dossier MOBBING |
anno 2013 |
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PUBBLICO IMPIEGO: Il
danno da mobbing è una fattispecie che si fa risalire,
quanto alla natura giuridica, alla responsabilità datoriale,
di tipo contrattuale, prevista dall’art. 2087 del codice
civile che pone a carico del datore di lavoro l’onere di
adottare nell’esercizio di impresa tutte le misure
necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità
morale del prestatore di lavoro.
Il concetto di mobbing, sia in punto di fatto che in punto
di diritto, è alquanto indeterminato, ancorché quanto ad una
ragionevole sua definizione, possa considerarsi tale
quell’insieme di condotte vessatorie e persecutorie del
datore di lavoro o comunque emergenti nell’ambito lavorativo
concretizzanti la lesione della salute psico-fisica e
dell’integrità del dipendente e che postulano, ove
sussistenti, una adeguata tutela anche di tipo risarcitorio.
Attesa la indeterminatezza della nozione, la giurisprudenza
si è preoccupata di indicare una serie di elementi e/o
indizi caratterizzanti il fenomeno del mobbing dai quali far
emergere la concreta sussistenza di una condotta offensiva
nei sensi sopra esposti, come tradottasi con atti e
comportamenti negativamente incidenti sulla reputazione del
lavoratore, su i suoi rapporti umani con l’ambiente di
lavoro e sul contenuto stesso della prestazione lavorativa.
Così per aversi mobbing è richiesto l’azione offensiva posta
in essere a danno del lavoratore deve essere sistematica e
frequente posta in essere con una serie prolungata di atti e
avere le caratteristiche oggettive di persecuzione e
discriminazione o rivelare intenti meramente emulativi.
Di contro non si ravvisano gli estremi del mobbing
nell’accadimento di episodi che evidenziano screzi o
conflitti interpersonali nell’ambiente di lavoro e che per
loro stessa natura non sono caratterizzati da volontà
persecutoria essendo in particolare collegati a fenomeni di
rivalità, ambizione o antipatie reciproche che pure sono
frequenti nel mondo del lavoro.
Il danno da mobbing è una fattispecie che si fa risalire,
quanto alla natura giuridica, alla responsabilità datoriale,
di tipo contrattuale, prevista dall’art. 2087 del codice
civile che pone a carico del datore di lavoro l’onere di
adottare nell’esercizio di impresa tutte le misure
necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità
morale del prestatore di lavoro (cfr. Cassazione sezione
lavoro 25.05.2006 n. 1244).
Il concetto di mobbing, sia in punto di fatto che in punto
di diritto, è alquanto indeterminato ancorché, quanto ad una
ragionevole sua definizione, possa considerarsi tale
quell’insieme di condotte vessatorie e persecutorie del
datore di lavoro o comunque emergenti nell’ambito lavorativo
concretizzanti la lesione della salute psico-fisica e
dell’integrità del dipendente e che postulano, ove
sussistenti, una adeguata tutela anche di tipo risarcitorio
(in tal senso, Cass. Sezione Lavoro 26.03.2010 n. 1307).
Attesa la indeterminatezza della nozione, la giurisprudenza
si è preoccupata di indicare una serie di elementi e/o
indizi caratterizzanti il fenomeno del mobbing dai quali far
emergere la concreta sussistenza di una condotta offensiva
nei sensi sopra esposti, come tradottasi con atti e
comportamenti negativamente incidenti sulla reputazione del
lavoratore, su i suoi rapporti umani con l’ambiente di
lavoro e sul contenuto stesso della prestazione lavorativa.
Così per aversi mobbing è richiesto l’azione offensiva posta
in essere a danno del lavoratore deve essere sistematica e
frequente posta in essere con una serie prolungata di atti e
avere le caratteristiche oggettive di persecuzione e
discriminazione o rivelare intenti meramente emulativi
(Cass. Sezione lavoro n. 4774/2006; Trib. Roma 07.03.2008 n.
69).
Di contro non si ravvisano gli estremi del mobbing
nell’accadimento di episodi che evidenziano screzi o
conflitti interpersonali nell’ambiente di lavoro e che per
loro stessa natura non sono caratterizzati da volontà
persecutoria essendo in particolare collegati a fenomeni di
rivalità, ambizione o antipatie reciproche che pure sono
frequenti nel mondo del lavoro
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 19.03.2013 n.
1609 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2012 |
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PUBBLICO IMPIEGO: S.
Rocchina,
Cos'é il mobbing per la giurisprudenza
(Cass. n. 3187/2012) - Per la configurazione
di una condotta di "mobbing",
l'illegittimità di un atto non è di per sé
sufficiente
(link a www.diritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Mobbing.
Domanda.
Perché si possa configurare il mobbing è
sufficiente che vi siano dei comportamenti
ostili del superiore nei confronti del
lavoratore?
Risposta.
Per «mobbing» si intende una condotta
del datore di lavoro o del superiore
gerarchico, sistematica e protratta nel
tempo, tenuta nei confronti del lavoratore
nell'ambiente di lavoro, che si risolve in
sistematici e reiterati comportamenti ostili
che finiscono per assumere forme di
prevaricazione o di persecuzione
psicologica, da cui può conseguire la
mortificazione morale e l'emarginazione del
dipendente, con effetto lesivo del suo
equilibrio fisiopsichico e del complesso
della sua personalità.
Ai fini della configurabilità della condotta
lesiva del datore di lavoro sono, pertanto,
rilevanti:
a) la molteplicità di comportamenti di
carattere persecutorio, illeciti o anche
leciti se considerati singolarmente, che
siano stati posti in essere in modo
miratamente sistematico e prolungato contro
il dipendente con intento vessatorio;
b) l'evento lesivo della salute o della
personalità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra la condotta del
datore o del superiore gerarchico e il
pregiudizio all'integrità psico-fisica del
lavoratore;
d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè
dell'intento persecutorio.
La sussistenza della lesione del bene
protetto e delle sue conseguenze deve essere
verificata, sulla base di una valutazione
complessiva degli episodi indicati in
giudizio, considerando l'idoneità offensiva
della condotta del datore di lavoro, che può
essere dimostrata, per la sistematicità e
durata dell'azione nel tempo, dalle sue
caratteristiche oggettive di persecuzione e
discriminazione, anche in assenza della
violazione di specifiche norme attinenti
alla tutela del lavoratore subordinato (articolo ItaliaOggi
sette del 27.02.2012). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
In tema di responsabilità
derivante dagli oneri sostenuti dal comune
per far fronte alla soccombenza in una causa
civile per mobbing.
Dagli atti di causa risulta che il
procuratore regionale ha esercitato l’azione
di rivalsa nei confronti dell’appellante
avv. G.P., comandante protempore della
polizia municipale di Rosolini, presunto
responsabile del fatto dannoso conseguente a
mobbing, che il Comune di Rosolini, in sede
civile, era stato condannato a risarcire al
terzo danneggiato.
Nella sentenza appellata n. 2028/2011 sono
stati correttamente ravvisati nella
fattispecie all’esame gli estremi
dell’ipotesi del danno indiretto che, come
noto, deriva dall’esecuzione di sentenza
definitiva di condanna dell’ente pubblico al
risarcimento a favore di terzo danneggiato
che ha convenuto in giudizio
l’amministrazione ottenendone la condanna.
Secondo il consolidato orientamento
giurisprudenziale i rapporti tra azione
civile e azione di responsabilità
amministrativa sono improntati all’assoluta
autonomia, in considerazione dell’esistenza
di un diverso petitum e di una
diversa causa petendi fra l'azione di
responsabilità amministrativa e l'azione
civile di danno contro la P.A. Cosicché,
quando si verte in ipotesi di danno
cosiddetto indiretto, il pagamento al terzo
costituisce il presupposto per l’esercizio
dell'azione di rivalsa da parte del
procuratore regionale, mentre deve essere
operato un accertamento autonomo circa la
sussistenza delle condizioni necessarie per
pervenire ad una statuizione di condanna.
E’ pacifico, comunque, in giurisprudenza
che, anche se le sentenze civili di condanna
non esplicano efficacia vincolante nel
giudizio di responsabilità amministrativa,
il giudice contabile può trarre da quel
diverso giudizio elementi utili a formare il
proprio libero convincimento ex art. 116
c.p.c. (cfr. Corte conti Sez. III Appello n.
623/2005, di questa Sezione n. 297 del 2011
e n. 18 del 2012).
L’odierno appellante P.G. (convenuto nel
giudizio di primo grado unitamente a G.G.,
sindaco pro tempore di Rosolini, e di A.M.,
dirigente dello stesso Comune, entrambi
assolti con la sentenza n. 2028/2011),
all’epoca dei fatti di causa comandante
della polizia municipale di Rosolini, ha
mosso specifica censura avverso la sentenza
impugnata sostenendo che non sarebbero state
individuate le violazioni degli obblighi di
servizio all’interno della peculiare
struttura del fenomeno (prima sociologico e
psicologico e poi giuslavoristico)
denominato mobbing, cui sarebbe stato
sottoposto il dipendente comunale G.M.,
attore nel giudizio civile, e invece
sarebbero state recepite acriticamente, in
assenza di elementi di prova, le risultanze
del giudicato civile dando atto della
imputazione a titolo di colpa grave della
responsabilità attribuita allo stesso
appellante non tenendo conto del contesto
organizzativo in cui i fatti sono avvenuti.
In sostanza ha lamentato l’appellante che la
sua condanna al pagamento della somma di €
50.000, 00 a favore del Comune di Rosolini
sarebbe stata pronunciata dal giudice di
primo grado in mancanza di elementi di
prova; sarebbero, infatti, insussistenti gli
asseriti comportamenti attribuiti
all’appellante assunti, nella qualità di
comandante della Polizia municipale di
Rosolini, in presunta violazione strutturale
e perdurante dei doveri di buona
amministrazione e dei connessi obblighi di
servizio che, ove fossero stati
correttamente assolti, non avrebbero
consentito la verificazione del mobbing.
Tanto premesso, il Collegio osserva che
l’esposta censura dell’appellante non si
ritiene fondata. Infatti, da una parte, non
è contestabile che il procuratore regionale
abbia versato in giudizio tutti gli atti del
processo civile, tra cui i verbali delle
prove testimoniali formate nello stesso
giudizio nelle forme di rito (v. pag. 23
della sentenza del Tribunale di Siracusa n.
91 del 2008) ed abbia acquisito la
consulenza tecnica d’ufficio disposta dal
giudice civile medesimo, in cui, sotto il
profilo medico-legale, è stata positivamente
verificata la compromissione dello stato di
salute del M. ed il pregiudizio della
integrità psico-fisica dello stesso come
effetto degli atti di mobbing, cui era stato
sottoposto in un lungo arco di tempo, e,
dall’altra, che, in base a tali obiettivi
elementi, la prospettazione accusatoria è
stata accolta dalla sentenza appellata, la
quale, per quanto riguarda la specifica
posizione del P., ha individuato una serie
di comportamenti integranti violazioni
gravemente colpose di obblighi di servizio
rientranti tipicamente nella peculiare
struttura del fenomeno denominato mobbing,
cui sarebbe stato sottoposto il dipendente
comunale G.M.. In tale ottica risultano
accertati una serie di atti di gestione del
rapporto di servizio orientati o, comunque,
idonei, alla persecuzione ed all’isolamento
del dipendente M. con grave compromissione
dell’integrità psico-fisica dello stesso.
Gli atti di gestione in questione sono
certamente riconducibili all’appellante avv.
G.P., quale comandante pro-tempore della
polizia municipale di Rosolini dal luglio
2004 al 29.12.2004 e dal 03.03.2005 fino al
14.05.2008.
Infatti, nonostante che con sentenza
903/2003 del Tribunale di Siracusa, il M.,
dirigente con funzioni di vice comandante
della polizia municipale di Rosolini, avesse
ottenuto la condanna del Comune ad essere
riassegnato alle mansioni di vice comandante
dei Vigili Urbani di Rosolini, già
illegittimamente revocate con assegnazione
ad altro incarico, il P. si adoperava in
ogni maniera a che al M., al suo rientro nel
corpo della polizia municipale, non fossero
attribuiti compiti di responsabilità
compatibili con la figura del vicecomandante
della polizia municipale praticamente
escludendolo dai servizi e dalle funzioni in
cui venivano coinvolti tutti gli altri
componenti della polizia municipale.
Il P. si rendeva autore dell’ordine di
servizio n. 19724 del 18.06.2004 nel quale,
con disposizioni, apparentemente conformi al
regolamento di polizia municipale, impartiva
al rientrante M. di svolgere le proprie
mansioni, non di vice comandante, bensì di
istruttore direttivo di vigilanza nell’Unità
Operativa di viabilità e, con il chiaro
intento di isolarlo, disponeva che fosse
distaccato in locali lontani dalla sede del
Comando di polizia municipale senza
assegnazione di alcuna vettura di servizio e
con obbligo di timbrare la presenza in
servizio negli stessi locali distaccati
senza alcun contatto con la sede ordinaria
del Comando di polizia municipale.
Nella sentenza civile si dà atto che le
condotte illecite poste in essere,
innanzitutto dal P., che hanno determinato
il demansionamento, l’isolamento e la
discriminazione del M. sono state confermate
dai testi escussi nel processo civile; in
base a dette prove testimoniali è stato
attestato senza ombra di dubbio che il M. è
stato sostanzialmente privato delle mansioni
attinenti alla sua qualifica, gli è stato
impedito di svolgere la funzione di vice
comandante in palese violazione delle
disposizioni del regolamento sui servizi ed
uffici comunali; è stato privato della
divisa, dell’arma, del tesserino, degli
strumenti di lavoro (bollettario delle
contravvenzioni) senza alcuna
giustificazione; è stato relegato in
postazione di lavoro (presso il Palazzo di
Città) diversa da sede ordinaria del comando
di polizia municipale, in locali di risulta
(i locali erano utilizzati anche come
deposito di scatoloni e materiali per le
pulizie – v. pag.30 della sentenza n. 91 del
2008 del Tribunale di Siracusa in atti); gli
ausiliari formalmente sottoposti al
coordinamento del M., come da ordini di
servizio del 18.06.2004 e dell’08.07.2004
del comandante P., dovevano nei fatti
rivolgersi solo allo stesso comandante P. e,
in effetti, erano solo da questi coordinati
come confermato dai testi escussi (cfr.
deposizioni testimoniali di C., I., G., G.
ed I.).
Per i fini che qui interessano, altra prova
inequivoca di condotta illecita del P. con
intenti vessatori e persecutori del M., fra
le tante indicate nell’atto di citazione, è
quanto riportato nella sentenza del
Tribunale di Siracusa n. 91 del 2008 (v.
pag. 30), ove è riferita la circostanza che
il comandante P., odierno appellante,
nell’imminenza del rientro del M. nel Corpo
della polizia municipale, incontrava in
luogo estraneo all’ufficio (precisamente nei
locali di un bar presso una stazione di
servizio Agip sulla strada statale 115) vari
appartenenti al corpo di polizia municipale
invitandoli sostanzialmente a non avere
alcun tipo di rapporto con il M. (cfr.
verbali di assunzione di sommarie
informazioni e, inoltre, deposizione dei
testi S., I., C., I.) e, questo, dopo avere
preannunciato, pochi giorni dopo che era
stata emessa la sentenza del Tribunale di
Siracusa n. 937/2003 di riassegnazione del
M. alle funzioni di vicecomandante, che “fino
a quando c’era lui il M. non sarebbe mai
tornato al comando di polizia municipale”.
