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69-LICENZA EDILIZIA (necessità)
70-LOTTO EDIFICABILE - ASSERVIMENTO AREA - CESSIONE CUBATURA
71-LOTTO INTERCLUSO
72-MAPPE e/o SCHEDE CATASTALI (valore probatorio o meno)
73-MOBBING
74-MURO DI CINTA/RECINZIONE, DI CONTENIMENTO/SOSTEGNO, ECC.
75-OPERE PRECARIE
76-PARERE DI REGOLARITA' TECNICA, CONTABILE E DI LEGITTIMITA'
77-PATRIMONIO
78-PERGOLATO e/o GAZEBO e/o BERCEAU e/o DEHORS e/o POMPEIANA e/o PERGOTENDA e/o TETTOIA
79-PERMESSO DI COSTRUIRE (annullamento e/o impugnazione)
80-PERMESSO DI COSTRUIRE (decadenza)
81-PERMESSO DI COSTRUIRE (deroga)
82-PERMESSO DI COSTRUIRE (legittimazione richiesta titolo)
83-PERMESSO DI COSTRUIRE (parere commissione edilizia)
84-PERMESSO DI COSTRUIRE (prescrizioni)
85-PERMESSO DI COSTRUIRE (proroga)
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87
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PERMESSO DI COSTRUIRE (volturazione)
88-
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89-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI
90-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI (aree a standard)
91-PIF (Piano Indirizzo Forestale)
92-PISCINE
93-PUBBLICO IMPIEGO
94-PUBBLICO IMPIEGO (quota annuale iscrizione ordine professionale)
95-RIFIUTI E BONIFICHE
96-
RINNOVO/PROROGA CONTRATTI
97-RUDERI
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dossier PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI (aree a standard E standard qualitativo)
ANNO 2022

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Standard edilizi, al vaglio di costituzionalità la deroga «senza limiti» introdotta dal decreto "Fare".
Il Consiglio di Stato rimette alla Consulta l'articolo 2-bis del testo unico edilizia introdotto dal Dl n. 69/2013.
Al vaglio di costituzionalità la possibilità di disapplicare le norme del decreto ministeriale 1444 sugli standard, in seguito alla norma prevista del decreto legge n. 69 del 2013 (cosiddetto decreto "fare") che ha aggiunto l'articolo 2-bis al testo unico edilizia.

Lo ha deciso la IV Sez. del Consiglio di Stato con l'ordinanza 17.03.2022 n. 1949 di rimessione alla Consulta.
La norma innovativa del Testo unico è stata concepita con l'obiettivo di superare la rigida applicazione degli standard edilizi -incluso il rispetto delle distanze minime tra gli edifici- che rappresentano una necessaria tutela nei contesti urbani di espansione edilizia ma allo stesso tempo un forte vincolo in quelli in cui si interviene sul costruito.
All'epoca, il governo Letta ha voluto dare una risposta alle pressanti sollecitazioni degli operatori varando il decreto legge "fare" con molte altre norme di snellimento procedurale e normativo, sia in materia di amministrazione pubblica/urbanistica, sia in materia di gare e lavori pubblici.
Nel corposo e variegato Dl n. 69/2013, approvato nel giugno 2013, ha trovato spazio anche il nuovo articolo 2-bis inserito nel Dpr 380/2001, secondo il quale «ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali».
Il punto controverso
Il punto controverso -va sottolineato- non è quello del rispetto dei limiti minimi sulle distanze, sul quale la Corte Costituzionale si è già pronunciata confermando l'obbligo di rispettare i principi statali, riconosciuti come «inderogabili in quanto afferenti alla materia dell'ordinamento civile», e in quanto tali di esclusiva competenza statale.
In questo caso, la questione controversa resta nell'ambito del governo del territorio, materia di legislazione concorrente, che dà potere di legiferare alla Regione, nel rispetto delle norme di principio fissate dallo Stato. La Lombardia è tra le regioni che ha previsto la disapplicazione della dotazione di standard indicata nel Dm 1444 (salvo, come detto, per quanto riguarda i limiti sulle distanze), con una norma inserita nella legge regionale 12/2005 (articolo 103, comma 1-bis).
Il caso oggetto del contenzioso ha messo in evidenza quello che, visto dalla prospettiva dei giudici, è apparso una sorta di vulnus, tale da mettere la norma statale a rischio di anticostituzionalità.
Il "vulnus" che apre al rischio di incostituzionalità
Il motivo, spiegano i giudici della Quarta Sezione di Palazzo Spada, è che la norma introdotta nel 2013, «intervenendo in materia di competenza concorrente senza porre alcun confine di principio al potere di deroga attribuito a tutte le regioni rispetto alle preesistenti norme statali, senza assolvere alla funzione propria attribuita dalla Costituzione allo Stato di individuare i principi, così rendendo certamente possibili legislazioni regionali molto diverse tra di loro, contrasterebbe con l'art. 117, terzo comma» della Costituzione.
La disapplicazione degli standard, come operata dalla regione Lombardia, lascia infatti aperta la possibilità di prevedere un diverso valore degli standard sia inferiore ai limiti del Dm 1444, sia superiore. Di fatto, questo si traduce nella possibilità di «poter arrivare ad annullarne la previsione, in violazione dell'articolo 117, secondo comma, lett. m), della Costituzione sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale».
Nel caso specifico, relativo a quello di un comune della Lombardia, l'appellante ha prospettato due possibilità in egual misura paradossali, in quanto il comune potrebbe in teoria ridurre lo standard all'1%, violando il precetto della buona amministrazione, sia, all'opposto, imporre uno standard del 99%, «determinando una situazione para-espropriativa».
Si torna alla legge del 1942
La prospettiva di una tale deregulation -cui corrisponde una potenziale evidente difformità di trattamento sul territorio- spinge il ragionamento dei giudici a tornare alla norma statale di riferimento, cioè la legge urbanistica del '42.
«Può dunque ritenersi -si legge nell'ordinanza al punto 9.3- posto che nella materia del governo del territorio le leggi regionali debbano rispettare le norme di principio della legislazione statale, che il nono comma dell'articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942 esprima l'esigenza che le dotazioni di spazi pubblici, infrastrutture, servizi etc. rispondano a criteri di definizione omogenei su tutto il territorio nazionale, non essendo costituzionalmente ammissibile che possano esservi discrasie anche vistose tra Regione e Regione, in virtù dei diversi rapporti e parametri liberamente individuabili dalle diverse legislazioni regionali».
È pertanto inaccettabile -prosegue il ragionamento dei giudici- che la modifica introdotta nel Testo Unico cancelli la «necessità di assicurare una quota minima di infrastrutture e aree per servizi pubblici che sia la stessa sull'intero territorio nazionale».
Lo stato fissi i limiti, alle regioni la scelta di rafforzarli
L'ordinanza conclude richiamando l'importanza del ruolo del legislatore nazionale.
«In definitiva -si legge al punto 10.1 dell'ordinanza- pur in un quadro costituzionale e legislativo caratterizzato dai principi di sussidiarietà verticale e di prossimità territoriale, in ragione dei quali la regolazione dell'assetto del territorio è rimessa quanto più possibile ai livelli di governo più vicini alle comunità di riferimento, deve ritenersi che la determinazione delle dotazioni infrastrutturali pubbliche o di interesse generale resti riservata al legislatore statale, in quanto ragionevolmente riconducibile all'ambito delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali; in tale prospettiva, al legislatore statale spetta non soltanto individuare i principi fondamentali della materia, sibbene fissare i livelli minimi delle predette prestazioni, rispetto ai quali le normative regionali potrebbero intervenire esclusivamente in senso "rafforzativo"».
«Ciò peraltro -ci tengono a chiarire i giudici- non comporta la totale obliterazione delle competenze legislative regionali, atteso che altro è la determinazione di livelli essenziali (minimi), altro la regolamentazione, tanto in termini quantitativi che qualitativi, delle dotazioni di standard, rispetto alla quale ultima –una volta garantito il rispetto della normativa statale vigente– la competenza regionale (che dovrebbe comunque ritenersi, ratione materiae, comunque di tipo concorrente) potrebbe tornare in gioco».
Le conseguenze dell'incostituzionalità
Cosa succede se la Corte Costituzionale dovesse dichiarare incostituzionale l'articolo 2-bis del 380?
Nel caso specifico l'illegittimità costituzionale travolgerebbe inevitabilmente anche la norma della regione Lombardia (e cioè l'articolo 103, comma 1-bis, della legge 12/2005): «la disposizione -si legge nell'ordinanza- andrebbe a sua volta dichiarata incostituzionale in via consequenziale». La parola passa alla Consulta (articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 18.03.2022).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAAlla Corte costituzionale le deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati.
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Edilizia - Distanze – D.M. n. 1444 del 1968 - livelli essenziali delle prestazioni – Deroghe delle Regioni – Art. 2-bis, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001 – Questione di legittimità costituzionale.
Sono rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale relative:
   a) all’art. 2-bis, comma 1, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, come introdotto dal d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla l. 09.08.2013, n. 98, per violazione degli artt. 3 e 117, terzo comma, Cost.;
   b) all’art. 2-bis, comma 1, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, come introdotto dal d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla l. 09.08.2013, n. 98, per violazione dell’art. 117, terzo comma, lettere m) ed s), Cost.;
   c) all’art. 103, comma 1-bis, l.reg. Lombardia 11.03.2005, n. 12, come introdotto dalla l.reg. 14.03.2008, n. 4, e successivamente modificato dalla l.reg. 26.11.2019, n. 18, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere m) ed s), e terzo comma, Cost. (1).

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   (1) La questione di legittimità costituzionale sollevata dall’appellante riposa sul presupposto per cui l’art. 2-bis, comma 1, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 autorizzerebbe le Regioni ad emanare una legislazione derogatoria rispetto al d.m. n. 1444 del 1968 in materia di dotazione delle aree a standard fino a poter arrivare ad annullarne la previsione, in violazione dell’art. 117, secondo comma, lett. m), della Costituzione sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
La Sezione ha esaminato la possibilità di una lettura costituzionalmente orientata della norma statale, tale da far venir meno il dovere di rimessione della questione alla Corte costituzionale. Una prima possibile interpretazione poggia sul rilievo che le regole cogenti del d.m. n. 1444 del 1968 si riespanderebbero in caso di mancato esercizio da parte delle Regioni della facoltà di deroga riconosciuta dall’articolo 2-bis; una seconda interpretazione prospetta la possibilità di interpretare la norma nel senso di far salvi in ogni caso i limiti inderogabili stabiliti dal d.m.
Tuttavia, di queste due letture la prima non è idonea a far venir meno la possibile illegittimità costituzionale della disposizione: il fatto che la “cedevolezza” delle previsioni del d.m. sia solo potenziale, dipendendo dal concreto esercizio da parte delle Regioni della facoltà di deroga, non fa venir meno il vulnus a quella che dovrebbe essere, in thesi, la loro inderogabilità da parte del legislatore regionale.
Quanto alla seconda ipotesi, questa si risolve –in sostanza- nel far dire alla norma regionale qualcosa che la stessa espressamente non afferma, sulla base di un’argomentazione ermeneutica “additiva” che non trova aggancio nel dato testuale. Peraltro, malgrado un dubbio interpretativo possa forse essere ingenerato dal successivo comma 1-bis dell’articolo in esame, introdotto dal più recente d.l. 18.04.2019, n. 32, convertito, con modificazioni, dalla legge 14.06.2019, n. 55, secondo cui le disposizioni del comma 1 “sono finalizzate a orientare i comuni nella definizione di limiti di densità edilizia, altezza e distanza dei fabbricati negli ambiti urbani consolidati del proprio territorio”, il tenore testuale del comma 1 rimane inequivoco nel ricollegare il potere di deroga al d.m. n. 1444/1968 alla possibilità riconosciuta alle Regioni e alle Province autonome di “dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”.
Pertanto, nonostante il quanto mai infelice e poco perspicuo dato testuale, non sembra dubitabile che la finalità della previsione sia quella di autorizzare una deroga a tutti i parametri e criteri contenuti nel d.m. n. 1444/1968, e non solo a taluni di essi (ciò che peraltro è confermato dai plurimi interventi legislativi, come quello qui all’attenzione, con cui le Regioni si sono avvalse di tale facoltà).
La Sezione ha ipotizzato che la norma statale di principio sia da rivenirsi nel già citato articolo 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942, introdotto dalla legge n. 765 del 1967, il quale –come è noto- costituisce la fonte di derivazione del d.m. n. 1444 del 1968, imponendo agli strumenti urbanistici generali il rispetto di parametri e limiti definiti espressamente “inderogabili”.
Ha ancora chiarito la Sezione che posto che nella materia del governo del territorio le leggi regionali debbano rispettare le norme di principio della legislazione statale, che il nono comma dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942 esprima l’esigenza che le dotazioni di spazi pubblici, infrastrutture, servizi etc. rispondano a criteri di definizione omogenei su tutto il territorio nazionale, non essendo costituzionalmente ammissibile che possano esservi discrasie anche vistose tra Regione e Regione, in virtù dei diversi rapporti e parametri liberamente individuabili dalle diverse legislazioni regionali.
Tale però sembra essere il risultato dell’applicazione dell’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380/2001, come inserito dal decreto-legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98, il quale, autorizzando le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano a “prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444”, produce l’effetto di “neutralizzare” il carattere cogente delle anzi dette disposizioni dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942 e delle disposizioni regolamentari che ne discendono. 9.4.
Tuttavia, anche a voler ritenere che con la novella del 2013 al T.U. dell’edilizia il legislatore statale abbia inteso perseguire una deliberata ratio di abrogazione implicita dei commi ottavo e nono dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942, tale operazione appare di dubbia compatibilità con il quadro costituzionale sopra delineato, in quanto si risolve in una sostanziale abdicazione dalla fissazione di parametri e criteri generali, cui pure il legislatore statale sarebbe chiamato in materia di competenza concorrente, in modo da consentire a ciascuna Regione di dettare regole autonome e disomogenee in materia di dimensionamento delle aree a destinazione residenziale, degli spazi pubblici, delle infrastrutture, del verde pubblico etc.
Ciò peraltro comporta effetti discriminatori, rilevanti sotto il profilo della violazione dell’articolo 3 della Costituzione, nella misura in cui, obliterando l’esigenza di fissazione di criteri omogenei e uniformi a suo tempo espressa dai commi ottavo e nono dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942, finisce per incidere sul regime proprietario dei suoli, che –come puntualmente dedotto dal Fallimento nel presente giudizio- risulta potenzialmente assoggettato a regole differenti nelle diverse Regioni pur in relazione ad aree avente identica destinazione urbanistica e ad interventi edilizi rientranti nella medesima tipologia. Sul possibile contrasto con l’articolo 117, comma secondo, lettere m) ed s), della Costituzione (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 17.03.2022 n. 1949 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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ORDINANZA
... per la riforma della sentenza 20.04.2020 n. 654 del Tar per la Lombardia, sede di Milano, sezione seconda.
...
La fase pregressa del giudizio.
1. La presente controversia concerne la disciplina urbanistica -prevista dal Piano di Governo del Territorio (d’ora in poi “PGT”) approvato dal Comune di Villasanta nel 2019– di un’ampia area di proprietà del Fallimento Lo.Pe. S.r.l., in liquidazione (d’ora in poi “Fallimento”), facente parte della porzione sud del territorio comunale, occupata da insediamenti produttivi dismessi o sottoutilizzati, tra i quali la raffineria di petrolio, per i quali il piano prevede la reindustrializzazione moderna, ampliata a funzioni “mixitè”, cioè a esercizi commerciali di vicinato, esercizi pubblici, artigianato e terziario.
1.1. Il Fallimento ha proposto appello, per le parti che lo hanno visto soccombente, avverso la sentenza del Tar per la Lombardia n. 654 del 20.04.2020, la quale:
   a) ha dichiarato inammissibile per carenza di interesse il ricorso proposto dal Fallimento stesso avverso la ridetta disciplina urbanistica, nella parte relativa all’impugnazione della determinazione provinciale n. 145 del 30.01.2019, contenente il parere della Provincia di Monza e Brianza;
   b) ha accolto parzialmente lo stesso ricorso, nella parte relativa all’impugnazione del PGT del Comune di Villasanta rispetto alle aree standard.
1.2. Il Comune si è costituito in giudizio per resistere all’appello ed ha proposto appello incidentale, con il quale ha criticato la statuizione del primo giudice che ha ritenuto illegittima, per difetto di motivazione, la previsione di uno standard pari al 55% della superficie del compendio, notevolmente superiore al limite minimo del 10%, individuato per le aree destinate ad insediamenti industriali o assimilati dall’articolo 5 del d.m. n. 1444 del 02.04.1968.
In particolare, e per quanto qui d’interesse, la tesi del Comune può così riassumersi:
   a) l’articolo 103, comma 1-bis, della legge regionale della Lombardia 11.03.2005, n. 12, salvo che per i limiti inderogabili sulle distanze, ha disposto la disapplicazione delle norme del d.m. n. 1444 del 1968 per i PGT adeguati alle disposizioni dell’articolo 26, commi 2 e 3, della stessa legge regionale;
   b) la disposizione è conforme al principio previsto dall’articolo 2-bis del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il quale accorda a leggi e regolamenti regionali la possibilità di derogare alle prescrizioni del suddetto d.m. n. 1444/1968, “con particolare riguardo a quelle in materia di spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi”, e dunque agli standards;
   c) il principio statale ha trovato applicazione nell’articolo 9, comma 3, della stessa legge regionale, il quale ha fissato il limite minimo della dotazione standard per la zona destinata a “residenza” a 18 mq per abitante, rinviando alla pianificazione locale la determinazione per le altre destinazioni funzionali;
   d) nell’articolo 9, la riserva di atto amministrativo è ancorata a tre elementi essenziali, costituiti dalla qualità delle attrezzature insediate e da insediare, alla loro fruibilità e accessibilità;
   e) il PGT, pertanto –fatta salva la misura minima stabilita per la destinazione a residenza– è autonomo nello stabilire il fabbisogno della dotazione di standard senza dover partire dai minimi previsti nel d.m. n. 1444/1968.
1.3. Il Fallimento ha criticato la tesi suesposta, mettendo in rilievo fra l’altro:
   a) che la “disapplicazione” del d.m. n. 1444/1968 per effetto dell’articolo 103 della l.r. cit. comporterebbe la conseguenza di affidare a ciascun singolo PGT dei Comuni adeguatisi alle disposizioni dell’articolo 26 della stessa l.r. la definizione della quantità di standard applicabile per le zone diverse da quella residenziale, senza nemmeno un parametro di riferimento stabilito a livello regionale;
   b) che tale interpretazione contrasterebbe con l’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001, poiché l’attribuzione alle Regioni del potere di regolamentare la materia degli standards in modo difforme dal d.m. cit. non può essere interpretata come totale liberalizzazione (in eccesso e in riduzione) delle regole affidate all’arbitrio di ogni singola amministrazione comunale, perché contrasterebbe con il rispetto degli articoli 7, 10, 13 e dell’articolo 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150, introdotto dall’articolo 17 della legge 06.08.1967, n. 765, in tema di piani urbanistici generali e di piani particolareggiati, che rendono obbligatoria la fissazione di standards, di limiti e parametri inderogabili per l’edificazione applicabili in sede di pianificazione urbanistica, disposizione che ha legittimato l’emanazione del d.m. in argomento;
      b1) che, invece, l’articolo 2-bis perseguirebbe l’obiettivo di consentire alle Regioni di fissare limiti diversi rispetto a quelli del d.m. per orientare le scelte pianificatorie comunali, con la conseguenza di rendere possibile la limitata modifica dei parametri generali previsti dal d.m. medesimo.
Infine, per l’ipotesi che fosse ritenuta corretta la tesi del Comune e non percorribile una interpretazione adeguatrice delle norme vigenti, il Fallimento ha chiesto al Collegio di scrutinare la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli articoli 26 e 103, comma 1-bis, della citata l.r. n. 12 del 2005 per contrasto con gli articoli 3, 24, 41, 42, 97, 113 e 117 della Costituzione, in relazione ai principi fondamentali dettati dagli articoli 7, 10, 13 e 41-quinquies della l. n. 1150 del 1942, in quanto si determinerebbe:
   - il differente trattamento di cittadini che realizzino lo stesso intervento edilizio in Comuni differenti (articolo 3 Cost.);
   - la limitazione al diritto di difesa, in assenza di un parametro legislativo e regolamentare su cui pre-definire il livello di ragionevolezza della scelta pianificatoria assunta in tema di standards (articoli 24 e 113 Cost.);
   - la lesione del diritto di proprietà e del diritto di impresa, potendo il Comune prevedere uno standard del 99%, non incontrando limiti nel massimo, così determinando una situazione para-espropriativa (articoli 41 e 42 Cost.);
   - la violazione del precetto di buon andamento della pubblica amministrazione, non essendo previsti limiti nel minimo, con la conseguenza che il Comune potrebbe ridurre gli standards dovuti al 1% dell’estensione territoriale e consentire l’edificazione su tutto il resto, con enorme carico urbanistico non accompagnato dalle necessarie dotazioni di servizi, nonostante vi sia obbligo di rispettare l’art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1942 (articolo 97 Cost.);
   - la violazione dell’articolo 117, terzo comma, Cost., in relazione ai principi generali dettati dalla l. n. 1150 del 1942 e dalla l. n. 765 del 1967, dei quali il d.m. n. 1444/1968 costituisce mera attuazione, tanto che viene definito come regolamento legislativo, oltre che degli articoli 9 e 10 della l. n. 62 del 1953, nella parte in cui obbligano a definire limiti inderogabili di edificazioni e di standards che le citate norme regionali hanno impropriamente abrogato, tenendo anche presente che la “disapplicazione” da parte regionale di norme statali può avvenire solo per le c.d. “norme cedevoli” regolamentari (il d.m. n. 1444/1968 è, per consolidata giurisprudenza, norma solo formalmente regolamentare con valenza legislativa in quanto attua in modo necessitato ed ineludibile norme di legge inderogabili) in quanto l’urbanistica è materia concorrente, ma non può avvenire in riguardo a norme di legge statale, specie se fissino principi fondamentali delle materia, anche riferibili a norme statali di principio già previgenti, soprattutto con riferimento alle disposizioni del d.m. n. 1444/1968, le quali sono considerate munite di efficacia precettiva inderogabile, anche in relazione agli obiettivi citati dall’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001, essendo evidente la violazione dell’articolo 117, secondo comma, Cost. anche in relazione alla c.d. determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni in cui la dotazione di standards urbanistici rientra e –più in generale– con riferimento alla competenza esclusiva statale in tema di proprietà privata.
2. Con sentenza non definitiva 20.05.2021 n. 3912, questa Sezione:
   a) ha respinto l’appello principale;
   b) ha disposto l’estromissione della Provincia di Monza e della Brianza dal giudizio;
   c) ha compensato integralmente tra le parti le spese del doppio grado di giudizio nei confronti della Provincia;
   d) ha riservato al definitivo ogni decisione sull’appello incidentale e sulle spese;
   e) ha disposto la prosecuzione del giudizio per la decisione dell’appello incidentale e ha demandato al Presidente della Sezione la fissazione dell’udienza di trattazione in esito al deposito delle memorie delle parti.
2.1. In particolare, la sentenza sopra indicata ha riservato la decisione sui possibili profili di incostituzionalità, che sono stati analiticamente enucleati ai punti 15 e 16 e che sono stati sinteticamente individuati al punto 17, all’esito delle interlocuzioni con le parti.
Giova citare testualmente i sopraindicati passaggi della sentenza:
   “15. La questione di costituzionalità prospettata dal Fallimento può così sintetizzarsi:
Se sia o meno non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 103, comma 1-bis, in combinato disposto con gli artt. 9 (implicitamente dedotto) e 26, della l.r. n. 12 del 2005, in riferimento all’art. 117, terzo comma Cost., stante la competenza concorrente dello Stato in materia di “governo del territorio”, all’art. 117, secondo comma, lett. m), Cost., stante la legislazione esclusiva statale nella “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”, nonché in riferimento ad altri valori tutelati dalla Costituzione, quali il differente trattamento di cittadini che realizzino lo stesso intervento edilizio in Comuni differenti (art. 3 Cost.), il diritto di proprietà (art. 24 Cost.), il buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) e il diritto di difesa (art. 24 Cost.); posto che la legge regionale (art. 103, comma 1-bis) -in sede di adeguamento degli strumenti urbanistici (art. 26)- prevede che non si applicano tutte le disposizioni del d.m. del 1968 diverse da quelle attinenti alle distanze tra fabbricati, le quali sono derogabili a determinate condizioni, e demanda al “Piano dei servizi”, adottato dal Comune in collegamento con il “Documento di piano” (artt. 8 e 9), l’individuazione, previa determinazione del numero degli utenti sulla base di criteri predefiniti, della dotazione globale di aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico generale, la dotazione di verde, i corridoi ecologici e il sistema di verde di connessione tra territorio rurale ed edificato, la viabilità, stabilisce solamente una dotazione minima (art. 9, comma 3), pari a diciotto metri quadrati per abitante, di aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale per le zone residenziali; in tal modo violando i principi fondamentali della legislazione statale, che impongono in tutti i Comuni l’osservanza di “rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti (residenziali) e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi” (art. 41-quinques, commi 8 e 9, l. n. 1150 del 1942), come specificati dalle disposizioni del d.m. del 1968, più volte ritenuto dotato di efficacia precettiva e inderogabile in quanto attuativo del suddetto art. 41-quinquies (art. 117, terzo comma); violando altresì, la competenza esclusiva statale in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (117, secondo comma) e il buon andamento dell’amministrazione (art. 97), rimettendo alla regolamentazione comunale anche l’individuazione dei rapporti minimi di aree standard in zone diverse da quelle residenziali; nonché il diritto di impresa e il diritto di proprietà (artt. 41 e 42), rimettendo alla regolamentazione comunale anche l’individuazione dei rapporti massimi di aree standard; nonché finanche il diritto di difesa dinanzi al giudice (art. 24 e 113) in assenza di un parametro legislativo di riferimento per il sindacato di ragionevolezza della scelta del singolo Comune.
   15.1. Può aggiungersi che il presupposto interpretativo assunto dal Fallimento posto alla base della richiesta principale di rigetto dell’appello incidentale, è che l’art. 2-bis cit. consenta solo alla legislazione regionale, e non anche alla regolamentazione urbanistica comunale, deroghe ai principi stabiliti dalla legislazione statale, e che, in mancanza delle deroghe previste dalla legge regionale -come nella fattispecie dove la legislazione regionale disciplina solo il minimo degli standards nelle zone residenziali (peraltro in maniera parziale e individuando la dotazione minima nella stessa percentuale prevista dall’art. 3 del d.m. del 1968)– per le aree non disciplinate dalla legislazione regionale continuano ad applicarsi i principi statali dell’art. 41-quinquies, l. n. 1150 del 1942, come specificati dal d.m. del 1968, con conseguente possibilità di sindacato sulla motivazione dei piani comunali quando si discostano notevolmente dalla percentuale minima statale.
   16. Il profilo dell’interpretazione del suddetto art. 2-bis all’interno del sistema dei principi vincolanti per la legislazione regionale individuati, dall’art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1942, come specificati dal d.m. del 1968.
L’art. 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 consente solo alle Regioni di prevedere disposizioni derogatorie al d.m. del 1968 in materia di standard, “nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”. Trattandosi di deroghe a principi della legislazione statale vincolanti sul territorio nazionale ai sensi dell’art. 117, terzo comma, in mancanza, totale o parziale, dell’esercizio di tale potere di deroga da parte delle Regioni potrebbe inferirsi che si riespande l’applicazione dei principi statali dell’art. 41-quinquies, commi 8 e 9, l. n. 1150 del 1942, come specificati dal d.m. n. 1444 del 1968, secondo lo stesso presupposto interpretativo assunto dal Fallimento.
   16.1. Tuttavia, la possibile sostenibilità di tale interpretazione costituzionalmente orientata, secondo il Collegio non consente, nella fattispecie, di sottrarsi alla valutazione della non manifesta infondatezza della possibile questione di legittimità costituzionale delle norme regionali, eccepita dal Fallimento.
   16.1.1. La ragione si rinviene nella peculiare “costruzione” dell’art. 103, comma 1-bis, in uno con un esercizio del potere regionale di emanare norme derogatorie che potremmo definire “estremo” per difetto.
Infatti, da un lato l’art. 103, comma 1-bis, dispone la generale non applicabilità del d.m. del 1968 (con l’eccezione disciplinata della materia delle distanze, che nella causa non viene in rilievo); dall’altro, la Regione esercita il potere di legiferare riconosciutole dall’art. 2-bis al minimo, e cioè prevedendo solo (art. 9, comma 3) la dotazione minima di standards per le aree residenziali; per di più, riproducendo la misura minima già individuata dall’art. 3, primo comma, del d.m. del 1968 e, quindi, intendendo non applicabili, secondo la previsione generale dell’art. 103, anche le altre disposizioni nella stessa materia, previste dai successivi commi dell’art. 3 e dall’art. 4, primo e secondo comma.
   16.1.2. In definitiva, si potrebbe dire che le norme regionali che derivano il loro fondamento nell’art. 2-bis integrino una “forma apparente” di esercizio del potere conferito alla Regione dall’art. 2-bis.
   16.3. D’altro canto, proprio la possibile questione di legittimità costituzionale ipotizzabile a parere del Collegio in riferimento allo stesso art. 2-bis, conduce pure nella direzione di escludere la soluzione della interpretazione costituzionalmente orientata dello stesso articolo, sostenuta dal Fallimento.
17. Il profilo della compatibilità costituzionale del suddetto art. 2-bis, rispetto alla competenza concorrente delle regioni in materia di “governo del territorio” in riferimento alla regolamentazione delle aree standards.
Ritiene il Collegio che sia percorribile la tesi secondo cui la nuova disposizione statale introdotta nel 2013, intervenendo in materia di competenza concorrente senza porre alcun confine di principio al potere di deroga attribuito a tutte le regioni rispetto alle preesistenti norme statali, senza assolvere alla funzione propria attribuita dalla Costituzione allo Stato di individuare i principi, così rendendo certamente possibili legislazioni regionali molto diverse tra di loro, contrasterebbe con l’art. 117, terzo comma, Cost.
   17.1. Inoltre, andrebbe esplorato anche un altro possibile profilo di legittimità costituzionale, rispetto all’art. 117, secondo comma Cost. attinente alle materie di competenza esclusiva dello Stato.
Si tratta di valori costituzionali che, come evidenziato anche dal Fallimento nella prospettazione della questione di costituzionalità, sono oramai strettamente correlati alla materia del “governo del territorio”, quali la materia attinente alla “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” [117, secondo comma, lett. m)], quella della “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” [art. 117, secondo comma, lett. s)], nonché il diritto di impresa e il diritto di proprietà (artt. 41 e 42 Cost.). Correlazione tanto più evidente negli anni Duemila, come si è sviluppata nel corso del tempo nella giurisprudenza della Corte costituzionale ed eurounitaria, rispetto ad epoche ormai lontane, quali gli anni Quaranta e Sessanta del secolo scorso ai quali risale la legislazione nazionale di principio di nostro interesse
”.
2.2. Inoltre, a delimitare la questione di legittimità costituzionale ai fini della disamina della sua rilevanza e non manifesta infondatezza, si richiama un altro paragrafo della sentenza non definitiva nel quale si è rilevato che:
13. L’esistenza nell’ordinamento statale dell’art. 2-bis cit., oltre che dell’art. 41-quinquies, l. n. 1150 del 1942 e del d.m. del 1968, pone all’attenzione del Collegio il preliminare profilo dell’interpretazione del suddetto art. 2-bis all’interno del sistema dei principi vincolanti per la legislazione regionale, individuati dall’art. 41-quinquies, commi 8 e 9, della l. n. 1150 del 1942, come specificati dal d.m. del 1968, e della sua compatibilità costituzionale rispetto alla competenza concorrente delle Regioni in materia di “governo del territorio”, posto che se fosse ipotizzabile la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2-bis per violazione dell’art. 117, terzo e secondo comma, la stessa sarebbe logicamente preliminare alla illegittimità prospettata dal Fallimento rispetto alle norme regionali, venendo meno –nel caso di ipotetico accoglimento– la base normativa statale che consente di emanare disposizioni regionali derogatorie ai principi già presenti nella legislazione statale.
13.1. Preliminarmente, deve precisarsi che dalla fattispecie in esame derivano i confini della rilevanza della possibile questione di costituzionalità, dovendosi escludere ogni profilo attinente alle deroghe in materia di limiti di distanze tra fabbricati, sui quali la Corte costituzionale è più volte intervenuta.
La fattispecie in esame è incentrata, infatti, unicamente sulle possibili deroghe, da parte della legislazione regionale, al d.m. del 1968 in materia di “spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi”, e dunque agli standards, “nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”. Materia che, a prescindere dalla mancata ricomprensione nel titolo dell’articolo, è indubbiamente disciplinata dall’art. 2-bis
”.
3. A seguito della sentenza non definitiva e della richiesta di interlocuzione sui possibili profili di compatibilità costituzionale, le parti hanno depositato memorie, rispettivamente il Fallimento in data 16.07.2021 e il Comune di Villasanta in data 19.07.2021.
3.1. Entrambe le parti hanno, quindi, depositato istanze di passaggio in decisione senza discussione della causa.
4. Alla pubblica udienza del 28.10.2021 la causa è stata trattenuta in decisione.
5. Delimitato dunque il thema decidendum ai profili di rilevanza e di non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 e dell’articolo 103 della legge regionale n. 12 del 2005 della Regione Lombardia sopra individuate, la Sezione ritiene di dover sottoporre alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale della precitata norma statale, e in via consequenziale della norma regionale.
Sulla rilevanza della questione relativa all’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 e, in particolare, al suo comma 1, con i quali è consentita la deroga a livello regionale dei parametri di cui al d.m. n. 1444/1968.
6. La questione di legittimità costituzionale sollevata dall’appellante riposa sul presupposto per cui l’articolo 2-bis, d.P.R. cit. autorizzerebbe le Regioni ad emanare una legislazione derogatoria rispetto al d.m. n. 1444 del 1968 in materia di dotazione delle aree a standard fino a poter arrivare ad annullarne la previsione, in violazione dell’articolo 117, secondo comma, lett. m), della Costituzione sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
6.1. Ad avviso della Sezione la questione, nel caso in esame, presenta il requisito della rilevanza come argomentato dall’appellante principale.
Infatti, diversamente da quanto in contrario eccepito dal Comune di Villasanta, le disposizioni regionali applicate al caso in esame hanno consentito, proprio in applicazione dell’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001, di adottare la disciplina urbanistica applicabile al contesto di proprietà del Fallimento con un sovradimensionamento degli standards per la destinazione produttiva attribuita al comparto al di sopra di quanto previsto dall’articolo 5 dello stesso d.m.
Il citato d.m. è parzialmente disapplicato nella Regione Lombardia sulla base dell’articolo 103, comma 1-bis, lett. a), della legge regionale n. 12 del 2005, per cui la materia degli standards è interamente disciplinata, in ambito regionale, dall’articolo 9 che prevede limiti minimi e non massimi soltanto per le zone residenziali e lascia alla programmazione urbanistica di competenza comunale la scelta della previsione di limiti minimi e massimi per tutte le altre destinazioni. Pertanto –ciò che rileva sotto il profilo della rilevanza– in caso di declaratoria della incostituzionalità dell’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 verrebbe a mancare il presupposto sul quale poggia la disposizione regionale (a sua volta incostituzionale in via derivata) e sarebbe di nuovo applicabile il d.m. n. 1444 del 1968 con i limiti ivi indicati per gli standards.
La questione di costituzionalità dell’articolo 2-bis appare, quindi, rilevante per la definizione del giudizio poiché in caso di suo annullamento verrebbe meno il presupposto sul quale poggiano le disposizioni del PGT comunale oggetto del contenzioso.
Non può, d’altro canto, trovare spazio l’argomento del Comune, secondo cui la questione di costituzionalità sarebbe irrilevante poiché il d.m. n. 1444 del 1968 non fissa limiti massimi per la dotazione di standards ma solo limiti minimi, per cui, nel caso in esame, vertendosi in tema di sovradimensionamento degli standards, non vi sarebbe una violazione bensì una deroga generalizzata autorizzata ai sensi dell’articolo 2-bis.
La tesi testé esposta conduce, infatti, alla impossibilità per il giudice di sindacare, in base ai parametri di legittimità, di ragionevolezza e di proporzionalità, le scelte effettuate dall’Amministrazione nell’ambito della pianificazione urbanistica, essendo venuto meno, per il tramite del meccanismo di deroga di cui all’articolo 2-bis, anche il limite minimo nella fissazione degli standard.
Nel caso in esame la questione di costituzionalità è pertanto rilevante poiché l’appellante è stato sottoposto ad una cessione di aree a standard sulla base delle norme del PGT che trovano la loro fonte legittimante nella legge regionale, a sua volta “autorizzata” a stabilire deroghe dall’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001.
Sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380/2001.
7. Tanto premesso, va innanzi tutto esaminata la possibilità di una lettura costituzionalmente orientata della norma statale, tale da far venir meno il dovere di rimessione della questione alla Corte costituzionale.
Una prima possibile interpretazione del genere è stata adombrata, in termini dubitativi e da definirsi a seguito della interlocuzione delle parti, nella stessa precedente sentenza parziale (§§ 16 e 16.1), laddove si sottolinea come, in ogni caso, le regole cogenti del d.m. n. 1444 del 1968 si riespanderebbero in caso di mancato esercizio da parte delle Regioni della facoltà di deroga riconosciuta dall’articolo 2-bis; una seconda è ipotizzata dal Comune, il quale prospetta la possibilità di interpretare la norma nel senso di far salvi in ogni caso i limiti inderogabili stabiliti dal d.m. (pag. 5 della memoria del 12.07.2021).
Tuttavia, di queste due letture la prima non è idonea a far venir meno la possibile illegittimità costituzionale della disposizione: il fatto che la “cedevolezza” delle previsioni del d.m. sia solo potenziale, dipendendo dal concreto esercizio dal parte delle Regioni della facoltà di deroga, non fa venir meno il vulnus a quella che dovrebbe essere, in thesi, la loro inderogabilità da parte del legislatore regionale.
Quanto alla seconda ipotesi, questa si risolve –in sostanza- nel far dire alla norma regionale qualcosa che la stessa espressamente non afferma, sulla base di un’argomentazione ermeneutica “additiva” che non trova aggancio nel dato testuale.
Peraltro, malgrado un dubbio interpretativo possa forse essere ingenerato dal successivo comma 1-bis dell’articolo in esame, introdotto dal più recente d.l. 18.04.2019, n. 32, convertito, con modificazioni, dalla legge 14.06.2019, n. 55, secondo cui le disposizioni del comma 1 “sono finalizzate a orientare i comuni nella definizione di limiti di densità edilizia, altezza e distanza dei fabbricati negli ambiti urbani consolidati del proprio territorio”, il tenore testuale del comma 1 rimane inequivoco nel ricollegare il potere di deroga al d.m. n. 1444/1968 alla possibilità riconosciuta alle Regioni e alle Province autonome di “dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”.
Pertanto, nonostante il quanto mai infelice e poco perspicuo dato testuale, non sembra dubitabile che la finalità della previsione sia quella di autorizzare una deroga a tutti i parametri e criteri contenuti nel d.m. n. 1444/1968, e non solo a taluni di essi (ciò che peraltro è confermato dai plurimi interventi legislativi, come quello qui all’attenzione, con cui le Regioni si sono avvalse di tale facoltà).
8. Ritenuta impraticabile la via della interpretazione costituzionalmente orientata, la Sezione osserva che la questione assume rilevanza in relazione alla possibile violazione dei parametri costituzionali di cui agli articoli 3 e 117, terzo comma, con riferimento alla lesione della competenza statale concorrente in materia di “governo del territorio”, nonché rispetto al secondo comma del medesimo articolo 117, lett. m) ed s) (lesione della competenza esclusiva statale in materia di “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” e di “tutela dell’ambiente”).
Sul possibile contrasto con gli articoli 3 e 117, terzo comma, della Costituzione.
9. Con riguardo al primo profilo oggetto di scrutinio, va preliminarmente rilevato che –come già precisato nella sentenza non definitiva emessa da questa stessa Sezione (§13.1.: “Preliminarmente deve precisarsi che dalla fattispecie in esame derivano i confini della rilevanza della possibile questione di costituzionalità, dovendosi escludere ogni profilo attinente alle deroghe in materia di limiti di distanze tra fabbricati, sui quali la Corte è più volte intervenuta. la fattispecie in esame è incentrata, infatti, unicamente sulle possibili deroghe, da parte della legislazione regionale, al D.M. del 1968 in materia di “spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli a quelli riservati alle attività collettive ai parcheggi” e dunque agli standards, “nell’ambito delle definizione revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario di specifiche aree territoriali”)– non vi è alcuna analogia della questione in esame rispetto a quelle esaminate dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (in particolare sent. n. 13 del 07.02.2020) relative alle norme del medesimo d.m. n. 1444/1968 in materia di distanze (articoli 9 e 10).
Tali ultime norme sono state ritenute dalla Corte in via di principio inderogabili da parte della legislazione regionale, in quanto afferenti alla materia dell’ordinamento civile (articolo 117, secondo comma, lettera l), Cost.), mentre lo stesso non si può dire per le altre norme contenute nel citato decreto, le quali prima facie attengono unicamente alla materia “governo del territorio”, oggetto di competenza concorrente ai sensi del terzo comma del medesimo articolo 117 Cost.: ciò impone di individuare le norme di principio della legislazione statale in subiecta materia, le quali segnano il limite della competenza legislativa regionale.
9.1. Per quanto qui interessa, può ipotizzarsi che la norma statale di principio sia da rivenirsi nel già citato articolo 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942, introdotto dalla legge n. 765 del 1967, il quale –come è noto- costituisce la fonte di derivazione del d.m. n. 1444 del 1968, imponendo agli strumenti urbanistici generali il rispetto di parametri e limiti definiti espressamente “inderogabili”.
9.2. Orbene, ad avviso della Sezione e contrariamente a quanto sostenuto in giudizio dal Comune di Villasanta, non può ritenersi –neanche a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione attuata con la legge costituzionale n. 3/2001- che ad oggi inderogabile da parte della legislazione regionale sia soltanto l’ottavo comma del predetto articolo (il quale, appunto, stabilisce l’obbligo che gli strumenti urbanistici generali stabiliscano “limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”) e non anche il successivo nono comma, che demanda a un apposito decreto ministeriale la fissazione dei predetti limiti e rapporti; ciò, alla luce della giurisprudenza costituzionale dianzi richiamata, dovrebbe portare alla bizzarra conclusione che il comma da ultimo citato sia -in realtà- derogabile da parte delle Regioni non sempre e comunque, ma solo per la parte relativa ai “rapporti”, dal momento che per quella relativa ai “limiti” (di densità, altezza, distanza) è già pacifico che non lo è, attesa la acclarata riconducibilità delle norme del d.m. n. 1444 del 1968 in tema di distanze, altezze etc. alla materia “ordinamento civile” di esclusiva competenza statale (cfr. Corte cost., sent. n. 13/2020, cit.).
9.3. Può dunque ritenersi, posto che nella materia del governo del territorio le leggi regionali debbano rispettare le norme di principio della legislazione statale, che il nono comma dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942 esprima l’esigenza che le dotazioni di spazi pubblici, infrastrutture, servizi etc. rispondano a criteri di definizione omogenei su tutto il territorio nazionale, non essendo costituzionalmente ammissibile che possano esservi discrasie anche vistose tra Regione e Regione, in virtù dei diversi rapporti e parametri liberamente individuabili dalle diverse legislazioni regionali.
Tale però sembra essere il risultato dell’applicazione dell’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380/2001, come inserito dal decreto-legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98, il quale, autorizzando le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano a “prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444”, produce l’effetto di “neutralizzare” il carattere cogente delle anzi dette disposizioni dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942 e delle disposizioni regolamentari che ne discendono.
9.4. Tuttavia, anche a voler ritenere che con la novella del 2013 al T.U. dell’edilizia il legislatore statale abbia inteso perseguire una deliberata ratio di abrogazione implicita dei commi ottavo e nono dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942, tale operazione appare di dubbia compatibilità con il quadro costituzionale sopra delineato, in quanto si risolve in una sostanziale abdicazione dalla fissazione di parametri e criteri generali, cui pure il legislatore statale sarebbe chiamato in materia di competenza concorrente, in modo da consentire a ciascuna Regione di dettare regole autonome e disomogenee in materia di dimensionamento delle aree a destinazione residenziale, degli spazi pubblici, delle infrastrutture, del verde pubblico etc.
Ciò peraltro comporta effetti discriminatori, rilevanti sotto il profilo della violazione dell’articolo 3 della Costituzione, nella misura in cui, obliterando l’esigenza di fissazione di criteri omogenei e uniformi a suo tempo espressa dai commi ottavo e nono dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942, finisce per incidere sul regime proprietario dei suoli, che –come puntualmente dedotto dal Fallimento nel presente giudizio- risulta potenzialmente assoggettato a regole differenti nelle diverse Regioni pur in relazione ad aree avente identica destinazione urbanistica e ad interventi edilizi rientranti nella medesima tipologia.
Sul possibile contrasto con l’articolo 117, comma secondo, lettere m) ed s), della Costituzione.
10. Sotto diverso profilo, la disposizione di cui al comma 1 del ricordato articolo 2-bis, d.P.R. n. 380/2001 interseca le competenze statali esclusive di cui all’articolo 117, comma secondo, lettere m) (“determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”) ed s) (“tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”) della Costituzione.
10.1. Quanto al primo aspetto, anche prescindendo dall’orientamento giurisprudenziale che, anteriormente alla entrata in vigore dell’articolo 2-bis, sosteneva che le disposizioni del d.m. n. 1444 del 1968 fossero sempre e comunque cogenti nei confronti dei pianificatori comunali, il più volte citato nono comma dell’articolo 41-quinquies, l. n. 1150/1942 rileva anche sotto il profilo della necessità di assicurare una quota minima di infrastrutture e aree per servizi pubblici che sia la stessa sull’intero territorio nazionale.
In definitiva, pur in un quadro costituzionale e legislativo caratterizzato dai principi di sussidiarietà verticale e di prossimità territoriale, in ragione dei quali la regolazione dell’assetto del territorio è rimessa quanto più possibile ai livelli di governo più vicini alle comunità di riferimento, deve ritenersi che la determinazione delle dotazioni infrastrutturali pubbliche o di interesse generale resti riservata al legislatore statale, in quanto ragionevolmente riconducibile all’ambito delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali; in tale prospettiva, al legislatore statale spetta non soltanto individuare i principi fondamentali della materia, sibbene fissare i livelli minimi delle predette prestazioni, rispetto ai quali le normative regionali potrebbero intervenire esclusivamente in senso “rafforzativo”.
Ciò peraltro non comporta la totale obliterazione delle competenze legislative regionali, atteso che altro è la determinazione di livelli essenziali (minimi), altro la regolamentazione, tanto in termini quantitativi che qualitativi, delle dotazioni di standard, rispetto alla quale ultima –una volta garantito il rispetto della normativa statale vigente– la competenza regionale (che dovrebbe comunque ritenersi, ratione materiae, comunque di tipo concorrente) potrebbe tornare in gioco.
10.2. Sotto il secondo dei profili dianzi indicati, già da tempo la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha evidenziato come il potere di pianificazione, specie alla luce delle scelte legislative più recenti, non possa dirsi limitato all’individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale, e in specie alle potenzialità edificatorie delle stesse e ai limiti che incontrano tali potenzialità, dovendo invece essere inteso in relazione ad un concetto di urbanistica che non sia limitato solo alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità), ma che, per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico-sociali della comunità locale, non in contrasto ma, anzi, in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato, in funzione di uno sviluppo del territorio che si svolga nel quadro del rispetto e dell’attuazione di valori costituzionalmente tutelati (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. II, 14.11.2019, n. 7839; id., sez. IV, 21.12.2012, n. 6656).
Tale impostazione è stata nella sostanza condivisa anche dalla giurisprudenza costituzionale, la quale, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, ha rilevato che la nozione di “governo del territorio” ha un contenuto più ampio di quella di “urbanistica”, individuando in linea di principio tutto ciò che attiene all’uso del territorio ed alla localizzazione di impianti o attività (cfr. Corte cost., sent. 07.10.2003, n. 307), ed ha altresì precisato che la relativa disciplina, pur toccando profili tradizionalmente appartenenti all’urbanistica e all’edilizia, non si esaurisce in esse, riferendosi piuttosto all’insieme delle norme che consentono di identificare e graduare gli interessi in base ai quali possono essere regolati gli usi ammissibili del territorio (cfr. Corte cost., sentt. 14.10.2005, n. 383, e 28.06.2004, n. 196).
Ne discende, in relazione al rapporto tra le competenze concorrenti in subiecta materia e la competenza statale esclusiva in materia di tutela dell’ambiente ex articolo 117, secondo comma, lettera s), Cost., che quest’ultima segna un limite negativo alle discipline che le Regioni possono introdurre in altre materie di propria competenza, salva la facoltà di queste ultime di adottare livelli di tutela ambientale più elevati (cfr. Corte cost., sent. n. 22.07.2021, n. 164, e in precedenza sentt. 23.07.2009, n. 235, 18.04.2008, n. 104, e 07.11.2007, n. 367).
Alla stregua dei consolidati orientamenti che si sono richiamati, anche laddove si sia in presenza di una legislazione regionale esclusivamente indirizzata a introdurre una disciplina in materia di pianificazione urbanistica, e che tuttavia intercetti aspetti “sensibili” sotto il profilo della vivibilità del territorio quali sono quelli afferenti alla dotazione di infrastrutture e servizi per la collettività, non può non venire in rilievo la competenza esclusiva statale de qua con la correlativa possibilità per le Regioni di intervenire in deroga solo in senso “migliorativo”.
Sulla consequenziale illegittimità costituzionale dell’articolo 103, comma 1-bis, della l.r. della Lombardia n. 12/2005.
11. La prospettata illegittimità costituzionale dell’articolo 2-bis, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001, per le ragioni testé evidenziate, comporterebbe il venir meno della base normativa delle disposizioni regionali con cui, in attuazione di quanto stabilito nella norma statale, sia stata introdotta una disciplina degli standard urbanistici potenzialmente derogatoria dei limiti “inderogabili” di cui al d.m. n. 1444 del 1968, è fra queste, per quanto qui interessa, dell’articolo 103, comma 1-bis, della legge regionale della Lombardia n. 12 del 2005.
Sotto quest’ultimo profilo non ha pregio l’argomento, articolato dal Comune nella memoria del 12.07.2021, secondo cui la disposizione in questione non opererebbe a regime, riguardando solo l’adeguamento degli strumenti urbanistici vigenti alle nuove disposizioni introdotte dalla stessa l.r. n. 12 del 2005: infatti, ai fini che qui interessano, rileva soltanto il fatto che per effetto di essa possano trovare ingresso nell’ordinamento prescrizioni urbanistiche, comunque destinate a valere a tempo indefinito, elaborate nella totale disapplicazione del criteri e parametri di cui al ricordato d.m. n. 1444 del 1968.
Pertanto, la disposizione andrebbe a sua volta dichiarata incostituzionale in via consequenziale in applicazione dell’articolo 27 della legge 11.03.1953, n. 87, secondo cui la Corte costituzionale, allorché dichiara illegittime le disposizioni che formano direttamente oggetto dell’incidente di costituzionalità, “dichiara altresì, quali sono le altre disposizioni legislative, la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata”.
Conclusioni.
12. Alla stregua dei rilievi fin qui svolti, devono quindi essere dichiarate rilevanti e non manifestamente infondate le descritte questioni di legittimità costituzionale:
   i) dell’articolo 2-bis, comma 1, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (pubblicato nella Gazzetta ufficiale 20.10.2001, n. 245, S.O.), come introdotto dal d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98 (pubblicata nella Gazzetta ufficiale 20.08.2013, n. 194, S.O.), per violazione degli articoli 3 e 117, secondo comma, della Costituzione;
   ii) dell’articolo 2-bis, comma 1, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (pubblicato nella Gazzetta ufficiale 20.10.2001, n. 245, S.O.), come introdotto dal d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98 (pubblicata nella Gazzetta ufficiale 20.08.2013, n. 194, S.O.), per violazione dell’articolo 117, terzo comma, lettere m) ed s), della Costituzione;
   iii) in via consequenziale, dell’articolo 103, comma 1-bis, della legge regionale della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (pubblicata sul Bollettino ufficiale della Regione Lombardia 16.03.2005), come introdotto dalla legge regionale 14.03.2008, n. 4 (pubblicata sul Bollettino ufficiale della Regione Lombardia 17.03.2008, n. 12), e successivamente modificato dalla l.r. 26.11.2019, n. 18 (pubblicata sul Bollettino ufficiale della Regione Lombardia 29.11.2019, n. 48), per violazione dell’articolo 117, secondo comma, lettere m) ed s), e terzo comma, della Costituzione.
Il presente giudizio va quindi sospeso con trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), visto l’art. 23 della legge 11.03.1953, n. 87, dichiara rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale relative:
   -
all’articolo 2-bis, comma 1, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (pubblicato nella Gazzetta ufficiale 20.10.2001, n. 245, S.O.), come introdotto dal d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98 (pubblicata nella Gazzetta ufficiale 20.08.2013, n. 194, S.O.), per violazione degli articoli 3 e 117, terzo comma, della Costituzione;
   -
all’articolo 2-bis, comma 1, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (pubblicato nella Gazzetta ufficiale 20.10.2001, n. 245, S.O.), come introdotto dal d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98 (pubblicata nella Gazzetta ufficiale 20.08.2013, n. 194, S.O.), per violazione dell’articolo 117, terzo comma, lettere m) ed s), della Costituzione;
   - in via consequenziale,
all’articolo 103, comma 1-bis, della legge regionale della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (pubblicata sul Bollettino ufficiale della Regione Lombardia 16.03.2005), come introdotto dalla legge regionale 14.03.2008, n. 4 (pubblicata sul Bollettino ufficiale della Regione Lombardia 17.03.2008, n. 12), e successivamente modificato dalla l.r. 26.11.2019, n. 18 (pubblicata sul Bollettino ufficiale della Regione Lombardia 29.11.2019, n. 48), per violazione dell’articolo 117, secondo comma, lettere m) ed s), e terzo comma, della Costituzione (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 17.03.2022 n. 1949 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ANNO 2021

URBANISTICA: Sulla retrocessione delle aree cedute a titolo di standard e successivamente qualificate dal comune, col nuovo PGT, quali “standard impropri”.
Effettuata la rilevazione delle aree di proprietà pubblica, come si desume dalla relazione al piano dei Servizi, il Comune ha individuato, accanto a “standards di interesse generale” (che rivestono un ruolo primario all’interno del territorio comunale, di utilità pubblica e di fruizione da parte di tutti i cittadini), “standards di interesse specifico” (con finalità pubblica, che di fatto non sono funzionali all’intera collettività, ma solamente ad un ambito specifico) e “standards di interesse primario o d’ambito" (organizzati per offrire un servizio limitatamente ad un insediamento specifico), “standards impropri” caratterizzanti territori che hanno finalità pubbliche, ma che di fatto non erogano servizi utili per l’intera collettività, come ad esempio possono essere i parcheggi collocati in una via residenziale non di passaggio (così la definizione contenuta nella relazione al Piano dei Servizi).
La nuova previsione urbanistica, adottata nell’ambito della discrezionalità propria riconosciuta all’ente locale nella pianificazione dell’uso del territorio, appare, invero, immune dai vizi dedotti, tenuto conto che l’orientamento costante della giurisprudenza riconosce al Comune la possibilità di rivalutare le esigenze che avevano condotto ad imporre la cessione delle aree al momento della sottoscrizione della convenzione urbanistica.
La destinazione di un’area a standard non imprime, infatti, alcun vincolo di destinazione permanente o reale tale da precludere future diverse scelte pianificatorie.
Infatti, come chiarito dal Consiglio di Stato, “la pianificazione urbanistica implica valutazioni di opportunità sulla scorta di valutazioni comparative degli interessi pubblici in gioco, che sfuggono al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, a meno che non si dimostrino palesi travisamenti dei fatti, illogicità o irragionevolezze. Tale potere non è limitato solo alla disciplina coordinata dell’edificazione dei suoli ma, per mezzo della disciplina dell'utilizzo delle aree, è finalizzato a realizzare anche sviluppi economici e sociali della comunità locale nel suo complesso con riflessi qualvolta limitativi agli interessi dei singoli proprietari di aree. Quindi le scelte in concreto, effettuate con i detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti, devono corrispondere agli scopi prefissati nelle linee programmatiche per la gestione urbanistica del territorio”.
Ne discende che “la pianificazione urbanistica implica valutazioni di opportunità che devono condursi sulla base delle esigenze progressivamente emerse nel tessuto territoriale a cui si riferisce la pianificazione. Nella misura in cui il potere di pianificazione si ritenga non limitato alla disciplina coordinata dell’edificazione ma finalizzato anche allo sviluppo della comunità nel suo complesso, non può, certamente, prevedersi la sussistenza di limiti che possano precludere decisioni urbanistiche ritenute meglio confacenti alle evoluzioni del contesto di riferimento. Lo standard non è un vincolo reale immodificabile ma una disciplina urbanistica impressa in un determinato momento storico e, come tale, rivedibile, fermo restando il rispetto delle previsioni normative statali e regionali su tale aspetto che, però, non impongono vincoli di destinazione permanenti. Non è, quindi, neppure predicabile quell’asservimento con carattere di realità ipotizzato dalla parte ricorrente”.
Anche nella fattispecie in esame, pertanto, la scelta operata dall’Amministrazione, attuativa di una politica di alienazione delle aree con l’imposizione del mantenimento di una destinazione almeno parzialmente pubblica, compensata e incentivata dalla concessione di una certa edificabilità all’interno degli insediamenti esistenti, adeguatamente motivata nella relazione e supportata da una rivalutazione degli interessi pubblici, risulta essere legittima, in quanto immune da eccesso o sviamento di potere, illogicità o irrazionalità.
In conclusione, il Comune, creando la categoria degli “standard impropri”, qualificando come tali quelli riferiti a aree di proprietà pubblica con destinazione a parcheggio o a verde che svolgono funzioni non di interesse generale, ma relative al soddisfacimento di esigenze funzionali derivanti dalla presenza di specifici insediamenti privati al servizio dei quali sostanzialmente si pongono (punto 4 di pag. 39 della Relazione) e prevedendone la retrocedibilità non ha travalicato i propri poteri pianificatori, tanto più che ha imposto il mantenimento della funzione svolta da tali aree, pur compensata da una limitata edificabilità.

