dossier PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI
(aree a standard E standard qualitativo) |
ANNO 2022 |
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EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Standard edilizi, al vaglio di costituzionalità la deroga «senza
limiti» introdotta dal decreto "Fare".
Il Consiglio di Stato rimette alla Consulta l'articolo 2-bis del testo unico
edilizia introdotto dal Dl n. 69/2013.
Al vaglio di costituzionalità la possibilità di disapplicare le norme del
decreto ministeriale 1444 sugli standard, in seguito alla norma prevista del
decreto legge n. 69 del 2013 (cosiddetto decreto "fare") che ha aggiunto
l'articolo 2-bis al testo unico edilizia.
Lo ha deciso la IV Sez. del Consiglio di Stato con l'ordinanza 17.03.2022 n. 1949
di rimessione alla Consulta.
La norma innovativa del Testo unico è stata concepita con l'obiettivo di
superare la rigida applicazione degli standard edilizi -incluso il rispetto
delle distanze minime tra gli edifici- che rappresentano una necessaria
tutela nei contesti urbani di espansione edilizia ma allo stesso tempo un
forte vincolo in quelli in cui si interviene sul costruito.
All'epoca, il governo Letta ha voluto dare una risposta alle pressanti
sollecitazioni degli operatori varando il decreto legge "fare" con
molte altre norme di snellimento procedurale e normativo, sia in materia di
amministrazione pubblica/urbanistica, sia in materia di gare e lavori
pubblici.
Nel corposo e variegato Dl n. 69/2013, approvato nel giugno 2013, ha trovato
spazio anche il nuovo articolo 2-bis inserito nel Dpr 380/2001, secondo il
quale «ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento
civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del
codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province
autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e
regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori
pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da
destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli
riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito
della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a
un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali».
Il punto controverso
Il punto controverso -va sottolineato- non è quello del rispetto dei limiti
minimi sulle distanze, sul quale la Corte Costituzionale si è già
pronunciata confermando l'obbligo di rispettare i principi statali,
riconosciuti come «inderogabili in quanto afferenti alla materia
dell'ordinamento civile», e in quanto tali di esclusiva competenza
statale.
In questo caso, la questione controversa resta nell'ambito del governo del
territorio, materia di legislazione concorrente, che dà potere di legiferare
alla Regione, nel rispetto delle norme di principio fissate dallo Stato. La
Lombardia è tra le regioni che ha previsto la disapplicazione della
dotazione di standard indicata nel Dm 1444 (salvo, come detto, per quanto
riguarda i limiti sulle distanze), con una norma inserita nella legge
regionale 12/2005 (articolo 103, comma 1-bis).
Il caso oggetto del contenzioso ha messo in evidenza quello che, visto dalla
prospettiva dei giudici, è apparso una sorta di vulnus, tale da mettere la
norma statale a rischio di anticostituzionalità.
Il "vulnus" che apre al rischio di
incostituzionalità
Il motivo, spiegano i giudici della Quarta Sezione di Palazzo Spada, è che
la norma introdotta nel 2013, «intervenendo in materia di competenza
concorrente senza porre alcun confine di principio al potere di deroga
attribuito a tutte le regioni rispetto alle preesistenti norme statali,
senza assolvere alla funzione propria attribuita dalla Costituzione allo
Stato di individuare i principi, così rendendo certamente possibili
legislazioni regionali molto diverse tra di loro, contrasterebbe con l'art.
117, terzo comma» della Costituzione.
La disapplicazione degli standard, come operata dalla regione Lombardia,
lascia infatti aperta la possibilità di prevedere un diverso valore degli
standard sia inferiore ai limiti del Dm 1444, sia superiore. Di fatto,
questo si traduce nella possibilità di «poter arrivare ad annullarne la
previsione, in violazione dell'articolo 117, secondo comma, lett. m), della
Costituzione sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto
il territorio nazionale».
Nel caso specifico, relativo a quello di un comune della Lombardia,
l'appellante ha prospettato due possibilità in egual misura paradossali, in
quanto il comune potrebbe in teoria ridurre lo standard all'1%, violando il
precetto della buona amministrazione, sia, all'opposto, imporre uno standard
del 99%, «determinando una situazione para-espropriativa».
Si torna alla legge del 1942
La prospettiva di una tale deregulation -cui corrisponde una potenziale
evidente difformità di trattamento sul territorio- spinge il ragionamento
dei giudici a tornare alla norma statale di riferimento, cioè la legge
urbanistica del '42.
«Può dunque ritenersi -si legge nell'ordinanza al punto 9.3- posto che
nella materia del governo del territorio le leggi regionali debbano
rispettare le norme di principio della legislazione statale, che il nono
comma dell'articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942 esprima l'esigenza
che le dotazioni di spazi pubblici, infrastrutture, servizi etc. rispondano
a criteri di definizione omogenei su tutto il territorio nazionale, non
essendo costituzionalmente ammissibile che possano esservi discrasie anche
vistose tra Regione e Regione, in virtù dei diversi rapporti e
parametri liberamente individuabili dalle diverse legislazioni regionali».
È pertanto inaccettabile -prosegue il ragionamento dei giudici- che la
modifica introdotta nel Testo Unico cancelli la «necessità di assicurare
una quota minima di infrastrutture e aree per servizi pubblici che sia la
stessa sull'intero territorio nazionale».
Lo stato fissi i limiti, alle regioni la scelta di
rafforzarli
L'ordinanza conclude richiamando l'importanza del ruolo del legislatore
nazionale.
«In definitiva -si legge al punto 10.1 dell'ordinanza- pur in un quadro
costituzionale e legislativo caratterizzato dai principi di sussidiarietà
verticale e di prossimità territoriale, in ragione dei quali la regolazione
dell'assetto del territorio è rimessa quanto più possibile ai livelli di
governo più vicini alle comunità di riferimento, deve ritenersi che la
determinazione delle dotazioni infrastrutturali pubbliche o di interesse
generale resti riservata al legislatore statale, in quanto ragionevolmente
riconducibile all'ambito delle prestazioni concernenti diritti civili e
sociali; in tale prospettiva, al legislatore statale spetta non soltanto
individuare i principi fondamentali della materia, sibbene fissare i livelli
minimi delle predette prestazioni, rispetto ai quali le normative regionali
potrebbero intervenire esclusivamente in senso "rafforzativo"».
«Ciò peraltro -ci tengono a chiarire i giudici- non comporta la totale
obliterazione delle competenze legislative regionali, atteso che altro è la
determinazione di livelli essenziali (minimi), altro la regolamentazione,
tanto in termini quantitativi che qualitativi, delle dotazioni di standard,
rispetto alla quale ultima –una volta garantito il rispetto della normativa
statale vigente– la competenza regionale (che dovrebbe comunque ritenersi,
ratione materiae, comunque di tipo concorrente) potrebbe tornare in gioco».
Le conseguenze dell'incostituzionalità
Cosa succede se la Corte Costituzionale dovesse dichiarare incostituzionale
l'articolo 2-bis del 380?
Nel caso specifico l'illegittimità costituzionale travolgerebbe
inevitabilmente anche la norma della regione Lombardia (e cioè l'articolo
103, comma 1-bis, della legge 12/2005): «la disposizione -si legge
nell'ordinanza- andrebbe a sua volta dichiarata incostituzionale in via
consequenziale». La parola passa alla Consulta
(articolo NT+Enti Locali & Edilizia del 18.03.2022). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Alla
Corte costituzionale le deroghe in materia di limiti di distanza tra
fabbricati.
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Edilizia - Distanze – D.M. n. 1444 del 1968 - livelli essenziali delle
prestazioni – Deroghe delle Regioni – Art. 2-bis, comma 1, d.P.R. n. 380 del
2001 – Questione di legittimità costituzionale.
Sono rilevanti e non manifestamente infondate le
questioni di legittimità costituzionale relative:
a) all’art. 2-bis, comma 1, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, come
introdotto dal d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla
l. 09.08.2013, n. 98, per violazione degli artt. 3 e 117, terzo comma, Cost.;
b) all’art. 2-bis, comma 1, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, come
introdotto dal d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla
l. 09.08.2013, n. 98, per violazione dell’art. 117, terzo comma, lettere m)
ed s), Cost.;
c) all’art. 103, comma 1-bis, l.reg. Lombardia 11.03.2005, n. 12,
come introdotto dalla l.reg. 14.03.2008, n. 4, e successivamente modificato
dalla l.reg. 26.11.2019, n. 18, per violazione dell’art. 117, secondo comma,
lettere m) ed s), e terzo comma, Cost. (1).
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(1) La questione di legittimità costituzionale sollevata
dall’appellante riposa sul presupposto per cui l’art. 2-bis, comma 1, d.P.R.
06.06.2001, n. 380 autorizzerebbe le Regioni ad emanare una legislazione
derogatoria rispetto al d.m. n. 1444 del 1968 in materia di dotazione delle
aree a standard fino a poter arrivare ad annullarne la previsione, in
violazione dell’art. 117, secondo comma, lett. m), della Costituzione sulla
determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio
nazionale.
La Sezione ha esaminato la possibilità di una lettura costituzionalmente
orientata della norma statale, tale da far venir meno il dovere di
rimessione della questione alla Corte costituzionale. Una prima possibile
interpretazione poggia sul rilievo che le regole cogenti del d.m. n. 1444
del 1968 si riespanderebbero in caso di mancato esercizio da parte delle
Regioni della facoltà di deroga riconosciuta dall’articolo 2-bis; una
seconda interpretazione prospetta la possibilità di interpretare la norma
nel senso di far salvi in ogni caso i limiti inderogabili stabiliti dal d.m.
Tuttavia, di queste due letture la prima non è idonea a far venir meno la
possibile illegittimità costituzionale della disposizione: il fatto che la “cedevolezza”
delle previsioni del d.m. sia solo potenziale, dipendendo dal concreto
esercizio da parte delle Regioni della facoltà di deroga, non fa venir meno
il vulnus a quella che dovrebbe essere, in thesi, la loro
inderogabilità da parte del legislatore regionale.
Quanto alla seconda ipotesi, questa si risolve –in sostanza- nel far dire
alla norma regionale qualcosa che la stessa espressamente non afferma, sulla
base di un’argomentazione ermeneutica “additiva” che non trova
aggancio nel dato testuale. Peraltro, malgrado un dubbio interpretativo
possa forse essere ingenerato dal successivo comma 1-bis dell’articolo in
esame, introdotto dal più recente d.l. 18.04.2019, n. 32, convertito, con
modificazioni, dalla legge 14.06.2019, n. 55, secondo cui le disposizioni
del comma 1 “sono finalizzate a orientare i comuni nella definizione di
limiti di densità edilizia, altezza e distanza dei fabbricati negli ambiti
urbani consolidati del proprio territorio”, il tenore testuale del comma
1 rimane inequivoco nel ricollegare il potere di deroga al d.m. n. 1444/1968
alla possibilità riconosciuta alle Regioni e alle Province autonome di “dettare
disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a
quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e
ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti
urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di
specifiche aree territoriali”.
Pertanto, nonostante il quanto mai infelice e poco perspicuo dato testuale,
non sembra dubitabile che la finalità della previsione sia quella di
autorizzare una deroga a tutti i parametri e criteri contenuti nel d.m. n.
1444/1968, e non solo a taluni di essi (ciò che peraltro è confermato dai
plurimi interventi legislativi, come quello qui all’attenzione, con cui le
Regioni si sono avvalse di tale facoltà).
La Sezione ha ipotizzato che la norma statale di principio sia da rivenirsi
nel già citato articolo 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942,
introdotto dalla legge n. 765 del 1967, il quale –come è noto- costituisce
la fonte di derivazione del d.m. n. 1444 del 1968, imponendo agli strumenti
urbanistici generali il rispetto di parametri e limiti definiti
espressamente “inderogabili”.
Ha ancora chiarito la Sezione che posto che nella materia del governo del
territorio le leggi regionali debbano rispettare le norme di principio della
legislazione statale, che il nono comma dell’articolo 41-quinquies della
legge n. 1150/1942 esprima l’esigenza che le dotazioni di spazi pubblici,
infrastrutture, servizi etc. rispondano a criteri di definizione omogenei su
tutto il territorio nazionale, non essendo costituzionalmente ammissibile
che possano esservi discrasie anche vistose tra Regione e Regione, in virtù
dei diversi rapporti e parametri liberamente individuabili dalle diverse
legislazioni regionali.