Risulta, pertanto, provato che sia da
imputare principalmente al P. -cui, ai fini
della responsabilità amministrativa azionata
nei suoi confronti dal pubblico ministero
per rivalere il Comune della condanna subita
nel giudizio civile, è chiaramente
ascrivibile un comportamento soggettivo di
colpa grave- l’elusione, come messo in
evidenza nella sentenza appellata, della
statuizione della sentenza del Tribunale di
Siracusa n. 903 del 2003 che ordinava al
Comune di Rosolini di riassegnare al M. le
funzioni di vice comandante della polizia
municipale, avendo lo stesso, dopo avere
distaccato il rientrante M. presso l’Unità
Organizzativa Viabilità, reiteratamente
posto in essere condotte tutte
inequivocabilmente dirette ad emarginare il
M. attraverso l’isolamento fisico e lo
svuotamento di fatto delle funzioni
formalmente assegnategli.
Si rivela, altresì infondata, la censura del
P. mossa alla sentenza appellata, che viene
a tal fine ritenuta illogica e
contraddittoria, nella parte in cui, mentre
assolve la dott.ssa A., in relazione alla
brevità (all’incirca quattro mesi) della
durata della condotta vessatoria ad essa
imputata nei confronti del M., non adotta lo
stesso criterio per quanto riguarda il P.,
la cui asserita condotta mobbizzante,
iniziata con l’emissione della disposizione
di servizio del 18.06.2004 n. 19724, sarebbe
cessata il 29.12.2004 allorché ha assunto
servizio di comandante della polizia
municipale del Comune di Campobello di
Licata; da ciò avrebbe dovuto dedursi che
anche la condotta del P. era stata di breve
periodo tenuto conto dell’addotto
insegnamento della Cassazione che richiede
un tempo di almeno sei mesi perché una
condotta possa considerarsi lesiva in quanto
espressiva di mobbing .
L’argomentazione dell’appellante non appare
sorretta da valido fondamento dovendosi
considerare che, se è pur vero che il P. il
29.12.2004 cessò dalle funzioni di
comandante della polizia municipale di
Rosolini in quanto ebbe ad assumere servizio
con le stesse funzioni presso il Comune di
Campobello di Licata, è anche vero che il
P., usufruendo dell’istituto della mobilità,
fece rientro a Rosolini il 03.03.2005
continuando a svolgere le funzioni di
comandante della polizia municipale di
Rosolini ininterrottamente fino al
14.05.2008, data sotto la quale, in seguito
a superamento di concorso, assunse le
funzioni di comandante della polizia
municipale del Comune di Modica; fino a
quando il P. ha mantenuto le funzioni di
comandante della polizia municipale di
Rosolini sono rimasti immutati per l’intero
periodo gli ordini di servizio già impartiti
nei confronti del M..
Nella sentenza del Tribunale di Siracusa n.
91 del 2008 è stato ben precisato che, dopo
il primo trasferimento del P. avvenuto in
data 29.12.2004, il M. sollecitava il
sindaco G.G. all’assegnazione delle mansioni
vicarie di vice comandante della polizia
municipale in attesa della nomina del nuovo
comandante.
Il sindaco, nonostante le chiare previsioni
del mansionario dei profili professionali,
nominava il segretario generale comandante
facente funzioni ed il dirigente dott.ssa A.
per gli affari relativi alla polizia
municipale.
Il giudice civile conclude affermando, in
conformità alle evidenze istruttorie
processuali, che l’amministrazione comunale
di Rosolini, in persona del comandante P.,
che era rientrato per mobilità dal Comune di
Campobello di Licata, del segretario
generale e dello stesso sindaco, non solo ha
pervicacemente omesso di ottemperare alla
sentenza n. 937/2003 arrivando a sopprimere
la figura del vicecomandante della polizia
municipale dalla dotazione organica, ma ha
continuato ad isolare il M. fisicamente e
psicologicamente.
Da ciò è facile dedurre gli atti di gestione
del rapporto di servizio orientati o,
comunque, idonei, alla persecuzione ed
all’isolamento del dipendente M. con grave
compromissione dell’integrità psico-fisica
dello stesso (come accertato nella
consulenza tecnica d’ufficio esperita nel
giudizio civile) si sono protratti fino alla
suddetta data del 14.05.2008.
Tenuto conto, comunque, che non sia da
escludere che a determinare la situazione di
mobbing, cui è stato assoggettato il M.
nell’arco dell’intero periodo suindicato,
abbiano concorso con i loro comportamenti
anche il segretario generale ed il sindaco
pro-tempore, come messo in evidenza nella
predetta sentenza n. 91 del 2008 del
Tribunale di Siracusa, il Collegio ritiene
che il danno da porre a carico
dell’appellante sia definitivamente
determinato in € 25.000,00 oltre interessi e
rivalutazione monetaria con effetto dalla
data in cui, in esecuzione della sentenza
civile e della successiva transazione, sono
state liquidate dal Comune le somme dovute
al terzo danneggiato (Corte dei Conti, Sez.
giurisdizionale d'appello per la Regione
siciliana -
sentenza 22.02.2012 n. 78 - link
a www.corteconti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Da un canto, il prestatore di
lavoro, che chiede la condanna del datore di
lavoro al risarcimento del danno subito a
causa della lesione del proprio diritto di
eseguire la prestazione lavorativa in base
alla qualifica professionale rivestita
(lesione idonea a determinare la
dequalificazione del dipendente stesso),
deve fornire la prova dell’esistenza di tale
danno e del nesso di causalità con
l’inadempimento, prova che costituisce
presupposto indispensabile per procedere ad
una valutazione equitativa.
Il riconoscimento del diritto del lavoratore
al risarcimento del danno professionale,
biologico o esistenziale, che asseritamente
ne deriva, non ricorre automaticamente in
tutti i casi di inadempimento datoriale e
non può prescindere da una specifica
allegazione, nel ricorso introduttivo del
giudizio, sulla natura e sulle
caratteristiche del pregiudizio medesimo.
Inoltre mentre il risarcimento del danno
biologico è subordinato all’esistenza di una
lesione dell’integrità psico-fisica
medicalmente accertabile, il danno
esistenziale -da intendere come ogni
pregiudizio (di natura non meramente emotiva
ed interiore, ma oggettivamente accertabile)
provocato sul fare areddittuale del
soggetto, che alteri le sue abitudini e gli
assetti relazionali propri, inducendolo a
scelte di vita diverse quanto
all’espressione e realizzazione della sua
personalità nel mondo esterno- deve essere
dimostrato in giudizio con tutti i mezzi
consentiti dall’ordinamento, assumendo
peraltro precipuo rilievo la prova per
presunzioni.
Ne discende che il prestatore di lavoro che
chieda la condanna del datore di lavoro al
risarcimento del danno (anche nella sua
eventuale componente di danno alla vita di
relazione o di cosiddetto danno biologico)
subìto a causa della lesione del proprio
diritto di eseguire la prestazione
lavorativa in base alla qualifica
professionale rivestita, deve fornire la
prova dell’esistenza di tale danno e del
nesso di causalità con l’inadempimento,
prova che costituisce presupposto
indispensabile per procedere ad una
valutazione equitativa. Tale danno non si
pone, infatti, quale conseguenza automatica
di ogni comportamento illegittimo rientrante
nella suindicata categoria, cosicché non è
sufficiente dimostrare la mera potenzialità
lesiva della condotta datoriale, incombendo
al lavoratore che denunzi il danno subito di
fornire la prova in base alla regola
generale di cui all’art. 2697 c.c..
---------------
L'elemento oggettivo della fattispecie del
mobbing è integrato dai ripetuti soprusi
che, se posti in essere dai superiori dà
luogo al c.d. mobbing verticale, mentre se
posti in essere dai colleghi origina il c.d.
mobbing orizzontale, i quali possono anche
essere formalmente legittimi ed assumono
connotazione illecita allorquando aventi
l'unico scopo di danneggiare il lavoratore
nel suo ruolo e nella sua funzione
lavorativa, così da determinare il suo
isolamento (fisico, morale e psicologico),
all'interno del contesto lavorativo.
L'elemento psicologico è integrato dal dolo
generico o dal dolo specifico di danneggiare
psicologicamente la personalità del
lavoratore.
Pertanto, ai fini della configurabilità
della condotta lesiva, qualificata danno da
emarginazione lavorativa o mobbing, sono
rilevanti, innanzitutto, la strategia
unitaria persecutoria, che non si sostanzia
in singoli atti da ricondurre nell'ordinaria
dinamica del rapporto di lavoro (come i
normali conflitti interpersonali
nell'ambiente lavorativo, causati da
antipatia, sfiducia, scarsa stima
professionale, ma che non sono
caratterizzati dalla volontà di emarginare
il lavoratore), che ha come disegno unitario
la finalità di emarginare il dipendente o di
porlo in una posizione di debolezza, con la
conseguenza che la ricorrenza di un'ipotesi
di condotta mobbizzante deve essere esclusa
allorquando la valutazione complessiva
dell'insieme di circostanze addotte ed
accertate nella loro materialità, pur se
idonea a palesare singulatim elementi ed
episodi di conflitto sul luogo di lavoro,
non consenta di individuare, secondo un
giudizio di verosimiglianza, il carattere
unitariamente persecutorio e discriminante
nei confronti del singolo del complesso
delle condotte poste in essere sul luogo di
lavoro.
E’ evidente che la fattispecie così
descritta postula il riscontro di un
elemento psicologico della condotta non
semplicemente colposo, ma doloso, sia pur
nella forma del dolo generico.
In caso di denunziato mobbing si può
ritenere sussistente l'illecito solo se si
accerti che l'unica ragione della condotta è
consistita nel procurare un danno al
lavoratore, mentre bisogna escluderlo in
caso contrario, indipendentemente
dall'eventuale prevedibilità e occorrenza in
concreto di simili effetti. Una restrizione
del genere, se permette per un verso di
rinvenire nel mobbing un'ulteriore
manifestazione del divieto di agire
intenzionalmente a danno altrui, che
costituisce canone generale del nostro
ordinamento giuridico e fondamento dell'"exceptio
doli generalis", consente per altro verso di
escludere dall'orbita della fattispecie
tutte quelle vicende in cui fra datore di
lavoro e lavoratore si registrano
semplicemente posizioni divergenti o perfino
conflittuali, affatto connesse alla
fisiologia del rapporto di lavoro.
A fronte della denuncia di un lavoratore di
condotte vessatorie da parte del datore, il
giudice che esclude la ricorrenza delle
caratteristiche proprie del fenomeno mobbing
(reiterazione, sistematicità e
intenzionalità) deve valutare i fatti
accertati anche nell'ambito della
fattispecie di inadempimento agli obblighi
contrattuali di cui all'art. 2087 c.c., da
accertare alla stregua delle regole ivi
stabilite per il relativo inadempimento
contrattuale, le quali prescindono dalla
necessaria presenza del dolo.
Rammenta in proposito il Collegio che la giurisprudenza di legittimità
civile –il cui orientamento il Collegio
condivide pienamente- si è a più riprese
confrontata con un tema che è pienamente
assimilabile a quello per cui è causa,
riposante nel demansionamento e nella
dequalificazione del lavoratore.
In più occasioni si è avuto modo di
affermare, a tal proposito, che, da un
canto, il prestatore di lavoro, che chiede
la condanna del datore di lavoro al
risarcimento del danno subito a causa della
lesione del proprio diritto di eseguire la
prestazione lavorativa in base alla
qualifica professionale rivestita (lesione
idonea a determinare la dequalificazione del
dipendente stesso), deve fornire la prova
dell’esistenza di tale danno e del nesso di
causalità con l’inadempimento, prova che
costituisce presupposto indispensabile per
procedere ad una valutazione equitativa (ex multis, Cassazione civile , sez. lav., 05.12.2008, n. 28849).
Sotto altro profilo, ancora di recente si è
rilevato che il riconoscimento del diritto
del lavoratore al risarcimento del danno
professionale, biologico o esistenziale, che
asseritamente ne deriva, non ricorre
automaticamente in tutti i casi di
inadempimento datoriale e non può
prescindere da una specifica allegazione,
nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla
natura e sulle caratteristiche del
pregiudizio medesimo. Inoltre mentre il
risarcimento del danno biologico è
subordinato all’esistenza di una lesione
dell’integrità psico-fisica medicalmente
accertabile, il danno esistenziale -da
intendere come ogni pregiudizio (di natura
non meramente emotiva ed interiore, ma
oggettivamente accertabile) provocato sul
fare areddittuale del soggetto, che alteri
le sue abitudini e gli assetti relazionali
propri, inducendolo a scelte di vita diverse
quanto all’espressione e realizzazione della
sua personalità nel mondo esterno- deve
essere dimostrato in giudizio con tutti i
mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo
peraltro precipuo rilievo la prova per
presunzioni.
Ne discende che il prestatore
di lavoro che chieda la condanna del datore
di lavoro al risarcimento del danno (anche
nella sua eventuale componente di danno alla
vita di relazione o di cosiddetto danno
biologico) subito a causa della lesione del
proprio diritto di eseguire la prestazione
lavorativa in base alla qualifica
professionale rivestita, deve fornire la
prova dell’esistenza di tale danno e del
nesso di causalità con l’inadempimento,
prova che costituisce presupposto
indispensabile per procedere ad una
valutazione equitativa. Tale danno non si
pone, infatti, quale conseguenza automatica
di ogni comportamento illegittimo rientrante
nella suindicata categoria, cosicché non è
sufficiente dimostrare la mera potenzialità
lesiva della condotta datoriale, incombendo
al lavoratore che denunzi il danno subito di
fornire la prova in base alla regola
generale di cui all’art. 2697 c.c.
(Cassazione civile, sez. lav., 17.09.2010, n. 19785).
---------------
Rammenta
in proposito il Collegio che secondo
qualificata dottrina e giurisprudenza, sia
civile che amministrativa, l'elemento
oggettivo della fattispecie del mobbing è
integrato dai ripetuti soprusi che, se posti
in essere dai superiori dà luogo al c.d.
mobbing verticale, mentre se posti in essere
dai colleghi origina il c.d. mobbing
orizzontale, i quali possono anche essere
formalmente legittimi ed assumono
connotazione illecita allorquando aventi
l'unico scopo di danneggiare il lavoratore
nel suo ruolo e nella sua funzione
lavorativa, così da determinare il suo
isolamento (fisico, morale e psicologico),
all'interno del contesto lavorativo. L'elemento psicologico è integrato dal dolo
generico o dal dolo specifico di danneggiare
psicologicamente la personalità del
lavoratore.
Pertanto, ai fini della
configurabilità della condotta lesiva,
qualificata danno da emarginazione
lavorativa o mobbing, sono rilevanti,
innanzitutto, la strategia unitaria
persecutoria, che non si sostanzia in
singoli atti da ricondurre nell'ordinaria
dinamica del rapporto di lavoro (come i
normali conflitti interpersonali
nell'ambiente lavorativo, causati da
antipatia, sfiducia, scarsa stima
professionale, ma che non sono
caratterizzati dalla volontà di emarginare
il lavoratore), che ha come disegno unitario
la finalità di emarginare il dipendente o di
porlo in una posizione di debolezza, con la
conseguenza che la ricorrenza di un'ipotesi
di condotta mobbizzante deve essere esclusa
allorquando la valutazione complessiva
dell'insieme di circostanze addotte ed
accertate nella loro materialità, pur se
idonea a palesare singulatim elementi ed
episodi di conflitto sul luogo di lavoro,
non consenta di individuare, secondo un
giudizio di verosimiglianza, il carattere
unitariamente persecutorio e discriminante
nei confronti del singolo del complesso
delle condotte poste in essere sul luogo di
lavoro.