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La società ricorrente impugna il PGT del Comune di Cisano Bergamasco nella parte in cui prevede, alla Tavola 3b1 del Piano delle Regole, che l’area ceduta gratuitamente dalla società ricorrente all’Amministrazione comunale sia inserita tra le “aree per attrezzature pubbliche e di uso pubblico” definite come “aree retrocedibili” ai sensi dell’art. 10 della “Disciplina urbanistica degli interventi” inclusa nel Piano dei Servizi.
La suddetta cessione è intervenuta in esecuzione della convenzione urbanistica per l’attuazione del Piano di Lottizzazione via Ca’ dei Volpi – Angolo Via IV Novembre, sottoscritta in data 06.08.1996 e ha riguardato un’area di 4.257,35 mq destinata ad attrezzature sanitarie, ceduta a fronte della possibilità di realizzare 21.794,57 mc a destinazione prevalentemente residenziale e, per la parte restante, commerciale.
Il Comune, a distanza di circa quindici anni, ha dato avvio a un procedimento di variante semplificata, avente a oggetto proprie le aree cedute in questione. Ritenendo non più utile il mantenimento della destinazione urbanistica “aree ed edifici di interesse e uso pubblico”, nel 2010, ha previsto il suo mutamento in “attrezzature pubbliche e private di interesse collettivo con destinazione specifica a standard localizzato”, consentendo la possibilità della realizzazione, su di una porzione di essa, di una nuova caserma dei Carabinieri e l’edificabilità residenziale della parte restante, previa retrocessione o vendita a terzi dell’area stessa.
Per contestare tale scelta, parte ricorrente ha depositato articolate osservazioni, che hanno condotto alla revoca della deliberazione di adozione in data 30.09.2010.
Cionondimeno, nell’adozione del nuovo Piano di Governo del Territorio, in data 05.12.2011, l’Amministrazione comunale ha comunque previsto la qualificazione delle aree in questione come standard impropri, ammettendone, nel Piano dei servizi, la possibilità della retrocessione o della cessione a terzi al fine di acquisire risorse per il miglioramento della struttura dei servizi di effettiva utilità.
Tale opzione è stata avversata prima mediante deposito di articolate osservazioni e, a seguito del rigetto delle stesse e della riconferma in sede di approvazione definitiva del nuovo PGT, mediante la proposizione del ricorso in esame, nel quale è stata dedotta la violazione dell’art. 97 della Costituzione, dell’art. 3 della legge n. 241/1990 e l’integrazione di un eccesso di potere per contraddittorietà e illogicità manifeste. Infatti, solo nel febbraio 2010 il Comune aveva individuato la necessità di utilizzare parte dell’area in questione per la realizzazione di una struttura pubblica quale la Caserma dei Carabinieri. Sarebbe, dunque, del tutto immotivato, a distanza di meno di due anni, l’escludere totalmente la sussistenza dell’interesse pubblico al mantenimento della destinazione già precedentemente impressa, prevedendo anche che i diritti edificatori siano commerciabili ai sensi dell’art. 11, comma 4, della LR 12/2005. Peraltro la dichiarata carenza di interesse pubblico alla base della scelta pianificatoria sarebbe contraddetta dalla previsione, contenuta nella stessa disposizione, che impone sulle aree cedute a terzi, una destinazione di natura “pubblicistica”.
Il ricorso non può, però, trovare positivo apprezzamento.
In disparte ogni considerazione in ordine alla dubbia sussistenza dell’interesse concreto e attuale della società, che risulta aver regolarmente provveduto alla realizzazione degli interventi edilizi previsti dalla convenzione urbanistica e che potrebbe comunque aspirare alla retrocessione delle aree cedute, a censurare la scelta del Comune, il ricorso appare infondato e deve essere rigettato.
La previsione impugnata è, infatti, quella dell’art. 10 della “Disciplina urbanistica degli interventi” inclusa nel Piano dei Servizi, rubricato “Retrocessione di aree standard”, il quale prevede quanto segue: “1. La disciplina del Piano dei Servizi individua come standard impropri le aree di proprietà pubblica o di uso pubblico in considerazione dei principi generali enunciati nella relazione del Presente Piano dei Servizi e della disciplina delle presenti norme in materia di attrezzature di interesse pubblico e di carico urbanistico primario le aree oggetto del presente articolo sono da considerarsi sostanzialmente prive di interesse pubblico e possono quindi essere dismesse da patrimonio comunale con la conseguente possibilità della loro alienazione.
   2. La perdita della specifica funzione di interesse pubblico non fa tuttavia venir meno la necessità del mantenimento della funzione svolta dalle aree stesse la quale rimane indispensabile per garantire una corretta risposta funzionale alle necessità dalla presenza degli insediamenti di riferimento.
   3. In considerazione di quanto indicato al precedente comma l’alienazione delle aree o la retrocessione dagli originari proprietari potrà avvenire esclusivamente a condizione, nel caso delle aree a parcheggio, che venga mantenuto il vincolo di destinazione funzionale e la possibilità di accesso al pubblico, secondo modalità che saranno di volta in volta definite nell’ambio del trasferimento della proprietà.
   4. Fermo restando quanto previsto dal precedente comma 2 l’Amministrazione, attribuirà alle aree oggetto del presente articolo diritti edificatori nella misura e con le modalità di utilizzazione previste dal precedente articolo 4.
   5. In prima applicazione della presente norma sono da ritenere retrocedibili nei termini indicati nei precedenti commi le aree di parcheggio non individuate nella tav. 2 del PdS e individuate dalla tav. 3 con la campitura degli ambiti edificati o edificabili di riferimento
”.
Il ricorso in esame non ha saputo indicare le ragioni per cui la possibilità della alienazione dell’area ceduta dall’odierna ricorrente (e di cui la stessa potrebbe chiedere la retrocessione, se avesse effettivamente interesse a rientrare in disponibilità della medesima) sarebbe contraddittoria e illogica. L’incapacità del Comune di attribuire, nell’arco di quindici anni, una specifica destinazione pubblica all’area in questione (anche in considerazione del fatto che è stata ritenuta più opportuna una diversa collocazione della nuova caserma dei Carabinieri), è sintomatica di una carenza di interesse al mantenimento della proprietà della stessa per la realizzazione di nuove opere pubbliche, la quale legittima, in quanto maggiormente conforme all’interesse pubblico, l’opzione per la sua alienazione, ancorché imponendo il mantenimento della funzionalità a uso pubblico, compensato da limitati diritti edificatori.
Ciò in un’ottica di concreta valutazione dell’utilità e funzionalità rispetto all’interesse pubblico delle aree che, pur essendo di proprietà pubblica, svolgono una funzione marginale rispetto ai fabbisogni dei cittadini.
Dunque, effettuata la rilevazione delle aree di proprietà pubblica, come si desume dalla relazione al piano dei Servizi, il Comune ha individuato, accanto a “standards di interesse generale” (che rivestono un ruolo primario all’interno del territorio comunale, di utilità pubblica e di fruizione da parte di tutti i cittadini), “standards di interesse specifico” (con finalità pubblica, che di fatto non sono funzionali all’intera collettività, ma solamente ad un ambito specifico) e “standards di interesse primario o d’ambito" (organizzati per offrire un servizio limitatamente ad un insediamento specifico), “standards impropri” caratterizzanti territori che hanno finalità pubbliche, ma che di fatto non erogano servizi utili per l’intera collettività, come ad esempio possono essere i parcheggi collocati in una via residenziale non di passaggio (così la definizione contenuta nella relazione al Piano dei Servizi).
La nuova previsione urbanistica, adottata nell’ambito della discrezionalità propria riconosciuta all’ente locale nella pianificazione dell’uso del territorio, appare, invero, immune dai vizi dedotti, tenuto conto che l’orientamento costante della giurisprudenza riconosce al Comune la possibilità di rivalutare le esigenze che avevano condotto ad imporre la cessione delle aree al momento della sottoscrizione della convenzione urbanistica.
La destinazione di un’area a standard non imprime, infatti, alcun vincolo di destinazione permanente o reale tale da precludere future diverse scelte pianificatorie. Infatti, come chiarito nella sentenza del Consiglio di Stato, n. 283/2015, “la pianificazione urbanistica implica valutazioni di opportunità sulla scorta di valutazioni comparative degli interessi pubblici in gioco, che sfuggono al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, a meno che non si dimostrino palesi travisamenti dei fatti, illogicità o irragionevolezze. Tale potere non è limitato solo alla disciplina coordinata dell’edificazione dei suoli ma, per mezzo della disciplina dell'utilizzo delle aree, è finalizzato a realizzare anche sviluppi economici e sociali della comunità locale nel suo complesso con riflessi qualvolta limitativi agli interessi dei singoli proprietari di aree. Quindi le scelte in concreto, effettuate con i detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti, devono corrispondere agli scopi prefissati nelle linee programmatiche per la gestione urbanistica del territorio”.
Ne discende, come affermato nella sentenza del TAR Lombardia n. 2491/2020, dalle cui conclusioni il Collegio non ravvisa ragione di discostarsi, che “la pianificazione urbanistica implica valutazioni di opportunità che devono condursi sulla base delle esigenze progressivamente emerse nel tessuto territoriale a cui si riferisce la pianificazione. Nella misura in cui il potere di pianificazione si ritenga non limitato alla disciplina coordinata dell’edificazione ma finalizzato anche allo sviluppo della comunità nel suo complesso, non può, certamente, prevedersi la sussistenza di limiti che possano precludere decisioni urbanistiche ritenute meglio confacenti alle evoluzioni del contesto di riferimento (cfr., ex aliis, TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 03.12.2018, n. 2715; Id., 03.12.2018, n. 2718; Id., 21.01.2019, n. 119; Id., 05.07.2019, n. 1557; Id., 16.10.2019, n. 2176; Id., 21.11.2019, n. 2458; Id., 05.03.2020, n. 444; Id., 07.05.2020, n. 705; Id., 29.05.2020, n. 960). Lo standard non è un vincolo reale immodificabile ma una disciplina urbanistica impressa in un determinato momento storico e, come tale, rivedibile, fermo restando il rispetto delle previsioni normative statali e regionali su tale aspetto che, però, non impongono vincoli di destinazione permanenti. Non è, quindi, neppure predicabile quell’asservimento con carattere di realità ipotizzato dalla parte ricorrente.”.
Anche nella fattispecie in esame, pertanto, la scelta operata dall’Amministrazione, attuativa di una politica di alienazione delle aree con l’imposizione del mantenimento di una destinazione almeno parzialmente pubblica, compensata e incentivata dalla concessione di una certa edificabilità all’interno degli insediamenti esistenti, adeguatamente motivata nella relazione e supportata da una rivalutazione degli interessi pubblici, risulta essere legittima, in quanto immune da eccesso o sviamento di potere, illogicità o irrazionalità.
In conclusione, il Comune, creando la categoria degli “standard impropri”, qualificando come tali quelli riferiti a aree di proprietà pubblica con destinazione a parcheggio o a verde che svolgono funzioni non di interesse generale, ma relative al soddisfacimento di esigenze funzionali derivanti dalla presenza di specifici insediamenti privati al servizio dei quali sostanzialmente si pongono (punto 4 di pag. 39 della Relazione) e prevedendone la retrocedibilità non ha travalicato i propri poteri pianificatori, tanto più che ha imposto il mantenimento della funzione svolta da tali aree, pur compensata da una limitata edificabilità.
I parametri di riferimento per l’individuazione delle aree suscettibili di cessione e per il riconoscimento della potenzialità edificatoria sono, poi, puntualmente stabiliti rispettivamente negli artt. 10 e 4 delle NTA del Piano di Servizi, così garantendo proprio il rispetto di quei criteri di trasparenza invocati da parte ricorrente.
Anche sotto questo profilo, dunque, il ricorso non può trovare positivo apprezzamento (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 16.06.2021 n. 562 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Monetizzazione aree imposta al privato.
Gli obblighi e i vincoli nell’attuazione di un Piano Attuativo sono contenuti negli atti convenzionali che regolano il rapporto tra l’amministrazione comunale e i soggetti attuatori dei relativi comparti.
A termini dell’articolo 11 della legge 241/1990 alle convenzioni urbanistiche, ascrivibili al genus degli accordi sostitutivi di provvedimento, si applicano i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti, per quanto compatibili.
Pertanto, per interpretare l’accordo occorre far riferimento ai criteri dell’articolo 1362 e ss. c.c., in particolare a quello dell’interpretazione letterale.
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La ratio della disciplina in materia di monetizzazione, come sottolineato dal Consiglio di Stato proprio con riferimento alla legislazione della Regione Lombardia, è che “la regola è costituita dalla cessione gratuita delle aree, che consente di reperire le aree a standard in loco e quindi di assicurare uno sviluppo urbanistico equilibrato, costituendo la c.d. monetizzazione una eccezione e non risolvendosi la medesima in "...una vicenda di carattere unicamente patrimoniale e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente pubblico e il privato che realizzerà l’opera...", poiché non può ammettersi separazione tra "...i commoda (sotto forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli incommoda (il peggioramento della qualità di vita (dei residenti della zona)...", ciò che fonda il riconoscimento della legittimazione processuale di questi ultimi a dolersi della violazione della misura degli standard”.
Pertanto, la monetizzazione non può essere automaticamente imposta al privato che invece preferisca cedere le aree a standard, senza alcun limite, “posto che l'art. 46 precisa in modo del tutto chiaro i suoi presupposti, dovendo essa trovare giustificazione obiettiva, ovvero dovendo l'Amministrazione dar conto delle sue ragioni (nel senso che essa non risulti possibile -ad esempio per penuria degli spazi fisici- o non sia ritenuta opportuna dal comune in relazione alla loro estensione, conformazione o localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di intervento), a cospetto delle quali l'interessato potrà tutelarsi in sede giurisdizionale, contestandole”.

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Le censure dedotte dalla ricorrente non meritano infatti favorevole apprezzamento.
Gli obblighi e i vincoli nell’attuazione del Piano Particolareggiato sono contenuti negli atti convenzionali che regolano il rapporto tra l’amministrazione comunale e i soggetti attuatori dei relativi comparti.
A termini dell’articolo 11 della legge 241/1990 alle convenzioni urbanistiche, ascrivibili al genus degli accordi sostitutivi di provvedimento, si applicano i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti, per quanto compatibili. Pertanto per interpretare l’accordo occorre far riferimento ai criteri dell’articolo 1362 e ss. c.c., in particolare a quello dell’interpretazione letterale.
Viene quindi in rilievo anzitutto la convenzione generale stipulata in data 17.10.2001 n. rep. 63802 tra il dirigente competente del comune di Mantova e l’amministratore delegato della Co.Ge.Se. S.r.l. (originario soggetto attuatore unico per i comparti C1 e C2), la quale disponeva espressamente che “la presente convenzione ha da intendersi come distinta in due parti definite nello schema di convenzione allegato alla delibera con i titoli “1° luogo” e “2° luogo” fatto salvo il principio di solidarietà per la realizzazione delle opere di cui all’art. 2.7 per il comparto C1 e art. 4.4. per il Comparto C2”.
Il nominato articolo 2.7 della convenzione per il comparto C1 prevedeva poi che “in conformità alle prescrizioni di P.P., la viabilità, recepita nell’ambito dell’attuazione del comparto “C1”, è indicata in tinta gialla e in tinta gialla con sovrapposto tratteggio nero, nella planimetria allegata sub 2). Il concessionario accetta di considerare tale opera viaria da realizzare in tempi contestuali con le costruzioni previste nell’ambito del comparto C1 secondo le prescrizioni specificative di seguito fissate. Da parte sua, il Comune, avendo riferimento al disegno esecutivo inviato al Ministero LLPP per la realizzazione del Tribunale nel comparto “C2A”, ne prende atto e si riserva di adottare una conseguente variante al PP per quanto riguarda la sistemazione viaria della zona”.
Il punto 2.9 aggiungeva, inoltre, che “Il comune di Mantova autorizza il concessionario a proporre ai sensi delle legge regionali 23/1007 e 1/2001 e, nei limiti delle quantità del PP, eventuali compensazioni tra le aree del comparto “C1” disciplinate al presente “primo luogo” e del comparto “C2” disciplinate al successivo “secondo luogo” destinate ad opere di urbanizzazione allo scopo di conseguire la prescritta dotazione minima per ciascuno dei due comparti”.
Corrispondentemente per l’articolo 4.4. della convenzione per il Comparto C2, “Nel caso in cui la realizzazione del comparto “C2” dovesse avvenire prima del comparto “C1”, il concessionario si obbliga per sé e per i propri aventi causa a realizzare l’anello si viabilità tinteggiato in giallo e in giallo con tratteggio in nero nella planimetria allegata sub 2), nel rispetto delle pattuizioni previste ai precedenti articoli per il comparto “C1””.
Pertanto negli atti convenzionali menzionati la possibilità di una compensazione tra comparti era prevista in via principale per le opere viarie, salva la possibilità per il soggetto attuatore di proporre al Comune altre compensazioni.
Data la chiara formulazione letterale dell’atto convenzionale, la compensazione non può essere qualificata come un diritto del soggetto attuatore o dei soggetti attuatori, ma solo una facoltà da sottoporre al vaglio dell’amministrazione comunale, alla quale è rimessa poi la valutazione della proposta e la sua approvazione, nei limiti in cui la stessa sia ritenuta rispondente all’interesse pubblico.
Nel caso di specie non è pervenuta all’amministrazione alcuna proposta in tal senso né su iniziativa individuale né su iniziativa congiunta delle società responsabili dell’attuazione per i due comparti, sicché il Comune nulla era tenuto a valutare prima di approvare la proposta di quantificazione e individuazione delle aree standard formulata da C. S.r.l.
Né la pretesa alla compensazione può farsi automaticamente derivare, come assume Bi., dalla comunicazione con la quale C. S.r.l. in data 01.02.2002 informava il comune dell’intervenuta scissione societaria. In tale missiva l’originario soggetto attuatore si limitava, infatti, a notiziare controparte che Bi. era la nuova proprietaria del comparto C1 e, quindi, era responsabile della sua attuazione.
Aggiungeva la società che “al fine di addivenire rapidamente alla progettazione e realizzazione delle infrastrutture viarie, comuni ad entrambi i Comparti regolati dalla Convenzione, sulla base dell’art. 2.9 della convenzione specifica del comparto C1 e della convenzione specifica del comparto C2, C. S.r.l. si avvarrà della possibilità di proporre compensazioni, con aree di proprietà o monetizzazioni sostitutive, per le aree standard del Comparto C1 relative sia agli edifici pubblici che ai parcheggi ad uso pubblico, allo scopo di conseguire la prescritta dotazione minima per ciascuno dei due comparti”, anticipando la sua disponibilità ad un eventuale atto aggiuntivo a firma delle due società subentrate nei comparti e del comune.
Nessuna proposta di compensazione è, peraltro, poi effettivamente intervenuta.
A fronte della mancanza di una richiesta delle società attuatrici dei comparti 1 e 2, i rapporti tra le due società e l’amministrazione comunale sono rimasti necessariamente distinti e, pertanto, l’ente territoriale non era in alcun modo tenuto a valutare le obiezioni formulate da Bi. in relazione alla localizzazione della sua quota di standard nell’ambito di un comparto di pertinenza di altra società, né era tenuta a dar conto nella motivazione della delibera avversata delle richieste formulate unilateralmente da Bi.Im..
L’atto avversato in via principale resiste pertanto alle dedotte censure di carenza di motivazione e di violazione del principio di solidarietà.
Parimenti infondata si rivela anche la terza doglianza, che si appunta sulle note con cui il Comune di Mantova ha quantificato gli standard dovuti per il comparto 1.
Con riferimento agli obblighi posti in capo al soggetto attuatore del Comparto 1, l’art. 3.1 della relativa convenzione ha previsto, a fronte di una superficie massima realizzabile di 20.200 mq (13.200 a residenza e 7.000 a terziario), la necessità di realizzare 8.173 mq di standard a verde, 4.685 mq di standard a parcheggio e 4.635 mq di standard per edifici pubblici da monetizzare.
Bi. ha realizzato una s.l.p. di 19.700 mq, sicché il comune ha rideterminato gli standard dovuti per la superficie realizzata in 17.137 mq.
Il comune ha dato atto che di questi Bi. ha realizzato 6.177 mq di aree verdi e parcheggi, che vanno pertanto dedotti dal totale e che la società è pertanto ancora tenuta a cedere 6.467 mq a standard e 4.493 mq per edifici pubblici da monetizzare (secondo la tabella 4b allegata alla convenzione).
Bi. non ha contestato di avere realizzato una superficie lorda di pavimento di mq 19.700, né ha confutato la quantità di standard dovuta in relazione alla superficie realizzata, così come non ha obiettato in merito alla monetizzazione dei 4.493 mq per edifici pubblici (espressamente prevista nella convenzione), calcolata dal comune applicando le tariffe previste dalla d.c.c. 88/1999 vigente al momento di approvazione del piano particolareggiato; tali fatti devono darsi pertanto per incontestati.
Non può essere accolto l’argomento della società secondo cui erroneamente il Comune non avrebbe considerato quali standard ceduti anche gli edifici destinati ad archivio comunale, ad uffici del giudice di pace e ad uffici postali; l’amministrazione resistente ha, infatti, chiarito che detti immobili non sono stati ceduti dalla controparte ma sono utilizzati dal Comune in forza di altri titoli, per i quali l’ente paga il dovuto corrispettivo.
Né può essere computata, come richiesto, l’area esterna e contigua al comparto, in quanto in concessione demaniale a Bi. e perciò non cedibile dalla stessa, che non è proprietaria.
Infine non rileva in punto di solidarietà e di accordo sulla compensazione tra comparti la “perizia dell’ing. Am.Be.” depositata da Bi. (doc. 8 dd. 17.3.2021), costituente solamente il riepilogo di un’ipotesi di accordo tra le parti formulata in corso di causa per addivenire ad una composizione extra-giudiziale del contenzioso, che non è andata a buon fine.
La richiesta formulata dal Comune risulta pertanto legittima e non inficiata dalle censure articolate dalla parte ricorrente.
Per le ragioni già esposte deve inoltre essere accertato l’inadempimento di Bi. all’obbligo previsto dalla convenzione per il comparto C1 di cedere le aree standard nella misura indicata dal Comune (6.467 mq) e di corrispondere quanto già indicato a titolo di monetizzazione delle aree per edifici pubblici (453.554,84 euro).
Per quanto riguarda invece la richiesta subordinata di monetizzazione dei 6.467 mq residui, va evidenziato che la normativa invocata dall’amministrazione comunale, analogamente alla previgente normativa, prevede che la monetizzazione alternativa alla cessione degli standard debba essere prevista dalla convenzione.
L’articolo 46 della l.r. 12/2005, dispone -infatti- che la convenzione dei piani attuativi deve prevedere:
   “a) la cessione gratuita, entro termini prestabiliti, delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, nonché la cessione gratuita delle aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale previste dal piano dei servizi; qualora l'acquisizione di tali aree non risulti possibile o non sia ritenuta opportuna dal comune in relazione alla loro estensione, conformazione o localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa totale o parziale della cessione, che all'atto della stipulazione i soggetti obbligati corrispondano al comune una somma commisurata all'utilità economica conseguita per effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al costo dell'acquisizione di altre aree. I proventi delle monetizzazioni per la mancata cessione di aree sono utilizzati per la realizzazione degli interventi previsti nel piano dei servizi, ivi compresa l'acquisizione di altre aree a destinazione pubblica (…)”.
Analogamente il previgente art. 12 della legge regionale 04.12.1977, n. 60 disponeva che la convenzione per l’attuazione dei piani di lottizzazione deve prevedere:
   “a) la cessione gratuita, entro termini prestabiliti, delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, nonché la cessione gratuita delle aree per attrezzature pubbliche e di uso pubblico di cui all'art. 22 della L.R. 15.04.1975, n. 51, nella misura stabilita da quest'ultima norma, salvo che gli strumenti urbanistici vigenti nei comuni prevedano misure più elevate; qualora l'acquisizione di tali aree non venga ritenuta opportuna dal Comune in relazione alla loro estensione, conformazione o localizzazione, ovvero in relazione ai Programmi comunali di intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa totale o parziale della cessione, che all'atto della stipula i lottizzanti corrispondano al Comune una somma commisurata all'utilità economica conseguita per effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al costo dell'acquisizione di altre aree;
   b) la realizzazione a cura dei proprietari di tutte le opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria o di quelle che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi; le caratteristiche tecniche di tali opere dovranno essere esattamente definite; ove la realizzazione delle opere comporti oneri inferiori a quelli previsti distintamente per la urbanizzazione primaria e secondaria ai sensi della presente Legge, dovrà essere corrisposta la differenza; al Comune spetta in ogni caso la possibilità di richiedere, anziché la realizzazione diretta delle opere, il pagamento di una somma commisurata al costo effettivo delle opere di urbanizzazione inerenti alla lottizzazione nonché all'entità ed alle caratteristiche dell'insediamento e comunque non inferiore agli oneri previsti dalla deliberazione comunale di cui all'art. 3 della presente Legg
e.”
La convenzione per il Comparto C1, oltre alla già richiamata monetizzazione per edifici pubblici, all’art. 4.2.4. ha previsto unicamente che “in considerazione della grande necessità di parcheggi nella zona, dovuta alle diverse funzioni che si insedieranno nel comparto, il Comune di Mantova, ai sensi di legge, si riserva di chiedere in via eccezionale la monetizzazione sostitutiva di aree standard secondo le tariffe della d.c.c. n. 18 del 10/06/1999, qualora ritenesse opportuno realizzare in proprio o attraverso accordi con altri operatori, un parcheggio pubblico anche in area limitrofa ma esterna al comparto”.
Sicché solo in tali limiti può essere de plano richiesta al soggetto attuatore la monetizzazione.
La ratio della disciplina in materia di monetizzazione, come sottolineato dal Consiglio di Stato proprio con riferimento alla legislazione della Regione Lombardia, è infatti che “la regola è costituita dalla cessione gratuita delle aree, che consente di reperire le aree a standards in loco e quindi di assicurare uno sviluppo urbanistico equilibrato, costituendo la c.d. monetizzazione una eccezione e non risolvendosi la medesima in "...una vicenda di carattere unicamente patrimoniale e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente pubblico e il privato che realizzerà l’opera...", poiché non può ammettersi separazione tra "...i commoda (sotto forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli incommoda (il peggioramento della qualità di vita (dei residenti della zona)...", ciò che fonda il riconoscimento della legittimazione processuale di questi ultimi a dolersi della violazione della misura degli standards (in tal senso, tra le più recenti vedi Cons. Stato, Sez. IV, 04.02.2013, n. 644)”.
Pertanto la monetizzazione non può essere automaticamente imposta al privato che invece preferisca cedere le aree a standard, senza alcun limite, “posto che l'art. 46 precisa in modo del tutto chiaro i suoi presupposti, dovendo essa trovare giustificazione obiettiva, ovvero dovendo l'Amministrazione dar conto delle sue ragioni (nel senso che essa non risulti possibile -ad esempio per penuria degli spazi fisici- o non sia ritenuta opportuna dal comune in relazione alla loro estensione, conformazione o localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di intervento), a cospetto delle quali l'interessato potrà tutelarsi in sede giurisdizionale, contestandole” (Cons. Stato, Sez. IV, 14.04.2014, n. 1820).
In conclusione il ricorso N.R.G. 829/2014 deve essere respinto, ancorché la richiesta di monetizzazione in attuazione delle previsioni convenzionali debba essere accolta solo nei limiti indicati dalla convenzione.
Risulta invece meritevole di accoglimento il secondo dei riuniti gravami. In accoglimento della domanda principale formulata nel ricorso N.R.G. 951/2014 va -quindi- accertato l’inadempimento di Bi.Im. e S.r.l. agli obblighi previsti dalla convenzione per l’attuazione del comparto C1 del PP “Fiera Catena”, con conseguente condanna alla cessione al comune di 6.467 mq di standard nonché al versamento della monetizzazione per 4.493 mq di edifici pubblici, per un importo quantificato in 453.554,84 euro (secondo le tariffe approvate con delibera del consiglio comunale n. 88 del 10.06.1999).
Va invece respinta la domanda subordinata di condanna alla monetizzazione dei 6.467 mq di standard residuo, per le considerazioni già esposte (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 11.05.2021 n. 430 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

EDILIZIA PRIVATA: Sebbene le dotazioni connesse alle due diverse destinazioni in esame (“terziario direzionale” e “residenziale”) siano ontologicamente diverse, il mancato scomputo degli standard già originariamente contemplati (con vincolo su aree) comporterebbe una erronea duplicazione e un ingiustificato arricchimento dell’Amministrazione, con la conseguenza che nella quantificazione degli oneri dovrà tenersi conto degli standard già garantiti.
Invero, a tali fini, si osserva che:
   a) la diversità di disciplina riservata dal d.m. n. 1444/1968 agli “insediamenti residenziali” (art. 3) e agli “insediamenti produttivi” (art. 5), e in particolare agli “insediamenti di carattere commerciale e direzionale” (art. 5, n. 2), attiene esclusivamente ai rapporti massimi che devono intercorrere tra l’area dotata di specifica destinazione e le aree dedicate a standard, a tal ultimo riguardo facendosi riferimento in maniera indistinta per entrambe le destinazioni a “gli spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”;
   b) invero, le norme in materia di standard contenute in detto decreto non pongono alcuna differenza qualitativa fra gli standard delle diverse zone omogenee, stabilendo solo diverse percentuali quantitative del rapporto fra aree a destinazione residenziale (o industriale, commerciale etc.) e aree a servizi, ferma restando la differenziazione di queste ultime fra viabilità, parcheggi ed altro, né è dirimente il richiamo agli “spazi pubblici” contenuto nell’articolo 3 del d.m., atteso che esso è seguito dall’inciso “o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”, in modo da confermare che non è detto che le aree in questione debbano essere sempre e comunque rese pubbliche, ben potendo essere vincolate a standard con modalità diverse, in tal modo trovando fondamento la tesi circa l’indifferenza della modalità giuridica con cui tale aree vengono individuate, e quindi la trasponibili anche a servizio delle aree a destinazione residenziale delle aree a parcheggio illo tempore reperite mediante vincolo di destinazione al servizio di quelle a uso terziario;
   c) peraltro, al riguardo non assume rilievo determinante la differenza terminologica utilizzata nelle NTA (art. 39) dello strumento urbanistico generale del Comune tra “previsti” e “reperiti”, essa derivando esclusivamente dalla differenza tra le dotazioni connesse agli standard per la residenza e agli standard per gli insediamenti con destinazione direzionale, senza in nessun modo intaccare la sostanziale omogeneità concettuale esistente tra essi;
   d) invero, a nulla rileva la circostanza che in occasione della originaria realizzazione dell’edificio de quo come terziario veniva prevista, come necessaria dotazione di standard, la sola imposizione di un vincolo di destinazione, data la generale irrilevanza della specifica modalità dell’onere nell’ottica della previsione dell’imposizione in carico al privato;
   e) del resto, la tesi suggerita dal Comune fondata sull’interpretazione della norma urbanistica sconterebbe un contrasto con la disciplina riveniente dalle sovraordinate disposizioni regolamentari rivenienti dal citato d.m. n. 1444/1968.
In conclusione sul punto, non essendo in astratto concepibile una distinzione tra standard per area con destinazione “terziario direzionale” e standard per area con destinazione “residenziale”, all’infuori della diversità ontologica tra le relative dotazioni, risulta illegittima la richiesta comunale di reperimento integrale delle superfici destinate a standard per la residenza senza considerare le superfici a standard già concesse in relazione all’edificio con destinazione a “terziario”, che, pertanto, devono essere necessariamente computate nella determinazione dei nuovi standard.
Invero, in caso di intervento edilizio comportante il mutamento di destinazione d’uso, al fine della determinazione degli spazi e standard deve rivalutarsi la complessiva situazione esistente, e conseguentemente è ammissibile il reperimento della sola quota differenziale degli spazi a standard ove già sussista la quota richiesta per il precedente uso, mentre, solo in assenza di questa, le aree devono essere reperite per l’intero.
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6.3. Ciò premesso, in ordine alla specifica questione oggetto della controversia, è corretto rilevare, come fatto dal primo giudice, che, sebbene le dotazioni connesse alle due diverse destinazioni in esame (“terziario direzionale” e “residenziale”) siano ontologicamente diverse, il mancato scomputo degli standard già originariamente contemplati (con vincolo su aree) comporterebbe una erronea duplicazione e un ingiustificato arricchimento dell’Amministrazione, con la conseguenza che nella quantificazione degli oneri dovrà tenersi conto degli standard già garantiti.
6.3.1. Invero, a tali fini, si osserva che:
   a) la diversità di disciplina riservata dal d.m. n. 1444/1968 agli “insediamenti residenziali” (art. 3) e agli “insediamenti produttivi” (art. 5), e in particolare agli “insediamenti di carattere commerciale e direzionale” (art. 5, n. 2), attiene esclusivamente ai rapporti massimi che devono intercorrere tra l’area dotata di specifica destinazione e le aree dedicate a standard, a tal ultimo riguardo facendosi riferimento in maniera indistinta per entrambe le destinazioni a “gli spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”;
   b) invero, le norme in materia di standard contenute in detto decreto non pongono alcuna differenza qualitativa fra gli standard delle diverse zone omogenee, stabilendo solo diverse percentuali quantitative del rapporto fra aree a destinazione residenziale (o industriale, commerciale etc.) e aree a servizi, ferma restando la differenziazione di queste ultime fra viabilità, parcheggi ed altro, né è dirimente il richiamo agli “spazi pubblici” contenuto nell’articolo 3 del d.m., atteso che esso è seguito dall’inciso “o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”, in modo da confermare che non è detto che le aree in questione debbano essere sempre e comunque rese pubbliche, ben potendo essere vincolate a standard con modalità diverse, in tal modo trovando fondamento la tesi circa l’indifferenza della modalità giuridica con cui tale aree vengono individuate, e quindi la trasponibili anche a servizio delle aree a destinazione residenziale delle aree a parcheggio illo tempore reperite mediante vincolo di destinazione al servizio di quelle a uso terziario;
   c) peraltro, al riguardo non assume rilievo determinante la differenza terminologica utilizzata nelle NTA (art. 39) dello strumento urbanistico generale del Comune di Bari tra “previsti” e “reperiti”, essa derivando esclusivamente dalla differenza tra le dotazioni connesse agli standard per la residenza e agli standard per gli insediamenti con destinazione direzionale, senza in nessun modo intaccare la sostanziale omogeneità concettuale esistente tra essi;
   d) invero, a nulla rileva la circostanza che in occasione della originaria realizzazione dell’edificio de quo come terziario veniva prevista, come necessaria dotazione di standard, la sola imposizione di un vincolo di destinazione, data la generale irrilevanza della specifica modalità dell’onere nell’ottica della previsione dell’imposizione in carico al privato;
   e) del resto, la tesi suggerita dal Comune fondata sull’interpretazione della norma urbanistica sconterebbe un contrasto con la disciplina riveniente dalle sovraordinate disposizioni regolamentari rivenienti dal citato d.m. n. 1444/1968.
6.3.2. In conclusione sul punto, non essendo in astratto concepibile una distinzione tra standard per area con destinazione “terziario direzionale” e standard per area con destinazione “residenziale”, all’infuori della diversità ontologica tra le relative dotazioni, risulta illegittima la richiesta comunale di reperimento integrale delle superfici destinate a standard per la residenza senza considerare le superfici a standard già concesse in relazione all’edificio con destinazione a “terziario”, che, pertanto, devono essere necessariamente computate nella determinazione dei nuovi standard.
Invero, in caso di intervento edilizio comportante il mutamento di destinazione d’uso, al fine della determinazione degli spazi e standard deve rivalutarsi la complessiva situazione esistente, e conseguentemente è ammissibile il reperimento della sola quota differenziale degli spazi a standard ove già sussista la quota richiesta per il precedente uso, mentre, solo in assenza di questa, le aree devono essere reperite per l’intero. E, nel caso che qui occupa, non è in contestazione che l’edificio preesistente già disponesse della quota di standard richiesta per la sua originaria destinazione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.02.2021 n. 1590 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ANNO 2020

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Il Cds ha statuito che "Esiste una differenza ontologica tra l’istituto giuridico della monetizzazione e quello relativo al contributo di costruzione.
Il primo attiene infatti alla disciplina del territorio e dunque può essere attratto nelle previsioni di cui all’art. 12, comma 3, T.U. edilizia e della corrispondente normativa regionale (nel caso di specie, la legge regionale della Lombardia n. 12/2005).
In sostanza, la monetizzazione è un elemento essenziale della validità del titolo edilizio, mentre il contributo di costruzione opera sul piano dell’efficacia all’interno del rapporto paritetico fra Amministrazione e contribuente.
Gli atti con i quali l’Amministrazione comunale determina o ridetermina il contributo di costruzione, di cui all’art. 16 T.U. edilizia, hanno infatti natura privatistica, con la conseguenza che l’obbligazione di corrispondere il contributo nasce nel momento in cui viene rilasciato il titolo ed è a tale momento che occorre aver riguardo per la determinazione dell’entità dello stesso.
La monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard afferisce, invece, al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione all'interno della specifica zona di intervento e deve considerare la vicenda edilizia così come concretamente si è manifestata.
In tale quadro, deve quindi ritenersi che operino le misure di salvaguardia in quanto finalizzate ad evitare l'immediata realizzazione di interventi che ledano le scelte programmatorie del Comune, anche sotto il profilo degli standard”.
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Il Collegio ritiene di dover prendere atto dei principi espressi dal Consiglio di Stato che, nel distinguere tra contributo di costruzione e clausola di monetizzazione di standard, rimarca che quest’ultima ha una diretta e immediata incidenza urbanistica e, avendo tale natura, segue la disciplina dello strumento urbanistico, anche in relazione all’applicazione delle misure di salvaguardia.
Deve essere infatti evidenziato che la stessa è definita dallo strumento urbanistico generale e trattasi, in sostanza, di una previsione di dotazione di standard che viene tradotta in equivalente monetario, essendo a priori noto che la dotazione non potrà essere soddisfatta.
Natura diversa ha invece il contributo di costruzione che, essendo definito sulla base di parametri regolamentari estranei al PGT, è insensibile rispetto alle variazioni dello strumento urbanistico medesimo.
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1.4. Venendo ora all’applicazione delle misure di salvaguardia per la disciplina della cd. monetizzazione, si è già evidenziato in sede cautelare che la questione delle modalità di calcolo dell’aggravio di standard dovuto per modificazioni delle destinazioni d’uso assentite con titoli edilizi presentati nel periodo compreso tra l’adozione e la definitiva approvazione del PGT del 2012, quindi con perdurante vigenza del PRG precedente, è stata affrontata dalla Sezione con la sentenza n. 2039 del 31.08.2018.
In quel caso, analogo al presente, il TAR aveva ritenuto che la monetizzazione degli standard, al pari della determinazione del contributo di costruzione, dovesse avvenire in base alla normativa vigente all’atto di formazione del titolo edilizio e che le norme contenute nel nuovo strumento urbanistico generale –solo adottato–, volte a disciplinare il conferimento dello standard, non potessero essere oggetto di applicazione in salvaguardia.
1.5. Tuttavia la pronuncia predetta è stata riformata in appello, con la sentenza n. 1436 del 27.02.2020.
Ha evidenziato il Consiglio di Stato che “Esiste una differenza ontologica tra l’istituto giuridico della monetizzazione e quello relativo al contributo di costruzione (cfr. Cons Stato, sez. V, n. 4417 del 2016; sez. IV, n. 1820 del 2014 e n. 6211 del 2013).
13.1. Il primo attiene infatti alla disciplina del territorio e dunque può essere attratto nelle previsioni di cui all’art. 12, comma 3, T.U. edilizia e della corrispondente normativa regionale (nel caso di specie, la legge regionale della Lombardia n. 12/2005, arg. da Cons. Stato, sez. IV, n. 4058 del 2018).
13.2. In sostanza, la monetizzazione è un elemento essenziale della validità del titolo edilizio, mentre il contributo di costruzione opera sul piano dell’efficacia all’interno del rapporto paritetico fra Amministrazione e contribuente.
13.3. Gli atti con i quali l’Amministrazione comunale determina o ridetermina il contributo di costruzione, di cui all’art. 16 T.U. edilizia, hanno infatti natura privatistica (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., n. 12 del 2018), con la conseguenza che l’obbligazione di corrispondere il contributo nasce nel momento in cui viene rilasciato il titolo ed è a tale momento che occorre aver riguardo per la determinazione dell’entità dello stesso (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 5412 del 2015 e n. 6202 del 2019).
13.4. La monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard afferisce, invece, al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione all'interno della specifica zona di intervento e deve considerare, come ha fatto il Comune di Milano, la vicenda edilizia così come concretamente si è manifestata.
13.5. In tale quadro, deve quindi ritenersi che operino le misure di salvaguardia in quanto finalizzate ad evitare l'immediata realizzazione di interventi che ledano le scelte programmatorie del Comune, anche sotto il profilo degli standard
”.
1.6. Il Collegio ritiene, anche per oggettive esigenze di uniformità della giurisprudenza in materia, di dover prendere atto dei principi espressi dal Consiglio di Stato che, nel distinguere tra contributo di costruzione e clausola di monetizzazione di standard, rimarca che quest’ultima ha una diretta e immediata incidenza urbanistica e, avendo tale natura, segue la disciplina dello strumento urbanistico, anche in relazione all’applicazione delle misure di salvaguardia.
Deve essere infatti evidenziato che la stessa è definita dallo strumento urbanistico generale e trattasi, in sostanza, di una previsione di dotazione di standard che viene tradotta in equivalente monetario, essendo a priori noto che la dotazione non potrà essere soddisfatta.
Natura diversa ha invece il contributo di costruzione che, essendo definito sulla base di parametri regolamentari estranei al PGT, è insensibile rispetto alle variazioni dello strumento urbanistico medesimo (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.07.2020 n. 1389 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

EDILIZIA PRIVATALa monetizzazione delle aree standard è un istituto contemplato dall'ordinamento e applicato nella prassi amministrativa dei Comuni, anche se derogatorio rispetto al principio affermato dall'art. 12 del D.P.R. 380/2001.
Inoltre, la facoltà di richiedere o accettare il controvalore delle opere di urbanizzazione rientra nella sfera di discrezionalità tecnico-amministrativa dell'Ente, come tale non censurabile se non per gravi vizi di irrazionalità.
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8. Parimenti infondato è il terzo motivo di gravame.
8.1 Sul contrasto con l’art. 23 della Costituzione, va rilevato in generale che la monetizzazione delle aree standard è un istituto contemplato dall'ordinamento e applicato nella prassi amministrativa dei Comuni, anche se derogatorio rispetto al principio affermato dall'art. 12 del D.P.R. 380/2001 (TAR Marche – 23/06/2011 n. 500); inoltre, la facoltà di richiedere o accettare il controvalore delle opere di urbanizzazione rientra nella sfera di discrezionalità tecnico-amministrativa dell'Ente, come tale non censurabile se non per gravi vizi di irrazionalità (Consiglio di Stato, sez. IV – 07/02/2011 n. 824; TAR Lombardia Brescia, sez. II – 19/06/2012 n. 1089).
Dunque la monetizzazione è un’alternativa ben praticabile quando non sia possibile il trasferimento delle aree all’autorità pubblica.
8.2 La contestazione sull’irrazionalità del valore unitario (181 € al mq.) non coglie nel segno. Anzitutto, la deliberazione 30/01/2013 n. 11 non è stata ritualmente contestata e la circostanza introduce un chiaro profilo di inammissibilità. Peraltro, se una motivazione diffusa non è dovuta ai sensi dell’art. 3 della L. 241/1990, parte ricorrente si è limitata a dedurre la sproporzione e l’illogicità senza raffrontare la grandezza con i valori di mercato di aree analoghe.
In aggiunta, la sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV – 20/01/2014 n. 253 (parimenti evocata dalla parte resistente) ha ritenuto “… del tutto ragionevole che l’amministrazione, quando si tratti di parcheggi pubblici, disponga la localizzazione dello standard in prossimità della zona ove l’incremento insediativo si registra, contemplando in via previsionale un esborso commisurato al valore dell’area di sedime …, coerentemente quantificato”.
9. In conclusione, l’introdotto gravame è infondato e deve essere rigettato (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 29.06.2020 n. 444 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Sovradimensionamento degli standard.
E' illegittima una previsione di un PGT che stabilisce uno standard pari a 85 mq/abitante, superiore a quello indicato dall’art. 9, comma 3, della l.r. n. 12 del 2005 e anche più elevato di quello già stabilito dal previgente strumento urbanistico, nonostante il territorio comunale fosse già dotato di molte aree a servizi e una buona parte degli stessi non fosse stata ancora attuata.
Ciò appare coerente con la giurisprudenza secondo la quale il comune è tenuto a motivare in maniera idonea e congrua sulle ragioni che impongono l’aumento degli standard rispetto alle previsioni normative, in caso contrario risultando illegittima una tale scelta; difatti, la motivazione rafforzata deve investire il complesso delle previsioni urbanistiche di sovradimensionamento e deve, quindi, chiarire perché il comune abbia inteso superare i limiti minimi previsti dalla legge
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 13.02.2020 n. 305 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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3. Con la seconda censura si assume il sovradimensionamento, ingiustificato e in contraddizione con le linee di azione formulate dalla stessa Amministrazione, delle aree per servizi, per un rapporto passato da una precedente previsione di 68 mq/abitante all’attuale 85 mq/abitante, pur prevedendo la legge un indice pari a 18 mq/abitante.
3.1. La doglianza è fondata.
La difesa comunale ha evidenziato che nell’ambito del P.G.T., in varie parti, sono contenute le motivazioni che hanno indotto il Comune a prevedere una così elevata dotazione di standard, che sarebbero perciò idonee a giustificare una tale scelta.
Tuttavia tali motivazioni, peraltro sparse in più documenti, non sembrano legittimare la scelta di aumentare in maniera così consistente, ovvero a 85 mq/abitante, le dotazioni già previste in precedenza, pari a 68 mq/abitante, e già ampiamente sovradimensionate rispetto alla previsione di legge (18 mq/abitante).
Tra l’altro, alle predette aree destinate a servizi si aggiungeranno anche quelle che verranno realizzate e cedute nell’ambito della pianificazione attuativa.
Inoltre, negli stessi documenti pianificatori si dà atto che “il territorio comunale possiede una ricca e articolata dotazione di aree a verde: dal verde di quartiere sino ad aree di forestazione urbana, dai parchi urbani e gli impianti sportivi al verde di arredo e verde stradale, dalle aree agricole a vere e proprie articolazioni di sistemi di spazi aperti verdi quali il Parco del Seveso e il Parco Sovracomunale del GrugnotortoVilloresi” (all. 15 del Comune, pag. 39).
E ancora, va segnalato che lo stato di attuazione dei servizi previsti dalla strumentazione urbanistica previgente non è completo, ma riguarda soltanto il 55% della complessiva previsione di servizi (all. 15 del Comune, pag. 34).
Da ciò discende l’illegittimità della previsione che stabilisce uno standard pari a 85 mq/abitante, notevolmente superiore a quello indicato dall’art. 9, comma 3, della legge regionale n. 12 del 2005 e anche più elevato di quello già stabilito dal previgente strumento urbanistico, nonostante il territorio comunale sia già dotato di molte aree a servizi e una buona parte degli stessi non sia stata ancora attuata.
Ciò appare coerente con la giurisprudenza di questo Tribunale, secondo la quale il Comune è tenuto a motivare in maniera idonea e congrua sulle ragioni che impongono l’aumento degli standard rispetto alle previsioni normative, in caso contrario risultando illegittima una tale scelta (TAR Lombardia, Milano, IV, 30.07.2018, n. 1863).
Difatti, “la motivazione rafforzata deve investire il complesso delle previsioni urbanistiche di sovradimensionamento e deve, quindi, chiarire perché il Comune abbia inteso superare i limiti minimi previsti dalla legge” (TAR Lombardia, Milano, II, 15.07.2016, n. 1429; di recente, II, 12.11.2019, n. 2380).