Tale però sembra essere il risultato dell’applicazione dell’articolo 2-bis
del d.P.R. n. 380/2001, come inserito dal decreto-legge 21.06.2013, n. 69,
convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98, il quale,
autorizzando le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano a “prevedere,
con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del
Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444”, produce l’effetto di
“neutralizzare” il carattere cogente delle anzi dette disposizioni
dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942 e delle disposizioni
regolamentari che ne discendono. 9.4.
Tuttavia, anche a voler ritenere che con la novella del 2013 al T.U.
dell’edilizia il legislatore statale abbia inteso perseguire una deliberata
ratio di abrogazione implicita dei commi ottavo e nono dell’articolo
41-quinquies della legge n. 1150/1942, tale operazione appare di dubbia
compatibilità con il quadro costituzionale sopra delineato, in quanto si
risolve in una sostanziale abdicazione dalla fissazione di parametri e
criteri generali, cui pure il legislatore statale sarebbe chiamato in
materia di competenza concorrente, in modo da consentire a ciascuna Regione
di dettare regole autonome e disomogenee in materia di dimensionamento delle
aree a destinazione residenziale, degli spazi pubblici, delle
infrastrutture, del verde pubblico etc.
Ciò peraltro comporta effetti discriminatori, rilevanti sotto il profilo
della violazione dell’articolo 3 della Costituzione, nella misura in cui,
obliterando l’esigenza di fissazione di criteri omogenei e uniformi a suo
tempo espressa dai commi ottavo e nono dell’articolo 41-quinquies della
legge n. 1150/1942, finisce per incidere sul regime proprietario dei suoli,
che –come puntualmente dedotto dal Fallimento nel presente giudizio- risulta
potenzialmente assoggettato a regole differenti nelle diverse Regioni pur in
relazione ad aree avente identica destinazione urbanistica e ad interventi
edilizi rientranti nella medesima tipologia. Sul possibile contrasto con
l’articolo 117, comma secondo, lettere m) ed s), della Costituzione
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
ordinanza 17.03.2022 n. 1949 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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ORDINANZA
... per la riforma della
sentenza
20.04.2020 n. 654 del Tar per la Lombardia, sede di Milano,
sezione seconda.
...
La fase pregressa del giudizio.
1. La presente controversia concerne la disciplina urbanistica -prevista dal
Piano di Governo del Territorio (d’ora in poi “PGT”) approvato dal Comune di
Villasanta nel 2019– di un’ampia area di proprietà del Fallimento Lo.Pe.
S.r.l., in liquidazione (d’ora in poi “Fallimento”), facente parte
della porzione sud del territorio comunale, occupata da insediamenti
produttivi dismessi o sottoutilizzati, tra i quali la raffineria di
petrolio, per i quali il piano prevede la reindustrializzazione moderna,
ampliata a funzioni “mixitè”, cioè a esercizi commerciali di
vicinato, esercizi pubblici, artigianato e terziario.
1.1. Il Fallimento ha proposto appello, per le parti che lo hanno visto
soccombente, avverso la sentenza del Tar per la Lombardia n. 654 del
20.04.2020, la quale:
a) ha dichiarato inammissibile per carenza di interesse il ricorso
proposto dal Fallimento stesso avverso la ridetta disciplina urbanistica,
nella parte relativa all’impugnazione della determinazione provinciale n.
145 del 30.01.2019, contenente il parere della Provincia di Monza e Brianza;
b) ha accolto parzialmente lo stesso ricorso, nella parte relativa
all’impugnazione del PGT del Comune di Villasanta rispetto alle aree
standard.
1.2. Il Comune si è costituito in giudizio per resistere all’appello ed ha
proposto appello incidentale, con il quale ha criticato la statuizione del
primo giudice che ha ritenuto illegittima, per difetto di motivazione, la
previsione di uno standard pari al 55% della superficie del compendio,
notevolmente superiore al limite minimo del 10%, individuato per le aree
destinate ad insediamenti industriali o assimilati dall’articolo 5 del d.m.
n. 1444 del 02.04.1968.
In particolare, e per quanto qui d’interesse, la tesi del Comune può così
riassumersi:
a) l’articolo 103, comma 1-bis, della legge regionale della
Lombardia 11.03.2005, n. 12, salvo che per i limiti inderogabili sulle
distanze, ha disposto la disapplicazione delle norme del d.m. n. 1444 del
1968 per i PGT adeguati alle disposizioni dell’articolo 26, commi 2 e 3,
della stessa legge regionale;
b) la disposizione è conforme al principio previsto dall’articolo
2-bis del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il quale accorda a leggi e regolamenti
regionali la possibilità di derogare alle prescrizioni del suddetto d.m. n.
1444/1968, “con particolare riguardo a quelle in materia di spazi da
destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli
riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi”, e dunque
agli standards;
c) il principio statale ha trovato applicazione nell’articolo 9,
comma 3, della stessa legge regionale, il quale ha fissato il limite minimo
della dotazione standard per la zona destinata a “residenza” a 18 mq
per abitante, rinviando alla pianificazione locale la determinazione per le
altre destinazioni funzionali;
d) nell’articolo 9, la riserva di atto amministrativo è ancorata a
tre elementi essenziali, costituiti dalla qualità delle attrezzature
insediate e da insediare, alla loro fruibilità e accessibilità;
e) il PGT, pertanto –fatta salva la misura minima stabilita per la
destinazione a residenza– è autonomo nello stabilire il fabbisogno della
dotazione di standard senza dover partire dai minimi previsti nel d.m. n.
1444/1968.
1.3. Il Fallimento ha criticato la tesi suesposta, mettendo in rilievo fra
l’altro:
a) che la “disapplicazione” del d.m. n. 1444/1968 per
effetto dell’articolo 103 della l.r. cit. comporterebbe la conseguenza di
affidare a ciascun singolo PGT dei Comuni adeguatisi alle disposizioni
dell’articolo 26 della stessa l.r. la definizione della quantità di standard
applicabile per le zone diverse da quella residenziale, senza nemmeno un
parametro di riferimento stabilito a livello regionale;
b) che tale interpretazione contrasterebbe con l’articolo 2-bis del
d.P.R. n. 380 del 2001, poiché l’attribuzione alle Regioni del potere di
regolamentare la materia degli standards in modo difforme dal d.m. cit. non
può essere interpretata come totale liberalizzazione (in eccesso e in
riduzione) delle regole affidate all’arbitrio di ogni singola
amministrazione comunale, perché contrasterebbe con il rispetto degli
articoli 7, 10, 13 e dell’articolo 41-quinquies della legge 17.08.1942, n.
1150, introdotto dall’articolo 17 della legge 06.08.1967, n. 765, in tema di
piani urbanistici generali e di piani particolareggiati, che rendono
obbligatoria la fissazione di standards, di limiti e parametri inderogabili
per l’edificazione applicabili in sede di pianificazione urbanistica,
disposizione che ha legittimato l’emanazione del d.m. in argomento;
b1) che, invece, l’articolo 2-bis perseguirebbe
l’obiettivo di consentire alle Regioni di fissare limiti diversi rispetto a
quelli del d.m. per orientare le scelte pianificatorie comunali, con la
conseguenza di rendere possibile la limitata modifica dei parametri generali
previsti dal d.m. medesimo.
Infine, per l’ipotesi che fosse ritenuta corretta la tesi del Comune e non
percorribile una interpretazione adeguatrice delle norme vigenti, il
Fallimento ha chiesto al Collegio di scrutinare la rilevanza e la non
manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli
articoli 26 e 103, comma 1-bis, della citata l.r. n. 12 del 2005 per
contrasto con gli articoli 3, 24, 41, 42, 97, 113 e 117 della Costituzione,
in relazione ai principi fondamentali dettati dagli articoli 7, 10, 13 e
41-quinquies della l. n. 1150 del 1942, in quanto si determinerebbe:
- il differente trattamento di cittadini che realizzino lo stesso
intervento edilizio in Comuni differenti (articolo 3 Cost.);
- la limitazione al diritto di difesa, in assenza di un parametro
legislativo e regolamentare su cui pre-definire il livello di ragionevolezza
della scelta pianificatoria assunta in tema di standards (articoli 24 e 113
Cost.);
- la lesione del diritto di proprietà e del diritto di impresa,
potendo il Comune prevedere uno standard del 99%, non incontrando limiti nel
massimo, così determinando una situazione para-espropriativa (articoli 41 e
42 Cost.);
- la violazione del precetto di buon andamento della pubblica
amministrazione, non essendo previsti limiti nel minimo, con la conseguenza
che il Comune potrebbe ridurre gli standards dovuti al 1% dell’estensione
territoriale e consentire l’edificazione su tutto il resto, con enorme
carico urbanistico non accompagnato dalle necessarie dotazioni di servizi,
nonostante vi sia obbligo di rispettare l’art. 41-quinquies della l. n. 1150
del 1942 (articolo 97 Cost.);
- la violazione dell’articolo 117, terzo comma, Cost., in relazione
ai principi generali dettati dalla l. n. 1150 del 1942 e dalla l. n. 765 del
1967, dei quali il d.m. n. 1444/1968 costituisce mera attuazione, tanto che
viene definito come regolamento legislativo, oltre che degli articoli 9 e 10
della l. n. 62 del 1953, nella parte in cui obbligano a definire limiti
inderogabili di edificazioni e di standards che le citate norme regionali
hanno impropriamente abrogato, tenendo anche presente che la “disapplicazione”
da parte regionale di norme statali può avvenire solo per le c.d. “norme
cedevoli” regolamentari (il d.m. n. 1444/1968 è, per consolidata
giurisprudenza, norma solo formalmente regolamentare con valenza legislativa
in quanto attua in modo necessitato ed ineludibile norme di legge
inderogabili) in quanto l’urbanistica è materia concorrente, ma non può
avvenire in riguardo a norme di legge statale, specie se fissino principi
fondamentali delle materia, anche riferibili a norme statali di principio
già previgenti, soprattutto con riferimento alle disposizioni del d.m. n.
1444/1968, le quali sono considerate munite di efficacia precettiva
inderogabile, anche in relazione agli obiettivi citati dall’articolo 2-bis
del d.P.R. n. 380 del 2001, essendo evidente la violazione dell’articolo
117, secondo comma, Cost. anche in relazione alla c.d. determinazione dei
livelli essenziali delle prestazioni in cui la dotazione di standards
urbanistici rientra e –più in generale– con riferimento alla competenza
esclusiva statale in tema di proprietà privata.
2. Con
sentenza non definitiva
20.05.2021 n. 3912, questa Sezione:
a) ha respinto l’appello principale;
b) ha disposto l’estromissione della Provincia di Monza e della
Brianza dal giudizio;
c) ha compensato integralmente tra le parti le spese del doppio
grado di giudizio nei confronti della Provincia;
d) ha riservato al definitivo ogni decisione sull’appello
incidentale e sulle spese;
e) ha disposto la prosecuzione del giudizio per la decisione
dell’appello incidentale e ha demandato al Presidente della Sezione la
fissazione dell’udienza di trattazione in esito al deposito delle memorie
delle parti.
2.1. In particolare, la sentenza sopra indicata ha riservato la decisione
sui possibili profili di incostituzionalità, che sono stati analiticamente
enucleati ai punti 15 e 16 e che sono stati sinteticamente individuati al
punto 17, all’esito delle interlocuzioni con le parti.
Giova citare testualmente i sopraindicati passaggi della sentenza:
“15. La questione di costituzionalità prospettata dal Fallimento può così
sintetizzarsi:
Se sia o meno non manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 103, comma 1-bis, in combinato disposto con gli
artt. 9 (implicitamente dedotto) e 26, della l.r. n. 12 del 2005, in
riferimento all’art. 117, terzo comma Cost., stante la competenza
concorrente dello Stato in materia di “governo del territorio”, all’art.
117, secondo comma, lett. m), Cost., stante la legislazione esclusiva
statale nella “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali”, nonché in riferimento ad altri
valori tutelati dalla Costituzione, quali il differente trattamento di
cittadini che realizzino lo stesso intervento edilizio in Comuni differenti
(art. 3 Cost.), il diritto di proprietà (art. 24 Cost.), il buon andamento
della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) e il diritto di difesa (art.