E’ evidente che la fattispecie così
descritta postula il riscontro di un
elemento psicologico della condotta non
semplicemente colposo, ma doloso, sia pur
nella forma del dolo generico.
In caso di denunziato mobbing si può
ritenere sussistente l'illecito solo se si
accerti che l'unica ragione della condotta è
consistita nel procurare un danno al
lavoratore, mentre bisogna escluderlo in
caso contrario, indipendentemente
dall'eventuale prevedibilità e occorrenza in
concreto di simili effetti. Una restrizione
del genere, se permette per un verso di
rinvenire nel mobbing un'ulteriore
manifestazione del divieto di agire
intenzionalmente a danno altrui, che
costituisce canone generale del nostro
ordinamento giuridico e fondamento dell'"exceptio
doli generalis", consente per altro verso di
escludere dall'orbita della fattispecie
tutte quelle vicende in cui fra datore di
lavoro e lavoratore si registrano
semplicemente posizioni divergenti o perfino
conflittuali, affatto connesse alla
fisiologia del rapporto di lavoro.
La giurisprudenza di legittimità civile,
poi, rileva che “a fronte della denuncia di
un lavoratore di condotte vessatorie da
parte del datore, il giudice che esclude la
ricorrenza delle caratteristiche proprie del
fenomeno mobbing (reiterazione,
sistematicità e intenzionalità) deve
valutare i fatti accertati anche nell'ambito
della fattispecie di inadempimento agli
obblighi contrattuali di cui all'art. 2087
c.c., da accertare alla stregua delle regole
ivi stabilite per il relativo inadempimento
contrattuale, le quali prescindono dalla
necessaria presenza del dolo.” (Cassazione
civile, sez. lav., 20.05.2008, n. 12735)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.01.2012 n. 14 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2011 |
|
PUBBLICO IMPIEGO: Bacchettati i
fannulloni.
Mobbing, nessun danno per chi non è
produttivo. Sentenza della Cassazione sui
dipendenti della pubblica amministrazione.
La Cassazione ammonisce i «fannulloni»
all'interno della pubblica amministrazione.
Non ha infatti diritto al risarcimento per
il danno da mobbing il dipendente pubblico
che viene sanzionato e sostituito perché
l'ufficio è poco produttivo.
Lo ha stabilito
la Corte di Cassazione civile che, con la
sentenza
27.12.2011 n. 28962, ha respinto
il ricorso di un funzionario pubblico
sanzionato e poi sostituito per la scarsa
produttività del suo ufficio che, dopo
alcuni mesi, si era dimesso.
In questi casi, ha spiegato la sezione
lavoro, il capo non pone in essere una
condotta persecutoria finalizzata alle
dimissioni del lavoratore ma aumenta
l'efficienza degli uffici.
In particolare gli Ermellini hanno ricordato
che per mobbing si intende una condotta del
datore di lavoro o del superiore gerarchico,
sistematica e protratta nel tempo, tenuta
nei confronti del lavoratore nell'ambiente
di lavoro, che si risolve in sistematici e
reiterati comportamenti ostili che finiscono
per assumere forme di prevaricazione o di
persecuzione psicologica, da cui può
conseguire la mortificazione morale e
l'emarginazione del dipendente, con effetto
lesivo del suo equilibrio fisio-psichico e
del complesso della sua personalità.
In altri termini, «ai fini della
configurabilità della condotta lesiva del
datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti:
a) la molteplicità di comportamenti di
carattere persecutorio, illeciti o anche
leciti se considerati singolarmente, che
siano stati posti in essere in modo
miratamente sistematico e prolungato contro
il dipendente con intento vessatorio; b)
l'evento lesivo della salute o della
personalità del dipendente; c) il nesso
eziologico tra la condotta del datore o del
superiore gerarchico e il pregiudizio
all'integrità psicofisica del lavoratore; d)
la prova dell'elemento soggettivo, cioè
dell'intento persecutorio».
Dunque, la
domanda di risarcimento del danno proposta
dal lavoratore per il mobbing subito è
soggetta a specifica allegazione e prova in
ordine agli specifici fatti asseriti come
lesivi e l'illecito del datore di lavoro nei
confronti del lavoratore consistente
nell'osservanza di una condotta protratta
nel tempo e con le caratteristiche della
persecuzione finalizzata all'emarginazione
del dipendente (cosiddetto mobbing, che
rappresenta una violazione dell'obbligo di
sicurezza posto a carico dello stesso datore
dall'art. 2087 cc) si può realizzare con
comportamenti materiali o provvedimentali
dello stesso datore di lavoro
indipendentemente dall'inadempimento di
specifici obblighi contrattuali previsti
dalla disciplina del rapporto di lavoro
subordinato.
La sussistenza della lesione
del bene protetto e delle sue conseguenze
deve essere verificata, procedendosi alla
valutazione complessiva degli episodi
dedotti in giudizio come lesivi,
considerando l'idoneità offensiva della
condotta del datore di lavoro.
Anche la procura generale del Palazzaccio
aveva sollecitato di negare il risarcimento
al funzionario dell'Agenzia delle entrate
(articolo ItaliaOggi
del 29.12.2011 - tratto da www.corteconti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing/
Sono un'operaia e lavoro in un grande
stabilimento, dove, per motivi di salute,
sono stata esonerata dallo svolgere
determinate mansioni. Il mio caporeparto mi
ha sottoposta, per un determinato periodo, a
trattamenti umilianti, degradanti e
vessatori; mi sono stati imposti ritmi di
lavoro insostenibili, rivolgendomi frasi
offensive e minacciando di trasferirmi in un
altro stabilimento, nel caso non avessi
seguito gli ordini.
Questi possono essere definiti trattamenti
vessatori? È mobbing? Io vorrei querelarlo,
ma non voglio fare passi falsi.
No, in questo caso è esclusa la
configurabilità di un reato.
La condotta del caporeparto non è penalmente
sanzionabile, a causa della mancanza di
apposita figura incriminatrice per
contrastare il mobbing sul posto di lavoro.
Nel nostro codice penale, infatti, non vi è
una specifica norma incriminatrice per
contrastare i comportamenti persecutori del
mobbing, realizzati ai danni del lavoratore
dipendente, in ambiente lavorativo, che si
sostanzia in una condotta che si protrae nel
tempo con le caratteristiche della
persecuzione finalizzata all'emarginazione
del lavoratore.
Ovviamente rimane la possibilità di
richiedere, per mezzo di un procedimento
civile, un risarcimento danni, per mobbing,
eventualmente patiti dal lavoratore, in
conseguenza di condotte e atteggiamenti
persecutori del datore di lavoro o del
preposto
(articolo ItaliaOggi Sette del 22.08.2011). |
PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing
nelle mani dei giudici. In assenza di norme
consolidate, conta la giurisprudenza.
Panoramica sulle sentenze della Cassazione:
oltre ai codici conta il dettato
costituzionale.
In mancanza di un riferimento normativo
consolidato, per individuare la nozione di
mobbing e le norme applicabili bisogna far
riferimento alla giurisprudenza.
Le sentenze
in materia si basano, oltre che sul codice
penale, sull'art. 32, comma 1, della
Costituzione (secondo cui la Repubblica
tutela la salute come fondamentale diritto
dell'individuo e interesse della
collettività) e su articoli del codice
civile.
Ricordiamo l'art. 2043 (che regolamenta la
responsabilità extracontrattuale) e l'art.
1375, a norma del quale il contratto deve
essere eseguito secondo buona fede, per
l'appunto richiamato al fine di reprimere
comportamenti non specificatamente vietati.
I canoni di buona fede e correttezza
concorrono con le norme specifiche in tema
di demansionamento, alla valutazione della
legittimità della condotta del datore di
lavoro. Soprattutto occorre far riferimento
all'articolo 2087 c.c., a norma del quale
l'imprenditore deve adottare le misure che,
secondo la particolarità del lavoro,
l'esperienza e la tecnica, sono necessarie
per tutelare, oltre all'integrità fisica, la
personalità morale dei prestatori di lavoro.
Il mobbing si articola in quattro componenti
(al riguardo spicca la sentenza della Corte
di cassazione n. 4774 del 06.03.2006):
1. un elemento oggettivo (una condotta
vessatoria del datore di lavoro);
2. un elemento temporale (l'apprezzabilità,
sotto il profilo cronologico, della sequenza
dei comportamenti datoriali);
3. un elemento modale (il carattere
persecutorio dei predetti comportamenti);
4. Un elemento finale (preordinazione alla
estromissione e/o emarginazione del
lavoratore.
Il datore di lavoro e l'amministrazione
rispondono, in concorso con il dipendente
mobber, del comportamento persecutorio (ai
sensi degli articoli 2043 e 2049 del codice
civile).
Il datore di lavoro non si affranca dalla
responsabilità in materia limitandosi a
dedurre iniziative repressive del mobbing,
ma deve dimostrare di aver attuato rimedi
preventivi rispetto al sorgere dell'attività
persecutoria. Nel nostro ordinamento non
esistono norme specifiche sulla persecuzione
lavorativa, mentre le proposte di legge
dirette all'introduzione del reato di
mobbing, si sono susseguite senza esito.
Manca, del resto, anche una disciplina
specifica civilistica.
Risale al 20.09.2001 la risoluzione A5-0283/2001
con cui il Parlamento europeo ha
raccomandato agli stati membri dell'Unione,
tra l'altro, di imporre alle imprese, a
poteri pubblici e parti sociali l'attuazione
di politiche di prevenzione efficaci,
rilevando che il mobbing produce conseguenze
nefaste per i datori di lavoro a causa
dell'assenteismo e della riduzione della
produttività delle vittime, oltre che delle
indennità da erogare ai lavoratori
ingiustamente licenziati. La mancanza di una
norma specifica non preclude la valenza
penale di questa condotta.
Infatti, si
tratta di una responsabilità spesso anche di
carattere penale. La giurisprudenza presenta
un'ampia casistica di condanne per abuso di
ufficio, ingiuria, minaccia e lesioni
personali colpose. Non si può trascurare,
tra le fattispecie penali rinvenibili in
materia di mobbing, quella del reato di
maltrattamenti, contemplato dall'art. 572
del codice penale che punisce con la
reclusione da 1 a 5 anni chiunque maltratta
una persona sottoposta alla sua autorità o
affidatagli per ragioni di educazione,
istruzione, cura, vigilanza o custodia, o
per l'esercizio della professione o di
un'arte.
Alla vittima del mobbing si schiude
una sorta di doppio binario giudiziario.
L'azione risarcitoria per il danno derivante
da reato può essere esercitata in sede
civile o in sede penale, mediante la
costituzione di parte civile ai sensi degli
artt. 74 e ss. c.p.c. Il lavoratore può
agire in sede penale nei confronti dei
colleghi e dei superiori mobber.
Inoltre, il
lavoratore che si ritenga danneggiato da un
reato del datore di lavoro, da un lato può
invocare nel giudizio civile l'autorità
dell'eventuale giudicato penale di condanna
ex art. 651 c.p.p. (anche quando non abbia
partecipato al processo penale) e dall'altro
lato, evitando di costituirsi parte civile,
può tentare, anche in presenza di un
giudicato penale di assoluzione, di far
accertare la colpevolezza del datore di
lavoro. Per effetto dell'art. 28 della
Costituzione i dipendenti pubblici sono
direttamente responsabili degli atti
compiuti in violazione di diritti, e la loro
responsabilità si estende allo stato, agli
enti pubblici e, conseguentemente, ai loro
dirigenti, che rispondono penalmente del
mobbing per il solo fatto di essere
consapevoli della condotta persecutoria.
Infatti non è richiesto in materia il
requisito della volontà dell'effetto della
condotta lesiva.
Non necessariamente (per effetto di quanto
affermato la Cassazione con sentenza n. 2352
del 02.02.2010, in una causa per demansionamento) la vittima della
dequalificazione o del mobbing deve
convenire in giudizio il datore di lavoro,
che diventa l'obiettivo indispensabile
dell'azione solo nel caso in cui il
lavoratore avanzi una specifica richiesta di
risarcimento dei danni da dequalificazione
per violazione della responsabilità
contrattuale, sulla base dell'art. 2103 del
codice civile. Mentre si può convenire in
giudizio direttamente un collega quando le
richieste del lavoratore poggiano su altre
disposizioni del codice civile.
Ci riferiamo
all'art. 2043 come clausola generale che
impone il risarcimento del danno ingiusto
all'autore del fatto doloso o colposo da cui
deriva. Bisogna poi ricordare l'art. 2059,
che impone il risarcimento dei danni non
patrimoniali nei casi determinati dalla
legge. Ulteriore disposizione del codice
civile che ricorre nelle altre sentenze in
materia è l'art. 1375, a norma del quale il
contratto deve essere eseguito secondo buona
fede, per l'appunto richiamato al fine di
reprimere comportamenti non specificatamente
vietati.
La responsabilità in materia contempla il
danno non patrimoniale. Numerose
disposizioni assicurano una tutela
rafforzata alla persona del lavoratore con
il riconoscimento di diritti oggetto di
tutela costituzionale. Quando il datore di
lavoro leda questi diritti (che, non essendo
stati predeterminati dal legislatore, per
essere suscettibili di tutela risarcitoria
devono essere di volta in volta individuati
dal giudice del merito), può essere
riconosciuto il risarcimento del danno non
patrimoniale.
Così, con riferimento al
giudizio instaurato per dequalificazione e
mobbing da un dipendente pubblico, le
Sezioni unite della Cassazione (con
pronuncia n. 4063 del 22.02.2010)
hanno ritenuto appropriato il risarcimento
del danno non patrimoniale, esattamente
identificato dal giudice del merito negli
«aspetti di vissuta e credibile
mortificazione derivanti_ dalla situazione
lavorativa in cui si trovò ad operare» il
ricorrente, secondo una basata
sull'accertamento del nesso causale tra la
condotta illecita del datore di lavoro e lo
stato di moritificazione del dipendente
(articolo ItaliaOggi del 18.08.2011). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
L'ordine di servizio illegittimo non dà luogo a mobbing.
Il quesito: Esiste una soglia di non punibilità per gli atti
emulativi che la P.A. compie ai danni di un dipendente?
Il caso.
Con distinti ricorsi, un funzionario dell'Isvap impugnava
una serie di atti di gestione del rapporto di lavoro,
asserendone l'illegittimità e la finalità mobbizzante.
Il Tar Lazio accoglieva un ricorso concernente
l'illegittimità di un atto, mentre ne respingeva un altro
per mobbing.
Avverso la reiezione del ricorso per mobbing il ricorrente
proponeva appello al Consiglio di Stato.
Inquadramento della problematica.
La prova dell'esistenza di un disegno persecutorio –nelle
fattispecie di mobbing– è ulteriore rispetto alla
dimostrazione di una pluralità di condotte lesive poste in
essere nei confronti del dipendente.
La decisione.
La sentenza in esame si occupa di una fattispecie di
asserito mobbing nell'ambito delle categorie di rapporti di
pubblico impiego la cui cognizione è riservata alla
giurisdizione del G.A.
La persecuzione datoriale costituisce materia sensibile, che
ha molto affaticato la giurisprudenza (non sempre conscia
delle acquisizioni della psicologia del lavoro), la quale,
dopo alcune iniziali aperture (nei giudizi di merito) ha da
alcuni anni assunto posizioni che paiono molto prudenti.
In tale ultimo orientamento pare inscriversi anche la
decisione in commento, ponendo alcuni punti fermi ai fini
della configurazione della fattispecie del mobbing
all'interno dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle
PP.AA..
