalmente sanzionabile, a causa della mancanza di apposita figura incriminatrice per contrastare il mobbing sul posto di lavoro. Nel nostro codice penale, infatti, non vi è una specifica norma incriminatrice per contrastare i comportamenti persecutori del mobbing, realizzati ai danni del lavoratore dipendente, in ambiente lavorativo, che si sostanzia in una condotta che si protrae nel tempo con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione del lavoratore.
Ovviamente rimane la possibilità di richiedere, per mezzo di un procedimento civile, un risarcimento danni, per mobbing, eventualmente patiti dal lavoratore, in conseguenza di condotte e atteggiamenti persecutori del datore di lavoro o del preposto (articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2011).

PUBBLICO IMPIEGOMobbing nelle mani dei giudici. In assenza di norme consolidate, conta la giurisprudenza. Panoramica sulle sentenze della Cassazione: oltre ai codici conta il dettato costituzionale.
In mancanza di un riferimento normativo consolidato, per individuare la nozione di mobbing e le norme applicabili bisogna far riferimento alla giurisprudenza.
Le sentenze in materia si basano, oltre che sul codice penale, sull'art. 32, comma 1, della Costituzione (secondo cui la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività) e su articoli del codice civile.
Ricordiamo l'art. 2043 (che regolamenta la responsabilità extracontrattuale) e l'art. 1375, a norma del quale il contratto deve essere eseguito secondo buona fede, per l'appunto richiamato al fine di reprimere comportamenti non specificatamente vietati. I canoni di buona fede e correttezza concorrono con le norme specifiche in tema di demansionamento, alla valutazione della legittimità della condotta del datore di lavoro. Soprattutto occorre far riferimento all'articolo 2087 c.c., a norma del quale l'imprenditore deve adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie per tutelare, oltre all'integrità fisica, la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Il mobbing si articola in quattro componenti (al riguardo spicca la sentenza della Corte di cassazione n. 4774 del 06.03.2006):
1. un elemento oggettivo (una condotta vessatoria del datore di lavoro);
2. un elemento temporale (l'apprezzabilità, sotto il profilo cronologico, della sequenza dei comportamenti datoriali);
3. un elemento modale (il carattere persecutorio dei predetti comportamenti);
4. Un elemento finale (preordinazione alla estromissione e/o emarginazione del lavoratore.
Il datore di lavoro e l'amministrazione rispondono, in concorso con il dipendente mobber, del comportamento persecutorio (ai sensi degli articoli 2043 e 2049 del codice civile).
Il datore di lavoro non si affranca dalla responsabilità in materia limitandosi a dedurre iniziative repressive del mobbing, ma deve dimostrare di aver attuato rimedi preventivi rispetto al sorgere dell'attività persecutoria. Nel nostro ordinamento non esistono norme specifiche sulla persecuzione lavorativa, mentre le proposte di legge dirette all'introduzione del reato di mobbing, si sono susseguite senza esito. Manca, del resto, anche una disciplina specifica civilistica.
Risale al 20.09.2001 la risoluzione A5-0283/2001 con cui il Parlamento europeo ha raccomandato agli stati membri dell'Unione, tra l'altro, di imporre alle imprese, a poteri pubblici e parti sociali l'attuazione di politiche di prevenzione efficaci, rilevando che il mobbing produce conseguenze nefaste per i datori di lavoro a causa dell'assenteismo e della riduzione della produttività delle vittime, oltre che delle indennità da erogare ai lavoratori ingiustamente licenziati. La mancanza di una norma specifica non preclude la valenza penale di questa condotta.
Infatti, si tratta di una responsabilità spesso anche di carattere penale. La giurisprudenza presenta un'ampia casistica di condanne per abuso di ufficio, ingiuria, minaccia e lesioni personali colpose. Non si può trascurare, tra le fattispecie penali rinvenibili in materia di mobbing, quella del reato di maltrattamenti, contemplato dall'art. 572 del codice penale che punisce con la reclusione da 1 a 5 anni chiunque maltratta una persona sottoposta alla sua autorità o affidatagli per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio della professione o di un'arte.
Alla vittima del mobbing si schiude una sorta di doppio binario giudiziario. L'azione risarcitoria per il danno derivante da reato può essere esercitata in sede civile o in sede penale, mediante la costituzione di parte civile ai sensi degli artt. 74 e ss. c.p.c. Il lavoratore può agire in sede penale nei confronti dei colleghi e dei superiori mobber.
Inoltre, il lavoratore che si ritenga danneggiato da un reato del datore di lavoro, da un lato può invocare nel giudizio civile l'autorità dell'eventuale giudicato penale di condanna ex art. 651 c.p.p. (anche quando non abbia partecipato al processo penale) e dall'altro lato, evitando di costituirsi parte civile, può tentare, anche in presenza di un giudicato penale di assoluzione, di far accertare la colpevolezza del datore di lavoro. Per effetto dell'art. 28 della Costituzione i dipendenti pubblici sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione di diritti, e la loro responsabilità si estende allo stato, agli enti pubblici e, conseguentemente, ai loro dirigenti, che rispondono penalmente del mobbing per il solo fatto di essere consapevoli della condotta persecutoria. Infatti non è richiesto in materia il requisito della volontà dell'effetto della condotta lesiva.
Non necessariamente (per effetto di quanto affermato la Cassazione con sentenza n. 2352 del 02.02.2010, in una causa per demansionamento) la vittima della dequalificazione o del mobbing deve convenire in giudizio il datore di lavoro, che diventa l'obiettivo indispensabile dell'azione solo nel caso in cui il lavoratore avanzi una specifica richiesta di risarcimento dei danni da dequalificazione per violazione della responsabilità contrattuale, sulla base dell'art. 2103 del codice civile. Mentre si può convenire in giudizio direttamente un collega quando le richieste del lavoratore poggiano su altre disposizioni del codice civile.
Ci riferiamo all'art. 2043 come clausola generale che impone il risarcimento del danno ingiusto all'autore del fatto doloso o colposo da cui deriva. Bisogna poi ricordare l'art. 2059, che impone il risarcimento dei danni non patrimoniali nei casi determinati dalla legge. Ulteriore disposizione del codice civile che ricorre nelle altre sentenze in materia è l'art. 1375, a norma del quale il contratto deve essere eseguito secondo buona fede, per l'appunto richiamato al fine di reprimere comportamenti non specificatamente vietati.
La responsabilità in materia contempla il danno non patrimoniale. Numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata alla persona del lavoratore con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale. Quando il datore di lavoro leda questi diritti (che, non essendo stati predeterminati dal legislatore, per essere suscettibili di tutela risarcitoria devono essere di volta in volta individuati dal giudice del merito), può essere riconosciuto il risarcimento del danno non patrimoniale.
Così, con riferimento al giudizio instaurato per dequalificazione e mobbing da un dipendente pubblico, le Sezioni unite della Cassazione (con pronuncia n. 4063 del 22.02.2010) hanno ritenuto appropriato il risarcimento del danno non patrimoniale, esattamente identificato dal giudice del merito negli «aspetti di vissuta e credibile mortificazione derivanti_ dalla situazione lavorativa in cui si trovò ad operare» il ricorrente, secondo una basata sull'accertamento del nesso causale tra la condotta illecita del datore di lavoro e lo stato di moritificazione del dipendente (articolo ItaliaOggi del 18.08.2011).

PUBBLICO IMPIEGO: L'ordine di servizio illegittimo non dà luogo a mobbing.
Il quesito: Esiste una soglia di non punibilità per gli atti emulativi che la P.A. compie ai danni di un dipendente?
Il caso.