24 Cost.); posto che la legge regionale (art. 103, comma 1-bis) -in sede di
adeguamento degli strumenti urbanistici (art. 26)- prevede che non si
applicano tutte le disposizioni del d.m. del 1968 diverse da quelle
attinenti alle distanze tra fabbricati, le quali sono derogabili a
determinate condizioni, e demanda al “Piano dei servizi”, adottato dal
Comune in collegamento con il “Documento di piano” (artt. 8 e 9),
l’individuazione, previa determinazione del numero degli utenti sulla base
di criteri predefiniti, della dotazione globale di aree per attrezzature
pubbliche e di interesse pubblico generale, la dotazione di verde, i
corridoi ecologici e il sistema di verde di connessione tra territorio
rurale ed edificato, la viabilità, stabilisce solamente una dotazione minima
(art. 9, comma 3), pari a diciotto metri quadrati per abitante, di aree per
attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale per le zone
residenziali; in tal modo violando i principi fondamentali della
legislazione statale, che impongono in tutti i Comuni l’osservanza di
“rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti (residenziali) e
produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde
pubblico o a parcheggi” (art. 41-quinques, commi 8 e 9, l. n. 1150 del
1942), come specificati dalle disposizioni del d.m. del 1968, più volte
ritenuto dotato di efficacia precettiva e inderogabile in quanto attuativo
del suddetto art. 41-quinquies (art. 117, terzo comma); violando altresì, la
competenza esclusiva statale in materia di determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (117,
secondo comma) e il buon andamento dell’amministrazione (art. 97),
rimettendo alla regolamentazione comunale anche l’individuazione dei
rapporti minimi di aree standard in zone diverse da quelle residenziali;
nonché il diritto di impresa e il diritto di proprietà (artt. 41 e 42),
rimettendo alla regolamentazione comunale anche l’individuazione dei
rapporti massimi di aree standard; nonché finanche il diritto di difesa
dinanzi al giudice (art. 24 e 113) in assenza di un parametro legislativo di
riferimento per il sindacato di ragionevolezza della scelta del singolo
Comune.
15.1. Può aggiungersi che il presupposto interpretativo assunto dal
Fallimento posto alla base della richiesta principale di rigetto
dell’appello incidentale, è che l’art. 2-bis cit. consenta solo alla
legislazione regionale, e non anche alla regolamentazione urbanistica
comunale, deroghe ai principi stabiliti dalla legislazione statale, e che,
in mancanza delle deroghe previste dalla legge regionale -come nella
fattispecie dove la legislazione regionale disciplina solo il minimo degli
standards nelle zone residenziali (peraltro in maniera parziale e
individuando la dotazione minima nella stessa percentuale prevista dall’art.
3 del d.m. del 1968)– per le aree non disciplinate dalla legislazione
regionale continuano ad applicarsi i principi statali dell’art.
41-quinquies, l. n. 1150 del 1942, come specificati dal d.m. del 1968, con
conseguente possibilità di sindacato sulla motivazione dei piani comunali
quando si discostano notevolmente dalla percentuale minima statale.
16. Il profilo dell’interpretazione del suddetto art. 2-bis all’interno del
sistema dei principi vincolanti per la legislazione regionale individuati,
dall’art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1942, come specificati dal d.m.
del 1968.
L’art. 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 consente solo alle Regioni di
prevedere disposizioni derogatorie al d.m. del 1968 in materia di standard,
“nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque
funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree
territoriali”. Trattandosi di deroghe a principi della legislazione statale
vincolanti sul territorio nazionale ai sensi dell’art. 117, terzo comma, in
mancanza, totale o parziale, dell’esercizio di tale potere di deroga da
parte delle Regioni potrebbe inferirsi che si riespande l’applicazione dei
principi statali dell’art. 41-quinquies, commi 8 e 9, l. n. 1150 del 1942,
come specificati dal d.m. n. 1444 del 1968, secondo lo stesso presupposto
interpretativo assunto dal Fallimento.
16.1. Tuttavia, la possibile sostenibilità di tale interpretazione
costituzionalmente orientata, secondo il Collegio non consente, nella
fattispecie, di sottrarsi alla valutazione della non manifesta infondatezza
della possibile questione di legittimità costituzionale delle norme
regionali, eccepita dal Fallimento.
16.1.1. La ragione si rinviene nella peculiare “costruzione” dell’art. 103,
comma 1-bis, in uno con un esercizio del potere regionale di emanare norme
derogatorie che potremmo definire “estremo” per difetto.
Infatti, da un lato l’art. 103, comma 1-bis, dispone la generale non
applicabilità del d.m. del 1968 (con l’eccezione disciplinata della materia
delle distanze, che nella causa non viene in rilievo); dall’altro, la
Regione esercita il potere di legiferare riconosciutole dall’art. 2-bis al
minimo, e cioè prevedendo solo (art. 9, comma 3) la dotazione minima di
standards per le aree residenziali; per di più, riproducendo la misura
minima già individuata dall’art. 3, primo comma, del d.m. del 1968 e,
quindi, intendendo non applicabili, secondo la previsione generale dell’art.
103, anche le altre disposizioni nella stessa materia, previste dai
successivi commi dell’art. 3 e dall’art. 4, primo e secondo comma.
16.1.2. In definitiva, si potrebbe dire che le norme regionali che derivano
il loro fondamento nell’art. 2-bis integrino una “forma apparente” di
esercizio del potere conferito alla Regione dall’art. 2-bis.
16.3. D’altro canto, proprio la possibile questione di legittimità
costituzionale ipotizzabile a parere del Collegio in riferimento allo stesso
art. 2-bis, conduce pure nella direzione di escludere la soluzione della
interpretazione costituzionalmente orientata dello stesso articolo,
sostenuta dal Fallimento.
17. Il profilo della compatibilità costituzionale del suddetto art. 2-bis,
rispetto alla competenza concorrente delle regioni in materia di “governo
del territorio” in riferimento alla regolamentazione delle aree standards.
Ritiene il Collegio che sia percorribile la tesi secondo cui la nuova
disposizione statale introdotta nel 2013, intervenendo in materia di
competenza concorrente senza porre alcun confine di principio al potere di
deroga attribuito a tutte le regioni rispetto alle preesistenti norme
statali, senza assolvere alla funzione propria attribuita dalla Costituzione
allo Stato di individuare i principi, così rendendo certamente possibili
legislazioni regionali molto diverse tra di loro, contrasterebbe con l’art.
117, terzo comma, Cost.
17.1. Inoltre, andrebbe esplorato anche un altro possibile profilo di
legittimità costituzionale, rispetto all’art. 117, secondo comma Cost.
attinente alle materie di competenza esclusiva dello Stato.
Si tratta di valori costituzionali che, come evidenziato anche dal
Fallimento nella prospettazione della questione di costituzionalità, sono
oramai strettamente correlati alla materia del “governo del territorio”,
quali la materia attinente alla “determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” [117, secondo comma,
lett. m)], quella della “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni
culturali” [art. 117, secondo comma, lett. s)], nonché il diritto di impresa
e il diritto di proprietà (artt. 41 e 42 Cost.). Correlazione tanto più
evidente negli anni Duemila, come si è sviluppata nel corso del tempo nella
giurisprudenza della Corte costituzionale ed eurounitaria, rispetto ad
epoche ormai lontane, quali gli anni Quaranta e Sessanta del secolo scorso
ai quali risale la legislazione nazionale di principio di nostro interesse”.
2.2. Inoltre, a delimitare la questione di legittimità costituzionale ai
fini della disamina della sua rilevanza e non manifesta infondatezza, si
richiama un altro paragrafo della sentenza non definitiva nel quale si è
rilevato che:
“13. L’esistenza nell’ordinamento statale dell’art. 2-bis cit., oltre che
dell’art. 41-quinquies, l. n. 1150 del 1942 e del d.m. del 1968, pone
all’attenzione del Collegio il preliminare profilo dell’interpretazione del
suddetto art. 2-bis all’interno del sistema dei principi vincolanti per la
legislazione regionale, individuati dall’art. 41-quinquies, commi 8 e 9,
della l. n. 1150 del 1942, come specificati dal d.m. del 1968, e della sua
compatibilità costituzionale rispetto alla competenza concorrente delle
Regioni in materia di “governo del territorio”, posto che se fosse
ipotizzabile la non manifesta infondatezza della questione di legittimità
costituzionale dell’art. 2-bis per violazione dell’art. 117, terzo e secondo
comma, la stessa sarebbe logicamente preliminare alla illegittimità
prospettata dal Fallimento rispetto alle norme regionali, venendo meno –nel
caso di ipotetico accoglimento– la base normativa statale che consente di
emanare disposizioni regionali derogatorie ai principi già presenti nella
legislazione statale.
13.1. Preliminarmente, deve precisarsi che dalla fattispecie in esame
derivano i confini della rilevanza della possibile questione di
costituzionalità, dovendosi escludere ogni profilo attinente alle deroghe in
materia di limiti di distanze tra fabbricati, sui quali la Corte
costituzionale è più volte intervenuta.
La fattispecie in esame è incentrata, infatti, unicamente sulle possibili
deroghe, da parte della legislazione regionale, al d.m. del 1968 in materia
di “spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi,
a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi”, e
dunque agli standards, “nell’ambito della definizione o revisione di
strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e
unitario o di specifiche aree territoriali”. Materia che, a prescindere
dalla mancata ricomprensione nel titolo dell’articolo, è indubbiamente
disciplinata dall’art. 2-bis”.
3. A seguito della sentenza non definitiva e della richiesta di
interlocuzione sui possibili profili di compatibilità costituzionale, le
parti hanno depositato memorie, rispettivamente il Fallimento in data
16.07.2021 e il Comune di Villasanta in data 19.07.2021.
3.1. Entrambe le parti hanno, quindi, depositato istanze di passaggio in
decisione senza discussione della causa.
4. Alla pubblica udienza del 28.10.2021 la causa è stata trattenuta in
decisione.
5. Delimitato dunque il thema decidendum ai profili di rilevanza e di
non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale
dell’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 e dell’articolo 103 della
legge regionale n. 12 del 2005 della Regione Lombardia sopra individuate, la
Sezione ritiene di dover sottoporre alla Corte costituzionale la questione
di legittimità costituzionale della precitata norma statale, e in via
consequenziale della norma regionale.
Sulla rilevanza della questione relativa all’articolo 2-bis del d.P.R. n.
380 del 2001 e, in particolare, al suo comma 1, con i quali è consentita la
deroga a livello regionale dei parametri di cui al d.m. n. 1444/1968.
6. La questione di legittimità costituzionale sollevata dall’appellante
riposa sul presupposto per cui l’articolo 2-bis, d.P.R. cit. autorizzerebbe
le Regioni ad emanare una legislazione derogatoria rispetto al d.m. n. 1444
del 1968 in materia di dotazione delle aree a standard fino a poter arrivare
ad annullarne la previsione, in violazione dell’articolo 117, secondo comma,
lett. m), della Costituzione sulla determinazione dei livelli essenziali
delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti su tutto il territorio nazionale.
6.1. Ad avviso della Sezione la questione, nel caso in esame, presenta il
requisito della rilevanza come argomentato dall’appellante principale.
Infatti, diversamente da quanto in contrario eccepito dal Comune di
Villasanta, le disposizioni regionali applicate al caso in esame hanno
consentito, proprio in applicazione dell’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380
del 2001, di adottare la disciplina urbanistica applicabile al contesto di
proprietà del Fallimento con un sovradimensionamento degli standards per la
destinazione produttiva attribuita al comparto al di sopra di quanto
previsto dall’articolo 5 dello stesso d.m.
Il citato d.m. è parzialmente disapplicato nella Regione Lombardia sulla
base dell’articolo 103, comma 1-bis, lett. a), della legge regionale n. 12
del 2005, per cui la materia degli standards è interamente disciplinata, in
ambito regionale, dall’articolo 9 che prevede limiti minimi e non massimi
soltanto per le zone residenziali e lascia alla programmazione urbanistica
di competenza comunale la scelta della previsione di limiti minimi e massimi
per tutte le altre destinazioni. Pertanto –ciò che rileva sotto il profilo
della rilevanza– in caso di declaratoria della incostituzionalità
dell’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 verrebbe a mancare il
presupposto sul quale poggia la disposizione regionale (a sua volta
incostituzionale in via derivata) e sarebbe di nuovo applicabile il d.m. n.
1444 del 1968 con i limiti ivi indicati per gli standards.
La questione di costituzionalità dell’articolo 2-bis appare, quindi,
rilevante per la definizione del giudizio poiché in caso di suo annullamento
verrebbe meno il presupposto sul quale poggiano le disposizioni del PGT
comunale oggetto del contenzioso.
Non può, d’altro canto, trovare spazio l’argomento del Comune, secondo cui
la questione di costituzionalità sarebbe irrilevante poiché il d.m. n. 1444
del 1968 non fissa limiti massimi per la dotazione di standards ma solo
limiti minimi, per cui, nel caso in esame, vertendosi in tema di
sovradimensionamento degli standards, non vi sarebbe una violazione bensì
una deroga generalizzata autorizzata ai sensi dell’articolo 2-bis.