I giudici di Palazzo Spada ritengono che, pur in presenza di
determinazioni sfavorevoli per il dipendente adottate da
parte datoriale (nella fattispecie, trasferimento ad altro
servizio, mancati incrementi stipendiali e mancata
attribuzione di premi legati al rendimento), non è possibile
configurare attività persecutoria qualora sia ravvisabile
una ragionevole spiegazione alternativa al comportamento
tenuto dalla P.A..
L'approccio adottato parrebbe segnalare l'esistenza di una
sorta di atteggiamento benevolo di fondo per la condotta
gestionale delle PP.AA., il che, tenuto conto dell'oggettivo
incremento del contenzioso per condotte mobbizzanti
registratosi nell'ultimo decennio non può ritenersi
rassicurante dal punto di vista dei lavoratori pubblici.
Purtuttavia, il G.A. ritiene che la mera concatenazione
degli atti (illeciti o anche apparentemente e/o
astrattamente leciti) idonei a spiegare efficacia lesiva dei
diritti morali e/o professionali del lavoratore non sia, di
per sé sola, idonea a costituire prova del loro connotato
emulativo e vessatorio.
Pertanto, lungi dall'accogliere quelle istanze anche
dottrinali secondo cui il disegno persecutorio andrebbe
colto “sottotraccia”, il G.A. puntualizza che, al
contrario, perché di mobbing possa parlarsi occorre un “sovrastante
disegno persecutorio, tale da piegare alle sue finalità i
singoli atti cui viene riferito”.
Dunque, il piano persecutorio viene dal G.A. posto a monte,
per tal via onerandosi il ricorrente di fornire una prova
diabolica: se il mobbing non si evince dalle evidenze
fattuali, come è possibile risalire alle intenzioni
datoriali, riconducendole, successivamente, ad un piano
squisitamente oggettivo quale quello dibattimentale?
Appare indubbio che gli orientamenti giurisprudenziali non
possano –ai fini dell'affermazione della sussistenza della
fattispecie- tralatiziamente rinviare per intero agli
elementi di prova allegati (offensività della condotta,
direzione univoca degli atti persecutori e pretestuosi),
altrimenti si darebbe ingresso ad una quota di contenzioso
certamente volta a lucrare indebiti benefici risarcitori.
E', tuttavia, parimenti indubitabile che la crescita della
conflittualità in seno agli ambienti di lavoro pubblico
spinge ad interrogarsi sull'opportunità di ricercare nuovi
punti di equilibrio in ordine alla individuazione dei
profili dell'intenzionalità delle condotte datoriali, onde
non porre i lavoratori ricorrenti nella condizione di dover
fornire prova di elementi soggettivi sottesi alle condotte
gestionali delle PP.AA., difficilmente oggettivabili ove non
presuntivamente ricavati dal quadro complessivo delle
determinazioni datoriali assunte nei confronti del
dipendente (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 15.06.2011 n. 3648 - link a
www.altalex.com). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Per mobbing si intende comunemente una
condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico,
complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei
confronti di un lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si
manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili,
reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto
all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un
disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla
vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto
lesivo della sua salute psicofisica.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del
datore di lavoro sono rilevanti la molteplicità e globalità
di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche
di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente
sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un
disegno vessatorio; l’evento lesivo della salute psicofisica
del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del
datore o del superiore gerarchico e la lesione
dell’integrità psicofisica del lavoratore; la prova
dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.
In sé, un atto illegittimo o più atti illegittimi di
gestione del rapporto in danno del lavoratore non sono
sintomatici della presenza di un comportamento mobbizzante,
occorrendo che ricorrano tutti gli altri elementi sopra
richiamati
Per mobbing si intende comunemente –in assenza di una
definizione normativa- una condotta del datore di lavoro o
del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta
nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore
nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti
intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici,
esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del
rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato
alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che
ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del
datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti la molteplicità e
globalità di comportamenti a carattere persecutorio,
illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo
miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente
secondo un disegno vessatorio; l’evento lesivo della salute
psicofisica del dipendente; il nesso eziologico tra la
condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione
dell’integrità psicofisica del lavoratore; la prova
dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.
Nel verificare l’integrazione della fattispecie che si
esamina è quindi necessario, anche in ragione della sua
indeterminatezza, attendere ad una valutazione complessiva
ed unitaria degli episodi lamentati dal lavoratore, da
apprezzare per accertare tra l’altro:
- da un lato, l'idoneità offensiva della condotta datoriale
(desumibile dalle sue caratteristiche di persecuzione e
discriminazione),
- e, dall'altro, la connotazione univocamente emulativa e
pretestuosa della condotta.
Ne consegue che la ricorrenza di un'ipotesi di condotta
mobbizzante andrà esclusa quante volte la valutazione
complessiva dell'insieme di circostanze addotte (ed
accertate nella loro materialità), pur se idonea a palesare,
singulatim, elementi od episodi di conflitto sul
luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un
giudizio di verosimiglianza, il carattere esorbitante ed
unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del
singolo del complesso delle condotte poste in essere sul
luogo di lavoro.
E’ in primo luogo necessaria, quindi, la prova
dell'esistenza di un sovrastante disegno persecutorio, tale
da piegare alla sue finalità i singoli atti cui viene
riferito.
D’altra parte, determinati comportamenti non possono essere
qualificati come costitutivi di mobbing, ai fini della
pronuncia risarcitoria richiesta, se è dimostrato che vi è
una ragionevole ed alternativa spiegazione al comportamento
datoriale.
In sé, un atto illegittimo o
più atti illegittimi di gestione del rapporto in danno del
lavoratore non sono sintomatici della presenza di un
comportamento mobbizzante, occorrendo che ricorrano tutti
gli altri elementi sopra richiamati
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 15.06.2011 n. 3648 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
La condotta biasimevole ma isolata del
datore non configura il mobbing.
Il mobbing si realizza quando è
riconoscibile una azione aggressiva cosciente e volontaria,
protratta nel tempo, finalizzata a mettere uno o più
lavoratori in una condizione di forte disagio col fine
dell’espulsione dal contesto lavorativo o della
sottomissione al potere direttivo. Occorre pertanto che la
condotta del datore di lavoro si concretizzi in sistematici
e reiterati comportamenti ostili da cui può derivare
l’effetto lesivo dell’equilibrio psico-fisico del
lavoratore.
Con la
sentenza 31.05.2011 n. 12048 Corte di Cassazione,
Sez. lavoro, ha escluso che possano essere ricondotti ad una
azione di mobbing alcuni episodi, comunque marginali ed
isolati, riconducibili ad un comportamento scorretto del
datore di lavoro ma non connotati da un carattere
persecutorio nei confronti del dipendente.
Questi i fatti.
La lavoratrice denuncia un comportamento del datore di
lavoro lesivo della sua dignità e decoro personale (lancio
dello stipendio sul tavolo, consegna della retribuzione
sotto forma di monetine) sostenendo che questi fatti
rientrano nella fattispecie di mobbing pur in difetto di un
disegno persecutorio finalizzato a espellere il dipendente e
chiede, quindi la condanna del datore di lavoro al
risarcimento del danno biologico, del danno alla vita di
relazione e del danno morale.
La richiesta è stata respinta sia dal Tribunale -che ha
ritenuto non fosse emersa la prova del comportamento
persecutorio- sia dalla Corte di Appello che ha confermato
la sentenza di primo grado. Avverso tali decisioni la
lavoratrice ha presentato ricorso in Cassazione lamentando
una omessa valutazione degli episodi posti a fondamento
della domanda e la falsa applicazione dell’articolo 2087 del
codice civile.
In particolare, la ricorrente ha posto il quesito di diritto
teso a conoscere se possa riconoscersi la violazione della
personalità morale del lavoratore in conseguenza di uno o
più atti lesivi della dignità e del decoro professionale del
lavoratore stesso, anche in mancanza di un disegno
persecutorio finalizzato ad espellere il dipendente.
La decisione della Suprema corte.
La Corte di cassazione, con la sentenza n. 12048/2011 in
esame, ritiene il ricorso infondato. Ribadisce la Corte che
per mobbing si intende “una condotta del datore di lavoro
o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel
tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di
lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati
comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di
prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può
conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del
dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio
fisio-psichico e del complesso della sua personalità”.
Già con la sentenza n. 3785/2009 la Cassazione ha sancito
che ai fini della configurabilità della condotta lesiva del
datore di lavoro sono da ritenere rilevanti i seguenti
elementi:
a) la molteplicità dei comportamenti a carattere
persecutorio, illeciti o anche liciti se considerati
singolarmente, che siano stati posti in essere in modo
miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente
con intento vessatorio;
b) l'evento lesivo della salute o della personalità del
dipendente;
c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro
o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità
psico-fisica del lavoratore;
d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento
persecutorio.
Non c'è una responsabilità oggettiva del
datore.
Con la stessa sentenza, la Suprema Corte ha altresì
affermato che l’articolo 2087 del codice civile non
configura una ipotesi di responsabilità oggettiva a carico
del datore di lavoro, con la conseguenza di ritenerlo
responsabile ogni volta che il lavoratore abbia subito un
danno nell'esecuzione della prestazione lavorativa,
occorrendo invece che l'evento sia pur sempre riferibile a
sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento,
concretamente individuati, imposti da norme di legge e di
regolamento o contrattuali ovvero suggeriti dalla tecnica e
dall'esperienza, il cui accertamento costituisce un giudizio
di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in
sede di legittimità se logicamente e congruamente motivato.
Con riferimento ai fatti in causa, pertanto, ritiene la
Corte di cassazione che la Corte territoriale abbia
correttamente considerato l’insieme dei comportamenti
datoriali, dedotti dalla ricorrente come lesivi,
escludendone ogni intento persecutorio. La valutazione di
fatto di tali comportamenti è devoluta al giudice di merito,
in quanto tale non censurabile quando sia adeguatamente
motivata e non appaia, nelle sue risultante contradditoria.
Il giudice di legittimità non può riesaminare il merito
dell’intera vicenda processuale, bensì egli deve controllare
la correttezza giuridica e la coerenza logico-formale delle
argomentazioni svolte dal giudice di merito. Nel caso
specifico, detto giudice, valutate tutte le circostanza
rappresentate in giudizio ha ritenuto potersi escludere che
fosse stata raggiunta la prova di un atteggiamento
emarginante, discriminatorio o persecutorio nei confronti
della lavoratrice, tale da raffigurare la fattispecie del
mobbing (commento tratto e link a
www.diritto24.ilsole24ore.com). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Il
datore di lavoro risarcito per mobbing. L'azienda agisce
contro il dirigente-mobber per avere indietro quanto pagato
al lavoratore. Caso all'esame della corte dei conti della
Sicilia.
Le cause per mobbing possono avere un
secondo tempo. Nel primo è la vittima delle persecuzioni a
rivolgersi al giudice, per ottenere giustizia e risarcimento
dal datore di lavoro e/o dal persecutore. Nel secondo tempo
è l'azienda o, per i dipendenti pubblici, lo stato mediante
la procura, ad agire nei confronti del mobber, per
conseguire l'accertamento della violazione di norme e il
risarcimento di quanto abbia eventualmente dovuto
corrispondere (su ordine del giudice) alla vittima della
persecuzione. Un secondo tempo di particolare interesse è
quello che, da ultimo, si è consumato di fronte alla Corte
dei Conti della Sicilia.
La
sentenza 23.05.2011 n. 2028, Corte dei Conti -
Sez. giurisdiz. Sicilia, ha condannato un dirigente di
un'amministrazione comunale a rifonderla parzialmente, per
il danno (indiretto) arrecato al datore di lavoro che aveva
dovuto corrispondere un risarcimento a un dipendente
mobbizzato dal dirigente. In effetti la dequalificazione
lavorativa spesso si trasforma in mobbing o comunque
può esser parte di un'attività persecutoria.
Dalla pronuncia della Corte dei Conti emerge che quando il
mobbing culmina in una dequalificazione lavorativa
prolungata, il datore di lavoro non viene coinvolto dalla
responsabilità dei singoli persecutori solo se dimostra che
tra le mansioni assegnate alla vittima e la condotta
persecutoria non sussiste un rapporto neanche di mera
occasionalità. La sentenza ha rilevato (richiamando Cass. n.
18262 del 29.08.2007) che la giurisprudenza civilistica «riconosce
spesso la responsabilità per condotta mobbizzante del datore
di lavoro, non solo quale soggetto agente direttamente, ma
anche per non essersi lo stesso personalmente attivato per
far cessare i comportamenti scorretti dei dipendenti».
D'altro lato, in sede contabile, in materia la condotta
datoriale rileva solo se integra un caso di colpa grave, che
in questa sede sussiste solo in presenza di un rilevante
allontanamento dal comportamento esigibile, in
considerazione delle circostanze del caso e delle specifiche
disposizioni sul tema. Il datore di lavoro, pertanto, in
caso di giudizio contabile, per essere esente da
responsabilità deve dimostrare di aver adottato tutte le
soluzioni organizzative più idonee a evitare la
realizzazione dell'evento dannoso.
Il sindaco coinvolto nella vicenda è stato assolto, non solo
perché la struttura organizzativa del comune è stata
considerata appropriata. Secondo la Corte dei Conti anche le
sue decisioni che avevano coinvolto il lavoratore
perseguitato (in particolare quella di preferire per una
promozione, al mobbizzato un collega) non erano dolosamente
preordinate a perseguirlo e discriminarlo, e tantomeno
potevano considerarsi «macroscopicamente lontane da una
ordinaria condotta finalizzata alla sana gestione della cosa
pubblica, al punto da incarnare una condotta gravemente
corposa idonea a giustificare l'accoglimento delle pretese
di parte attrice».
Peraltro la condotta mobbizzante lamentata dal dipendente
non si esauriva nella mancata promozione. L'istruttoria del
pubblico ministero aveva riscontrato la mancata attribuzione
delle funzioni riconosciute al perseguitato nel giudizio
originario (intentato per la reintegrazione), la sua
collocazione in locali distaccati rispetto ai colleghi,
episodi mortificanti la mancata inclusione nei turni di
servizio e la preclusione di mansioni che determinavano la
fruizione di indennità.
Il dipendente comunale, dopo aver convenuto in giudizio il
comune lamentando la propria dequalificazione, aveva
ottenuto dal giudice civile il riconoscimento del diritto
alla reintegrazione nelle funzioni di vice comandante
reggente dei vigili urbani. In un successivo giudizio il
lavoratore otteneva la condanna dell'amministrazione
comunale, per mobbing, al risarcimento di euro 133.223,53.
Proprio questo pagamento ha determinato prima la
contestazione e poi l'azione contabile, della procura
regionale nei confronti del sindaco, di una dirigente e di
un comandante della polizia municipale, per il danno
(indiretto) che avrebbe arrecato al comune la loro condotta
mobbizzante. Solo il convenuto che, all'epoca dei fatti,
rivestendo il ruolo di comandante della polizia municipale,
aveva determinato le modalità attuative ed organizzative
delle funzioni assegnate al mobbizzato, è stato condannato.
La sentenza dello scorso 23 maggio ha deciso che dovrà
corrispondere 50 mila euro (oltre rivalutazione monetaria e
interessi legali) al comune. La Corte dei Conti gli ha
infatti imputato l'elusione dei provvedimenti dell'autorità
giudiziaria favorevoli al mobbizzato, mediante reiterate
condotte inequivocabilmente dirette a emarginare il
dipendente, isolandolo fisicamente dal resto dell'ufficio e
svuotando le funzioni formalmente assegnategli. Nutrita
risulta la serie di episodi sintomatici della fattiva
ostilità del comandante nei confronti del vice.