Con distinti ricorsi, un funzionario dell'Isvap impugnava una serie di atti di gestione del rapporto di lavoro, asserendone l'illegittimità e la finalità mobbizzante.
Il Tar Lazio accoglieva un ricorso concernente l'illegittimità di un atto, mentre ne respingeva un altro per mobbing.
Avverso la reiezione del ricorso per mobbing il ricorrente proponeva appello al Consiglio di Stato.
Inquadramento della problematica.
La prova dell'esistenza di un disegno persecutorio –nelle fattispecie di mobbing– è ulteriore rispetto alla dimostrazione di una pluralità di condotte lesive poste in essere nei confronti del dipendente.
La decisione.
La sentenza in esame si occupa di una fattispecie di asserito mobbing nell'ambito delle categorie di rapporti di pubblico impiego la cui cognizione è riservata alla giurisdizione del G.A.
La persecuzione datoriale costituisce materia sensibile, che ha molto affaticato la giurisprudenza (non sempre conscia delle acquisizioni della psicologia del lavoro), la quale, dopo alcune iniziali aperture (nei giudizi di merito) ha da alcuni anni assunto posizioni che paiono molto prudenti.
In tale ultimo orientamento pare inscriversi anche la decisione in commento, ponendo alcuni punti fermi ai fini della configurazione della fattispecie del mobbing all'interno dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle PP.AA..
I giudici di Palazzo Spada ritengono che, pur in presenza di determinazioni sfavorevoli per il dipendente adottate da parte datoriale (nella fattispecie, trasferimento ad altro servizio, mancati incrementi stipendiali e mancata attribuzione di premi legati al rendimento), non è possibile configurare attività persecutoria qualora sia ravvisabile una ragionevole spiegazione alternativa al comportamento tenuto dalla P.A..
L'approccio adottato parrebbe segnalare l'esistenza di una sorta di atteggiamento benevolo di fondo per la condotta gestionale delle PP.AA., il che, tenuto conto dell'oggettivo incremento del contenzioso per condotte mobbizzanti registratosi nell'ultimo decennio non può ritenersi rassicurante dal punto di vista dei lavoratori pubblici.
Purtuttavia, il G.A. ritiene che la mera concatenazione degli atti (illeciti o anche apparentemente e/o astrattamente leciti) idonei a spiegare efficacia lesiva dei diritti morali e/o professionali del lavoratore non sia, di per sé sola, idonea a costituire prova del loro connotato emulativo e vessatorio.
Pertanto, lungi dall'accogliere quelle istanze anche dottrinali secondo cui il disegno persecutorio andrebbe colto “sottotraccia”, il G.A. puntualizza che, al contrario, perché di mobbing possa parlarsi occorre un “sovrastante disegno persecutorio, tale da piegare alle sue finalità i singoli atti cui viene riferito”.
Dunque, il piano persecutorio viene dal G.A. posto a monte, per tal via onerandosi il ricorrente di fornire una prova diabolica: se il mobbing non si evince dalle evidenze fattuali, come è possibile risalire alle intenzioni datoriali, riconducendole, successivamente, ad un piano squisitamente oggettivo quale quello dibattimentale?
Appare indubbio che gli orientamenti giurisprudenziali non possano –ai fini dell'affermazione della sussistenza della fattispecie- tralatiziamente rinviare per intero agli elementi di prova allegati (offensività della condotta, direzione univoca degli atti persecutori e pretestuosi), altrimenti si darebbe ingresso ad una quota di contenzioso certamente volta a lucrare indebiti benefici risarcitori.
E', tuttavia, parimenti indubitabile che la crescita della conflittualità in seno agli ambienti di lavoro pubblico spinge ad interrogarsi sull'opportunità di ricercare nuovi punti di equilibrio in ordine alla individuazione dei profili dell'intenzionalità delle condotte datoriali, onde non porre i lavoratori ricorrenti nella condizione di dover fornire prova di elementi soggettivi sottesi alle condotte gestionali delle PP.AA., difficilmente oggettivabili ove non presuntivamente ricavati dal quadro complessivo delle determinazioni datoriali assunte nei confronti del dipendente (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 15.06.2011 n. 3648 - link a www.altalex.com).

PUBBLICO IMPIEGO: Per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono rilevanti la molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; l’evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore; la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.
In sé, un atto illegittimo o più atti illegittimi di gestione del rapporto in danno del lavoratore non sono sintomatici della presenza di un comportamento mobbizzante, occorrendo che ricorrano tutti gli altri elementi sopra richiamati

Per mobbing si intende comunemente –in assenza di una definizione normativa- una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti la molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; l’evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore; la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.
Nel verificare l’integrazione della fattispecie che si esamina è quindi necessario, anche in ragione della sua indeterminatezza, attendere ad una valutazione complessiva ed unitaria degli episodi lamentati dal lavoratore, da apprezzare per accertare tra l’altro:
- da un lato, l'idoneità offensiva della condotta datoriale (desumibile dalle sue caratteristiche di persecuzione e discriminazione),
- e, dall'altro, la connotazione univocamente emulativa e pretestuosa della condotta.
Ne consegue che la ricorrenza di un'ipotesi di condotta mobbizzante andrà esclusa quante volte la valutazione complessiva dell'insieme di circostanze addotte (ed accertate nella loro materialità), pur se idonea a palesare, singulatim, elementi od episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere esorbitante ed unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro.
E’ in primo luogo necessaria, quindi, la prova dell'esistenza di un sovrastante disegno persecutorio, tale da piegare alla sue finalità i singoli atti cui viene riferito.
D’altra parte, determinati comportamenti non possono essere qualificati come costitutivi di mobbing, ai fini della pronuncia risarcitoria richiesta, se è dimostrato che vi è una ragionevole ed alternativa spiegazione al comportamento datoriale.
In sé, un atto illegittimo o più atti illegittimi di gestione del rapporto in danno del lavoratore non sono sintomatici della presenza di un comportamento mobbizzante, occorrendo che ricorrano tutti gli altri elementi sopra richiamati (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 15.06.2011 n. 3648 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: La condotta biasimevole ma isolata del datore non configura il mobbing.
Il mobbing si realizza quando è riconoscibile una azione aggressiva cosciente e volontaria, protratta nel tempo, finalizzata a mettere uno o più lavoratori in una condizione di forte disagio col fine dell’espulsione dal contesto lavorativo o della sottomissione al potere direttivo. Occorre pertanto che la condotta del datore di lavoro si concretizzi in sistematici e reiterati comportamenti ostili da cui può derivare l’effetto lesivo dell’equilibrio psico-fisico del lavoratore.
Con la sentenza 31.05.2011 n. 12048 Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ha escluso che possano essere ricondotti ad una azione di mobbing alcuni episodi, comunque marginali ed isolati, riconducibili ad un comportamento scorretto del datore di lavoro ma non connotati da un carattere persecutorio nei confronti del dipendente.
Questi i fatti.
La lavoratrice denuncia un comportamento del datore di lavoro lesivo della sua dignità e decoro personale (lancio dello stipendio sul tavolo, consegna della retribuzione sotto forma di monetine) sostenendo che questi fatti rientrano nella fattispecie di mobbing pur in difetto di un disegno persecutorio finalizzato a espellere il dipendente e chiede, quindi la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno biologico, del danno alla vita di relazione e del danno morale.
La richiesta è stata respinta sia dal Tribunale -che ha ritenuto non fosse emersa la prova del comportamento persecutorio- sia dalla Corte di Appello che ha confermato la sentenza di primo grado. Avverso tali decisioni la lavoratrice ha presentato ricorso in Cassazione lamentando una omessa valutazione degli episodi posti a fondamento della domanda e la falsa applicazione dell’articolo 2087 del codice civile.
In particolare, la ricorrente ha posto il quesito di diritto teso a conoscere se possa riconoscersi la violazione della personalità morale del lavoratore in conseguenza di uno o più atti lesivi della dignità e del decoro professionale del lavoratore stesso, anche in mancanza di un disegno persecutorio finalizzato ad espellere il dipendente.
La decisione della Suprema corte.
La Corte di cassazione, con la sentenza n. 12048/2011 in esame, ritiene il ricorso infondato. Ribadisce la Corte che per mobbing si intende “una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisio-psichico e del complesso della sua personalità”.
Già con la sentenza n. 3785/2009 la Cassazione ha sancito che ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono da ritenere rilevanti i seguenti elementi:
a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche liciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore;
d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.
Non c'è una responsabilità oggettiva del datore.
Con la stessa sentenza, la Suprema Corte ha altresì affermato che l’articolo 2087 del codice civile non configura una ipotesi di responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro, con la conseguenza di ritenerlo responsabile ogni volta che il lavoratore abbia subito un danno nell'esecuzione della prestazione lavorativa, occorrendo invece che l'evento sia pur sempre riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento, concretamente individuati, imposti da norme di legge e di regolamento o contrattuali ovvero suggeriti dalla tecnica e dall'esperienza, il cui accertamento costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se logicamente e congruamente motivato.
Con riferimento ai fatti in causa, pertanto, ritiene la Corte di cassazione che la Corte territoriale abbia correttamente considerato l’insieme dei comportamenti datoriali, dedotti dalla ricorrente come lesivi, escludendone ogni intento persecutorio. La valutazione di fatto di tali comportamenti è devoluta al giudice di merito, in quanto tale non censurabile quando sia adeguatamente motivata e non appaia, nelle sue risultante contradditoria.
Il giudice di legittimità non può riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, bensì egli deve controllare la correttezza giuridica e la coerenza logico-formale delle argomentazioni svolte dal giudice di merito. Nel caso specifico, detto giudice, valutate tutte le circostanza rappresentate in giudizio ha ritenuto potersi escludere che fosse stata raggiunta la prova di un atteggiamento emarginante, discriminatorio o persecutorio nei confronti della lavoratrice, tale da raffigurare la fattispecie del mobbing (commento tratto e link a
www.diritto24.ilsole24ore.com).