La tesi testé esposta conduce, infatti, alla impossibilità per il giudice di
sindacare, in base ai parametri di legittimità, di ragionevolezza e di
proporzionalità, le scelte effettuate dall’Amministrazione nell’ambito della
pianificazione urbanistica, essendo venuto meno, per il tramite del
meccanismo di deroga di cui all’articolo 2-bis, anche il limite minimo nella
fissazione degli standard.
Nel caso in esame la questione di costituzionalità è pertanto rilevante
poiché l’appellante è stato sottoposto ad una cessione di aree a standard
sulla base delle norme del PGT che trovano la loro fonte legittimante nella
legge regionale, a sua volta “autorizzata” a stabilire deroghe
dall’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001.
Sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 2-bis del d.P.R. n. 380/2001.
7. Tanto premesso, va innanzi tutto esaminata la possibilità di una lettura
costituzionalmente orientata della norma statale, tale da far venir meno il
dovere di rimessione della questione alla Corte costituzionale.
Una prima possibile interpretazione del genere è stata adombrata, in termini
dubitativi e da definirsi a seguito della interlocuzione delle parti, nella
stessa precedente sentenza parziale (§§ 16 e 16.1), laddove si sottolinea
come, in ogni caso, le regole cogenti del d.m. n. 1444 del 1968 si
riespanderebbero in caso di mancato esercizio da parte delle Regioni della
facoltà di deroga riconosciuta dall’articolo 2-bis; una seconda è ipotizzata
dal Comune, il quale prospetta la possibilità di interpretare la norma nel
senso di far salvi in ogni caso i limiti inderogabili stabiliti dal d.m.
(pag. 5 della memoria del 12.07.2021).
Tuttavia, di queste due letture la prima non è idonea a far venir meno la
possibile illegittimità costituzionale della disposizione: il fatto che la “cedevolezza”
delle previsioni del d.m. sia solo potenziale, dipendendo dal concreto
esercizio dal parte delle Regioni della facoltà di deroga, non fa venir meno
il vulnus a quella che dovrebbe essere, in thesi, la loro
inderogabilità da parte del legislatore regionale.
Quanto alla seconda ipotesi, questa si risolve –in sostanza- nel far dire
alla norma regionale qualcosa che la stessa espressamente non afferma, sulla
base di un’argomentazione ermeneutica “additiva” che non trova
aggancio nel dato testuale.
Peraltro, malgrado un dubbio interpretativo possa forse essere ingenerato
dal successivo comma 1-bis dell’articolo in esame, introdotto dal più
recente d.l. 18.04.2019, n. 32, convertito, con modificazioni, dalla legge
14.06.2019, n. 55, secondo cui le disposizioni del comma 1 “sono
finalizzate a orientare i comuni nella definizione di limiti di densità
edilizia, altezza e distanza dei fabbricati negli ambiti urbani consolidati
del proprio territorio”, il tenore testuale del comma 1 rimane
inequivoco nel ricollegare il potere di deroga al d.m. n. 1444/1968 alla
possibilità riconosciuta alle Regioni e alle Province autonome di “dettare
disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a
quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e
ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti
urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di
specifiche aree territoriali”.
Pertanto, nonostante il quanto mai infelice e poco perspicuo dato testuale,
non sembra dubitabile che la finalità della previsione sia quella di
autorizzare una deroga a tutti i parametri e criteri contenuti nel d.m. n.
1444/1968, e non solo a taluni di essi (ciò che peraltro è confermato dai
plurimi interventi legislativi, come quello qui all’attenzione, con cui le
Regioni si sono avvalse di tale facoltà).
8. Ritenuta impraticabile la via della interpretazione costituzionalmente
orientata, la Sezione osserva che la questione assume rilevanza in relazione
alla possibile violazione dei parametri costituzionali di cui agli articoli
3 e 117, terzo comma, con riferimento alla lesione della competenza statale
concorrente in materia di “governo del territorio”, nonché rispetto
al secondo comma del medesimo articolo 117, lett. m) ed s) (lesione della
competenza esclusiva statale in materia di “determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che
devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” e di “tutela
dell’ambiente”).
Sul possibile contrasto con gli articoli 3 e 117, terzo comma, della
Costituzione.
9. Con riguardo al primo profilo oggetto di scrutinio, va preliminarmente
rilevato che –come già precisato nella sentenza non definitiva emessa da
questa stessa Sezione (§13.1.: “Preliminarmente deve precisarsi che dalla
fattispecie in esame derivano i confini della rilevanza della possibile
questione di costituzionalità, dovendosi escludere ogni profilo attinente
alle deroghe in materia di limiti di distanze tra fabbricati, sui quali la
Corte è più volte intervenuta. la fattispecie in esame è incentrata,
infatti, unicamente sulle possibili deroghe, da parte della legislazione
regionale, al D.M. del 1968 in materia di “spazi da destinare agli
insediamenti residenziali, a quelli a quelli riservati alle attività
collettive ai parcheggi” e dunque agli standards, “nell’ambito delle
definizione revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un
assetto complessivo e unitario di specifiche aree territoriali”)– non vi è
alcuna analogia della questione in esame rispetto a quelle esaminate dalla
giurisprudenza della Corte costituzionale (in particolare sent. n. 13 del 07.02.2020) relative alle norme del medesimo d.m. n. 1444/1968 in materia
di distanze (articoli 9 e 10).
Tali ultime norme sono state ritenute dalla Corte in via di principio
inderogabili da parte della legislazione regionale, in quanto afferenti alla
materia dell’ordinamento civile (articolo 117, secondo comma, lettera l),
Cost.), mentre lo stesso non si può dire per le altre norme contenute nel
citato decreto, le quali prima facie attengono unicamente alla materia
“governo del territorio”, oggetto di competenza concorrente ai sensi del
terzo comma del medesimo articolo 117 Cost.: ciò impone di individuare le
norme di principio della legislazione statale in subiecta materia, le quali
segnano il limite della competenza legislativa regionale.
9.1. Per quanto qui interessa, può ipotizzarsi che la norma statale di
principio sia da rivenirsi nel già citato articolo 41-quinquies della legge
n. 1150 del 1942, introdotto dalla legge n. 765 del 1967, il quale –come è
noto- costituisce la fonte di derivazione del d.m. n. 1444 del 1968,
imponendo agli strumenti urbanistici generali il rispetto di parametri e
limiti definiti espressamente “inderogabili”.
9.2. Orbene, ad avviso della Sezione e contrariamente a quanto sostenuto in
giudizio dal Comune di Villasanta, non può ritenersi –neanche a seguito
della riforma del Titolo V della Costituzione attuata con la legge
costituzionale n. 3/2001- che ad oggi inderogabile da parte della
legislazione regionale sia soltanto l’ottavo comma del predetto articolo (il
quale, appunto, stabilisce l’obbligo che gli strumenti urbanistici generali
stabiliscano “limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di
distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli
insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle
attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”) e non anche il
successivo nono comma, che demanda a un apposito decreto ministeriale la
fissazione dei predetti limiti e rapporti; ciò, alla luce della
giurisprudenza costituzionale dianzi richiamata, dovrebbe portare alla
bizzarra conclusione che il comma da ultimo citato sia -in realtà-
derogabile da parte delle Regioni non sempre e comunque, ma solo per la
parte relativa ai “rapporti”, dal momento che per quella relativa ai
“limiti” (di densità, altezza, distanza) è già pacifico che non lo è, attesa
la acclarata riconducibilità delle norme del d.m. n. 1444 del 1968 in tema
di distanze, altezze etc. alla materia “ordinamento civile” di esclusiva
competenza statale (cfr. Corte cost., sent. n. 13/2020, cit.).
9.3. Può dunque ritenersi, posto che nella materia del governo del
territorio le leggi regionali debbano rispettare le norme di principio della
legislazione statale, che il nono comma dell’articolo 41-quinquies della
legge n. 1150/1942 esprima l’esigenza che le dotazioni di spazi pubblici,
infrastrutture, servizi etc. rispondano a criteri di definizione omogenei su
tutto il territorio nazionale, non essendo costituzionalmente ammissibile
che possano esservi discrasie anche vistose tra Regione e Regione, in virtù
dei diversi rapporti e parametri liberamente individuabili dalle diverse
legislazioni regionali.
Tale però sembra essere il risultato dell’applicazione dell’articolo 2-bis
del d.P.R. n. 380/2001, come inserito dal decreto-legge 21.06.2013, n.
69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98, il
quale, autorizzando le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano
a “prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al
decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444”, produce
l’effetto di “neutralizzare” il carattere cogente delle anzi dette
disposizioni dell’articolo 41-quinquies della legge n. 1150/1942 e delle
disposizioni regolamentari che ne discendono.
9.4. Tuttavia, anche a voler ritenere che con la novella del 2013 al T.U.
dell’edilizia il legislatore statale abbia inteso perseguire una deliberata
ratio di abrogazione implicita dei commi ottavo e nono dell’articolo
41-quinquies della legge n. 1150/1942, tale operazione appare di dubbia
compatibilità con il quadro costituzionale sopra delineato, in quanto si
risolve in una sostanziale abdicazione dalla fissazione di parametri e
criteri generali, cui pure il legislatore statale sarebbe chiamato in
materia di competenza concorrente, in modo da consentire a ciascuna Regione
di dettare regole autonome e disomogenee in materia di dimensionamento delle
aree a destinazione residenziale, degli spazi pubblici, delle
infrastrutture, del verde pubblico etc.
Ciò peraltro comporta effetti discriminatori, rilevanti sotto il profilo
della violazione dell’articolo 3 della Costituzione, nella misura in cui,
obliterando l’esigenza di fissazione di criteri omogenei e uniformi a suo
tempo espressa dai commi ottavo e nono dell’articolo 41-quinquies della
legge n. 1150/1942, finisce per incidere sul regime proprietario dei suoli,
che –come puntualmente dedotto dal Fallimento nel presente giudizio-
risulta potenzialmente assoggettato a regole differenti nelle diverse
Regioni pur in relazione ad aree avente identica destinazione urbanistica e
ad interventi edilizi rientranti nella medesima tipologia.
Sul possibile contrasto con l’articolo 117, comma secondo, lettere m) ed
s), della Costituzione.
10. Sotto diverso profilo, la disposizione di cui al comma 1 del ricordato
articolo 2-bis, d.P.R. n. 380/2001 interseca le competenze statali esclusive
di cui all’articolo 117, comma secondo, lettere m) (“determinazione dei
livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali
che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”) ed s)
(“tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”) della
Costituzione.
10.1. Quanto al primo aspetto, anche prescindendo dall’orientamento
giurisprudenziale che, anteriormente alla entrata in vigore dell’articolo
2-bis, sosteneva che le disposizioni del d.m. n. 1444 del 1968 fossero
sempre e comunque cogenti nei confronti dei pianificatori comunali, il più
volte citato nono comma dell’articolo 41-quinquies, l. n. 1150/1942 rileva
anche sotto il profilo della necessità di assicurare una quota minima di
infrastrutture e aree per servizi pubblici che sia la stessa sull’intero
territorio nazionale.
In definitiva, pur in un quadro costituzionale e legislativo caratterizzato
dai principi di sussidiarietà verticale e di prossimità territoriale, in
ragione dei quali la regolazione dell’assetto del territorio è rimessa
quanto più possibile ai livelli di governo più vicini alle comunità di
riferimento, deve ritenersi che la determinazione delle dotazioni
infrastrutturali pubbliche o di interesse generale resti riservata al
legislatore statale, in quanto ragionevolmente riconducibile all’ambito
delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali; in tale prospettiva,
al legislatore statale spetta non soltanto individuare i principi
fondamentali della materia, sibbene fissare i livelli minimi delle predette
prestazioni, rispetto ai quali le normative regionali potrebbero intervenire
esclusivamente in senso “rafforzativo”.
Ciò peraltro non comporta la totale obliterazione delle competenze
legislative regionali, atteso che altro è la determinazione di livelli
essenziali (minimi), altro la regolamentazione, tanto in termini
quantitativi che qualitativi, delle dotazioni di standard, rispetto alla
quale ultima –una volta garantito il rispetto della normativa statale
vigente– la competenza regionale (che dovrebbe comunque ritenersi, ratione
materiae, comunque di tipo concorrente) potrebbe tornare in gioco.