Spiccano le valutazioni con punteggi vicini allo zero, in
sede di valutazioni basate su parametri assolutamente
personali. Risaltano le informali riunioni convocate fuori
dell'ufficio per informare i colleghi che il mobbizzato (sul
punto di riprendere l'attività) non avrebbe ripreso servizio
presso il comando, ma in locali decentrati. Il mobber
aveva chiesto agli altri dipendenti di ignorare il vice
(perseguitato) e per ogni disposizione di far riferimento
diretto solo alla sua persona. Aveva determinato
l'isolamento della vittima dai colleghi, anche costringendo
il mobbizzato a effettuare una trasferta su un mezzo
utilizzato in solitudine, mentre i colleghi si muovevano con
un altro comune mezzo di trasporto. E se dei singoli episodi
persecutori il comandante aveva fornito una giustificazione,
la sentenza rileva che le componenti del mobbing non possono
essere considerate singolarmente ma in considerazione della
complessiva condotta intrapresa nei confronti della vittima.
La Corte dei Conti ha invece assolto (oltre al sindaco) una
dirigente che aveva intrattenuto per breve tempo un rapporto
lavorativo con il perseguitato, per mancanza del requisito
temporale necessario al perfezionamento del mobbing. La
sentenza ha ritenuto infatti che la condotta persecutoria
per integrare il mobbing debba avere quantomeno durata
semestrale, coerentemente con Cass. n. 22858 dell'11.09.2008
che ha ritenuto sufficiente l'entità semestrale rigettando i
rilievi datoriali sulla pretesa brevità di questo periodo.
Di particolare interesse, in materia, risulta la sentenza
della Suprema Corte n. 12445 del 25.05.2006. In questo caso,
in relazione a un caso in cui il mobber era il
presidente di un'associazione, detta pronuncia ha ritenuto
che incombesse sull'associazione, contrattualmente tenuta a
tutelare il dipendente, in base all'art. 2087 cod. civ.,
l'onere di provare di avere adottato tutte le misure
necessarie a prevenire l'evento dannoso, mentre nella
fattispecie in esame l'associazione si era limitata a
sostenere di avere deferito il presidente al collegio dei
probiviri attuando (secondo la sentenza) un'iniziativa
diretta alla repressione e non alla prevenzione dei fatti
mobbizzanti, pertanto non idonea a costituire adempimento
degli obblighi previsti dall'art. 2087 cod. civ. (articolo
ItaliaOggi del 04.08.2011). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Per
"mobbing" si intende comunemente una condotta del datore di
lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta
nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente
di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati
comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di
prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può
conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del
dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio
fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del
datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la
molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio,
illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che
siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico
e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b)
l’evento lesivo della salute o della personalità del
dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del
datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio
all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova
dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.
Costituisce mobbing l’insieme delle condotte datoriali
protratte nel tempo e con le caratteristiche della
persecuzione finalizzata all’emarginazione del dipendente
con comportamenti datoriali, materiali o provvedimentali,
indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi
contrattuali o dalla violazione di specifiche norme
attinenti alla tutela del lavoratore subordinato; sicché, la
sussistenza della lesione, del bene protetto e delle sue
conseguenze deve essere verificata, procedendosi alla
valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio
come lesivi, considerando l’idoneità offensiva della
condotta, che può essere dimostrata, per la sistematicità e
durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche
oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti
specificatamente da una connotazione emulativa e
pretestuosa. Tuttavia, determinati comportamenti non possono
essere qualificati come mobbing se è dimostrato che vi è una
ragionevole e alternativa spiegazione.
Come evidenziato da Cass. civ., Sez. lav., 17.02.2009, n.
3785 “Per "mobbing" si intende comunemente una condotta
del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica
e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore
nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e
reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere
forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da
cui può conseguire la mortificazione morale e
l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo
equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua
personalità. Ai fini della configurabilità della condotta
lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la
molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio,
illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che
siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico
e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b)
l’evento lesivo della salute o della personalità del
dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del
datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio
all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova
dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.”.
Rileva inoltre Cons. Stato, Sez. IV, 21.04.2010, n. 2272 che
“La ricorrenza di una condotta mobbizzante va esclusa
quante volte la valutazione complessiva dell’insieme delle
circostanze addotte e accertate nella loro materialità, pur
se idonea a palesare "singulatim" elementi e episodi di
conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare,
secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere
unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del
singolo del complesso delle condotte poste in essere sul
luogo di lavoro.”.
Ed ancora secondo Cons. Stato, Sez. IV, 07.04.2010, n. 1991
“La condotta di mobbing dell’Amministrazione pubblica
datrice di lavoro, consistente in comportamenti materiali o
provvedimentali contraddistinti da finalità di persecuzione
e di discriminazione, indipendentemente dalla violazione di
specifici obblighi contrattuali nei confronti di un suo
dipendente, deve da quest’ultimo essere provata e, a tal
fine, valenza decisiva è assunta dall’accertamento
dell’elemento soggettivo, e cioè dalla prova del disegno
persecutorio.”.
Infine Cons. Stato, Sez. VI, 06.05.2008, n. 2015 ha
sottolineato che “Costituisce mobbing l’insieme delle
condotte datoriali protratte nel tempo e con le
caratteristiche della persecuzione finalizzata
all’emarginazione del dipendente con comportamenti
datoriali, materiali o provvedimentali, indipendentemente
dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali o
dalla violazione di specifiche norme attinenti alla tutela
del lavoratore subordinato; sicché, la sussistenza della
lesione, del bene protetto e delle sue conseguenze deve
essere verificata, procedendosi alla valutazione complessiva
degli episodi dedotti in giudizio come lesivi, considerando
l’idoneità offensiva della condotta, che può essere
dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel
tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e
discriminazione, risultanti specificatamente da una
connotazione emulativa e pretestuosa. Tuttavia, determinati
comportamenti non possono essere qualificati come mobbing se
è dimostrato che vi è una ragionevole e alternativa
spiegazione.” (TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 31.03.2011 n. 528 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Mobbing - Configurabilità - Presupposti
- Disegno persecutorio - Prova.
Ai fini della configurabilità del mobbing sono rilevanti:
a) la molteplicità di comportamenti di carattere
persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati
singolarmente, che siano stati posti in essere in modo
miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente
con intento vessatorio;
b) l’evento lesivo della salute o della personalità del
dipendente;
c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del
superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità
psico-fisica del lavoratore;
d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento
persecutorio (Cass. civ., Sez. lav., 17.02.2009, n. 3785).
La ricorrenza di una condotta mobbizzante va pertanto
esclusa quante volte la valutazione complessiva dell’insieme
delle circostanze addotte e accertate nella loro
materialità, pur se idonea a palesare "singulatim"
elementi e episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non
consenta di individuare, secondo un giudizio di
verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e
discriminante nei confronti del singolo del complesso delle
condotte poste in essere sul luogo di lavoro (Cons. Stato,
Sez. IV, 21.04.2010, n. 2272).
In particolare, la condotta di mobbing dell’Amministrazione
pubblica datrice di lavoro, consistente in comportamenti
materiali o provvedimentali contraddistinti da finalità di
persecuzione e di discriminazione, indipendentemente dalla
violazione di specifici obblighi contrattuali nei confronti
di un suo dipendente, deve da quest’ultimo essere provata e,
a tal fine, valenza decisiva è assunta dall’accertamento
dell’elemento soggettivo, e cioè dalla prova del disegno
persecutorio; in ogni caso, determinati comportamenti non
possono essere qualificati come mobbing se è dimostrato che
vi è una ragionevole e alternativa spiegazione (Cons. Stato,
Sez. IV, 07.04.2010, n. 1991; Cons. Stato, Sez. VI,
06.05.2008, n. 2015) (TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 31.03.2011 n. 528 - link a
www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Per
"mobbing" (da lavoro) si intende “una
successione di fatti e comportamenti posti
in essere dal datore di lavoro con intento
emulativo ed al solo scopo di recare danno
al lavoratore, rendendone penosa la
prestazione, condotti con frequenza
ripetitiva ed in un determinato arco
temporale sufficientemente apprezzabile e
valutabile”; in altri termini, "l'insieme
delle condotte datoriali protratte nel tempo
e con le caratteristiche della persecuzione
finalizzata all'emarginazione del dipendente
con comportamenti datoriali, materiali o
provvedimentali, indipendentemente
dall'inadempimento di specifici obblighi
contrattuali o dalla violazione di
specifiche norme attinenti alla tutela del
lavoratore subordinato.
Sicché, la sussistenza della lesione, del
bene protetto e delle sue conseguenze deve
essere verificata -procedendosi alla
valutazione complessiva degli episodi
dedotti in giudizio come lesivi-
considerando l'idoneità offensiva della
condotta, che può essere dimostrata, per la
sistematicità e durata dell'azione nel
tempo, dalle sue caratteristiche oggettive
di persecuzione e discriminazione,
risultanti specificamente da una
connotazione emulativa e pretestuosa".
In sostanza, la condotta mobbizzante si
risolve in sistematici e reiterati
comportamenti ostili, che finiscono per
assumere forme di prevaricazione o di
persecuzione psicologica, da cui può
conseguire la mortificazione morale e
l'emarginazione del dipendente, con effetto
lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e
del complesso della sua personalità.
L’accertamento della sussistenza del danno
da mobbing, quindi, comporta una valutazione
complessiva dei danni lamentati
dall’interessato, i quali devono essere
considerati in modo unitario, tenuto conto,
da un lato dell’idoneità offensiva della
condotta datoriale, come desumibile dalle
sue caratteristiche oggettive di
persecuzione e discriminazione e,
dall’altro, dalla connotazione univocamente
emulativa e pretestuosa della richiamata
condotta; pertanto la ricorrenza di una
condotta mobizzante deve essere esclusa:
- quando sia assente la sistematicità degli
episodi, ovvero i comportamenti su cui viene
basata la pretesa risarcitoria siano
riferibili alla normale condotta del datore
di lavoro, funzionale all'assetto
dell'apparato amministrativo, o
imprenditoriale, nel caso del lavoro
privato; o, infine, vi sia una ragionevole
ed alternativa spiegazione al comportamento
datoriale;
- tutte le volte che la valutazione
complessiva dell’insieme delle circostanze
addotte ed accertate nella loro materialità,
pur se idonea a palesare singulatim elementi
ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro,
non consenta di individuare, secondo un
giudizio di verosimiglianza, il carattere
unitariamente persecutorio e discriminatorio
nei confronti del singolo dal complesso
delle condotte poste in essere sul luogo di
lavoro.
Dunque, gli elementi strutturali della
condotta mobbizzante, sono dati:
1) dalla molteplicità dei comportamenti a
carattere persecutorio, illeciti o anche
leciti se considerati singolarmente, che
siano stati posti in essere in modo
miratamente sistematico e prolungato contro
il dipendente con intento vessatorio;
2) dall'evento lesivo della salute o della
personalità del dipendente;
3) dal nesso eziologico tra la condotta del
datore di lavoro o del superiore gerarchico
e il pregiudizio all'integrità psico-fisica
del lavoratore.
Per "mobbing" (da lavoro), secondo la
giurisprudenza si intende “una
successione di fatti e comportamenti posti
in essere dal datore di lavoro con intento
emulativo ed al solo scopo di recare danno
al lavoratore, rendendone penosa la
prestazione, condotti con frequenza
ripetitiva ed in un determinato arco
temporale sufficientemente apprezzabile e
valutabile” (Trib. civ. Milano
15.05.2006) ovvero per usare le parole della
Suprema Corte, "l'insieme delle condotte
datoriali protratte nel tempo e con le
caratteristiche della persecuzione
finalizzata all'emarginazione del dipendente
con comportamenti datoriali, materiali o
provvedimentali, indipendentemente
dall'inadempimento di specifici obblighi
contrattuali o dalla violazione di
specifiche norme attinenti alla tutela del
lavoratore subordinato. Sicché, la
sussistenza della lesione, del bene protetto
e delle sue conseguenze deve essere
verificata -procedendosi alla valutazione
complessiva degli episodi dedotti in
giudizio come lesivi- considerando
l'idoneità offensiva della condotta, che può
essere dimostrata, per la sistematicità e
durata dell'azione nel tempo, dalle sue
caratteristiche oggettive di persecuzione e
discriminazione, risultanti specificamente
da una connotazione emulativa e pretestuosa"
(Cass. civ, lav., 06.03.2006, n. 4774;
09.09.2008, n. 22858; 17.02.2009, n. 3785).
In sostanza, la condotta mobbizzante si
risolve in sistematici e reiterati
comportamenti ostili, che finiscono per
assumere forme di prevaricazione o di
persecuzione psicologica, da cui può
conseguire la mortificazione morale e
l'emarginazione del dipendente, con effetto
lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e
del complesso della sua personalità.
L’accertamento della sussistenza del danno
da mobbing, quindi, comporta una valutazione
complessiva dei danni lamentati
dall’interessato, i quali devono essere
considerati in modo unitario, tenuto conto,
da un lato dell’idoneità offensiva della
condotta datoriale, come desumibile dalle
sue caratteristiche oggettive di
persecuzione e discriminazione e,
dall’altro, dalla connotazione univocamente
emulativa e pretestuosa della richiamata
condotta; pertanto la ricorrenza di una
condotta mobizzante deve essere esclusa:
- quando sia assente la sistematicità degli
episodi, ovvero i comportamenti su cui viene
basata la pretesa risarcitoria siano
riferibili alla normale condotta del datore
di lavoro, funzionale all'assetto
dell'apparato amministrativo, o
imprenditoriale, nel caso del lavoro
privato; o, infine, vi sia una ragionevole
ed alternativa spiegazione al comportamento
datoriale (cfr. Cons. Stato, VI, 06.05.2008,
n. 2015);
- tutte le volte che la valutazione
complessiva dell’insieme delle circostanze
addotte ed accertate nella loro materialità,
pur se idonea a palesare singulatim
elementi ed episodi di conflitto sul luogo
di lavoro, non consenta di individuare,
secondo un giudizio di verosimiglianza, il
carattere unitariamente persecutorio e
discriminatorio nei confronti del singolo
dal complesso delle condotte poste in essere
sul luogo di lavoro (cfr. Cons. St. nr. 4738
del 2008).
È stato da ultimo messo in risalto che il
tratto strutturante del "mobbing"
-tale da sottrarlo all’area dei
comportamenti che sarebbero confinati
nell'ordinaria dinamica, ancorché
conflittuale, dei rapporti di lavoro- è
proprio la sussistenza di una condotta
volutamente prevaricatoria da parte del
datore di lavoro volta a emarginare o
estromettere il lavoratore dalla struttura
organizzativa.
Pertanto, in ordine all'onere della prova da
offrirsi da parte del soggetto destinatario
di una condotta mobbizzante, quest'ultima
deve essere adeguatamente rappresentata con
una prospettazione dettagliata dei singoli
comportamenti e/o atti che rivelino
l'asserito intento persecutorio diretto a
emarginare il dipendente, non rilevando mere
posizioni divergenti e/o conflittuali,
fisiologiche allo svolgimento di un rapporto
lavorativo (cfr. TAR Lombardia, Milano, I,
11.08.2009, n 4581; TAR Lazio, Roma, III,
14.12.2006, n. 14604).
In altri termini, il mobbing -proprio perché
non può prescindere da un supporto
probatorio oggettivo- non può essere
imputato in via esclusiva ma anche
prevalente al vissuto interiore del
soggetto, ovvero all'amplificazione da parte
di quest'ultimo delle normali difficoltà che
connotano la vita lavorativa di ciascuno
(cfr. TAR Lazio, Roma, I, 07.04.2008, n.