PUBBLICO IMPIEGOIl datore di lavoro risarcito per mobbing. L'azienda agisce contro il dirigente-mobber per avere indietro quanto pagato al lavoratore. Caso all'esame della corte dei conti della Sicilia.
Le cause per mobbing possono avere un secondo tempo. Nel primo è la vittima delle persecuzioni a rivolgersi al giudice, per ottenere giustizia e risarcimento dal datore di lavoro e/o dal persecutore. Nel secondo tempo è l'azienda o, per i dipendenti pubblici, lo stato mediante la procura, ad agire nei confronti del mobber, per conseguire l'accertamento della violazione di norme e il risarcimento di quanto abbia eventualmente dovuto corrispondere (su ordine del giudice) alla vittima della persecuzione. Un secondo tempo di particolare interesse è quello che, da ultimo, si è consumato di fronte alla Corte dei Conti della Sicilia.
La sentenza 23.05.2011 n. 2028, Corte dei Conti - Sez. giurisdiz. Sicilia, ha condannato un dirigente di un'amministrazione comunale a rifonderla parzialmente, per il danno (indiretto) arrecato al datore di lavoro che aveva dovuto corrispondere un risarcimento a un dipendente mobbizzato dal dirigente. In effetti la dequalificazione lavorativa spesso si trasforma in mobbing o comunque può esser parte di un'attività persecutoria.
Dalla pronuncia della Corte dei Conti emerge che quando il mobbing culmina in una dequalificazione lavorativa prolungata, il datore di lavoro non viene coinvolto dalla responsabilità dei singoli persecutori solo se dimostra che tra le mansioni assegnate alla vittima e la condotta persecutoria non sussiste un rapporto neanche di mera occasionalità. La sentenza ha rilevato (richiamando Cass. n. 18262 del 29.08.2007) che la giurisprudenza civilistica «riconosce spesso la responsabilità per condotta mobbizzante del datore di lavoro, non solo quale soggetto agente direttamente, ma anche per non essersi lo stesso personalmente attivato per far cessare i comportamenti scorretti dei dipendenti».
D'altro lato, in sede contabile, in materia la condotta datoriale rileva solo se integra un caso di colpa grave, che in questa sede sussiste solo in presenza di un rilevante allontanamento dal comportamento esigibile, in considerazione delle circostanze del caso e delle specifiche disposizioni sul tema. Il datore di lavoro, pertanto, in caso di giudizio contabile, per essere esente da responsabilità deve dimostrare di aver adottato tutte le soluzioni organizzative più idonee a evitare la realizzazione dell'evento dannoso.
Il sindaco coinvolto nella vicenda è stato assolto, non solo perché la struttura organizzativa del comune è stata considerata appropriata. Secondo la Corte dei Conti anche le sue decisioni che avevano coinvolto il lavoratore perseguitato (in particolare quella di preferire per una promozione, al mobbizzato un collega) non erano dolosamente preordinate a perseguirlo e discriminarlo, e tantomeno potevano considerarsi «macroscopicamente lontane da una ordinaria condotta finalizzata alla sana gestione della cosa pubblica, al punto da incarnare una condotta gravemente corposa idonea a giustificare l'accoglimento delle pretese di parte attrice».
Peraltro la condotta mobbizzante lamentata dal dipendente non si esauriva nella mancata promozione. L'istruttoria del pubblico ministero aveva riscontrato la mancata attribuzione delle funzioni riconosciute al perseguitato nel giudizio originario (intentato per la reintegrazione), la sua collocazione in locali distaccati rispetto ai colleghi, episodi mortificanti la mancata inclusione nei turni di servizio e la preclusione di mansioni che determinavano la fruizione di indennità.
Il dipendente comunale, dopo aver convenuto in giudizio il comune lamentando la propria dequalificazione, aveva ottenuto dal giudice civile il riconoscimento del diritto alla reintegrazione nelle funzioni di vice comandante reggente dei vigili urbani. In un successivo giudizio il lavoratore otteneva la condanna dell'amministrazione comunale, per mobbing, al risarcimento di euro 133.223,53. Proprio questo pagamento ha determinato prima la contestazione e poi l'azione contabile, della procura regionale nei confronti del sindaco, di una dirigente e di un comandante della polizia municipale, per il danno (indiretto) che avrebbe arrecato al comune la loro condotta mobbizzante. Solo il convenuto che, all'epoca dei fatti, rivestendo il ruolo di comandante della polizia municipale, aveva determinato le modalità attuative ed organizzative delle funzioni assegnate al mobbizzato, è stato condannato.
La sentenza dello scorso 23 maggio ha deciso che dovrà corrispondere 50 mila euro (oltre rivalutazione monetaria e interessi legali) al comune. La Corte dei Conti gli ha infatti imputato l'elusione dei provvedimenti dell'autorità giudiziaria favorevoli al mobbizzato, mediante reiterate condotte inequivocabilmente dirette a emarginare il dipendente, isolandolo fisicamente dal resto dell'ufficio e svuotando le funzioni formalmente assegnategli. Nutrita risulta la serie di episodi sintomatici della fattiva ostilità del comandante nei confronti del vice.
Spiccano le valutazioni con punteggi vicini allo zero, in sede di valutazioni basate su parametri assolutamente personali. Risaltano le informali riunioni convocate fuori dell'ufficio per informare i colleghi che il mobbizzato (sul punto di riprendere l'attività) non avrebbe ripreso servizio presso il comando, ma in locali decentrati. Il mobber aveva chiesto agli altri dipendenti di ignorare il vice (perseguitato) e per ogni disposizione di far riferimento diretto solo alla sua persona. Aveva determinato l'isolamento della vittima dai colleghi, anche costringendo il mobbizzato a effettuare una trasferta su un mezzo utilizzato in solitudine, mentre i colleghi si muovevano con un altro comune mezzo di trasporto. E se dei singoli episodi persecutori il comandante aveva fornito una giustificazione, la sentenza rileva che le componenti del mobbing non possono essere considerate singolarmente ma in considerazione della complessiva condotta intrapresa nei confronti della vittima.
La Corte dei Conti ha invece assolto (oltre al sindaco) una dirigente che aveva intrattenuto per breve tempo un rapporto lavorativo con il perseguitato, per mancanza del requisito temporale necessario al perfezionamento del mobbing. La sentenza ha ritenuto infatti che la condotta persecutoria per integrare il mobbing debba avere quantomeno durata semestrale, coerentemente con Cass. n. 22858 dell'11.09.2008 che ha ritenuto sufficiente l'entità semestrale rigettando i rilievi datoriali sulla pretesa brevità di questo periodo.
Di particolare interesse, in materia, risulta la sentenza della Suprema Corte n. 12445 del 25.05.2006. In questo caso, in relazione a un caso in cui il mobber era il presidente di un'associazione, detta pronuncia ha ritenuto che incombesse sull'associazione, contrattualmente tenuta a tutelare il dipendente, in base all'art. 2087 cod. civ., l'onere di provare di avere adottato tutte le misure necessarie a prevenire l'evento dannoso, mentre nella fattispecie in esame l'associazione si era limitata a sostenere di avere deferito il presidente al collegio dei probiviri attuando (secondo la sentenza) un'iniziativa diretta alla repressione e non alla prevenzione dei fatti mobbizzanti, pertanto non idonea a costituire adempimento degli obblighi previsti dall'art. 2087 cod. civ. (articolo ItaliaOggi del 04.08.2011).

PUBBLICO IMPIEGOPer "mobbing" si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.
Costituisce mobbing l’insieme delle condotte datoriali protratte nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all’emarginazione del dipendente con comportamenti datoriali, materiali o provvedimentali, indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali o dalla violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato; sicché, la sussistenza della lesione, del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata, procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi, considerando l’idoneità offensiva della condotta, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificatamente da una connotazione emulativa e pretestuosa. Tuttavia, determinati comportamenti non possono essere qualificati come mobbing se è dimostrato che vi è una ragionevole e alternativa spiegazione.

Come evidenziato da Cass. civ., Sez. lav., 17.02.2009, n. 3785 “Per "mobbing" si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.”.
Rileva inoltre Cons. Stato, Sez. IV, 21.04.2010, n. 2272 che “La ricorrenza di una condotta mobbizzante va esclusa quante volte la valutazione complessiva dell’insieme delle circostanze addotte e accertate nella loro materialità, pur se idonea a palesare "singulatim" elementi e episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro.”.
Ed ancora secondo Cons. Stato, Sez. IV, 07.04.2010, n. 1991 “La condotta di mobbing dell’Amministrazione pubblica datrice di lavoro, consistente in comportamenti materiali o provvedimentali contraddistinti da finalità di persecuzione e di discriminazione, indipendentemente dalla violazione di specifici obblighi contrattuali nei confronti di un suo dipendente, deve da quest’ultimo essere provata e, a tal fine, valenza decisiva è assunta dall’accertamento dell’elemento soggettivo, e cioè dalla prova del disegno persecutorio.”.
Infine Cons. Stato, Sez. VI, 06.05.2008, n. 2015 ha sottolineato che “Costituisce mobbing l’insieme delle condotte datoriali protratte nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all’emarginazione del dipendente con comportamenti datoriali, materiali o provvedimentali, indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali o dalla violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato; sicché, la sussistenza della lesione, del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata, procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi, considerando l’idoneità offensiva della condotta, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificatamente da una connotazione emulativa e pretestuosa. Tuttavia, determinati comportamenti non possono essere qualificati come mobbing se è dimostrato che vi è una ragionevole e alternativa spiegazione.” (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 31.03.2011 n. 528 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing - Configurabilità - Presupposti - Disegno persecutorio - Prova.
Ai fini della configurabilità del mobbing sono rilevanti:
a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore;
d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio (Cass. civ., Sez. lav., 17.02.2009, n. 3785).
La ricorrenza di una condotta mobbizzante va pertanto esclusa quante volte la valutazione complessiva dell’insieme delle circostanze addotte e accertate nella loro materialità, pur se idonea a palesare "singulatim" elementi e episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro (Cons. Stato, Sez. IV, 21.04.2010, n. 2272).
In particolare, la condotta di mobbing dell’Amministrazione pubblica datrice di lavoro, consistente in comportamenti materiali o provvedimentali contraddistinti da finalità di persecuzione e di discriminazione, indipendentemente dalla violazione di specifici obblighi contrattuali nei confronti di un suo dipendente, deve da quest’ultimo essere provata e, a tal fine, valenza decisiva è assunta dall’accertamento dell’elemento soggettivo, e cioè dalla prova del disegno persecutorio; in ogni caso, determinati comportamenti non possono essere qualificati come mobbing se è dimostrato che vi è una ragionevole e alternativa spiegazione (Cons. Stato, Sez. IV, 07.04.2010, n. 1991; Cons. Stato, Sez. VI, 06.05.2008, n. 2015) (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 31.03.2011 n. 528 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGOPer "mobbing" (da lavoro) si intende “una successione di fatti e comportamenti posti in essere dal datore di lavoro con intento emulativo ed al solo scopo di recare danno al lavoratore, rendendone penosa la prestazione, condotti con frequenza ripetitiva ed in un determinato arco temporale sufficientemente apprezzabile e valutabile”; in altri termini, "l'insieme delle condotte datoriali protratte nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione del dipendente con comportamenti datoriali, materiali o provvedimentali, indipendentemente dall'inadempimento di specifici obblighi contrattuali o dalla violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato.
Sicché, la sussistenza della lesione, del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata -procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi- considerando l'idoneità offensiva della condotta, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa".
In sostanza, la condotta mobbizzante si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
L’accertamento della sussistenza del danno da mobbing, quindi, comporta una valutazione complessiva dei danni lamentati dall’interessato, i quali devono essere considerati in modo unitario, tenuto conto, da un lato dell’idoneità offensiva della condotta datoriale, come desumibile dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione e, dall’altro, dalla connotazione univocamente emulativa e pretestuosa della richiamata condotta; pertanto la ricorrenza di una condotta mobizzante deve essere esclusa:
- quando sia assente la sistematicità degli episodi, ovvero i comportamenti su cui viene basata la pretesa risarcitoria siano riferibili alla normale condotta del datore di lavoro, funzionale all'assetto dell'apparato amministrativo, o imprenditoriale, nel caso del lavoro privato; o, infine, vi sia una ragionevole ed alternativa spiegazione al comportamento datoriale;
- tutte le volte che la valutazione complessiva dell’insieme delle circostanze addotte ed accertate nella loro materialità, pur se idonea a palesare singulatim elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminatorio nei confronti del singolo dal complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro.
Dunque, gli elementi strutturali della condotta mobbizzante, sono dati:
1) dalla molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
2) dall'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
3) dal nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore.