URBANISTICALe conclusioni del giudice di primo grado sulla conformità della clausola negoziale in esame all'art. 28 della legge n. 1150 del 1942 e 1069 c.c. risultano convincenti.
Invero, relativamente all’art. 28, va evidenziato che il comma 5 di quest’ultimo elenca una serie di modalità attraverso le quali, in sede di convenzione di lottizzazione, possono definirsi gli oneri gravanti sui privati proprietari ai fini della realizzazione delle opere di urbanizzazione, sia primaria che secondaria.
Tra le opzioni rientra anche quella prospettata dal n. 2), il quale prevede, in alternativa alla cessione all’Amministrazione comunale della titolarità sulle aree destinate ad accogliere le opere anzidette, “l'assunzione, a carico del proprietario, degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria relative alla lottizzazione o di quelle opere che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi; la quota è determinata in proporzione all'entità e alle caratteristiche degli insediamenti delle lottizzazioni”.
In questo quadro, può dunque ritenersi che sia non sia illegittimo prevedere che gli acquirenti delle unità immobiliari risultanti dai processi di lottizzazione urbanistica e che mantengono il dominium sulle aree da destinare a fini di pubblica utilità, possano essere anche destinatari degli oneri economici necessari al fine di assicurare una siffatta destinazione.
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... per la riforma della sentenza 22.10.2014 n. 2526 del TAR Lombardia-Milano, Sez. II, resa tra le parti, concernente la costituzione di una servitù pubblica su un’area ricompresa nell’ambito di una convenzione di lottizzazione.
...
1. La presente controversia attiene all’esecuzione della convenzione urbanistica originariamente stipulata tra la Va.Co. s.r.l., oggi Vi.Po. s.r.l., e il Comune San Donato Milanese.
In forza di questo accordo, la Società, in attuazione di un piano di lottizzazione adottato con precedente delibera del Consiglio comunale, si impegnava a costituire una servitù di uso pubblico su aree ricomprese tra la superficie lottizzata e un lago artificiale. La servitù avrebbe dovuto consentire la persistente fruibilità delle aree in questione ad opera della collettività.
1.1. Successivamente, con atti pubblici regolarmente trascritti, la Società alienava a privati le unità immobiliari realizzate sui terreni oggetto di lottizzazione.
Nei medesimi atti di compravendita gli acquirenti conferivano alla stessa Società la procura irrevocabile alla stipula, con l’Amministrazione comunale, delle ulteriori convenzioni necessarie per le cessioni e le costituzioni di diritti reali, in favore del medesimo Comune.
1.2. Con un primo atto, sottoscritto il 04.11.2010, il signor Gi.Ma., agendo in nome e per conto della Società lottizzante, concludeva un accordo con il Comune per effetto del quale veniva costituito, tra le altre cose, un diritto di superficie sulle aree individuate dalla precedente convenzione urbanistica. L’accordo prevedeva altresì che i proprietari delle aree lottizzate si obbligassero a sostenere le spese di manutenzione ordinaria e straordinaria della suddetta servitù.
1.3. Alcuni dei partecipanti al Condominio Re.La., odierno appellante, contestavano tale accordo, in quanto sottoscritto da soggetto che, alla data della stipula, non era più titolare di poteri di legale rappresentanza della Società firmataria, e comunque concluso con superamento dei limiti della procura precedentemente conferita.
1.4. Ciononostante, con un nuovo atto pubblico stipulato in data 30.11.2011, la Società lottizzante aveva provveduto a ratificare l’accordo precedentemente sottoscritto dal signor Ma., facendo propria la volontà negoziale da questi manifestata.
1.5. Seguivano ulteriori istanze dei condomini, indirizzate tanto al Comune quanto alla Società, con le quali si chiedeva di dichiarare l’inefficacia o, comunque, l’invalidità della clausola con la quale era stata prevista l’assunzione a loro carico degli oneri legati alla manutenzione ordinaria e straordinaria delle aree su cui insisteva la servitù di uso pubblico.
2. Gli stessi condomini e l’intero Condominio Re.La., a fronte dell’inerzia mantenuta sulle loro istanze, proponevano quindi ricorso al Tar per la Lombardia, sede di Milano, per far accertare l’illegittimità del silenzio dell’Amministrazione e per far dichiarare l’inefficacia della clausola relativa agli obblighi di manutenzione della servitù pubblica.
2.1. Il Tar, dopo avere dichiarato improcedibile il ricorso per sopravvenuto difetto di interesse relativamente all’accertamento dell’illegittimità del silenzio (gli stessi ricorrenti hanno dichiarato nel corso del giudizio di non avere più interesse alla domanda), ha ritenuta infondata la richiesta di accertamento dell’inefficacia della clausola sugli oneri di manutenzione (quest’ultima, secondo lo stesso Tribunale, doveva ritenersi perfettamente efficace nei confronti dei ricorrenti, essendo stata ratificata dalla Società nell’esercizio dei poteri di rappresentanza a questa conferiti con la pregressa procura irrevocabile.
In aggiunta a ciò, il Tar ha sottolineato che, contrariamente a quanto dedotto nel ricorso introduttivo, l’accollo degli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria ai privati proprietari delle unità immobiliari risultanti dalla eseguita lottizzazione non si poneva in contrasto né con l’art. 28 della legge n. 1150 del 1942, né con l’art. 1069 c.c..
3. Avverso la predetta sentenza hanno proposto appello il Condominio Re.La. e i singoli condomini.
3.1. In particolare, nel ricorso essi hanno sottolineato la fondatezza della domanda di accertamento dell’inefficacia della clausola contenuta nell’accordo originariamente concluso dal “falsus procurator” della Società, dal momento che la ratifica avrebbe dovuto essere effettuata dai singoli privati e non dalla Società in nome e per conto di essi.
3.2. Gli appellanti hanno poi prospettato la violazione dell’art. 28 della legge n. 1150 del 1942 e dell’art. 1069 c.c., i quali, con norme imperative, precluderebbero agli atti costitutivi di servitù di uso pubblico la facoltà di porre gli oneri di manutenzione delle corrispondenti opere a carico dei soggetti gravati dalla medesima servitù. Ciò salvo diversa e specifica pattuizione che, nel caso di specie, non sarebbe stata inserita nella presupposta convenzione urbanistica, a seguito della quale era stata conferita la procura alla Società lottizzante.
...
7. L’appello non è fondato.
8. Innanzitutto, occorre soffermarsi sull’idoneità della ratifica posta in essere dalla Società lottizzante, con atto pubblico stipulato e registrato successivamente a quello posto in essere dal “falsus procurator”, vale a dire dal signor Ma., a produrre i propri effetti anche nei confronti dei privati proprietari rappresentati, vincolandoli al rispetto degli obblighi ratificati.
8.1. A conforto di una soluzione positiva deve richiamarsi il disposto dell’art. 1399, primo comma, c.c., il quale consente al soggetto interessato di ratificare, ossia di fare proprio, il contratto che sia stato concluso da un soggetto privo di alcun potere di rappresentanza ovvero che abbia agito al di là dei limiti della potestà rappresentativa precedentemente conferitagli.
Rispetto alla fattispecie concreta qui esaminata, si tratta allora di valutare se la ratifica in questione potesse, così come è concretamente avvenuto, provenire dalla Società destinataria dell’originaria procura ovvero se si rendesse necessaria la diretta ratifica ad opera dei privati proprietari che avevano precedentemente conferito la medesima procura.
8.2. A favore della prima soluzione militano due concorrenti ordini di ragione. In primo luogo, non sembra potersi escludere, alla stregua dei principi generali, che il rappresentante originariamente designato abbia la facoltà di ratificare, in nome e per conto del rappresentato, atti negoziali conclusi da un soggetto terzo, agente in veste di falsus procurator, a condizione, ovviamente, che gli atti ratificati rientrino nell’oggetto della procura. Ciò in quanto gli effetti della compiuta ratifica si imputano direttamente alla sfera giuridica del rappresentato e, pertanto, non dovrebbe esservi alcuna differenza tra la ratifica operata personalmente dal rappresentato e la ratifica che, viceversa, sia manifestata per il tramite del rappresentante inizialmente designato.
8.3. Del resto, né l’art. 1388 c.c., né gli articoli a questo immediatamente seguenti pongono limitazioni di sorta rispetto agli atti suscettibili di essere compiuti per mezzo di un rappresentante, se non per quelli c.d. “personalissimi”.
8.4. Tra questi dovrebbe pertanto ricondursi anche la ratifica.
Non vi sono, infatti, differenze tra la stipula, in via diretta, di un determinato contratto e la ratifica di un negozio, avente identico contenuto dispositivo, che sia stato previamente sottoscritto da un falsus procurator.
8.5. Inoltre, va poi rilevato che il signor Ma. ha agito in forza di un preteso rapporto di “rappresentanza organica” con la Società cui era stata conferita la procura.
Pertanto, alla luce delle speciali caratteristiche che connotano questa forma impropria di “rappresentanza”, ontologicamente distinta dalla rappresentanza volontaria di cui agli artt. 1388 e ss. c.c., appare ragionevole ritenere che il potere di ratifica degli atti realizzati dal soggetto che pretenda di porsi quale organo di una Società debba riconoscersi unicamente alla Società stessa.
8.6. In sostanza, lo stesso non ha agito tanto quale falsus procurator degli acquirenti delle unità immobiliari risultanti dalla lottizzazione, bensì quale “falso organo” della Società cui essi avevano conferito apposita procura. Pertanto, non poteva che essere la Società a determinarsi nel senso della ratifica o meno degli atti da questi compiuti.
8.7. Sotto quest’ultima prospettiva, va dunque rilevato che la materia dei vizi dei poteri rappresentativi deve essere ricondotta all’art. 2475-bis c.c., con la conseguenza che gli atti ultra vires eventualmente compiuti dall’amministratore o da chi si è esternato come tale devono essere necessariamente ratificati dalla società.
9. Quanto al tema se tra i poteri di rappresentanza attribuiti con l’originaria procura rientrasse anche la facoltà di prevedere, all’atto della costituzione della prevista servitù di uso pubblico su alcune aree limitrofe ai terreni lottizzati, l’assunzione, in capo ai proprietari rappresentati, degli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria delle corrispondenti opere, va rilevato che le conclusioni del giudice di primo grado sulla conformità della clausola negoziale in esame all'art. 28 della legge n. 1150 del 1942 e 1069 c.c. risultano convincenti.
9.1. Relativamente all’art. 28, va evidenziato che il comma 5 di quest’ultimo elenca una serie di modalità attraverso le quali, in sede di convenzione di lottizzazione, possono definirsi gli oneri gravanti sui privati proprietari ai fini della realizzazione delle opere di urbanizzazione, sia primaria che secondaria.
Tra le opzioni rientra anche quella prospettata dal n. 2), il quale prevede, in alternativa alla cessione all’Amministrazione comunale della titolarità sulle aree destinate ad accogliere le opere anzidette, “l'assunzione, a carico del proprietario, degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria relative alla lottizzazione o di quelle opere che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi; la quota è determinata in proporzione all'entità e alle caratteristiche degli insediamenti delle lottizzazioni”.
9.2. In questo quadro, può dunque ritenersi che sia non sia illegittimo prevedere che gli acquirenti delle unità immobiliari risultanti dai processi di lottizzazione urbanistica e che mantengono il dominium sulle aree da destinare a fini di pubblica utilità, possano essere anche destinatari degli oneri economici necessari al fine di assicurare una siffatta destinazione.
9.3. In relazione all’invocato contrasto con l’art. 1069 c.c., va invece rilevato che tale disposizione, al secondo comma, fissa sì una regola generale in forza della quale le spese correlate alle opere necessarie per l’esercizio della servitù gravano sul proprietario del fondo dominante, ma, al tempo stesso, conferisce una chiara portata “dispositiva” alla stessa indicazione, consentendo espressamente alle parti dell’accordo costitutivo di derogarvi.
Pertanto, è legittimo stabilire che sia il proprietario dei fondi gravati da vincolo di servitù a farsi carico delle spese e degli altri oneri conseguenti alla costituzione del medesimo vincolo.
9.4. La parte appellante ha contestato la ricostruzione qui operata affermando che, in realtà, l’accollo ai proprietari degli oneri di manutenzione non era previsto dall’originaria convenzione urbanistica di lottizzazione, in esecuzione della quale è stato stipulato il successivo accordo costitutivo della servitù di cui si discorre.
Tuttavia, è opportuno notare che il “titolo” fondante il vincolo reale in esame deve farsi coincidere non con la convenzione da ultimo nominata, bensì con il successivo accordo attuativo.
9.5. In altri termini, non essendo stato previsto alcunché nell’ambito della convenzione di lottizzazione “a monte”, ben potevano le parti dell’accordo “a valle”, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, prevedere la forma di riparto degli oneri discendenti dalla servitù di uso pubblico reputata più opportuna.
Tale ampia e impregiudicata autonomia, con ogni evidenza, deve pertanto riconoscersi anche alla Società lottizzante, che ha agito in qualità di rappresentante dei privati acquirenti delle unità immobiliari risultanti dalla lottizzazione.
10. Per le ragioni sopra esposte, l’appello va respinto e, per l’effetto, va confermata la sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.02.2020 n. 1010 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

ANNO 2019

URBANISTICA: Sul ricorso dell'A.C. dove si richiede l’accertamento del diritto della stessa Amministrazione ad ottenere l’esatto adempimento della convenzione urbanistica affinché il sottoscrittore sia condannato ad adempiere alle obbligazioni rimaste inottemperate e consistenti nel consegnare le aree sulle quali insistono le opere di urbanizzazione rimaste incompiute.
Con riferimento a detta azione di accertamento va confermata la giurisdizione del G.A. in ossequio ad un costante orientamento giurisprudenziale (antecedente all’introduzione dell’art. 133 cpa) laddove ritiene che in materia di esecuzione di una Convenzione si verta in un’ipotesi di giurisdizione esclusiva, la quale è da individuarsi anche tutte le volte che vengano in discussione questioni su diritti e, ciò, considerando che "il rimedio previsto dall'art. 2932 c.c. a fine di ottenere l'esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto, deve ritenersi applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale sorga l'obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia in relazione ad un atto o ad un fatto dai quali detto obbligo possa sorgere ex lege”.
Peraltro, già prima della legge sul procedimento amministrativo, la giurisprudenza era giunta a definire le convenzioni o gli atti d'obbligo, eventualmente stipulati tra Comune e soggetti richiedenti una concessione edilizia, quali atti suscettibili di integrare la fonte negoziale di regolamento dei contrapposti interessi delle parti stipulanti, “con la conseguenza che le controversie ad esse relative si risolvono in controversie attinenti allo stesso provvedimento concessorio e sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo”.
Si è affermato,, infatti, che lo strumento di cui all'art. 2932 c.c. è utilizzabile non solo nei caso di inadempimento ad obblighi di stipulazione discendenti da un contratto preliminare, ma anche per gli obblighi aventi titolo nella legge (nella specie dall'art. 28, comma 5, della L. n. 1150/1942 che subordina l'autorizzazione comunale per la lottizzazione di un'area alla stipula di una convenzione, da trascriversi a cura del proprietario, che preveda, tra l'altro, la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, nonché la cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione secondaria).

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Di recente si avuto modo di confermare che, in caso di mancata esecuzioni di lavori inerenti la realizzazione di un piano di lottizzazione di iniziativa privata, l'Amministrazione può agire dinanzi al Giudice amministrativo, competente in via esclusiva per la materia (atteso che agli accordi amministrativi de quo si applicano le disposizioni civilistiche in materia di obbligazioni e contratti) ai sensi dell'art. 2932 c.c. onde accertare l'inadempimento ed ottenere, in conseguenza, il trasferimento delle aree destinate a cessione gratuita.
E’, altresì noto che, con gli art. 30, comma 1, e 34 del cpa, si è legittimato il Giudice Amministrativo ad emanare pronunce dichiarative, costitutive e di condanna, idonee a soddisfare l’effettiva pretesa sostanziale dedotta in giudizio.
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L'acquisizione delle aree ove insistono le opere di urbanizzazione da parte del Comune costituisce un obbligo puntualmente enunciato dall'art. 28 della L. n. 1150 del 1942, ove al quinto comma si prevede -nel testo conseguente alle sostituzioni disposte per effetto dell'art. 8 della L. n. 847 del 1967- che la convenzione di lottizzazione debba contemplare, comunque, "la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, precisate dall'articolo 4 della L. 29.09.1964, n. 847", cosicché trova applicazione l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale “per le dette opere di urbanizzazione si registra una presunzione iuris et de iure di proprietà pubblica, con la conseguenza che per tali interventi, a seguito dell'entrata in vigore del T.U. edilizia, non può ipotizzarsi la permanenza in capo ai privati della relativa proprietà”.
Il Legislatore, nel disciplinare le opere di urbanizzazione, ha confermato la possibilità della realizzazione diretta c.d. a scomputo dal contributo di concessione ma non ha lasciato alcun dubbio in merito al passaggio della proprietà delle stesse, una volta realizzate, in capo all'ente pubblico territoriale di riferimento, prevedendone la confluenza nel patrimonio indisponibile (art. 16, comma 2, Dpr n. 380 del 2001) e, ciò, ad ulteriore riprova che si tratti di beni destinati alla fruizione pubblica.
In altri termini per le dette opere di urbanizzazione si registra una presunzione iuris et de iure di proprietà pubblica, con la conseguenza che per tali interventi, a seguito dell'entrata in vigore del T.U. edilizia, non può ipotizzarsi la permanenza in capo ai privati della relativa proprietà.
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1. Il ricorso è da accogliere.
1.1 In primo luogo è necessario precisare come il ricorso di cui si tratta vede quale parte attrice l’Amministrazione comunale, nell’ambito di un giudizio c.d. a parti invertite, dove si richiede l’accertamento del diritto della stessa Amministrazione ad ottenere l’esatto adempimento della Convenzione del 2009 sottoscritta con la società Ca. del Po., affinché quest’ultima sia condannata ad adempiere alle obbligazioni rimaste inottemperate e consistenti nel consegnare le aree sulle quali insistono le opere di urbanizzazione rimaste incompiute entro il 10.12.2013.
1.2 Con riferimento a detta azione di accertamento va confermata la Giurisdizione di questo Tribunale, in ossequio ad un costante orientamento giurisprudenziale (antecedente all’introduzione dell’art. 133 cpa) laddove ritiene che in materia di esecuzione di una Convenzione si verta in un’ipotesi di giurisdizione esclusiva, la quale è da individuarsi anche tutte le volte che vengano in discussione questioni su diritti e, ciò, considerando che "il rimedio previsto dall'art. 2932 c.c. a fine di ottenere l'esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto, deve ritenersi applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale sorga l'obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia in relazione ad un atto o ad un fatto dai quali detto obbligo possa sorgere ex lege (Cass. n. 6792 del 08/08/1987; Cass. n. 7157 del 15/04/2004; Cass. n. 13403 del 23/05/2008)”.
1.3 Peraltro, già prima della legge sul procedimento amministrativo, la giurisprudenza era giunta a definire le convenzioni o gli atti d'obbligo, eventualmente stipulati tra Comune e soggetti richiedenti una concessione edilizia, quali atti suscettibili di integrare la fonte negoziale di regolamento dei contrapposti interessi delle parti stipulanti, “con la conseguenza che le controversie ad esse relative si risolvono in controversie attinenti allo stesso provvedimento concessorio e sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (Cass. civ., Sez. Un., 12.11.2001, n. 14031; 29.01.2001, n. 29; 20.04.2007, n. 9360)”.
1.4 Si è affermato,, infatti, che lo strumento di cui all'art. 2932 c.c. è utilizzabile non solo nei caso di inadempimento ad obblighi di stipulazione discendenti da un contratto preliminare, ma anche per gli obblighi aventi titolo nella legge (nella specie dall'art. 28, comma 5, della L. n. 1150/1942 che subordina l'autorizzazione comunale per la lottizzazione di un'area alla stipula di una convenzione, da trascriversi a cura del proprietario, che preveda, tra l'altro, la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, nonché la cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione secondaria).
1.5 Anche questo Tribunale di recente ha avuto modo di confermare che, in caso di mancata esecuzioni di lavori inerenti la realizzazione di un piano di lottizzazione di iniziativa privata, l'Amministrazione può agire dinanzi al Giudice amministrativo, competente in via esclusiva per la materia (atteso che agli accordi amministrativi de quo si applicano le disposizioni civilistiche in materia di obbligazioni e contratti) ai sensi dell'art. 2932 c.c. onde accertare l'inadempimento ed ottenere, in conseguenza, il trasferimento delle aree destinate a cessione gratuita (TAR Toscana Firenze Sez. III, 17/01/2018, n. 68).
1.6 E’, altresì noto che, con gli art. 30, comma 1, e 34 del cpa, si è legittimato il Giudice Amministrativo ad emanare pronunce dichiarative, costitutive e di condanna, idonee a soddisfare l’effettiva pretesa sostanziale dedotta in giudizio.
1.7 Applicando detti principi è evidente la fondatezza dell’attuale ricorso.
E’ dirimente constatare che l’art. 1 della convenzione del 2009 impegnava la società lottizzante a realizzare le previsioni del piano attuativo approvato con deliberazione del Consiglio Comunale n. 12 del 20/03/2002 e, quindi, a eseguire le opere di urbanizzazione primaria e secondaria e, da ultimo a cedere gratuitamente entro il 20/12/2013 le aree destinate alla realizzazione delle onere di urbanizzazione e secondaria.
1.8 Si consideri, inoltre, che il Comune, con sopralluogo tecnico del 15.04.2010, aveva avuto modo di verificare l’effettiva realizzazione del primo stralcio delle opere di urbanizzazione primaria, oggetto della prima concessione edilizia n. 15 del 2004, svincolando parzialmente la garanzia fideiussoria.
1.9 L'acquisizione delle aree ove insistono le opere di urbanizzazione da parte del Comune costituisce un obbligo puntualmente enunciato dall'art. 28 della L. n. 1150 del 1942, ove al quinto comma si prevede -nel testo conseguente alle sostituzioni disposte per effetto dell'art. 8 della L. n. 847 del 1967- che la convenzione di lottizzazione debba contemplare, comunque, "la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, precisate dall'articolo 4 della L. 29.09.1964, n. 847", cosicché trova applicazione l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale “per le dette opere di urbanizzazione si registra una presunzione iuris et de iure di proprietà pubblica, con la conseguenza che per tali interventi, a seguito dell'entrata in vigore del T.U. edilizia, non può ipotizzarsi la permanenza in capo ai privati della relativa proprietà (TAR Puglia Bari, sez. II, 01.07.2010, n. 2815; TAR Calabria Catanzaro, Sezione I, 09.03.2012 n. 245)”.
2. Il Legislatore, nel disciplinare le opere di urbanizzazione, ha confermato la possibilità della realizzazione diretta c.d. a scomputo dal contributo di concessione ma non ha lasciato alcun dubbio in merito al passaggio della proprietà delle stesse, una volta realizzate, in capo all'ente pubblico territoriale di riferimento, prevedendone la confluenza nel patrimonio indisponibile (art. 16 comma 2, Dpr n. 380 del 2001) e, ciò, ad ulteriore riprova che si tratti di beni destinati alla fruizione pubblica.
2.1 In altri termini per le dette opere di urbanizzazione si registra una presunzione iuris et de iure di proprietà pubblica, con la conseguenza che per tali interventi, a seguito dell'entrata in vigore del T.U. edilizia, non può ipotizzarsi la permanenza in capo ai privati della relativa proprietà (cfr. TAR Puglia Bari, sez. II, 01.07.2010, n. 2815) (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 06.11.2019 n. 1498 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAL’obbligo per il Comune di prendere in consegna le opere di urbanizzazione deriva direttamente dall’articolo 28 della legge n. 1150/1942, in virtù del quale le parti (lottizzante e Comune) devono prevedere in convenzione il termine entro il quale dovrà avvenire la cessione gratuita delle aree interessate dalle opere di urbanizzazione in favore del Comune.
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... per la declaratoria di illegittimità e l'annullamento:
   - del silenzio serbato dal Comune di Cabras sull'intimidazione/diffida 13.05.2015, trasmessa il 14.05.2015, e del conseguente inadempimento alla presa in carico, da parte dell'Amministrazione Comunale, delle opere di urbanizzazione primaria della lottizzazione Funtana Meiga in territorio di Cabras;
per l'accertamento e la declaratoria dell'obbligo:
   - del Comune di Cabras di prendere in carico, mediante l'adozione degli atti e delle operazioni materiali all'uopo occorrenti, tutte le opere di urbanizzazione primaria realizzate nella lottizzazione Funtana Meiga in territorio di Cabras, entro e non oltre il termine di trenta giorni dalla comunicazione o notificazione della sentenza;
...
Passando al merito della questione controversa, il ricorso in esame, nella parte in cui si chiede l’accertamento dell’obbligo del Comune di Cabras di prendere in carico tutte le opere di urbanizzazione primaria realizzate nella lottizzazione Funtana Meiga in territorio di Cabras, risulta parzialmente fondato nei sensi di seguito specificati.
Ritiene il collegio di dovere confermare, anche avuto riguardo alla fattispecie oggi in esame, i principi già affermati da questo Tribunale, seconda sezione, in fattispecie analoghe ed in particolare con la sentenza del Tar Sardegna, seconda sezione, n. 282 del 27.03.2018, nonché con la sentenza n. 404 del 15.05.2013, confermata dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 4169 dell’08.09.2015.
In ordine all’obbligo del Comune di prendere in carico le opere di urbanizzazione primaria, si richiama la costante giurisprudenza della Sezione, in base alla quale l’obbligo per il Comune di prendere in consegna le opere di urbanizzazione deriva direttamente dall’articolo 28 della legge n. 1150/1942, in virtù del quale le parti (lottizzante e Comune) devono prevedere in convenzione il termine entro il quale dovrà avvenire la cessione gratuita delle aree interessate dalle opere di urbanizzazione in favore del Comune (cfr. al riguardo, ex multis, TAR Sardegna, Sezione II, n. 404 del 15.05.2013 e n. 480 del 04.08.2011).
In primo luogo, si rileva che la presa in carico delle opere di urbanizzazione da parte del Comune deve avvenire previo collaudo delle opere di urbanizzazione e trasferimento della proprietà delle aree di sedime delle opere medesime al patrimonio comunale (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 22.06.2019 n. 563 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

URBANISTICADestinazione di un’area a standard.
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Urbanistica - Servitù di uso pubblico - Destinazione di un’area a standard – Uti cives.
La destinazione di un’area a standard è finalizzata mediante una servitù di uso pubblico alla fruizione della stessa da parte dell’intera collettività indistinta dei cittadini (uti cives) e non all’uso limitato (uti singuli) da parte dei soli utenti delle unità immobiliari in relazione alle quali è sorto l’obbligo della dotazione degli standard (1).
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   (1) Il comune di Flero autorizza nel 1982 una lottizzazione (capannoni industriali) ottenendo in cambio aree a standard: verde, parcheggi pubblici, magazzino comunale.
Di fatto però negli anni le ditte proprietarie dei capannoni utilizzano quegli spazi pubblici (parcheggi e aree esterne al magazzino comunale) come spazio di manovra per gli autotreni pesanti che accedono ai capannoni per consegnare o ritirare merce.
Nel 2014 il comune –verificato che gli standard sono sovrabbondanti– aliena mediante asta pubblica parte dei parcheggi e il magazzino ad una società LAI, la quale mediante recinzione delimita la sua nuova proprietà.
A questo punto le Ditte, private degli spazi esterni di manovra, insorgono avanti al TAR Brescia che accoglie il ricorso.
Il punto decisivo secondo il TAR è che, nonostante gli standard a parcheggio siano stati ceduti al Comune e svolgano la funzione di parcheggi destinati alla collettività, in concreto, il loro uso nel tempo li avrebbe trasformati in “piazzali di manovra” con la tolleranza del Comune e che, comunque, la convenzione di lottizzazione del 1982 andrebbe interpretata nel senso che la previsione di realizzazione e cessione di parcheggi pubblici in ambito produttivo implica la facoltà di utilizzazione degli stessi spazi come aree di manovra per le ditte lottizzanti.
Su appello del comune e della Lai la sentenza annotata disattende radicalmente questa statuizione.
Il Collegio non pone in dubbio che dette aree siano state utilizzate per un consistente arco temporale anche e soprattutto per queste finalità prettamente private delle imprese del comparto, né pone in dubbio che la recinzione dell’area possa costituire un potenziale intralcio alle manovre dei conducenti dei camion per l’accesso alle aziende, ma ribadisce che le aree standard sono state acquisite dal Comune per finalità pubbliche, e non come spazi di manovra degli autoarticolati, e la circostanza che poi siano state utilizzate anche o soprattutto per tali finalità a servizio delle imprese non fa venire meno la destinazione giuridicamente loro impressa e la conseguente facoltà per il Comune di alienare gli immobili nel rispetto delle norme di legge (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.06.2019 n. 4069 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA-  URBANISTICAGli standard urbanistici costituiscono, a norma dell’art. 17 della legge n. 765/1967 e del d.m. n. 1444/1968, dotazioni minime e inderogabili di spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggio.
Per assolvere a tale funzione, le aree destinate a standard di verde pubblico non possono essere sottratte alla fruizione collettiva, che ne rappresenta la funzione tipica nell’ambito dell’organizzazione generale del territorio comunale e che non è riducibile al solo ruolo di riequilibrio del rapporto tra porzioni edificate e porzioni inedificate del territorio, non vedendosi, altrimenti, quale differenza vi sarebbe rispetto a una destinazione a verde privato.

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... per l'annullamento:
   - dell'ordinanza n. 251 del 26.11.2014, con cui il Dirigente del Settore Gestione del Territorio del Comune di Cecina ha annullato in autotutela la SCIA presentata al prot. 20183 il 22.07.2014 dal Sig. Ro.Ba. per l'avvio dell'attività di realizzazione di una recinzione in pali e rete metallica in area a verde privata ubicata in Cecina, via ...;
   - dell'ordinanza n. 177 del 21.08.2014, con la quale il Dirigente del Settore Gestione del Territorio del Comune di Cecina ha disposto il divieto di prosecuzione delle attività di cui alla SCIA innanzi richiamata;
...
1. Il ricorrente, signor Ro.Ba., è proprietario nel Comune di Cecina di un’area inedificata, di forma rettangolare, posta in fregio alla via .... Essa ha destinazione urbanistica a verde pubblico secondo il regolamento urbanistico comunale approvato con deliberazione consiliare del 27.03.2014, che il signor Ba. ha impugnato in parte qua mediante ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, ancora non definito.
Il presente giudizio origina, invece, dall’impugnazione che il ricorrente propone avverso i provvedimenti adottati dal Comune a fronte dell’iniziativa, da lui formalizzata con S.C.I.A. del 22.07.2014, di recintare l’area in questione sull’unico lato libero (quello al confine con la pubblica via, essendo gli altri lati già delimitati dai muri di cinta delle proprietà limitrofe).
Si tratta in particolare dell’ordinanza n. 177 del 21.08.2014, con la quale è stata inibita la prosecuzione dell’attività, e della successiva ordinanza n. 251 del 26.11.2014 di “annullamento” in autotutela della S.C.I.A., ambedue motivate – in estrema sintesi – con riguardo all’esigenza di tutelare l’uso pubblico gravante sull’area, che verrebbe a essere impedito dalla recinzione.
...
Attualmente, l’area è destinata a standard di “verde pubblico esistente” che le deriva dal regolamento urbanistico approvato dal Comune nel 2014. È dunque errata la qualificazione contenuta nella S.C.I.A. presentata dal ricorrente, ove si parla di area a “verde privato”.
Dal canto loro, gli atti impugnati prima che alla destinazione urbanistica hanno riguardo, lo si è accennato, all’esistenza di un diritto di uso pubblico formatosi attraverso l’utilizzo collettivo del bene come area verde al servizio della collettività indeterminata dei cives, protratto da tempo immemorabile e accompagnato dall’idoneità del bene stesso a soddisfare esigenze di carattere generale, nonché confermato dalla ripetuta esecuzione di interventi manutentivi (taglio dell’erba, piantumazione di alberi) da parte del Comune. L’ordinanza del 26.11.2014 fa espressamente risalire le origini dell’uso pubblico del terreno all’epoca dell’urbanizzazione di quell’area cittadina e all’iniziale previsione del suo acquisto gratuito alla mano pubblica, poi non verificatosi; e parimenti ascrive a tale previsione iniziale la giustificazione dell’attuale destinazione a verde del terreno.
Ora, è ben possibile scorgere nel contratto di compravendita/donazione del 1973 e negli impegni assunti in quella sede dagli allora proprietari un principio di prova della messa a disposizione del terreno in favore della collettività. Ai fini di causa, non giova tuttavia approfondire se ci si trovi in presenza della costituzione di una servitù pubblica per dicatio ad patriam, che, com’è noto, prescinde dalle ragioni e dalle intenzioni sottese al comportamento del proprietario, il quale assoggetti volontariamente e in modo non precario un bene all’uso pubblico.
A essere irrimediabilmente incompatibile con la chiusura del fondo è, infatti, la sua destinazione a standard di verde pubblico esistente, che sembra voler prendere atto di una situazione in essere e della quale i provvedimenti comunali danno comunque conto.
Gli standard urbanistici costituiscono, a norma dell’art. 17 della legge n. 765/1967 e del d.m. n. 1444/1968, dotazioni minime e inderogabili di spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggio. Per assolvere a tale funzione, le aree destinate a standard di verde pubblico non possono essere sottratte alla fruizione collettiva, che ne rappresenta la funzione tipica nell’ambito dell’organizzazione generale del territorio comunale e che non è riducibile al solo ruolo di riequilibrio del rapporto tra porzioni edificate e porzioni inedificate del territorio, non vedendosi, altrimenti, quale differenza vi sarebbe rispetto a una destinazione a verde privato (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 06.08.2013, n. 4148; id., sez. IV, 21.12.2012, n. 6656).
Se poi la destinazione impressa al fondo di proprietà del ricorrente presenti natura conformativa o espropriativa, con tutto quel che ne consegue in termini di durata e di indennizzabilità, è questione che non dipende dalla compressione di singole facoltà dominicali, ma, più in generale, dal contenuto delle attività consentite al proprietario dalla disciplina urbanistica dell’area. In ogni caso, essa non rileva ai fini della presente decisione e andrà risolta in altra sede.
Indipendentemente dalla prova certa dell’esistenza del diritto di uso pubblico rivendicato dall’amministrazione resistente, il divieto di prosecuzione dell’attività opposto dal Comune al ricorrente appare dunque frutto di una scelta legittima ed anzi obbligata, come legittimo è il successivo “annullamento” della S.C.I.A., ancorché non necessario una volta esercitato il potere inibitorio (nel sistema delineato dall’art. 19 della legge n. 241/1990, l’intervento in autotutela disciplinato dal quarto comma ha una funzione rimediale rispetto al mancato esercizio del potere inibitorio di cui al terzo comma).
3. In forza di tutte le considerazioni che precedono, il ricorso non può trovare accoglimento (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 14.06.2019 n. 853 - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIOAcquisto di fondi per la realizzazione di aree pubbliche.
DOMANDA:
Un Comune rappresenta che, dopo aver accantonato una quota di avanzo vincolato derivante da monetizzazioni aree di standard urbanistiche, vorrebbe impegnarlo per l'acquisizione di un terreno adiacente ad un campo da calcio che era stato concesso in comodato al Comune e che il proprietario vuole vendere o, altrimenti, vedersi restituito.
RISPOSTA:
In relazione al supposto impiego di dette risorse per l'acquisto del sedime adiacente all'impianto sportivo comunale si osserva quanto segue.
L'art. 46 della Legge Regionale Lombardia n. 12/2005 prevede testualmente, per quanto qui più interessa, che: “La convenzione, alla cui stipulazione è subordinato il rilascio dei permessi di costruire ovvero la presentazione delle denunce di inizio attività relativamente agli interventi contemplati dai piani attuativi, oltre a quanto stabilito ai numeri 3) e 4) dell’articolo 8 della legge 06.08.1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150) , deve prevedere:
   a) la cessione gratuita, entro termini prestabiliti, delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, nonché la cessione gratuita delle aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale previste dal piano dei servizi; qualora l’acquisizione di tali aree non risulti possibile o non sia ritenuta opportuna dal comune in relazione alla loro estensione, conformazione o localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa totale o parziale della cessione, che all’atto della stipulazione i soggetti obbligati corrispondano al comune una somma commisurata all’utilità economica conseguita per effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al costo dell’acquisizione di altre aree. I proventi delle monetizzazioni per la mancata cessione di aree sono utilizzati per la realizzazione degli interventi previsti nel piano dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di altre aree a destinazione pubblica
;”.
A sua volta, poi, tale previsione va letta in combinato disposto con il successivo art. 90 avente ad oggetto le aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale ove, tra le altre condizioni, viene precisato che “Nel caso in cui il programma integrato di intervento preveda la monetizzazione ai sensi dell’articolo 46, la convenzione di cui all’articolo 93 deve contenere l’impegno del comune ad impiegare tali somme esclusivamente per l’acquisizione di fabbricati o aree specificamente individuati nel piano dei servizi e destinati alla realizzazione di attrezzature e servizi pubblici, ovvero per la realizzazione diretta di opere previste nel medesimo piano”.
Orbene, date per legittime le monetizzazioni degli standard già svolte, l’utilizzo delle risorse derivanti è subordinata alla verifica a valle, da parte del Comune, che il bene oggetto di acquisizione risulti individuato nel piano dei servizi sia destinato all’effettiva realizzazione di attrezzature e servizi pubblici, ovvero di opere previste nel medesimo piano (cfr. Corte dei conti, sez. Lombardia, del. 100/2017) (31.03.2019 - link a www.conord.eu).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Trasferimento coattivo di opere di urbanizzazione.
Il TAR Brescia, accertato il diritto del Comune al trasferimento della proprietà di opere di urbanizzazione che una convenzione urbanistica prevedeva che fossero realizzate dal soggetto lottizzante, a scomputo degli oneri di costruzione, e preso atto dell’inadempimento della lottizzante all’assolvimento delle obbligazioni dedotte in Convenzione, accoglie la domanda proposta ex art. 2932 c.c. determinando il trasferimento coattivo delle aree in questione e ordina al competente Conservatore dei registri immobiliari di procedere alle trascrizione stessa, nei confronti di quale che sia il soggetto risultante come proprietario e, quindi, anche degli attuali proprietari dei fondi che ne abbiano medio tempore acquisito la proprietà, trattandosi di un’obbligazione reale (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 07.03.2019 n. 227 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
Il ricorso, così proposto, merita accoglimento.
Preliminarmente, però, il Collegio ritiene di dover affermare la propria giurisdizione. Da tempo, ormai, la giurisprudenza ha chiarito, infatti, come “
Le convezioni o gli atti d’obbligo stipulati fra Comune e privati destinatari di concessioni edilizie non hanno specifica autonomia come fonte negoziale di regolamento dei contrapposti interessi, con la conseguenza che le controversie ad esse relative, rientrando nel campo urbanistico, sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo di cui all’art. 16 della legge n. 10/1977 (cfr. Cass. SS.UU. Civili 20/4/2007 n. 9360)”.
Ancora più chiaramente, il giudice amministrativo d’appello ha affermato il principio secondo cui “
Qualora si discuta in ordine a inadempimenti di obblighi convenzionali di natura edilizio- urbanistica assunti in esecuzione di obblighi che per legge hanno finalità di pubblico interesse, è indubbio che dette convenzioni si inseriscano in un modulo procedimentale di diritto pubblico, tale per cui le controversie che intervengono in subiecta materia appartengono necessariamente alla giurisdizione amministrativa (cfr. Cons. Stato Sez. IV 22/01/2010 n. 214; Cons. Stato Sez. V 05/04/2011 n. 5711 e, da ultimo, Cons. Stato, 1069/2019)”.
Deve, dunque, ritenersi che rientrino nella giurisdizione del giudice amministrativo sia la domanda di accertamento del diritto del Comune di Valbrembo alla cessione gratuita delle aree per urbanizzazioni, nonché quella di pronuncia di una sentenza ex art. 2932 c.c., traslativa della proprietà, in quanto trattasi di domande connesse all’adempimento di obblighi collegati a una convenzione strettamente inerente all’esercizio delle funzioni autoritative avutosi con il precedente rilascio delle concessioni edilizie.
Quanto alla legittimazione passiva del soggetto intimato, si deve dare conto di come la società Pa. sia subentrata negli obblighi sottoscritti dai primi soggetti lottizzanti (la società SI. In.Im. s.r.l. e il sig. Fu.Vi.) assumendosi l’obbligo di eseguire gli impegni derivanti dalla convenzione di lottizzazione.
A tale proposito,
la giurisprudenza ha chiarito come la natura reale dell'obbligazione in esame riguardi sia i soggetti che stipulano la convenzione, che quelli che richiedono la concessione e quelli che realizzano l'edificazione ed i loro aventi causa (da ultimo Cass. civile, Sez. II, 27.08.2002, n. 12571).
Ne consegue che, accertato il diritto del Comune al trasferimento della proprietà delle opere di urbanizzazione che la convenzione urbanistica prevedeva che fossero realizzate dal soggetto lottizzante, a scomputo degli oneri di costruzione e preso atto dell’inadempimento dell’intimata Società all’assolvimento delle obbligazioni dedotte in Convenzione, deve accogliersi anche la domanda proposta ex art. 2932 c.c (ammissibile in ipotesi di inadempimento agli obblighi assunti in virtù di una convenzione urbanistica - ex multis TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, 24.10.2016, n. 873) determinando il trasferimento coattivo delle aree in questione come identificate nella planimetria catastale rappresentante il documento n. 13 del Comune ricorrente, previa redazione del tipo di frazionamento, se necessario per poter, in concreto, procedere alla trascrizione.
Va quindi ordinato al competente Conservatore dei registri immobiliari di procedere alle trascrizione stessa, nei confronti di quale che sia il soggetto risultante come proprietario e, quindi, anche degli attuali proprietari dei fondi che ne abbiano acquisito la proprietà a seguito della cancellazione della società intimata dichiarata all’udienza pubblica, con esonero da ogni sua responsabilità al riguardo.
La sentenza produrrà, quindi, effetti nei confronti della società intimata, se ancora risultante quale proprietaria degli immobili, ovvero di chiunque altro sia subentrato nella proprietà stessa, trattandosi di un’obbligazione reale, che non può estinguersi con l’eventuale estinzione del soggetto proprietario.

ANNO 2018

URBANISTICA: La tradizionale giurisprudenza opera una distinzione tra i casi di retrocessione totale e di retrocessione parziale, collocando la prima ipotesi nell’alveo della giurisdizione ordinaria e la seconda in quello della giurisdizione amministrativa.
Tale distinzione trova fondamento nella circostanza che, in caso di retrocessione totale, sussiste un diritto soggettivo immediatamente azionabile; nei casi di retrocessione parziale tale diritto è invece destinato a sorgere, come detto, solo a seguito dell’eventuale dichiarazione di inservibilità del bene, mentre prima di allora la situazione soggettiva del privato è qualificabile in termini di interesse legittimo.
Va, tuttavia, considerato che la Corte regolatrice afferma la giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo “nell’ipotesi in cui siano proposte, dopo l'espropriazione di un'area, due azioni congiunte o alternative dall'espropriato, di retrocessione totale per la parte delle superfici acquisite rimasta inutilizzata e parziale per quella su cui si sia realizzata un'opera di pubblica utilità diversa da quella per cui si era proceduto all'esproprio”.
Un decisivo revirement dell’intera materia si registra con la sentenza delle Sezioni unite n. 1092 del 2017 secondo cui “è fuorviante la prospettiva tradizionale del carattere parziale o totale della retrocessione e della connessa configurazione, in capo al soggetto espropriato, di una posizione di interesse legittimo ovvero di diritto soggettivo a seconda della sussistenza o meno di un potere discrezionale di disporre la retrocessione stessa da parte dell'amministrazione. La materia, infatti, trova attualmente una specifica disciplina nel codice del processo amministrativo approvato con D.Lgs. 02.07.2010, n. 104 […] che all'art. 133, comma 1, lett. g), contempla, tra le ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, quella delle "controversie aventi ad oggetto (...) i comportamenti, riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere, delle pubbliche amministrazioni in materia di espropriazione per pubblica utilità, ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario per quelle riguardanti la determinazione e la corresponsione dell'indennità in conseguenza dell'adozione di atti di natura espropriativa o ablativa".
Invero, le Sezioni unite chiariscono che “una situazione di "mediata" riconducibilità del comportamento della pubblica amministrazione all'esercizio di un potere si verifica anche nel caso di protrazione dell'occupazione di un suolo pur dopo la sopraggiunta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, ricorrendo anche in tale ipotesi l'elemento decisivo -per l'affermazione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo- del concreto esercizio del potere ablatorio, riconoscibile per tale in base al procedimento svolto ed alle forme adottate, in consonanza con le norme che lo regolano, pur se poi l'ingerenza nella proprietà privata e la sua utilizzazione siano avvenute senza alcun titolo che le consentiva: infatti il comportamento dell'amministrazione, che omette di restituire il terreno occupato in virtù di decreto di occupazione, nonostante quest'ultimo sia stato travolto dalla sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, deve ritenersi connesso, ancorché in via mediata, a quel provvedimento, senza il quale non vi sarebbe stata apprensione e, quindi, neppure la mancata restituzione”.
Del pari, nel caso di retrocessione si assiste ad un comportamento dell’Amministrazione speculare al potere espropriativo a base del proprio agire. Infatti, “si è dinanzi al concreto esercizio di un potere ablatorio, culminato nel decreto di espropriazione, e un comportamento ad esso collegato (che non si sarebbe verificato se non vi fosse stato l'esproprio) della pubblica amministrazione, la quale omette la retrocessione del bene nonostante la sussistenza dei presupposti di legge”.
Pertanto, la domanda articolata con il secondo ricorso per motivi aggiunti e volta ad ottenere la retrocessione totale del bene deve ritenersi, comunque, attratta alla giurisdizione del Giudice amministrativo, fatte salve le precisazioni in ordine al quantum debeatur su cui si dirà nel prosieguo della presente sentenza.
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1. Parte ricorrente censura la deliberazione del Consiglio Comunale di Livigno n. 63 del 29.09.2014 con la quale l’Ente provvede a prorogare i termini di efficacia del Piano di Lottizzazione approvato con le delibere n. 27 del 01.06.2004 e n. 48 del 29.09.2004 e finalizzato alla realizzazione di un insediamento a destinazione industriale idoneo a soddisfare le richieste di nuovi insediamenti produttivi e di trasferimento degli insediamenti esistenti in Livigno.
Articola due motivi di ricorso facendo valere l’illegittimità della proroga per violazione della normativa richiamata che imporrebbe un termine di efficacia pari a dieci anni e per mancata esplicitazione delle ragioni fattuali e giuridiche a sostegno della proroga.
Con il primo ricorso per motivi aggiunti la sig.ra Ga. impugna la delibera della Giunta comunale n. 51 del 20.05.2017 per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria del PLU, e chiede, inoltre, che sia dichiarati nulli e/o inefficaci:
   a) la convenzione di lottizzazione stipulata tra il Comune di Livigno e la Co.Ar.Li.;
   b) l’atto di ricomposizione fondiaria di pari data;
   c) l’accordo per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria previsto dagli atti impugnati. Con tale atto la ricorrente deduce, in primo luogo, l’invalidità derivata del provvedimento impugnato richiamando i motivi articolati nel ricorso principale. Propone, inoltre, un unico motivo di ricorso per invalidità propria del provvedimento impugnato rubricato: “Violazione dell’articolo 78, comma 2, del d.lgs. 267/2000”.
Con l’ultimo ricorso per motivi aggiunti la sig.ra Ga. chiede a questo Tribunale di accertare e dichiarare il diritto alla retrocessione del terreno identificato catastalmente al foglio 49, mappale 475 del N.C.T. del Comune di Livigno, previa eventuale concessione di “un termine per la chiedere alla Commissione provinciale espropri la determinazione dell’indennità di cui all’articolo 46, comma 1, del D.P.R. 327/2001 e con deposito o pagamento diretto (in caso di accettazione) della predetta indennità, da effettuarsi nei modi, nei termini [ritenuti] di giustizia”.
1.1. Individuato l’intero thema decidendum, il Collegio ritiene di affrontare, in via preliminare, le varie questioni processuali involte nel giudizio, incentrando la successiva disamina sul merito del ricorso introduttivo e dei due ricorsi per motivi aggiunti.
1.2. A tal fine, occorre esaminare, in primo luogo, la questione di giurisdizione sulla domanda di retrocessione fatta valere con il secondo ricorso per motivi aggiunti che sorregge –secondo la prospettiva della ricorrente- anche l’interesse all’impugnazione della delibera impugnata con il ricorso introduttivo.
Sul punto, osserva il Collegio come la tradizionale giurisprudenza operi una distinzione tra i casi di retrocessione totale e di retrocessione parziale, collocando la prima ipotesi nell’alveo della giurisdizione ordinaria e la seconda in quello della giurisdizione amministrativa.
Tale distinzione trova fondamento nella circostanza che, in caso di retrocessione totale, sussiste un diritto soggettivo immediatamente azionabile; nei casi di retrocessione parziale tale diritto è invece destinato a sorgere, come detto, solo a seguito dell’eventuale dichiarazione di inservibilità del bene, mentre prima di allora la situazione soggettiva del privato è qualificabile in termini di interesse legittimo (cfr., da ultimo, TAR per il Lazio – sede di Roma, sezione II, 06.09.2018, n. 9190).
Va, tuttavia, considerato che la Corte regolatrice, già con sentenza n. 14805 del 2009, afferma la giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo “nell’ipotesi in cui siano proposte, dopo l'espropriazione di un'area, due azioni congiunte o alternative dall'espropriato, di retrocessione totale per la parte delle superfici acquisite rimasta inutilizzata e parziale per quella su cui si sia realizzata un'opera di pubblica utilità diversa da quella per cui si era proceduto all'esproprio” (cfr., inoltre, Corte di Cassazione, sezioni unite, 27.01.2014, n. 1520).
Un decisivo revirement dell’intera materia si registra con la sentenza delle Sezioni unite n. 1092 del 2017 secondo cui “è fuorviante la prospettiva tradizionale del carattere parziale o totale della retrocessione e della connessa configurazione, in capo al soggetto espropriato, di una posizione di interesse legittimo ovvero di diritto soggettivo a seconda della sussistenza o meno di un potere discrezionale di disporre la retrocessione stessa da parte dell'amministrazione. La materia, infatti, trova attualmente una specifica disciplina nel codice del processo amministrativo approvato con D.Lgs. 02.07.2010, n. 104 […] che all'art. 133, comma 1, lett. g), contempla, tra le ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, quella delle "controversie aventi ad oggetto (...) i comportamenti, riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere, delle pubbliche amministrazioni in materia di espropriazione per pubblica utilità, ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario per quelle riguardanti la determinazione e la corresponsione dell'indennità in conseguenza dell'adozione di atti di natura espropriativa o ablativa".
Invero, le Sezioni unite, già con le ordinanze nn. 10879 e 12179 del 2015 chiariscono che “una situazione di "mediata" riconducibilità del comportamento della pubblica amministrazione all'esercizio di un potere si verifica anche nel caso di protrazione dell'occupazione di un suolo pur dopo la sopraggiunta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, ricorrendo anche in tale ipotesi l'elemento decisivo -per l'affermazione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo- del concreto esercizio del potere ablatorio, riconoscibile per tale in base al procedimento svolto ed alle forme adottate, in consonanza con le norme che lo regolano, pur se poi l'ingerenza nella proprietà privata e la sua utilizzazione siano avvenute senza alcun titolo che le consentiva: infatti il comportamento dell'amministrazione, che omette di restituire il terreno occupato in virtù di decreto di occupazione, nonostante quest'ultimo sia stato travolto dalla sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, deve ritenersi connesso, ancorché in via mediata, a quel provvedimento, senza il quale non vi sarebbe stata apprensione e, quindi, neppure la mancata restituzione”.
Del pari, nel caso di retrocessione si assiste ad un comportamento dell’Amministrazione speculare al potere espropriativo a base del proprio agire. Infatti, “si è dinanzi al concreto esercizio di un potere ablatorio, culminato nel decreto di espropriazione, e un comportamento ad esso collegato (che non si sarebbe verificato se non vi fosse stato l'esproprio) della pubblica amministrazione, la quale omette la retrocessione del bene nonostante la sussistenza dei presupposti di legge”.
Pertanto, la domanda articolata con il secondo ricorso per motivi aggiunti e volta ad ottenere la retrocessione totale del bene deve ritenersi, comunque, attratta alla giurisdizione del Giudice amministrativo, fatte salve le precisazioni in ordine al quantum debeatur su cui si dirà nel prosieguo della presente sentenza
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 12.10.2018 n. 2265 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo un principio consolidato “il contributo di concessione va determinato con riferimento alla disciplina, legislativa e regolamentare, vigente al momento del rilascio del titolo edilizio, che segna il perfezionamento della fattispecie concessoria (o autorizzatoria, a seconda della tipologia di titolo edilizio)”.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale cui il Collegio aderisce,
la misura del contributo di costruzione può essere successivamente rideterminata nel caso di errore di calcolo rispetto al contributo dovuto in base alla situazione di fatto e alla disciplina vigente al tempo del rilascio del titolo.
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Tali considerazioni devono reputarsi estensibili anche alla c.d. monetizzazione di standard, in quanto –nonostante la diversa natura di tale pretesa rispetto a quella concernente il contributo di costruzione deve ritenersi che, anche in relazione a tale diritto di credito, la fonte dell’obbligazione sia comunque costitutiva dal provvedimento assentivo dell’intervento, sia esso un atto espresso del Comune o un atto privato rispetto al quale l’Amministrazione non esercita alcun potere inibitorio.
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Nel caso in cui l’intervento sia legittimato da una denuncia di inizio attività, il termine per la rideterminazione degli importi dovuti decorre dalla presentazione della denuncia, poiché dal relativo contenuto sono desumibili tutti i profili dell’intervento rilevanti per la quantificazione di tali importi.
Alla medesima data dovrà, inoltre, farsi riferimento anche per l’individuazione della disciplina applicabile ai fini della determinazione delle somme, atteso che “la d.i.a. non costituisce un provvedimento amministrativo a formazione tacita, ma un atto privato, volto a comunicare l'intenzione di intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla legge, che si perfeziona con la sua presentazione, per cui allo stesso non può che applicarsi la disciplina legislativa vigente al momento della sua presentazione alla pubblica amministrazione”
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La quantificazione degli standard e la misura del contributo di costruzione devono, quindi, determinarsi in ragione della normativa vigente all’epoca della formazione dell’effettivo titolo che costituisce la fonte o il presupposto di tale obbligazione.
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2.1. Il ricorso è parzialmente fondato ai sensi e nei limiti di seguito indicati.
2.2. Gli interventi edilizi realizzati dalla società ricorrente e ai quali fa riferimento il provvedimento comunale di determinazione degli stardard urbanistici e del contributo di costruzione hanno fondamento giuridico in una pluralità di titoli, in precedenza indicati.
Secondo un principio consolidato “il contributo di concessione va determinato con riferimento alla disciplina, legislativa e regolamentare, vigente al momento del rilascio del titolo edilizio, che segna il perfezionamento della fattispecie concessoria (o autorizzatoria, a seconda della tipologia di titolo edilizio)” (Consiglio di Stato, sez. VI, 07.05.2015, n. 2294; nello stesso senso, ex plurimis: Id., Sez. IV, 07.06.2012, n. 3379; Id., Sez. IV, 25.06.2010, n. 4109; Id, Sez. V, 13.06.2003, n. 3332).
Secondo l’orientamento giurisprudenziale cui il Collegio aderisce, la misura del contributo di costruzione può essere successivamente rideterminata nel caso di errore di calcolo rispetto al contributo dovuto in base alla situazione di fatto e alla disciplina vigente al tempo del rilascio del titolo (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 12.06.2017, n. 2821).
Tali considerazioni devono reputarsi estensibili anche alla c.d. monetizzazione di standard, in quanto –nonostante la diversa natura di tale pretesa rispetto a quella concernente il contributo di costruzione (Cons. Stato, Sez. IV, 28.12.2012, nn. 6706, 6707 e 6708; Id., 16.02.2011, n. 1013; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 26.07.2016, n. 1507; Id., 19.07.2016, n. 1447: Id., 01.08.2013, n. 2056; Id., 14.02.2013, n. 451; TAR Campania, Salerno, Sez. I, 15.09.2014, n. 1558)– deve ritenersi che, anche in relazione a tale diritto di credito, la fonte dell’obbligazione sia comunque costitutiva dal provvedimento assentivo dell’intervento, sia esso un atto espresso del Comune o un atto privato rispetto al quale l’Amministrazione non esercita alcun potere inibitorio.
Infatti, nel caso in cui l’intervento sia legittimato da una denuncia di inizio attività, il termine per la rideterminazione degli importi dovuti decorre dalla presentazione della denuncia, poiché dal relativo contenuto sono desumibili tutti i profili dell’intervento rilevanti per la quantificazione di tali importi.
Alla medesima data dovrà, inoltre, farsi riferimento anche per l’individuazione della disciplina applicabile ai fini della determinazione delle somme, atteso che “la d.i.a. non costituisce un provvedimento amministrativo a formazione tacita, ma un atto privato, volto a comunicare l'intenzione di intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla legge, che si perfeziona con la sua presentazione, per cui allo stesso non può che applicarsi la disciplina legislativa vigente al momento della sua presentazione alla pubblica amministrazione” (così Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 29.07.2011 n. 15; Consiglio di Stato, sez. IV, 04.09.2012 n. 4669; Id., sez. IV, 07.07.2016, n. 3014; Tar per la Lombardia–sede di Milano, sez. II, 16.06.2014, n. 1578; TAR per la Lombardia–sede di Milano, Sez. I, 30.11.2016, n. 2277).
2.3. La quantificazione degli standard e la misura del contributo di costruzione devono, quindi, determinarsi in ragione della normativa vigente all’epoca della formazione dell’effettivo titolo che costituisce la fonte o il presupposto di tale obbligazione.
Nel caso di specie, la D.I.A. del 20.10.2010 è relativa alla demolizione di fabbricato preesistente a destinazione autorimessa, sito a Milano in via ... 25, e alla costruzione di nuovo edificio residenziale, per una s.l.p. di 2123,21 mq., e si perfeziona in ragione del mancato esercizio di poteri inibitori da parte del Comune.
La D.I.A. è quindi titolo legittimo dell’intervento in esame, non sostituito dai successivi interventi che hanno portata più limitata e che, comunque, non sostituiscono il primo titolo. Infatti, la successiva D.I.A. del 2012 costituisce una variante ordinaria che limita semplicemente la s.l.p. a 2122,28 mq.
Il successivo intervento (permesso di costruire n. 154 del 2014) non comporta la mera sostituzione del patrimonio edilizio esistente pur generando un aumento della s.l.p.. L’ultimo intervento è costituito dalla segnalazione certificata di inizio attività del 10.04.2014 con la quale si realizzano semplicemente opere di completamento della precedente D.I.A.
2.4. La concreta disamina svolta consente, quindi, di affermare che gli interventi –pur relativi alla medesima complessiva opera e aventi delle fisiologiche interferenze– costituiscono lavori legittimati dai rispettivi titoli e per questo sottoposti alla normativa vigente all’epoca di formazione degli stessi (cfr., Consiglio di Stato, sez. VI, 24.11.2017, n. 5485).
Di conseguenza, la determinazione degli standard urbanistici e del contributo di costruzione non può che avere ad oggetto lo specifico intervento realizzato con applicazione della normativa ratione temporis vigente. In particolare, la prima D.I.A. del 2010 risulta soggetta alle prescrizioni dettate dal previgente P.R.G.; al contrario, sono soggette alla specifiche regole dettate dal sopraggiunto P.G.T. (in relazione ai singoli interventi assentiti) i successivi titoli sin qui esaminati (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 31.08.2018 n. 2039 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