2877).
D'altra parte, come è stato
condivisibilmente affermato (cfr. Tar PG nr.
469 del 2010), nell'esaminare i casi di
preteso "mobbing" il Giudice deve
evitare di assumere acriticamente l'angolo
visuale prospettato dal lavoratore che
asserisce di esserne vittima. Da un lato,
infatti, è possibile che i comportamenti del
datore di lavoro, pur se oggettivamente
sgraditi, non siano tali da provocare
significative sofferenze e disagi, se non in
personalità dotate di una sensibilità
esasperata o addirittura patologica (per
tacere dell'ipotesi, non scartabile a
priori, che la rappresentazione delle
sofferenze sia inveritiera e meramente
strumentale allo scopo di supportare una
domanda di risarcimento).
Da un altro lato, è possibile che gli atti
del datore di lavoro (di nuovo, pur
sgraditi) siano di per sé ragionevoli e
giustificati e in particolare che abbiano
una certa giustificazione o quanto meno
spiegazione siccome indotti da comportamenti
reprensibili dello stesso interessato,
ovvero da sue carenze sul piano lavorativo,
difficoltà caratteriali, etc.. Non si deve
cioè sottovalutare l'ipotesi che l'insorgere
di un clima di cattivi rapporti umani
derivi, almeno in parte, anche da
responsabilità dell'interessato. Tale
ipotesi può anzi essere empiricamente
convalidata dalla considerazione che
diversamente non si spiegherebbe perché solo
un determinato individuo percepisca come
ostile una situazione che invece i suoi
colleghi trovano normale.
Tale cautela di giudizio si impone
particolarmente quando, come nel caso in
esame, l'ambiente di lavoro è un Corpo di
Polizia, caratterizzato, per definizione, da
una severa disciplina e dove non tutti i
rapporti possono essere amichevoli, non
tutte le aspirazioni possono essere
esaudite, non tutti i compiti possono essere
piacevoli e non tutte le carenze possono
essere tollerate. In questa situazione, un
approccio condizionato dalla
rappresentazione soggettiva (se non
strumentale) fornita dall'interessato può
essere quanto mai fuorviante.
Dunque, gli elementi strutturali della
condotta mobbizzante, sono dati:
1) dalla molteplicità dei comportamenti a
carattere persecutorio, illeciti o anche
leciti se considerati singolarmente, che
siano stati posti in essere in modo
miratamente sistematico e prolungato contro
il dipendente con intento vessatorio;
2) dall'evento lesivo della salute o della
personalità del dipendente;
3) dal nesso eziologico tra la condotta del
datore di lavoro o del superiore gerarchico
e il pregiudizio all'integrità psico-fisica
del lavoratore.
Ai fini risarcitori è quindi necessaria:
- la prova dell'elemento soggettivo, cioè
dell'intento persecutorio (Cassazione Sez.
L, Sentenza n. 3785 del 17/02/2009);
- la prova del danno all’integrità subito;
- che sia dimostrato il nesso causale tra il
comportamento del datore di lavoro e lo
stato di prostrazione (cfr, ex plurimis,
Cass.civ. III, 16148/2010).
Per quanto riguarda quest’ultimo elemento
v’è poi da poi da ricordare che la Corte
regolatrice, con l’Ord. n. 22101/2006, ha
ritenuto questo Tribunale quale Giudice
competente a conoscere della controversia
introdotta col ricorso in epigrafe; e tanto
ha statuito in quanto, avvalendosi (ai fini
del riparto di giurisdizione) del criterio
del c.d. petitum sostanziale, ha dato
risalto alla circostanza che il ricorrente,
nel caso di specie, “non sono parla di
mobbing-bossing ma pone a fondamento della
domanda atti dispositivi dei suoi superiori
relativi alle mansioni, e cioè atti
tipicamente relativi al rapporto di lavoro”.
E’ dunque non revocabile in dubbio che
l'azione risarcitoria in trattazione
rinvenga il proprio presupposto
nell'espletamento dell'attività lavorativa
da parte del ricorrente e nella ritenuta
violazione, da parte del datore di lavoro,
dell'obbligo su di esso incombente ai sensi
dell'art. 2087 cod. civ.; al che accede, in
modo pacifico, il carattere contrattuale
della proposta azione risarcitoria.
Rebus sic stantibus, una volta
ricondotta la controversia risarcitoria in
questione nell'alveo della responsabilità
contrattuale ex art. 1218 cod. civ., la
distribuzione dell'onere probatorio fra il
prestatore (asseritamente) danneggiato ed il
datore di lavoro deve essere operata in base
al consolidato orientamento
giurisprudenziale secondo cui grava sul
lavoratore l'onere di provare la condotta
illecita e il nesso causale tra questa e il
danno patito, mentre incombe sul datore di
lavoro -in base al principio di inversione
dell'onus probandi di cui al
richiamato art. 1218 cod. civ.- il solo
onere di provare l'assenza di una colpa a se
riferibile (in tal senso, ex plurimis:
Cass. Civ., Sez. Lavoro, sent. 25.05.2006,
n. 12445; id., Sezione Lav., sent.
08.05.2007, n. 10441).
Ne consegue che laddove, quindi, il
lavoratore ometta di fornire la prova anche
solo, ad es., in ordine alla sussistenza
dell'elemento materiale della fattispecie
oggettiva (i.e., della complessiva condotta
mobbizzante asseritamente realizzata in
proprio danno sul luogo di lavoro),
difetterà in radice uno degli elementi
costitutivi della fattispecie foriera di
danno (e del conseguente obbligo
risarcitorio), con l'evidente conseguenza
che il risarcimento non sarà dovuto,
irrilevante essendo, in tal caso, ogni
ulteriore indagine in ordine alla
sussistenza o meno del nesso eziologico fra
la condotta e l'evento dannoso (cfr., in tal
senso, Cons. St. nr. 2045 del 2010 e nr.
4738 del 2008) (TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter,
sentenza 08.02.2011 n. 1230 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
anno 2010 |
|
PUBBLICO
IMPIEGO: Mobbing,
processo senza stop.
Il giudizio promosso dal lavoratore che chiede il
risarcimento del danno da mobbing non dev'essere sospeso in
attesa della fine della causa penale promossa dal datore di
lavoro che contesta al dipendente degli illeciti.
È quanto sancito dalla Corte di Cassazione che, con la
sentenza 13.08.2010 n. 18668, ha accolto il
ricorso di una dipendente comunale che aveva fatto causa
all'ente locale per ottenere il risarcimento dei danni da
mobbing.
Ma il Comune aveva ottenuto dal Tribunale di Mondovì la
sospensione del giudizio civile in attesa della decisione
definitiva su quello penale.
Contro questa decisione la donna ha fatto ricorso in
Cassazione e ha vinto. La sezione lavoro ha stabilito che
«in materia di rapporto fra giudizi civili e penali, fuori
dei casi in cui i giudizi di danno possono proseguire
davanti al giudice civile, il processo può essere sospeso se
tra processo penale e altro giudizio ricorra il rapporto di
pregiudizialità o se la sospensione sia prevista da altra
specifica norma e sempre che la sentenza penale esplichi
efficacia di giudicato nell'altro giudizio».
In altri termini, secondo la Cassazione «non è
sufficiente che nei due processi rilevino gli stessi fatti,
essendo necessario che una norma di diritto sostanziale
colleghi un effetto sul diritto oggetto del giudizio civile
alla commissione del reato oggetto del giudizio penale)»
(articolo ItaliaOggi del 24.08.2010, pag. 26). |
PUBBLICO
IMPIEGO: S.
Delle Donne,
Mobbing e dintorni.
In materia di mobbing non esiste una normativa specialistica
e i legali impegnati a difendere queste vittime fondano le
loro giuste pretese sulle disposizioni codicistiche e la
giurisprudenza, cimentandosi quotidianamente in un
aggiornamento rigoroso.
In questi anni, infatti, la Magistratura ha indicato alcuni
elementi distintivi del mobbing, giudicati col passare del
tempo essenziali e irrinunciabili, al fine di identificare e
riconoscere tale nuova fattispecie giuridica.
La Corte di Cassazione, anche nelle sentenze più recenti,
confermando la tesi prevalente, ha tradotto il termine
inglese “mobbing” con “persecuzione”, poiché il fenomeno può
essere descritto soltanto come un coacervo di azioni (legali
e non) finalizzate a un obiettivo specifico (l’estromissione
del lavoratore dal gruppo umano), attuate per un congruo
periodo e soprattutto artatamente congegnate dall’autorità
vigente, cioè da chi può premiare e punire i sottoposti,
quindi anche abusare di tale potere a fini estorsivi.
Queste strategie di sopruso, spesso presenti in vari
ambienti di lavoro, segnano in modo indelebile i lavoratori,
danneggiando drammaticamente le loro esistenze (e quelle dei
familiari): ciò accade, in particolar modo, quando la
persecuzione si perfeziona con il licenziamento o
addirittura con l’infamante licenziamento disciplinare, che
aggiunge dolore a chi già soffre per l’incomprensione di
parenti e amici e per la perdita del proprio ruolo sociale
(link a www.diritto.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Mobbing. Il danno non patrimoniale per
demansionamento può essere provato con presunzioni.
Il demansionamento sussiste tutte le volte che il dipendente
è addetto ad attività del tutto marginali ed assolutamente
non riconducibili al suo livello di inquadramento.
Una volta accertato il demansionamento professionale del
lavoratore, il giudice corretamente può desumere l’esistenza
del relativo danno in base ad una valutazione presuntiva,
riferendosi alle circostanze concrete della operata
dequalificazione.
Ciò in quanto il danno conseguente al demansionamento va
dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti
dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la
prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione
di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata,
gravità, frustrazione professionale) si possa, attraverso un
prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto
ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai
sensi dell’art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali
derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel
ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove
(cfr. Cass., sez. un. n. 6572 del 2006; Cass. n. 29832 del
2008; n, 28274 del 2008).
Con riguardo, in particolare, al danno non patrimoniale,
occorre rilevare che nella disciplina del rapporto di
lavoro, ove numerose disposizioni assicurano una tutela
rafforzata alla persona del lavoratore con il riconoscimento
di diritti oggetto di tutela costituzionale, il danno non
patrimoniale è configurabile ogni qual volta la condotta
illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave,
tali diritti: questi, non essendo regolati ex ante da
norme di legge, per essere suscettibili di tutela
risarcitoria dovranno essere individuati, caso per caso, dal
giudice del merito, il quale, senza duplicare il
risarcimento (con l’attribuzione di nomi diversi a
pregiudizi identici), dovrà discriminare i meri pregiudizi
–concretizzatisi in disagi o lesioni di interessi privi di
qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili–
dai danni che vanno risarciti (cfr. Cass. n. 10864 del
2009).
Il danno risarcibile, dunque, è correttamente identificato
negli aspetti di vissuta e credibile mortificazione
derivanti al dipendente dalla situazione lavorativa in cui
si è trovato ad operare, secondo una valutazione che si
fonda sull’accertamento del nesso causale tra la condotta
illecita datoriale e lo stato di mortificazione del
lavoratore (Corte di Cassazione, Sezz. Unite civili,
sentenza 22.02.2010 n. 4063 - link a
www.litis.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
L. Modaffari,
Il mobbing in concreto: come viene valutato nei Tribunale
italiani (link a www.altalex.com). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Rapporti deteriorati. Sì al
trasferimento. Per la Cassazione non c'è mobbing.
È lecito il trasferimento di un
lavoratore ad altro reparto se i rapporti con i superiori
sono «deteriorati». Né tantomeno la posizione dell'azienda
può essere definita mobbizzante.
Lo ha precisato la Corte di cassazione che, con la
sentenza 04.02.2010 n. 2615, ha respinto il ricorso di
un'infermiera che prima aveva chiesto di essere trasferita e
poi ci aveva immediatamente ripensato.
In particolare la donna aveva segnalato una serie di
irregolarità commesse da un medico e questo, per tutta
risposta, l'aveva fatta sospendere. Secondo la direzione
sanitaria, però, dopo l'accaduto, il trasferimento era
funzionale al buon andamento del reparto. La lavoratrice lo
ha impugnato di fronte al Tribunale di Lecce che le ha dato
torto. La decisione è stata confermata dalla Corte d'appello
pugliese e ora è stata resa definitiva dalla Cassazione.
Aggiungendo poco a quello stabilito dai giudici di merito,
il Collegio di legittimità ha motivato che «l'adozione di
una sanzione disciplinare per comportamenti serbati nel
reparto può essere una fonte di conflitto idoneo a turbare
la funzionalità». Quindi, «l'assegnazione ad altro
reparto, lungi dal configurare mobbing, era da considerare
giustificata e persino doverosa sotto il profilo del buon
andamento del servizio pubblico». Anche la Procura
generale della Suprema corte aveva concluso per il rigetto
del ricorso dell'infermiera.
È soltanto di pochi giorni fa un'altra notizia sul mobbing
(sentenza n. 2352) con la quale è stata estesa la tutela dei
lavoratori professionisti bersaglio di vessazioni sui luoghi
di lavoro. Teatro del fatto ancora una volta un ospedale. In
particolare, dando ragione a un medico messo forzatamente al
riposo dal suo primario, la Suprema corte ha affermato che i
sanitari hanno diritto ai danni patrimoniali e non
patrimoniali nel caso in cui il superiore gerarchico li
abbia ingiustamente demansionati ed estromessi da qualunque
attività, compromettendone così la carriera e la vita di
relazione (articolo ItaliaOggi del 06.02.2010, pag. 26). |
anno 2009 |
|
PUBBLICO
IMPIEGO:
I continui e pesanti rimproveri
integrano il mobbing se fatti davanti ai colleghi.
La Cassazione ha ritenuto che i rimproveri orali da parte
del superiore adottati con «toni pesanti» e davanti
agli altri colleghi, possono costituire episodio di mobbing.
I giudici hanno così confermato la condanna per mobbing di
un'azienda milanese perché una sua dirigente aveva vessato
per mesi una dipendente, con una serie di sanzioni
disciplinari culminate nel licenziamento (Corte di
Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 20.03.2009 n. 6907 - link a
www.lavoroprevidenza.com). |
anno 2006 |
|
PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing
– Bossing - Nozione - Disegno vessatorio
atto a destabilizzare l’equilibrio
psicofisico del lavoratore – Proposta di
Declassamento professionale per
ristrutturazione aziendale – Indisponibilità
dei lavoratori – Loro confinamento in
apposito reparto - Condizione di assoluta
inerzia in ambiente degradato – Pericolo di
definitivo allontamento dal contesto
produttivo in mancanza di accettazione della
novazione contrattuale peggiorativa -
Sussiste.
“Può esservi condotta molesta e
vessatoria o, comunque mobbing anche in
presenza di atti di per sé legittimi e che,
simmetricamente,non ogni demansionamento
così come non ogni altro atto illegittimo dà
luogo, a cascata, a mobbing. Affinché ciò
avvenga, è necessario che quell’atto emerga
come l’espressione, o meglio come uno dei
tasselli, di un composito disegno
vessatorio.
In definitiva, per la sussistenza del
fenomeno occorre che diverse condotte,
alcune o tutte di per sé legittime,si
ricompongano in un unicum, essendo
complessivamente e cumalativamente idonee a
destabilizzare l’equilibrio psico-fisico del
lavoratore. Ciò non toglie, ovviamente, che
tali condotte, esaminate separatamente e
distintamente, possano essere illegittime e
anche integrare fattispecie di reato".