Per "mobbing" (da lavoro), secondo la giurisprudenza si intende “una successione di fatti e comportamenti posti in essere dal datore di lavoro con intento emulativo ed al solo scopo di recare danno al lavoratore, rendendone penosa la prestazione, condotti con frequenza ripetitiva ed in un determinato arco temporale sufficientemente apprezzabile e valutabile” (Trib. civ. Milano 15.05.2006) ovvero per usare le parole della Suprema Corte, "l'insieme delle condotte datoriali protratte nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione del dipendente con comportamenti datoriali, materiali o provvedimentali, indipendentemente dall'inadempimento di specifici obblighi contrattuali o dalla violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato. Sicché, la sussistenza della lesione, del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata -procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi- considerando l'idoneità offensiva della condotta, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa" (Cass. civ, lav., 06.03.2006, n. 4774; 09.09.2008, n. 22858; 17.02.2009, n. 3785).
In sostanza, la condotta mobbizzante si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
L’accertamento della sussistenza del danno da mobbing, quindi, comporta una valutazione complessiva dei danni lamentati dall’interessato, i quali devono essere considerati in modo unitario, tenuto conto, da un lato dell’idoneità offensiva della condotta datoriale, come desumibile dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione e, dall’altro, dalla connotazione univocamente emulativa e pretestuosa della richiamata condotta; pertanto la ricorrenza di una condotta mobizzante deve essere esclusa:
- quando sia assente la sistematicità degli episodi, ovvero i comportamenti su cui viene basata la pretesa risarcitoria siano riferibili alla normale condotta del datore di lavoro, funzionale all'assetto dell'apparato amministrativo, o imprenditoriale, nel caso del lavoro privato; o, infine, vi sia una ragionevole ed alternativa spiegazione al comportamento datoriale (cfr. Cons. Stato, VI, 06.05.2008, n. 2015);
- tutte le volte che la valutazione complessiva dell’insieme delle circostanze addotte ed accertate nella loro materialità, pur se idonea a palesare singulatim elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminatorio nei confronti del singolo dal complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro (cfr. Cons. St. nr. 4738 del 2008).
È stato da ultimo messo in risalto che il tratto strutturante del "mobbing" -tale da sottrarlo all’area dei comportamenti che sarebbero confinati nell'ordinaria dinamica, ancorché conflittuale, dei rapporti di lavoro- è proprio la sussistenza di una condotta volutamente prevaricatoria da parte del datore di lavoro volta a emarginare o estromettere il lavoratore dalla struttura organizzativa.
Pertanto, in ordine all'onere della prova da offrirsi da parte del soggetto destinatario di una condotta mobbizzante, quest'ultima deve essere adeguatamente rappresentata con una prospettazione dettagliata dei singoli comportamenti e/o atti che rivelino l'asserito intento persecutorio diretto a emarginare il dipendente, non rilevando mere posizioni divergenti e/o conflittuali, fisiologiche allo svolgimento di un rapporto lavorativo (cfr. TAR Lombardia, Milano, I, 11.08.2009, n 4581; TAR Lazio, Roma, III, 14.12.2006, n. 14604).
In altri termini, il mobbing -proprio perché non può prescindere da un supporto probatorio oggettivo- non può essere imputato in via esclusiva ma anche prevalente al vissuto interiore del soggetto, ovvero all'amplificazione da parte di quest'ultimo delle normali difficoltà che connotano la vita lavorativa di ciascuno (cfr. TAR Lazio, Roma, I, 07.04.2008, n. 2877).
D'altra parte, come è stato condivisibilmente affermato (cfr. Tar PG nr. 469 del 2010), nell'esaminare i casi di preteso "mobbing" il Giudice deve evitare di assumere acriticamente l'angolo visuale prospettato dal lavoratore che asserisce di esserne vittima. Da un lato, infatti, è possibile che i comportamenti del datore di lavoro, pur se oggettivamente sgraditi, non siano tali da provocare significative sofferenze e disagi, se non in personalità dotate di una sensibilità esasperata o addirittura patologica (per tacere dell'ipotesi, non scartabile a priori, che la rappresentazione delle sofferenze sia inveritiera e meramente strumentale allo scopo di supportare una domanda di risarcimento).
Da un altro lato, è possibile che gli atti del datore di lavoro (di nuovo, pur sgraditi) siano di per sé ragionevoli e giustificati e in particolare che abbiano una certa giustificazione o quanto meno spiegazione siccome indotti da comportamenti reprensibili dello stesso interessato, ovvero da sue carenze sul piano lavorativo, difficoltà caratteriali, etc.. Non si deve cioè sottovalutare l'ipotesi che l'insorgere di un clima di cattivi rapporti umani derivi, almeno in parte, anche da responsabilità dell'interessato. Tale ipotesi può anzi essere empiricamente convalidata dalla considerazione che diversamente non si spiegherebbe perché solo un determinato individuo percepisca come ostile una situazione che invece i suoi colleghi trovano normale.
Tale cautela di giudizio si impone particolarmente quando, come nel caso in esame, l'ambiente di lavoro è un Corpo di Polizia, caratterizzato, per definizione, da una severa disciplina e dove non tutti i rapporti possono essere amichevoli, non tutte le aspirazioni possono essere esaudite, non tutti i compiti possono essere piacevoli e non tutte le carenze possono essere tollerate. In questa situazione, un approccio condizionato dalla rappresentazione soggettiva (se non strumentale) fornita dall'interessato può essere quanto mai fuorviante.
Dunque, gli elementi strutturali della condotta mobbizzante, sono dati:
1) dalla molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
2) dall'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
3) dal nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore.
Ai fini risarcitori è quindi necessaria:
- la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio (Cassazione Sez. L, Sentenza n. 3785 del 17/02/2009);
- la prova del danno all’integrità subito;
- che sia dimostrato il nesso causale tra il comportamento del datore di lavoro e lo stato di prostrazione (cfr, ex plurimis, Cass.civ. III, 16148/2010).
Per quanto riguarda quest’ultimo elemento v’è poi da poi da ricordare che la Corte regolatrice, con l’Ord. n. 22101/2006, ha ritenuto questo Tribunale quale Giudice competente a conoscere della controversia introdotta col ricorso in epigrafe; e tanto ha statuito in quanto, avvalendosi (ai fini del riparto di giurisdizione) del criterio del c.d. petitum sostanziale, ha dato risalto alla circostanza che il ricorrente, nel caso di specie, “non sono parla di mobbing-bossing ma pone a fondamento della domanda atti dispositivi dei suoi superiori relativi alle mansioni, e cioè atti tipicamente relativi al rapporto di lavoro”.
E’ dunque non revocabile in dubbio che l'azione risarcitoria in trattazione rinvenga il proprio presupposto nell'espletamento dell'attività lavorativa da parte del ricorrente e nella ritenuta violazione, da parte del datore di lavoro, dell'obbligo su di esso incombente ai sensi dell'art. 2087 cod. civ.; al che accede, in modo pacifico, il carattere contrattuale della proposta azione risarcitoria.
Rebus sic stantibus
, una volta ricondotta la controversia risarcitoria in questione nell'alveo della responsabilità contrattuale ex art. 1218 cod. civ., la distribuzione dell'onere probatorio fra il prestatore (asseritamente) danneggiato ed il datore di lavoro deve essere operata in base al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui grava sul lavoratore l'onere di provare la condotta illecita e il nesso causale tra questa e il danno patito, mentre incombe sul datore di lavoro -in base al principio di inversione dell'onus probandi di cui al richiamato art. 1218 cod. civ.- il solo onere di provare l'assenza di una colpa a se riferibile (in tal senso, ex plurimis: Cass. Civ., Sez. Lavoro, sent. 25.05.2006, n. 12445; id., Sezione Lav., sent. 08.05.2007, n. 10441).
Ne consegue che laddove, quindi, il lavoratore ometta di fornire la prova anche solo, ad es., in ordine alla sussistenza dell'elemento materiale della fattispecie oggettiva (i.e., della complessiva condotta mobbizzante asseritamente realizzata in proprio danno sul luogo di lavoro), difetterà in radice uno degli elementi costitutivi della fattispecie foriera di danno (e del conseguente obbligo risarcitorio), con l'evidente conseguenza che il risarcimento non sarà dovuto, irrilevante essendo, in tal caso, ogni ulteriore indagine in ordine alla sussistenza o meno del nesso eziologico fra la condotta e l'evento dannoso (cfr., in tal senso, Cons. St. nr. 2045 del 2010 e nr. 4738 del 2008) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter, sentenza 08.02.2011 n. 1230 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

anno 2010

PUBBLICO IMPIEGOMobbing, processo senza stop.
Il giudizio promosso dal lavoratore che chiede il risarcimento del danno da mobbing non dev'essere sospeso in attesa della fine della causa penale promossa dal datore di lavoro che contesta al dipendente degli illeciti.