URBANISTICA: Sovradimensionamento degli standard. 
In sede di predisposizione di un PGT, rispetto alla previsione di una rilevante superficie destinata a standard, notevolmente superiore ai parametri di legge, il Comune deve idoneamente e congruamente motivare sulle ragioni di tale rilevante necessità. Invero, la destinazione a dotazioni standard di un'area privata incide fortemente sugli interessi del proprietario.
E', pertanto, necessario che l'ente indichi sempre con precisione quali attrezzature debbano essere ivi realizzate, in modo da consentire l'apprezzamento, da un lato, della serietà della decisione e, da altro lato, della consistenza degli interessi pubblici che si intendono soddisfare a scapito dell'interesse privato.
La motivazione rafforzata deve investire il complesso delle previsioni urbanistiche di sovradimensionamento e deve, quindi, chiarire perché il Comune abbia inteso superare i limiti minimi previsti dalla legge.
Inoltre, secondo le previsioni dell’art. 9, comma 10, della l.r. n. 12/2005, i servizi e le attrezzature private di interesse pubblico sono qualificati come servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, conseguendone, dunque, che le relative aree devono essere considerate a standard
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 30.07.2018 n. 1863 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
... per l'annullamento della deliberazione C.C. di Nerviano n. 37 del 06.04.2010 avente ad oggetto le controdeduzioni alle osservazioni e l’approvazione definitiva degli atti di PGT ai sensi della L.R. n. 12/2005 e dei relativi allegati, compresa la VAS.
...
Con il ricorso all’esame del Collegio la società istante, proprietaria di un’area di circa 19.000 mq. in ambito urbanizzato nel comune di Nerviano, ha impugnato il provvedimento indicato in epigrafe, con il quale il Comune medesimo ha approvato il piano di governo del territorio e ha controdedotto alle osservazioni presentate dagli interessati, in relazione al sito di sua proprietà, classificato come ambito per servizi privati di interesse generale, con previsione, in particolare, di strutture sportive coperte e scoperte, dunque con una limitata possibilità edificatoria.
A sostegno del proprio gravame l’istante ha dedotto: la violazione dell’art. 9 della L.R. n. 12/2005 in relazione al contenuto del Piano dei Servizi, che non evidenzierebbe la necessità di ulteriori attrezzature di interesse generale, ed in specie sportive; l’eccesso di potere per carenza di motivazione e difetto di istruttoria delle previsioni urbanistiche in relazione al sovradimensionamento rispetto agli standard minimi e all’affidamento ingenerato nella società ricorrente da precedenti indirizzi espressi dalla stessa amministrazione comunale; l’irragionevolezza e illogicità manifesta delle previsioni urbanistiche rispetto alla conformazione e alle caratteristiche morfologiche dell’area, interclusa fra aree a destinazione residenziale e produttiva; l’illegittimità della valutazione ambientale strategica (VAS) rispetto alle disposizioni normative in materia, eurounitarie ed interne (direttiva 2001/42/CE, artt. 11 e ss. del d.lgs. n. 152/2005, art. 4 L.R. n. 12/2005, DCR n. 351 del 13/3/2007, DGR n. 8/6420 del 27/12/2007, DGR 10971 del 30/12/2009); la violazione degli artt. 13, comma 8, e 20, commi 4 e 5, della L.R. n. 12/2005 e il difetto di istruttoria in relazione all’omissione del rispetto dell’obbligo di trasmettere gli atti del PGT alla Regione, perché interessati da obiettivi prioritari di interesse regionale e sovraregionale; la violazione dell’art. 9 della L.R. n. 12/2005 e dell’art. 38 della L. n. 26/2003, nonché il difetto di istruttoria, in relazione alla mancata individuazione delle infrastrutture nel sottosuolo mediante la predisposizione del PUGGS (piano urbano generale dei servizi nel sottosuolo).
...
Il Collegio ritiene fondata la censura con la quale la società ricorrente ha dedotto l’eccesso di potere per carenza di motivazione e difetto di istruttoria delle previsioni urbanistiche impugnate in relazione al sovradimensionamento rispetto agli standard minimi previsti dalla legge.
Più specificamente, l’istante ha lamentato che il Comune resistente non avrebbe rispettato l’incisivo onere di motivazione che sussiste qualora lo strumento urbanistico effettui un sovradimensionamento delle aree destinate ad ospitare attrezzature pubbliche o di interesse pubblico o generale (cosiddette aree a standard), prevedendone in misura maggiore rispetto ai parametri minimi fissati dall’art. 3 del d.M. n. 1444 del 1968 e dall’art. 9, comma 3, della legge regionale n. 12 del 2005, vale a dire 18 mq./abitante.
La difesa comunale, invece, ha controdedotto premettendo, anzitutto, la generale funzione di tutela ambientale delle previsioni urbanistiche impugnate, che riguarderebbero un ambito inserito tra aree edificate residenziali e produttive e che avrebbero costituito un idoneo compromesso per attribuire comunque una limitata capacità edificatoria all’area in questione senza compromettere gli interessi generali degli abitanti del Comune. La funzione delle previsioni urbanistiche in questione sarebbe, dunque, di riequilibrio ecologico.
Sulla specifica censura, l’Amministrazione resistente assume che la disciplina regionale stabilirebbe solo in linea di massima gli standard minimi, lasciando la definizione concreta degli stessi alle previsioni degli strumenti urbanistici generali ed attuativi.
Inoltre, i servizi privati di interesse generale previsti dallo strumento urbanistico impugnato in relazione all’area della società istante non potrebbero essere qualificati come servizi pubblici e di interesse pubblico o generale, perché non regolati da atto di asservimento o da regolamento d’uso.
La tesi del Comune non convince.
Ed invero, nella fattispecie in questione la relazione al Piano dei Servizi indica una superficie complessiva di aree a standard pari a 1.043.934 mq., di cui 786.957 mq. di aree per servizi alla popolazione, corrispondenti a 39,9 mq. per abitante, e 256.977 mq. di aree a servizio del sistema economico (cfr. pag. 41 della relazione).
Rispetto alla previsione di tale rilevante superficie destinata a standard, notevolmente superiore ai parametri di legge, il Comune intimato avrebbe dovuto idoneamente e congruamente motivare sulle ragioni di tale rilevante necessità, mentre non ha fornito alcuna specifica motivazione a riguardo.
E’ stato, in proposito, osservato che: “
La destinazione a dotazioni standard di un'area privata incide fortemente sugli interessi del proprietario; è, pertanto, necessario che l'ente indichi sempre con precisione quali attrezzature debbano essere ivi realizzate, in modo da consentire l'apprezzamento, da un lato, della serietà della decisione e, da altro lato, della consistenza degli interessi pubblici che si intendono soddisfare a scapito dell'interesse privato. La motivazione rafforzata deve investire il complesso delle previsioni urbanistiche di sovradimensionamento e deve, quindi, chiarire perché il Comune abbia inteso superare i limiti minimi previsti dalla legge” (cfr. TAR Lombardia, sez. II, 15.07.2016, nn. 1429 e 1430; 30.09.2016, n. 1766).
Inoltre, secondo le previsioni dell’art. 9, comma 10, della l.r. n. 12/2005,
i servizi e le attrezzature private di interesse pubblico sono qualificati come servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, conseguendone, dunque, che le relative aree devono essere considerate a standard (TAR Lombardia, sez. II, 21.12.2012, n. 3186).
Del resto, lo stesso PGT impugnato classifica il comparto della ricorrente quale area per l’insediamento di servizi di interesse pubblico e generale (cfr. TAV R4 del Piano delle Regole e TAV S3.1 del Piano dei Servizi).
E tale conclusione si ricava anche dall’esame dell’art. 83.4 NTA del Piano delle Regole, che al secondo comma prevede espressamente la natura di servizio pubblico delle attrezzature private in questione, ai sensi dell’art. 9 succitato.
Alla luce delle suesposte considerazioni, assorbendosi le ulteriori censure dedotte, il ricorso va accolto e, per l’effetto, va disposto l’annullamento dei provvedimenti impugnati limitatamente alla parte concernente le aree di proprietà dell’istante, con l’obbligo del Comune resistente di rideterminarsi in ordine alle stesse.
La domanda di risarcimento del danno va, invece, respinta, atteso che solo all’esito del riesercizio della potestà pianificatoria da parte dell’Amministrazione intimata sarà possibile valutare il verificarsi di un’eventuale lesione in capo alla posizione giuridica della società istante.
Sussistono, tuttavia, giusti motivi per disporre l’integrale compensazione fra le parti delle spese di giudizio, in relazione alla soccombenza parziale.

ANNO 2017

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO - URBANISTICA: Nel rispetto della disciplina vincolistica di settore anche di livello regionale, nel corso dell’esercizio 2017, i proventi connessi agli oneri di urbanizzazione e alla monetizzazione degli standard qualitativi aggiuntivi possono essere utilizzati per finanziare una spesa in conto capitale.
Lo standard qualitativo, invero già previsto dalla legge regionale n. 9/1999, si può considerare, nella sua declinazione presente nell’ora riportato art. 90 della legge regionale n. 12/2005, un sovra-standard, ovvero una prestazione aggiuntiva rispetto alle dotazioni minime richieste dalla norma in relazione alle funzioni insediate o da insediare.
L’art. 90, nel prevedere la possibilità di monetizzare tali dotazioni, sottopone tale possibilità alla dimostrazione, da parte del comune, che “tale soluzione sia la più funzionale per l’interesse pubblico”.
L’ultimo comma dell’articolo in esame prevede, altresì, che “nel caso in cui il programma integrato di intervento preveda la monetizzazione ai sensi dell’articolo 46, la convenzione di cui all’articolo 93 deve contenere l’impegno del comune ad impiegare tali somme esclusivamente per l’acquisizione di fabbricati o aree specificamente individuati nel piano dei servizi e destinati alla realizzazione di attrezzature e servizi pubblici, ovvero per la realizzazione diretta di opere previste nel medesimo piano”.

Ne consegue che
l’utilizzo delle risorse relative alla monetizzazione dei predetti standard qualitativi è subordinata alla verifica –da parte del Comune istante– a monte che la stessa monetizzazione sia “la più funzionale per l’interesse pubblico” in concreto perseguito e, a valle, che il bene oggetto di acquisizione risulti individuato nel piano dei servizi e destinato all’effettiva realizzazione di attrezzature e servizi pubblici, ovvero di opere previste nel medesimo piano.
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Il Sindaco del Comune di Novedrate (CO) -dopo aver rappresentato che tra gli obiettivi strategici dell’azione amministrativa rientra l’acquisizione al patrimonio comunale del fabbricato storico denominato “Villa Casana”, della Cappella Gentilizia e del parco circostante attualmente di proprietà privata da conseguire mediante la permuta di un’area comunale posta all’interno dell’area di trasformazione afferente all’obiettivo strategico in cui la complessiva operazione si inscrive e dopo aver, altresì, ricordato che il Comune risulta tenuto al versamento anche di una somma pari alla differenza di valore fra i beni immobili oggetto di permuta– ha rivolto alla Sezione il seguente quesito:
se è possibile far fronte alla suddetta differenza di valore utilizzando all’uopo lo standard qualitativo aggiuntivo pari ad euro 300.000,00, il fondo per il Centro storico nella misura del 3% ed i proventi da permessi di costruire (oneri di urbanizzazione e costo di costruzione) che il privato dovrà versare nelle casse dell’Ente per la realizzazione dell’intervento edilizio programmato. Si precisa, nel contempo, che è intenzione delle parti sottoscrivere il contratto di permuta entro il corrente anno stante l’utilizzo per fini tipici degli oneri di urbanizzazione previsto a decorrere dall'esercizio 2018 dalla Legge n. 232/2016, articolo 1, commi 460-461”.
...
2. Giova preliminarmente evidenziare come la materia oggetto del quesito in esame è stata, di recente, oggetto, nei suoi principi generali, di analisi da parte di questa Sezione nella deliberazione n. 81/2017/PAR. Facendo applicazione dei principi affermati in tale pronuncia, deve preliminarmente ricordarsi, sul piano generale, che, nei principi contabili generali fissati dal decreto legislativo 23.06.2011, n. 118 (allegato 1) si esplicita che:
   - “è il complesso unitario delle entrate che finanzia l’amministrazione pubblica e quindi sostiene così la totalità delle sue spese durante la gestione”;
   - “le entrate in conto capitale sono destinate esclusivamente al finanziamento di spese di investimento”.
Nei predetti principi, dunque, viene ribadito il divieto di finanziare spese correnti con entrate in conto capitale che trova giustificazione anche nell’esigenza di assicurare il mantenimento degli equilibri di bilancio degli enti locali espressa dall’art. 162, comma 6, del decreto legislativo 10.08.2000, n. 267 (TUEL).
2.1. Ciò premesso, essendo l’operazione di permuta sopra richiamata finalizzata all’acquisizione al patrimonio comunale di un fabbricato storico e di alcune pertinenze, che sarebbero complessivamente destinate allo svolgimento di alcune funzioni pubbliche, essa si sostanzierebbe, come noto, in una spesa in conto capitale. Alla stessa può, dunque, farsi ancora fronte, nel corrente esercizio, con l’utilizzo degli oneri di urbanizzazione (per il successivo esercizio 2018, cfr. commi 460-461 dell’art. 1 della Legge n. 232/2016, che non contemplano, tra le operazioni finanziabili con in predetti oneri, l’acquisizione di immobili).
2.2. Facendo nuovamente applicazione dei principi generali fissati nella richiamata deliberazione n. 81/2017/PAR, può passarsi ad affrontare il profilo attinente all’utilizzo dei proventi relativi allo standard qualitativo aggiuntivo, tenuto conto del combinato disposto dell’art. 90 e dell’art. 46, comma 1, della legge regionale lombarda 11.03.2005, n. 12. Tali disposizioni prevedono, infatti, che:
   Art. 90 - Aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale.
1. I programmi integrati di intervento garantiscono, a supporto delle funzioni insediate, una dotazione globale di aree o attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, valutata in base all’analisi dei carichi di utenza che le nuove funzioni inducono sull’insieme delle attrezzature esistenti nel territorio comunale, in coerenza con quanto sancito dall’articolo 9, comma 4.
2. In caso di accertata insufficienza o inadeguatezza di tali attrezzature ed aree, i programmi integrati di intervento ne individuano le modalità di adeguamento, quantificandone i costi e assumendone il relativo fabbisogno, anche con applicazione di quanto previsto dall’articolo 9, commi 10, 11 e 12.
3. Qualora le attrezzature e le aree risultino idonee a supportare le funzioni previste, può essere proposta la realizzazione di nuove attrezzature indicate nel piano dei servizi di cui all’articolo 9, se vigente, ovvero la cessione di aree, anche esterne al perimetro del singolo programma, purché ne sia garantita la loro accessibilità e fruibilità.
4. È consentita la monetizzazione della dotazione di cui al comma 1 soltanto nel caso in cui il comune dimostri specificamente che tale soluzione sia la più funzionale per l’interesse pubblico. In ogni caso la dotazione di parcheggi pubblici e di interesse pubblico ritenuta necessaria dal comune deve essere assicurata in aree interne al perimetro del programma o comunque prossime a quest’ultimo, obbligatoriamente laddove siano previste funzioni commerciali o attività terziarie aperte al pubblico.
5. Nel caso in cui il programma integrato di intervento preveda la monetizzazione ai sensi dell’articolo 46, la convenzione di cui all’articolo 93 deve contenere l’impegno del comune ad impiegare tali somme esclusivamente per l’acquisizione di fabbricati o aree specificamente individuati nel piano dei servizi e destinati alla realizzazione di attrezzature e servizi pubblici, ovvero per la realizzazione diretta di opere previste nel medesimo piano.
   Art. 46 - Convenzione dei piani attuativi.
1. La convenzione, alla cui stipulazione è subordinato il rilascio dei permessi di costruire ovvero la presentazione delle denunce di inizio attività relativamente agli interventi contemplati dai piani attuativi, oltre a quanto stabilito ai numeri 3) e 4) dell’articolo 8 della legge 06.08.1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150), deve prevedere:
   a) la cessione gratuita, entro termini prestabiliti, delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, nonché la cessione gratuita delle aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale previste dal piano dei servizi; qualora l’acquisizione di tali aree non risulti possibile o non sia ritenuta opportuna dal comune in relazione alla loro estensione, conformazione o localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa totale o parziale della cessione, che all’atto della stipulazione i soggetti obbligati corrispondano al comune una somma commisurata all’utilità economica conseguita per effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al costo dell’acquisizione di altre aree. I proventi delle monetizzazioni per la mancata cessione di aree sono utilizzati per la realizzazione degli interventi previsti nel piano dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di altre aree a destinazione pubblica;
   b) la realizzazione a cura dei proprietari di tutte le opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria o di quelle che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi; le caratteristiche tecniche di tali opere devono essere esattamente definite; ove la realizzazione delle opere comporti oneri inferiori a quelli previsti per la urbanizzazione primaria e secondaria ai sensi della presente legge, è corrisposta la differenza; al comune spetta in ogni caso la possibilità di richiedere, anziché la realizzazione diretta delle opere, il pagamento di una somma commisurata al costo effettivo delle opere di urbanizzazione inerenti al piano attuativo, nonché all’entità ed alle caratteristiche dell’insediamento e comunque non inferiore agli oneri previsti dalla relativa deliberazione comunale;
   c) altri accordi convenuti tra i contraenti secondo i criteri approvati dai comuni per l’attuazione degli interventi.
2. La convenzione di cui al comma 1 può stabilire i tempi di realizzazione degli interventi contemplati dal piano attuativo, comunque non superiori a dieci anni.

Lo standard qualitativo, invero già previsto dalla legge regionale n. 9/1999, si può considerare, nella sua declinazione presente nell’ora riportato art. 90 della legge regionale n. 12/2005, un sovra-standard, ovvero una prestazione aggiuntiva rispetto alle dotazioni minime richieste dalla norma in relazione alle funzioni insediate o da insediare.
L’art. 90, nel prevedere la possibilità di monetizzare tali dotazioni, sottopone tale possibilità alla dimostrazione, da parte del comune, che “tale soluzione sia la più funzionale per l’interesse pubblico”.
L’ultimo comma dell’articolo in esame prevede, altresì, che “nel caso in cui il programma integrato di intervento preveda la monetizzazione ai sensi dell’articolo 46, la convenzione di cui all’articolo 93 deve contenere l’impegno del comune ad impiegare tali somme esclusivamente per l’acquisizione di fabbricati o aree specificamente individuati nel piano dei servizi e destinati alla realizzazione di attrezzature e servizi pubblici, ovvero per la realizzazione diretta di opere previste nel medesimo piano”.

2.3. Ne consegue, per quanto qui maggiormente interessa, che
l’utilizzo delle risorse relative alla monetizzazione dei predetti standard qualitativi è subordinata alla verifica –da parte del Comune istante– a monte che la stessa monetizzazione sia “la più funzionale per l’interesse pubblico” in concreto perseguito e, a valle, che il bene oggetto di acquisizione risulti individuato nel piano dei servizi e destinato all’effettiva realizzazione di attrezzature e servizi pubblici, ovvero di opere previste nel medesimo piano (cfr. parere 15.11.2012 n. 487 di questa Sezione).
2.4. A non diverse conclusioni può pervenirsi in riferimento all’utilizzo del “fondo per il Centro storico”, sulla cui natura e funzione non è fornito alcun dettaglio nella richiesta di parere in esame, ove lo stesso sia costituito con contributi qualificabili come standard qualitativi aggiuntivi.
2.5. Resta, comunque, fermo che, come del resto affermato dallo stesso Ente nella richiesta di parere, la delineata operazione deve essere posta in essere nel pieno rispetto del disposto del comma 1-ter dell’art. 12 del D.L. n. 98/2011, non trattandosi di permuta “pura” (cfr. deliberazione di questa Sezione n. 97/2014/PAR) (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 13.04.2017 n. 100).

ANNO 2015

URBANISTICA: Circa la fattispecie del lottizzante che si rifiuta di cedere al comune le opere di urbanizzazione realizzate e già collaudate.
La controversia rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, e lett. f), cod. proc. amm. perché riguarda l'esecuzione di obbligazioni derivanti da una convenzione urbanistica che rientra tra gli accordi sostitutivi di provvedimenti amministrativi ai sensi dell’art. 11 della legge n. 07.08.1990, n. 241, in materia urbanistica.
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L’art. 2932 c.c., primo comma, prevede infatti che "se colui che è obbligato a concludere un contratto non adempie l'obbligazione, l'altra parte, qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo, può ottenere una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso" e, al secondo comma, dispone che, se ove come nella specie il contratto abbia "per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata", "la domanda non può essere accolta, se la parte che l'ha proposta non esegue la sua prestazione o non ne fa offerta nei modi di legge, a meno che la prestazione non sia ancora esigibile".
La convenuta non ha adempiuto all’obbligo di trasferimento delle aree previsto dalla convenzione e la giurisprudenza ha chiarito che “il rimedio previsto dall’art. 2932 c.c. al fine di ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto, deve ritenersi applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia in relazione ad un atto o ad un fatto dai quali detto obbligo possa sorgere ex lege”.

...per l’accertamento dell’inadempimento agli obblighi previsti dalla convenzione urbanistica intercorsa tra il Comune di Castelgomberto e la ditta Grandangolo Immobiliare S.r.l. relativa al piano di lottizzazione Tezzon nel Comune di Castelgomberto e la condanna all’esecuzione in forma specifica della predetta convenzione mediante il trasferimento dei mappali nn. 563, 564, 565, 566, 568, 569, 571, 573, 585, 587, 658, 668, 671, 679, 681, 684, 715, 716, 717, 718, 719, 720, 721, 723, 724, 725, 726, 728, 729, 730, 731, 732, 733, 734, 735, 738.
...
Con il ricorso in epigrafe il Comune di Castelgomberto ha convenuto avanti questo Tribunale la Società Grandangolo Immobiliare.
Il Comune espone di aver stipulato in data 28.07.2003, avanti il notaio dott. V.G., una convenzione urbanistica relativa al piano di lottizzazione “Tezzon”, il cui art. 5 prevede l’obbligo per la ditta lottizzante, i suoi successori ed aventi causa, di trasferire al Comune a propria cura e spese entro sei mesi dal collaudo finale, le aree relative a sedi stradali, marciapiedi, piazze, parcheggi pubblici, verde, ed altre eventuali aree destinate a standard.
Acquisiti i titoli edilizi e realizzate le opere di urbanizzazione, la convenuta in data 23.02.2006, ne ha chiesto il collaudo, accompagnando la richiesta, così come previsto dall’art. 7, punto 11, della convenzione, con una planimetria che evidenzia le aree da cedere, e con la Tavola n. 3, che reca l’elenco analitico dei relativi mappali.
Il collaudo è stato eseguito in data 14.06.2006, ma la Società convenuta non si è presentata avanti il notaio per la stipula del rogito né in data 17.07.2014, né in data 27.11.2014, e in entrambi i casi non ha proposto una data alternativa.
Ciò premesso, il Comune chiede l’accertamento dell’inadempimento e il trasferimento delle aree ai sensi dell’art. 2932 c.c..
La convenuta Grandangolo Immobiliare Srl non si è costituita in giudizio.
Alla pubblica udienza del 25.06.2015, la causa è stata trattenuta in decisione.
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
La controversia rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, e lett. f), cod. proc. amm. perché riguarda l'esecuzione di obbligazioni derivanti da una convenzione urbanistica che rientra tra gli accordi sostitutivi di provvedimenti amministrativi ai sensi dell’art. 11 della legge n. 07.08.1990, n. 241, in materia urbanistica (ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Ad. Plen. 20.07.2012, n. 28; Tar Lombardia, Brescia, Sez. I, 26.03.2014, n. 298; Tar Marche, 24.05.2013, n. 388; Tar Veneto, Sez. II, 25.01.2012, n. 33; Tar Veneto, Sez. II, 13.07.2011, n. 1219).
Nel merito ricorrono i presupposti per l’accoglimento della domanda.
L’art. 2932 c.c., primo comma, prevede infatti che "se colui che è obbligato a concludere un contratto non adempie l'obbligazione, l'altra parte, qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo, può ottenere una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso" e, al secondo comma, dispone che, se ove come nella specie il contratto abbia "per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata", "la domanda non può essere accolta, se la parte che l'ha proposta non esegue la sua prestazione o non ne fa offerta nei modi di legge, a meno che la prestazione non sia ancora esigibile".
La convenuta non ha adempiuto all’obbligo di trasferimento delle aree previsto dalla convenzione e la giurisprudenza ha chiarito (cfr. Cass. civ., Sez. II, 30.03.2012, n. 5160) che “il rimedio previsto dall’art. 2932 c.c. al fine di ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto, deve ritenersi applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia in relazione ad un atto o ad un fatto dai quali detto obbligo possa sorgere ex lege”.
Nel caso di specie il Comune ha dedotto l'inadempimento della convenuta all'obbligazione di trasferimento prevista dalla convenzione, rispetto alla quale, trattandosi di un’obbligazione contrattuale, l’inadempimento deve essere semplicemente allegato, e non emerge alcuna circostanza ostativa all’accoglimento della domanda, dato che il Comune risulta aver assolto agli obblighi a suo carico previsti dalla convenzione e dal punto di vista istruttorio vi è l’analitica identificazione dei mappali da trasferire ad opera della documentazione formata dalla stessa convenuta al fine di ottenere il collaudo delle opere.
Pertanto sussistono tutte le condizioni per accogliere la domanda del Comune nei termini specificati nel dispositivo.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Seconda) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto:
a) accerta, in favore del Comune di Castelgomberto ed a carico della convenuta Grandangolo Immobiliare Srl, l'inadempimento dell'obbligo di trasferimento delle aree relative a sedi stradali, marciapiedi, piazze, parcheggi pubblici, verde, ed altre destinate a standard, previsto dalla convenzione urbanistica stipulata il 28.07.2003, rep. 35269, del notaio Guglielmi, relativa al piano di lottizzazione “Tezzon”;
b) dispone, ai sensi dell'art. 2932 c.c., il trasferimento dalla convenuta Grandangolo Immobiliare Srl (P. IVA .....) con sede in ....... n. 2, al ricorrente Comune di Castelgomberto (P. IVA 00185650249) con sede a Castelgomberto, Piazza Marconi n. 1, delle aree individuate dalle singole particelle del Catasto terreni del Comune di Castelgomberto, foglio 1, di seguito precisate: mappali nn. 563, 564, 565, 566, 568, 569, 571, 573, 585, 587, 658, 668, 671, 679, 681, 684, 715, 716, 717, 718, 719, 720, 721, 723, 724, 725, 726, 728, 729, 730, 731, 732, 733, 734, 735, 738;
c) ordina al competente Conservatore dei registri immobiliari di procedere alle relative trascrizioni, con esonero da ogni sua responsabilità al riguardo;
d) condanna la convenuta alla refusione delle spese di giudizio, liquidandole in € 5.000,00, a titolo di compensi e spese (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 24.07.2015 n. 875 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: Che cos'è la presupposizione.
La presupposizione costituisce un’ipotesi di scioglimento del contratto di creazione dottrinale e giurisprudenziale.
In pratica, senza che le parti ne abbiano fatta espressa menzione, una data situazione di fatto (attuale o futura) viene considerata come presupposto determinante ai fini della conclusione del contratto. Per tale motivo, parte della dottrina definisce la presupposizione una "condizione inespressa".

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La presupposizione costituisce un’ipotesi di scioglimento del contratto di creazione dottrinale e giurisprudenziale. Come si può leggere sul Torrente, "talora accade che le parti abbiano dettato il regolamento negoziale fondando le loro valutazioni su determinati presupposti che in seguito possono essere venuti meno o che, nonostante le attese, non si sono verificati".
In pratica, senza che le parti ne abbiano fatta espressa menzione, una data situazione di fatto (attuale o futura) viene considerata come presupposto determinante ai fini della conclusione del contratto. Per tale motivo, parte della dottrina definisce la presupposizione una "condizione inespressa".
La definizione più efficace di tale istituto viene fornita dalla sentenza della Cassazione, n. 633 del 24/03/2006, che statuisce quanto segue: “La cosiddetta presupposizione deve intendersi come figura giuridica che si avvicina, da un lato, ad una particolare forma di condizione, da considerarsi implicita e, comunque, certamente non espressa nel contenuto del contratto e, dall'altro, alla stessa causa del contratto, intendendosi per causa la funzione tipica e concreta che il contratto è destinato a realizzare; il suo rilievo resta dunque affidato all'interpretazione della volontà contrattuale delle parti, da compiersi in relazione ai termini effettivi del negozio giuridico dalle medesime stipulato. Deve pertanto ritenersi configurabile la presupposizione tutte le volte in cui, dal contenuto del contratto, si evinca che una situazione di fatto, considerata, ma non espressamente enunciata dalle parti in sede di stipulazione del medesimo, quale presupposto imprescindibile della volontà negoziale, venga successivamente mutata dal sopravvenire di circostanze non imputabili alle parti stesse, in modo tale che l'assetto che costoro hanno dato ai loro rispettivi interessi venga a trovarsi a poggiare su una base diversa da quella in forza della quale era stata convenuta l'operazione negoziale, così da comportare la risoluzione del contratto stesso ai sensi dell'articolo 1467 cod. civ.”.
Un esempio: acquistare un terreno per costruire una casa; entrambi i contraenti "presupponevano" l'edificabilità del suolo di cui viene successivamente constatata l'inedificabilità (17.02.2015 - link a http://www.studiodostuni.it).

ANNO 2014

EDILIZIA PRIVATAL’art. 28 della l. 1150/1942 prevede la possibilità di una cessione gratuita al Comune delle aree destinate ad opere di urbanizzazione oppure l’assunzione in capo al proprietario degli oneri relativi alle opere stesse.
Per cui la costituzione di una servitù di uso pubblico, con mantenimento in capo ai soggetti privati della proprietà del beni e dei conseguenti oneri manutentivi non appare in contrasto né con il tenore letterale né con gli scopi della legislazione urbanistica, potendo semmai apparire addirittura un minus rispetto, ad esempio, alla cessione gratuita di aree.

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... per l'accertamento:
   - dell'inefficacia nei confronti dei ricorrenti:
(a) della clausola, contenuta a pagina 27, dell'Atto conclusivo di convenzione per l'attuazione del Piano di lottizzazione "Laghetto" in Comune di San Donato Milanese, stipulato con scrittura privata, autenticata dal Notaio Barassi di Milano con atto rep. n. 100162 - racc. n. 29008 in data 04.11.2010 e
(b) degli ulteriori obblighi eventualmente derivanti dalla scrittura privata di Ratifica dell'Atto conclusivo di convenzione per l'attuazione del Piano di lottizzazione "Laghetto" in Comune di San Donato Milanese, autenticata dal Notaio Barassi di Milano con atto rep. 101243 - racc. 29591 in data 30.11.2011;
   - del conseguente obbligo del Comune di San Donato Milanese e/o di Vi.Po.srl, quale soggetto incorporante Va.Co. srl, di sostenere le spese di manutenzione ordinaria e straordinaria delle servitù sopra indicate;
   - e, occorrendo, per l'annullamento della clausola sopra indicata;
   - nonché per l'accertamento ai sensi dell'art. 31 cod. proc. amm. dell'obbligo del Comune di San Donato Milanese di provvedere in merito alle istanze presentate, rispettivamente, in data 17 e 18.07.2012, con le quali l'Amministratore del Condominio Re."La." e i Condomini hanno chiesto all'Amministrazione Comunale di provvedere all'annullamento della clausola sopra descritta;
...
3. Nel secondo motivo, i ricorrenti (punto 2.1), eccepiscono il presunto contrasto della clausola convenzionale di cui è causa con l’art. 28 della legge 1150/1942, oltre che della convenzione di lottizzazione del 2005 (cfr. il doc. 1 dei ricorrenti).
La tesi difensiva non ha però pregio: innanzi tutto la convenzione di lottizzazione del 2005 –come già sopra ricordato– nulla prevedeva sulla manutenzione delle aree di cui è causa, né dal tenore letterale della stessa poteva desumersi o ricavarsi l’esclusione degli oneri di manutenzione in capo ai proprietari delle aree soggette a servitù (cfr. ancora il doc. 1 dei ricorrenti o il doc. 3 del resistente, art. 13).
Neppure potrebbe sostenersi che una clausola come quella di cui è causa si pone in contrasto con le disposizioni (come quella dell’art. 28 citato), riguardanti le lottizzazioni di aree.
Al contrario, l’art. 28 prevede la possibilità di una cessione gratuita al Comune delle aree destinate ad opere di urbanizzazione oppure l’assunzione in capo al proprietario degli oneri relativi alle opere stesse; per cui la costituzione di una servitù di uso pubblico, con mantenimento in capo ai soggetti privati della proprietà del beni e dei conseguenti oneri manutentivi non appare in contrasto né con il tenore letterale né con gli scopi della legislazione urbanistica, potendo semmai apparire addirittura un minus rispetto, ad esempio, alla cessione gratuita di aree.
Nella seconda parte del motivo II, è lamentata la lesione dell’art. 1069 del codice civile, norma che pone a carico del proprietario del fondo dominante le opere necessarie per la conservazione della servitù.
La norma –la cui applicazione agli accordi ai sensi dell’art. 11 della legge 241/1990 è limitata ai “principi”, stante l’espressa previsione del secondo comma dell’articolo stesso– non appare però violata nel caso di specie, visto che lo stesso art. 1069 ammette (cfr. il comma secondo), che per legge o per titolo possa derogarsi alla regola generale sopra ricordata, senza contare che, trattandosi di servitù di pubblico passaggio, la manutenzione non giova soltanto al titolare del fondo dominante ma anche ai proprietari del fondo servente, che sono essi stessi utenti della servitù.
Anche l’intero secondo motivo deve –quindi– essere respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.10.2014 n. 2526  - link a www.giustizia-amministrartiva.it).

EDILIZIA PRIVATAE' corretto affermare che dei 77 parcheggi vincolati ad uso pubblico, 52 risultarono realizzati su suolo demaniale concesso in diritto di superficie e 25 sulla proprietà privata sotto il fabbricato principale.
Questi, quindi, sono stati realizzati in attuazione del piano particolareggiato come parcheggi pubblici di standard e non possono essere assimilati al regime dei parcheggi privati di pertinenza delle singole unità immobiliari ex L. 122 del 1989, il cui regime giuridico è nettamente differenziato.
Infatti, i parcheggi destinati al completamento degli standard sono previsti dall’art. 41-quinquies della L. n. 1150 del 1942, insieme agli spazi pubblici e al verde pubblico, e regolati dal D.M. 02.04.1968 n. 1444.
La loro funzione è quella di consentire un ordinato sviluppo del territorio ed alleviare il carico urbanistico, come dimostra il modo di computo degli standard pubblico relativo ai parcheggi in quanto opere di urbanizzazione primaria, in aggiunta alle superfici a parcheggio previste dall'art. 18 L. n. 765 del 1967 (che ha introdotto l’art. 41-sexies nella L. n. 1150 del 1942).
Al contrario, i parcheggi privati disciplinati dal citato art. 41-sexies e dall’articolo 9 della L. 122 del 1989, sono di proprietà privata, riservati agli abitanti delle unità residenziali e sono asserviti all’immobile con vincolo di pertinenzialità.
La funzione è certamente simile (il decongestionamento della viabilità pubblica tramite l’agevolazione della costruzione di spazi di parcheggio degli autoveicoli dei proprietari dei beni immobili) ma la disciplina è notevolmente diversa, sia in relazione al computo degli spazi che in merito al regime proprietario, stante il vincolo pertinenziale che si instaura con l’unità immobiliare principale.
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Il regime dei parcheggi in questione, realizzati su suolo demaniale concesso in superficie o su suolo privato e asserviti ad uso pubblico a mezzo di atto notarile registrato e trascritto in quanto opere di urbanizzazione primaria, previste dal piano particolareggiato e realizzate a scomputo degli oneri di urbanizzazione, impedisce di individuare una particolare posizione giuridica soggettiva tale da differenziare il condominio o i suoi condomini rispetto agli altri utenti in relazione ai modi di gestione dell’area da parte del Comune.
Infatti, le aree sono normalmente destinate, in assenza di specifici divieti, all’uso generale da parte della generalità dei cittadini, con ciò escludendo ogni valenza alla richiesta delle parti appellanti di essere destinatarie della comunicazione di avviso di avvio del procedimento relativo.
La ragione evidenziata in ricorso, ossia la presunta doppia utilità del parcheggio in esame, altro non è che un espediente argomentativo che conferma la posizione centrale del primo giudice, ossia l’inesistenza di una posizione differenziata delle parti appellanti rispetto alla comunità dei cittadini, rendendo quindi ingiustificato il trattamento peculiare richiesto.

3.1. - Le censure avverso la sentenza del TAR, in relazione al profilo qui in esame, sono infondate e vanno respinte.
Il primo giudice ha correttamente ricostruito il regime giuridico dei parcheggi in esame, evidenziando come, al contrario di quanto voluto dai ricorrenti (per cui si tratterebbe di parcheggi privati di pertinenza delle singole unità immobiliari ai quali si applicherebbe il particolare regime costituito dal vincolo inderogabile di accessorietà degli stessi all’immobile principale, dato dal vincolo di destinazione e dall’inalienabilità separata, di cui all’art. 41-sexies della legge urbanistica n. 1150 del 1942 e alla L. n. 122/1989), deve invece ritenersi assodata la loro destinazione pubblica.
Rinviando alla descrizione della fattispecie sopra operata, è corretto affermare che in definitiva, dei 77 parcheggi vincolati ad uso pubblico, 52 risultarono realizzati su suolo demaniale concesso in diritto di superficie alla Europa s.r.l., e 25 sulla proprietà privata sotto il fabbricato principale.
Questi, quindi, sono stati realizzati in attuazione del piano particolareggiato come parcheggi pubblici di standard e non possono essere assimilati al regime dei parcheggi privati di pertinenza delle singole unità immobiliari ex L. 122 del 1989, il cui regime giuridico è nettamente differenziato.
Infatti, i parcheggi destinati al completamento degli standard sono previsti dall’art. 41-quinquies della L. n. 1150 del 1942, insieme agli spazi pubblici e al verde pubblico, e regolati dal D.M. 02.04.1968 n. 1444. La loro funzione è quella di consentire un ordinato sviluppo del territorio ed alleviare il carico urbanistico, come dimostra il modo di computo degli standard pubblico relativo ai parcheggi in quanto opere di urbanizzazione primaria, in aggiunta alle superfici a parcheggio previste dall'art. 18 L. n. 765 del 1967 (che ha introdotto l’art. 41-sexies nella L. n. 1150 del 1942).
Al contrario, i parcheggi privati disciplinati dal citato art. 41-sexies e dall’articolo 9 della L. 122 del 1989, sono di proprietà privata, riservati agli abitanti delle unità residenziali e sono asserviti all’immobile con vincolo di pertinenzialità. La funzione è certamente simile (il decongestionamento della viabilità pubblica tramite l’agevolazione della costruzione di spazi di parcheggio degli autoveicoli dei proprietari dei beni immobili) ma la disciplina è notevolmente diversa, sia in relazione al computo degli spazi che in merito al regime proprietario, stante il vincolo pertinenziale che si instaura con l’unità immobiliare principale.
Così inquadrata la questione, appare del tutto corretta la soluzione data dal primo giudice alle censure proposte, anche in questa sede, dalle parti appellanti.
Il regime dei parcheggi in questione, realizzati su suolo demaniale concesso in superficie o su suolo privato e asserviti ad uso pubblico a mezzo di atto notarile registrato e trascritto in quanto opere di urbanizzazione primaria, previste dal piano particolareggiato e realizzate a scomputo degli oneri di urbanizzazione, impedisce di individuare una particolare posizione giuridica soggettiva tale da differenziare il condominio Europa o i suoi condomini rispetto agli altri utenti in relazione ai modi di gestione dell’area da parte del Comune.
Infatti, le aree sono normalmente destinate, in assenza di specifici divieti, all’uso generale da parte della generalità dei cittadini, con ciò escludendo ogni valenza alla richiesta delle parti appellanti di essere destinatarie della comunicazione di avviso di avvio del procedimento relativo. La ragione evidenziata in ricorso, ossia la presunta doppia utilità del parcheggio in esame, altro non è che un espediente argomentativo che conferma la posizione centrale del primo giudice, ossia l’inesistenza di una posizione differenziata delle parti appellanti rispetto alla comunità dei cittadini, rendendo quindi ingiustificato il trattamento peculiare richiesto.
Del pari, è infondata la doglianza in relazione alla ragione della destinazione dei parcheggi in favore della particolare destinazione data loro dalla delibera inizialmente gravata.
Nei limiti dell’interesse delle parti, che come si è visto non è connotato da particolare rilevanza giuridica, deve convenirsi con la valutazione operata dal primo giudice in relazione alla natura del potere esercitato dal Comune. Infatti, con l’ordinanza impugnata con il primo ricorso, i posti auto in esame sono stati riservati al ricovero degli automezzi di proprietà comunale in uso alla polizia municipale (i cui veicoli, si noti, non godono di un regime proprietario differenziato rispetto a quello degli altri automezzi comunali), in ciò in aderenza a quanto previsto dall’art. 7, lett. d), del Codice della strada, che espressamente prevede tale facoltà e, peraltro, come anche notato dal primo giudice, senza che tale determinazione abbia compromesso la dotazione minima di parcheggi pubblici stabilita per gli standard.
Conclusivamente, le censure relative ai capi di sentenza con cui si è esaminato il ricorso n. 2394 del 1999 sono infondati (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.08.2014 n. 4183 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Sulla sottrazione delle aree destinate obbligatoriamente a standard nell’area in esame, previa trasformazione compensativa tramite l’istituto della monetizzazione.
Sulla illegittima sdemanializzazione di 77 parcheggi vincolati ad uso pubblico e l’inserimento degli stessi tra le aree comunali da vendere.
Il tema è stato oggetto di una recente decisione. Invero, si è osservato come il Consiglio di Stato ha già 'delineato una propria linea interpretativa in merito al collegamento tra interventi edilizi e ricerca degli standard urbanistici e ha così assunto decisioni che hanno, ad esempio, negato la sufficienza di un parcheggio collocato in area non fruibile, dove la fruibilità era collegata non a valutazioni normative, ma fattuali, poiché il ‘terreno pertinenziale destinato a parcheggio deve ragionevolmente intendersi come condizione necessaria per la migliore fruizione del parcheggio medesimo da parte di tutti coloro che intendono comodamente accedervi con i propri mezzi di locomozione per poi uscire con i relativi acquisti più o meno ingombranti e/o pesanti da collocare su tali mezzi’.
Oppure decisioni che hanno evidenziato i pericoli legati alla smaterializzazione degli standard, sottolineando come ‘la monetizzazione degli standard urbanistici non può essere considerata alla stregua di una vicenda di carattere unicamente patrimoniale e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente pubblico e il privato che realizzerà l’opera, e ciò perché, da un lato, così facendo si legittima la paradossale situazione di separare i commoda (sotto forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli incommoda (il peggioramento della qualità di vita degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela giuridica agli interessi concretamente lesi degli abitanti dell’area’.
Ancora, si è affermato che ‘qualora si potessero individuare gli standard costruttivi in ragione del solo dato dimensionale, verrebbe conseguentemente posto in ombra il dato funzionale, ossia la destinazione concreta dell’area, come voluta dal legislatore. Soddisfacendo gli standard con la messa a disposizione di aree non utilizzabili in concreto (ossia, seguendo l’indicazione del TAR, utilizzando le porzioni che non sono utilizzabili, per forma o per le ridotte dimensioni, ovvero perché eccedenti un posto macchina standard ma insufficienti per realizzarne un altro, ovvero infine per il difficile accesso), la norma di garanzia verrebbe frustrata, atteso che il citato art. 41-sexies della legge urbanistica non contempla un nudo dato quantitativo, ma un dato mirato ad uno scopo esplicito’.
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Ciò che la giurisprudenza fa emergere è la “marcata attenzione alla funzione stessa degli standard urbanistici, intesi come indicatori minimi della qualità edificatoria (e così riferiti ai limiti inderogabili di densità edilizia, di rapporti spaziali tra le costruzioni e di disponibilità di aree destinate alla fruizione collettiva) e come tali destinati a connettersi direttamente con le aspettative dei fruitori dell’area interessata”, in una situazione di stretta interdipendenza, tale da determinare “la cogenza di questa stretta correlazione spaziale tra intervento edilizio e localizzazione dello standard”.
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Sulla scorta di tale lettura, appare perplessa la decisione di sopprimere un parcheggio pubblico destinato a soddisfare la previsione di standard, che come si è detto si localizzano funzionalmente nell’area limitrofa all’intervento, correlata ad una solo ipotetica e futura destinazione delle somme conseguite a seguito della monetizzazione, ossia della vendita dei parcheggi in esame.
In concreto, il primo giudice, pur avendo evidenziato la correttezza procedimentale, ha omesso di riscontrare l’assunto della fondamentale indisponibilità dell’oggetto del procedimento, ossia l’impossibilità di privare un’area della sua dotazione minima di standard senza una contestuale, effettiva e funzionale indicazione di altre aree di parcheggio idonee a salvaguardare il requisito minimo ex lege.
In concreto, usando le categorie tradizionali dell’atto amministrativo, l’indisponibilità del bene, dovuta al fatto che questo è essenziale per garantire la legittimità dell’insediamento realizzato, priva l’azione amministrativa di un suo necessario presupposto, rendendola così illegittima.

4. - Il secondo sentiero contenzioso trae origine dalla deliberazione del consiglio comunale n. 103 del 20.12.2011, con la quale il Comune decideva: a) la sdemanializzazione e b) l’inserimento tra le aree comunali da vendere (quali parcheggi privati) dei 77 posti auto interrati in questione.
Con successiva ordinanza l’amministrazione, in previsione della vendita di tali posti auto, poneva un divieto di sosta sugli stessi, riservandoli ad alcuni cittadini che erano stati provvisoriamente privati delle loro autorimesse da lavori eseguiti per incarico del Comune.
Anche in questo caso, il condominio Europa ed alcuni condomini con ricorso iscritto al numero di R.G. 447 del 2012 impugnavano tali atti. A fondamento di tale ricorso i ricorrenti hanno dedotto le censure di: violazione dell’art. 7 della L. n. 241/1990; violazione dell’art. 28 L. 1150/1942 e dell’art. 63 della L.R. n. 61/1985, non potendo le opere di urbanizzazione essere dismesse in favore di privati; violazione dell’art. 11 della L. n. 241/1990, per violazione della convenzione sottoscritta per l’urbanizzazione di una porzione del territorio comunale; eccesso di potere per falsità del presupposto, illogicità manifesta e travisamento dei fatti.
La sentenza impugnata del TAR per il Veneto ha respinto anche questa seconda serie di censure, ritenendo corretto il procedimento utilizzato dal Comune e dando vita alla seconda parte del contenzioso in grado di appello.
4.1. - Le censure proposte dalle parti appellanti, in relazione alla fase procedimentale di dismissione dei parcheggi, sono fondate e vanno accolte.
In disparte la ricostruzione operata in termini di nullità dei vizi gravanti sugli atti impugnati nel primo profilo del terzo motivo (sulla quale basta rinviare alla secolare elaborazione giurisprudenziale sulle patologie degli atti amministrativi per evidenziarne l’irrilevanza), ritiene la Sezione di doversi soffermare sul secondo profilo, dove viene lamentata la sottrazione delle aree destinate obbligatoriamente a standard nell’area in esame, previa trasformazione compensativa tramite l’istituto della monetizzazione.
Il primo giudice ha correttamente evidenziato la linearità della procedura utilizzata, giungendo così ad una considerazione conclusiva di legittimità dell’azione amministrativa.
Ha dapprima valutato la correttezza motivazionale della delibera gravata, in relazione alla impossibilità di garantire una utilizzazione collettiva di tali parcheggi, in ragione di una non eliminabile promiscuità tra lo spazio pubblico e quello dell’autorimessa privata (peraltro, derivante dal comportamento degli stessi condomini che aveva sempre occupato abusivamente i parcheggi pubblici, come acclarata dalla sentenza della Corte di Appello di Venezia n. 1858 del 12.07.2011).
Ha poi ritenuto del tutto compatibile il procedimento di rinuncia alla servitù pubblica e contestuale monetizzazione delle aree a standard per i parcheggi situati all’interno del condominio con i parametri urbanistici vincolanti posti dal D.M. 1444 del 1968 e dalle leggi regionali n. 61 del 1985 e 11 del 2004.
Su tale profilo, la Sezione ritiene però di dissentire, stante il proprio orientamento consolidato, dal quale non vi sono ragioni per discostarsi, di senso opposto.
Il tema è stato oggetto di una recente decisione (sentenza n. 616 del 10.02.2014, data peraltro proprio in relazione di una sentenza dello stesso TAR).
In quella occasione si è osservato come il Consiglio di Stato ha già “delineato una propria linea interpretativa in merito al collegamento tra interventi edilizi e ricerca degli standard urbanistici e ha così assunto decisioni che hanno, ad esempio, negato la sufficienza di un parcheggio collocato in area non fruibile, dove la fruibilità era collegata non a valutazioni normative, ma fattuali, poiché il ‘terreno pertinenziale destinato a parcheggio deve ragionevolmente intendersi come condizione necessaria per la migliore fruizione del parcheggio medesimo da parte di tutti coloro che intendono comodamente accedervi con i propri mezzi di locomozione per poi uscire con i relativi acquisti più o meno ingombranti e/o pesanti da collocare su tali mezzi’ (Consiglio di Stato, sez. V, 25.06.2010 n. 4059); oppure decisioni che hanno evidenziato i pericoli legati alla smaterializzazione degli standard, sottolineando come ‘la monetizzazione degli standard urbanistici non può essere considerata alla stregua di una vicenda di carattere unicamente patrimoniale e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente pubblico e il privato che realizzerà l’opera, e ciò perché, da un lato, così facendo si legittima la paradossale situazione di separare i commoda (sotto forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli incommoda (il peggioramento della qualità di vita degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela giuridica agli interessi concretamente lesi degli abitanti dell’area’ (Consiglio di Stato, sez. IV, ord. 04.02.2013 n. 644).
Ancora, si è affermato che ‘qualora si potessero individuare gli standard costruttivi in ragione del solo dato dimensionale, verrebbe conseguentemente posto in ombra il dato funzionale, ossia la destinazione concreta dell’area, come voluta dal legislatore. Soddisfacendo gli standard con la messa a disposizione di aree non utilizzabili in concreto (ossia, seguendo l’indicazione del TAR, utilizzando le porzioni che non sono utilizzabili, per forma o per le ridotte dimensioni, ovvero perché eccedenti un posto macchina standard ma insufficienti per realizzarne un altro, ovvero infine per il difficile accesso), la norma di garanzia verrebbe frustrata, atteso che il citato art. 41-sexies della legge urbanistica non contempla un nudo dato quantitativo, ma un dato mirato ad uno scopo esplicito’ (Consiglio di Stato, sez. IV, 28.05.13 n. 2916)
.”
Ciò che la giurisprudenza fa emergere è la “marcata attenzione alla funzione stessa degli standard urbanistici, intesi come indicatori minimi della qualità edificatoria (e così riferiti ai limiti inderogabili di densità edilizia, di rapporti spaziali tra le costruzioni e di disponibilità di aree destinate alla fruizione collettiva) e come tali destinati a connettersi direttamente con le aspettative dei fruitori dell’area interessata”, in una situazione di stretta interdipendenza, tale da determinare “la cogenza di questa stretta correlazione spaziale tra intervento edilizio e localizzazione dello standard”.
Sulla scorta di tale lettura, appare perplessa la decisione di sopprimere un parcheggio pubblico destinato a soddisfare la previsione di standard, che come si è detto si localizzano funzionalmente nell’area limitrofa all’intervento, correlata ad una solo ipotetica e futura destinazione delle somme conseguite a seguito della monetizzazione, ossia della vendita dei parcheggi in esame.
In concreto, il primo giudice, pur avendo evidenziato la correttezza procedimentale, ha omesso di riscontrare l’assunto della fondamentale indisponibilità dell’oggetto del procedimento, ossia l’impossibilità di privare un’area della sua dotazione minima di standard senza una contestuale, effettiva e funzionale indicazione di altre aree di parcheggio idonee a salvaguardare il requisito minimo ex lege. In concreto, usando le categorie tradizionali dell’atto amministrativo, l’indisponibilità del bene, dovuta al fatto che questo è essenziale per garantire la legittimità dell’insediamento realizzato, priva l’azione amministrativa di un suo necessario presupposto, rendendola così illegittima.
Per altro verso, appare non congruo il rinvio all’art. 32, comma 2, della legge regionale Veneto n. 11 del 23.04.2004 “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio”, atteso che la detta disposizione (per cui “le aree per servizi devono avere dimensione e caratteristiche idonee alla loro funzione in conformità a quanto previsto dal provvedimento della Giunta regionale di cui all'articolo 46, comma 1, lettera b). Qualora all'interno del PUA tali aree non siano reperibili, o lo siano parzialmente, è consentita la loro monetizzazione ovvero la compensazione ai sensi dell'articolo 37”) è collegata a quella di cui al comma 1 (“Il conseguimento dei rapporti di dimensionamento dei piani urbanistici attuativi (PUA) è assicurato mediante la cessione di aree o con vincoli di destinazione d'uso pubblico”) e si riferisce eventualmente alla sola fase di adozione e approvazione del piano (in senso analogo, sebbene in relazione alla diversa situazione lombarda, Consiglio di Stato, sez. V, 17.09.2010 n. 6950 dove si evidenzia l’incompatibilità della monetizzazione “volta a supplire alla (presunta) carenza di standard che non sia stata considerata in sede di pianificazione attuativa”).
Tale circostanza si ripercuote quindi anche sul regime giuridico della successiva procedura di dismissione che ne è direttamente condizionata, in senso ovviamente negativo, e in relazione alle delibere emesse strumentalmente ad essa.
Conclusivamente, l’appello va accolto limitatamente alle doglianze contenute nel ricorso di prime cure n. 447 del 2012 e quindi limitatamente all’annullamento della deliberazione del Consiglio Comunale di San Donà di Piave del 20.12.2011 n. 103, dove ha deciso la sdemanializzazione e l'inserimento tra le aree comunali da vendere (quali parcheggi privati) dei 77 posti auto interrati (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.08.2014 n. 4183 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAMentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l’area interessata all’imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard afferisce al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria all’interno della specifica zona di intervento.
E ciò vale ad evidenziare la diversità ontologica della monetizzazione rispetto al contributo di concessione di talché, sotto il versante processuale, non si può utilizzare lo strumento dell’azione di accertamento per determinare l’importo di tale obbligazione pecuniaria.
---------------
La norma regionale impone al richiedente il titolo edilizio di reperire gli standard necessari per l’ampliamento aggiuntivo richiesto. In via alternativa, lo stesso richiedente può provvedere alla monetizzazione degli standard mediante pagamento “di una somma commisurata al costo di acquisizione di altre aree equivalenti per estensione e comparabili per ubicazione e destinazione a quelle per le quali sussiste l’obbligo di cessione”.
In estrema sintesi, in base alla norma in questione il richiedente il titolo edilizio o trasferisce al Comune le aree necessarie per il soddisfacimento degli standard o consegna una somma di danaro idonea per acquisire tali aree: tale monetizzazione va, cioè, necessariamente quantificata con riferimento “al costo di acquisizione” di aree equivalenti.
Nella determinazione delle somme da corrispondere per tale monetizzazione, cioè, il Comune deve fare specifico riferimento alle somme occorrenti per “acquisire” le aree necessarie per realizzare gli standard, cioè deve effettuare un calcolo puntuale ed articolato di quanto dovrebbe in concreto spendere per acquisire al suo patrimonio le aree necessarie, comprensive, ad esempio, di tutte le spese (cioè sia delle spese vive, che dell’attività lavorativa del personale del Comune) per acquisire sul libero mercato delle aree “equivalenti per estensione e comparabili per ubicazione e destinazione a quelle per le quali sussiste l’obbligo di cessione”.
In definiva, nella quantificazione di tale monetizzazione il Comune deve effettuare in concreto (e non in astratto come sembra abbia fatto nel caso in esame) un calcolo preciso di tutte le spese che dovrebbe sopportare per acquisire sul libero mercato delle aree “equivalenti”, in modo tale da rendere nella sostanza equivalente per il soggetto interessato la scelta tra il procedere alla diretta acquisizione delle aree ed la loro cessione al Comune o il procedere al pagamento della relativa “monetizzazione”, dato che eventuali costi aggiuntivi non debbono e non possono in alcun modo gravare sulla collettività, ma debbono essere posti necessariamente a carico del soggetto che altera il corretto rispetto degli standard.
Mentre non può di certo ritenersi ammissibile al riguardo la possibilità per il Comune di quantificare tali costi ipotizzando il ricorso per l’acquisizione di tale aree allo strumento espropriativo, dato che i soggetti proprietari di tali aree, eventualmente da espropriare, non possono in alcun modo subire una lesione dei loro intessi in relazione ad un’attività costruttiva realizzata da soggetti terzi per soddisfare interessi privati e non pubblici. Non può quindi ritenersi che, in via alternativa, il Comune possa considerare le spese necessarie per acquisire le aree necessarie non sul libero mercato, ma attraverso lo strumento pubblicistico dell’esproprio.
Ciò detto, sembra evidente l’erroneità del procedimento logico seguito nel caso di specie dal Comune e denunciato con il gravame, dato che l’Amministrazione ha determinato “in astratto” il valore delle aree (quantificandole in una somma di poco superiore alle € 100 al mq., senza previamente accertare i valori di mercato nella zona), maggiorandola di somme (costo dell’infrastruttura da realizzare e costo della progettazione dell’opera pubblica) non previste dalla normativa sopra richiamata.