“…tutti i lavoratori avevano …preso
coscienza del fatto che la loro destinazione
non era affatto temporanea e che la stessa
poteva essere rimossa solo con la
accettazione della novazione che veniva
prospettata…”. Tale destinazione “rappresentava
una minaccia per l’allontanamento dal mondo
reale del lavoro che comportava e per le sue
caratteristiche di anticamera del
licenziamento, …posto che erano rientrati
nel ciclo produttivo soltanto coloro che
avevano accettato la novazione. Nei fatti si
era trattato di una collocazione sine die,
in quanto i dipendenti avrebbero lasciato la
palazzina solo se accettavano le condizioni
del datore di lavoro”
(Corte di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 21.09.2006 n. 31413 - link a http://olympus.uniurb.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing.
Rappresentante dei
lavoratori per la sicurezza – Rifiuto di
svolgere funzioni di Rspp – Demansionamento
– Licenziamento individuale – Illegittimità
della condotta datoriale – Sussiste.
“Nel sistema delineato dal decreto
legislativo 19.09.1994, n. 626 la funzione
di responsabile del servizio di prevenzione
e protezione dai rischi, designato dal
datore di lavoro (art. 2, lett. e), e quella
di rappresentante dei lavoratori per la
sicurezza (art. 2, lett. f) non sono
cumulabili nella stessa persona. (...)
Concentrare nella stessa persona le funzioni
di due figure cui il legislatore ha
attribuito funzioni diverse, ancorché
finalizzate al comune obiettivo della
sicurezza del lavoro, significa eliminare
ogni controllo da parte dei lavoratori,
atteso che il controllato ed il controllante
coinciderebbero. (…) Chiaramente diversa è
la volontà della legge, che richiede
entrambe le figure per una azione di
prevenzione costantemente perseguita da
parte datoriale e controllata dai lavoratori”
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 15.09.2006 n. 19965 - link a http://olympus.uniurb.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing
– Prova degli elementi costitutivi della
fattispecie – Non raggiunta – Diritto al
risarcimento del danno da mobbing – Non
sussiste – Violazione dell’art. 2087 c.c. –
Sussiste.
La giurisprudenza è oramai assestata sul
punto: l’elemento essenziale per poter
configurare un comportamento di mobbing è
che la vessazione psicologica sia attuata in
modo sistematico, ripetuto per un
apprezzabile periodo temporale; solo
comportamenti siffatti sono in grado di
rendere significativi, da un punto di vista
giuridico, atti del datore di lavoro o dei
suoi collaboratori che, diversamente, non
avrebbero alcuna rilevanza rimanendo
nell’ambito dei normali rapporti
interpersonali sul luogo di lavoro… è onere
del lavoratore che lamenti di aver subito un
danno alla salute provare l’esistenza di
tale danno e il nesso causale tra la
condotta datoriale e il danno subito…
La ricorrente non ha raggiunto la prova
degli elementi costitutivi della
fattispecie, in quanto i fatti ostili non
sono stati né frequenti né duraturi… Vi sono
stati comunque comportamenti violativi
dell’art. 2087 c.c. lesivi della persona del
prestatore di lavoro, che hanno comportato
l’insorgere di un danno biologico
(TRIBUNALE di Bergamo, Sez. Lavoro,
sentenza 08.08.2006 - link a http://olympus.uniurb.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Mobbing:
disegno persecutorio e specifica finalità vessatoria.
La responsabilità del
datore di lavoro per mobbing –invocabile anche in assenza
della violazione di specifiche norme attinenti alla tutela
del lavoratore subordinato– presuppone la prova, ricavabile
anche da una serie di elementi sintomatici, di un
complessivo e perdurante disegno persecutorio e di una
specifica finalità vessatoria, ovvero della volontà, da
parte del datore di lavoro, di emarginare e svilire il
lavoratore
(Tribunale Civitavecchia,
sentenza 20.07.2006
- link a www.altalex.com). |
PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing
nel pubblico impiego.
Mobbing –
Demansionamento – Risarcimento del danno
biologico ed alla professionalità –
Sussiste.
Il danno, di carattere non patrimoniale,
alla professionalità “attiene … alla
lesione (sia a titolo di responsabilità
contrattuale che extracontrattuale) di un
interesse costituzionalmente protetto
dall’articolo 2 della Costituzione ed ha ad
oggetto il diritto fondamentale del
lavoratore alla esplicazione della sua
personalità nel luogo di lavoro, secondo le
mansioni e qualifica spettategli per legge o
per contratto.
I provvedimenti del datore che
illegittimamente ledono tale diritto hanno
quale conseguenza la lesione dell’immagine
professionale, della dignità personale e
della vita di relazione del lavoratore, sia
in tema di autostima ed eterostima
nell’ambiente di lavoro o in quello socio
familiare sia in termini di perdita di
chances per lavori di pari livello (Cass.,
sez. lav., n. 10157 del 2004). La
valutazione di siffatto pregiudizio, che,
come già evidenziato, è privo delle
caratteristiche della patrimonialità, non
può che essere effettuata in via equitativa”.
Quanto al danno biologico, “vi è da
rilevare al riguardo che il c.t.u. ha
ritenuto di diminuire la quantificazione del
danno…in considerazione della personalità
del ricorrente e di situazioni, preesistenti
o concomitanti, attinenti alla sua sfera
personale, alle quali ha riconosciuto valore
di concausa naturale nella determinazione
del danno.
Ritiene il giudice di non poter aderire a
tale impostazione, poiché, in base ai
principi di cui agli articoli 40 e 41 del
codice penale, applicabili in tema di
responsabilità contrattuale ed
extracontrattuale, «qualora le condizioni
ambientali o i fattori naturali che
caratterizzano la realtà fisica su cui
incide il comportamento imputabile dell’uomo
non possano dar luogo, senza l’apporto
umano, all’evento danno, l’autore del
comportamento imputabile è responsabile per
intero di tutte le conseguenze da esso
scaturenti secondo normalità» (Cass., sez.
lav., n. 553 del 2003).
Non è possibile, pertanto, una volta
accertata l’effettiva operatività del nesso
causale fra comportamento imputabile del
danneggiante e pregiudizio arrecato,
effettuare alcuna graduazione in termini
percentuali, con riferimento alla concausa
della condotta colposa, dovendo ritenersi il
danneggiante responsabile per l’intero dei
danni cagionati”
(TRIBUNALE di Castrovillari,
sentenza 20.04.2006 - link a http://olympus.uniurb.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Parametri
per individuare situazioni di mobbing.
Mobbing – Nozione –
Parametri di riconoscibilità del Mobbing –
Intento persecutorio.
“Il mobbing è una situazione lavorativa
di conflittualità sistematica, persistente,
ed in costante progresso in cui una o più
persone vengono fatte oggetto di azioni ad
alto contenuto persecutorio da parte di uno
o più aggressori in posizione superiore,
inferiore o di parità, con lo scopo di
causare alla vittima danni di vario tipo e
gravità. Il mobbizzato si trova
nell’impossibilità di reagire adeguatamente
a tali attacchi e a lungo andare accusa
disturbi psicosomatici, relazionali e
dell’umore che possono portare anche a
invalidità psicofisica permanente.
I sette parametri [la cui presenza
contestuale consente di riconoscere il
mobbing] in questione sono: l’ambiente
lavorativo, la frequenza …, la durata…, il
tipo di azioni ostili…, e precisamente
attacchi ai contatti umani, cambiamenti
delle mansioni e attacchi alla reputazione),
dislivello fra gli antagonisti, andamento
secondo fasi successive … Quanto all’intento
persecutorio che caratterizza il mobbing -da
intendersi in un’accezione psicologica, come
disegno vessatorio perseguito dal mobber, e
non penalistica come vero e proprio dolo
specifico- il CTU ne ha ritenuto sussistenti
i tratti fondamentali, rappresentati dalla
contemporanea presenza di una carica emotiva
e soggettiva … , di una precisa motivazione
del mobber … e di un obiettivo conflittuale,
cioè un terreno di scontro privilegiato”.
Mobbing – Illegittimità
– Violazione artt. 2087 cod. civ. e 2043
cod. civ. – Legittimità dei singoli atti che
lo compongono – Irrilevanza.
“Il comportamento mobbizzante … è
certamente illegittimo a prescindere dalla
possibile legittimità dei singoli atti che
la compongono, in se considerati. Esso
infatti rappresenta una violazione
dell’obbligo di cui all’articolo 2087 del
codice civile, nonché del principio generale
del minimum laedere di cui all’articolo 2043
del codice civile e in quanto idoneo a
provocare un danno, e fonte di
responsabilità sia contrattuale che
extracontrattuale”
(TRIBUNALE di Sondrio,
sentenza 09.03.2006 - link a http://olympus.uniurb.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing: responsabilità
del datore di lavoro.
Mobbing – Datore di
lavoro – Responsabilità contrattuale –
Presunzione legale di colpa – Sussiste.
“…ha natura contrattuale … la
responsabilità del datore di lavoro per
inadempimento dell’obbligo di sicurezza
(articolo 2087 del codice civile) …Dalla
prospettata natura contrattuale della
responsabilità, la stessa giurisprudenza
ricava…significative implicazioni sul piano
della distribuzione degli oneri probatori
relativi … infatti, la presunzione legale di
colpa -stabilita (dall’articolo 2118 del
codice civile)- a carico del datore di
lavoro inadempiente all’obbligo di sicurezza
…- deroga, parzialmente, il principio
generale (articolo 2697 del codice civile),
che impone -a “chi vuol far valere un
diritto in giudizio”- l’onere di provare “i
fatti che ne costituiscono il fondamento”.
Non ne risulta, tuttavia, una ipotesi di
responsabilità oggettiva, né la dispensa, da
qualsiasi onere probatorio, del lavoratore
danneggiato. Questi, infatti, resta gravato
… dell’onere di provare il “fatto”
costituente inadempimento dell’obbligo di
sicurezza nonché il nesso di causalità
materiale tra l’inadempimento stesso ed il
danno da lui subito, mentre esula dall’onere
probatorio a carico del lavoratore … la
prova della colpa del datore di lavoro
danneggiante …è lo stesso datore di lavoro,
infatti, ad essere gravato … dell’onere di
provare la non imputabilità
dell’inadempimento”.
Art. 2087 cod. civ. –
Misure di sicurezza innominate – Omissione –
Prova liberatoria a carico del datore di
lavoro – Contenuto.
“Affatto diverso risulta, tuttavia,
(anche) il contenuto dei rispettivi oneri
probatori a seconda che le misure di
sicurezza -asseritamente omesse- siano
espressamente e specificamente definite
dalla legge (o da altra fonte parimenti
vincolante), in relazione ad una valutazione
preventiva di rischi specifici…, oppure
debbano essere ricavate dalla stessa
disposizione (articolo 2087 del codice
civile, cit.) che impone l’obbligo di
sicurezza. Nel primo caso -di misure di
sicurezza (o prevenzione), per cosi dire,
nominate- il lavoratore ha l’onere di
provare soltanto la fattispecie costitutiva
prevista dalla fonte impositiva della misura
stessa -cioè il rischio specifico, che
s’intende prevenire o contenere- nonché,
ovviamente, il nesso di causalità materiale
tra l’inosservanza della misura ed il danno
subito.
La prova liberatoria a carico del datore di
lavoro, poi, parimenti si esaurisce nella
negazione degli stessi fatti provati dal
lavoratore…Nel secondo caso - di misure di
sicurezza (o prevenzione), per cosi dire,
innominate - fermo restando l’onere
probatorio a carico del lavoratore, la prova
liberatoria, a carico del datore di lavoro,
risulta invece variamente definita in
relazione alla quantificazione della
diligenza (ritenuta) esigibile –nella
predisposizione di quelle misure di
sicurezza- e perciò registra, anche in
giurisprudenza, significative
oscillazioni…tra l’imposizione al datore di
lavoro dell’onere di provare l’adozione di
ogni misura idonea ad evitare l’infortunio
dedotto in giudizio (vedi, per tutte,
Cassazione n. 9401 del 1995) oppure soltanto
l’adozione di comportamenti specifici, non
imposti dalla legge (o da altra fonte di
diritto parimenti vincolante), ma suggeriti
da conoscenze sperimentali e tecniche,
standard di sicurezza adottati normalmente o
da altre fonti analoghe (vedi, per tutte,
Corte costituzionale n. 312 del 1996,
Cassazione, sent. n. 16250 del 2003 e n.
3740 del 1995)”.
Misure di sicurezza –
Omessa vigilanza – Responsabilità del datore
di lavoro – Sussiste – Prova liberatoria –
Contenuto.
“Il datore di lavoro, poi, é responsabile
dei danni subiti dal proprio dipendente, non
solo quando ometta di adottare idonee misure
protettive, ma anche quando ometta di
controllare e vigilare che di tali misure
sia fatto effettivamente uso (anche) da
parte dello stesso dipendente, con la
conseguenza che -secondo la giurisprudenza
di questa Corte (vedine, per tutte, le
sentenze n. 16250 del 2003, n. 2357 del
2003, n. 15133 del 2002, cit., n. 9304 del
2002, n. 9016 del 2002, n. 5024 del 2002, n.
326 del 2002, n. 7052 del 2001, n. 13690 del
2000, n. 6000 del 1998, n. 4227 del 1992)-
si può configurare un esonero totale di
responsabilità, per il datore di lavoro
appunto, solo quando il comportamento del
dipendente presenti i caratteri
dell’abnormità e dell’assoluta
imprevedibilità (sullo specifico punto,
vedi, per tutte, Cassazione n. 13690 del
2000 e n. 326 del 2002, cit.) … Né lo stesso
datore di lavoro…assolve l’onere della prova
liberatoria” quando, come nel caso di
specie, “lungi dall’allegare (e, tantomeno,
dal dimostrare) l’adozione di una qualsiasi
misura idonea a prevenire il dedotto evento
dannoso, si limita alla deduzione di una
propria iniziativa (quale il deferimento, al
collegio dei probiviri, del responsabile dei
«fatti mobbizzanti»), volta alla repressione
-non già alla prevenzione- degli stessi …”
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 08.03.2006 n. 12445 - link a http://olympus.uniurb.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing
– Violazione obbligo di sicurezza – art.
2087 cod. civ. – Sussiste – Modalità.
“È riconducibile al fenomeno del mobbing
la condotta sistematica e protratta nel
tempo, che concreta, per le sue
caratteristiche vessatorie, una lesione
dell’integrità fisica e la personalità
morale del prestatore di lavoro, garantite
dall’articolo 2087 del codice civile; tale
illecito, che rappresenta una violazione
dell’obbligo di sicurezza posta da questa
norma generale a carico del datore di
lavoro, si può realizzare con comportamenti
materiali o provvedimenti del datore di
lavoro indipendentemente dall’inadempimento
di specifici obblighi contrattuali previsti
dalla disciplina del rapporto di lavoro
subordinato.
La sussistenza della lesione del bene
protetto e delle sue conseguenze dannose
deve essere verificata considerando
l’idoneità offensiva della condotta del
datore di lavoro, che può essere dimostrata,
per la sistematicità e durata dell’azione
nel tempo, dalle sue caratteristiche
oggettive di persecuzione e discriminazione,
risultanti specialmente da una connotazione
emulativa e pretestuosa, anche in assenza di
una violazione di specifiche norme di tutela
del lavoratore subordinato”
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 06.03.2006 n. 4774 - link a http://olympus.uniurb.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Mobbing e molestie sessuali:
differenza.
Mobbing – Realizzazione
attraverso atti che configurano molestie
sessuali sul luogo di lavoro – Distinzione –
Rilevanza dell’elemento psicologico
dell’autore – Intento di emarginazione –
Contesto mobizzante – Sussiste.