È quanto sancito dalla Corte di Cassazione che, con la sentenza 13.08.2010 n. 18668, ha accolto il ricorso di una dipendente comunale che aveva fatto causa all'ente locale per ottenere il risarcimento dei danni da mobbing.
Ma il Comune aveva ottenuto dal Tribunale di Mondovì la sospensione del giudizio civile in attesa della decisione definitiva su quello penale.
Contro questa decisione la donna ha fatto ricorso in Cassazione e ha vinto. La sezione lavoro ha stabilito che «in materia di rapporto fra giudizi civili e penali, fuori dei casi in cui i giudizi di danno possono proseguire davanti al giudice civile, il processo può essere sospeso se tra processo penale e altro giudizio ricorra il rapporto di pregiudizialità o se la sospensione sia prevista da altra specifica norma e sempre che la sentenza penale esplichi efficacia di giudicato nell'altro giudizio».
In altri termini, secondo la Cassazione «non è sufficiente che nei due processi rilevino gli stessi fatti, essendo necessario che una norma di diritto sostanziale colleghi un effetto sul diritto oggetto del giudizio civile alla commissione del reato oggetto del giudizio penale)» (articolo ItaliaOggi del 24.08.2010, pag. 26).

PUBBLICO IMPIEGO: S. Delle Donne, Mobbing e dintorni.
In materia di mobbing non esiste una normativa specialistica e i legali impegnati a difendere queste vittime fondano le loro giuste pretese sulle disposizioni codicistiche e la giurisprudenza, cimentandosi quotidianamente in un aggiornamento rigoroso.
In questi anni, infatti, la Magistratura ha indicato alcuni elementi distintivi del mobbing, giudicati col passare del tempo essenziali e irrinunciabili, al fine di identificare e riconoscere tale nuova fattispecie giuridica.
La Corte di Cassazione, anche nelle sentenze più recenti, confermando la tesi prevalente, ha tradotto il termine inglese “mobbing” con “persecuzione”, poiché il fenomeno può essere descritto soltanto come un coacervo di azioni (legali e non) finalizzate a un obiettivo specifico (l’estromissione del lavoratore dal gruppo umano), attuate per un congruo periodo e soprattutto artatamente congegnate dall’autorità vigente, cioè da chi può premiare e punire i sottoposti, quindi anche abusare di tale potere a fini estorsivi.
Queste strategie di sopruso, spesso presenti in vari ambienti di lavoro, segnano in modo indelebile i lavoratori, danneggiando drammaticamente le loro esistenze (e quelle dei familiari): ciò accade, in particolar modo, quando la persecuzione si perfeziona con il licenziamento o addirittura con l’infamante licenziamento disciplinare, che aggiunge dolore a chi già soffre per l’incomprensione di parenti e amici e per la perdita del proprio ruolo sociale (link a www.diritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing. Il danno non patrimoniale per demansionamento può essere provato con presunzioni.
Il demansionamento sussiste tutte le volte che il dipendente è addetto ad attività del tutto marginali ed assolutamente non riconducibili al suo livello di inquadramento.
Una volta accertato il demansionamento professionale del lavoratore, il giudice corretamente può desumere l’esistenza del relativo danno in base ad una valutazione presuntiva, riferendosi alle circostanze concrete della operata dequalificazione.
Ciò in quanto il danno conseguente al demansionamento va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, frustrazione professionale) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove (cfr. Cass., sez. un. n. 6572 del 2006; Cass. n. 29832 del 2008; n, 28274 del 2008).
Con riguardo, in particolare, al danno non patrimoniale, occorre rilevare che nella disciplina del rapporto di lavoro, ove numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata alla persona del lavoratore con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, il danno non patrimoniale è configurabile ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, tali diritti: questi, non essendo regolati ex ante da norme di legge, per essere suscettibili di tutela risarcitoria dovranno essere individuati, caso per caso, dal giudice del merito, il quale, senza duplicare il risarcimento (con l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici), dovrà discriminare i meri pregiudizi –concretizzatisi in disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili– dai danni che vanno risarciti (cfr. Cass. n. 10864 del 2009).
Il danno risarcibile, dunque, è correttamente identificato negli aspetti di vissuta e credibile mortificazione derivanti al dipendente dalla situazione lavorativa in cui si è trovato ad operare, secondo una valutazione che si fonda sull’accertamento del nesso causale tra la condotta illecita datoriale e lo stato di mortificazione del lavoratore (Corte di Cassazione, Sezz. Unite civili, sentenza 22.02.2010 n. 4063 - link a www.litis.it).

PUBBLICO IMPIEGO: L. Modaffari, Il mobbing in concreto: come viene valutato nei Tribunale italiani (link a www.altalex.com).

PUBBLICO IMPIEGO: Rapporti deteriorati. Sì al trasferimento. Per la Cassazione non c'è mobbing.
È lecito il trasferimento di un lavoratore ad altro reparto se i rapporti con i superiori sono «deteriorati». Né tantomeno la posizione dell'azienda può essere definita mobbizzante.
Lo ha precisato la Corte di cassazione che, con la sentenza 04.02.2010 n. 2615, ha respinto il ricorso di un'infermiera che prima aveva chiesto di essere trasferita e poi ci aveva immediatamente ripensato.
In particolare la donna aveva segnalato una serie di irregolarità commesse da un medico e questo, per tutta risposta, l'aveva fatta sospendere. Secondo la direzione sanitaria, però, dopo l'accaduto, il trasferimento era funzionale al buon andamento del reparto. La lavoratrice lo ha impugnato di fronte al Tribunale di Lecce che le ha dato torto. La decisione è stata confermata dalla Corte d'appello pugliese e ora è stata resa definitiva dalla Cassazione.
Aggiungendo poco a quello stabilito dai giudici di merito, il Collegio di legittimità ha motivato che «l'adozione di una sanzione disciplinare per comportamenti serbati nel reparto può essere una fonte di conflitto idoneo a turbare la funzionalità». Quindi, «l'assegnazione ad altro reparto, lungi dal configurare mobbing, era da considerare giustificata e persino doverosa sotto il profilo del buon andamento del servizio pubblico». Anche la Procura generale della Suprema corte aveva concluso per il rigetto del ricorso dell'infermiera.
È soltanto di pochi giorni fa un'altra notizia sul mobbing (sentenza n. 2352) con la quale è stata estesa la tutela dei lavoratori professionisti bersaglio di vessazioni sui luoghi di lavoro. Teatro del fatto ancora una volta un ospedale. In particolare, dando ragione a un medico messo forzatamente al riposo dal suo primario, la Suprema corte ha affermato che i sanitari hanno diritto ai danni patrimoniali e non patrimoniali nel caso in cui il superiore gerarchico li abbia ingiustamente demansionati ed estromessi da qualunque attività, compromettendone così la carriera e la vita di relazione (articolo ItaliaOggi del 06.02.2010, pag. 26).

anno 2009

PUBBLICO IMPIEGO: I continui e pesanti rimproveri integrano il mobbing se fatti davanti ai colleghi.
La Cassazione ha ritenuto che i rimproveri orali da parte del superiore adottati con «toni pesanti» e davanti agli altri colleghi, possono costituire episodio di mobbing.
I giudici hanno così confermato la condanna per mobbing di un'azienda milanese perché una sua dirigente aveva vessato per mesi una dipendente, con una serie di sanzioni disciplinari culminate nel licenziamento (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 20.03.2009 n. 6907 - link a www.lavoroprevidenza.com).

anno 2006

PUBBLICO IMPIEGOMobbing – Bossing - Nozione - Disegno vessatorio atto a destabilizzare l’equilibrio psicofisico del lavoratore – Proposta di Declassamento professionale per ristrutturazione aziendale – Indisponibilità dei lavoratori – Loro confinamento in apposito reparto - Condizione di assoluta inerzia in ambiente degradato – Pericolo di definitivo allontamento dal contesto produttivo in mancanza di accettazione della novazione contrattuale peggiorativa - Sussiste.
Può esservi condotta molesta e vessatoria o, comunque mobbing anche in presenza di atti di per sé legittimi e che, simmetricamente,non ogni demansionamento così come non ogni altro atto illegittimo dà luogo, a cascata, a mobbing. Affinché ciò avvenga, è necessario che quell’atto emerga come l’espressione, o meglio come uno dei tasselli, di un composito disegno vessatorio.
In definitiva, per la sussistenza del fenomeno occorre che diverse condotte, alcune o tutte di per sé legittime,si ricompongano in un unicum, essendo complessivamente e cumalativamente idonee a destabilizzare l’equilibrio psico-fisico del lavoratore. Ciò non toglie, ovviamente, che tali condotte, esaminate separatamente e distintamente, possano essere illegittime e anche integrare fattispecie di reato
".
…tutti i lavoratori avevano …preso coscienza del fatto che la loro destinazione non era affatto temporanea e che la stessa poteva essere rimossa solo con la accettazione della novazione che veniva prospettata…”. Tale destinazione “rappresentava una minaccia per l’allontanamento dal mondo reale del lavoro che comportava e per le sue caratteristiche di anticamera del licenziamento, …posto che erano rientrati nel ciclo produttivo soltanto coloro che avevano accettato la novazione. Nei fatti si era trattato di una collocazione sine die, in quanto i dipendenti avrebbero lasciato la palazzina solo se accettavano le condizioni del datore di lavoro” (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 21.09.2006 n. 31413 - link a http://olympus.uniurb.it).