10.2. Sotto il secondo dei profili dianzi indicati, già da tempo la
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha evidenziato come il potere di
pianificazione, specie alla luce delle scelte legislative più recenti, non
possa dirsi limitato all’individuazione delle destinazioni delle zone del
territorio comunale, e in specie alle potenzialità edificatorie delle stesse
e ai limiti che incontrano tali potenzialità, dovendo invece essere inteso
in relazione ad un concetto di urbanistica che non sia limitato solo alla
disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi
di edilizia, distinti per finalità), ma che, per mezzo della disciplina
dell’utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico-sociali della
comunità locale, non in contrasto ma, anzi, in armonico rapporto con
analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato,
in funzione di uno sviluppo del territorio che si svolga nel quadro del
rispetto e dell’attuazione di valori costituzionalmente tutelati (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. II, 14.11.2019, n. 7839; id., sez. IV, 21.12.2012, n. 6656).
Tale impostazione è stata nella sostanza condivisa anche dalla
giurisprudenza costituzionale, la quale, dopo la riforma del Titolo V della
Costituzione, ha rilevato che la nozione di “governo del territorio” ha un
contenuto più ampio di quella di “urbanistica”, individuando in linea di
principio tutto ciò che attiene all’uso del territorio ed alla
localizzazione di impianti o attività (cfr. Corte cost., sent. 07.10.2003, n. 307), ed ha altresì precisato che la relativa disciplina, pur
toccando profili tradizionalmente appartenenti all’urbanistica e
all’edilizia, non si esaurisce in esse, riferendosi piuttosto all’insieme
delle norme che consentono di identificare e graduare gli interessi in base
ai quali possono essere regolati gli usi ammissibili del territorio (cfr.
Corte cost., sentt. 14.10.2005, n. 383, e 28.06.2004, n. 196).
Ne discende, in relazione al rapporto tra le competenze concorrenti in subiecta materia e la competenza statale esclusiva in materia di tutela
dell’ambiente ex articolo 117, secondo comma, lettera s), Cost., che quest’ultima
segna un limite negativo alle discipline che le Regioni possono introdurre
in altre materie di propria competenza, salva la facoltà di queste ultime di
adottare livelli di tutela ambientale più elevati (cfr. Corte cost., sent.
n. 22.07.2021, n. 164, e in precedenza sentt. 23.07.2009, n. 235, 18.04.2008, n. 104, e
07.11.2007, n. 367).
Alla stregua dei consolidati orientamenti che si sono richiamati, anche
laddove si sia in presenza di una legislazione regionale esclusivamente
indirizzata a introdurre una disciplina in materia di pianificazione
urbanistica, e che tuttavia intercetti aspetti “sensibili” sotto il profilo
della vivibilità del territorio quali sono quelli afferenti alla dotazione
di infrastrutture e servizi per la collettività, non può non venire in
rilievo la competenza esclusiva statale de qua con la correlativa
possibilità per le Regioni di intervenire in deroga solo in senso
“migliorativo”.
Sulla consequenziale illegittimità costituzionale dell’articolo 103,
comma 1-bis, della l.r. della Lombardia n. 12/2005.
11. La prospettata illegittimità costituzionale dell’articolo 2-bis, comma
1, del d.P.R. n. 380/2001, per le ragioni testé evidenziate, comporterebbe
il venir meno della base normativa delle disposizioni regionali con cui, in
attuazione di quanto stabilito nella norma statale, sia stata introdotta una
disciplina degli standard urbanistici potenzialmente derogatoria dei limiti
“inderogabili” di cui al d.m. n. 1444 del 1968, è fra queste, per quanto qui
interessa, dell’articolo 103, comma 1-bis, della legge regionale della
Lombardia n. 12 del 2005.
Sotto quest’ultimo profilo non ha pregio l’argomento, articolato dal Comune
nella memoria del 12.07.2021, secondo cui la disposizione in questione
non opererebbe a regime, riguardando solo l’adeguamento degli strumenti
urbanistici vigenti alle nuove disposizioni introdotte dalla stessa l.r. n.
12 del 2005: infatti, ai fini che qui interessano, rileva soltanto il fatto
che per effetto di essa possano trovare ingresso nell’ordinamento
prescrizioni urbanistiche, comunque destinate a valere a tempo indefinito,
elaborate nella totale disapplicazione del criteri e parametri di cui al
ricordato d.m. n. 1444 del 1968.
Pertanto, la disposizione andrebbe a sua volta dichiarata incostituzionale
in via consequenziale in applicazione dell’articolo 27 della legge
11.03.1953, n. 87, secondo cui la Corte costituzionale, allorché dichiara
illegittime le disposizioni che formano direttamente oggetto dell’incidente
di costituzionalità, “dichiara altresì, quali sono le altre disposizioni
legislative, la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione
adottata”.
Conclusioni.
12. Alla stregua dei rilievi fin qui svolti, devono quindi essere dichiarate
rilevanti e non manifestamente infondate le descritte questioni di
legittimità costituzionale:
i) dell’articolo 2-bis, comma 1, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380
(pubblicato nella Gazzetta ufficiale 20.10.2001, n. 245, S.O.), come
introdotto dal d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla
legge 09.08.2013, n. 98 (pubblicata nella Gazzetta ufficiale 20.08.2013, n.
194, S.O.), per violazione degli articoli 3 e 117, secondo comma, della
Costituzione;
ii) dell’articolo 2-bis, comma 1, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380
(pubblicato nella Gazzetta ufficiale 20.10.2001, n. 245, S.O.), come
introdotto dal d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla
legge 09.08.2013, n. 98 (pubblicata nella Gazzetta ufficiale 20.08.2013, n.
194, S.O.), per violazione dell’articolo 117, terzo comma, lettere m) ed s),
della Costituzione;
iii) in via consequenziale, dell’articolo 103, comma 1-bis, della
legge regionale della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (pubblicata sul
Bollettino ufficiale della Regione Lombardia 16.03.2005), come introdotto
dalla legge regionale 14.03.2008, n. 4 (pubblicata sul Bollettino ufficiale
della Regione Lombardia 17.03.2008, n. 12), e successivamente modificato
dalla l.r. 26.11.2019, n. 18 (pubblicata sul Bollettino ufficiale della
Regione Lombardia 29.11.2019, n. 48), per violazione dell’articolo 117,
secondo comma, lettere m) ed s), e terzo comma, della Costituzione.
Il presente giudizio va quindi sospeso con trasmissione degli atti alla
Corte costituzionale.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta),
visto l’art. 23 della legge 11.03.1953, n. 87,
dichiara rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di
legittimità costituzionale relative:
-
all’articolo
2-bis, comma 1, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380
(pubblicato nella Gazzetta ufficiale 20.10.2001, n. 245, S.O.), come
introdotto dal d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla
legge 09.08.2013, n. 98 (pubblicata nella Gazzetta ufficiale 20.08.2013, n.
194, S.O.), per violazione degli articoli 3 e 117, terzo comma, della
Costituzione;
-
all’articolo
2-bis, comma 1, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380
(pubblicato nella Gazzetta ufficiale 20.10.2001, n. 245, S.O.), come
introdotto dal d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla
legge 09.08.2013, n. 98 (pubblicata nella Gazzetta ufficiale 20.08.2013, n.
194, S.O.), per violazione dell’articolo 117, terzo comma, lettere m) ed s),
della Costituzione;
- in via consequenziale,
all’articolo
103, comma 1-bis, della legge regionale della Regione Lombardia 11.03.2005,
n. 12
(pubblicata sul Bollettino ufficiale della Regione Lombardia 16.03.2005),
come introdotto dalla legge regionale 14.03.2008, n. 4 (pubblicata sul
Bollettino ufficiale della Regione Lombardia 17.03.2008, n. 12), e
successivamente modificato dalla l.r. 26.11.2019, n. 18 (pubblicata sul
Bollettino ufficiale della Regione Lombardia 29.11.2019, n. 48), per
violazione dell’articolo 117, secondo comma, lettere m) ed s), e terzo
comma, della Costituzione (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
ordinanza 17.03.2022 n. 1949 -
link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ANNO 2021 |
|
URBANISTICA: Sulla
retrocessione delle aree cedute a titolo di standard e successivamente
qualificate dal comune, col nuovo PGT, quali “standard impropri”.
Effettuata la rilevazione delle aree di proprietà
pubblica, come si desume dalla relazione al piano dei Servizi, il Comune ha
individuato, accanto a “standards di interesse generale” (che
rivestono un ruolo primario all’interno del territorio comunale, di utilità
pubblica e di fruizione da parte di tutti i cittadini), “standards di
interesse specifico” (con finalità pubblica, che di fatto non sono
funzionali all’intera collettività, ma solamente ad un ambito specifico) e “standards
di interesse primario o d’ambito" (organizzati per offrire un servizio
limitatamente ad un insediamento specifico), “standards impropri”
caratterizzanti territori che hanno finalità pubbliche, ma che di fatto non
erogano servizi utili per l’intera collettività, come ad esempio possono
essere i parcheggi collocati in una via residenziale non di passaggio (così
la definizione contenuta nella relazione al Piano dei Servizi).
La nuova previsione urbanistica, adottata nell’ambito della discrezionalità
propria riconosciuta all’ente locale nella pianificazione dell’uso del
territorio, appare, invero, immune dai vizi dedotti, tenuto conto che
l’orientamento costante della giurisprudenza riconosce al Comune la
possibilità di rivalutare le esigenze che avevano condotto ad imporre la
cessione delle aree al momento della sottoscrizione della convenzione
urbanistica.
La destinazione di un’area a standard non imprime, infatti, alcun vincolo di
destinazione permanente o reale tale da precludere future diverse scelte
pianificatorie.
Infatti, come chiarito dal Consiglio di Stato, “la pianificazione
urbanistica implica valutazioni di opportunità sulla scorta di valutazioni
comparative degli interessi pubblici in gioco, che sfuggono al sindacato di
legittimità del giudice amministrativo, a meno che non si dimostrino palesi
travisamenti dei fatti, illogicità o irragionevolezze. Tale potere non è
limitato solo alla disciplina coordinata dell’edificazione dei suoli ma, per
mezzo della disciplina dell'utilizzo delle aree, è finalizzato a realizzare
anche sviluppi economici e sociali della comunità locale nel suo complesso
con riflessi qualvolta limitativi agli interessi dei singoli proprietari di
aree. Quindi le scelte in concreto, effettuate con i detti obiettivi ed
interessi pubblici agli stessi immanenti, devono corrispondere agli scopi
prefissati nelle linee programmatiche per la gestione urbanistica del
territorio”.
Ne discende che “la pianificazione urbanistica implica valutazioni di
opportunità che devono condursi sulla base delle esigenze progressivamente
emerse nel tessuto territoriale a cui si riferisce la pianificazione. Nella
misura in cui il potere di pianificazione si ritenga non limitato alla
disciplina coordinata dell’edificazione ma finalizzato anche allo sviluppo
della comunità nel suo complesso, non può, certamente, prevedersi la
sussistenza di limiti che possano precludere decisioni urbanistiche ritenute
meglio confacenti alle evoluzioni del contesto di riferimento. Lo standard
non è un vincolo reale immodificabile ma una disciplina urbanistica impressa
in un determinato momento storico e, come tale, rivedibile, fermo restando
il rispetto delle previsioni normative statali e regionali su tale aspetto
che, però, non impongono vincoli di destinazione permanenti. Non è, quindi,
neppure predicabile quell’asservimento con carattere di realità ipotizzato
dalla parte ricorrente”.
Anche nella fattispecie in esame, pertanto, la scelta operata
dall’Amministrazione, attuativa di una politica di alienazione delle aree
con l’imposizione del mantenimento di una destinazione almeno parzialmente
pubblica, compensata e incentivata dalla concessione di una certa
edificabilità all’interno degli insediamenti esistenti, adeguatamente
motivata nella relazione e supportata da una rivalutazione degli interessi
pubblici, risulta essere legittima, in quanto immune da eccesso o sviamento
di potere, illogicità o irrazionalità.
In conclusione, il Comune, creando la categoria degli “standard impropri”,
qualificando come tali quelli riferiti a aree di proprietà pubblica con
destinazione a parcheggio o a verde che svolgono funzioni non di interesse
generale, ma relative al soddisfacimento di esigenze funzionali derivanti
dalla presenza di specifici insediamenti privati al servizio dei quali
sostanzialmente si pongono (punto 4 di pag. 39 della Relazione) e
prevedendone la retrocedibilità non ha travalicato i propri poteri
pianificatori, tanto più che ha imposto il mantenimento della funzione
svolta da tali aree, pur compensata da una limitata edificabilità.