“Capita sovente che le condotte di
mobbing possano realizzarsi anche attraverso
vere e proprie molestie sessuali ed allora
appare problematico distinguere le due
figure. …due sono le differenze
fondamentali. La molestia sessuale può
essere costituita anche da un solo atto, il
mobbing deve essere sistematico. Il
molestatore ha, nei confronti della vittima,
un chiaro intento libidinoso, il mobber può
tendere a dare fastidio, punire, denigrare,
espellere. In sostanza la molestia sessuale
è una manovra di avvicinamento, il mobbing è
una strategia di allontanamento. … La
possibile linea di demarcazione tra le due
condotte prese in considerazione, cioè
molestia sessuale e mobbing, può essere
rappresentata dall’elemento psicologico
dell’autore. …se l’autore delle molestie
avrà avuto solo intenti di natura sessuale,
senza ricercare ulteriori scopi dalla
propria condotta, allora la fattispecie sarà
riconducibile alle molestie sessuali.
Si realizzano, per altro, nella realtà molte
altre situazioni nelle quali il contenuto
sessuale costituisce più lo sfondo, lo
strumento per la molestia piuttosto che il
fine: pensiamo ad ambienti di lavoro
maschili nei quali alla collega donna viene
fatto subire un linguaggio volgare e pieno
di doppi sensi: in caso come questo
l’intento degli autori è molto più
l’emarginazione che non la provocazione
sessuale e, conseguentemente, la casistica
potrà ricondursi a singoli episodi in un
contesto mobbizzante”
(TRIBUNALE di Forlì,
sentenza 02.03.2006 - link a http://olympus.uniurb.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Demansionamento
e sua risarcibilità.
Mutamento delle mansioni
in senso riduttivo – Dequalificazione
professionale non automatica –
Demansionamento – Sussistenza – Presunzioni.
“…non ogni modificazione delle mansioni
in senso riduttivo comporta un'automatica
dequalificazione professionale, la quale
trova la sua essenza nell'abbassamento del
globale livello delle prestazioni del
lavoratore con una sottoutilizzazione delle
sue capacita ed una consequenziale
apprezzabile menomazione non transeunte
della sua professionalità, nonché con
perdita di immagine e di chances
professionali; l'esistenza di tali
pregiudizi può essere provata anche
attraverso presunzioni valorizzando le
circostanze del caso concreto quali:
a) la distanza tra le mansioni espletate in
precedenza e quelle di nuova assegnazione
ritenute inferiori (Cass. 16.08.2004, n.
15955; Cass. 13.05.2004, n. 9129);
b) la durata del demansionamento (Cass. n.
15955 del 2004, cit.; Cass. n. 16797 del
2003, cit.; Cass. n. 9129 del 2004, cit.);
c) la posizione gerarchica perduta dal
lavoratore (Cass. n. 15955 del 2004, cit.;
Cass. n. 16797 del 2003, cit.);
d) la sua anzianità di servizio (Cass. n.
15955 del 2004; Cass. n. 16797 del 2003,
cit.);
e) l'elemento psicologico della condotta del
datore di lavoro (Cass. n. 16797 del 2003,
cit.)”.
Mutamento delle mansioni
in senso riduttivo – Demansionamento –
Sussiste – Tipologie di danni causati al
lavoratore – Risarcibilità.
“…il demansionamento (inteso come mancata
adibizione del lavoratore a mansioni non
corrispondenti al suo inquadramento
contrattuale ed alla professionalità da lui
maturata) può costituire la fonte di danni
suscettibili di risarcimento, i quali
possono consistere:
1) nel danno esistenziale quale:
A) lesione del diritto alla libera
esplicazione della personalità nel luogo di
lavoro (danno non patrimoniale alla
professionalità in senso soggettivo) -cfr.
specialmente, di recente, Cass. 26.05.2004,
n. 10157;
B) lesione alla capacità professionale del
lavoratore derivante o dall'impoverimento
della capacità acquisita o dalla mancata
acquisizione di una maggiore capacità (danno
non patrimoniale alla professionalità in
senso oggettivo) -cfr. specialmente, di
recente, Cass. 07.09.2005, n. 17812; Cass.
27.06.2005, n. 13719;
C) pregiudizio all'immagine ed alla dignità
personali - cfr. specialmente, di recente,
Cass. 17812/2005 cit.; Cass. 10.06.2004, n.
11045; Cass. 10157/2004 cit.;
D) nel pregiudizio alle chances
professionali - cfr. specialmente, di
recente, Cass. 17812/2005 cit.; Cass.
13719/2005 cit.; Cass. 10157/2004 cit.;
2) nel danno biologico quale lesione
all'integrità psichica e fisica suscettibile
di accertamento medico-legale -cfr.
specialmente, di recente, Cass. 17812/2005;
Cass. 11045/2004;
3) nel danno morale soggettivo quale
transeunte turbamento dello stato d'animo
della vittima; (secondo gli insegnamenti di
Corte Cost. 233/2003 cit; Cass. 8827/2003;
Cass. 8828, essendo indubbio il rilievo
costituzionale, quanto meno in relazione al
precetto ex art. 2 Cost., dell'Interesse del
prestatore violato dal demansionamento -cfr.
sul punto Cass. 10157/2004 cit.;);
4) nel pregiudizio economico per la perdita
di ulteriori possibilità di guadagno (danno
patrimoniale da lucro cessante -cfr.
specialmente, di recente, Cass. 11045/2004
cit.- mentre quello da danno emergente e
escluso in radice dal principio,
espressamente richiamato dall'art. 2103, del
principio dell'irriducibilità della
retribuzione - secondo quanto precisato da
Cass. 08.11.2003, n. 16792)”
(TRIBUNALE di Trento,
sentenza 07.02.2006 - link a http://olympus.uniurb.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Danno
alla professionalità da mobbing.
Mobbing – Nozione –
Trattamenti vessatori continuati –
Demansionamento – Sussiste.
“Ciò che distingue il mobbing dal
conflitto puro e semplice nei rapporti
interpersonali è appunto il continuo
ripetersi in un arco di tempo di una certa
durata del trattamento vessatorio inflitto
alla vittima …” nel caso di specie,
oltre “agli episodi direttamente
riconducibili al demansionamento in senso
stretto, si possono ricordare quelli delle
continue sollecitazioni al ricorrente di
trovare altro lavoro, anche presso i clienti
cui era inviato per colloqui, come pure la
vicenda del paventato mancato pagamento
della retribuzione per più mesi, poi non
verificatosi, l'eliminazione della sua
postazione di lavoro con sottrazione del
personal Computer assegnato, le convocazioni
improvvise presso la capogruppo, cui vanno
aggiunti l'episodio dell'attesa
interminabile per un colloquio con l'A.,
deciso da quest'ultimo, e della
contestazione disciplinare dell'01.07.2002
per insubordinazione…” .
Mobbing – Danno alla
professionalità e biologico – Dipendente
informatico, lasciato in condizioni di
inattività e sollecitato alle dimissioni –
Sussiste – Risarcimento – Quantificazione in
via equitativa – Parametro – Retribuzione
base lorda del ricorrente.
“… la giurisprudenza, in generale,
definisce come danno alla professionalità
quello che colpisce le conoscenze
professionali acquisite da un soggetto nella
sua esperienza lavorativa, a seguito, come
nei caso in esame, di un periodo di
sostanziale totale inattività lavorativa
ovvero di attività lavorativa in
professionalità più basse da quelle
acquisite in precedenza”.
Per quanto concerne la prova del danno di
dequalificazione, da seguire è “l’orientamento
che utilizza criteri di esperienza comune,
quali la quantità e qualità dell'esperienza
lavorativa pregressa, il tipo di
professionalità colpito, la durata del
demansionamento e l'esito finale della
dequalificazione”, procedendo alla sua
quantificazione in via equitativa ex
articolo 1226 del codice civile, utilizzando
come parametro la retribuzione base lorda
del ricorrente
(TRIBUNALE di Milano,
sentenza 04.01.2006 - link a http://olympus.uniurb.it). |
anno 2005 |
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PUBBLICO IMPIEGO:
Mobbing – Bossing – Nozione –
Strategia aziendale volta a ridurre il
personale o eliminare i dipendenti non
graditi – Confinamento in specifico reparto
– Totale inattività e degrado ambientale –
Pericolo di definitiva estromissione dal
contesto produttivo aziendale -
Configurabilità.
“Consona al caso di specie sarebbe quella
specifica variante del fenomeno Mobbing
conosciuta con Bossing…che ha la forma di
una vera e propria strategia aziendale volta
a ridurre il personale o eliminare
dipendenti “non graditi”: in tal caso sono i
quadri o i dirigenti ad agire.
A differenza del Mobbing, che non ha sempre
un’origine razionale, qui lo scopo è
perseguito con lucidità : indurre alle
dimissioni il dipendente eludendo così
eventuali problemi di origine sindacale e le
leggi sul licenziamento e ciò con i mezzi
più fantasiosi spesso sottili e disinvolti,
purché capaci di procurare intorno
all’interessato un’atmosfera di tensione
insostenibile mirando alla sua distruzione
psicologica, ad esempio affidandogli
mansioni dequalificanti” (Corte d'Appello-Lecce,
sentenza 10.08.2005 - link
a http://olympus.uniurb.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Ricostruzione del concetto di
mobbing e risarcimento.
Condotta molesta – decreto
legislativo n. 216/2003 – Nozione.
“Ai sensi e per gli effetti del decreto
legislativo n. 216/2003 (di attuazione della
direttiva comunitaria 200/78/CE per la
parità di trattamento in materia di
occupazione e di condizioni di lavoro), per
la prima volta il legislatore fornisce la
definizione di condotta molesta,
riconducendola a quel comportamento
indesiderato, avente lo scopo o l’effetto di
violare la dignità di una persona e ricreare
un clima di intimidazione, ostilità,
degrado, umiliazione ed offesa per la
vittima”.
Mobbing – Nozione –
Pluralità di condotte vessatorie –
Necessità.
“Le condotte che costituiscono il dato
materiale nel quale si realizza il mobbing
possono essere le più varie ma è
fondamentale che siano plurime in quanto un
solo comportamento, ad esempio il più
diffuso quale il demansionamento, non
provocherà mobbing anche perché tale figura
complessa non risulterà necessaria per
essere utilizzata dal soggetto che ha subito
dei danni essendo sufficiente il riferimento
al demansionamento, già adeguatamente
studiato dalla giurisprudenza del lavoro”
Mobbing – Nozione –
Finalità persecutoria delle azioni
contestate – Necessità.
“Ferma restando la necessità di una
definizione normativa, anche soltanto per
chiarire definitivamente la materia, …il
concetto di mobbing non si esaurisce in una
comodità lessicale ma contiene un valore
aggiunto perché consente di arrivare a
qualificare come tale e a sanzionare anche
quel complesso di situazioni che, valutate
singolarmente, potevano anche non contenere
elementi di illiceità, ma che, considerate
unitariamente ed in un contesto appunto
‘mobilizzante’, assumono un particolare
valore molesto ed una finalità persecutoria
che non sarebbe stato possibile apprezzare
senza il quadro d’insieme che il mobbing
consente di valutare”.
Mobbing – Concorrenza tra
responsabilità contrattuale ed
extracontrattuale – Sussiste – Conseguenze e
danni risarcibili.
“In caso di mobbing è ben possibile la
concorrenza tra responsabilità contrattuale
ed extracontrattuale, posto che, da un lato,
qualsiasi azione ingiusta potenzialmente è
in grado di generare una responsabilità
extracontrattuale, a condizione che ci sia
dolo o colpa in chi la commette, ed un
conseguente danno; dall’altro, non è escluso
a priori che l’azione ingiusta non sia
realizzata in un contesto contrattuale, cioè
nell’ambito di un rapporto tra parti legate
da vincolo contrattuale: in tal caso
l’azione ingiusta realizzata da un
contraente determinerà anche una
responsabilità contrattuale.
Nel primo caso, la regola (art. 2043 cod.
civ. e seguenti) non rispettata potrà
determinare potenziali danni sia
patrimoniali che non patrimoniali, alla luce
del disposto dell’art. 2059 cod. civ.
recentemente rivitalizzato dalle sentenze
della Corte di cassazione e della Coste
costituzionale del 2003 sul tema; nel
secondo caso (art. 1218 cod. civ., alla luce
dell’art. 1321 cod. civ. e seguenti)
esclusivamente danni patrimoniali.
Peraltro la coesistenza tra il profilo di
responsabilità extracontrattuale e
contrattuale costituirà un vantaggio per il
danneggiato, in quanto il mancato rispetto
della regola contrattuale (ad esempio l’art.
2087 cod. civ. per il lavoro) potrà
costituire il profilo di colpa richiesto per
la realizzazione della fattispecie ex art.
2043 cod. civ. e, conseguentemente,
esonerare dalla ricerca dell’elemento
psicologico. Sarà, dunque, sempre utile
rilevare, ove sussistente, la presenza del
doppio profilo di responsabilità.
…Nelle situazioni di lesione dei diritti
fondamentali del lavoratore si viene
immancabilmente a provocare un danno allo
stesso. Ci potrà essere un danno alla salute
… ed allora interverrà anche la categoria
del danno biologico; potrà esserci un danno
patrimoniale, con il conseguente
risarcimento; nelle ipotesi riconducibili a
reato potrà intervenire anche la categoria
del danno morale soggettivo ex art. 185 cod.
pen.; tutte queste categorie sono, per
altro, soltanto eventuali ma sempre ed
immancabilmente la lesione dei diritti
fondamentali del lavoratore produrranno un
danno di altra categoria che definire
esistenziale appare assolutamente opportuno
…
In ipotesi di mobbing, il lavoratore potrà
richiedere oltre al danno biologico, anche
il danno esistenziale, consistente nelle
ferite inferte alla sfera di autostima ed
eterostima in ambito lavorativo ed alla sua
immagine professionale, che ne è uscita
ridimensionata senza sua colpa, a seguito
della condotta vessatoria subita”
(TRIBUNALE di Forlì,
sentenza 28.01.2005 n. 28 - link
a http://olympus.uniurb.it). |
anno 2002 |
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PUBBLICO IMPIEGO:
Datore di lavoro – Poteri -
Declassamento professionale dei lavoratori
per ristrutturazione aziendale –
Indisponibilità – Confinamento in specifico
reparto – Condizione di totale inattività e
ambiente degradato – Reato di violenza
privata – Sussiste – Danni subiti dai
lavoratori - Risarcibilità.
La destinazione allo specifico reparto “non
altro era che un tassello della strategia
aziendale, utile al fine di attuare il
programma di ristrutturazione aziendale,
portato avanti in maniera spicciola ed
informale e che consentiva di collocare
fisicamente, in quello spazio, quei
dipendenti che non avessero accettato subito
la nuova situazione di esubero, venutasi a
creare, ed il conseguente declassamento loro
proposto.
Per cui la funzione intimidatrice che essa
aveva, non era tanto e solo ricollegabile
all'idea di un luogo dove non si lavorava,
dove concetti quali mansioni e
professionalità certo non potevano
albergare, ma era anche simbolica, in quanto
rappresentava l'allontanamento traumatico
dal mondo del lavoro, il precipitare di una
situazione lavorativa sino ad allora
normale, la possibile anticamera del
licenziamento, la fine di ogni possibilità
di continuare a fare ciò per il quale si era
stati assunti” (TRIBUNALE di Taranto,
Sez. II,
sentenza 07.03.2002 n. 742
- link a http://olympus.uniurb.it). |
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