PUBBLICO IMPIEGOMobbing.
Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza – Rifiuto di svolgere funzioni di Rspp – Demansionamento – Licenziamento individuale – Illegittimità della condotta datoriale – Sussiste.
Nel sistema delineato dal decreto legislativo 19.09.1994, n. 626 la funzione di responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, designato dal datore di lavoro (art. 2, lett. e), e quella di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (art. 2, lett. f) non sono cumulabili nella stessa persona. (...) Concentrare nella stessa persona le funzioni di due figure cui il legislatore ha attribuito funzioni diverse, ancorché finalizzate al comune obiettivo della sicurezza del lavoro, significa eliminare ogni controllo da parte dei lavoratori, atteso che il controllato ed il controllante coinciderebbero. (…) Chiaramente diversa è la volontà della legge, che richiede entrambe le figure per una azione di prevenzione costantemente perseguita da parte datoriale e controllata dai lavoratori” (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 15.09.2006 n. 19965 - link a http://olympus.uniurb.it).

PUBBLICO IMPIEGOMobbing – Prova degli elementi costitutivi della fattispecie – Non raggiunta – Diritto al risarcimento del danno da mobbing – Non sussiste – Violazione dell’art. 2087 c.c. – Sussiste.
La giurisprudenza è oramai assestata sul punto: l’elemento essenziale per poter configurare un comportamento di mobbing è che la vessazione psicologica sia attuata in modo sistematico, ripetuto per un apprezzabile periodo temporale; solo comportamenti siffatti sono in grado di rendere significativi, da un punto di vista giuridico, atti del datore di lavoro o dei suoi collaboratori che, diversamente, non avrebbero alcuna rilevanza rimanendo nell’ambito dei normali rapporti interpersonali sul luogo di lavoro… è onere del lavoratore che lamenti di aver subito un danno alla salute provare l’esistenza di tale danno e il nesso causale tra la condotta datoriale e il danno subito…
La ricorrente non ha raggiunto la prova degli elementi costitutivi della fattispecie, in quanto i fatti ostili non sono stati né frequenti né duraturi… Vi sono stati comunque comportamenti violativi dell’art. 2087 c.c. lesivi della persona del prestatore di lavoro, che hanno comportato l’insorgere di un danno biologico (TRIBUNALE di Bergamo, Sez. Lavoro, sentenza 08.08.2006 - link a http://olympus.uniurb.it).

PUBBLICO IMPIEGOMobbing: disegno persecutorio e specifica finalità vessatoria.
La responsabilità del datore di lavoro per mobbing –invocabile anche in assenza della violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato– presuppone la prova, ricavabile anche da una serie di elementi sintomatici, di un complessivo e perdurante disegno persecutorio e di una specifica finalità vessatoria, ovvero della volontà, da parte del datore di lavoro, di emarginare e svilire il lavoratore (Tribunale Civitavecchia, sentenza 20.07.2006 - link a www.altalex.com).

PUBBLICO IMPIEGOMobbing nel pubblico impiego.
Mobbing – Demansionamento – Risarcimento del danno biologico ed alla professionalità – Sussiste.
Il danno, di carattere non patrimoniale, alla professionalità “attiene … alla lesione (sia a titolo di responsabilità contrattuale che extracontrattuale) di un interesse costituzionalmente protetto dall’articolo 2 della Costituzione ed ha ad oggetto il diritto fondamentale del lavoratore alla esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, secondo le mansioni e qualifica spettategli per legge o per contratto.
I provvedimenti del datore che illegittimamente ledono tale diritto hanno quale conseguenza la lesione dell’immagine professionale, della dignità personale e della vita di relazione del lavoratore, sia in tema di autostima ed eterostima nell’ambiente di lavoro o in quello socio familiare sia in termini di perdita di chances per lavori di pari livello (Cass., sez. lav., n. 10157 del 2004). La valutazione di siffatto pregiudizio, che, come già evidenziato, è privo delle caratteristiche della patrimonialità, non può che essere effettuata in via equitativa
”.
Quanto al danno biologico, “vi è da rilevare al riguardo che il c.t.u. ha ritenuto di diminuire la quantificazione del danno…in considerazione della personalità del ricorrente e di situazioni, preesistenti o concomitanti, attinenti alla sua sfera personale, alle quali ha riconosciuto valore di concausa naturale nella determinazione del danno.
Ritiene il giudice di non poter aderire a tale impostazione, poiché, in base ai principi di cui agli articoli 40 e 41 del codice penale, applicabili in tema di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, «qualora le condizioni ambientali o i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile dell’uomo non possano dar luogo, senza l’apporto umano, all’evento danno, l’autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità» (Cass., sez. lav., n. 553 del 2003).
Non è possibile, pertanto, una volta accertata l’effettiva operatività del nesso causale fra comportamento imputabile del danneggiante e pregiudizio arrecato, effettuare alcuna graduazione in termini percentuali, con riferimento alla concausa della condotta colposa, dovendo ritenersi il danneggiante responsabile per l’intero dei danni cagionati
” (TRIBUNALE di Castrovillari, sentenza 20.04.2006 - link a http://olympus.uniurb.it).

PUBBLICO IMPIEGOParametri per individuare situazioni di mobbing.
Mobbing – Nozione – Parametri di riconoscibilità del Mobbing – Intento persecutorio.
Il mobbing è una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente, ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono portare anche a invalidità psicofisica permanente.
I sette parametri [la cui presenza contestuale consente di riconoscere il mobbing] in questione sono: l’ambiente lavorativo, la frequenza …, la durata…, il tipo di azioni ostili…, e precisamente attacchi ai contatti umani, cambiamenti delle mansioni e attacchi alla reputazione), dislivello fra gli antagonisti, andamento secondo fasi successive … Quanto all’intento persecutorio che caratterizza il mobbing -da intendersi in un’accezione psicologica, come disegno vessatorio perseguito dal mobber, e non penalistica come vero e proprio dolo specifico- il CTU ne ha ritenuto sussistenti i tratti fondamentali, rappresentati dalla contemporanea presenza di una carica emotiva e soggettiva … , di una precisa motivazione del mobber … e di un obiettivo conflittuale, cioè un terreno di scontro privilegiato
”.
Mobbing – Illegittimità – Violazione artt. 2087 cod. civ. e 2043 cod. civ. – Legittimità dei singoli atti che lo compongono – Irrilevanza.
Il comportamento mobbizzante … è certamente illegittimo a prescindere dalla possibile legittimità dei singoli atti che la compongono, in se considerati. Esso infatti rappresenta una violazione dell’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile, nonché del principio generale del minimum laedere di cui all’articolo 2043 del codice civile e in quanto idoneo a provocare un danno, e fonte di responsabilità sia contrattuale che extracontrattuale” (TRIBUNALE di Sondrio, sentenza 09.03.2006 - link a http://olympus.uniurb.it).