Con il ricorso in esame -come sopra esposto- sono state nella sostanza contestate la modalità di determinazione da parte del Comune di Montesilvano della monetizzazione degli standard.
...
Con la deliberazione impugnata il Consiglio comunale di Montesilvano ha nella sostanza determinato in via generale i criteri per la monetizzazione degli standard, integrando e modificando la precedente propria deliberazione consiliare n. 3 del 29.01.2013, nei termini seguenti: ha ritenuto che tale monetizzazione avrebbe dovuto essere determinata aggiungendo al costo per l’acquisizione delle aree (determinato in € 109/mq) -da moltiplicarsi per un coefficiente correttivo rapportato all’indice di fabbricabilità territoriale- anche i seguenti costi:
a) il costo dell’infrastruttura da realizzare (pari a € 96,90/mq);
b) il costo della progettazione dell’opera pubblica (pari a € 7,90/mq).
Con i primi due motivi di ricorso -che possono esaminarsi congiuntamente- la società ricorrente ha dedotto che con la previsione di tali due voci aggiuntive per un verso si era violata L.R. Abruzzo 15.10.2012, n. 49, in quanto tale normativa concede ai soggetti l’alternativa tra la cessione delle aree e l’equivalente valore monetario, e per altro verso si era violato l’art. 23 della Costituzione, dato che era stato imposto un ulteriore contributo di urbanizzazione non previsto da alcuna norma di legge.
Tali doglianze, aventi carattere pregiudiziale ed assorbente, sono fondate.
Va al riguardo premesso che relativamente all’impugnativa di tale atto generale, avente natura discrezionale, sussiste di certo la giurisdizione di questo Tribunale, dal momento che la posizione giuridica soggettiva del privato ha l’indubbia consistenza dell’interesse legittimo.
Mentre -come è già stato autorevolmente precisato (Cons. St., sez. IV, 23.12.2013 n. 6211)- non si può utilizzare in questa sede lo strumento dell’azione di accertamento per la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard, ammessa al contrario solo per contestare la legittimità del contributo concessorio di cui all'art. 3 della L. 28.01.1977, n. 10. Si è, invero, al riguardo già chiarito che “mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l’area interessata all’imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard afferisce al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria all’interno della specifica zona di intervento; e ciò vale ad evidenziare la diversità ontologica della monetizzazione rispetto al contributo di concessione di talché, sotto il versante processuale, non si può utilizzare lo strumento dell’azione di accertamento per determinare l’importo di tale obbligazione pecuniaria".
Ciò chiarito, va evidenziato che la norma regionale sopra ricordata impone al richiedente il titolo edilizio di reperire gli standard necessari per l’ampliamento aggiuntivo richiesto. In via alternativa, lo stesso richiedente può provvedere alla monetizzazione degli standard mediante pagamento “di una somma commisurata al costo di acquisizione di altre aree equivalenti per estensione e comparabili per ubicazione e destinazione a quelle per le quali sussiste l’obbligo di cessione”.
In estrema sintesi, in base alla norma in questione il richiedente il titolo edilizio o trasferisce al Comune le aree necessarie per il soddisfacimento degli standard o consegna una somma di danaro idonea per acquisire tali aree: tale monetizzazione va, cioè, necessariamente quantificata con riferimento “al costo di acquisizione” di aree equivalenti.
Nella determinazione delle somme da corrispondere per tale monetizzazione, cioè, il Comune deve fare specifico riferimento alle somme occorrenti per “acquisire” le aree necessarie per realizzare gli standard, cioè deve effettuare un calcolo puntuale ed articolato di quanto dovrebbe in concreto spendere per acquisire al suo patrimonio le aree necessarie, comprensive, ad esempio, di tutte le spese (cioè sia delle spese vive, che dell’attività lavorativa del personale del Comune) per acquisire sul libero mercato delle aree “equivalenti per estensione e comparabili per ubicazione e destinazione a quelle per le quali sussiste l’obbligo di cessione”.
In definiva, nella quantificazione di tale monetizzazione il Comune deve effettuare in concreto (e non in astratto come sembra abbia fatto nel caso in esame) un calcolo preciso di tutte le spese che dovrebbe sopportare per acquisire sul libero mercato delle aree “equivalenti”, in modo tale da rendere nella sostanza equivalente per il soggetto interessato la scelta tra il procedere alla diretta acquisizione delle aree ed la loro cessione al Comune o il procedere al pagamento della relativa “monetizzazione”, dato che eventuali costi aggiuntivi non debbono e non possono in alcun modo gravare sulla collettività, ma debbono essere posti necessariamente a carico del soggetto che altera il corretto rispetto degli standard.
Mentre non può di certo ritenersi ammissibile al riguardo la possibilità per il Comune di quantificare tali costi ipotizzando il ricorso per l’acquisizione di tale aree allo strumento espropriativo, dato che i soggetti proprietari di tali aree, eventualmente da espropriare, non possono in alcun modo subire una lesione dei loro intessi in relazione ad un’attività costruttiva realizzata da soggetti terzi per soddisfare interessi privati e non pubblici. Non può quindi ritenersi che, in via alternativa, il Comune possa considerare le spese necessarie per acquisire le aree necessarie non sul libero mercato, ma attraverso lo strumento pubblicistico dell’esproprio.
Ciò detto, sembra evidente l’erroneità del procedimento logico seguito nel caso di specie dal Comune e denunciato con il gravame, dato che l’Amministrazione ha determinato “in astratto” il valore delle aree (quantificandole in una somma di poco superiore alle € 100 al mq., senza previamente accertare i valori di mercato nella zona), maggiorandola di somme (costo dell’infrastruttura da realizzare e costo della progettazione dell’opera pubblica) non previste dalla normativa sopra richiamata.
Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso in esame deve, conseguentemente, essere accolto e, per l’effetto, deve essere annullato nella sua totalità l’atto impugnato, data l’erroneità dell’intero procedimento logico seguito dal Comune per procedere alla monetizzazione in parola. Mentre restano al riguardo ovviamente salvi gli ulteriori provvedimenti che l’Amministrazione andrà ad adottare in merito, attenendosi ai criteri sopra indicati.
Con riferimento a quanto sopra esposto ed a quanto al riguardo chiarito dal Giudice di appello (Cons. St., sez. IV, 23.12.2013 n. 6211), vanno infine dichiarate inammissibili le richieste di rideterminazione da parte di questo Tribunale del corrispettivo dovuto per la mancata cessione delle aree di standard e l’accertamento del diritto della ricorrente alla restituzione delle somme non dovute indebitamente versate a titolo di monetizzazione; mentre resta assorbita l’ultima della doglianze dedotte, che presuppone la legittimità dell’atto deliberativo in questione (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 15.07.2014 n. 346 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Se il lottizzante non cede le aree/opere di urbanizzazione al comune quest'ultimo deve adire il TAR, anche per l'eventuale e correlato risarcimento del danno.
Pregiudizialmente, il Collegio ritiene sussistente la giurisdizione del Giudice Amministrativo, posta in dubbio dalla resistente nelle ultime memorie e all’odierna udienza di discussione.
La controversia in esame, difatti, attiene all'accertamento ed esecuzione, ex art. 2932 c.c., degli obblighi di trasferimento di aree derivanti da una convenzione urbanistica.
La materia in oggetto rientra quindi pacificamente nella giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo, trattandosi di questione relativa all'urbanistica e, comunque, vertendosi in tema di controversia relativa all'esecuzione di accordi ex art. 11, comma 5, L. 241/1990, per i quali, sotto diverso profilo, sussiste del pari la giurisdizione amministrativa.
Ciò comporta che il giudice amministrativo è investito del potere di decidere non soltanto sulle azioni promosse dai soggetti privati coinvolti nell'accordo contro la Pubblica Amministrazione, ma anche su quelle promosse dalla stessa P.A. nei confronti dei privati che hanno aderito all'accordo, per ottenere il rispetto degli obblighi dai medesimi assunti con la sottoscrizione della relativa convenzione e non adempiuti spontaneamente

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La giurisprudenza ha di recente ribadito che il rimedio previsto dall’art. 2932 c.c. deve ritenersi applicabile non solo alle ipotesi di contratto preliminare non seguito dal definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto.
Ed essendo pure pacifico come l’azione ex art. 2932 c.c. sia compatibile con la struttura del processo amministrativo, vertendosi in una ipotesi di giurisdizione esclusiva, la quale, venendo in discussione questioni su diritti, non può che garantire agli interessati la medesima tutela e, dunque, le medesime specie di azioni riconosciute dinanzi al giudice ordinario, e ciò anche quando l’interessato è il Comune, che ben può scegliere la via giudiziale, in luogo di esperire poteri autoritativi, quali, ad esempio, quello espropriativo.

... per l'accertamento e la declaratoria dell’inadempimento agli obblighi previsti dalla convenzione urbanistica in data 11/03/2005 n. 91606 di rep. Notaio T.P. e conseguentemente affinché sia disposto ai sensi e per gli effetti dell'art. 2932 c.c. il trasferimento a favore del Comune di Padova della proprietà di:
- n. 3 alloggi:
alloggio 1) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 49;
alloggio 2) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 55;
alloggio 3) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 58;
- relativi garages, così identificati:
a) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 16;
b) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 35;
c) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 36;
d) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 38;
- parcheggio privato:
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 5;
- centro civico:
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 58;
e la costituzione di vincolo ad uso pubblico di
- parcheggio privato mq. 332:
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 4;
- verde pubblico mq 548 (circa):
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 1;
- parcheggio pubblico mq. 135:
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 6;
così come specificamente identificati nel certificato di collaudo a firma dell'Ing. M., su richiesta del Comune e della Società R. S.r.l., approvato dal Comune di Padova giusta determinazione 26/05/2009 n. 2009/69/0019 nonché, per l'accertamento e la declaratoria del risarcimento del danno.
...
Pregiudizialmente, il Collegio ritiene sussistente la giurisdizione del Giudice Amministrativo, posta in dubbio dalla resistente nelle ultime memorie e all’odierna udienza di discussione.
La controversia in esame, difatti, attiene all'accertamento ed esecuzione, ex art. 2932 c.c., degli obblighi di trasferimento di aree derivanti da una convenzione urbanistica.
La materia in oggetto rientra quindi pacificamente nella giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo, trattandosi di questione relativa all'urbanistica e, comunque, vertendosi in tema di controversia relativa all'esecuzione di accordi ex art. 11, comma 5, L. 241/1990, per i quali, sotto diverso profilo, sussiste del pari la giurisdizione amministrativa.
Ciò comporta che il giudice amministrativo è investito del potere di decidere non soltanto sulle azioni promosse dai soggetti privati coinvolti nell'accordo contro la Pubblica Amministrazione, ma anche su quelle promosse dalla stessa P.A. nei confronti dei privati che hanno aderito all'accordo, per ottenere il rispetto degli obblighi dai medesimi assunti con la sottoscrizione della relativa convenzione e non adempiuti spontaneamente (si veda tra le tante, Cassazione civile, Sez. Un., ordinanza 17.04.2009, n. 9151).
Nel merito il ricorso è fondato.
Va in primo luogo evidenziato come sia pacifico che la società resistente non abbia adempiuto agli obblighi di cui alla convenzione dell’11.03.2005, per la cui esecuzione in forma specifica agisce il Comune di Padova.
La resistente invece eccepisce che l’amministrazione, anziché intentare il presente giudizio, avrebbe dovuto escutere la polizza fideiussoria a prima richiesta rilasciata in suo favore a garanzia degli obblighi previsti nella convenzione urbanistica, evitando così il danno ora lamentato.
Tale tesi appare destituita di fondamento.
Ed infatti, la stipula della polizza fideiussoria non è stata accompagnata da alcuna dichiarazione abdicativa di tutti gli altri diritti spettanti all’amministrazione sulla base della convenzione dell’11.03.2005.
Piuttosto, con la polizza fideiussoria in esame il terzo assicuratore si è obbligato, a titolo di garanzia, ad eseguire, a semplice richiesta del Comune, una prestazione indennitaria succedanea e diversa rispetto a quella principale posta nella convenzione a carico della R.. Obbligazione, quest’ultima, avente natura infungibile, consistendo, in particolare, nella promessa di vincolare all’uso pubblico determinate aree destinate alle opere di urbanizzazione primaria, e di cedere al Comune alcuni appartamenti e relativi garage.
E’ quindi evidente che la polizza in esame è accessoria alla convenzione urbanistica e determina la costituzione di un’obbligazione a scopo di garanzia, del terzo assicuratore, aggiuntiva ed autonoma rispetto a quella principale gravante sulla società, secondo il modello della delegazione di pagamento di cui agli artt. 1268 e ss. cc..
Ne consegue che il Comune di Padova, non essendo peraltro previsto alcun beneficio di escussione, non ha incontrato alcun onere o vincolo nel decidere se escutere la polizza fideiussoria, accontentandosi di veder soddisfatto, sia pure nell’immediato, un proprio interesse meramente patrimoniale attraverso una prestazione indennitaria, peraltro limitata da un massimale di polizza, oppure perseguire la soddisfazione del proprio interesse primario all’esecuzione in forma specifica della convenzione nei termini convenuti.
Il Comune, dunque, ha liberamente optato per quest’ultimo rimedio chiedendo l’esecuzione della convenzione.
E, d’altra parte, la prima via appariva a prima vista molto meno vantaggiosa per il Comune. Considerato infatti che il massimale di polizza (fissato in € 343.619,22) è stato determinato in misura pari al 70% del presunto costo delle opere oggetto della presente domanda di sentenza costitutiva, se ne può agevolmente dedurre la funzione meramente indennitaria e cauzionale della polizza; e ciò ad ulteriore testimonianza di come rimanesse impregiudicata la possibilità per il Comune di ottenere la specifica esatta prestazione oggetto della propria aspettativa, ovvero il trasferimento della proprietà degli immobili e la costituzione dei vincoli ad uso pubblico.
Pertanto, la scelta dell’amministrazione di richiedere l’adempimento in natura dell’obbligazione principale appare pienamente legittima, non contestabile, né in contrasto con gli obblighi contrattuali di buona fede e correttezza.
Di fronte a tale richiesta la società R. era tenuta ad adempiere, trasferendo senza ritardo la proprietà degli immobili in discussione. Essendo quest’ultima rimasta inerte pur a fronte delle plurime diffide inviate dall’amministrazione, ed avendo costretto il Comune di Padova ad agire in giudizio per l’esecuzione specifica di tale obbligo ai sensi dell’art. 2932 c.c., essa -oltre a soggiacere agli effetti della sentenza costitutiva del trasferimento- essendosi resa responsabile dell’inadempimento alla convenzione, è tenuta al risarcimento del danno derivante al Comune dal mancato godimento di tali tre alloggi e quattro garage nel periodo che va dal 13.08.2009 (tre mesi dal collaudo ex convenzione) ad oggi.
Quanto al primo profilo, giova ricordare che la giurisprudenza ha di recente ribadito che il rimedio previsto dall’art. 2932 c.c. deve ritenersi applicabile non solo alle ipotesi di contratto preliminare non seguito dal definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto (cfr. Cass. civ. sez. II, 30.03.2012, n. 5160; TAR Lombardia, Brescia, 28.11.2011, n. 1126).
Ed essendo pure pacifico come l’azione ex art. 2932 c.c. sia compatibile con la struttura del processo amministrativo, vertendosi in una ipotesi di giurisdizione esclusiva, la quale, venendo in discussione questioni su diritti, non può che garantire agli interessati la medesima tutela e, dunque, le medesime specie di azioni riconosciute dinanzi al giudice ordinario, e ciò anche quando l’interessato è il Comune, che ben può scegliere la via giudiziale, in luogo di esperire poteri autoritativi, quali, ad esempio, quello espropriativo.
Quanto invece alla quantificazione del danno, si ritiene che questa possa essere determinata sulla base del valore del canone di locazione di tali immobili nel periodo di riferimento.
Nel caso di specie tale accertamento -per il quale il Comune aveva chiesto l’esperimento di una CTU- risulta nel caso di specie agevolato, essendo stati, gli immobili in questione, effettivamente concessi in locazione da parte della R. s.r.l..
A tal fine, su sollecitazione del Tribunale, il Comune di Padova ha depositato in giudizio copia delle visure da cui risulta l’effettivo ammontare del canone di locazione annuale di ciascuno dei tre appartamenti con relativi garage.
Successivamente, il Comune ha anche prodotto copia dei tre contratti di locazione, e ciò anche al di là del termine assegnato: termine, tuttavia, non perentorio, venendo qui in questione l’esercizio del potere acquisitivo del giudice, ed essendo contraria a principi di economia processuale l’inibita acquisizione di dati conoscitivi –in parte, peraltro, nel caso di specie, già risultanti dagli atti– ove ritenuti utili per la decisione, ferme restando le esigenze di difesa, nella fattispecie soddisfatte con la possibilità di discutere di tali dati all’udienza odierna (cfr., per il principio, Cons. St., sez. VI, 06.04.2007, n. 1560 e 10.03.2011, n. 1538).
Peraltro, i dati così acquisiti corrispondono per la gran parte (eccetto il box sub 35 non locato) a quelli posti a base della stima del danno effettuata dal capo settore patrimonio del Comune, sin dall’inizio versata in atti (doc. 13); stima che, dunque, nella parte che qui interessa, viene confermata nella sua attendibilità e può essere posta a fondamento della presente liquidazione del danno, senza necessità di conferire incarico ad un CTU.
Ne consegue che, sulla base dei dati acquisiti in esito all’istruttoria e della stima del settore patrimonio del Comune (aggiornata all’attualità sulla base del 75% dell’indice Istat), il danno da mancato godimento degli appartamenti e dei garage, nel periodo gennaio 2010–maggio 2014, può essere determinato come segue:
canone anno 2010, € 21.702,24
canone anno 2011, € 22.060,33
canone anno 2012, € 22.473,96
canone anno 2013, € 22.844,78
canone anno 2014 (fino a maggio compreso), € 9.561,49;
per un totale di € 98.642,80.
A tale somma, al fine di determinare il mancato utile netto, devono essere sottratte le spese (solo quelle documentate) affrontate, nel periodo in questione, dalla società Relax per IMU, ICI e condominio, come da quest’ultima richiesto. Tali spese, anche sulla base dello schema riepilogativo della società (doc. 3), non oggetto di specifiche contestazioni da parte del Comune, possono essere determinate in: € 9.665,08 per ICI/IMU, ed € 10.573,91 (€ 9.201,65 + € 1.372,26 in relazione al sub 35) per spese condominiali. Per un totale di € 20.239,00.
Per cui dalla differenza ne risulta un utile netto mancato di € 78.403,80.
Somma che può essere arrotondata in € 80.000,00 considerando, in via equitativa, il valore degli interessi legali maturati anno per anno sulle somme non tempestivamente percepite.
Su tale importo andranno poi corrisposti gli interessi legali a partire dalla data della presente decisione al saldo.
In conclusione il ricorso deve essere accolto e, per l'effetto, questo TAR deve adottare una sentenza costitutiva che disponga l'esecuzione in forma specifica della convenzione di riferimento ai sensi dell'art. 2932 c.c. e, quindi, il trasferimento al Comune resistente della proprietà dei beni immobili identificati nel ricorso introduttivo:
alloggio 1) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 49;
alloggio 2) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 55;
alloggio 3) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 58;
- relativi garages, così identificati:
a) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 16;
b) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 35;
c) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 36;
d) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 38;
- parcheggio privato:
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 5;
- centro civico:
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 58;
e la costituzione di vincolo ad uso pubblico di:
- parcheggio privato mq. 332: Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 4;
- verde pubblico mq 548 (circa): Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 1;
- parcheggio pubblico mq. 135: Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 6;
così come specificamente identificati nel certificato di collaudo a firma dell'Ing. M., approvato dal Comune di Padova giusta determinazione 26/05/2009 n. 2009/69/0019.
Inoltre, la società R. deve essere condannata a risarcire il danno subito dal Comune di Padova per la ritardata disponibilità dei tre appartamenti e dei quattro garage, danno che si liquida in € 80.000,00 al valore attuale, oltre interessi legali dalla data della presente decisione al saldo (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 05.06.2014 n. 759 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Sul tema del rispetto degli standard urbanistici laddove ha nuovamente assunto di recente un rilievo centrale nell’ambito degli strumenti di governo del territorio.
Questo Giudice ha già delineato una propria linea interpretativa in merito al collegamento tra interventi edilizi e ricerca degli standard urbanistici e ha così assunto decisioni che hanno, ad esempio, negato la sufficienza di un parcheggio collocato in area non fruibile, dove la fruibilità era collegata non a valutazioni normative, ma fattuali, poiché il “terreno pertinenziale destinato a parcheggio deve ragionevolmente intendersi come condizione necessaria per la migliore fruizione del parcheggio medesimo da parte di tutti coloro che intendono comodamente accedervi con i propri mezzi di locomozione per poi uscire con i relativi acquisti più o meno ingombranti e/o pesanti da collocare su tali mezzi”.
Oppure decisioni che hanno evidenziato i pericoli legati alla smaterializzazione degli standard, sottolineando come “la monetizzazione degli standard urbanistici non può essere considerata alla stregua di una vicenda di carattere unicamente patrimoniale e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente pubblico e il privato che realizzerà l’opera, e ciò perché, da un lato, così facendo si legittima la paradossale situazione di separare i commoda (sotto forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli incommoda (il peggioramento della qualità di vita degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela giuridica agli interessi concretamente lesi degli abitanti dell’area”.
Ancora, si è affermato che “qualora si potessero individuare gli standard costruttivi in ragione del solo dato dimensionale, verrebbe conseguentemente posto in ombra il dato funzionale, ossia la destinazione concreta dell’area, come voluta dal legislatore. Soddisfacendo gli standard con la messa a disposizione di aree non utilizzabili in concreto (ossia, seguendo l’indicazione del TAR, utilizzando “le porzioni che non sono utilizzabili, per forma o per le ridotte dimensioni, ovvero perché eccedenti un posto macchina standard ma insufficienti per realizzarne un altro, ovvero infine per il difficile accesso”), la norma di garanzia verrebbe frustrata, atteso che il citato art. 41-sexsies della legge urbanistica non contempla un nudo dato quantitativo, ma un dato mirato ad uno scopo esplicito”.
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Come si vede, il quadro complessivo emergente dalla giurisprudenza è quello di una marcata attenzione alla funzione stessa degli standard urbanistici, intesi come indicatori minimi della qualità edificatoria (e così riferiti ai limiti inderogabili di densità edilizia, di rapporti spaziali tra le costruzioni e di disponibilità di aree destinate alla fruizione collettiva) e come tali destinati a connettersi direttamente con le aspettative dei fruitori dell’area interessata.
Il che comporta come il criterio essenziale di valorizzazione e di decisione sulla congruità dello standard applicato sia quello della funzionalizzazione dello stesso al rispetto delle esigenze della popolazione stanziata sul territorio, che dovrà quindi essere posta in condizione di godere, concretamente e non virtualmente, del quantum di standard urbanistici garantiti dalla disciplina urbanistica.
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La Sezione non può peraltro esimersi dal notare come la cogenza di questa stretta correlazione spaziale tra intervento edilizio e localizzazione dello standard, correlazione che connota il tema della qualità edilizia, assuma una valenza ancora più marcata nei casi in cui operino strumenti urbanistici informati al principio della perequazione.
Infatti, la soluzione perequativa, che tende ad attenuare gli impatti discriminatori della pianificazione a zone, sia in funzione di un meno oneroso acquisto in favore della mano pubblica dei suoli da destinare a finalità collettive, sia per conseguire un’effettiva equità distributiva della rendita fondiaria, si fonda su una serie di strumenti operativi che, letti senza un congruo ancoraggio con le necessità concrete cui si riferiscono, favoriscono astrazioni concettuali pericolose.
L’utilizzo di formule retoricamente allettanti (aree di decollo, aree di atterraggio, pertinenze indirette, trasferimenti di diritti volumetrici et similia) non deve fare dimenticare che lo scopo della disciplina urbanistica non è la massimizzazione dell’aggressione del territorio, ma la fruizione, privata o collettiva, delle aree in modo pur sempre coerente con le aspettative di vita della popolazione che ivi risiede.
In particolare, l’assenza di una disciplina nazionale sulla perequazione urbanistica (tanto più necessaria dopo che la Corte costituzionale ha affermato, con la sentenza del 26.03.2010 n. 121, che le “previsioni, relative al trasferimento ed alla cessione dei diritti edificatori, incidono sulla materia «ordinamento civile», di competenza esclusiva dello Stato”, con ciò rendendo dubbia la presenza di discipline regionali emanate prima della fissazione di un quadro organico statale - che non si limiti all’aspetto della mera documentazione della trascrizione dei diritti edificatori, di cui all’art. 5, comma 3, del D.L. 13.05.2011, n. 70) dimostra la viva necessità di una disamina concreta delle diverse previsioni adottate negli strumenti urbanistici, al fine di evitare che l’estrema flessibilità delle soluzioni operative adottate dalle singole Regioni si traduca in una lesione di ineliminabili esigenze di salvaguardia dei livelli qualitativi omogenei di convivenza civile (e la riconducibilità dell’attività amministrativa, intesa come “prestazione”, al parametro di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m) della Costituzione, proprio in rapporto a istituti di diritto dell’edilizia, è chiarissima nella giurisprudenza del giudice delle leggi).
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Conclusivamente, la Sezione intende rimanere fedele al suo orientamento che vede lo standard urbanistico collocarsi spazialmente e funzionalmente in prossimità dell’area di intervento edilizio, al fine di legare strettamente e indissolubilmente commoda e incommoda della modificazione sul territorio.

2.1. - La doglianza è fondata e va accolta.
Osserva la Sezione come il tema del rispetto degli standard urbanistici abbia nuovamente assunto di recente un rilievo centrale nell’ambito degli strumenti di governo del territorio.
In questo senso, sono riscontrabili non solo interventi normativi (peraltro organizzati secondo prospettive dialetticamente opposte riguardo al tema della loro necessità e cogenza, poiché mirano, da un lato -come nel caso della legge 14.01.2013, n. 10 “Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani”- a marcarne la rilevanza ai fini della qualità di vita urbana e, dall’altro –come con l’introduzione dell’art. 2-bis “Deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati” nel d.P.R. 06.06.2001 n. 380 “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”– a renderne al contrario più flessibile e meno stringente il contenuto), ma anche prese di posizione di questo Consiglio, che non si è sottratto al dovere di esprimere il proprio avviso su un tema così rilevante nella costruzione del tessuto urbanistico.
In particolare, questo Giudice ha già delineato una propria linea interpretativa in merito al collegamento tra interventi edilizi e ricerca degli standard urbanistici e ha così assunto decisioni che hanno, ad esempio, negato la sufficienza di un parcheggio collocato in area non fruibile, dove la fruibilità era collegata non a valutazioni normative, ma fattuali, poiché il “terreno pertinenziale destinato a parcheggio deve ragionevolmente intendersi come condizione necessaria per la migliore fruizione del parcheggio medesimo da parte di tutti coloro che intendono comodamente accedervi con i propri mezzi di locomozione per poi uscire con i relativi acquisti più o meno ingombranti e/o pesanti da collocare su tali mezzi” (Consiglio di Stato, sez. V, 25.06.2010 n. 4059); oppure decisioni che hanno evidenziato i pericoli legati alla smaterializzazione degli standard, sottolineando come “la monetizzazione degli standard urbanistici non può essere considerata alla stregua di una vicenda di carattere unicamente patrimoniale e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente pubblico e il privato che realizzerà l’opera, e ciò perché, da un lato, così facendo si legittima la paradossale situazione di separare i commoda (sotto forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli incommoda (il peggioramento della qualità di vita degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela giuridica agli interessi concretamente lesi degli abitanti dell’area” (Consiglio di Stato, sez. IV, ord. 04.02.2013 n. 644).
Ancora, si è affermato che “qualora si potessero individuare gli standard costruttivi in ragione del solo dato dimensionale, verrebbe conseguentemente posto in ombra il dato funzionale, ossia la destinazione concreta dell’area, come voluta dal legislatore. Soddisfacendo gli standard con la messa a disposizione di aree non utilizzabili in concreto (ossia, seguendo l’indicazione del TAR, utilizzando “le porzioni che non sono utilizzabili, per forma o per le ridotte dimensioni, ovvero perché eccedenti un posto macchina standard ma insufficienti per realizzarne un altro, ovvero infine per il difficile accesso”), la norma di garanzia verrebbe frustrata, atteso che il citato art. 41-sexsies della legge urbanistica non contempla un nudo dato quantitativo, ma un dato mirato ad uno scopo esplicito” (Consiglio di Stato, sez. IV, 28.05.2013 n. 2916).
Come si vede, il quadro complessivo emergente dalla giurisprudenza è quello di una marcata attenzione alla funzione stessa degli standard urbanistici, intesi come indicatori minimi della qualità edificatoria (e così riferiti ai limiti inderogabili di densità edilizia, di rapporti spaziali tra le costruzioni e di disponibilità di aree destinate alla fruizione collettiva) e come tali destinati a connettersi direttamente con le aspettative dei fruitori dell’area interessata.
Il che comporta, come già notato dalle decisioni che precedono, come il criterio essenziale di valorizzazione e di decisione sulla congruità dello standard applicato sia quello della funzionalizzazione dello stesso al rispetto delle esigenze della popolazione stanziata sul territorio, che dovrà quindi essere posta in condizione di godere, concretamente e non virtualmente, del quantum di standard urbanistici garantiti dalla disciplina urbanistica.
La Sezione non può peraltro esimersi dal notare come la cogenza di questa stretta correlazione spaziale tra intervento edilizio e localizzazione dello standard, correlazione che connota il tema della qualità edilizia, assuma una valenza ancora più marcata nei casi in cui operino strumenti urbanistici informati al principio della perequazione.
Infatti, la soluzione perequativa, che tende ad attenuare gli impatti discriminatori della pianificazione a zone, sia in funzione di un meno oneroso acquisto in favore della mano pubblica dei suoli da destinare a finalità collettive, sia per conseguire un’effettiva equità distributiva della rendita fondiaria, si fonda su una serie di strumenti operativi che, letti senza un congruo ancoraggio con le necessità concrete cui si riferiscono, favoriscono astrazioni concettuali pericolose.
L’utilizzo di formule retoricamente allettanti (aree di decollo, aree di atterraggio, pertinenze indirette, trasferimenti di diritti volumetrici et similia) non deve fare dimenticare che lo scopo della disciplina urbanistica non è la massimizzazione dell’aggressione del territorio, ma la fruizione, privata o collettiva, delle aree in modo pur sempre coerente con le aspettative di vita della popolazione che ivi risiede.
In particolare, l’assenza di una disciplina nazionale sulla perequazione urbanistica (tanto più necessaria dopo che la Corte costituzionale ha affermato, con la sentenza del 26.03.2010 n. 121, che le “previsioni, relative al trasferimento ed alla cessione dei diritti edificatori, incidono sulla materia «ordinamento civile», di competenza esclusiva dello Stato”, con ciò rendendo dubbia la presenza di discipline regionali emanate prima della fissazione di un quadro organico statale - che non si limiti all’aspetto della mera documentazione della trascrizione dei diritti edificatori, di cui all’art. 5, comma 3, del D.L. 13.05.2011, n. 70) dimostra la viva necessità di una disamina concreta delle diverse previsioni adottate negli strumenti urbanistici, al fine di evitare che l’estrema flessibilità delle soluzioni operative adottate dalle singole Regioni si traduca in una lesione di ineliminabili esigenze di salvaguardia dei livelli qualitativi omogenei di convivenza civile (e la riconducibilità dell’attività amministrativa, intesa come “prestazione”, al parametro di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m) della Costituzione, proprio in rapporto a istituti di diritto dell’edilizia, è chiarissima nella giurisprudenza del giudice delle leggi, cfr. Corte Costituzionale, 27.06.2012 n. 164).
Conclusivamente, la Sezione intende rimanere fedele al suo orientamento che vede lo standard urbanistico collocarsi spazialmente e funzionalmente in prossimità dell’area di intervento edilizio, al fine di legare strettamente e indissolubilmente commoda e incommoda della modificazione sul territorio (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.02.2014 n. 616 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ANNO 2013

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: A. Di Mario, Standard urbanistici e distanze tra costruzioni tra Stato e Regioni dopo il ‘‘decreto del fare’’ (per gentile concessione dell'autore - Urbanistica e appalti n. 11/2013).

EDILIZIA PRIVATA: Nelle controversie in tema di monetizzazione viene in rilievo una posizione qualificabile come interesse legittimo, come tale soggetta alle regole processuali che accedono a tale condizione e che richiedono di proporre ricorso con il rito impugnatorio, nei termini decadenziali decorrenti dalla piena conoscenza degli atti ritenuti lesivi.
Invero, la monetizzazione non vive in alcun modo della natura e delle finalità proprie del contributo concessorio costituito dagli oneri di urbanizzazione e dal costo di costruzione che accompagna naturaliter l’autorizzazione a costruire, la cui debenza o meno, quanto al relativo accertamento, può essere fatta valere, in linea generale, nei termini prescrizionali.
Ed ancora, “mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l’area interessata all’imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard afferisce al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria all’interno della specifica zona di intervento; e ciò vale ad evidenziare la diversità ontologica della monetizzazione rispetto al contributo di concessione, di talché, sotto il versante processuale, non si può utilizzare lo strumento dell’azione di accertamento ammesso per contestare la legittimità del contributo ex art. 3 o comunque la insussistenza di tale obbligazione pecuniaria ancorché già assolta”.

Il Collegio condivide l’orientamento giurisprudenziale secondo cui nelle controversie in tema di monetizzazione viene in rilievo una posizione qualificabile come interesse legittimo, come tale soggetta alle regole processuali che accedono a tale condizione e che richiedono di proporre ricorso con il rito impugnatorio, nei termini decadenziali decorrenti dalla piena conoscenza degli atti ritenuti lesivi (cfr. Consiglio di Stato sez. IV, 16.02.2011, n. 1013; Tar Lombardia, Milano, sez. II, 14.02.2013, n. 451).
Come affermato anche di recente dal Consiglio di Stato, la monetizzazione non vive in alcun modo della natura e delle finalità proprie del contributo concessorio costituito dagli oneri di urbanizzazione e dal costo di costruzione che accompagna naturaliter l’autorizzazione a costruire, la cui debenza o meno, quanto al relativo accertamento, può essere fatta valere, in linea generale, nei termini prescrizionali.
Invero, “mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l’area interessata all’imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard afferisce al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria all’interno della specifica zona di intervento; e ciò vale ad evidenziare la diversità ontologica della monetizzazione rispetto al contributo di concessione, di talché, sotto il versante processuale, non si può utilizzare lo strumento dell’azione di accertamento ammesso per contestare la legittimità del contributo ex art. 3 o comunque la insussistenza di tale obbligazione pecuniaria ancorché già assolta” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 16/02/2011, n. 1013, sez. IV, 28.12.2012 n. 6706; questa conclusione si pone in linea con i precedenti di questo Tribunale che hanno affermato la natura autoritativa dell'atto che impone la monetizzazione e che, quindi, la posizione nei riguardi del medesimo ha natura di interesse legittimo: cfr. TAR Milano, Sez. II, 28.01.2004, n. 364; id., Sez. II, 31.05.1996, n. 768, poi confermata da C.d.S., Sez. V, 27.09.2004, n. 6281, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.04.2006, n. 1064) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.08.2013 n. 2056 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIl Collegio dà atto che l’orientamento prevalente in giurisprudenza propende per la natura conformativa dei vincoli di piano regolatore preordinati alla realizzazione di parcheggi pubblici, ma tale orientamento si fonda da una parte sulla inidoneità di tali vincoli a determinare l’ablazione automatica del suoli, d’altro canto sulla circostanza che normalmente il parcheggio pubblico non implica la proprietà pubblica degli stessi.
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Gli standards urbanistici tendono al soddisfacimento di bisogni collettivi delle persone che abitano nei dintorni, ed a seguito della entrata in vigore del D.P.R. 380/2001 alla realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo segue la automatica acquisizione in proprietà delle stesse, e del relativo sedime, in capo alla Amministrazione comunale, senza che a tal fine sia necessaria la stipula di un atto negoziale ad hoc.
Tale regime, introdotto dal D.P.R. 380/2001, conferma la naturale vocazione alla proprietà pubblica delle aree a standards, in relazione alle quali, pertanto, si deve presumere la compatibilità con la sola proprietà pubblica.
Anche il Consiglio di Stato ha affermato la natura espropriativa di un vincolo preordinato alla realizzazione di un parcheggio pubblico, e la conseguente sua perdita di efficacia per decorso del termine quinquennale dalla imposizione del vincolo stesso.

Il ricorso può essere deciso sulla base della semplice considerazione che il vincolo a parcheggio pubblico oggetto di gravame deve ritenersi orami decaduto in ragione della sua natura espropriativa e del decorso del termine quinquennale dalla sua imposizione.
Il Collegio dà atto che l’orientamento prevalente in giurisprudenza propende per la natura conformativa dei vincoli di piano regolatore preordinati alla realizzazione di parcheggi pubblici, ma tale orientamento si fonda da una parte sulla inidoneità di tali vincoli a determinare l’ablazione automatica del suoli, d’altro canto sulla circostanza che normalmente il parcheggio pubblico non implica la proprietà pubblica degli stessi.
Orbene, non v’è alcuna prova che nel caso di specie la realizzazione dei parcheggi pubblici risulti compatibile con la proprietà privata dei fondi interessati, che, pertanto, si ritiene, dovranno necessariamente essere espropriati dalla Amministrazione comunale al fine di poter realizzare i parcheggi.
Del resto, come ha condivisibilmente rilevato il TAR Puglia-Bari nella sentenza n. 2815/2010, gli standards urbanistici tendono comunque al soddisfacimento di bisogni collettivi delle persone che abitano nei dintorni, ed a seguito della entrata in vigore del D.P.R. 380/2001 alla realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo segue la automatica acquisizione in proprietà delle stesse, e del relativo sedime, in capo alla Amministrazione comunale, senza che a tal fine sia necessaria la stipula di un atto negoziale ad hoc. Tale regime, introdotto dal D.P.R. 380/2001, conferma la naturale vocazione alla proprietà pubblica delle aree a standards, in relazione alle quali, pertanto, si deve presumere la compatibilità con la sola proprietà pubblica.
Anche il Consiglio di Stato ha affermato, nella sentenza n. 91/2010, la natura espropriativa di un vincolo preordinato alla realizzazione di un parcheggio pubblico, e la conseguente sua perdita di efficacia per decorso del termine quinquennale dalla imposizione del vincolo stesso.
Nel caso di specie non risulta che, a tanti anni di distanza dalla approvazione del Piano Regolatore, il Comune di Caprezzo abbia proceduto all’esproprio delle aree ed alla realizzazione dei parcheggi.
Segue che la previsione di piano regolatore oggetto di gravame deve ritenersi oggi non più efficace (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 25.07.2013 n. 940 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Monetizzazione degli standard urbanistici.
La monetizzazione degli standard urbanistici non può essere considerata alla stregua di una vicenda di carattere unicamente patrimoniale e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente pubblico e il privato che realizzerà l’opera, e ciò perché, da un lato, così facendo si legittima la paradossale situazione di separare i commoda (sotto forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli incommoda (il peggioramento della qualità di vita degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela giuridica agli interessi concretamente lesi degli abitanti dell’area.

La Sezione si è già espressa in sede cautelare sull’ammissibilità delle doglianze in tema di procedura di monetizzazione degli standard, con una linea argomentativa cui non ritiene di fare torto. Nell’ordinanza cautelare n. 144 del 17.01.2012, la Sezione: “- considerato che può ritenersi sussistente la legittimazione delle parti appellanti a sindacare i meccanismi di determinazione degli standard urbanistici relativi all’intervento da realizzare, atteso che la loro monetizzazione, a fronte di un immediato vantaggio economico in favore del Comune, comporta la sottrazione di utilità ai residenti ed influisce quindi sulla fruibilità dell’area in questione;
- considerato che non appaiono evidenti le ragioni per cui il Comune, nella ponderazione tra gli opposti interessi tesi, da un lato, al mantenimento nell’area degli standard e, dall’altro, alla loro monetizzazione per poi successiva dislocazione in zona diversa, ha optato per la soluzione più lesiva delle parti appellanti;
” ha accolto l’istanza cautelare degli attuali appellanti.
Le linee portanti della citata argomentazione vanno ribadite, anche in questa sede, in tema di scrutinio pregiudiziale sull’ammissibilità di tali doglianze. Infatti, non ci si può esimere dall’osservare come i criteri per la determinazione dei soggetti parti del processo amministrativo si fondino su elementi di carattere sostanziale in funzione di una subita lesione di un interesse giuridico qualificato ad opera dell’azione amministrativa. In quest’ambito, le classificazioni degli interessi lesi, e le parallele categorie descrittive in uso nella giurisprudenza (quali quella della vicinitas, sicuramente preponderante in ambito edilizio e molto evocata dalla parti appellate), lungi dal rappresentare un elemento di chiusura dei fatti di legittimazione, ne rappresentano una utile esemplificazione che non esclude, ma anzi fonda, la possibile espansione della tutela processuale in favore di altri soggetti i quali, in concreto, riescano a giustificare l’esistenza di una loro posizione differenziata e lesa (ed in giurisprudenza, si trovano esempi di una considerazione complessa del concetto di vicinitas, inteso come giudizio in cui si tiene conto della natura e delle dimensioni dell'opera realizzata, della sua destinazione, delle sue implicazioni urbanistiche ed anche delle conseguenze prodotte dal nuovo insediamento sulla qualità della vita di coloro che per residenza, attività lavorativa e simili, sono in durevole rapporto con la zona in cui sorge la nuova opera, Consiglio di Stato, sez. IV, 29.11.2012 n. 6081; id., 31.05.2007, n. 2849).
Proprio sulla scorta di tale valutazione in concreto, la Sezione non ha condiviso l’assunto del TAR (che aveva visto il tema della monetizzazione come una vicenda patrimoniale tra Comune e titolare del permesso di costruire) e ha al contrario ritenuto che la modificazione peggiorativa della qualità urbana ben possa fondare un interesse diretto al sindacato sulle scelte urbanistiche del Comune, applicando i criteri, e non gli schemi preconcetti, valevoli in generale per ogni provvedimento amministrativo nel campo specifico in esame. A un esame più attento, la monetizzazione degli standard urbanistici non può essere considerata alla stregua di una vicenda di carattere unicamente patrimoniale e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente pubblico e il privato che realizzerà l’opera, e ciò perché, da un lato, così facendo si legittima la paradossale situazione di separare i commoda (sotto forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli incommoda (il peggioramento della qualità di vita degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela giuridica agli interessi concretamente lesi degli abitanti dell’area (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.02.2013 n. 644 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Gli spazi di parcheggio di cui all’art. 41-quinquies L. 1150/1942 costituiscono aree pubbliche da conteggiarsi ai fini della dotazione di standard, nel mentre i parcheggi di cui al successivo art. 41-sexies sono qualificati come aree private pertinenziali alle nuove costruzioni, con la conseguenza che l’art. 3, comma 2, lett. d), del D.M. 02.04.1968 n. 1444 espressamente li esclude dal computo nel calcolo della misura degli standards.
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Mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l’area interessata alla imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standards essenzialmente pertiene al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione all’interno della specifica zona di intervento.
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La monetizzazione degli standard si configura quale facoltà eminentemente discrezionale dell’Amministrazione Comunale e non già quale diritto del privato, il quale non può pertanto ritenersi esente dall’onere di individuare le aree da computare in quota standard.

Da ultimo, per quanto attiene agli spazi per parcheggi, va rilevato quanto segue.
Il D.M. 02.04.1968 n. 1444, adottato in attuazione dell’art. 41-quinquies, commi ottavo e nono, della L. 1150 del 1942 come introdotto dall’art. 17 della L. 06.08.1967 n. 765, disciplina i cosiddetti standards urbanistici ed edilizi.
Per quanto qui segnatamente interessa, l’art. 5 di tale D.M. individua i rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti produttivi e gli spazi pubblici destinati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi, prescrivendo che:
1) nei nuovi insediamenti di carattere industriale o ad essi assimilabili compresi nelle zone D) la superficie da destinare a spazi pubblici o destinata ad attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi (escluse le sedi viarie) non può essere inferiore al 10% dell’intera superficie destinata a tali insediamenti;
2) nei nuovi insediamenti di carattere commerciale e direzionale, a 100 mq. di superficie lorda di pavimento di edifici previsti, deve corrispondere la quantità minima di 80 mq. di spazio, escluse le sedi viarie, di cui almeno la metà destinata a parcheggi (in aggiunta a quelli di cui al predetto art. 18 della L. 765 del 1967); tale quantità, per le zone A) e B) è ridotta alla metà, purché siano previste adeguate attrezzature integrative.
Gli spazi di parcheggi testé riferiti sono quindi aggiuntivi e non sostitutivi di quelli imposti dall’art. 18 della L. 765 del 1967, la cui misura è stata quindi modificata per effetto dell’art. 2 della L. dalla L. 24.03.1898 n. 122 (cfr. ivi: “nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni 10 metri cubi di costruzione”).
Si rinviene comprova di ciò dal differente contenuto dell’art. 41-quinquies, ottavo comma, della L. 1150 del 1942 e dell’art. 41-sexies della legge medesima.
Gli spazi di parcheggio di cui all’art. 41-quinquies costituiscono infatti aree pubbliche da conteggiarsi ai fini della dotazione di standard, nel mentre i parcheggi di cui al successivo art. 41-sexies sono qualificati come aree private pertinenziali alle nuove costruzioni, con la conseguenza che l’art. 3, comma 2, lett. d), del D.M. 02.04.1968 n. 1444 espressamente li esclude dal computo nel calcolo della misura degli standards.
Ciò posto, l’allora vigente art. 22 della L.R. 15.04.1975 n. 51 disponeva nel senso che “la dotazione minima di standard funzionali ai nuovi insediamenti di carattere commerciale stabilita dall’art. 5 del D.M. n. 1444 in misura dell’ 80% della superficie lorda di pavimento è elevata al 100%. Di tali aree almeno la metà dovrà essere destinata a parcheggi di uso pubblico”.
La finalità complessivamente perseguita dalle disposizioni sin qui riferite risulta ben evidente, ed è stata dianzi già enunciata: poiché i centri commerciali richiamano un elevato numero di consumatori è necessario, onde evitare disfunzioni e pericoli alla circolazione stradale e turbative alle proprietà che potrebbero essere causate dall’ingente numero di veicoli, predisporre un congruo numero di spazi destinati al parcheggio.
L’Alco si è invero riferita nelle sue difese all’istituto della c.d. “monetizzazione degli standards”, il quale –come è ben noto- consiste nel versamento al comune di un importo alternativo alla cessione diretta delle stesse aree, ogni volta che tale cessione non venga disposta: in tal modo, pertanto, è consentito al lottizzante di corrispondere all’Amministrazione Comunale un corrispettivo in danaro per ogni metro quadrato non ceduto, con il conseguente obbligo del Comune medesimo di utilizzare quanto ottenuto dalla monetizzazione per la realizzazione di opere pubbliche da localizzarsi ove pianificato.
Va opportunamente rimarcato che mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l’area interessata alla imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standards essenzialmente pertiene al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione all’interno della specifica zona di intervento (cfr. al riguardo, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 16.02.2011 n. 1013).
Nella Regione Lombardia l’istituto della monetizzazione è attualmente normato dall’art. 46, comma 2, lettera a), ultimo periodo, della L.R. 11.03.2005 n. 12, in forza del quale “qualora l’acquisizione di tali aree non risulti possibile o non sia ritenuta opportuna dal comune in relazione alla loro estensione, conformazione o localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa totale o parziale della cessione, che all’atto della stipulazione i soggetti obbligati corrispondano al comune una somma commisurata all’utilità economica conseguita per effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al costo dell'acquisizione di altre aree”.
Non dissimilmente l’art. 12, lett. a), della L.R. 05.12.1977 n. 60, vigente all’epoca dei fatti di causa, disponeva che, qualora l’acquisizione delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria e per le attrezzature pubbliche e di uso pubblico “non venga ritenuta opportuna dal Comune in relazione alla loro estensione, conformazione o localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa totale o parziale della cessione, che all’atto della stipula i lottizzanti corrispondano al comune una somma commisurata all’utilità economica conseguita per effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al costo dell’acquisizione di altre aree”.
La legislazione regionale subordinava e subordina pertanto la monetizzazione degli standards a ben precisi presupposti, e ciò nella considerazione che la monetizzazione presupponeva -e presuppone- comunque un’offerta di aree, restando in facoltà del Comune la commutazione sulla base di un apprezzamento complesso, che investe sia l’idoneità o meno delle aree offerte in funzione dell’uso pubblico cui verrebbero destinate, sia la possibilità di acquisire aree alternative (con monetizzazione, quindi, a carico del lottizzante) al fine mantenere invariato il livello di dotazione di standards fissato dal piano regolatore e che non può comunque scendere al di sotto del minimo contemplato dalla legge ovvero dalla fonte autorizzata dalla legge.
Da tutto ciò discende quindi che la monetizzazione si configura quale facoltà eminentemente discrezionale dell’Amministrazione Comunale e non già quale diritto del privato, il quale non può pertanto ritenersi esente dall’onere di individuare le aree da computare in quota standard: e, se così è, deve ricavarsi la conseguenza che la Giunta Regionale, laddove ha affermato la sussistenza di una palese inopportunità della disposta monetizzazione, ha utilizzato il termine in senso improprio, avendo viceversa all’evidenza inteso censurare sotto il profilo della legittimità, segnatamente dell’eccesso di potere per illogicità, la mancanza dei presupposti nella per l’applicazione dell’istituto della monetizzazione, stante la mancata individuazione, da parte del Comune, di aree idonee ad integrare in altre parti del territorio comunale le superfici a standard rese necessarie dall’intervento de L’Alco
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.01.2013 n. 32 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ANNO 2012

EDILIZIA PRIVATA: Monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard.
Mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l’area interessata alla imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard afferisce al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria all’interno della specifica zona di intervento e ciò vale ad evidenziare la diversità ontologica della monetizzazione rispetto al contributo di concessione.