---------------
La società ricorrente impugna il PGT del Comune di Cisano Bergamasco nella
parte in cui prevede, alla Tavola 3b1 del Piano delle Regole, che l’area
ceduta gratuitamente dalla società ricorrente all’Amministrazione comunale
sia inserita tra le “aree per attrezzature pubbliche e di uso pubblico”
definite come “aree retrocedibili” ai sensi dell’art. 10 della “Disciplina
urbanistica degli interventi” inclusa nel Piano dei Servizi.
La suddetta cessione è intervenuta in esecuzione della convenzione
urbanistica per l’attuazione del Piano di Lottizzazione via Ca’ dei Volpi –
Angolo Via IV Novembre, sottoscritta in data 06.08.1996 e ha riguardato
un’area di 4.257,35 mq destinata ad attrezzature sanitarie, ceduta a fronte
della possibilità di realizzare 21.794,57 mc a destinazione prevalentemente
residenziale e, per la parte restante, commerciale.
Il Comune, a distanza di circa quindici anni, ha dato avvio a un
procedimento di variante semplificata, avente a oggetto proprie le aree
cedute in questione. Ritenendo non più utile il mantenimento della
destinazione urbanistica “aree ed edifici di interesse e uso pubblico”,
nel 2010, ha previsto il suo mutamento in “attrezzature pubbliche e
private di interesse collettivo con destinazione specifica a standard
localizzato”, consentendo la possibilità della realizzazione, su di una
porzione di essa, di una nuova caserma dei Carabinieri e l’edificabilità
residenziale della parte restante, previa retrocessione o vendita a terzi
dell’area stessa.
Per contestare tale scelta, parte ricorrente ha depositato articolate
osservazioni, che hanno condotto alla revoca della deliberazione di adozione
in data 30.09.2010.
Cionondimeno, nell’adozione del nuovo Piano di Governo del Territorio, in
data 05.12.2011, l’Amministrazione comunale ha comunque previsto la
qualificazione delle aree in questione come standard impropri, ammettendone,
nel Piano dei servizi, la possibilità della retrocessione o della cessione a
terzi al fine di acquisire risorse per il miglioramento della struttura dei
servizi di effettiva utilità.
Tale opzione è stata avversata prima mediante deposito di articolate
osservazioni e, a seguito del rigetto delle stesse e della riconferma in
sede di approvazione definitiva del nuovo PGT, mediante la proposizione del
ricorso in esame, nel quale è stata dedotta la violazione dell’art. 97 della
Costituzione, dell’art. 3 della legge n. 241/1990 e l’integrazione di un
eccesso di potere per contraddittorietà e illogicità manifeste. Infatti,
solo nel febbraio 2010 il Comune aveva individuato la necessità di
utilizzare parte dell’area in questione per la realizzazione di una
struttura pubblica quale la Caserma dei Carabinieri. Sarebbe, dunque, del
tutto immotivato, a distanza di meno di due anni, l’escludere totalmente la
sussistenza dell’interesse pubblico al mantenimento della destinazione già
precedentemente impressa, prevedendo anche che i diritti edificatori siano
commerciabili ai sensi dell’art. 11, comma 4, della LR 12/2005. Peraltro la
dichiarata carenza di interesse pubblico alla base della scelta pianificatoria sarebbe contraddetta dalla previsione, contenuta nella stessa
disposizione, che impone sulle aree cedute a terzi, una destinazione di
natura “pubblicistica”.
Il ricorso non può, però, trovare positivo apprezzamento.
In disparte ogni considerazione in ordine alla dubbia sussistenza
dell’interesse concreto e attuale della società, che risulta aver
regolarmente provveduto alla realizzazione degli interventi edilizi previsti
dalla convenzione urbanistica e che potrebbe comunque aspirare alla
retrocessione delle aree cedute, a censurare la scelta del Comune, il
ricorso appare infondato e deve essere rigettato.
La previsione impugnata è, infatti, quella dell’art. 10 della “Disciplina
urbanistica degli interventi” inclusa nel Piano dei Servizi, rubricato “Retrocessione
di aree standard”, il quale prevede quanto segue: “1. La disciplina
del Piano dei Servizi individua come standard impropri le aree di proprietà
pubblica o di uso pubblico in considerazione dei principi generali enunciati
nella relazione del Presente Piano dei Servizi e della disciplina delle
presenti norme in materia di attrezzature di interesse pubblico e di carico
urbanistico primario le aree oggetto del presente articolo sono da
considerarsi sostanzialmente prive di interesse pubblico e possono quindi
essere dismesse da patrimonio comunale con la conseguente possibilità della
loro alienazione.
2. La perdita della specifica funzione di interesse pubblico non fa
tuttavia venir meno la necessità del mantenimento della funzione svolta
dalle aree stesse la quale rimane indispensabile per garantire una corretta
risposta funzionale alle necessità dalla presenza degli insediamenti di
riferimento.
3. In considerazione di quanto indicato al precedente comma
l’alienazione delle aree o la retrocessione dagli originari proprietari
potrà avvenire esclusivamente a condizione, nel caso delle aree a
parcheggio, che venga mantenuto il vincolo di destinazione funzionale e la
possibilità di accesso al pubblico, secondo modalità che saranno di volta in
volta definite nell’ambio del trasferimento della proprietà.
4. Fermo restando quanto previsto dal precedente comma 2
l’Amministrazione, attribuirà alle aree oggetto del presente articolo
diritti edificatori nella misura e con le modalità di utilizzazione previste
dal precedente articolo 4.
5. In prima applicazione della presente norma sono da ritenere
retrocedibili nei termini indicati nei precedenti commi le aree di
parcheggio non individuate nella tav. 2 del PdS e individuate dalla tav. 3
con la campitura degli ambiti edificati o edificabili di riferimento”.
Il ricorso in esame non ha saputo indicare le ragioni per cui la possibilità
della alienazione dell’area ceduta dall’odierna ricorrente (e di cui la
stessa potrebbe chiedere la retrocessione, se avesse effettivamente
interesse a rientrare in disponibilità della medesima) sarebbe
contraddittoria e illogica. L’incapacità del Comune di attribuire, nell’arco
di quindici anni, una specifica destinazione pubblica all’area in questione
(anche in considerazione del fatto che è stata ritenuta più opportuna una
diversa collocazione della nuova caserma dei Carabinieri), è sintomatica di
una carenza di interesse al mantenimento della proprietà della stessa per la
realizzazione di nuove opere pubbliche, la quale legittima, in quanto
maggiormente conforme all’interesse pubblico, l’opzione per la sua
alienazione, ancorché imponendo il mantenimento della funzionalità a uso
pubblico, compensato da limitati diritti edificatori.
Ciò in un’ottica di concreta valutazione dell’utilità e funzionalità
rispetto all’interesse pubblico delle aree che, pur essendo di proprietà
pubblica, svolgono una funzione marginale rispetto ai fabbisogni dei
cittadini.
Dunque, effettuata la rilevazione delle aree di proprietà pubblica, come si
desume dalla relazione al piano dei Servizi, il Comune ha individuato,
accanto a “standards di interesse generale” (che rivestono un ruolo
primario all’interno del territorio comunale, di utilità pubblica e di
fruizione da parte di tutti i cittadini), “standards di interesse
specifico” (con finalità pubblica, che di fatto non sono funzionali
all’intera collettività, ma solamente ad un ambito specifico) e “standards
di interesse primario o d’ambito" (organizzati per offrire un servizio
limitatamente ad un insediamento specifico), “standards impropri”
caratterizzanti territori che hanno finalità pubbliche, ma che di fatto non
erogano servizi utili per l’intera collettività, come ad esempio possono
essere i parcheggi collocati in una via residenziale non di passaggio (così
la definizione contenuta nella relazione al Piano dei Servizi).
La nuova previsione urbanistica, adottata nell’ambito della discrezionalità
propria riconosciuta all’ente locale nella pianificazione dell’uso del
territorio, appare, invero, immune dai vizi dedotti, tenuto conto che
l’orientamento costante della giurisprudenza riconosce al Comune la
possibilità di rivalutare le esigenze che avevano condotto ad imporre la
cessione delle aree al momento della sottoscrizione della convenzione
urbanistica.
La destinazione di un’area a standard non imprime, infatti, alcun vincolo di
destinazione permanente o reale tale da precludere future diverse scelte
pianificatorie. Infatti, come chiarito nella sentenza del Consiglio di
Stato, n. 283/2015, “la pianificazione urbanistica implica valutazioni di
opportunità sulla scorta di valutazioni comparative degli interessi pubblici
in gioco, che sfuggono al sindacato di legittimità del giudice
amministrativo, a meno che non si dimostrino palesi travisamenti dei fatti,
illogicità o irragionevolezze. Tale potere non è limitato solo alla
disciplina coordinata dell’edificazione dei suoli ma, per mezzo della
disciplina dell'utilizzo delle aree, è finalizzato a realizzare anche
sviluppi economici e sociali della comunità locale nel suo complesso con
riflessi qualvolta limitativi agli interessi dei singoli proprietari di
aree. Quindi le scelte in concreto, effettuate con i detti obiettivi ed
interessi pubblici agli stessi immanenti, devono corrispondere agli scopi
prefissati nelle linee programmatiche per la gestione urbanistica del
territorio”.
Ne discende, come affermato nella sentenza del TAR Lombardia n. 2491/2020,
dalle cui conclusioni il Collegio non ravvisa ragione di discostarsi, che “la
pianificazione urbanistica implica valutazioni di opportunità che devono
condursi sulla base delle esigenze progressivamente emerse nel tessuto
territoriale a cui si riferisce la pianificazione. Nella misura in cui il
potere di pianificazione si ritenga non limitato alla disciplina coordinata
dell’edificazione ma finalizzato anche allo sviluppo della comunità nel suo
complesso, non può, certamente, prevedersi la sussistenza di limiti che
possano precludere decisioni urbanistiche ritenute meglio confacenti alle
evoluzioni del contesto di riferimento (cfr., ex aliis, TAR per la Lombardia
– sede di Milano, sez. II, 03.12.2018, n. 2715; Id., 03.12.2018, n. 2718; Id.,
21.01.2019, n. 119; Id., 05.07.2019, n. 1557; Id., 16.10.2019, n. 2176; Id.,
21.11.2019, n. 2458; Id., 05.03.2020, n. 444; Id., 07.05.2020, n. 705; Id.,
29.05.2020, n. 960). Lo standard non è un vincolo reale immodificabile ma
una disciplina urbanistica impressa in un determinato momento storico e,
come tale, rivedibile, fermo restando il rispetto delle previsioni normative
statali e regionali su tale aspetto che, però, non impongono vincoli di
destinazione permanenti. Non è, quindi, neppure predicabile quell’asservimento
con carattere di realità ipotizzato dalla parte ricorrente.”.
Anche nella fattispecie in esame, pertanto, la scelta operata
dall’Amministrazione, attuativa di una politica di alienazione delle aree
con l’imposizione del mantenimento di una destinazione almeno parzialmente
pubblica, compensata e incentivata dalla concessione di una certa
edificabilità all’interno degli insediamenti esistenti, adeguatamente
motivata nella relazione e supportata da una rivalutazione degli interessi
pubblici, risulta essere legittima, in quanto immune da eccesso o sviamento
di potere, illogicità o irrazionalità.
In conclusione, il Comune, creando la categoria degli “standard impropri”,
qualificando come tali quelli riferiti a aree di proprietà pubblica con
destinazione a parcheggio o a verde che svolgono funzioni non di interesse
generale, ma relative al soddisfacimento di esigenze funzionali derivanti
dalla presenza di specifici insediamenti privati al servizio dei quali
sostanzialmente si pongono (punto 4 di pag. 39 della Relazione) e
prevedendone la retrocedibilità non ha travalicato i propri poteri
pianificatori, tanto più che ha imposto il mantenimento della funzione
svolta da tali aree, pur compensata da una limitata edificabilità.
I parametri di riferimento per l’individuazione delle aree suscettibili di
cessione e per il riconoscimento della potenzialità edificatoria sono, poi,
puntualmente stabiliti rispettivamente negli artt. 10 e 4 delle NTA del
Piano di Servizi, così garantendo proprio il rispetto di quei criteri di
trasparenza invocati da parte ricorrente.
Anche sotto questo profilo, dunque, il ricorso non può trovare positivo
apprezzamento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 16.06.2021 n. 562 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Monetizzazione
aree imposta al privato.
Gli obblighi e i vincoli nell’attuazione di
un Piano Attuativo sono contenuti negli
atti convenzionali che regolano il rapporto
tra l’amministrazione comunale e i soggetti attuatori dei relativi comparti.