PUBBLICO IMPIEGOMobbing: responsabilità del datore di lavoro.
Mobbing – Datore di lavoro – Responsabilità contrattuale – Presunzione legale di colpa – Sussiste.
…ha natura contrattuale … la responsabilità del datore di lavoro per inadempimento dell’obbligo di sicurezza (articolo 2087 del codice civile) …Dalla prospettata natura contrattuale della responsabilità, la stessa giurisprudenza ricava…significative implicazioni sul piano della distribuzione degli oneri probatori relativi … infatti, la presunzione legale di colpa -stabilita (dall’articolo 2118 del codice civile)- a carico del datore di lavoro inadempiente all’obbligo di sicurezza …- deroga, parzialmente, il principio generale (articolo 2697 del codice civile), che impone -a “chi vuol far valere un diritto in giudizio”- l’onere di provare “i fatti che ne costituiscono il fondamento”.
Non ne risulta, tuttavia, una ipotesi di responsabilità oggettiva, né la dispensa, da qualsiasi onere probatorio, del lavoratore danneggiato. Questi, infatti, resta gravato … dell’onere di provare il “fatto” costituente inadempimento dell’obbligo di sicurezza nonché il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento stesso ed il danno da lui subito, mentre esula dall’onere probatorio a carico del lavoratore … la prova della colpa del datore di lavoro danneggiante …è lo stesso datore di lavoro, infatti, ad essere gravato … dell’onere di provare la non imputabilità dell’inadempimento
”.
Art. 2087 cod. civ. – Misure di sicurezza innominate – Omissione – Prova liberatoria a carico del datore di lavoro – Contenuto.
Affatto diverso risulta, tuttavia, (anche) il contenuto dei rispettivi oneri probatori a seconda che le misure di sicurezza -asseritamente omesse- siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte parimenti vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici…, oppure debbano essere ricavate dalla stessa disposizione (articolo 2087 del codice civile, cit.) che impone l’obbligo di sicurezza. Nel primo caso -di misure di sicurezza (o prevenzione), per cosi dire, nominate- il lavoratore ha l’onere di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della misura stessa -cioè il rischio specifico, che s’intende prevenire o contenere- nonché, ovviamente, il nesso di causalità materiale tra l’inosservanza della misura ed il danno subito.
La prova liberatoria a carico del datore di lavoro, poi, parimenti si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore…Nel secondo caso - di misure di sicurezza (o prevenzione), per cosi dire, innominate - fermo restando l’onere probatorio a carico del lavoratore, la prova liberatoria, a carico del datore di lavoro, risulta invece variamente definita in relazione alla quantificazione della diligenza (ritenuta) esigibile –nella predisposizione di quelle misure di sicurezza- e perciò registra, anche in giurisprudenza, significative oscillazioni…tra l’imposizione al datore di lavoro dell’onere di provare l’adozione di ogni misura idonea ad evitare l’infortunio dedotto in giudizio (vedi, per tutte, Cassazione n. 9401 del 1995) oppure soltanto l’adozione di comportamenti specifici, non imposti dalla legge (o da altra fonte di diritto parimenti vincolante), ma suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, standard di sicurezza adottati normalmente o da altre fonti analoghe (vedi, per tutte, Corte costituzionale n. 312 del 1996, Cassazione, sent. n. 16250 del 2003 e n. 3740 del 1995)
”.
Misure di sicurezza – Omessa vigilanza – Responsabilità del datore di lavoro – Sussiste – Prova liberatoria – Contenuto.
Il datore di lavoro, poi, é responsabile dei danni subiti dal proprio dipendente, non solo quando ometta di adottare idonee misure protettive, ma anche quando ometta di controllare e vigilare che di tali misure sia fatto effettivamente uso (anche) da parte dello stesso dipendente, con la conseguenza che -secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 16250 del 2003, n. 2357 del 2003, n. 15133 del 2002, cit., n. 9304 del 2002, n. 9016 del 2002, n. 5024 del 2002, n. 326 del 2002, n. 7052 del 2001, n. 13690 del 2000, n. 6000 del 1998, n. 4227 del 1992)- si può configurare un esonero totale di responsabilità, per il datore di lavoro appunto, solo quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell’abnormità e dell’assoluta imprevedibilità (sullo specifico punto, vedi, per tutte, Cassazione n. 13690 del 2000 e n. 326 del 2002, cit.) … Né lo stesso datore di lavoro…assolve l’onere della prova liberatoria” quando, come nel caso di specie, “lungi dall’allegare (e, tantomeno, dal dimostrare) l’adozione di una qualsiasi misura idonea a prevenire il dedotto evento dannoso, si limita alla deduzione di una propria iniziativa (quale il deferimento, al collegio dei probiviri, del responsabile dei «fatti mobbizzanti»), volta alla repressione -non già alla prevenzione- degli stessi …”  (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 08.03.2006 n. 12445 - link a http://olympus.uniurb.it).

PUBBLICO IMPIEGOMobbing – Violazione obbligo di sicurezza – art. 2087 cod. civ. – Sussiste – Modalità.
È riconducibile al fenomeno del mobbing la condotta sistematica e protratta nel tempo, che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, garantite dall’articolo 2087 del codice civile; tale illecito, che rappresenta una violazione dell’obbligo di sicurezza posta da questa norma generale a carico del datore di lavoro, si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del datore di lavoro indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato.
La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze dannose deve essere verificata considerando l’idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specialmente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza di una violazione di specifiche norme di tutela del lavoratore subordinato
” (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 06.03.2006 n. 4774 - link a http://olympus.uniurb.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing e molestie sessuali: differenza.
Mobbing – Realizzazione attraverso atti che configurano molestie sessuali sul luogo di lavoro – Distinzione – Rilevanza dell’elemento psicologico dell’autore – Intento di emarginazione – Contesto mobizzante – Sussiste.
Capita sovente che le condotte di mobbing possano realizzarsi anche attraverso vere e proprie molestie sessuali ed allora appare problematico distinguere le due figure. …due sono le differenze fondamentali. La molestia sessuale può essere costituita anche da un solo atto, il mobbing deve essere sistematico. Il molestatore ha, nei confronti della vittima, un chiaro intento libidinoso, il mobber può tendere a dare fastidio, punire, denigrare, espellere. In sostanza la molestia sessuale è una manovra di avvicinamento, il mobbing è una strategia di allontanamento. … La possibile linea di demarcazione tra le due condotte prese in considerazione, cioè molestia sessuale e mobbing, può essere rappresentata dall’elemento psicologico dell’autore. …se l’autore delle molestie avrà avuto solo intenti di natura sessuale, senza ricercare ulteriori scopi dalla propria condotta, allora la fattispecie sarà riconducibile alle molestie sessuali.
Si realizzano, per altro, nella realtà molte altre situazioni nelle quali il contenuto sessuale costituisce più lo sfondo, lo strumento per la molestia piuttosto che il fine: pensiamo ad ambienti di lavoro maschili nei quali alla collega donna viene fatto subire un linguaggio volgare e pieno di doppi sensi: in caso come questo l’intento degli autori è molto più l’emarginazione che non la provocazione sessuale e, conseguentemente, la casistica potrà ricondursi a singoli episodi in un contesto mobbizzante
” (TRIBUNALE di Forlì, sentenza 02.03.2006 - link a http://olympus.uniurb.it).

PUBBLICO IMPIEGODemansionamento e sua risarcibilità.
Mutamento delle mansioni in senso riduttivo – Dequalificazione professionale non automatica – Demansionamento – Sussistenza – Presunzioni.
…non ogni modificazione delle mansioni in senso riduttivo comporta un'automatica dequalificazione professionale, la quale trova la sua essenza nell'abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con una sottoutilizzazione delle sue capacita ed una consequenziale apprezzabile menomazione non transeunte della sua professionalità, nonché con perdita di immagine e di chances professionali; l'esistenza di tali pregiudizi può essere provata anche attraverso presunzioni valorizzando le circostanze del caso concreto quali:
a) la distanza tra le mansioni espletate in precedenza e quelle di nuova assegnazione ritenute inferiori (Cass. 16.08.2004, n. 15955; Cass. 13.05.2004, n. 9129);
b) la durata del demansionamento (Cass. n. 15955 del 2004, cit.; Cass. n. 16797 del 2003, cit.; Cass. n. 9129 del 2004, cit.);
c) la posizione gerarchica perduta dal lavoratore (Cass. n. 15955 del 2004, cit.; Cass. n. 16797 del 2003, cit.);
d) la sua anzianità di servizio (Cass. n. 15955 del 2004; Cass. n. 16797 del 2003, cit.);
e) l'elemento psicologico della condotta del datore di lavoro (Cass. n. 16797 del 2003, cit.)
”.
Mutamento delle mansioni in senso riduttivo – Demansionamento – Sussiste – Tipologie di danni causati al lavoratore – Risarcibilità.
…il demansionamento (inteso come mancata adibizione del lavoratore a mansioni non corrispondenti al suo inquadramento contrattuale ed alla professionalità da lui maturata) può costituire la fonte di danni suscettibili di risarcimento, i quali possono consistere:
1) nel danno esistenziale quale:
A) lesione del diritto alla libera esplicazione della personalità nel luogo di lavoro (danno non patrimoniale alla professionalità in senso soggettivo) -cfr. specialmente, di recente, Cass. 26.05.2004, n. 10157;
B) lesione alla capacità professionale del lavoratore derivante o dall'impoverimento della capacità acquisita o dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità (danno non patrimoniale alla professionalità in senso oggettivo) -cfr. specialmente, di recente, Cass. 07.09.2005, n. 17812; Cass. 27.06.2005, n. 13719;
C) pregiudizio all'immagine ed alla dignità personali - cfr. specialmente, di recente, Cass. 17812/2005 cit.; Cass. 10.06.2004, n. 11045; Cass. 10157/2004 cit.;
D) nel pregiudizio alle chances professionali - cfr. specialmente, di recente, Cass. 17812/2005 cit.; Cass. 13719/2005 cit.; Cass. 10157/2004 cit.;
2) nel danno biologico quale lesione all'integrità psichica e fisica suscettibile di accertamento medico-legale -cfr. specialmente, di recente, Cass. 17812/2005; Cass. 11045/2004;
3) nel danno morale soggettivo quale transeunte turbamento dello stato d'animo della vittima; (secondo gli insegnamenti di Corte Cost. 233/2003 cit; Cass. 8827/2003; Cass. 8828, essendo indubbio il rilievo costituzionale, quanto meno in relazione al precetto ex art. 2 Cost., dell'Interesse del prestatore violato dal demansionamento -cfr. sul punto Cass. 10157/2004 cit.;);
4) nel pregiudizio economico per la perdita di ulteriori possibilità di guadagno (danno patrimoniale da lucro cessante -cfr. specialmente, di recente, Cass. 11045/2004 cit.- mentre quello da danno emergente e escluso in radice dal principio, espressamente richiamato dall'art. 2103, del principio dell'irriducibilità della retribuzione - secondo quanto precisato da Cass. 08.11.2003, n. 16792)
” (TRIBUNALE di Trento, sentenza 07.02.2006 - link a http://olympus.uniurb.it).