In proposito non può che richiamarsi il recente orientamento della Sezione, formatosi proprio su fattispecie concernente la monetizzazione prevista dal Comune di Putignano, che giunge a conclusioni opposte sulla basi di un’analisi articolata su due concorrenti profili:
a) natura e consistenza della prestazione pecuniaria richiesta;
b) genesi e scaturigine della c.d. monetizzazione.
Secondo detto orientamento, quanto punto a), se da un lato è pressoché irrilevante, ai fini in esame, la qualificazione della monetizzazione come imposizione di tipo tributario o come corrispettivo di diritto pubblico, dall’altro lato assume, invece, significativo rilievo la considerazione che la prestazione patrimoniale richiesta non vive in alcun modo della natura e delle finalità proprie del contributo concessorio costituito dagli oneri di urbanizzazione e dal costo di costruzione che accompagna naturaliter l’autorizzazione a costruire, la cui debenza o meno, quanto al relativo accertamento, può essere fatta valere, in linea generale, nei termini prescrizionali.
Invero, mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l’area interessata alla imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard afferisce al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria all’interno della specifica zona di intervento; e ciò vale ad evidenziare la diversità ontologica della monetizzazione rispetto al contributo di concessione, di talché, sotto il versante processuale, non si può utilizzare lo strumento dell’azione di accertamento ammesso per contestare la legittimità del contributo ex art. 3 o comunque la insussistenza di tale obbligazione pecuniaria ancorché già assolta (cfr. Sez. IV, 16/02/2011, n. 1013) (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.12.2012 n. 6707 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICAPer espressa previsione di legge (art. 187, comma 2, TUEL) l'avanzo di amministrazione può essere impiegato per finanziare la spesa corrente derivante dall'estinzione anticipata dei mutui, per la parte dell'avanzo non vincolata a finalità specifiche.
Il comune può, in termini di programmazione, reperire le risorse per l'estinzione anticipata del mutuo tra i proventi derivanti da standard qualitativi urbanistici.
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Il sindaco del Comune di Carate Brianza (MB) ha formulato alla Sezione una richiesta di parere concernente la possibilità di finanziare l’estinzione anticipata di un mutuo con la Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) ricorrendo, rispettivamente, ai proventi derivanti da uno standard qualitativo urbanistico per la parte capitale, all’avanzo di amministrazione accertato e disponibile per la parte concernente la penale per l’estinzione anticipata.
In subordine, ove non fosse possibile utilizzare a tal fine i proventi dello standard urbanistico, si chiede se sia possibile provvedervi per intero, per la quota capitale e per la penale, tramite il solo avanzo di amministrazione, comunque accertato e disponibile.
...
1. Appare opportuno analizzare, primariamente, la questione della destinabilità delle somme ricavate da proventi per standard qualitativi urbanistici per lo specifico scopo della estinzione di un mutuo.
In proposito, occorre ricordare che ai sensi dell’art. 162, anche per il bilancio degli enti locali, vigono i principi di unicità, universalità e integrità del bilancio (art. 162, comma 1, T.U.E.L.). Infatti:
   · tutte le entrate dell’ente locale vanno a costituire, a prescindere dalla loro origine, un’unica fonte, finalizzata alla copertura di tutte le spese pubbliche, con l’eccezione, appunto delle entrate a specifica destinazione ex art. 195 T.U.E.L e la gestione conto terzi, per cui sussiste una correlazione precisa tra entrata e spesa (unità);
   · non sono ammesse gestioni “fuori bilancio”, cioè fuori dall’ordinario controllo autorizzatorio esercitato col bilancio di previsione, se non nei casi espressamente autorizzati dalla legge (universalità del bilancio). A dimostrazione di ciò, sono tassative sia le ipotesi di riconoscimento di debiti fuori bilancio (art. 194 T.U.E.L.) che le gestioni conto terzi (art. 168 T.U.E.L.);
   · infine, ogni voce deve essere inserita al “lordo”, senza compensazioni tra voci in entrata e voci in uscita, anche quando, come nel caso di specie, per effetto di rimborsi o conguagli, la spesa non sia integralmente imputabile all’ente, ma solo parzialmente (integrità e principio di chiarezza del bilancio).
Questa preliminare considerazione porta a ritenere di per sé improprio ogni ragionamento sulla diretta correlazione tra una voce delle entrate e delle uscite, nel caso di specie tra singole fonte di finanziamento del bilancio (proventi da standard urbanistici, allocati al Titolo IV delle entrate) e una voce specifica delle uscite (spese per rimborso prestiti, Titolo III).
Il principio di unità riceve una specifica deroga, come si diceva, nel caso di entrate a specifica destinazione (art. 195 T.U.E.L.), peraltro, avendo riguardo alla gestione per cassa.
La specifica destinazione, tra l’altro, sulla base dei dati forniti dal comune, non caratterizzerebbe il provento dello standard urbanistico, la cui finalizzazione, se prevista, è il risultato di una determinazione amministrativa e non di una disposizione di legge.
Infatti, come evidenziato nella delibera Lombardia n. 282/2012/PRSE la destinazione rilevante ai fini dell’art. 195 non può essere generica, ma deve essere, come risulta dalla lettera della norma, “specifica” nonché derivante da apposite disposizioni di legge o regolamentari che consentono di derivarne, a fini contabili, una simile qualificazione.
La specifica destinazione, infatti, è la risultante di due elementi: a) la etero destinazione; b) il collegamento diretto tra fonte e spesa da effettuare.
Quanto al primo elemento, ci si riferisce alla circostanza che la destinazione deve avere fondamento in disposizioni normative di legge o regolamentari.
Quanto al secondo, il vincolo rilevante ai fini della gestione di cassa e dei limiti stabiliti dall’art. 195, deve essere tale da tradursi in un legame specifico tra la fonte di finanziamento e le specifiche opere o finalità, tant’è che la mancata realizzazione della spesa nei termini previsti può comportare, per l’ente locale, un dovere di restituzione.
Diverso discorso va fatto, invece, per le entrate in conto capitale in generale: esse sono piuttosto gravate da un vincolo di destinazione non specifico, ma generico, rilevante ai fini della sana gestione di competenza: l’esistenza di una simile destinazione generica si ricava, indirettamente, dall’art. 162, comma 6, T.U.E.L., secondo cui la spesa corrente deve essere finanziata con entrate ordinarie della medesima specie, salvo eccezioni di legge; la spesa in conto capitale, peraltro, può essere finanziata tanto con il surplus di entrate correnti (c.d. avanzo di bilancio, ai sensi dell’art. 199 T.U.E.L., lett. b), con l’avanzo di amministrazione nei caso in cui ciò sia funzionale all’estinzione anticipata di mutui (art. 199 T.U.E.L. lett. d), nonché, ovviamente, con entrate in conto capitale tassativamente elencate (art. 199 T.U.E.L., nelle lettere non precedentemente elencate). Si tratta, quindi, di un vincolo rilevante in termini di equilibri di bilancio.
Peraltro, quando il vicolo di destinazione assume il carattere della specificità, esso si espleta non più genericamente e al solo a livello di competenza, ma anche a livello di cassa (art. 195 T.U.E.L)..
1.1. Tanto premesso, appare chiaro che nulla osta a che l’amministrazione, nell’ambito delle operazioni in conto capitale, ritenga di individuare l’indiretta fonte del finanziamento dell’estinzione in un provento specifico, specie in sede di bilancio di previsione, fermo restando che in sede gestionale non ci sarà alcun vincolo diretto tra l’una fonte e l’altra spesa né in termini di competenza, né tanto meno di cassa, rilevando soltanto l’equilibrio complessivo della gestione corrente e, correlativamente, quella in conto capitale ai sensi del combinato disposto degli artt. 162 e 199 T.U.E.L..
In altre parole, l’equilibrio tra fonti di finanziamento e investimenti rileva in una duplice ottica: in quella della programmazione puntuale degli investimenti (che consente di individuare un collegamento singolare e indiretto tra entrata e spesa) nonché in quella della valutazione complessiva degli equilibri di bilancio (in sede preventiva e di rendiconto). In questi termini va letto l’art. 199 T.U.E.L. che, secondo una concezione di tipo aziendalistico, individua le fonti finanziamento secondo una precipua elencazione riconducibile alla dicotomica classificazione fonti interne (lettere a-e) e fonti esterne (lettere f-g).
Nel caso prospettato si tratta non tanto di finanziarie un investimento ex novo, quanto di re-internalizzarne la fonte, da esterna ad interna, attraverso l’estinzione anticipata di un mutuo, con la diminuzione degli oneri correnti del debito contratto, ovvero la spesa per interessi passivi.
2. I quesiti qui proposti, in definitiva, mirano ad ottenere delucidazioni circa le possibili forme di finanziamento di tale re-internalizzazione. Per comodità espositiva si ritiene di invertire l’ordine dei quesiti, scandagliando preliminarmente la possibilità di finanziare tale estinzione prima con il solo avanzo di amministrazione, poi con un provento specifico di Titolo IV (proventi da standard qualitativo urbanistico).
2.1. Per espressa previsione di legge (art. 187, comma 2, T.U.E.L.) l’avanzo di amministrazione può essere impiegato per finanziare la spesa corrente derivante dall’estinzione anticipata dei mutui. Tale possibilità era stata evidenziata in via giurisprudenziale da questa Sezione (delibere nn. 36 e 40/2007/PAR) già prima delle novelle di cui agli art. 11 del D.L. n. 159/2007, conv. L. n. 222/2007 e, di presso, dell’art. 2, comma 13, della L. n. 244/2007, che ha modificato in parte qua l’art. 187, comma 2, del T.U.E.L., prevedendo la prefata possibilità di utilizzazione.
La Sezione, inoltre, partendo dalla considerazione che la penale è un corrispettivo per il recesso anticipato dal mutuo, sul versante della spesa ha ritenuto di fare le seguenti valutazioni: poiché la penale può essere virtualmente considerata un’operazione di attualizzazione di una spesa corrente riflessa su esercizi futuri, ferma restando l’utilizzabilità dell’avanzo come unitaria fonte di finanziamento dell’estinzione (cfr. delibera 546/2010/PAR nonché 317/2011/PAR e infine 288/2012/PAR), si è ritenuto che la sede appropriata per l’allocazione della correlativa spesa fosse il Titolo I, mentre per la parte in conto capitale il Titolo III (Spese per rimborso di prestiti).
Peraltro, l’utilizzabilità unitaria dell’avanzo a fini di finanziamento dell’estinzione anticipata, per la stesse considerazioni preliminari, trova un limite in quella parte dell’avanzo che è vincolata a finalità specifiche. Infatti, il corrispettivo per la penale potrà essere finanziato solo con la parte non vincolata per la spesa in conto capitale o di altro genere.
2.2. Per quanto concerne invece la destinazione di proventi specifici del titolo IV all’estinzione di mutui (segnatamente i proventi derivanti da standard qualitativi urbanistici), richiamato il principio di unità del bilancio, non può che rammentarsi che (in termini di equilibri complessivi) la spesa in conto capitale deve tendenzialmente essere finanziata con entrate in conto capitale. Pertanto, ben può il Comune, in termini di programmazione, reperire le risorse per l’estinzione anticipata del mutuo tra quelle che rivengono dai prefati proventi urbanistici.
Il vincolo di gestione, per competenza, su tali risorse si tradurrà, a fine esercizio, in un vincolo sull’avanzo di amministrazione, il quale potrà essere utilizzato per l’estinzione negli esercizi successivi, nei termini sopra specificati, solo per la parte capitale del debito, potendo invece il Comune utilizzare per il pagamento della penale solo la parte libera dell’avanzo (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 15.11.2012 n. 487).

URBANISTICA: Per regola generale, l'Amministrazione ha la più ampia discrezionalità nell'individuare le scelte ritenute idonee per disciplinare l'uso del proprio territorio (e anche nel rivedere le proprie precedenti previsioni urbanistiche) e non deve fornire motivazione specifica delle singole scelte urbanistiche.
La giurisprudenza è, infatti, uniforme nel ritenere che la scelta di imprimere una particolare destinazione urbanistica ad una zona non necessiti di particolare motivazione, giacché le stesse trovano giustificazione nei criteri generali d’impostazione del piano.
Le osservazioni formulate dai proprietari interessati costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative, con la conseguenza che il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ragionevolmente ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano regolatore o della sua variante.
Tuttavia, la regola generale della non necessità di puntuale onere motivazionale delle nuove destinazioni urbanistiche conferite dallo strumento urbanistico subisce delle eccezioni in alcune situazioni specifiche in cui il principio della tutela dell'affidamento impone che lo strumento urbanistico dia conto del modo in cui sia stata effettuata la ponderazione degli interessi pubblici e siano state operate le scelte di pianificazione: ciò si verifica nei casi in cui la nuova destinazione urbanistica rispetto alla precedente va ad incidere su singole posizioni, connotate da una fondata aspettativa sulla destinazione dell'area, che per questo si differenziano dalle posizioni degli altri soggetti interessati; l'Amministrazione, in tali casi, ha il dovere di valutare con attenzione l'opportunità di modificare la precedente destinazione urbanistica di un'area e, se ritiene di dover diversamente disciplinare tale area e sacrificare comunque gli interessi dei soggetti coinvolti, deve indicare le ragioni logiche che hanno portato a tale nuova scelta pianificatoria. Si tratta di tutti i casi di affidamento qualificato del privato, riconducibili a convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, e alle aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di permesso di costruire o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione.
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Il sovradimensionamento degli standard non necessita di apposita, specifica motivazione ove lo scostamento dai minimi legali risulti contenuto, mentre il notevole superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968 deve essere congruamente motivato, con la precisazione che la motivazione va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree.

Osserva il Collegio che, per regola generale, l'Amministrazione ha la più ampia discrezionalità nell'individuare le scelte ritenute idonee per disciplinare l'uso del proprio territorio (e anche nel rivedere le proprie precedenti previsioni urbanistiche) e non deve fornire motivazione specifica delle singole scelte urbanistiche.
La giurisprudenza è, infatti, uniforme nel ritenere che la scelta di imprimere una particolare destinazione urbanistica ad una zona non necessiti di particolare motivazione, giacché le stesse trovano giustificazione nei criteri generali d’impostazione del piano (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 07.04.2010, n. 1986; TAR Sicilia Catania, sez. I, 15.04.2010, n. 1089; Tar Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 23.11.2010, n. 8074).
Inoltre, sempre in tema di obbligo motivazionale, va posto in rilievo che le osservazioni formulate dai proprietari interessati costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari aspettative, con la conseguenza che il loro rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente che siano state esaminate e ragionevolmente ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano regolatore o della sua variante (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 19.03.2009, n. 1652).
Tuttavia, la regola generale della non necessità di puntuale onere motivazionale delle nuove destinazioni urbanistiche conferite dallo strumento urbanistico subisce delle eccezioni in alcune situazioni specifiche in cui il principio della tutela dell'affidamento impone che lo strumento urbanistico dia conto del modo in cui sia stata effettuata la ponderazione degli interessi pubblici e siano state operate le scelte di pianificazione: ciò si verifica nei casi in cui la nuova destinazione urbanistica rispetto alla precedente va ad incidere su singole posizioni, connotate da una fondata aspettativa sulla destinazione dell'area, che per questo si differenziano dalle posizioni degli altri soggetti interessati; l'Amministrazione, in tali casi, ha il dovere di valutare con attenzione l'opportunità di modificare la precedente destinazione urbanistica di un'area e, se ritiene di dover diversamente disciplinare tale area e sacrificare comunque gli interessi dei soggetti coinvolti, deve indicare le ragioni logiche che hanno portato a tale nuova scelta pianificatoria. Si tratta di tutti i casi di affidamento qualificato del privato, riconducibili a convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, e alle aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di permesso di costruire o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione.
È altresì pacifico in giurisprudenza che il sovradimensionamento degli standard non necessiti di apposita, specifica motivazione ove lo scostamento dai minimi legali risulti contenuto, mentre il notevole superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968 deve essere congruamente motivato, con la precisazione che la motivazione va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 12.09.2012 n. 2142 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIl Comune rimane libero di dare una diversa destinazione urbanistica alle aree acquisite in sede di convenzioni urbanistiche al fine della realizzazione di opere di urbanizzazione.
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I terreni destinati a verde pubblico dal piano regolatore acquistano la condizione di beni del patrimonio indisponibile dell'ente pubblico (e, quindi, di beni strumentali al perseguimento dei fini istituzionali dell’ente stesso) solo dal momento in cui, essendo stati acquistati da questo in proprietà, sono trasformati ed in concreto utilizzati secondo la propria destinazione, non essendo all'uopo sufficiente né il piano regolatore generale, che ha solo funzione programmatoria e l'effetto di attribuire alla zona, o anche ai terreni in esso eventualmente indicati, una vocazione da realizzare attraverso gli strumenti urbanistici di secondo livello o ad essi equiparati, e la successiva attività di esecuzione di questi strumenti, né il provvedimento di approvazione del piano di lottizzazione, che individua solo il terreno specificamente interessato dal progetto di destinazione pubblica, né la convenzione di lottizzazione, che si inserisce nella fase organizzativa del processo di realizzazione del programma urbanistico e non nella fase della sua materiale esecuzione.

Va comunque incidentalmente osservato che:
- la giurisprudenza ha avuto più volte occasione di affermare che il Comune rimane libero di dare una diversa destinazione urbanistica alle aree acquisite in sede di convenzioni urbanistiche al fine della realizzazione di opere di urbanizzazione (cfr. Cassazione civile, sez. II, 14.08.2007, n. 17698; Cassazione civile, sez. II, 28.08.2000, n. 11208; Cassazione civile, sez. II, 09.03.1990 n. 1917; Cassazione civile, sez. II, 25.07.1980 n. 4833; TAR Abruzzo L'Aquila, 16.07.2004, n. 835);
- i terreni destinati a verde pubblico dal piano regolatore acquistano la condizione di beni del patrimonio indisponibile dell'ente pubblico (e, quindi, di beni strumentali al perseguimento dei fini istituzionali dell’ente stesso) solo dal momento in cui, essendo stati acquistati da questo in proprietà, sono trasformati ed in concreto utilizzati secondo la propria destinazione, non essendo all'uopo sufficiente né il piano regolatore generale, che ha solo funzione programmatoria e l'effetto di attribuire alla zona, o anche ai terreni in esso eventualmente indicati, una vocazione da realizzare attraverso gli strumenti urbanistici di secondo livello o ad essi equiparati, e la successiva attività di esecuzione di questi strumenti, né il provvedimento di approvazione del piano di lottizzazione, che individua solo il terreno specificamente interessato dal progetto di destinazione pubblica, né la convenzione di lottizzazione, che si inserisce nella fase organizzativa del processo di realizzazione del programma urbanistico e non nella fase della sua materiale esecuzione (cfr. Cassazione civile, sez. II, 09.09.1997, n. 8743)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 03.08.2012 n. 1417 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa procedura di messa in vendita (diretta) di aree a standard, acquisite gratuitamente dall'attuazione di un piano attuativo, escludendo uno o più proprietari dei lotti facenti parte il piano medesimo è illegittima poiché la mancata partecipazione di un soggetto che avrebbe avuto titolo ad essere notiziato dell’offerta di vendita determina il travolgimento, a cascata, degli atti successivi della procedura suddetta sino all’aggiudicazione.
Il ricorrente afferma che la vendita sarebbe stata riservata agli ex lottizzanti e comprova di rivestire tale qualifica mediante produzione (cfr. doc. n. 4 del ric.) di copia della convenzione di lottizzazione “PL Giardino” in data 12.01.1984 n. 16340-10262 di rep. Notaio Aldo Franco Rossi, ove –alla pag. 3– è indicato come uno dei lottizzanti: Crippa Eugenio nato a ... il ....
Va precisato che –come si evince dal provvedimento n. 134 del 29.11.2010- destinatari della lettera d’invita erano i (“proprietari di immobili in via Moroni ex p.l. Giardino”).
In ogni caso il Crippa ha affermato di rivestire anche tale (parzialmente differente) qualifica producendo (cfr. il doc. 9/9-bis) il rogito notaio Giuseppe Mangili atto di acquisto in data 09.01.1995 di appezzamento di terreno ricompreso nel PL giardino di cui all’atto Notaio Aldo Franco Rossi e (doc. n. 8) l’atto di permuta di strisce di terreno nell’ambito del P.L. in questione.
In assenza di contestazioni al riguardo da parte dell’Amministrazione deve dunque ritenersi comprovato il possesso della qualifica di proprietario di immobili in via Moroni ex P.L. Giardino, sicché il predetto aveva titolo ad essere destinatario dell’invito.
La mancata partecipazione di un soggetto che avrebbe avuto titolo ad essere notiziato dell’offerta di vendita determina il travolgimento, a cascata, degli atti successivi della procedura suddetta sino all’aggiudicazione di cui alla determinazione n. 4 del 2011 (terzo atto qui impugnato)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 03.08.2012 n. 1417 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La monetizzazione delle aree standard (la quale trova ordinariamente la sua fonte legittimante nella convenzione urbanistica che disciplina il piano attuativo) è un istituto contemplato dall’ordinamento e applicato nella prassi amministrativa di tutti i Comuni italiani, anche se derogatorio rispetto al principio affermato dall’art. 12 del D.P.R. 380/2001.
Inoltre, la facoltà di richiedere o accettare il controvalore delle opere di urbanizzazione rientra nella sfera di discrezionalità tecnico-amministrativa dell’Ente, come tale non censurabile se non per gravi vizi di irrazionalità.
E’ dunque evidente che la monetizzazione –rispetto alla cessione delle aree– integra un’eccezione alla regola generale (si veda sul punto anche l’art. 12 della L.r. 60/1977 per tempo vigente), e come tale deve poggiare su una solida ragione giustificatrice nell’ambito del procedimento urbanistico, mentre viceversa la cessione non deve essere supportata da una peculiare motivazione configurando l’ipotesi ordinaria prevista dal legislatore.
Quanto alla dedotta disparità di trattamento, si ribadisce che le scelte urbanistiche sono connotate da ampia discrezionalità, e sono censurabili soltanto ove affiorino illogicità abnormi.

La giurisprudenza ha affermato in generale che la monetizzazione delle aree standard (la quale trova ordinariamente la sua fonte legittimante nella convenzione urbanistica che disciplina il piano attuativo) è un istituto contemplato dall’ordinamento e applicato nella prassi amministrativa di tutti i Comuni italiani, anche se derogatorio rispetto al principio affermato dall’art. 12 del D.P.R. 380/2001 (TAR Marche – 23/06/2011 n. 500). Inoltre è stato sottolineato che la facoltà di richiedere o accettare il controvalore delle opere di urbanizzazione rientra nella sfera di discrezionalità tecnico-amministrativa dell’Ente, come tale non censurabile se non per gravi vizi di irrazionalità (Consiglio di Stato, sez. IV – 07/02/2011 n. 824).
E’ dunque evidente che la monetizzazione –rispetto alla cessione delle aree– integra un’eccezione alla regola generale (si veda sul punto anche l’art. 12 della L.r. 60/1977 per tempo vigente), e come tale deve poggiare su una solida ragione giustificatrice nell’ambito del procedimento urbanistico, mentre viceversa la cessione non deve essere supportata da una peculiare motivazione configurando l’ipotesi ordinaria prevista dal legislatore. Quanto alla dedotta disparità di trattamento, si ribadisce che le scelte urbanistiche sono connotate da ampia discrezionalità, e sono censurabili soltanto ove affiorino illogicità abnormi (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 19.06.2012 n. 1089 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: I provvedimenti con i quali i comuni ripartiscono in zone il territorio in sede di pianificazione urbanistica hanno natura ampiamente discrezionale e possono pertanto incidere anche su precedenti difformi destinazioni delle zone stesse, sempre che la nuova suddivisione non sia affetta da errori di fatto o da gravi vizi di illogicità, irrazionalità o contraddittorietà.
In occasione della formazione degli strumenti giuridici generali, inoltre, le scelte discrezionali delle amministrazioni locali riguardo alla destinazione di singole aree necessitano di apposite motivazioni -oltre quelle che si possono evincere dai criteri generali- seguiti nella impostazione del piano -solo quando incidono in posizioni giuridiche consolidate- come la presenza di precedente lottizzazione o di atti amministrativi che abbiano riconosciuto la peculiarità di determinate situazioni.
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Non possono ricevere un indice edificatorio, neppure virtuale, aree che non sono assoggettabili a trasformazione urbanistica per natura o per regime giuridico.
La destinazione dei terreni dev’essere decisa con riferimento principale alle caratteristiche intrinseche del bene in questione, le quali decidono della natura conformativa od espropriativa della destinazione di zona, e, nel caso di vincoli espropriativi, della quantificazione del relativo indennizzo.
Sul punto la dottrina e la giurisprudenza affermano che un’area, per divenire edificabile deve avere una “vocazione edificatoria”, nel senso che, per le sue oggettive caratteristiche intrinseche, deve apparire economicamente suscettibile di immediata trasformazione.
Tale concetto dev’essere convertito in quello più ampio di idoneità alla trasformazione urbanistica laddove, come nel caso in questione, la volumetria debba atterrare su altre aree.
La possibilità di assegnare un indice virtuale solo ad aree che partecipano della trasformazione urbanistica trova la sua ragione nel fatto che sarebbe del tutto illogico assegnare una rendita urbana, qual è quella dei fondi che producono tale volumetria (c.d. fondi sorgente), ad aree che non possono, per caratteri propri, partecipare al mercato edilizio.
In caso contrario, inoltre, si trasformerebbe il piano regolatore in un atto di discrezionalità pura in contrasto con quanto da sempre affermato dalla giurisprudenza amministrativa e costituzionale la quale ha da tempo chiarito in merito alla discrezionalità di chi effettua le scelte di piano, che «non si tratta di discrezionalità indiscriminata ed incontrollabile bensì di discrezionalità tecnica. La quale ... essendo condizionata da elementi di valutazione di carattere tecnico, importa che l'attività normativa devoluta dall'amministrazione (nella specie ai Comuni) si deve svolgere entro determinati confini di carattere obiettivo, e che, per ciò stesso, rimane, sotto questo aspetto, delimitata nella libertà di apprezzamento».
A ciò si aggiunge che anche la finalità perequativa può realizzarsi solo nel caso in cui l’attribuzione di un diritto edificatorio indipendentemente dalla destinazione d’uso sia effettuata nel rispetto della naturale vocazione edificatoria dell’area. Solo nel caso in cui sia i fondi da cui sorge l’edificabilità che quelli sui quali tale edificabilità deve atterrare siano idonei alla trasformazione urbanistica per natura e per destinazione urbanistica (anche se in misura diversa), infatti, si elimina od almeno si riduce l’effetto discriminatorio del piano, realizzando un eguale trattamento di situazioni di fatto uguali od analoghe.
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La determinazione degli indici di zona, che è carattere precipuo della zonizzazione è frutto di ampia discrezionalità.
Anche in un sistema perequativo l'indice edificatorio è collegato ad una scelta discrezionale dell'amministrazione in merito alla collocazione della volumetria realizzabile ed il suo valore è connesso anche all'area sulla quale tale volumetria deve ricadere.
Solo coloro che possono vantare una posizione consolidata attribuitagli dall’amministrazione con un atto definitivo ed efficace come la stipula di una convenzione di lottizzazione o dal giudice con una sentenza favorevole secondo l’opinione giurisprudenziale hanno una situazione di affidamento tutelato nel mantenimento della situazione.
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Gli standard urbanistici di zona debbono essere proporzionati e, di conseguenza, quelli superiori a quelli minimi di legge debbono essere motivati.
Tuttavia tale regola non può essere invocata nel caso in cui sia previsto un indice unico di edificabilità, in quanto l’effetto che esso produce è l’indifferenza del regime dei fondi alla destinazione d’uso dei medesimi. Ogni fondo è infatti parificato agli altri nel regime giuridico di edificabilità, con la conseguenza che diventa indifferente che esso sia destinato ad uso pubblico o privato.
Resta invece in vigore il limite funzionale, cioè la necessità che le aree dei fondi sorgente, della cui edificabilità il proprietario del fondo di atterraggio si deve fare carico, siano destinate a soddisfare “gli insediamenti residenziali, produttivi, direzionali e commerciali”, come dice la legge, da realizzare nell’area di piano.

I provvedimenti con i quali i comuni ripartiscono in zone il territorio in sede di pianificazione urbanistica hanno natura ampiamente discrezionale e possono pertanto incidere anche su precedenti difformi destinazioni delle zone stesse, sempre che la nuova suddivisione non sia affetta da errori di fatto o da gravi vizi di illogicità, irrazionalità o contraddittorietà.
In occasione della formazione degli strumenti giuridici generali, inoltre, le scelte discrezionali delle amministrazioni locali riguardo alla destinazione di singole aree necessitano di apposite motivazioni -oltre quelle che si possono evincere dai criteri generali- seguiti nella impostazione del piano -solo quando incidono in posizioni giuridiche consolidate- come la presenza di precedente lottizzazione o di atti amministrativi che abbiano riconosciuto la peculiarità di determinate situazioni (Consiglio Stato, sez. IV, 12.12.1990, n. 1002).
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Non possono ricevere un indice edificatorio, neppure virtuale, aree che non sono assoggettabili a trasformazione urbanistica per natura o per regime giuridico.
La giurisprudenza della Corte costituzionale in primis e poi del giudice amministrativo sono chiare, infatti, nel riconoscere che la destinazione dei terreni dev’essere decisa con riferimento principale alle caratteristiche intrinseche del bene in questione, le quali decidono della natura conformativa od espropriativa della destinazione di zona (da ultimo Consiglio Stato, sez. IV, 22.06.2011, n. 3797), e, nel caso di vincoli espropriativi, della quantificazione del relativo indennizzo (Corte costituzionale sentenza n. 5 del 1980; idem 30.07.1984 n. 231; da ultimo Corte costituzionale, 10.06.2011, n. 181).
Sul punto la dottrina e la giurisprudenza affermano che un’area, per divenire edificabile deve avere una “vocazione edificatoria”, nel senso che, per le sue oggettive caratteristiche intrinseche, deve apparire economicamente suscettibile di immediata trasformazione.
Tale concetto dev’essere convertito in quello più ampio di idoneità alla trasformazione urbanistica laddove, come nel caso in questione, la volumetria debba atterrare su altre aree.
La possibilità di assegnare un indice virtuale solo ad aree che partecipano della trasformazione urbanistica trova la sua ragione nel fatto che sarebbe del tutto illogico assegnare una rendita urbana, qual è quella dei fondi che producono tale volumetria (c.d. fondi sorgente), ad aree che non possono, per caratteri propri, partecipare al mercato edilizio.
In caso contrario, inoltre, si trasformerebbe il piano regolatore in un atto di discrezionalità pura in contrasto con quanto da sempre affermato dalla giurisprudenza amministrativa e costituzionale (Corte cost. 14.05.1966, n. 38) la quale ha da tempo chiarito in merito alla discrezionalità di chi effettua le scelte di piano, che «non si tratta di discrezionalità indiscriminata ed incontrollabile bensì di discrezionalità tecnica. La quale ... essendo condizionata da elementi di valutazione di carattere tecnico, importa che l'attività normativa devoluta dall'amministrazione (nella specie ai Comuni) si deve svolgere entro determinati confini di carattere obiettivo, e che, per ciò stesso, rimane, sotto questo aspetto, delimitata nella libertà di apprezzamento».
A ciò si aggiunge che anche la finalità perequativa può realizzarsi solo nel caso in cui l’attribuzione di un diritto edificatorio indipendentemente dalla destinazione d’uso sia effettuata nel rispetto della naturale vocazione edificatoria dell’area. Solo nel caso in cui sia i fondi da cui sorge l’edificabilità che quelli sui quali tale edificabilità deve atterrare siano idonei alla trasformazione urbanistica per natura e per destinazione urbanistica (anche se in misura diversa), infatti, si elimina od almeno si riduce l’effetto discriminatorio del piano, realizzando un eguale trattamento di situazioni di fatto uguali od analoghe.
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Sempre con riferimento all’indice edificatorio il ricorrente lamenta che il suo ius aedificandi sia stato sostanzialmente svuotato a causa dal basso indice attribuito ai suoi terreni per l’edificazione autonoma, ben più basso di quello precedente.
In merito la difesa comunale ha replicato che in realtà l’edificabilità dell’area di proprietà del ricorrente con l’acquisizione della volumetria dell’area standard è addirittura superiore a quella attribuita dal precedente piano.
Il profilo di ricorso non è fondato in quanto la giurisprudenza da sempre afferma che la determinazione degli indici di zona, che è carattere precipuo della zonizzazione è frutto di ampia discrezionalità (ex plurimis TAR Veneto sez. I, 02/09/2008 n. 2645).
Anche in un sistema perequativo l'indice edificatorio è collegato ad una scelta discrezionale dell'amministrazione in merito alla collocazione della volumetria realizzabile ed il suo valore è connesso anche all'area sulla quale tale volumetria deve ricadere (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 17.09.2009 n. 4671).
Solo coloro che possono vantare una posizione consolidata attribuitagli dall’amministrazione con un atto definitivo ed efficace come la stipula di una convenzione di lottizzazione o dal giudice con una sentenza favorevole secondo l’opinione giurisprudenziale hanno una situazione di affidamento tutelato nel mantenimento della situazione pregressa (Cons. Stato, sez. IV, 13.07.1993, n. 711; Cons. Stato, sez. IV, 19.01.1988, n. 9; Cons. Stato Ad. Plen., 24.05.2007, n. 7).
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L’art. 22 della L.R. 15/04/1975 n. 51 prevede che negli strumenti urbanistici generali e nei piani attuativi deve essere assicurata una dotazione globale di aree per attrezzature pubbliche e di uso pubblico, commisurata all’entità degli insediamenti residenziali, produttivi, direzionali e commerciali, sulla base dei parametri e dei criteri stabiliti nel presente articolo.
La norma in sostanza stabilisce la regola che gli standard debbono essere commisurati agli insediamenti previsti, sia dal punto di vista quantitativo che funzionale.
Per quanto riguarda l’aspetto quantitativo occorre rilevare che la giurisprudenza (ex plurimis Tar Lombardia, Milano, sez. II, 21.03.2006 n. 634) da tempo afferma che gli standard urbanistici di zona debbono essere proporzionati e, di conseguenza, quelli superiori a quelli minimi di legge debbono essere motivati.
Tuttavia tale regola non può essere invocata nel caso in cui sia previsto un indice unico di edificabilità, in quanto l’effetto che esso produce è l’indifferenza del regime dei fondi alla destinazione d’uso dei medesimi. Ogni fondo è infatti parificato agli altri nel regime giuridico di edificabilità, con la conseguenza che diventa indifferente che esso sia destinato ad uso pubblico o privato.
Resta invece in vigore il limite funzionale, cioè la necessità che le aree dei fondi sorgente, della cui edificabilità il proprietario del fondo di atterraggio si deve fare carico, siano destinate a soddisfare “gli insediamenti residenziali, produttivi, direzionali e commerciali”, come dice la legge, da realizzare nell’area di piano
(TAR Lombardia-Milano, Sez, IV, sentenza 16.04.2012 n. 1123 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Sulla mancata rivalutazione annuale, in base ai coefficienti Istat, delle tariffe stabilite per la cd. “monetizzazione” delle aree destinate a standard urbanistici.
Quanto all'elemento soggettivo della “gravità” della colpa, esso è senz'altro ravvisabile in capo all'arch. N., nella sua qualità di Responsabile del Servizio Programmazione Territoriale Urbanistica – Ambiente, la quale ha seguito i procedimenti in questione, in ogni loro fase.
Si tratta, infatti, comunque si voglia ricostruire la vicenda in punto di diritto, della commissione di un errore grossolano, non scusabile, essendo stati in definitiva monetizzati degli standard urbanistici, senza alcuna spiegazione valida, sulla base di valori nominali di mercato risalenti al 1992, di cui era peraltro espressamente prevista la rivalutazione annuale.

Delle due l'una: o la delibera n. 45 del 1992 era applicabile, per cui la rivalutazione non poteva essere omessa neppure da un impiegato di minima diligenza o la delibera n. 45 del 1992 non era applicabile, per cui l'individuazione del valore di mercato per le aree da monetizzare avrebbe dovuto avvenire con motivati e trasparenti criteri oggettivi di stima, secondo ragionevolezza, non potendosi certamente far riferimento arbitrario a valori storici del 1992.
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Le stesse considerazioni valgono per l'Assessore T. il quale, pur sostenendo (o avendo il dubbio, o dovendo avere il dubbio, per tutti i motivi da lui stesso esposti nelle proprie difese) che la delibera n. 45 del 1992 non fosse applicabile ai PEC in giudizio, non si domandò mai il perché essa fosse espressamente richiamata in pressoché tutte le bozze di convenzioni sottoposte all'approvazione del Consiglio comunale, né si pose mai il problema di quale criterio si dovesse utilizzare per monetizzare aree diverse da quelle prese in considerazione dalla delibera in parola (cioè diverse dalla A1, A2 e B1).
Si noti che, per quanto l'operazione di rivalutazione degli importi fissati nel 1992 fosse relativamente semplice (di qui la gravità della colpa per averla del tutto trascurata), la problematica generale della “monetizzazione” delle aree destinate a standard urbanistico non poteva certo rappresentare un aspetto marginale della materia urbanistica per il Comune.
La deroga agli standard urbanistici dovrebbe costituire, invero, ipotesi a carattere eccezionale e residuale, da affrontare con la dovuta cautela ed attenzione; la relativa monetizzazione, comportando al contempo un interesse non solo urbanistico, ma anche finanziario per l'ente, costituisce un aspetto assai delicato del quale un assessore all'urbanistica, almeno negli aspetti generali, non può disinteressarsi, schermandosi dietro la responsabilità esclusiva del livello tecnico-dirigenziale.

Non è infatti pensabile né accettabile che in un Comune come Arquata Scrivia l'Assessore competente, pur constandogli conclamate lacune normative (con i connessi profili di incertezza) su un argomento di portata generale e di particolare interesse pubblico, qual è quello della monetizzazione, trascuri di affrontare il problema e di assumere ogni iniziativa a garanzia del buon andamento dell'ente amministrato.
Ciò vale, a maggior ragione, ove si consideri la contestuale qualità di presidente o membro della Commissione Edilizia comunale rivestita dall'Assessore medesimo.
Non giova all'assessore, nel caso di specie, l’esimente “politica” di cui all’art. 1, co. 1-ter, della legge 14.01.1994, n. 20 (ai sensi del quale “nel caso di atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi la responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l'esecuzione”), non tanto perché, essendo qui in contestazione l'omesso adeguamento delle tariffe di monetizzazione alla svalutazione monetaria (o l'omessa predisposizione di tariffe), non v'è a monte un “atto” cui l'organo politico si sia adeguato, quanto perché il compito di dare compiuta disciplina alla materia non può considerarsi competenza esclusiva degli uffici tecnici o amministrativi. Infine, cade opportuno ricordare che la buona fede dell'interessato per essere esimente deve essere ovviamente incolpevole, cioè non deve derivare da un difetto d'esame delle questioni sottopostegli.
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Né è persuasiva la lettura delle norme del t.u.e.l. proposta dal convenuto, ove si tenga anche a mente che:
- ai sensi dell'art. 48 la giunta collabora nel governo dell'ente con il sindaco, il quale è responsabile della relativa amministrazione (art. 50);
- ai sensi dell'art. art 77 gli assessori rientrano nella nozione di “amministratore locale” e ai sensi dell'art. 78, comma 3, i componenti la giunta comunale competenti in materia di urbanistica, di edilizia e di lavori pubblici devono astenersi dall’esercitare attività professionale in materia di edilizia privata e pubblica nel territorio da essi amministrato (a dimostrazione non solo della intrinseca delicatezza delle materia in questione, da sempre oggetto di grande attenzione da parte della collettività in quanto crocevia di rilevanti interessi economici e ambientali, privati e pubblici, ma anche del ruolo centrale che gli assessori rivestono nelle suddette materie, dalle quali non possono affatto ritenersi estranei);
- ai sensi dell'art. 107, agli amministratori dell'ente competono i poteri di indirizzo e controllo politico amministrativo, mentre ai dirigenti compete la relativa attuazione, compresa l'adozione dei “i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie” (nella specie, la materia della monetizzazione degli standard, almeno per le aree diverse dalle A1, A2 e B1 e per interventi non commerciali, è rimasta priva di atti generali di indirizzo, malgrado tutte le problematiche normative e applicative ben descritte in atti dallo stesso assessore T.);
- ai sensi dell'art. 93 la responsabilità patrimoniale dinanzi alla Corte dei conti può essere fatta valere tanto nei confronti degli amministratori, quanto del personale degli enti locali, secondo la disciplina prevista per gli impiegati civili dello Stato.

Infine,
non giova ai convenuti neppure il principio dell'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali, a fronte di fattispecie manifestamente irragionevoli e pregiudizievoli per l'ente amministrato (per quanto fin qui esposto).
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Non è invece ravvisabile, in radice, l'elemento psicologico della colpa grave in capo al Sindaco M. dalla quale, nella sua qualità di organo di vertice dell'amministrazione comunale, non poteva pretendersi una minuziosa verifica dell'operato di tutti gli uffici comunali e di tutti i propri assessori, tanto più in un settore a connotazione tecnica cui erano preposti un assessore e un Responsabile di un Servizio.
Deve cioè considerarsi come errore “fisologico”, in linea di principio, ai fini della responsabilità amministrativo-contabile, quello commesso da un Sindaco che, in buona fede, abbia fatto affidamento sulla correttezza dell'operato degli Uffici comunali e dell'attività di indirizzo e controllo politico-amministrativo svolta su di essi del proprio assessore, competente per materia.

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1. La Procura Regionale ha citato in giudizio dinanzi a questa Corte i signori M., T. e N. (nella loro rispettiva qualità di Sindaco, di Assessore all'Urbanistica, di Responsabile del Servizio di Programmazione Territoriale Urbanistica ed Ambiente del Comune di Arquata Scrivia, all'epoca dei fatti in contestazione) contestandogli l'erronea applicazione delle tariffe stabilite per la c.d. “monetizzazione” delle aree destinate a standard urbanistici e chiedendone quindi la condanna al risarcimento in favore dell'ente locale della somma di euro 193.360,24, oltre spese ed accessori.
In particolare, nella citazione si riferisce che:
- con nota del 15.01.2009 l’Assessore all’Urbanistica del Comune di Omissis (AL) segnalava il danno procurato alle finanze dell’Ente dalla precedente amministrazione a causa della mancata rivalutazione annuale, in base ai coefficienti Istat, delle tariffe stabilite per la cd. “monetizzazione” delle aree destinate a standard urbanistici;
- il Comune di Omissis aveva, infatti, previsto nel proprio Piano Regolatore valori di dotazione minima di aree per standard conformi alla normativa regionale, disciplinando minuziosamente (artt. 14 e ss. del Titolo IV delle Norme Tecniche di Attuazione del P.R.G.C.) la possibilità per l’amministrazione di acconsentire alla monetizzazione;
- con deliberazione consiliare del 21.07.1992, n. 45, il Comune di Omissis aveva determinato il valore del corrispettivo in denaro da porre a carico del privato promotore del Piano Esecutivo Convenzionato (P.E.C.) in caso di monetizzazione delle aree destinate a parcheggio, quantificando le tariffe in lire 400.000 fino a 15 mq e in lire 40.000 per ogni mq eccedente i 15;
- al punto 2, lettera f), di quest'ultima deliberazione era stabilito l’obbligo di adeguamento annuale delle tariffe “sulla base della svalutazione risultante dai dati ISTAT”;
- l’amministrazione comunale, invece, non aveva mai provveduto all’adeguamento, fino alla determinazione del Responsabile del Servizio Urbanistica n. 04-URB del 31.03.2008;
- pertanto, per tutti i P.E.C. precedentemente approvati erano state applicate le tariffe fissate dalla citata deliberazione n. 45/1992 senza operare la rivalutazione;
- in particolare, con riferimento ai P.E.C. denominati “Omissis”, “Omissis”, “F.I.M.”, “Omissis”, variante “Omissis”, era stata applicata la tariffa di € 20,66 (equivalenti alle 40.000 lire fissate dalla predetta deliberazione);
- relativamente al P.E.C. approvato con deliberazione del Consiglio Comunale n. 37 del 30.09.2005, denominato “Centro intermodale integrato – Omissis” (area a destinazione produttiva), poi, era stata applicata una tariffa addirittura inferiore, pari a € 13,00 al mq.;
- peraltro, le tariffe di monetizzazione di cui alla deliberazione n. 45/1992 erano applicabili anche alle aree produttive, giusta le precisazioni fornite al CO.RE.CO. in data 06.08.1992, che costituiscono parte integrante della deliberazione medesima (… per la determinazione del corrispettivo relativo alla monetizzazione delle aree a parcheggio sono stati presi in considerazione i valori di mercato delle aree residenziali e produttive stabilendo, di conseguenza, un valore ritenuto congruo per dette aree...); inoltre, nello schema di convenzione del P.E.C. “Omissis” il soggetto attuatore si obbligava all’art. 5 “a monetizzare le aree di standard di cui non è prevista la cessione al Comune al prezzo stabilito dalle vigenti delibere in materia nel Comune di Omissis”, cioè con la citata delibera n. 45/1992;
- analoga questione si era posta inizialmente anche per la vendita di un terreno alla Società A. (fattispecie per la quale, peraltro, la Procura attrice non ha poi mosso contestazioni nell'atto di citazione, in adesione all'eccezione di prescrizione sollevata dai presunti responsabili nelle deduzioni difensive in fase pre-processuale);
- il mancato adeguamento delle tariffe ha causato al Comune un danno pari a € 193.360,24 (da suddividersi, salvo migliore valutazione della Sezione, in parti uguali tra i convenuti), oltre accessori e spese di giustizia;
- agli effetti degli artt. 1219 e 2943 c.c. il P.M. aveva costituito in mora i presunti responsabili con lettere raccomandate del 27.10.2010; all'interruzione della prescrizione aveva provveduto anche il Sindaco di Omissis con atti ricevuti il 29.10.2010 dalla signora M., il 30.10.2010 dalla signora N. e il 03.11.2010 dal signor T.;
- ai fini della prescrizione, il momento di decorrenza va individuato nella data di pagamento degli oneri di “monetizzazione” e non nella data di approvazione delle bozze di convenzione da parte del Consiglio Comunale;
- costituisce un’omissione gravemente colposa, da parte di coloro che avevano il dovere di eseguire la citata delibera C.C. n. 45/92, il mancato adeguamento alla svalutazione monetaria dei valori per la monetizzazione in discorso; infatti, nel comportamento omissivo la gravità della colpa discende dalla consapevolezza dell’omissione di un’attività doverosa e, nella specie, va tenuto in considerazione che la citata delibera n. 45/92 non era certo di difficile interpretazione o applicazione e che la sua esecuzione non presentava alcuna difficoltà, risolvendosi in un calcolo di semplicità elementare;
- il Sindaco, signora M., ai sensi dell’art. 50 del t.u.e.l., benché titolare degli atti di indirizzo politico e tenuta a rispettare l’autonomia dirigenziale, aveva comunque l’onere di un costante e diligente controllo sul buon andamento degli uffici comunali;
- l’Assessore con delega all’Urbanistica, signor T., il quale partecipava ratione materiae degli stessi poteri e delle responsabilità del Sindaco, non ha adottato gli opportuni provvedimenti per l’attuazione delle disposizioni riguardanti il suo specifico settore;
- il Responsabile del settore Urbanistica, signora N., che ha sottoscritto tutte le convenzioni, in quanto organo “tecnico”, non poteva ignorare l’obbligo dell’adeguamento periodico; a lei, in primis, competeva il dovere di operare la rivalutazione, ai sensi degli artt. 107 e ss. del t.u.e.l., non certo al Consiglio comunale o alle Commissioni consiliari (non essendovi nulla da deliberare, ma solo da applicare la rivalutazione, la quale è operazione automatica e prettamente tecnica);
- sotto altro profilo, non poteva configurarsi né la “tacita abrogazione” della delibera n. 45/1992, né una integrazione o modifica della stessa da parte delle convenzioni successivamente stipulate con i privati per i singoli P.E.C.;
- l'interpretazione difensiva che afferma l'applicabilità delle tariffe di monetizzazione fissate con la delibera n. 45/1992 alle sole aree residenziali a capacità insediativa esaurita e aree di insediamento storico, con riguardo agli interventi di tipo commerciale, quindi l'inapplicabilità alle aree interessate dai P.E.C. in contestazione, ad avviso del P.M. contrasta con il fatto incontestabile che la delibera, nelle convenzioni stesse, era stata espressamente richiamata ed applicata (ma senza rivalutazione);
- ai fini del requisito della “attualità” del danno in contestazione il Pubblico Ministero non condivide la tesi difensiva secondo cui l’Amministrazione sarebbe ancora in grado di adeguare i corrispettivi e di recuperare le somme dovute per rivalutazione, non essendo ancora maturata la prescrizione; ciò perché, ad avviso della Procura, il danno derivante dalla mancata acquisizione di entrate deve ritenersi attuale anche nelle ipotesi in cui sia possibile o addirittura in corso un’attività di recupero, per tacere del fatto che la prospettata possibilità di recupero dei maggiori oneri di monetizzazione da parte del Comune parrebbe alquanto dubbia.
...
V. Venendo al merito, la questione cruciale dell'intero giudizio si incentra sulla necessità o meno di applicare, ai fini della determinazione dell'importo con cui monetizzare gli standard delle aree a parcheggio, in contestazione, la tariffa stabilita con la citata deliberazione consiliare n. 45 del luglio 1992. Su questa problematica di fondo si innestano le ulteriori questioni relative alla possibilità di applicare comunque la tariffa in discorso ma senza rivalutazione annuale Istat, nonché alle modalità di computo dell'adeguamento stesso.
Al riguardo, le tesi difensive non appaiono fino in fondo convincenti.
In disparte le marginali contraddizioni che, comunque, traspaiono in diversi passaggi delle difese stesse (nella misura in cui parrebbero affermare che il PRGC all'epoca vigente non prevedesse, e quindi verosimilmente neppure consentisse, la monetizzazione degli standard per le aree su cui insistono i PEC in discussione, in quanto diverse dalle aree B1, A1 e A2 destinate a interventi di tipo commerciale, le sole per le quali sarebbe stata per l'appunto prevista la monetizzazione), resta il fatto che le convenzioni “Omissis” e “La Omissis”, qui in esame, hanno fatto espresso richiamo alla citata deliberazione n. 45 del 1992, senza alcuna riserva o distinguo, dunque nella sua interezza.
Nello specifico, al di là delle giustificazioni fornite ex post dai convenuti, non può ignorarsi che:
- per il PEC “Omissis”, l'art. 5 della convenzione, dopo aver previsto che il proponente si impegnava a monetizzare le aree a standard per mq. 547 stabiliva testualmente che “si richiama la delibera della Giunta Comunale n. 45 del 21.07.1992 al fine della quantificazione matematica degli stessi” e che “di conseguenza la monetizzazione delle aree a standard urbanistici è così quantificata (...): mq. 547 x € 20,66 = € 11.301,00”;
- per la variante “La Omissis”, l'art. 4 al par. 4 stabiliva testualmente che “il valore delle aree oggetto di monetizzazione è determinato in euro 41.200,00 pari a euro 20,66 al mq (come da delibera C.C. n. 45 del 21.07.1992)”.
Un caso a se stante è costituito dal PEC “Omissis”, il cui art. 5 prevedeva che “il soggetto attuatore, nei limiti quantitativi previsti dal PEC, si obbliga a monetizzare le aree di standard di cui non è prevista la cessione al Comune al prezzo stabilito dalle vigenti delibere in materia nel Comune di Omissis”: su questo aspetto si tornerà tra breve.
Il rinvio puro e semplice alla delibera n. 45 del 1992 (che era comunque l'unica esistente “in materia”), senza precisare che il richiamo doveva intendersi ad una sola parte della delibera stessa (cioè alla fissazione originaria del valore nominale di monetizzazione) e quindi senza esclusione della previsione applicativa che sanciva la necessità di rivalutare annualmente il valore originario, corrobora l'assunto della Procura, secondo cui la disquisizione sulla applicabilità o meno della delibera n. 45 del 1992 risulta superata, di fatto, dall'avvenuta applicazione della stessa (sebbene incompleta).
Ad ogni modo,
per scrupolo di motivazione, va osservato che ove si volesse ipotizzare, con le difese dei convenuti, che la delibera n. 45 del 1992 non fosse applicabile alle convenzioni in questione (perché riguardante aree ed interventi diversi da quelli previsti in convenzione), ancor meno comprensibile sarebbe il ragionamento per cui, nell'ambito asseritamente rientrante nelle proprie scelte discrezionali, l'ente locale avrebbe deciso di monetizzare gli standard in base al valore “storico” indicato nella suddetta delibera, ritenuta inapplicabile (valore calcolato prendendo in considerazione “i valori di mercato delle aree residenziali e produttive stabilendo, di conseguenza, un valore ritenuto congruo per dette aree (…) tenuto conto del costo di esecuzione delle opere che dovrebbero essere realizzate in aree già urbanizzate; v. nota 9471 del 1992, in risposta alla richiesta di chiarimenti del Co.Re.Co.) anziché in base al valore di mercato corrente tra il 2005 e il 2006 o, comunque, a quello nominale del 1992 attualizzato alla data dei singoli PEC, secondo il criterio applicativo espressamente fissato dalla stessa delibera n. 45 del 1992 (art. 2, lett. f) e ritenuto corretto dalla Procura.
In particolare,
anche ove si volesse ammettere che le aree in questione fossero effettivamente monetizzabili e che il relativo corrispettivo potesse essere liberamente pattuito tra il privato proponente e l'ente locale, nella propria discrezionalità ma in misura non inferiore al costo di acquisizione di aree idonee a soddisfare il rispetto dello standard, nella specie non è dato rinvenire agli atti di causa alcun elemento oggettivo (salvo il semplice rinvio alla delibera del 1992) del procedimento logico di fissazione del corrispettivo stesso; per contro, appare del tutto irragionevole far riferimento scientemente a valori di mercato e a costi di realizzazione delle opere rilevati nel 1992 (non essendo verosimile e non essendo stato infatti documentato che nel periodo 1992-2005 vi sia stata una flessione dei suddetti valori di mercato e dei costi di realizzazione delle opere tale da compensare il tasso di inflazione).
Neppure per il PEC “Omissis” è stato in alcun modo esplicitato il criterio logico che ha condotto a fissare il corrispettivo della monetizzazione in euro 13, né le difese non sono state in grado di spiegare a quali delibere del Comune vigenti “in materia” di monetizzazione e fissazione del relativo prezzo avesse voluto far riferimento la convenzione (posto che esisteva solo la delibera n. 45 del 1992 ma che la stessa, secondo la tesi difensiva, non poteva applicarsi all'area del “Omissis”; il rinvio della convenzione, quindi, sarebbe un rinvio “a vuoto” inserito quale clausola di mero stile, sicché il costo di monetizzazione di fatto non era fissato nella convenzione, ma restava rimesso a successivi atti discrezionali).
Ne consegue che, stando agli atti, l'invocata discrezionalità amministrativa si è rivelata, nel suo concreto esercizio, in contrasto con i criteri elementari di ragionevolezza, trasparenza e imparzialità dell'azione amministrativa (come se il Comune avesse venduto un proprio terreno sulla base di una stima di valore fatta tredici anni prima). La supposta mancanza di una deliberazione applicabile alle operazioni in parola (cioè la mancanza di una tariffa comunale prestabilita) imponeva, semmai, un'istruttoria ancor più rigorosa e ben motivata, volta a determinare il congruo corrispettivo di monetizzazione sulla base di elementi oggettivi ed uniformi (quali non possono considerarsi, ragionevolmente, i valori e i costi di mercato rilevati nel 1992 e successivamente mai aggiornati).
Questa Corte, dunque, soppesati tutti gli argomenti contenuti negli atti di causa, è pervenuta al convincimento che
il Responsabile del Servizio competente e l'Assessore all'Urbanistica (sul punto, v. infra), ove realmente avessero rilevato o dubitato che non esisteva nessuna delibera comunale e nessun criterio prefissato ed oggettivo di determinazione dei valori di monetizzazione, per le aree non ricomprese nella precedente delibera n. 45 del 1992, avrebbero dovuto in ogni caso farsi carico del problema, che non era certo di poco conto, promuovendo l'adozione di una nuova delibera che regolasse la materia o comunque assicurando una istruttoria adeguata per individuare il prezzo congruo di monetizzazione per i PEC in corso di approvazione, sulla base di stime aggiornate.
VI. Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, ritiene la Sezione che il danno per il Comune di Arquata Scrivia sia stato correttamente commisurato alla (omessa) rivalutazione del prezzo di “monetizzazione” fissato nel luglio 1992 (non essendovi state contestazioni né sull'indice applicato, né sul periodo di rivalutazione preso in considerazione dalla Procura, come esplicitati in citazione). Si tratta di una stima prudenziale ed equa, basata sulla constatazione, in fatto, dell'avvenuto richiamo alla delibera n. 45 del 1992 (cioè alla sola delibera comunale esistente “in materia”) operato nelle convenzioni stesse; quest'ultima delibera costituisce quindi, in mancanza di altre stime svolte all'epoca dei fatti, un parametro equo ed attendibile di liquidazione del differenziale di introito negativo per il Comune.
Il danno non difetta del requisito di certezza ed attualità, in quanto i minori incassi per il Comune sono stati pattuiti in convenzioni già perfezionatesi, eseguite e giuridicamente vincolanti per le parti (salvo future eventuali azioni da parte del Comune nei confronti delle controparti private, peraltro con esito che non è possibile prevedere con certezza in questa sede).
VII. Quanto all'elemento soggettivo della “gravità” della colpa, esso è senz'altro ravvisabile in capo all'arch. N., nella sua qualità di Responsabile del Servizio Programmazione Territoriale Urbanistica – Ambiente, la quale ha seguito i procedimenti in questione, in ogni loro fase. Si tratta, infatti, comunque si voglia ricostruire la vicenda in punto di diritto, della commissione di un errore grossolano, non scusabile, essendo stati in definitiva monetizzati degli standard urbanistici, senza alcuna spiegazione valida, sulla base di valori nominali di mercato risalenti al 1992, di cui era peraltro espressamente prevista la rivalutazione annuale.
Delle due l'una: o la delibera n. 45 del 1992 era applicabile, per cui la rivalutazione non poteva essere omessa neppure da un impiegato di minima diligenza o la delibera n. 45 del 1992 non era applicabile, per cui l'individuazione del valore di mercato per le aree da monetizzare avrebbe dovuto avvenire con motivati e trasparenti criteri oggettivi di stima, secondo ragionevolezza, non potendosi certamente far riferimento arbitrario a valori storici del 1992 (per i PEC “Omissis” e “Omissis”) o al valore di 13,00 euro per mq (per il PEC “Omissis”).
VIII. Le stesse considerazioni valgono per l'Assessore T. il quale, pur sostenendo (o avendo il dubbio, o dovendo avere il dubbio, per tutti i motivi da lui stesso esposti nelle proprie difese) che la delibera n. 45 del 1992 non fosse applicabile ai PEC in giudizio, non si domandò mai il perché essa fosse espressamente richiamata in pressoché tutte le bozze di convenzioni sottoposte all'approvazione del Consiglio comunale, né si pose mai il problema di quale criterio si dovesse utilizzare per monetizzare aree diverse da quelle prese in considerazione dalla delibera in parola (cioè diverse dalla A1, A2 e B1).
Si noti che, per quanto l'operazione di rivalutazione degli importi fissati nel 1992 fosse relativamente semplice (di qui la gravità della colpa per averla del tutto trascurata), la problematica generale della “monetizzazione” delle aree destinate a standard urbanistico non poteva certo rappresentare un aspetto marginale della materia urbanistica per il Comune. La deroga agli standard urbanistici dovrebbe costituire, invero, ipotesi a carattere eccezionale e residuale, da affrontare con la dovuta cautela ed attenzione; la relativa monetizzazione, comportando al contempo un interesse non solo urbanistico, ma anche finanziario per l'ente, costituisce un aspetto assai delicato del quale un assessore all'urbanistica, almeno negli aspetti generali, non può disinteressarsi, schermandosi dietro la responsabilità esclusiva del livello tecnico-dirigenziale.
Non è infatti pensabile né accettabile che in un Comune come Arquata Scrivia l'Assessore competente, pur constandogli conclamate lacune normative (con i connessi profili di incertezza) su un argomento di portata generale e di particolare interesse pubblico, qual è quello della monetizzazione, trascuri di affrontare il problema e di assumere ogni iniziativa a garanzia del buon andamento dell'ente amministrato.
Ciò vale, a maggior ragione, ove si consideri la contestuale qualità di presidente o membro della Commissione Edilizia comunale rivestita dall'Assessore medesimo.
Non giova all'assessore, nel caso di specie, l’esimente “politica” di cui all’art. 1, co. 1-ter, della legge 14.01.1994, n. 20 (ai sensi del quale “nel caso di atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi la responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l'esecuzione”), non tanto perché, essendo qui in contestazione l'omesso adeguamento delle tariffe di monetizzazione alla svalutazione monetaria (o l'omessa predisposizione di tariffe), non v'è a monte un “atto” cui l'organo politico si sia adeguato, quanto perché il compito di dare compiuta disciplina alla materia non può considerarsi competenza esclusiva degli uffici tecnici o amministrativi. Infine, cade opportuno ricordare che la buona fede dell'interessato per essere esimente deve essere ovviamente incolpevole, cioè non deve derivare da un difetto d'esame delle questioni sottopostegli.
Né è persuasiva la lettura delle norme del t.u.e.l. proposta dal convenuto, ove si tenga anche a mente che:
- ai sensi dell'art. 48 la giunta collabora nel governo dell'ente con il sindaco, il quale è responsabile della relativa amministrazione (art. 50);
- ai sensi dell'art. art 77 gli assessori rientrano nella nozione di “amministratore locale” e ai sensi dell'art. 78, comma 3, i componenti la giunta comunale competenti in materia di urbanistica, di edilizia e di lavori pubblici devono astenersi dall’esercitare attività professionale in materia di edilizia privata e pubblica nel territorio da essi amministrato (a dimostrazione non solo della intrinseca delicatezza delle materia in questione, da sempre oggetto di grande attenzione da parte della collettività in quanto crocevia di rilevanti interessi economici e ambientali, privati e pubblici, ma anche del ruolo centrale che gli assessori rivestono nelle suddette materie, dalle quali non possono affatto ritenersi estranei);
- ai sensi dell'art. 107, agli amministratori dell'ente competono i poteri di indirizzo e controllo politico amministrativo, mentre ai dirigenti compete la relativa attuazione, compresa l'adozione dei “i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie” (nella specie, la materia della monetizzazione degli standard, almeno per le aree diverse dalle A1, A2 e B1 e per interventi non commerciali, è rimasta priva di atti generali di indirizzo, malgrado tutte le problematiche normative e applicative ben descritte in atti dallo stesso assessore T.);
- ai sensi dell'art. 93 la responsabilità patrimoniale dinanzi alla Corte dei conti può essere fatta valere tanto nei confronti degli amministratori, quanto del personale degli enti locali, secondo la disciplina prevista per gli impiegati civili dello Stato.