A termini dell’articolo 11 della legge
241/1990 alle convenzioni urbanistiche,
ascrivibili al genus degli accordi
sostitutivi di provvedimento, si applicano i
principi del codice civile in materia di
obbligazioni e contratti, per quanto
compatibili.
Pertanto, per interpretare
l’accordo occorre far riferimento ai criteri
dell’articolo 1362 e ss. c.c., in
particolare a quello dell’interpretazione
letterale.
---------------
La ratio della disciplina in materia di monetizzazione, come sottolineato dal
Consiglio di Stato proprio con riferimento
alla legislazione della Regione Lombardia, è
che “la regola è costituita dalla
cessione gratuita delle aree, che consente
di reperire le aree a standard in loco e
quindi di assicurare uno sviluppo
urbanistico equilibrato, costituendo la c.d. monetizzazione una eccezione e non
risolvendosi la medesima in "...una vicenda
di carattere unicamente patrimoniale e
rilevante solo sul piano dei rapporti tra
l’ente pubblico e il privato che realizzerà
l’opera...", poiché non può ammettersi
separazione tra "...i commoda (sotto forma
di entrata patrimoniale per il Comune) dagli
incommoda (il peggioramento della qualità di
vita (dei residenti della zona)...", ciò che
fonda il riconoscimento della legittimazione
processuale di questi ultimi a dolersi della
violazione della misura degli standard”.
Pertanto, la monetizzazione non può essere
automaticamente imposta al privato che
invece preferisca cedere le aree a standard,
senza alcun limite, “posto che l'art. 46
precisa in modo del tutto chiaro i suoi
presupposti, dovendo essa trovare
giustificazione obiettiva, ovvero dovendo
l'Amministrazione dar conto delle sue
ragioni (nel senso che essa non risulti
possibile -ad esempio per penuria degli
spazi fisici- o non sia ritenuta opportuna
dal comune in relazione alla loro
estensione, conformazione o localizzazione,
ovvero in relazione ai programmi comunali di
intervento), a cospetto delle quali
l'interessato potrà tutelarsi in sede
giurisdizionale, contestandole”.
---------------
Le censure dedotte dalla ricorrente non
meritano infatti favorevole apprezzamento.
Gli obblighi e i vincoli nell’attuazione del
Piano Particolareggiato sono contenuti negli
atti convenzionali che regolano il rapporto
tra l’amministrazione comunale e i soggetti
attuatori dei relativi comparti.
A termini dell’articolo 11 della legge
241/1990 alle convenzioni urbanistiche,
ascrivibili al genus degli accordi
sostitutivi di provvedimento, si applicano i
principi del codice civile in materia di
obbligazioni e contratti, per quanto
compatibili. Pertanto per interpretare
l’accordo occorre far riferimento ai criteri
dell’articolo 1362 e ss. c.c., in
particolare a quello dell’interpretazione
letterale.
Viene quindi in rilievo anzitutto la
convenzione generale stipulata in data 17.10.2001 n. rep. 63802 tra il dirigente
competente del comune di Mantova e
l’amministratore delegato della Co.Ge.Se. S.r.l. (originario soggetto attuatore unico per i comparti C1 e C2), la
quale disponeva espressamente che “la
presente convenzione ha da intendersi come
distinta in due parti definite nello schema
di convenzione allegato alla delibera con i
titoli “1° luogo” e “2° luogo” fatto salvo
il principio di solidarietà per la
realizzazione delle opere di cui all’art.
2.7 per il comparto C1 e art. 4.4. per il
Comparto C2”.
Il nominato articolo 2.7 della convenzione
per il comparto C1 prevedeva poi che “in
conformità alle prescrizioni di P.P., la
viabilità, recepita nell’ambito
dell’attuazione del comparto “C1”, è
indicata in tinta gialla e in tinta gialla
con sovrapposto tratteggio nero, nella
planimetria allegata sub 2). Il
concessionario accetta di considerare tale
opera viaria da realizzare in tempi
contestuali con le costruzioni previste
nell’ambito del comparto C1 secondo le
prescrizioni specificative di seguito
fissate. Da parte sua, il Comune, avendo
riferimento al disegno esecutivo inviato al
Ministero LLPP per la realizzazione del
Tribunale nel comparto “C2A”, ne prende atto
e si riserva di adottare una conseguente
variante al PP per quanto riguarda la
sistemazione viaria della zona”.
Il punto 2.9 aggiungeva, inoltre, che “Il
comune di Mantova autorizza il
concessionario a proporre ai sensi delle
legge regionali 23/1007 e 1/2001 e, nei
limiti delle quantità del PP, eventuali
compensazioni tra le aree del comparto “C1”
disciplinate al presente “primo luogo” e del
comparto “C2” disciplinate al successivo
“secondo luogo” destinate ad opere di
urbanizzazione allo scopo di conseguire la
prescritta dotazione minima per ciascuno dei
due comparti”.
Corrispondentemente per l’articolo 4.4.
della convenzione per il Comparto C2, “Nel
caso in cui la realizzazione del comparto
“C2” dovesse avvenire prima del comparto
“C1”, il concessionario si obbliga per sé e
per i propri aventi causa a realizzare
l’anello si viabilità tinteggiato in giallo
e in giallo con tratteggio in nero nella
planimetria allegata sub 2), nel rispetto
delle pattuizioni previste ai precedenti
articoli per il comparto “C1””.
Pertanto negli atti convenzionali menzionati
la possibilità di una compensazione tra
comparti era prevista in via principale per
le opere viarie, salva la possibilità per il
soggetto attuatore di proporre al Comune
altre compensazioni.
Data la chiara formulazione letterale
dell’atto convenzionale, la compensazione
non può essere qualificata come un diritto
del soggetto attuatore o dei soggetti
attuatori, ma solo una facoltà da sottoporre
al vaglio dell’amministrazione comunale,
alla quale è rimessa poi la valutazione
della proposta e la sua approvazione, nei
limiti in cui la stessa sia ritenuta
rispondente all’interesse pubblico.
Nel caso di specie non è pervenuta
all’amministrazione alcuna proposta in tal
senso né su iniziativa individuale né su
iniziativa congiunta delle società
responsabili dell’attuazione per i due
comparti, sicché il Comune nulla era tenuto
a valutare prima di approvare la proposta di
quantificazione e individuazione delle aree
standard formulata da C. S.r.l.
Né la pretesa alla compensazione può farsi
automaticamente derivare, come assume
Bi., dalla comunicazione con la quale
C. S.r.l. in data 01.02.2002 informava
il comune dell’intervenuta scissione
societaria. In tale missiva l’originario
soggetto attuatore si limitava, infatti, a
notiziare controparte che Bi. era la
nuova proprietaria del comparto C1 e,
quindi, era responsabile della sua
attuazione.
Aggiungeva la società che “al
fine di addivenire rapidamente alla
progettazione e realizzazione delle
infrastrutture viarie, comuni ad entrambi i
Comparti regolati dalla Convenzione, sulla
base dell’art. 2.9 della convenzione
specifica del comparto C1 e della
convenzione specifica del comparto C2, C.
S.r.l. si avvarrà della possibilità di
proporre compensazioni, con aree di
proprietà o monetizzazioni sostitutive, per
le aree standard del Comparto C1 relative
sia agli edifici pubblici che ai parcheggi
ad uso pubblico, allo scopo di conseguire la
prescritta dotazione minima per ciascuno dei
due comparti”, anticipando la sua
disponibilità ad un eventuale atto
aggiuntivo a firma delle due società
subentrate nei comparti e del comune.
Nessuna proposta di compensazione è,
peraltro, poi effettivamente intervenuta.
A fronte della mancanza di una richiesta
delle società attuatrici dei comparti 1 e 2,
i rapporti tra le due società e
l’amministrazione comunale sono rimasti
necessariamente distinti e, pertanto, l’ente
territoriale non era in alcun modo tenuto a
valutare le obiezioni formulate da
Bi. in relazione alla localizzazione
della sua quota di standard nell’ambito di
un comparto di pertinenza di altra società,
né era tenuta a dar conto nella motivazione
della delibera avversata delle richieste
formulate unilateralmente da Bi.Im..
L’atto avversato in via principale resiste
pertanto alle dedotte censure di carenza di
motivazione e di violazione del principio di
solidarietà.
Parimenti infondata si rivela anche la terza
doglianza, che si appunta sulle note con cui
il Comune di Mantova ha quantificato gli
standard dovuti per il comparto 1.
Con riferimento agli obblighi posti in capo
al soggetto attuatore del Comparto 1, l’art.
3.1 della relativa convenzione ha previsto,
a fronte di una superficie massima
realizzabile di 20.200 mq (13.200 a
residenza e 7.000 a terziario), la necessità
di realizzare 8.173 mq di standard a verde,
4.685 mq di standard a parcheggio e 4.635 mq
di standard per edifici pubblici da
monetizzare.
Bi. ha realizzato una s.l.p. di
19.700 mq, sicché il comune ha rideterminato
gli standard dovuti per la superficie
realizzata in 17.137 mq.
Il comune ha dato atto che di questi
Bi. ha realizzato 6.177 mq di aree
verdi e parcheggi, che vanno pertanto
dedotti dal totale e che la società è
pertanto ancora tenuta a cedere 6.467 mq a
standard e 4.493 mq per edifici pubblici da
monetizzare (secondo la tabella 4b allegata
alla convenzione).
Bi. non ha contestato di avere
realizzato una superficie lorda di pavimento
di mq 19.700, né ha confutato la quantità di
standard dovuta in relazione alla superficie
realizzata, così come non ha obiettato in
merito alla monetizzazione dei 4.493 mq per
edifici pubblici (espressamente prevista
nella convenzione), calcolata dal comune
applicando le tariffe previste dalla d.c.c.
88/1999 vigente al momento di approvazione
del piano particolareggiato; tali fatti
devono darsi pertanto per incontestati.
Non può essere accolto l’argomento della
società secondo cui erroneamente il Comune
non avrebbe considerato quali standard
ceduti anche gli edifici destinati ad
archivio comunale, ad uffici del giudice di
pace e ad uffici postali; l’amministrazione
resistente ha, infatti, chiarito che detti
immobili non sono stati ceduti dalla
controparte ma sono utilizzati dal Comune in
forza di altri titoli, per i quali l’ente
paga il dovuto corrispettivo.
Né può essere computata, come richiesto,
l’area esterna e contigua al comparto, in
quanto in concessione demaniale a Bi.
e perciò non cedibile dalla stessa, che non
è proprietaria.
Infine non rileva in punto di solidarietà e
di accordo sulla compensazione tra comparti
la “perizia dell’ing. Am.Be.”
depositata da Bi. (doc. 8 dd.
17.3.2021), costituente solamente il
riepilogo di un’ipotesi di accordo tra le
parti formulata in corso di causa per
addivenire ad una composizione
extra-giudiziale del contenzioso, che non è
andata a buon fine.
La richiesta formulata dal Comune risulta
pertanto legittima e non inficiata dalle
censure articolate dalla parte ricorrente.
Per le ragioni già esposte deve inoltre
essere accertato l’inadempimento di
Bi. all’obbligo previsto dalla
convenzione per il comparto C1 di cedere le
aree standard nella misura indicata dal
Comune (6.467 mq) e di corrispondere quanto
già indicato a titolo di monetizzazione
delle aree per edifici pubblici (453.554,84
euro).
Per quanto riguarda invece la richiesta
subordinata di monetizzazione dei 6.467 mq
residui, va evidenziato che la normativa
invocata dall’amministrazione comunale,
analogamente alla previgente normativa,
prevede che la monetizzazione alternativa
alla cessione degli standard debba essere
prevista dalla convenzione.
L’articolo 46 della l.r. 12/2005, dispone
-infatti- che la convenzione dei piani
attuativi deve prevedere:
“a) la cessione gratuita, entro termini prestabiliti, delle aree
necessarie per le opere di urbanizzazione
primaria, nonché la cessione gratuita delle
aree per attrezzature pubbliche e di
interesse pubblico o generale previste dal
piano dei servizi; qualora l'acquisizione di
tali aree non risulti possibile o non sia
ritenuta opportuna dal comune in relazione
alla loro estensione, conformazione o
localizzazione, ovvero in relazione ai
programmi comunali di intervento, la
convenzione può prevedere, in alternativa
totale o parziale della cessione, che
all'atto della stipulazione i soggetti
obbligati corrispondano al comune una somma
commisurata all'utilità economica conseguita
per effetto della mancata cessione e
comunque non inferiore al costo
dell'acquisizione di altre aree. I proventi
delle monetizzazioni per la mancata cessione
di aree sono utilizzati per la realizzazione
degli interventi previsti nel piano dei
servizi, ivi compresa l'acquisizione di
altre aree a destinazione pubblica (…)”.