PUBBLICO IMPIEGODanno alla professionalità da mobbing.
Mobbing – Nozione – Trattamenti vessatori continuati – Demansionamento – Sussiste.
Ciò che distingue il mobbing dal conflitto puro e semplice nei rapporti interpersonali è appunto il continuo ripetersi in un arco di tempo di una certa durata del trattamento vessatorio inflitto alla vittima …” nel caso di specie, oltre “agli episodi direttamente riconducibili al demansionamento in senso stretto, si possono ricordare quelli delle continue sollecitazioni al ricorrente di trovare altro lavoro, anche presso i clienti cui era inviato per colloqui, come pure la vicenda del paventato mancato pagamento della retribuzione per più mesi, poi non verificatosi, l'eliminazione della sua postazione di lavoro con sottrazione del personal Computer assegnato, le convocazioni improvvise presso la capogruppo, cui vanno aggiunti l'episodio dell'attesa interminabile per un colloquio con l'A., deciso da quest'ultimo, e della contestazione disciplinare dell'01.07.2002 per insubordinazione…” .
Mobbing – Danno alla professionalità e biologico – Dipendente informatico, lasciato in condizioni di inattività e sollecitato alle dimissioni – Sussiste – Risarcimento – Quantificazione in via equitativa – Parametro – Retribuzione base lorda del ricorrente.
… la giurisprudenza, in generale, definisce come danno alla professionalità quello che colpisce le conoscenze professionali acquisite da un soggetto nella sua esperienza lavorativa, a seguito, come nei caso in esame, di un periodo di sostanziale totale inattività lavorativa ovvero di attività lavorativa in professionalità più basse da quelle acquisite in precedenza”.
Per quanto concerne la prova del danno di dequalificazione, da seguire è “l’orientamento che utilizza criteri di esperienza comune, quali la quantità e qualità dell'esperienza lavorativa pregressa, il tipo di professionalità colpito, la durata del demansionamento e l'esito finale della dequalificazione”, procedendo alla sua quantificazione in via equitativa ex articolo 1226 del codice civile, utilizzando come parametro la retribuzione base lorda del ricorrente (TRIBUNALE di Milano, sentenza 04.01.2006 - link a http://olympus.uniurb.it).

anno 2005

PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing – Bossing – Nozione – Strategia aziendale volta a ridurre il personale o eliminare i dipendenti non graditi – Confinamento in specifico reparto – Totale inattività e degrado ambientale – Pericolo di definitiva estromissione dal contesto produttivo aziendale - Configurabilità.
Consona al caso di specie sarebbe quella specifica variante del fenomeno Mobbing conosciuta con Bossing…che ha la forma di una vera e propria strategia aziendale volta a ridurre il personale o eliminare dipendenti “non graditi”: in tal caso sono i quadri o i dirigenti ad agire.
A differenza del Mobbing, che non ha sempre un’origine razionale, qui lo scopo è perseguito con lucidità : indurre alle dimissioni il dipendente eludendo così eventuali problemi di origine sindacale e le leggi sul licenziamento e ciò con i mezzi più fantasiosi spesso sottili e disinvolti, purché capaci di procurare intorno all’interessato un’atmosfera di tensione insostenibile mirando alla sua distruzione psicologica, ad esempio affidandogli mansioni dequalificanti
” (Corte d'Appello-Lecce, sentenza 10.08.2005  - link a http://olympus.uniurb.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Ricostruzione del concetto di mobbing e risarcimento.
Condotta molesta – decreto legislativo n. 216/2003 – Nozione.
Ai sensi e per gli effetti del decreto legislativo n. 216/2003 (di attuazione della direttiva comunitaria 200/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro), per la prima volta il legislatore fornisce la definizione di condotta molesta, riconducendola a quel comportamento indesiderato, avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e ricreare un clima di intimidazione, ostilità, degrado, umiliazione ed offesa per la vittima”.
Mobbing – Nozione – Pluralità di condotte vessatorie – Necessità.
“Le condotte che costituiscono il dato materiale nel quale si realizza il mobbing possono essere le più varie ma è fondamentale che siano plurime in quanto un solo comportamento, ad esempio il più diffuso quale il demansionamento, non provocherà mobbing anche perché tale figura complessa non risulterà necessaria per essere utilizzata dal soggetto che ha subito dei danni essendo sufficiente il riferimento al demansionamento, già adeguatamente studiato dalla giurisprudenza del lavoro”
Mobbing – Nozione – Finalità persecutoria delle azioni contestate – Necessità.
Ferma restando la necessità di una definizione normativa, anche soltanto per chiarire definitivamente la materia, …il concetto di mobbing non si esaurisce in una comodità lessicale ma contiene un valore aggiunto perché consente di arrivare a qualificare come tale e a sanzionare anche quel complesso di situazioni che, valutate singolarmente, potevano anche non contenere elementi di illiceità, ma che, considerate unitariamente ed in un contesto appunto ‘mobilizzante’, assumono un particolare valore molesto ed una finalità persecutoria che non sarebbe stato possibile apprezzare senza il quadro d’insieme che il mobbing consente di valutare”.
Mobbing – Concorrenza tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale – Sussiste – Conseguenze e danni risarcibili.
In caso di mobbing è ben possibile la concorrenza tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, posto che, da un lato, qualsiasi azione ingiusta potenzialmente è in grado di generare una responsabilità extracontrattuale, a condizione che ci sia dolo o colpa in chi la commette, ed un conseguente danno; dall’altro, non è escluso a priori che l’azione ingiusta non sia realizzata in un contesto contrattuale, cioè nell’ambito di un rapporto tra parti legate da vincolo contrattuale: in tal caso l’azione ingiusta realizzata da un contraente determinerà anche una responsabilità contrattuale.
Nel primo caso, la regola (art. 2043 cod. civ. e seguenti) non rispettata potrà determinare potenziali danni sia patrimoniali che non patrimoniali, alla luce del disposto dell’art. 2059 cod. civ. recentemente rivitalizzato dalle sentenze della Corte di cassazione e della Coste costituzionale del 2003 sul tema; nel secondo caso (art. 1218 cod. civ., alla luce dell’art. 1321 cod. civ. e seguenti) esclusivamente danni patrimoniali.
Peraltro la coesistenza tra il profilo di responsabilità extracontrattuale e contrattuale costituirà un vantaggio per il danneggiato, in quanto il mancato rispetto della regola contrattuale (ad esempio l’art. 2087 cod. civ. per il lavoro) potrà costituire il profilo di colpa richiesto per la realizzazione della fattispecie ex art. 2043 cod. civ. e, conseguentemente, esonerare dalla ricerca dell’elemento psicologico. Sarà, dunque, sempre utile rilevare, ove sussistente, la presenza del doppio profilo di responsabilità.
…Nelle situazioni di lesione dei diritti fondamentali del lavoratore si viene immancabilmente a provocare un danno allo stesso. Ci potrà essere un danno alla salute … ed allora interverrà anche la categoria del danno biologico; potrà esserci un danno patrimoniale, con il conseguente risarcimento; nelle ipotesi riconducibili a reato potrà intervenire anche la categoria del danno morale soggettivo ex art. 185 cod. pen.; tutte queste categorie sono, per altro, soltanto eventuali ma sempre ed immancabilmente la lesione dei diritti fondamentali del lavoratore produrranno un danno di altra categoria che definire esistenziale appare assolutamente opportuno …
In ipotesi di mobbing, il lavoratore potrà richiedere oltre al danno biologico, anche il danno esistenziale, consistente nelle ferite inferte alla sfera di autostima ed eterostima in ambito lavorativo ed alla sua immagine professionale, che ne è uscita ridimensionata senza sua colpa, a seguito della condotta vessatoria subita
” (TRIBUNALE di Forlì, sentenza 28.01.2005 n. 28 - link a http://olympus.uniurb.it).

anno 2002

PUBBLICO IMPIEGO: Datore di lavoro – Poteri - Declassamento professionale dei lavoratori per ristrutturazione aziendale – Indisponibilità – Confinamento in specifico reparto – Condizione di totale inattività e ambiente degradato – Reato di violenza privata – Sussiste – Danni subiti dai lavoratori - Risarcibilità.
La destinazione allo specifico reparto “non altro era che un tassello della strategia aziendale, utile al fine di attuare il programma di ristrutturazione aziendale, portato avanti in maniera spicciola ed informale e che consentiva di collocare fisicamente, in quello spazio, quei dipendenti che non avessero accettato subito la nuova situazione di esubero, venutasi a creare, ed il conseguente declassamento loro proposto.
Per cui la funzione intimidatrice che essa aveva, non era tanto e solo ricollegabile all'idea di un luogo dove non si lavorava, dove concetti quali mansioni e professionalità certo non potevano albergare, ma era anche simbolica, in quanto rappresentava l'allontanamento traumatico dal mondo del lavoro, il precipitare di una situazione lavorativa sino ad allora normale, la possibile anticamera del licenziamento, la fine di ogni possibilità di continuare a fare ciò per il quale si era stati assunti
” (TRIBUNALE di Taranto, Sez. II, sentenza 07.03.2002 n. 742  - link a http://olympus.uniurb.it).