Infine,
non giova ai convenuti neppure il principio dell'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali, a fronte di fattispecie manifestamente irragionevoli e pregiudizievoli per l'ente amministrato (per quanto fin qui esposto).
IX. Ad avviso di questi Giudici non è invece ravvisabile, in radice, l'elemento psicologico della colpa grave in capo al Sindaco M. dalla quale, nella sua qualità di organo di vertice dell'amministrazione comunale, non poteva pretendersi una minuziosa verifica dell'operato di tutti gli uffici comunali e di tutti i propri assessori, tanto più in un settore a connotazione tecnica cui erano preposti un assessore e un Responsabile di un Servizio. Deve cioè considerarsi come errore “fisologico”, in linea di principio, ai fini della responsabilità amministrativo-contabile, quello commesso da un Sindaco che, in buona fede, abbia fatto affidamento sulla correttezza dell'operato degli Uffici comunali e dell'attività di indirizzo e controllo politico-amministrativo svolta su di essi del proprio assessore, competente per materia: nella specie, va considerato non grave l'errore del Sindaco per aver confidato nell'applicabilità della delibera n. 45 del 1992 a tutte le “monetizzazioni” di standard urbanistici e nella correttezza della liquidazione dell'importo dovuto ad opera del Servizio competente, in mancanza di elementi di segno opposto segnalati dai soggetti preposti al settore o comunque venuti a conoscenza del Sindaco medesimo.
X. In conclusione, il danno in giudizio (liquidabile in complessivi euro 145.593,69 essendo prescritte le poste relative ai Pec “Omissis” e “Omissis”) va addebitato a titolo di responsabilità amministrativa ai signori T. e N..
Meritano peraltro accoglimento le domande subordinate di ampia riduzione equitativa dell'addebito, considerata l'entità del danno, la natura non dolosa della fattispecie e l'insieme di tutte le circostanze oggettive e soggettive descritte in atti le quali, se non valgono ad escludere la responsabilità, comunque possono essere prese in considerazione ai fini dell'esercizio del potere in parola. Si ritiene, perciò, di poter limitare l'addebito all'importo complessivo di euro 95.000,00 (pari a poco meno del 60% del danno, debitamente aumentato di rivalutazione Istat).
L'addebito va ripartito tra i signori T. e N., in ragione del contributo causale riferibile a ciascuno di essi, secondo le quote rispettive del 40% e del 60%, per un totale di euro 38.000,00 (trentottomila/00) a carico del signor T. e di euro 57.000,00 (cinquantasettemila) a carico della signora N..
Sulla somma di condanna spettano gli interessi legali dalla data della sentenza al saldo (Corte dei Conti, Sez. giursdiz. Piemonte, sentenza 16.04.2012 n. 56).

URBANISTICAIl trasferimento della proprietà delle opere di urbanizzazione in capo al comune costituisce un'obbligazione ex lege -inderogabile e indisponibile per le parti della convenzione di lottizzazione in base alla quale le opere stesse sono state realizzate-, ex art. 28 della L. n. 1150 del 17.08.1942, con la conseguenza che le parti non potrebbero legittimamente accordarsi sul loro mantenimento in capo al lottizzante, essendo tali opere strumentali allo svolgimento di pubblici servizi fisiologicamente rientranti nelle competenze dell'autorità amministrativa (mentre la gestione degli stessi per mezzo di privati sarebbe teoricamente concepibile solo previo atto di concessione di pubblico servizio, contenente le regole da osservare per garantire l'ottimale soddisfacimento del servizio offerto ai cittadini); ove, infatti, si ammettesse la possibilità di mantenere la gestione delle opere di urbanizzazione primaria in capo al lottizzante, i cittadini interessati (che hanno diritto di pretendere servizi di qualità, che solo l'ente pubblico può garantire, non essendo la sua azione finalizzata ad ottenere un utile d'impresa) resterebbero sostanzialmente "in balia" del privato gestore, il quale avrebbe tutto l'interesse a contenere i costi di manutenzione, con presumibile decadimento della qualità dei servizi offerti.
L'acquisizione delle aree ove insistono le opere di urbanizzazione da parte del Comune, insomma, costituisce un obbligo puntualmente enunciato dall'art. 28 della L. 1150 del 1942, ove al quinto comma si prevede -nel testo conseguente alle sostituzioni disposte per effetto dell'art. 8 della L. 847 del 1967- che la convenzione di lottizzazione debba contemplare, comunque, "la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, precisate dall'articolo 4 della legge 29.09.1964, n. 847".
Il legislatore, nel disciplinare le opere di urbanizzazione, ha confermato la possibilità della realizzazione diretta c.d. a scomputo dal contributo di concessione ma non ha lasciato alcun dubbio in merito al passaggio della proprietà delle stesse, una volta realizzate, in capo all'ente pubblico territoriale di riferimento, prevedendone la confluenza nel patrimonio indisponibile (art. 16, comma 2, d.lgs. n. 380 del 2001); ciò ad ulteriore riprova che si tratti di beni destinati alla fruizione pubblica. In altri termini per le dette opere di urbanizzazione si registra una presunzione iuris et de iure di proprietà pubblica, con la conseguenza che per tali interventi, a seguito dell'entrata in vigore del T.U. edilizia, non può ipotizzarsi la permanenza in capo ai privati della relativa proprietà.
E’ pacifico, in conclusione, che gli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria connessi alle opere di urbanizzazione ricadono interamente sull'ente locale, una volta acquisite al suo patrimonio per cessione (previo collaudo sulla loro regolare esecuzione) da parte del lottizzante.

Questo Tribunale si è già pronunciato, tra l’altro, con la sentenza n. 3018 del 2010, stabilendo che “il trasferimento della proprietà delle opere di urbanizzazione in capo al comune costituisce un'obbligazione ex lege -inderogabile e indisponibile per le parti della convenzione di lottizzazione in base alla quale le opere stesse sono state realizzate-, ex art. 28 della L. n. 1150 del 17.08.1942, con la conseguenza che le parti non potrebbero legittimamente accordarsi sul loro mantenimento in capo al lottizzante, essendo tali opere strumentali allo svolgimento di pubblici servizi fisiologicamente rientranti nelle competenze dell'autorità amministrativa (mentre la gestione degli stessi per mezzo di privati sarebbe teoricamente concepibile solo previo atto di concessione di pubblico servizio, contenente le regole da osservare per garantire l'ottimale soddisfacimento del servizio offerto ai cittadini); ove, infatti, si ammettesse la possibilità di mantenere la gestione delle opere di urbanizzazione primaria in capo al lottizzante, i cittadini interessati (che hanno diritto di pretendere servizi di qualità, che solo l'ente pubblico può garantire, non essendo la sua azione finalizzata ad ottenere un utile d'impresa) resterebbero sostanzialmente "in balia" del privato gestore, il quale avrebbe tutto l'interesse a contenere i costi di manutenzione, con presumibile decadimento della qualità dei servizi offerti (cfr. TAR Sardegna Cagliari, sez. II, 19.02.2010, n. 187)”.
L'acquisizione delle aree ove insistono le opere di urbanizzazione da parte del Comune, insomma, costituisce un obbligo puntualmente enunciato dall'art. 28 della L. 1150 del 1942, ove al quinto comma si prevede -nel testo conseguente alle sostituzioni disposte per effetto dell'art. 8 della L. 847 del 1967- che la convenzione di lottizzazione debba contemplare, comunque, "la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, precisate dall'articolo 4 della legge 29.09.1964, n. 847".
Il legislatore, nel disciplinare le opere di urbanizzazione, ha confermato la possibilità della realizzazione diretta c.d. a scomputo dal contributo di concessione ma non ha lasciato alcun dubbio in merito al passaggio della proprietà delle stesse, una volta realizzate, in capo all'ente pubblico territoriale di riferimento, prevedendone la confluenza nel patrimonio indisponibile (art. 16, comma 2, d.lgs. n. 380 del 2001); ciò ad ulteriore riprova che si tratti di beni destinati alla fruizione pubblica. In altri termini per le dette opere di urbanizzazione si registra una presunzione iuris et de iure di proprietà pubblica, con la conseguenza che per tali interventi, a seguito dell'entrata in vigore del T.U. edilizia, non può ipotizzarsi la permanenza in capo ai privati della relativa proprietà (cfr. TAR Puglia Bari, sez. II, 01.07.2010, n. 2815).
E’ pacifico, in conclusione, che gli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria connessi alle opere di urbanizzazione ricadono interamente sull'ente locale, una volta acquisite al suo patrimonio per cessione (previo collaudo sulla loro regolare esecuzione) da parte del lottizzante (cfr. TAR Sardegna Cagliari, sez. II, 26.01.2009, n. 89) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 09.03.2012 n. 245 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - URBANISTICA: S. Abbate, Il piano delle alienazioni degli immobili comunali e il prodigio della moltiplicazione dei pani e dei pesci (link a http://venetoius.myblog.it).

URBANISTICALe convenzioni urbanistiche hanno lo scopo di garantire che all’edificazione del territorio corrisponda, non solo l’approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, ma anche il suo equilibrato inserimento in rapporto al contesto di zona che, nell’insieme, garantiscano la normale qualità del vivere in un aggregato urbano discrezionalmente, e razionalmente, individuato dall’Autorità preposta alla gestione del territorio.
Ne consegue che una convenzione urbanistica ben può decidere la realizzazione di opere di rilievo urbanistico, anche non funzionali esclusivamente all’intervento permesso ai privati, ovvero può concordare il trasferimento della proprietà di beni: e ciò sia in sostituzione parziale o totale degli oneri d’urbanizzazione, sia quale strumento perequativo.
Il fatto poi che tali opere gravino economicamente sul privato, il quale abbia stipulato la stessa convenzione, non significa che ciò implichi la violazione delle norme che regolano la scelta dell’esecutore delle opere medesime.

Va ricordato che “Le convenzioni urbanistiche hanno lo scopo di garantire che all’edificazione del territorio corrisponda, non solo l’approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, ma anche il suo equilibrato inserimento in rapporto al contesto di zona che, nell’insieme, garantiscano la normale qualità del vivere in un aggregato urbano discrezionalmente, e razionalmente, individuato dall’Autorità preposta alla gestione del territorio" (C.d.S., sez. IV, 06.11.2009, n. 6947).
Ne consegue che una convenzione urbanistica ben può decidere la realizzazione di opere di rilievo urbanistico, anche non funzionali esclusivamente all’intervento permesso ai privati, ovvero può concordare il trasferimento della proprietà di beni: e ciò sia in sostituzione parziale o totale degli oneri d’urbanizzazione, sia quale strumento perequativo.
Il fatto poi che tali opere gravino economicamente sul privato, il quale abbia stipulato la stessa convenzione, non significa che ciò implichi la violazione delle norme che regolano la scelta dell’esecutore delle opere medesime (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 25.01.2012 n. 33 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ANNO 2011

URBANISTICAL'Amministrazione gode di ampia discrezionalità nella individuazione delle aree destinate a standards, anche in eccedenza rispetto alle indicazioni della normativa statale e degli atti regionali, ed il superamento degli standards urbanistici minimi prefissati non costituisce di per sé vizio di legittimità dell'operato dell'Amministrazione, purché, ovviamente, non appaia <<ictu oculi>> del tutto arbitrario o ingiusticato.
La giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ha precisato che l'Amministrazione gode di ampia discrezionalità nella individuazione delle aree destinate a standards, anche in eccedenza rispetto alle indicazioni della normativa statale e degli atti regionali, e che il superamento degli standards urbanistici minimi prefissati non costituisce di per sé vizio di legittimità dell'operato dell'Amministrazione, purché, ovviamente, non appaia <<ictu oculi>> del tutto arbitrario o ingiusticato (cfr., ex multis, TAR Toscana Firenze, sez. I, 06.07.2010, n. 2307; Cons. di Stato, sez. IV, 28.09.2000 n. 5185) (TAR Basilicata, sentenza 15.12.2011 n. 584 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAIl Comune che acquisisce le opere di urbanizzazione è tenuto a manutenerle.
Il trasferimento della proprietà delle opere di urbanizzazione in capo al Comune nell’ambito del piano di lottizzazione, costituisce un’obbligazione ex lege che si sottrae alla disponibilità delle parti, in quanto prevista dall’art. 28, l. n. 1150/1942 e relativa ad opere strumentali allo svolgimento di pubblici servizi fisiologicamente rientranti nelle competenze dell’amministrazione locale. Ne consegue che, ove il Comune intenda affidare ad altri la gestione delle opere non può che operare previo atto di concessione di pubblico servizio, contenente le regole da osservare per garantire l’ottimale soddisfacimento del servizio offerto ai cittadini.
In conclusione, poiché è un dato pacifico che gli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria connessi alle opere di urbanizzazione ricadono interamente sull’ente locale una volta che esse siano acquisite al suo patrimonio per cessione (previo collaudo sulla loro regolare esecuzione) da parte del lottizzante, ciò comporta l’estraneità dei lottizzanti, iniziali proprietari delle aree e delle opere di cui trattasi a sopportare le relative spese di manutenzione e l’estraneità anche dei successivi acquirenti degli immobili, essendosi estinta l’originaria obbligazione di convenzione con il trasferimento delle opere al Comune (massima tratta da www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.12.2011 n. 6368 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La prescrizione decennale del diritto del comune di ottenere la cessione delle opere di urbanizzazione.
Con la sentenza 21.10.2011 n. 21885, la Suprema Corte di Cassazione ha statuito che il diritto del Comune di pretendere la cessione delle opere di urbanizzazione da parte del privato soggiace al termine decennale stabilito in generale dall’art. 2946 c.c. per la prescrizione dei diritti.
La sentenza trae origine dalla vicenda che vedeva contrapposti il Comune di Sestri Levante da una parte e alcuni privati dall’altra. Costoro, nel 1973, dopo avere ottenuto il rilascio di una licenza edilizia, si erano obbligati a realizzare a cedere al Comune alcune opere di urbanizzazione. Poiché l’obbligo non era stato adempiuto, il Comune li aveva convenuti in giudizio nel 1992 per ottenere dal Giudice civile una sentenza che producesse gli stessi effetti del contratto di cessione non concluso, ai sensi dell’art. 2932 c.c.. I convenuti eccepivano che il diritto del Comune alla cessione delle aree si era nel frattempo prescritto ai sensi dell’art. 2946 c.c. Il Comune si difendeva, affermando che il diritto ad ottenere la cessione delle opere di urbanizzazione era un diritto di tipo indisponibile e, pertanto, invocava l’art. 2934 c.c. che afferma l’imprescrittibilità dei diritti indisponibili. (I diritti indisponibili, in estrema sintesi, sono quelli a cui il soggetto non può rinunciare; per fare un esempio, sono pacificamente ritenuti tali diritti relativi allo stato e alla capacità delle persone, come il diritto al nome.)
La Corte, innanzitutto, chiarisce che l’obbligazione assunta nel caso specifico dai privati nel 1973 non rientrava nello schema dell’art. 31 della L. 1150/1942, a mente del quale la licenza edilizia poteva essere subordinata, tra le altre ipotesi, anche all'impegno dei privati di procedere all'attuazione delle necessarie opere di urbanizzazione primaria contemporaneamente alla costruzione oggetto della licenza.
A tale conclusione la Corte perviene, da un lato, considerando la posteriorità (anziché l’anteriorità) della stipulazione dell’atto d’obbligo rispetto al rilascio del titolo edilizio, dall’altro, considerando il comportamento delle parti, ed in particolare del Comune, che rileva ai fini dell’interpretazione del contratto ai sensi dell’art. 1362 c.c. I Giudici della Cassazione ritengono che il comportamento del Comune, il quale si è avvalso del rimedio privatistico di cui all’art. 2932 c.c. per fare valere in giudizio il suo diritto, indichi che il Comune stesso considera l’atto d’obbligo come atto privatistico e non come atto che si inserisca in un procedimento amministrativo per il rilascio di un provvedimento amministrativo (nel caso di specie la licenza edilizia ex art. 31 L. 1150/1942).
I Giudici respingono la tesi sostenuta dal Comune, secondo cui l’atto negoziale in questione risponde all'esigenza di assicurare un ordinato assetto del territorio e, quindi, darebbe ai diritti nascenti da quest’atto la connotazione di assoluta indisponibilità, che ne determinerebbe l'imprescrittibilità, a norma del capoverso del citato art. 2934 c.c.
Precisano al riguardo che, per stabilire se un diritto è indisponibile occorre avere riguardo alla intrinseca natura del diritto stesso e non alla finalità di pubblico interesse dell’atto da cui il diritto si origina.
Non basta, cioè, invocare l'esistenza di una finalità di pubblico interesse perché ne discenda l'imprescrittibilità dei diritti eventualmente acquisiti dalla pubblica amministrazione all'esito di una determinata attività negoziale, qualora quei diritti non abbiano un oggetto intrinsecamente indisponibile, essendo del resto assolutamente ovvio che il perseguimento di finalità pubblicistiche non si sottrae, in via di principio, agli effetti del trascorrere del tempo nemmeno quando si sia in presenza di atti autoritativi della stessa pubblica amministrazione.”
I Giudici così concludono: “Il diritto ad ottenere l'adempimento di un obbligo negoziale avente ad oggetto il trasferimento della proprietà di porzioni di terreno non è, però, per sua natura, un diritto indisponibile. Non può, dunque, predicarsene l'imprescrittibilità”.
Si osserva che, se la sentenza è chiara e condivisibile laddove conclude che i diritti che scaturiscono dai contratti conclusi dalla P.A. per il perseguimento dell’interesse pubblico hanno natura non indisponibile, non altrettanto chiaro è il passaggio della sentenza dove si parla dell’azione costitutiva ex art. 2932 c.c.: “(essa) mal si presterebbe a sopperire alla mancata spontanea produzione degli effetti di un atto che fosse da considerare quale un mero segmento intermedio di un procedimento amministrativo volto al conseguimento di un provvedimento finale da cui promanino poteri autoritativi della pubblica amministrazione”.
La Corte sembrerebbe voler dire (anche se il punto non è chiaro) che l’azione ex art. 2932 c.c. può essere esperita soltanto quando il Comune vuole ottenere la conclusione di contratti di contenuto meramente privatistico che non vanno a formare il contenuto di provvedimenti amministrativi.
Ebbene, se questa fosse la conclusione della Corte, essa viene smentita dai Giudici amministrativi che, nel caso di inadempimento delle convenzioni tra P.A. e privati per la realizzazione e cessione delle opere di urbanizzazione ex art. 28 della L. n. 1150/1942, concludono per l’ammissibilità del rimedio ex art. 2932 c.c.
Si confronti il TAR Campania Napoli n. 2773 del 23.03.2007: “… lo strumento di cui all’art. 2932 c.c. è utilizzabile non solo nei caso di inadempimento ad obblighi di stipulazione discendenti da un contratto preliminare, ma anche per gli obblighi aventi titolo nella legge (nella specie dall’art. 28, comma 5, della legge n. 1150/1942 che subordina l'autorizzazione comunale per la lottizzazione di un’area alla stipula di una convenzione, da trascriversi a cura del proprietario, che preveda, tra l’altro, la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, nonché la cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione secondaria). Quindi è ammissibile una sentenza costitutiva ai sensi dell’art. 2932 del codice civile, a carico dei privati, che disponga il trasferimento al Comune dei suoli previsti in convenzione, trattandosi di obbligo che trova titolo nella previsione di legge”.
Si confronti anche il TAR per il Veneto sez. II, 13.07.2011, n. 1219, il quale affronta altresì la questione della giurisdizione, concludendo che questo tipo di controversie rientrano tra le materie di giurisdizione esclusiva del G.A. ai sensi dell’art. 11, comma 5, della L. n. 241/1990 e, in seguito all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, ai sensi 133, comma 1, lettera a), numero 2), del c.p.a., che così recita: “Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversia in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo” (link a http://venetoius.myblog.it).

URBANISTICA: Il comune può speculare sulle aree a standards ricevute con i piani attuativi (14.09.2011 - link a http://venetoius.myblog.it).

URBANISTICA: E' legittimo che il comune faccia "cassa" con le aree a standard ricevute gratuitamente nell'ambito di piani attuativi.
Un’area di proprietà pubblica destinata a “verde pubblico” non costituisce un’opera di urbanizzazione primaria, né un bene strumentale all’esercizio delle funzioni istituzionali dell’ente proprietario, fino a quando su di essa non siano state realizzate concrete opere di trasformazione volte a rendere fruibile il verde pubblico da parte della collettività, imprimendo al bene una destinazione di fatto conforme a quella astrattamente prevista dal piano: solo in presenza di tali opere il bene acquista carattere strumentale rispetto ai fini dell’ente e rientra a far parte del patrimonio indisponibile dello stesso, ai sensi dell’art. 826, ultimo comma c.c., in quanto bene di proprietà pubblica concretamente destinato ad un pubblico servizio.
In altre parole, affinché un bene di proprietà pubblica possa definirsi strumentale al perseguimento degli scopi istituzionali dell’ente proprietario, con conseguente inclusione nel patrimonio indisponibile dell’ente medesimo, non è sufficiente la mera manifestazione di volontà dell’ente pubblico di destinarlo ad un pubblico servizio, ma è altresì necessario che a quella manifestazione di volontà abbiano fatto seguito concrete opere di trasformazione dirette ad imprimere al bene un’effettiva funzionalizzazione ad un pubblico servizio.
E’ stato affermato, a questo riguardo, che l'appartenenza di un bene al patrimonio indisponibile dello Stato, dei comuni o delle province, a meno che non si tratti di beni riservati, per loro natura, a tale patrimonio, dipende soprattutto dalle caratteristiche oggettive e funzionali del bene e presuppone, quindi, oltre che l'acquisto in proprietà del bene da parte dell'ente pubblico (cosiddetto requisito soggettivo), una concreta destinazione dello stesso ad un pubblico servizio (cosiddetto, requisito oggettivo) che, proprio per l'esigenza di un reale legame con le oggettive caratteristiche del bene, non può dipendere da un mero progetto di utilizzazione della p.a. o da una risoluzione che, ancorché espressa in un atto amministrativo, non incide, di per sé, sulle oggettive caratteristiche funzionali del bene. Pertanto, nei casi in cui il bene sia privo dei caratteri strutturali necessari per il servizio, occorre almeno che il provvedimento di destinazione sia seguito dalle opere di trasformazione che in qualche modo possano stabilire un reale collegamento di fatto, e non meramente intenzionale, del bene alla funzione pubblica).
Sulla scorta di tali principi, è stato affermato che i terreni destinati a verde pubblico dal piano regolatore acquistano la condizione di beni del patrimonio indisponibile dell'ente pubblico (e, quindi, di beni strumentali al perseguimento dei fini istituzionali dell’ente stesso) solo dal momento in cui, essendo stati acquistati da questo in proprietà, sono trasformati ed in concreto utilizzati secondo la propria destinazione, non essendo all'uopo sufficiente né il piano regolatore generale, che ha solo funzione programmatoria e l'effetto di attribuire alla zona, o anche ai terreni in esso eventualmente indicati, una vocazione da realizzare attraverso gli strumenti urbanistici di secondo livello o ad essi equiparati, e la successiva attività di esecuzione di questi strumenti, né il provvedimento di approvazione del piano di lottizzazione, che individua solo il terreno specificamente interessato dal progetto di destinazione pubblica, né la convenzione di lottizzazione, che si inserisce nella fase organizzativa del processo di realizzazione del programma urbanistico e non nella fase della sua materiale esecuzione).
Anche nel caso in cui l’area fosse stata in concreto trasformata in senso conforme alle previsioni di piano (verde pubblico), il Comune avrebbe comunque conservato il potere di modificare tale destinazione, sia con un provvedimento amministrativo di carattere pianificatorio destinato ad incidere sulla destinazione urbanistica del bene, sia anche sulla base di atti o comportamenti concludenti incompatibili con la destinazione del bene a pubblico servizio, con il duplice limite rappresentato dalla necessità di rispettare i limiti minimi inderogabili in materia di standards urbanistici di cui al d.m. n. 1444 del 1968 e dall’impossibilità giuridica di incidere sulla destinazione pubblica dei beni facenti parte (ma non è questo il caso) del demanio c.d. necessario dell’ente pubblico, di cui all’art. 822, 1° comma c.c.. La stessa previsione di cui all’art. 58, comma 2, L. 133/2008, nella parte in cui stabilisce che “l’inserimento degli immobili nel piano ne determina la conseguente classificazione come patrimonio disponibile”, è chiaramente sintomatica del potere dell’ente pubblico di far cessare la destinazione a pubblico servizio di beni del proprio patrimonio, e, unitamente ad essa, il rapporto di strumentalità di quei beni rispetto ai propri fini istituzionali.
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Il Comune rimane libero di dare una diversa destinazione urbanistica alle aree acquisite in sede di convenzioni urbanistiche al fine della realizzazione di opere di urbanizzazione.
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Le scelte urbanistiche, che di norma non comportano la necessità di specifica giustificazione oltre quella desumibile dai criteri generali di impostazione del piano o della sua variante, necessitano di congrua motivazione quando incidono su aspettative dei privati particolarmente qualificate, come quelle ingenerate da impegni già assunti dall'amministrazione mediante approvazione di piani attuativi o stipula di convenzioni; in tali evenienze, la completezza della motivazione costituisce, infatti, lo strumento dal quale deve emergere l'avvenuta comparazione tra il pubblico interesse cui si finalizza la nuova scelta e quello del privato, assistito appunto da una aspettativa giuridicamente tutelata.
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E’ la legge ad imporre ai Comuni di adottare una specifica variante dello strumento urbanistico generale per stabilire la destinazione urbanistica dei beni inclusi nel proprio piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari: ciò si evince dall’art. 58, comma 2, della L. 133/2008, nel testo risultante dopo la sentenza della Corte Costituzionale 16.12.2009, n. 340; quest’ultima ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma citata nella parte in cui originariamente prevedeva che l’approvazione del piano delle alienazioni e valorizzazioni costituiva essa stessa variante allo strumento urbanistico generale; per effetto della predetta decisione del giudice delle leggi, è venuto meno l’effetto di variante automatica originariamente associato alla delibera di approvazione del piano delle alienazioni, sicché, allo stato, i Comuni che approvino un piano di dismissione immobiliare, hanno l’onere di attivare un separato procedimento di variante del proprio strumento urbanistico (che salvaguardi, in tal modo, le competenze della Regione, pretermesse nella formulazione originaria della norma).

Con il primo motivo, i ricorrenti hanno dedotto vizi di eccesso di potere per difetto dei presupposti, travisamento, errore essenziale, contraddittorietà ed illogicità manifeste, nonché vizi di violazione di legge sotto plurimi profili: secondo i ricorrenti, la variante n. 10 del P.R.G.C. approvata dal consiglio comunale il 12.10.2010 sarebbe illegittima nella parte in cui ha modificato la destinazione urbanistica dell’area di via Asti da “verde pubblico” a “residenziale”; ciò in quanto la predetta variante sarebbe stata redatta al solo fine di declassare l’area a bene non strumentale all’esercizio delle funzioni istituzionali dell’ente, consentendone in tal modo l’inclusione nel piano di dismissione; sennonché, osservano i ricorrenti, l’area in questione non poteva subire tale declassamento dal momento che essa costituisce un’opera di urbanizzazione primaria la quale, per sua natura, è necessariamente strumentale all’esercizio delle funzioni istituzionali dell’ente comunale, tra le quali vanno ricomprese quelle di programmazione e di governo del territorio e, in particolare, quelle volte a garantire che l’edificazione avvenga di pari passo con la posa delle necessarie infrastrutture; pertanto, le opere di urbanizzazione non sono suscettibili di essere incluse nei piani di alienazione di cui all’art. 58 della L. n. 133/2008, in quanto beni necessariamente strumentali all’esercizio delle funzioni istituzionali dell’ente civico.
La difesa del controinteressato -e, da ultimo, anche quella del Comune– hanno eccepito la tardività della predetta censura in quanto diretta a contestare l’inclusione dell’area di via Asti nel piano comunale di alienazioni e valorizzazioni immobiliari: inclusione già decisa dal Comune con la delibera consiliare n. 15 del 18.02.2010, non impugnata dai ricorrenti nel termine di legge.
Osserva il collegio che l’eccezione non può essere condivisa, dal momento che la lesione della posizione giuridica soggettiva dei ricorrenti è divenuta attuale solo in conseguenza dell’approvazione della variante n. 10 del P.R.G.C., per effetto della quale l’area in questione, già destinata a verde pubblico, è stata resa in gran parte edificabile: la semplice inclusione dell’area nel piano comunale di dismissioni immobiliari e la stessa vendita del bene a terzi (benché illegittimi, secondo la prospettazione dei ricorrenti, perché aventi ad oggetto un bene insuscettibile di dismissione in quanto strumentale all’esercizio delle funzioni istituzionali dell’ente civico), non avrebbero comunque arrecato ai ricorrenti alcun pregiudizio concreto fintantoché il bene avesse conservato la propria destinazione a verde pubblico; è soltanto il mutamento di destinazione urbanistica ad aver reso attuale e concreto il pregiudizio per i ricorrenti, rendendo differenziata la loro posizione giuridica e facendo sorgere negli stessi la legittimazione e l’interesse a ricorrere.
Nel merito, peraltro, il motivo di gravame è infondato e va respinto.
I ricorrenti muovono dal presupposto che un’area di proprietà pubblica destinata a “verde pubblico” secondo le previsioni del piano regolatore generale o di uno strumento urbanistico di secondo livello, costituisca, per ciò stesso, un bene strumentale all’esercizio delle funzioni istituzionali dell’ente proprietario, con la conseguenza che quest’ultimo non potrebbe far cessare la predetta destinazione né includere il bene in un piano di dismissioni immobiliari, avuto riguardo al fatto che la normativa di settore prevede che gli enti pubblici possono includere nei propri piani di alienazione soltanto beni “non strumentali all’esercizio delle proprie funzioni istituzionali”.
Osserva il collegio che tale presupposto è infondato.
Un’area di proprietà pubblica destinata a “verde pubblico” non costituisce un’opera di urbanizzazione primaria né un bene strumentale all’esercizio delle funzioni istituzionali dell’ente proprietario, fino a quando su di essa non siano state realizzate concrete opere di trasformazione volte a rendere fruibile il verde pubblico da parte della collettività, imprimendo al bene una destinazione di fatto conforme a quella astrattamente prevista dal piano: solo in presenza di tali opere il bene acquista carattere strumentale rispetto ai fini dell’ente e rientra a far parte del patrimonio indisponibile dello stesso, ai sensi dell’art. 826, ultimo comma c.c., in quanto bene di proprietà pubblica concretamente destinato ad un pubblico servizio.
In altre parole, affinché un bene di proprietà pubblica possa definirsi strumentale al perseguimento degli scopi istituzionali dell’ente proprietario, con conseguente inclusione nel patrimonio indisponibile dell’ente medesimo, non è sufficiente la mera manifestazione di volontà dell’ente pubblico di destinarlo ad un pubblico servizio, ma è altresì necessario che a quella manifestazione di volontà abbiano fatto seguito concrete opere di trasformazione dirette ad imprimere al bene un’effettiva funzionalizzazione ad un pubblico servizio.
E’ stato affermato, a questo riguardo, che l'appartenenza di un bene al patrimonio indisponibile dello Stato, dei comuni o delle province, a meno che non si tratti di beni riservati, per loro natura, a tale patrimonio, dipende soprattutto dalle caratteristiche oggettive e funzionali del bene e presuppone, quindi, oltre che l'acquisto in proprietà del bene da parte dell'ente pubblico (cosiddetto requisito soggettivo), una concreta destinazione dello stesso ad un pubblico servizio (cosiddetto, requisito oggettivo) che, proprio per l'esigenza di un reale legame con le oggettive caratteristiche del bene, non può dipendere da un mero progetto di utilizzazione della p.a. o da una risoluzione che, ancorché espressa in un atto amministrativo, non incide, di per sé, sulle oggettive caratteristiche funzionali del bene.
Pertanto, nei casi in cui il bene sia privo dei caratteri strutturali necessari per il servizio, occorre almeno che il provvedimento di destinazione sia seguito dalle opere di trasformazione che in qualche modo possano stabilire un reale collegamento di fatto, e non meramente intenzionale, del bene alla funzione pubblica (Cass. civ., sez. II, 09.09.1997, n. 8743; in senso analogo, Cass. Civ. SS.UU. 28.06.2006, n. 14865).
Sulla scorta di tali principi, è stato affermato che i terreni destinati a verde pubblico dal piano regolatore acquistano la condizione di beni del patrimonio indisponibile dell'ente pubblico (e, quindi, di beni strumentali al perseguimento dei fini istituzionali dell’ente stesso) solo dal momento in cui, essendo stati acquistati da questo in proprietà, sono trasformati ed in concreto utilizzati secondo la propria destinazione, non essendo all'uopo sufficiente né il piano regolatore generale, che ha solo funzione programmatoria e l'effetto di attribuire alla zona, o anche ai terreni in esso eventualmente indicati, una vocazione da realizzare attraverso gli strumenti urbanistici di secondo livello o ad essi equiparati, e la successiva attività di esecuzione di questi strumenti, né il provvedimento di approvazione del piano di lottizzazione, che individua solo il terreno specificamente interessato dal progetto di destinazione pubblica, né la convenzione di lottizzazione, che si inserisce nella fase organizzativa del processo di realizzazione del programma urbanistico e non nella fase della sua materiale esecuzione (Cassazione civile, sez. II, 09.09.1997, n. 8743).
Nel caso di specie, è pacifico tra le parti che l’area di via Asti, benché destinata dal piano regolatore generale a verde pubblico, non ha mai ricevuto, in concreto, tale destinazione: a tutt’oggi, si tratta di un’area allo stato di “prativo non attrezzato”.
In mancanza di una concreta destinazione a pubblico servizio, l’area di cui si discute ha continuato a far parte del patrimonio disponibile del Comune di San Mauro Torinese, che proprio in ragione di tale natura l’ha potuta includere nel proprio piano di dismissioni in quanto bene non strumentale all’esercizio delle proprie funzioni istituzionali.
Peraltro, va altresì osservato che anche nel caso in cui l’area fosse stata in concreto trasformata in senso conforme alle previsioni di piano, il Comune avrebbe comunque conservato il potere di modificare tale destinazione, sia con un provvedimento amministrativo di carattere pianificatorio destinato ad incidere sulla destinazione urbanistica del bene, sia anche sulla base di atti o comportamenti concludenti incompatibili con la destinazione del bene a pubblico servizio (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 05.11.2004, n. 7245), con il duplice limite rappresentato dalla necessità di rispettare i limiti minimi inderogabili in materia di standards urbanistici di cui al d.m. n. 1444 del 1968 e dall’impossibilità giuridica di incidere sulla destinazione pubblica dei beni facenti parte (ma non è questo il caso) del demanio c.d. necessario dell’ente pubblico, di cui all’art. 822, 1° comma c.c..
La stessa previsione di cui all’art. 58, comma 2, L. 133/2008, nella parte in cui stabilisce che “l’inserimento degli immobili nel piano ne determina la conseguente classificazione come patrimonio disponibile”, è chiaramente sintomatica del potere dell’ente pubblico di far cessare la destinazione a pubblico servizio di beni del proprio patrimonio, e, unitamente ad essa, il rapporto di strumentalità di quei beni rispetto ai propri fini istituzionali.
Alla stregua di tali considerazioni, il primo motivo di ricorso è infondato e va disatteso.
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Con il secondo motivo, i ricorrenti hanno dedotto la violazione e l’errata applicazione degli artt. 39, 43 e 45 della L.R. n. 56/1977, nonché vizi di eccesso di potere per contraddittorietà, illogicità manifesta e difetto di motivazione: hanno lamentato, in particolare, la contraddittorietà del comportamento dell’amministrazione comunale, la quale, mentre al momento dell’approvazione del P.E.C. del 1987 ha ritenuto che la realizzazione delle opere di urbanizzazione indicate nei progetti e in convenzione fosse assolutamente necessaria, ai sensi dell’art. 43 della L.R. n. 56/1977, per far fronte all’aumento del carico urbanistico derivante dalla collocazione sul sito di nuovi edifici residenziali, adesso, a distanza di diversi anni, ha adottato provvedimenti di senso contrario che, da un lato comporteranno l’aumento del carico antropico dell’area e dall’altro ridurranno in maniera consistente le aree a verde; né rileva, secondo i ricorrenti, la circostanza che le aree a verde presenti sull’intero territorio comunale siano eventualmente sovrabbondanti rispetto alla standard minimo di cui all’art. 21 della L.R. n. 56/1977, dal momento che la previsione contenuta nel P.E.C. del 1987 era volta ad assolvere ad esigenze proprie dell’area circostante alla via Asti, esigenze che negli anni successivi non sono certo venute meno.
La censura è infondata e va disattesa.
La giurisprudenza ha avuto più volte occasione di affermare che il Comune rimane libero di dare una diversa destinazione urbanistica alle aree acquisite in sede di convenzioni urbanistiche al fine della realizzazione di opere di urbanizzazione (Cassazione civile, sez. II, 14.08.2007, n. 17698; Cassazione civile, sez. II, 28.08.2000, n. 11208; Cassazione civile, sez. II, 09.03.1990 n. 1917; Cassazione civile, sez. II, 25.07.1980 n. 4833; TAR Abruzzo L'Aquila, 16.07.2004, n. 835).
Più in generale, la facoltà del Comune di modificare il regime delle aree a servizi è previsto dalla legge urbanistica regionale piemontese n. 56/1977 la quale, all’art. 17, comma 4, lett. b), attribuisce al Comune il potere di ridurre, mediante varianti strutturali, la quantità globale delle aree a servizi per più di 0,5 metri quadrati per abitante; l’unico limite è rappresentato dalla necessità di rispettare i cd. standards urbanistici che, nella pianificazione generale, attengono ai rapporti massimi tra spazi edificabili e spazi riservati all'utilizzazione per scopi pubblici e sociali: standards che, dovendo essere previsti in un limite minimo inderogabile dal d.m. 02.04.1968, assolvono ad una funzione di equilibrio dell'assetto territoriale e di salvaguardia dell'ambiente e della qualità della vita.
Nel caso di specie, non solo i ricorrenti non hanno contestato il mancato rispetto degli standards, ma è altresì documentato che il Comune, prima di adottare la variante n. 10 del PRGC, ha svolto una specifica istruttoria per accertare il rispetto di tali parametri inderogabili; detta verifica ha consentito al Comune di accertare che la dotazione complessiva di aree a verde nel distretto urbanistico “Oltrepo”, in cui si colloca l’area di via Asti, avrebbe conservato, dopo l’attuazione della variante, un rapporto di sostanziale equilibrio rispetto al fabbisogno (doc. 3 e 4.1. fascicolo Comune).
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Con il terzo motivo, i ricorrenti hanno dedotto il vizio di eccesso di potere per difetto di motivazione: secondo i ricorrenti, la decisione dell’amministrazione di modificare la destinazione urbanistica dell’area avrebbe imposto alla stessa di motivare adeguatamente le ragioni di tale scelta, evidenziando, in particolare, da quali preminenti interessi pubblici essa fosse giustificata; e ciò in quanto la disciplina attuale dell’area era stata dettata nella convenzione edilizia del 1987, la quale aveva ingenerato nei privati una aspettativa qualificata al rispetto della destinazione pattuita; tale motivazione, tuttavia, è mancata del tutto, il che integra il vizio di illegittimità dedotto in rubrica.
La censura è infondata e va disattesa.
E’ noto che le scelte urbanistiche, che di norma non comportano la necessità di specifica giustificazione oltre quella desumibile dai criteri generali di impostazione del piano o della sua variante, necessitano di congrua motivazione quando incidono su aspettative dei privati particolarmente qualificate, come quelle ingenerate da impegni già assunti dall'amministrazione mediante approvazione di piani attuativi o stipula di convenzioni; in tali evenienze, la completezza della motivazione costituisce infatti lo strumento dal quale deve emergere l'avvenuta comparazione tra il pubblico interesse cui si finalizza la nuova scelta e quello del privato, assistito appunto da una aspettativa giuridicamente tutelata (Consiglio Stato, sez. IV, 09.06.2008, n. 2837).
Se ciò è vero, è anche vero, però, che nel caso di specie l’unica aspettativa tutelata sorta in capo ai ricorrenti con la sottoscrizione dalla convenzione Sicignano del 29.12.1987 attuativa del PEC, è stata quella avente ad oggetto la realizzazione dell’intervento edificatorio: ma tale aspettativa, allo stato, è già stata integralmente soddisfatta, dal momento che il PEC è stato attuato già da molti anni.
Per contro, dalla predetta convenzione non è sorta anche un’aspettativa qualificata dei ricorrenti a che il Comune realizzasse le opere di urbanizzazione primaria a fronte della cessione gratuita delle relative aree, dal momento che, come giustamente osservato dalla difesa comunale, nel contesto di quella convenzione edilizia la cessione gratuita delle aree non trovava il suo corrispettivo e la sua causa nella realizzazione delle opere di urbanizzazione, ma nel rilascio delle concessioni edilizie, fermo restando il potere del Comune, nell’esercizio dei propri insindacabili poteri di pianificazione e di gestione del territorio, di imprimere eventualmente a quelle aree una diversa destinazione urbanistica sulla base di una rinnovata o di una sopravvenuta diversa valutazione dell’interesse pubblico.
Pertanto, non incidendo la variante di piano su aspettative giuridicamente qualificate dei ricorrenti, non si imponeva la necessità di una specifica motivazione, oltre quella desumibile dai criteri generali di impostazione della variante medesima.
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Con il quarto motivo, i ricorrenti hanno dedotto il vizio di eccesso di potere per difetto dei presupposti e sviamento: secondo i ricorrenti, la variante del Piano Regolatore è uno strumento tipico che l’amministrazione comunale può utilizzare soltanto per perseguire finalità di carattere urbanistico; nel caso di specie, invece, esso sarebbe stato utilizzato al solo fine di alienare il bene, e quindi per perseguire finalità (“di cassa”) del tutto estranee a quelle tipiche in funzione delle quali la legge ha attribuito al Comune il relativo potere: la variante approvata sarebbe dunque viziata da sviamento di potere.
Anche tale censura è infondata.
E’ la legge ad imporre ai Comuni di adottare una specifica variante dello strumento urbanistico generale per stabilire la destinazione urbanistica dei beni inclusi nel proprio piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari: ciò si evince dall’art. 58, comma 2, della L. 133/2008, nel testo risultante dopo la sentenza della Corte Costituzionale 16.12.2009, n. 340; quest’ultima ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma citata nella parte in cui originariamente prevedeva che l’approvazione del piano delle alienazioni e valorizzazioni costituiva essa stessa variante allo strumento urbanistico generale; per effetto della predetta decisione del giudice delle leggi, è venuto meno l’effetto di variante automatica originariamente associato alla delibera di approvazione del piano delle alienazioni, sicché, allo stato, i Comuni che approvino un piano di dismissione immobiliare, hanno l’onere di attivare un separato procedimento di variante del proprio strumento urbanistico (che salvaguardi, in tal modo, le competenze della Regione, pretermesse nella formulazione originaria della norma).
Alla luce di tali considerazioni, nessuno sviamento di potere può essere attribuito nel caso in esame al Comune di San Mauro Torinese, avendo esso utilizzato il procedimento di variante urbanistica in doverosa attuazione di una norma di legge e per il perseguimento di finalità previste dalla legge
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 22.07.2011 n. 805 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: I terreni destinati a verde pubblico dal piano regolatore diventano indisponibili solo quando siano in concreto utilizzati secondo la propria destinazione.
I giudici del Tribunale amministrativo di Torino esprimono tale tesi in una controversia nella quale i ricorrenti muovevano dal presupposto che un’area di proprietà pubblica destinata a “verde pubblico” secondo le previsioni del piano regolatore generale o di uno strumento urbanistico di secondo livello, costituisse, per ciò stesso, un bene strumentale all’esercizio delle funzioni istituzionali dell’ente proprietario, con la conseguenza che quest’ultimo non avrebbe potuto far cessare la predetta destinazione né includere il bene in un piano di dismissioni immobiliari, avuto riguardo al fatto che la normativa di settore prevede che gli enti pubblici possano includere nei propri piani di alienazione soltanto beni “non strumentali all’esercizio delle proprie funzioni istituzionali”.
I giudici sabaudi hanno considerato tale congettura infondata precisando che un’area di proprietà pubblica destinata a “verde pubblico” non costituisce un’opera di urbanizzazione primaria né un bene strumentale all’esercizio delle funzioni istituzionali dell’ente proprietario, fino a quando su di essa non siano state realizzate concrete opere di trasformazione volte a rendere fruibile il verde pubblico da parte della collettività, imprimendo al bene una destinazione di fatto conforme a quella astrattamente prevista dal piano: solo in presenza di tali opere il bene acquista carattere strumentale rispetto ai fini dell’ente e rientra a far parte del patrimonio indisponibile dello stesso, ai sensi dell’art. 826, ultimo comma c.c., in quanto bene di proprietà pubblica concretamente destinato ad un pubblico servizio.
In altre parole, continuano i giudici piemontesi, affinché un bene di proprietà pubblica possa definirsi strumentale al perseguimento degli scopi istituzionali dell’ente proprietario, con conseguente inclusione nel patrimonio indisponibile dell’ente medesimo, non è sufficiente la mera manifestazione di volontà dell’ente pubblico di destinarlo ad un pubblico servizio, ma è altresì necessario che a quella manifestazione di volontà abbiano fatto seguito concrete opere di trasformazione dirette ad imprimere al bene un’effettiva funzionalizzazione ad un pubblico servizio.
E’ stato affermato, a questo riguardo, ricordano gli stessi giudici, che l'appartenenza di un bene al patrimonio indisponibile dello Stato, dei comuni o delle province, a meno che non si tratti di beni riservati, per loro natura, a tale patrimonio, dipende soprattutto dalle caratteristiche oggettive e funzionali del bene e presuppone, quindi, oltre che l'acquisto in proprietà del bene da parte dell'ente pubblico (cosiddetto requisito soggettivo), una concreta destinazione dello stesso ad un pubblico servizio (cosiddetto, requisito oggettivo) che, proprio per l'esigenza di un reale legame con le oggettive caratteristiche del bene, non può dipendere da un mero progetto di utilizzazione della p.a. o da una risoluzione che, ancorché espressa in un atto amministrativo, non incide, di per sé, sulle oggettive caratteristiche funzionali del bene.
Pertanto, nei casi in cui il bene sia privo dei caratteri strutturali necessari per il servizio, occorre almeno che il provvedimento di destinazione sia seguito dalle opere di trasformazione che in qualche modo possano stabilire un reale collegamento di fatto, e non meramente intenzionale, del bene alla funzione pubblica (Cass. civ., sez. II, 09.09.1997, n. 8743; in senso analogo, Cass. Civ. SS.UU. 28.06.2006, n. 14865).
Sulla scorta di tali principi, è stato affermato che i terreni destinati a verde pubblico dal piano regolatore acquistano la condizione di beni del patrimonio indisponibile dell'ente pubblico (e, quindi, di beni strumentali al perseguimento dei fini istituzionali dell’ente stesso) solo dal momento in cui, essendo stati acquistati da questo in proprietà, sono trasformati ed in concreto utilizzati secondo la propria destinazione, non essendo all'uopo sufficiente né il piano regolatore generale, che ha solo funzione programmatoria e l'effetto di attribuire alla zona, o anche ai terreni in esso eventualmente indicati, una vocazione da realizzare attraverso gli strumenti urbanistici di secondo livello o ad essi equiparati, e la successiva attività di esecuzione di questi strumenti, né il provvedimento di approvazione del piano di lottizzazione, che individua solo il terreno specificamente interessato dal progetto di destinazione pubblica, né la convenzione di lottizzazione, che si inserisce nella fase organizzativa del processo di realizzazione del programma urbanistico e non nella fase della sua materiale esecuzione (Cassazione civile, sez. II, 09.09.1997, n. 8743) (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it -  TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 22.07.2011 n. 805 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe convenzioni urbanistiche devono sempre considerarsi rebus sic stantibus e, persino durante la piena efficacia di un piano urbanistico e della relativa convenzione urbanistica, legittimamente l'amministrazione, in presenza di un interesse pubblico sopravvenuto, ha la facoltà di introdurre nuove previsioni, con il solo onere di motivare le esigenze che le determinano.
In presenza di nuove esigenze non sussiste, quindi, preclusione a nuovi interventi, atteso che lo ius variandi relativo alle prescrizioni di piano regolatore generale include anche un ius poenitendi relativo ai vincoli precedentemente assunti, rispetto ai quali il Comune non può ritenersi permanentemente vincolato nemmeno da una preesistente convenzione di lottizzazione.
La vigenza di una convenzione di lottizzazione si riflette, semmai, solamente in termini di obbligo di motivazione nell'esercizio della potestas variandi, in quanto incidente su aspettative qualificate del privato parte della convenzione.
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L'omessa indicazione nel piano particolareggiato del termine di validità non può considerarsi causa d'illegittimità dello stesso, operando, in tal caso, il termine massimo decennale fissato dall'art. 16 l. n. 1150 del 1942.
Parimenti, la mancata indicazione nel piano particolareggiato dei termini per il compimento delle espropriazioni rileva solo per la legittimità di queste ultime ma non per quella del piano, giacché la certezza dei rapporti giuridici è garantita dalla decadenza legale del piano.

La giurisprudenza è costante nell’affermare che le convenzioni urbanistiche devono sempre considerarsi rebus sic stantibu, e, persino durante la piena efficacia di un piano urbanistico e della relativa convenzione urbanistica, legittimamente l'amministrazione, in presenza di un interesse pubblico sopravvenuto, ha la facoltà di introdurre nuove previsioni, con il solo onere di motivare le esigenze che le determinano.
In presenza di nuove esigenze non sussiste, quindi, preclusione a nuovi interventi, atteso che lo ius variandi relativo alle prescrizioni di piano regolatore generale include anche un ius poenitendi relativo ai vincoli precedentemente assunti, rispetto ai quali il Comune non può ritenersi permanentemente vincolato nemmeno da una preesistente convenzione di lottizzazione (fra le tante Cons. Stato, Sez. IV, 29.07.2008, n. 3766; n. 711 del 13.07.1993; 25.07.2001, n. 4073).
La vigenza di una convenzione di lottizzazione si riflette, semmai, solamente in termini di obbligo di motivazione nell'esercizio della potestas variandi, in quanto incidente su aspettative qualificate del privato parte della convenzione (Cons. Stato, Sez. IV, 28.02.2005, n. 719).
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L'omessa indicazione nel piano particolareggiato del termine di validità non può considerarsi causa d'illegittimità dello stesso, operando, in tal caso, il termine massimo decennale fissato dall'art. 16 l. n. 1150 del 1942 (Cons. Stato, sez. VI, 09.03.2005 , n. 985).
Parimenti, la mancata indicazione nel piano particolareggiato dei termini per il compimento delle espropriazioni rileva solo per la legittimità di queste ultime ma non per quella del piano, giacché la certezza dei rapporti giuridici è garantita dalla decadenza legale del piano (TAR Umbria Perugia, 07.12.2001, n. 650)
(TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 11.05.2011 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIl Comune non può ritenersi permanentemente vincolato da una preesistente convenzione urbanistica.
Nella vicenda che ha dato luogo alla pronuncia in rassegna la società resistente è proprietaria di un’area inserita nel piano particolareggiato di iniziativa pubblica approvato da un Comune emiliano, mentre il ricorrente era proprietario di un’area -anch’essa inserita nel medesimo piano- che egli aveva ceduto gratuitamente al Comune, come standard a verde pubblico, in attuazione di un piano particolareggiato di iniziativa privata.
Ebbene, il ricorrente impugna gli atti relativi alla vendita delle aree facenti parte del piano particolareggiato e l’approvazione del bando di asta pubblica, e l’avviso di vendita di aree edificabili. Con uno dei motivi di ricorso il ricorrente lamenta, in particolare, che il piano particolareggiato include l’area che è stata ceduta dallo stesso al Comune -quale standard urbanistico (verde pubblico)- destinandola illegittimamente alla edificazione residenziale ed alla successiva vendita. Poiché l’area non viene destinata alla realizzazione di opere di pubblica utilità ma all’utilizzazione privata, il ricorrente afferma di avere diritto al ripristino della destinazione pubblica o alla restituzione dell’area.
Ad avviso dei giudici del Tribunale amministrativo di Parma il motivo è infondato, la giurisprudenza è costante, infatti, nell’affermare che le convenzioni urbanistiche devono sempre considerarsi rebus sic stantibus, e, persino durante la piena efficacia di un piano urbanistico e della relativa convenzione urbanistica, legittimamente l'amministrazione, in presenza di un interesse pubblico sopravvenuto, ha la facoltà di introdurre nuove previsioni, con il solo onere di motivare le esigenze che le determinano.
In presenza di nuove esigenze non sussiste, quindi, preclusione a nuovi interventi, atteso che lo ius variandi relativo alle prescrizioni di piano regolatore generale include anche un ius poenitendi relativo ai vincoli precedentemente assunti, rispetto ai quali il Comune non può ritenersi permanentemente vincolato nemmeno da una preesistente convenzione di lottizzazione (fra le tante Cons. Stato, Sez. IV, 29.07.2008, n. 3766; n. 711 del 13.07.1993; 25.07.2001, n. 4073).
La vigenza di una convenzione di lottizzazione si riflette, semmai, solamente in termini di obbligo di motivazione nell'esercizio della potestas variandi, in quanto incidente su aspettative qualificate del privato parte della convenzione (Cons. Stato, Sez. IV, 28.02.2005, n. 719) (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 11.05.2011 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICANelle convenzioni urbanistiche non opera uno stretto sinallagma tra le prestazioni delle parti, nel senso che non vi è una misura stabilita per legge delle prestazioni che i privati devono assumere in cambio dello sfruttamento delle facoltà edificatorie.
I privati possono quindi negoziare liberamente obbligandosi a cedere aree anche in quantità notevolmente superiore al livello minimo degli standard urbanistici. In questa materia i parametri sono infatti qualitativi (adeguata dotazione di strutture al servizio dei nuovi edifici) e non quantitativi (la legge prevede soltanto la soglia minima delle aree a standard).
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(a) le convenzioni che regolano i piani di lottizzazione e attuativi costituiscono un limite solo temporaneo al potere di pianificazione urbanistica. Nel lungo periodo, dopo la scadenza del termine decennale di validità dei piani, i comuni riacquistano pienamente il comando della zonizzazione del territorio;
(b) vi sono peraltro degli effetti conformativi permanenti che si collegano all’effettiva trasformazione del suolo e devono essere rispettati anche dalla pianificazione successiva;
(c) tra gli effetti conformativi permanenti non rientra tuttavia il vincolo a standard urbanistico posto su determinate aree. Al contrario, poiché la qualificazione come standard urbanistico è sempre collegata alla presenza di un interesse pubblico attuale, l’amministrazione può variare nel tempo le proprie valutazioni modificando la natura e la misura degli standard urbanistici esistenti sul territorio;
(d) gli accordi presi originariamente con i privati in sede di lottizzazione non impediscono quindi nuove scelte sugli standard urbanistici, ma, secondo i principi generali, occorre valutare se i cambiamenti incidano in modo tollerabile sulle situazioni consolidate e se il nuovo interesse pubblico sia stato correttamente individuato;
(e) nel caso in esame nessuna conseguenza negativa può derivare alla zona produttiva dalla perdita di 2.700 mq. di verde pubblico, considerata l’abbondanza di aree a standard presenti. A sua volta la monetizzazione di tale superficie per l’acquisto di una struttura destinata a ospitare sale polivalenti corrisponde a valutazioni amministrative non solo ampiamente discrezionali ma, almeno in relazione ai dati disponibili, non manifestamente irragionevoli;
(f) il fatto che i lottizzanti non beneficino della monetizzazione non presenta alcun rilievo particolare, in quanto con la cessione i proprietari perdono ogni contatto con il bene (e con il valore che lo stesso acquista nel tempo) e mantengono soltanto un interesse qualificato a controllare che l’amministrazione ne faccia un uso non contrastante con la lottizzazione. Nello specifico peraltro, come si è visto ai punti precedenti, la sottrazione di una piccola porzione delle aree a standard non compromette la funzionalità e l’utilizzabilità degli edifici situati nella zona produttiva.

Nelle convenzioni urbanistiche non opera uno stretto sinallagma tra le prestazioni delle parti, nel senso che non vi è una misura stabilita per legge delle prestazioni che i privati devono assumere in cambio dello sfruttamento delle facoltà edificatorie (v. CS, Sez. IV, 28.07.2005 n. 4015; TAR Brescia, Sez. I, 21.04.2010 n. 1580).
I privati possono quindi negoziare liberamente obbligandosi a cedere aree anche in quantità notevolmente superiore al livello minimo degli standard urbanistici. In questa materia i parametri sono infatti qualitativi (adeguata dotazione di strutture al servizio dei nuovi edifici) e non quantitativi (la legge prevede soltanto la soglia minima delle aree a standard).
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Nel terzo motivo di ricorso la richiesta di risarcimento viene collegata a una violazione contrattuale, consistente nel fatto che il Comune alienando una parte del mappale n. 153 sarebbe venuto meno all’obbligo di destinare per intero questa superficie a verde pubblico. L’argomento, nel complesso, non può essere condiviso. In proposito si osserva quanto segue:
(a) le convenzioni che regolano i piani di lottizzazione e attuativi costituiscono un limite solo temporaneo al potere di pianificazione urbanistica. Nel lungo periodo, dopo la scadenza del termine decennale di validità dei piani, i comuni riacquistano pienamente il comando della zonizzazione del territorio;
(b) vi sono peraltro degli effetti conformativi permanenti che si collegano all’effettiva trasformazione del suolo e devono essere rispettati anche dalla pianificazione successiva (v. TAR Brescia, Sez. I, 23.03.2010 n. 1360);
(c) tra gli effetti conformativi permanenti non rientra tuttavia il vincolo a standard urbanistico posto su determinate aree. Al contrario, poiché la qualificazione come standard urbanistico è sempre collegata alla presenza di un interesse pubblico attuale, l’amministrazione può variare nel tempo le proprie valutazioni modificando la natura e la misura degli standard urbanistici esistenti sul territorio;
(d) gli accordi presi originariamente con i privati in sede di lottizzazione non impediscono quindi nuove scelte sugli standard urbanistici, ma, secondo i principi generali, occorre valutare se i cambiamenti incidano in modo tollerabile sulle situazioni consolidate e se il nuovo interesse pubblico sia stato correttamente individuato;
(e) nel caso in esame nessuna conseguenza negativa può derivare alla zona produttiva dalla perdita di 2.700 mq di verde pubblico, considerata l’abbondanza di aree a standard presenti. A sua volta la monetizzazione di tale superficie per l’acquisto di una struttura destinata a ospitare sale polivalenti (v. sopra al punto 4) corrisponde a valutazioni amministrative non solo ampiamente discrezionali ma, almeno in relazione ai dati disponibili, non manifestamente irragionevoli;
(f) il fatto che i lottizzanti non beneficino della monetizzazione non presenta alcun rilievo particolare, in quanto con la cessione i proprietari perdono ogni contatto con il bene (e con il valore che lo stesso acquista nel tempo) e mantengono soltanto un interesse qualificato a controllare che l’amministrazione ne faccia un uso non contrastante con la lottizzazione. Nello specifico peraltro, come si è visto ai punti precedenti, la sottrazione di una piccola porzione delle aree a standard non compromette la funzionalità e l’utilizzabilità degli edifici situati nella zona produttiva (TAR Lombardia-Brescia, sez. I, sentenza 31.01.2011 n. 193 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ANNO 2010

URBANISTICALa PA, nel procedere ad una pianificazione di recupero, può legittimamente richiedere gli standards necessari con riferimento alle preesistenze edilizie delle quali il piano prevede la conservazione.
In ordine alla prima e centrale questione, va condiviso l’orientamento del primo giudice in particolare ove ha posto in rilievo che contenere la dotazione degli “standards” a corredo del piano, rapportandola alle sole nuove edificazioni, costituirebbe una ingiustificata compressione del potere pianificatorio, soprattutto preclusiva di un miglioramento delle condizioni di vivibilità relativamente agli edifici preesistenti, realizzandosi così un aumento del deficit urbanistico del tutto contrario alla finalità stessa del piano di recupero.
Peraltro collima con questa interpretazione l’orientamento già espresso da questo Consiglio in merito, per il quale l’art. 22, comma terzo, della L.R. lombarda n. 51/1975, per la determinazione degli “standards” non si è riferito al volume fisico fuori terra degli edifici, bensì alla "capacità insediativa residenziale teorica" (Cons di Stato, sez. IV, n. 860/2007 e n. 797/1997); in tale concetto, e con riferimento ad un piano di recupero che per definizione vede ampia parte destinata alla conservazione immobiliare, risulta quindi del tutto logico che nella quantificazione degli “standards” minimi necessari si tenga conto di tutte le edificazioni che l’area può giuridicamente e nel complesso recepire e quindi necessariamente anche degli edifici preesistenti (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.11.2010 n. 7727 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Standard urbanistici - Principi - Concetto - Opere di urbanizzazione primaria - Dimensionamento - Imposizione di vincoli espropriativi - Attribuzione di cubatura su altri terreni.
In materia di standard urbanistici sono stati elaborati alcuni principi che si possono così riassumere:
(a) il concetto di standard urbanistico non deve essere definito formalisticamente ma si estende a qualunque servizio di interesse pubblico e generale, sia esso gestito dall’amministrazione o dai privati;
(b) gli standard urbanistici si distinguono dalle opere di urbanizzazione primaria in quanto rispetto all’infrastrutturazione di base sono qualcosa di aggiuntivo, che può essere considerato necessario solo in una visione urbanistica di qualità;
(c) per alcuni standard urbanistici sono fissate dalla legge regionale le misure minime, tuttavia ogni comune è autonomo nella scelta della misura complessiva;
(d) nel dimensionamento degli standard urbanistici si devono considerare anche eventuali flussi di utenza aggiuntivi rispetto a quelli della popolazione residente;
(e) qualora i servizi siano svolti da privati l’amministrazione deve assicurarne la destinazione pubblica attraverso convenzioni;
(f) qualora la previsione di standard urbanistici si traduca nell’imposizione di vincoli espropriativi è necessaria una valutazione economica relativa alla sostenibilità della spesa per gli indennizzi;
(g) in alternativa (o anche congiuntamente) agli indennizzi può essere utilizzata la perequazione urbanistica nella forma dell’attribuzione di cubatura su altri terreni (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 22.02.2010 n. 869 - link a www.ambientediritto.it).

ANNO 2009

URBANISTICA: Acquisto aree e deroga alla convenzione per opere di urbanizzazione.
E’ chiesto parere in merito alla possibilità, per il Comune, di acquisire le aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria, nell’ambito di un piano di lottizzazione, oltre il termine indicato nella convenzione (Regione Piemonte, parere n. 117/2009 - link a www.regione.piemonte.it).

URBANISTICA: 1. Piano di Recupero - Interessa l'area o l'immobile oggetto di intervento nella sua complessiva dimensione - Calcolo del peso insediativo - Va fatto sulla base dell'intervento nella sua globalità.
2. Piano di Recupero - Standards - Vanno parametrati su tutte le unità immobiliari comprese nel piano seppur preesistenti.

1. Il Piano di Recupero, in quanto assimilabile al piano particolareggiato, interessa l'area o l'immobile oggetto di intervento nella sua complessiva dimensione, di talché appare del tutto congruo tenere conto degli esiti e dei benefici complessivi derivanti dall'intervento e non soltanto dall'incremento di volumetria da esso determinato.
L'utilizzo dello specifico strumento finalizzato al recupero delle preesistenze degradate comporta la necessità di considerare -ai fini del calcolo del conseguente peso insediativo- il risultato finale dell'intervento nella sua globalità.
2. Anche nel caso di un piano di recupero avente ad oggetto una pluralità di edifici, gli standards debbono essere parametrati su tutte le unità immobiliari che siano comunque oggetto dell'intervento, pur se preesistenti (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 28.12.2009 n. 6223 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: 1. Standard - Costituisce una categoria aperta - Valutazioni di dettaglio per le realtà locali - Spettano alle Amministrazioni.
1.
Il concetto di standard costituisce una categoria aperta, per cui spetta alle amministrazioni il compito di svolgere valutazioni di dettaglio riferite alle singole realtà locali (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.12.2009 n. 6188 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Programma integrato di intervento - Finalità - Riqualificazione urbanistica - Concorso di risorse finanziarie pubbliche e private - Indici territoriali e disciplina degli standard.
Il Programma Integrato di Intervento presenta “la specifica finalità di riqualificare il tessuto urbanistico, edilizio ed ambientale del territorio e caratterizzato sia dalla presenza di una pluralità di funzioni, sia dall'integrazione di diverse tipologie di intervento, ivi comprese le opere di urbanizzazione, in una dimensione capace di incidere sulla riorganizzazione urbana e con il possibile concorso di risorse finanziarie pubbliche e private” (cfr. TAR Lombardia, Milano n. 5171/2009).
La scelta degli indici territoriali e la disciplina degli standard risponde, in tale ottica, alla necessità di trovare finanziamenti per riqualificare i quartieri e per realizzare le opere pubbliche, senza aggravare il costruttore al punto tale di farlo desistere dall’operazione.
Standard - Categoria aperta - Valutazioni di dettaglio - Amministrazioni locali - Riferimento alle realtà locali.
Il concetto di standard costituisce “una categoria aperta, per cui spetta alle amministrazioni il compito di svolgere valutazioni di dettaglio riferite alle singole realtà locali” (TAR Lombardia - sez. Brescia 15.12.2006 n. 1548) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.12.2009 n. 6188 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: 1. Programma integrato di intervento - Insufficienza delle aree a standard - Interesse alla censura - Sussiste in capo a chiunque vanti uno stabile collegamento con la zona - Monetizzazione degli standard e sua quantificazione - Interesse alla censura - Sussiste.
2. Programma integrato di intervento e sue varianti - Documento di Inquadramento delle politiche urbanistiche - Reperimento di aree per standard - Obbligo di introduzione di tutti gli standard - Non sussiste, una volta rispettata la dotazione minima - Monetizzazione dello standard qualitativo - Rappresenta scelta discrezionale, non sindacabile in sede giurisdizionale, salvo i profili di illogicità.
3. Programma integrato di intervento e sue varianti - Modifica della disciplina degli standard convenzionata - Monetizzazione - Tariffe applicabili - Sono quelle vigenti al momento della sottoscrizione della variante.
1. Nel caso di insufficienza delle aree a standard previste in un P.I.I., ogni residente ha interesse al rispetto delle disposizioni che prevedono l'introduzione degli standard, sempre con il limite del collegamento territoriale. Proprio per il miglioramento della vita, l'interesse sussiste anche rispetto alle censure in cui si contesta la scelta di monetizzare e la stessa quantificazione della monetizzazione: nell'ipotetica ipotesi di accoglimento del ricorso gli attuatori del progetto potrebbe scegliere di reperire più standard all'interno del perimetro, per ridurre le somme dovute, ovvero la maggior somma da versare sarebbe utilizzata poi per servizi ai cittadini.
2. Ove il Documento di Inquadramento delle politiche urbanistiche comunale prescriva che il PII deve assicurare il reperimento, preferibilmente all'interno dell'area di intervento, della quantità di aree per standard, disciplinando poi le forme alternative di assolvimento degli obblighi di dotazione degli standard, la scelta di non introdurre tutti gli standard all'interno della zona, pur essendovene la possibilità materiale, non viola i principi sopra citati, che sono privi di precettività, in quanto meramente orientativi ed espressamente compatibili con soluzioni alternative. Quindi, una volta rispettata la dotazione minima, la scelta di monetizzare o dello standard qualitativo si riconduce alla sfera della discrezionalità, non sindacabile in sede giurisdizionale, salvo i profili di illogicità.
3. In caso di variante a un P.I.I. che comporti la modifica della disciplina degli standard convenzionata, con la scelta di monetizzare tutte le aree non reperite all'interno del perimetro del PII, l'Amministrazione deve applicare le tariffe vigenti al momento della sottoscrizione della variante al P.I.I., in quanto l'obbligazione relativa alla monetizzazione è sorta al momento della sottoscrizione dell'atto che ha novato la convenzione, onde per tutte le aree deve essere applicata la tariffa vigente in quel momento (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.11.2009 n. 5171 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: 1. Programma integrato di intervento - Accordo di programma - Costituisce ex lege dichiarazione di pubblica utilità - Applicabilità art. 23 bis, L. T.A.R. - Sussiste.
2. Programma integrato di intervento - Interesse a impugnare gli atti pianificatori - Sussiste in capo a chiunque vanti uno stabile collegamento con la zona e risenta un relativo pregiudizio.
3. Programma integrato di intervento e sue varianti - Artt. 92 e 14, L.R. n. 12/2005 - Competenza della Giunta comunale - Sussiste, anche se non sia stato ancora adottato il PGT.
4. Programma integrato di intervento e sue varianti - Documento di Inquadramento delle politiche urbanistiche - Reperimento di aree per standard - Obbligo di introduzione di tutti gli standard - Non sussiste, una volta rispettata la dotazione minima - Monetizzazione dello standard qualitativo - Rappresenta scelta discrezionale, non sindacabile in sede giurisdizionale, salvo i profili di illogicità.

1. L'accordo di programma relativo a un P.I.I. costituisce ex lege dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza delle opere pubbliche previste dall'accordo stesso e, quindi, coinvolge tutte le aree interessate dal P.I.I., il quale, al fine di riqualificare il tessuto urbanistico, edilizio ed ambientale del territorio, prevede la realizzazione di opere pubbliche o di pubblica utilità, attraverso un insieme coordinato di interventi e risorse, pubblici e privati. Per tale ragione a tutte le impugnazioni degli atti, anche di quelli attuativi dell'Accordo deve applicarsi il rito speciale di cui all'art. 23-bis L. TAR.
2. Poiché la legittimazione a impugnare i titoli edilizi, da parte dei singoli proprietari degli immobili circostanti, discende dal semplice fatto del loro stabile collegamento con la nuova costruzione e dal relativo pregiudizio, si deve concludere per coerenza e nell'ottica del rispetto del diritto di difesa che a maggior ragione sussiste l'interesse ad impugnare gli atti pianificatori di una vasta zona, a chiunque vanti il medesimo stabile collegamento con detta zona e risenta un relativo pregiudizio.
3. In base al combinato disposto dell'art. 92 e dell'art. 14 della L.R. 12/2005, i P.I.I. e loro varianti, se conformi agli strumenti urbanistici comunali vigenti o adottati, rientrano nella competenza della Giunta, anche se non sia stato ancora adottato il PGT.
4. Ove il Documento di Inquadramento delle politiche urbanistiche comunale prescriva che il PII deve assicurare il reperimento, preferibilmente all'interno dell'area di intervento, della quantità di aree per standard, disciplinando poi le forme alternative di assolvimento degli obblighi di dotazione degli standard, la scelta di non introdurre tutti gli standard all'interno della zona, pur essendovene la possibilità materiale, non viola i principi sopra citati, che sono privi di precettività, in quanto meramente orientativi ed espressamente compatibili con soluzioni alternative.
Quindi, una volta rispettata la dotazione minima, la scelta di monetizzare o dello standard qualitativo si riconduce alla sfera della discrezionalità, non sindacabile in sede giurisdizionale, salvo i profili di illogicità (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.11.2009 n. 5170 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - URBANISTICA: Circa la possibilità di destinare l’importo di 500.000 euro, derivante dalla monetizzazione dello “standard qualitativo” di un Programma integrato di intervento, per la ristrutturazione e l’ampliamento di un immobile di proprietà della Fondazione Scuole Infanzia “A. Brioschi”, già istituzione di assistenza e beneficenza ex IPAB, ora persona giuridica di diritto privato senza scopo di lucro.
La legge regionale della Lombardia n. 12/2005, recependo la tradizionale legislazione nazionale di settore, stabilisce che il promotore di un intervento edilizio deve realizzare le opere di urbanizzazione primaria nella loro interezza ed una quota parte di quelle di urbanizzazione secondaria, precisando che, in ogni caso, il Comune conserva il diritto potestativo di richiedere il pagamento integrale degli oneri previsti dal piano attuativo, anziché la realizzazione diretta delle opere.

Recentemente, la Sezione si è occupata in modo analitico della distinzione fra opere di urbanizzazione primaria e secondaria e dei problemi di contabilizzazione delle stesse nei casi di scomputo, anche in relazione alla diversa funzione alla quale adempiono le une e le altre
. In quell’occasione si è precisato che le opere di urbanizzazione primaria e secondaria adempiono a diverse funzioni: “le une, rendono effettivamente edificabile l’area su cui sorgerà l’intervento edilizio, dotandola dei manufatti e dei servizi indispensabili per l’agibilità e la fruibilità di un fabbricato secondo la propria destinazione d’uso; le altre, concernono la comunità urbanizzata nel suo complesso per arricchirla di strutture e servizi che servono a scopi generali (asili, parchi, biblioteche, impianti sportivi etc.) e non attengono in modo specifico all’intervento edilizio, bensì alla generalità degli abitanti di un dato comprensorio”.
La diversità di funzione comporta l’infungibilità fra le due categorie di opere con la conseguenza che non è possibile procedere ad alcuna forma di “compensazione globale e indifferenziata fra le opere di urbanizzazione primaria e secondaria realizzate dal promotore dell’intervento edilizio” e che, pertanto, è necessario “che siano esattamente e distintamente determinati gli importi degli oneri di urbanizzazione a scomputo” rientranti nell’una e nell’altra categoria.
Pertanto,
nell’assunzione della decisione di destinare i proventi derivanti dalla monetizzazione “dello standard qualitativo” di un Programma integrato di intervento per la realizzazione dell’ampliamento, ristrutturazione e messa a norma dell’edificio che ospita la locale scuola dell’infanzia, il Comune deve tenere in conto la distinzione fra oneri connessi alle operazioni di urbanizzazione primaria e quelli da destinare ad opere di urbanizzazione secondaria e solamente la quota parte riferita a queste ultime potrà essere utilizzata a questo scopo.
In conclusione:
il Comune può procedere, nell'ambito della sua discrezionalità, ad effettuare erogazioni patrimoniali ad una Fondazione, già istituzione di assistenza e beneficenza ex IPAB, al fine di consentire la ristrutturazione e l'ampliamento dell'edificio di proprietà di quest'ultima, utilizzato quale unica scuola materna presente sul territorio.
A tale finalità può essere destinata la quota parte riferita alle opere di urbanizzazione secondaria dei proventi derivanti dalla monetizzazione “dello standard qualitativo” di un Programma integrato di intervento.
Da ultimo,
rientra nella discrezionalità del Comune chiedere il versamento degli oneri, acquisirli al bilancio comunale ed erogare il contributo alla Fondazione ovvero concordare con i proponente dell’intervento la realizzazione diretta delle opere, purché nella realizzazione dell'intervento venga applicata la disciplina posta dal Codice dei contratti pubblici.

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Il Sindaco del Comune di Grandate ha chiesto il parere della Sezione in relazione alla possibilità di destinare l’importo di 500.000 euro, derivante dalla monetizzazione dello “standard qualitativo” di un Programma integrato di intervento, per la ristrutturazione e l’ampliamento di un immobile di proprietà della Fondazione Scuole Infanzia “A. Brioschi”, già istituzione di assistenza e beneficenza ex IPAB, ora persona giuridica di diritto privato senza scopo di lucro (deliberazione n. 4.11.534 del 21.05.2001 della Regione Lombardia).
Al fine di chiarire meglio i termini della questione, il Comune ha precisato che l’edificio in questione ospita l’unica scuola dell’infanzia presente sul territorio comunale e svolge, pertanto, un servizio pubblico al quale, in caso di assenza dell’Ente, il Comune dovrebbe comunque provvedere.
E’ stato rilevato, altresì, che la popolazione residente nel Comune era pari a 2.922 abitanti alla data del 31.12.2007 e che dopo la privatizzazione la Fondazione aveva stipulato con il Comune una convenzione, secondo lo schema allegato alla legge regionale n. 8/1999, che prevede che il Comune concorra “alle spese di gestione ordinaria” della Scuola mediante versamento di un contributo annuale, da determinarsi sulla base del bilancio di Previsione e del Conto consuntivo dell’istituto e che in caso di estinzione dell’ente morale l’immobile di quest’ultimo venga devoluto al Comune, con vincolo di destinazione d’uso a Scuola Materna.
La richiesta di parere è originata dalla duplice circostanza che, da un lato, l’immobile necessiterebbe di interventi di ristrutturazione, ampliamento, a seguito dell’incremento degli alunni frequentanti, e di messa in sicurezza degli impianti, e, dall’altro, la Fondazione non disporrebbe dei fondi necessari per l’esecuzione.
Il Sindaco del Comune di Grandate conclude domandando se sia “ammissibile e legittima l’acquisizione ai fondi del bilancio comunale del contributo versato dal proponente, nell’ambito del Piano urbanistico integrato d’intervento, pari a euro 500.000,00 per la successiva erogazione dello stesso alla scuola materna, senza esecuzione diretta da parte del Comune dei lavori di ristrutturazione ed ampliamento della scuola dell’infanzia “A. Brioschi”, o in subordine se sia “ammissibile e legittima la realizzazione diretta, nei modi previsti dal D.gls. 163/2006 e successive modificazioni, da parte del promotore del Piano integrato di intervento, dell’intervento di ristrutturazione dell’immobile Fondazione scuola dell’infanzia “A. Brioschi”.
...
Passando all’esame del merito della richiesta proveniente dal Sindaco del Comune di Grandate, la Sezione rileva che la richiesta concerne la possibilità, in linea generale per il Comune di erogare un contributo ad una Fondazione che gestisce una Scuola dell’infanzia e, in linea particolare, se sia possibile destinare a questo scopo i proventi derivanti dalla monetizzazione dello “standard qualitativo” di un Programma integrato di intervento che il proponente sarebbe disponibile a destinare a scopi di interesse sociale, versandoli al Comune ovvero realizzando direttamente l’opera, nel rispetto delle prescrizioni contenute nel d.lgs. n. 163 del 2006.
La questione, nei suoi termini generali, è già stata esaminata da questa Sezione in numerose occasioni (per tutte, si rinvia al
parere 16.10.2008 n. 75, che contiene un’analitica indicazione anche di tutti i precedenti).
La possibilità di disciplinare i rapporti fra Amministrazione comunale e ente gestore di una scuola dell’infanzia mediante un’apposita convenzione è espressamente presa in considerazione dalla legge regionale 11.02.1999, n. 8 (Interventi regionali a sostegno del funzionamento delle scuole materne autonome) che detta alcune norme, specificando, in particolare, che l’intervento finanziario regionale “è distinto ed integrativo rispetto a quello comunale” (art. 1, co. 3). Dal che si evince, inequivocabilmente, che rientra fra i compiti propri del Comune anche quello di erogare contributi alle scuole materne non pubbliche al fine di assicurarne il funzionamento, come avviene nella pratica ed è espressamente riconosciuto dalla normativa contabile relativa agli enti territoriali che prevede all’interno del bilancio un’apposita Funzione (la IV).
Ed infatti, il Comune di Grandate ha rilevato che i rapporti con la Fondazione Scuola dell’Infanzia “A. Brioschi” sono disciplinati da una specifica convenzione che prevede l’obbligo del Comune di versare un contributo annuale diretto ad assicurare il funzionamento dell’ente.
Peraltro, come ha rilevato questa Sezione, non può essere trascurato che, a seguito della recente modifica del Titolo V, parte Seconda della Costituzione, in relazione alla necessaria attuazione del principio di sussidiarietà che ha trovato esplicito riconoscimento nel nuovo testo dell’art. 118 della Costituzione,
al Comune non può non essere riconosciuta la possibilità, in assenza di uno specifico divieto, di contribuire finanziariamente al funzionamento delle scuole dell’infanzia operanti sul suo territorio, anche con specifiche ed ulteriori forme di contribuzione.
Riprendendo quanto già espresso da questa Sezione occorre ribadire che
all’interno dell’ordinamento generale o nella disciplina di settore degli enti territoriali non esiste alcuna norma che ponga uno specifico divieto. Infatti, se l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune l’erogazione di un finanziamento non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo (Corte conti, sez. contr. Lombardia, parere 26.06.2006 n. 6). Nel caso di specie è indubitabile che fra le competenze comunali rientri quella di garantire l’effettuazione dl servizio di scuola dell’infanzia.
Inoltre,
la natura pubblica o privata del soggetto che riceve l’attribuzione patrimoniale è indifferente se il criterio di orientamento è quello della necessità che l’attribuzione avvenga allo scopo di perseguire i fini dell’ente pubblico, posto che la stessa amministrazione pubblica opera utilizzando, per molteplici finalità (gestione di servizi pubblici, esternalizzazione di compiti rientranti nelle attribuzioni di ciascun ente), soggetti aventi natura privata e nella stessa attività amministrativa è previsto dalla recente legge n. 15 del 2005, che ha modificato la legge che disciplina il procedimento amministrativo, che l’amministrazione agisca con gli strumenti del diritto privato ogniqualvolta non sia previsto l’obbligo di utilizzare quelli di diritto pubblico.
A maggior ragione, nel caso di specie nel quale è previsto che in caso di estinzione della Fondazione l’immobile venga acquisito al patrimonio comunale nulla osta a che il Comune di Grandate, nell’ambito della sua discrezionalità, decida di contribuire versando un importo destinato a contribuire ai costi necessari per la ristrutturazione, ampliamento e messa a norma dell’unico edifici o che ospita sul territorio comunale una scuola dell’infanzia.
La richiesta di parere, concerne anche, come si è visto, la possibilità, per raggiungere lo scopo messo in luce sopra, di utilizzare una specifica risorsa: il provento derivante dalla monetizzazione “dello standard qualitativo” di un Programma integrato di intervento che il proponente sarebbe disponibile a versare al Comune ovvero ad utilizzare per realizzare direttamente il lavoro sull’edificio della Fondazione.
Al riguardo, è evidente che
ferma la libertà dell’amministrazione comunale di adottare la scelta ritenuta più confacente all’interesse locale, nel rispetto della normativa generale e di settore, l’ente potrà utilizzare le considerazioni, di seguito svolte.
La legge regionale della Lombardia n. 12/2005, recependo la tradizionale legislazione nazionale di settore, stabilisce che il promotore di un intervento edilizio deve realizzare le opere di urbanizzazione primaria nella loro interezza ed una quota parte di quelle di urbanizzazione secondaria, precisando che, in ogni caso, il Comune conserva il diritto potestativo di richiedere il pagamento integrale degli oneri previsti dal piano attuativo, anziché la realizzazione diretta delle opere.
Recentemente, la Sezione si è occupata in modo analitico della distinzione fra opere di urbanizzazione primaria e secondaria e dei problemi di contabilizzazione delle stesse nei casi di scomputo, anche in relazione alla diversa funzione alla quale adempiono le une e le altre (
parere 15.09.2008 n. 66). In quell’occasione si è precisato che le opere di urbanizzazione primaria e secondaria adempiono a diverse funzioni: “le une, rendono effettivamente edificabile l’area su cui sorgerà l’intervento edilizio, dotandola dei manufatti e dei servizi indispensabili per l’agibilità e la fruibilità di un fabbricato secondo la propria destinazione d’uso; le altre, concernono la comunità urbanizzata nel suo complesso per arricchirla di strutture e servizi che servono a scopi generali (asili, parchi, biblioteche, impianti sportivi etc.) e non attengono in modo specifico all’intervento edilizio, bensì alla generalità degli abitanti di un dato comprensorio”.
La diversità di funzione comporta l’infungibilità fra le due categorie di opere con la conseguenza che non è possibile procedere ad alcuna forma di “compensazione globale e indifferenziata fra le opere di urbanizzazione primaria e secondaria realizzate dal promotore dell’intervento edilizio” e che, pertanto, è necessario “che siano esattamente e distintamente determinati gli importi degli oneri di urbanizzazione a scomputo” rientranti nell’una e nell’altra categoria.
Pertanto,
nell’assunzione della decisione di destinare i proventi derivanti dalla monetizzazione “dello standard qualitativo” di un Programma integrato di intervento per la realizzazione dell’ampliamento, ristrutturazione e messa a norma dell’edificio che ospita la locale scuola dell’infanzia, il Comune deve tenere in conto la distinzione fra oneri connessi alle operazioni di urbanizzazione primaria e quelli da destinare ad opere di urbanizzazione secondaria e solamente la quota parte riferita a queste ultime potrà essere utilizzata a questo scopo.
Come prevede la stessa disciplina contenuta nella legge regionale, rientra nella piena discrezionalità del Comune la decisione di richiedere il versamento degli oneri, acquisirli al bilancio comunale ed erogare il contributo alla Scuola ovvero concordare con i proponente dell’intervento la realizzazione diretta delle opere.
In entrambe i casi, il soggetto che realizzerà l’intervento di ampliamento, ristrutturazione e messa a norma dell’edificio dovrà applicare la disciplina posta dal Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 163 del 2006 e s.m.i.).
In conclusione:
il Comune può procedere, nell'ambito della sua discrezionalità, ad effettuare erogazioni patrimoniali ad una Fondazione, già istituzione di assistenza e beneficenza ex IPAB, al fine di consentire la ristrutturazione e l'ampliamento dell'edificio di proprietà di quest'ultima, utilizzato quale unica scuola materna presente sul territorio.
A tale finalità può essere destinata la quota parte riferita alle opere di urbanizzazione secondaria dei proventi derivanti dalla monetizzazione “dello standard qualitativo” di un Programma integrato di intervento.
Da ultimo,
rientra nella discrezionalità del Comune chiedere il versamento degli oneri, acquisirli al bilancio comunale ed erogare il contributo alla Fondazione ovvero concordare con i proponente dell’intervento la realizzazione diretta delle opere, purché nella realizzazione dell'intervento venga applicata la disciplina posta dal Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 163 del 2006 e s.m.i.) (
Corte dei Conti, Sez. regionale di controllo Lombardia, parere 06.02.2009 n. 24).

ANNO 2008

URBANISTICA: OGGETTO: Legge 24.12.2007, n. 244 - Art. 1, comma 258 - Interpretazione ed applicazione sulla pianificazione urbanistica comunale.
Il Comune, con riferimento a quanto stabilito dall’art. 1, comma 258, della legge 24.12.2007, n. 244 (Legge finanziaria 2008) il cui testo allega in copia, chiede un parere “relativamente alla possibilità di individuare, nelle aree a verde pubblico o a parcheggio, di cui al D.M. n. 1444/1968, aree definite come “ambiti” nei quali prevedere immobili da destinare ad edilizia residenziale sociale”.
Il Comune ritiene che tale norma “stabilisce i seguenti principi:
1. le aree definite come “ambiti” per la eventuale realizzazione di edilizia residenziale sociale devono essere considerate come standard urbanistico, ai sensi del D.M. n. 1444/1968;
2. la eventuale trasformazione di tali aree o “ambiti” in lotti edificabili per edilizia residenziale sociale avviene esclusivamente per cessione gratuita dell’area, da parte del proprietario;
3. in tali “ambiti” è inoltre possibile prevedere la realizzazione e fornitura di alloggi a canone calmierato, concordato e sociale, che rimangono in proprietà del soggetto realizzatore (pubblico o privato);
4. la realizzazione di opere edilizie in tali “ambiti” deve essere equiparata ad opera di urbanizzazione (secondaria) e pertanto esclusa dalle volumetrie realizzabili e disciplinate dal Piano Urbanistico Generale o Attuativo
” (Regione Marche, parere 24.07.2008 n. 93/2008).

URBANISTICASulla corretta interpretazione ed individuazione delle aree a standard da destinare a verde pubblico ed a parcheggio pubblico.
Il D.M. 02.04.1968, n. 1444, nel determinare e nell’individuare gli spazi pubblici riservati a verde pubblico ed a parcheggi, prevede espressamente all’art. 3, che tali spazi debbano essere “effettivamente utilizzabili”, “con esclusione di fasce verdi lungo le strade”.
In altri termini, gli spazi pubblici in questione debbono essere localizzati in modo tale da consentire una loro piena utilizzazione da parte della generalità degli utenti: cioè, per un verso, le aree destinate a verde pubblico attrezzato debbono avere una dimensione tale da poter essere proficuamente utilizzate dalla generalità degli utenti per il gioco e per lo sport e non debbono risolversi in “spazi di risulta” esclusivamente posti a servizio dei fabbricati, per altro verso le aree destinate a parcheggio pubblico debbono essere localizzate in modo tale da consentire alla generalità dei cittadini di accedervi (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 07.04.2008 n. 378 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ANNO 2007

URBANISTICA: A. Purcaro, Programmi integrati di intervento, standard di qualità ed obbligo di gara: spunti per una riflessione a margine della legge regionale urbanistica della Lombardia e del Codice dei contratti (09.06.2007 - tratto da www.bosettiegatti.eu).).

ANNO 2006

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Parcheggi pubblici ai sensi del DM n. 1444/1968.
Il Direttore generale del Consorzio per la industrializzazione delle valli del Tronto, dell’Aso e del Tesino (Piceno Consind) chiede se possono essere considerati parcheggi pubblici, ai sensi dell’art. 5 del D.M. 02.04.1968, n. 1444, anche i parcheggi interrati e in elevazione e, in tal caso, se “deve essere ceduta all’ente pubblico, dal soggetto proprietario, anche la relativa area di sedime (proiezione sul piano di campagna), qualora la stessa non sia destinata a standard pubblico” (Regione Marche, parere 03.11.2006 n. 9/2006).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICALa monetizzazione costituisce un’ obbligazione alternativa alla cessione da parte dei privati di aree che potrebbero risultare non utili ai fini dell’interesse pubblico.
Pertanto
tale entrata non può che essere classificata, secondo quanto previsto dal DPR 31.01.1996, n. 194, al titolo IV –Entrate derivanti da alienazioni, da trasferimenti di capitale e da riscossione di crediti– e, come tale, essere destinata al finanziamento di spese di investimento, ed in particolare ai sensi dell’art. 46, comma 1, lett. a), della legge regionale 11.03.2005, n. 12 alla realizzazione degli interventi previsti nel Piano dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di altre aree a destinazione pubblica.
Un’eventuale destinazione a spese correnti costituirebbe un manifesto depauperamento del patrimonio comunale, configurando un evidente pregiudizio alla sana gestione finanziaria dell’Ente Locale.
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Con nota n. 5416 del 16/12/2005 pervenuta a questa Sezione regionale di controllo il 20.12.2005 il sindaco del Comune di Castel Rozzone, dopo aver premesso che con l’entrata in vigore del TU in materia di edilizia approvato con DPR 06.06.2001 n. 380 è venuto meno il vincolo di destinazione dei proventi derivanti da contributi di costruzione, ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di considerare estensibile tale liberalizzazione anche ai proventi derivanti dalle monetizzazioni (compensazioni per la mancata cessione da parte dei privati di aree da destinare per attrezzature pubbliche e di interesse generale previste nei piani dei servizi) e cioè di poter attribuire alla piena discrezionalità dell’Amministrazione Comunale l’utilizzo di detti proventi che potranno essere, quindi, destinati al finanziamento di investimenti ovvero alla manutenzione del patrimonio comunale.
...
Questa Sezione con la richiamata deliberazione n. 1 del 04.11.2004 ha già avuto modo di pronunciarsi circa l’avvenuta cessazione del vincolo di destinazione delle entrate provenienti dai contributi di costruzione in conseguenza dell’entrata in vigore del DPR 380/2001.
Va peraltro segnalato che la normativa vigente all’atto dell’adozione della citata deliberazione è stata successivamente modificata dall’art. 1, comma 43, della legge 30.12.2004 n. 311 che ha posto un nuovo limite alla destinazione dei contributi di costruzione al finanziamento della spesa corrente fissato al 75% per l’anno 2005 e al 50% per il 2006.
Occorre tuttavia osservare che mentre il contributo di costruzione risulta un provento connesso al rilascio del permesso di costruire commisurato, secondo quanto disposto dall’art. 16 DPR 380/01, a tariffe determinate dal Consiglio Comunale i proventi della monetizzazione trovano fondamento nelle convenzioni che consentono a soggetti privati obbligati a cedere la proprietà di aree a favore dei Comuni di corrispondere, in alternativa totale o parziale, una somma commisurata all’utilità economica conseguita per effetto della mancata cessione e comunque non superiore al costo di acquisto di altre aree avente analoghe caratteristiche.
La monetizzazione costituisce un’ obbligazione alternativa alla cessione da parte dei privati di aree che potrebbero risultare non utili ai fini dell’interesse pubblico.
Pertanto
tale entrata non può che essere classificata, secondo quanto previsto dal DPR 31.01.1996, n. 194, al titolo IV –Entrate derivanti da alienazioni, da trasferimenti di capitale e da riscossione di crediti– e, come tale, essere destinata al finanziamento di spese di investimento, ed in particolare ai sensi dell’art. 46, comma 1, lett. a), della legge regionale 11.03.2005, n. 12 alla realizzazione degli interventi previsti nel Piano dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di altre aree a destinazione pubblica.
Un’eventuale destinazione a spese correnti costituirebbe un manifesto depauperamento del patrimonio comunale, configurando un evidente pregiudizio alla sana gestione finanziaria dell’Ente Locale (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 26.06.2006 n. 6).

ANNO 2004

URBANISTICA: I terreni acquisiti dal Comune, nell’ambito di un piano di lottizzazione, quale corrispettivo della concessione edilizia, per la esecuzione di opere di urbanizzazione, sono sempre suscettibili di subire le modificazioni di destinazione che il Comune ritiene ad essi di imprimere, per cui, per tale motivo, non può riconoscersi all’originario proprietario dei terreni ceduti il diritto alla retrocessione.
Per giurisprudenza costante, i terreni acquisiti dal Comune, nell’ambito di un piano di lottizzazione, quale corrispettivo della concessione edilizia, per la esecuzione di opere di urbanizzazione, sono sempre suscettibili di subire le modificazioni di destinazione che il Comune ritiene ad essi di imprimere (Corte di Cassazione civ., sez. II, 28.08.2000, n. 11208), per cui, per tale motivo, non può riconoscersi all’originario proprietario dei terreni ceduti il diritto alla retrocessione (nella specie, peraltro, si tratta pur sempre di destinazioni per interessi pubblici).
Se ciò vale per i lotti A e B ceduti al Comune in attuazione di convenzione di lottizzazione, per quanto riguarda i lotti C e D v’è da osservare che la situazione è diversa, ricadenti essi, come detto nel PIP.
Per quanto riguarda il lotto C, acquisito nell’ambito di procedura espropriativa e destinato a verde pubblico mai realizzato, il Comune lo ha escluso dall’impugnato atto di vendita, prevedendo la possibilità della sua retrocessione; per quanto riguarda, invece, il lotto D, esso faceva parte di un lotto più ampio assegnato ad un’industria insediatasi e destinato a parcheggio, ma poi riacquistato dal Comune a seguito di permuta con altra area, per cui, nella specie, non si è verificato il presupposto della retrocessione, consistente nella mancata esecuzione dell’opera pubblica.
Con l’atto impugnato, inoltre, il Comune procede all’assegnazione mediante vendita dei tre lotti di cui si chiede la retrocessione per consentire insediamenti produttivi, e, quindi, pur sempre per finalità di pubblico interesse, nella specie legittima e consentita in base alle nuove destinazioni urbanistiche impresse ai terreni in questione, non impugnate dai ricorrenti (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 16.07.2004 n. 835 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ANNO 2003

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAGli spazi di cui al D.M. 02.04.1968 sono aggiuntivi e non sostitutivi di quelli imposti dall'art. 18 della legge 06.08.1967 n. 675 (la cui misura è stata successivamente modificata dalla legge n. 112/1989) commisurati a 1 mq. ogni 10 mc. di edificio.
Infatti, mentre i primi sono disciplinati dall'art. 41-quinquies, ottavo comma, i secondi sono previsti dall'art. 41-sexies della l. 17.08.1942 n. 1150.
Mentre quelli di cui alla prima disposizione sono qualificati come aree pubbliche da conteggiarsi ai fini della dotazione di "standard", i parcheggi di cui al successivo art. 41-sexies sono qualificati come aree private pertinenziali alle nuove costruzioni, di guisa che l'art. 3, comma 2, lett. d), del D.M. 02.04.1968 espressamente li esclude dal computo nel calcolo della misura degli "standard".
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In relazione alla c.d. monetizzazione degli standard, occorre richiamare l'art. 12, lett. a), della legge regionale 05.12.1977 n. 60, il quale stabilisce che, qualora l'acquisizione delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria e per le attrezzature pubbliche e di uso pubblico "non venga ritenuta opportuna dal comune in relazione alla loro estensione, conformazione o localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa totale o parziale della cessione, che all'atto della stipula i lottizzanti corrispondano al comune una somma commisurata all'utilità economica conseguita per effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al costo dell'acquisizione di altre aree".
La legislazione regionale àncora la monetizzazione a precisi presupposti, considerato che la monetizzazione presuppone comunque un'offerta di aree, restando in facoltà del Comune disporne la commutazione sulla base di un apprezzamento complesso, che investe: da un lato l'idoneità o meno delle aree offerte, in funzione dell'uso pubblico cui verrebbero destinate; dall'altro, la possibilità di acquisire aree alternative (monetizzazione a carico del lottizzante) per mantenere invariato il livello di dotazione standard richiesto dal piano regolatore (livello che non può comunque scendere al di sotto del minimo legale).
Si tratta, dunque di una facoltà discrezionale del Comune, non di un diritto del privato, il quale non può ritenersi esente dall'onere di individuare le aree da computare in quota standard.

Infine, va disattesa la contestazione relativa agli spazi per parcheggi.
Il D.M. 02.04.1968, emesso in attuazione dell'art. 41-quinquies, comma ottavo e nono della l. 17.08.1942 n. 1150 (come introdotto dall'art. 17 della l. 06.08.1967 n. 765), disciplina i cosiddetti standard urbanistici ed edilizi.
In particolare, per quanto in questa sede interessa, l'art. 5 di tale Decreto individua i rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti produttivi e gli spazi pubblici destinati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi, prescrivendo che:
1) nei nuovi insediamenti di carattere industriale o ad essi assimilabili compresi nelle zone D) la superficie da destinare a spazi pubblici o destinata ad attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi (escluse le sedi viarie) non può essere inferiore al 10% dell'intera superficie destinata a tali insediamenti;
2) nei nuovi insediamenti di carattere commerciale e direzionale, a 100 mq. di superficie lorda di pavimento di edifici previsti, deve corrispondere la quantità minima di 80 mq. di spazio, escluse le sedi viarie, di cui almeno la metà destinata a parcheggi (in aggiunta a quelli di cui all'art. 18 della legge n. 765); tale quantità, per le zone A) e B) è ridotta alla metà, purché siano previste adeguate attrezzature integrative.
Va chiarito che gli spazi di cui al cit. D.M. sono aggiuntivi e non sostitutivi di quelli imposti dall'art. 18 della legge 06.08.1967 n. 675 (la cui misura è stata successivamente modificata dalla legge n. 112/1989) commisurati a 1 mq. ogni 10 mc. di edificio.
Infatti, mentre i primi sono disciplinati dall'art. 41-quinquies, ottavo comma, i secondi sono previsti dall'art. 41-sexies della l. 17.08.1942 n. 1150.
Mentre quelli di cui alla prima disposizione sono qualificati come aree pubbliche da conteggiarsi ai fini della dotazione di "standard", i parcheggi di cui al successivo art. 41-sexies sono qualificati come aree private pertinenziali alle nuove costruzioni, di guisa che l'art. 3, comma 2, lett. d), del D.M. 02.04.1968 espressamente li esclude dal computo nel calcolo della misura degli "standard".
Nella regione Lombardia, l'art. 22 della legge regionale n. 51 del 15.04.1975 ha previsto che "la dotazione minima di standard funzionali ai nuovi insediamenti di carattere commerciale - stabilita dall'art. 5 del D.M. n. 1444 in misura dell'80% della superficie lorda di pavimento è elevata al 100%. Di tali aree almeno la metà dovrà essere destinata a parcheggi di uso pubblico".
È evidente la ratio di tali disposizioni: dato che i centri commerciali richiamano un elevato numero di consumatori è necessario -al fine di evitare disfunzioni e pericoli alla circolazione stradale e turbative alle proprietà che potrebbero essere causate dall'ingente numero di veicoli che in tali luoghi affluiscono- predisporre in loco un congruo numero di spazi destinati al parcheggio.
In relazione alla c.d. monetizzazione degli standard, occorre richiamare l'art. 12, lett. a), della legge regionale 05.12.1977 n. 60, il quale stabilisce che, qualora l'acquisizione delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria e per le attrezzature pubbliche e di uso pubblico "non venga ritenuta opportuna dal comune in relazione alla loro estensione, conformazione o localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa totale o parziale della cessione, che all'atto della stipula i lottizzanti corrispondano al comune una somma commisurata all'utilità economica conseguita per effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al costo dell'acquisizione di altre aree".
La legislazione regionale àncora la monetizzazione a precisi presupposti, considerato che la monetizzazione presuppone comunque un'offerta di aree, restando in facoltà del Comune disporne la commutazione sulla base di un apprezzamento complesso, che investe: da un lato l'idoneità o meno delle aree offerte, in funzione dell'uso pubblico cui verrebbero destinate; dall'altro, la possibilità di acquisire aree alternative (monetizzazione a carico del lottizzante) per mantenere invariato il livello di dotazione standard richiesto dal piano regolatore (livello che non può comunque scendere al di sotto del minimo legale).
Si tratta, dunque di una facoltà discrezionale del Comune, non di un diritto del privato, il quale non può ritenersi esente dall'onere di individuare le aree da computare in quota standard.
Si comprende, quindi, che la Giunta regionale là dove ha affermato la palese inopportunità della disposta monetizzazione ha utilizzato detto termine in senso improprio, avendo inteso, in realtà, censurare sotto il profilo della legittimità la mancanza dei presupposti nella specie per addivenirsi alla monetizzazione, derivante dalla mancata individuazione, da parte del Comune, in altre zone del proprio territorio, di aree idonee ad integrare le superfici a standard indotte dall’intervento in questione
(TAR Lombardia-Brescia, sentenza 23.06.2003 n. 870).

ANNO 2002

URBANISTICA: Con la convenzione di P.L. il Comune non può riservarsi di attribuire una diversa destinazione urbanistica all'area standard che il lottizzante gli cede gratuitamente una volta realizzate le opere di urbanizzazione, poiché se davvero facesse venir meno la funzione originaria dell'area la stessa cessione gratuita, pretesa dall'Ente, verrebbe addirittura a mancare di causa e, come, tale sarebbe persino nulla.
... i lottizzanti si obbligavano a cedere gratuitamente, entro dodici mesi dalla data del collaudo delle opere di urbanizzazione, aree per strade, per verde e per parcheggi.
Con nota 26.03.1994 il Comune comunicava ai lottizzanti l’avvenuta approvazione del collaudo, invitandoli nel contempo a dare corso alle formalità necessarie per procedere alla stipula dei rogiti di cessione delle aree standard.
I Signori Granelli non vi provvedevano neppure a seguito di diffida scritta comunicata in data 25.09.1995.
Successivamente il Comune adottava una variante al P.R.G., approvata poi il 25.03.1998, e l’area in questione dei Signori Granelli da zona a verde pubblico veniva classificata come D1 – produttiva di completamento.
Perciò la Società Energy Recuperator S.r.l., acquirente dai richiamati signori, in data 11.06.1998 chiedeva il rilascio di concessione edilizia per la realizzazione di un magazzino al servizio di attività produttiva.
A detta istanza veniva opposto il provvedimento 10.09.1998 n. 10843 contenente un diniego, fondato sulla circostanza che il titolo di proprietà fosse mancante di legittimità, essendo stata prevista la cessione gratuita al Comune del terreno cui la stessa faceva riferimento.
Come si legge nell’art. 28 della L. n. 1150/1942, la cessione di aree a standard si giustifica all’interno e in ragione della lottizzazione di aree.
Ma nel caso di specie, con la diversa destinazione urbanistica –D1 produttiva di completamento- attribuita alla zona per effetto di variante al P.R.G., si è determinata una riespansione delle potenzialità edificatorie dell’area considerata.
Venuta meno la funzione di standard del terreno, la cessione gratuita dello stesso, pretesa dall’Amministrazione comunale, è manchevole di causa e, come tale, nulla (TAR Lombardia-Brescia, sentenza 27.02.2002 n. 366).
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ATTENZIONE: in Internet gira una bozza di convenzione urbanistica, per l'attuazione di Piani Attuativi, conforme alle disposizioni del D.Lgs. n. 163/2006 in merito alla procedura di gara pubblica da osservare per lo scomputo delle opere di urbanizzazione da realizzare.
Tuttavia, l'articolato di tale bozza contiene un comma che, alla luce della sentenza sopra menzionata, risulta essere illegittimo il quale così recita:
"4. La cessione delle aree (ed eventualmente aggiungere «e l’asservimento all’uso pubblico») è fatta senza alcuna riserva per cui sulle stesse il Comune non ha alcun vincolo di mantenimento della destinazione e della proprietà pubblica attribuite con il piano attuativo e con la convenzione; esso può rimuovere o modificare la destinazione e la proprietà nell’ambito del proprio potere discrezionale di pianificazione e di interesse patrimoniale, senza che i proponenti possano opporre alcun diritto o altre pretese di sorta.".
Quindi, fate attenzione a non inserire in convenzione la suddetta disposizione !! (12.04.2010)