Analogamente il previgente art. 12 della
legge regionale 04.12.1977, n. 60
disponeva che la convenzione per
l’attuazione dei piani di lottizzazione deve
prevedere:
“a) la cessione gratuita, entro termini prestabiliti, delle aree
necessarie per le opere di urbanizzazione
primaria, nonché la cessione gratuita delle
aree per attrezzature pubbliche e di uso
pubblico di cui all'art. 22 della L.R.
15.04.1975, n. 51, nella misura stabilita da
quest'ultima norma, salvo che gli strumenti
urbanistici vigenti nei comuni prevedano
misure più elevate; qualora l'acquisizione
di tali aree non venga ritenuta opportuna
dal Comune in relazione alla loro
estensione, conformazione o localizzazione,
ovvero in relazione ai Programmi comunali di
intervento, la convenzione può prevedere, in
alternativa totale o parziale della
cessione, che all'atto della stipula i
lottizzanti corrispondano al Comune una
somma commisurata all'utilità economica
conseguita per effetto della mancata
cessione e comunque non inferiore al costo
dell'acquisizione di altre aree;
b) la realizzazione a cura dei proprietari di tutte le opere di
urbanizzazione primaria e di una quota parte
delle opere di urbanizzazione secondaria o
di quelle che siano necessarie per
allacciare la zona ai pubblici servizi; le
caratteristiche tecniche di tali opere
dovranno essere esattamente definite; ove la
realizzazione delle opere comporti oneri
inferiori a quelli previsti distintamente
per la urbanizzazione primaria e secondaria
ai sensi della presente Legge, dovrà essere
corrisposta la differenza; al Comune spetta
in ogni caso la possibilità di richiedere,
anziché la realizzazione diretta delle
opere, il pagamento di una somma commisurata
al costo effettivo delle opere di
urbanizzazione inerenti alla lottizzazione
nonché all'entità ed alle caratteristiche
dell'insediamento e comunque non inferiore
agli oneri previsti dalla deliberazione
comunale di cui all'art. 3 della presente
Legge.”
La convenzione per il Comparto C1, oltre
alla già richiamata monetizzazione per
edifici pubblici, all’art. 4.2.4. ha
previsto unicamente che “in
considerazione della grande necessità di
parcheggi nella zona, dovuta alle diverse
funzioni che si insedieranno nel comparto,
il Comune di Mantova, ai sensi di legge, si
riserva di chiedere in via eccezionale la
monetizzazione sostitutiva di aree standard
secondo le tariffe della d.c.c. n. 18 del
10/06/1999, qualora ritenesse opportuno
realizzare in proprio o attraverso accordi
con altri operatori, un parcheggio pubblico
anche in area limitrofa ma esterna al
comparto”.
Sicché solo in tali limiti può essere de
plano richiesta al soggetto attuatore la
monetizzazione.
La ratio della disciplina in materia di monetizzazione, come sottolineato dal
Consiglio di Stato proprio con riferimento
alla legislazione della Regione Lombardia, è
infatti che “la regola è costituita dalla
cessione gratuita delle aree, che consente
di reperire le aree a standards in loco e
quindi di assicurare uno sviluppo
urbanistico equilibrato, costituendo la c.d.
monetizzazione una eccezione e non
risolvendosi la medesima in "...una vicenda
di carattere unicamente patrimoniale e
rilevante solo sul piano dei rapporti tra
l’ente pubblico e il privato che realizzerà
l’opera...", poiché non può ammettersi
separazione tra "...i commoda (sotto forma
di entrata patrimoniale per il Comune) dagli
incommoda (il peggioramento della qualità di
vita (dei residenti della zona)...", ciò che
fonda il riconoscimento della legittimazione
processuale di questi ultimi a dolersi della
violazione della misura degli standards (in
tal senso, tra le più recenti vedi Cons.
Stato, Sez. IV, 04.02.2013, n. 644)”.
Pertanto la monetizzazione non può essere
automaticamente imposta al privato che
invece preferisca cedere le aree a standard,
senza alcun limite, “posto che l'art. 46
precisa in modo del tutto chiaro i suoi
presupposti, dovendo essa trovare
giustificazione obiettiva, ovvero dovendo
l'Amministrazione dar conto delle sue
ragioni (nel senso che essa non risulti
possibile -ad esempio per penuria degli
spazi fisici- o non sia ritenuta opportuna
dal comune in relazione alla loro
estensione, conformazione o localizzazione,
ovvero in relazione ai programmi comunali di
intervento), a cospetto delle quali
l'interessato potrà tutelarsi in sede
giurisdizionale, contestandole” (Cons.
Stato, Sez. IV, 14.04.2014, n. 1820).
In conclusione il ricorso N.R.G. 829/2014
deve essere respinto, ancorché la richiesta
di monetizzazione in attuazione delle
previsioni convenzionali debba essere
accolta solo nei limiti indicati dalla
convenzione.
Risulta invece meritevole di accoglimento il
secondo dei riuniti gravami. In accoglimento
della domanda principale formulata nel
ricorso N.R.G. 951/2014 va -quindi-
accertato l’inadempimento di Bi.Im. e S.r.l. agli obblighi previsti
dalla convenzione per l’attuazione del
comparto C1 del PP “Fiera Catena”, con
conseguente condanna alla cessione al comune
di 6.467 mq di standard nonché al versamento
della monetizzazione per 4.493 mq di edifici
pubblici, per un importo quantificato in
453.554,84 euro (secondo le tariffe
approvate con delibera del consiglio
comunale n. 88 del 10.06.1999).
Va invece respinta la domanda subordinata di
condanna alla monetizzazione dei 6.467 mq di
standard residuo, per le considerazioni già
esposte
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 11.05.2021 n. 430 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sebbene le dotazioni connesse alle due diverse destinazioni in
esame (“terziario
direzionale” e “residenziale”) siano ontologicamente diverse, il
mancato scomputo degli standard già originariamente contemplati (con vincolo
su aree) comporterebbe una erronea duplicazione e un ingiustificato
arricchimento dell’Amministrazione, con la conseguenza che nella
quantificazione degli oneri dovrà tenersi conto degli standard già
garantiti.
Invero, a tali fini, si osserva che:
a) la diversità di disciplina riservata dal d.m. n. 1444/1968 agli
“insediamenti residenziali” (art. 3) e agli “insediamenti
produttivi” (art. 5), e in particolare agli “insediamenti di
carattere commerciale e direzionale” (art. 5, n. 2), attiene
esclusivamente ai rapporti massimi che devono intercorrere tra l’area dotata
di specifica destinazione e le aree dedicate a standard, a tal ultimo
riguardo facendosi riferimento in maniera indistinta per entrambe le
destinazioni a “gli spazi pubblici o riservati alle attività collettive,
a verde pubblico o a parcheggi”;
b) invero, le norme in materia di standard contenute in detto
decreto non pongono alcuna differenza qualitativa fra gli standard delle
diverse zone omogenee, stabilendo solo diverse percentuali quantitative del
rapporto fra aree a destinazione residenziale (o industriale, commerciale
etc.) e aree a servizi, ferma restando la differenziazione di queste ultime
fra viabilità, parcheggi ed altro, né è dirimente il richiamo agli “spazi
pubblici” contenuto nell’articolo 3 del d.m., atteso che esso è seguito
dall’inciso “o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a
parcheggi”, in modo da confermare che non è detto che le aree in
questione debbano essere sempre e comunque rese pubbliche, ben potendo
essere vincolate a standard con modalità diverse, in tal modo trovando
fondamento la tesi circa l’indifferenza della modalità giuridica con cui
tale aree vengono individuate, e quindi la trasponibili anche a servizio
delle aree a destinazione residenziale delle aree a parcheggio illo
tempore reperite mediante vincolo di destinazione al servizio di quelle
a uso terziario;
c) peraltro, al riguardo non assume rilievo determinante la
differenza terminologica utilizzata nelle NTA (art. 39) dello strumento
urbanistico generale del Comune tra “previsti” e “reperiti”,
essa derivando esclusivamente dalla differenza tra le dotazioni connesse
agli standard per la residenza e agli standard per gli insediamenti con
destinazione direzionale, senza in nessun modo intaccare la sostanziale
omogeneità concettuale esistente tra essi;
d) invero, a nulla rileva la circostanza che in occasione della
originaria realizzazione dell’edificio de quo come terziario veniva
prevista, come necessaria dotazione di standard, la sola imposizione di un
vincolo di destinazione, data la generale irrilevanza della specifica
modalità dell’onere nell’ottica della previsione dell’imposizione in carico
al privato;
e) del resto, la tesi suggerita dal Comune fondata
sull’interpretazione della norma urbanistica sconterebbe un contrasto con la
disciplina riveniente dalle sovraordinate disposizioni regolamentari
rivenienti dal citato d.m. n. 1444/1968.
In conclusione sul punto, non essendo in astratto concepibile una
distinzione tra standard per area con destinazione “terziario direzionale”
e standard per area con destinazione “residenziale”, all’infuori
della diversità ontologica tra le relative dotazioni, risulta illegittima la
richiesta comunale di reperimento integrale delle superfici destinate a
standard per la residenza senza considerare le superfici a standard già
concesse in relazione all’edificio con destinazione a “terziario”,
che, pertanto, devono essere necessariamente computate nella determinazione
dei nuovi standard.
Invero, in caso di intervento edilizio comportante il mutamento di
destinazione d’uso, al fine della determinazione degli spazi e standard deve
rivalutarsi la complessiva situazione esistente, e conseguentemente è
ammissibile il reperimento della sola quota differenziale degli spazi a
standard ove già sussista la quota richiesta per il precedente uso, mentre,
solo in assenza di questa, le aree devono essere reperite per l’intero.
---------------
6.3. Ciò premesso, in ordine alla specifica questione oggetto della
controversia, è corretto rilevare, come fatto dal primo giudice, che,
sebbene le dotazioni connesse alle due diverse destinazioni in esame (“terziario
direzionale” e “residenziale”) siano ontologicamente diverse, il
mancato scomputo degli standard già originariamente contemplati (con vincolo
su aree) comporterebbe una erronea duplicazione e un ingiustificato
arricchimento dell’Amministrazione, con la conseguenza che nella
quantificazione degli oneri dovrà tenersi conto degli standard già
garantiti.
6.3.1. Invero, a tali fini, si osserva che:
a) la diversità di disciplina riservata dal d.m. n. 1444/1968 agli
“insediamenti residenziali” (art. 3) e agli “insediamenti
produttivi” (art. 5), e in particolare agli “insediamenti di
carattere commerciale e direzionale” (art. 5, n. 2), attiene
esclusivamente ai rapporti massimi che devono intercorrere tra l’area dotata
di specifica destinazione e le aree dedicate a standard, a tal ultimo
riguardo facendosi riferimento in maniera indistinta per entrambe le
destinazioni a “gli spazi pubblici o riservati alle attività collettive,
a verde pubblico o a parcheggi”;
b) invero, le norme in materia di standard contenute in detto
decreto non pongono alcuna differenza qualitativa fra gli standard delle
diverse zone omogenee, stabilendo solo diverse percentuali quantitative del
rapporto fra aree a destinazione residenziale (o industriale, commerciale
etc.) e aree a servizi, ferma restando la differenziazione di queste ultime
fra viabilità, parcheggi ed altro, né è dirimente il richiamo agli “spazi
pubblici” contenuto nell’articolo 3 del d.m., atteso che esso è seguito
dall’inciso “o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a
parcheggi”, in modo da confermare che non è detto che le aree in
questione debbano essere sempre e comunque rese pubbliche, ben potendo
essere vincolate a standard con modalità diverse, in tal modo trovando
fondamento la tesi circa l’indifferenza della modalità giuridica con cui
tale aree vengono individuate, e quindi la trasponibili anche a servizio
delle aree a destinazione residenziale delle aree a parcheggio illo
tempore reperite mediante vincolo di destinazione al servizio di quelle
a uso terziario;
c) peraltro, al riguardo non assume rilievo determinante la
differenza terminologica utilizzata nelle NTA (art. 39) dello strumento
urbanistico generale del Comune di Bari tra “previsti” e “reperiti”,
essa derivando esclusivamente dalla differenza tra le dotazioni connesse
agli standard per la residenza e agli standard per gli insediamenti con
destinazione direzionale, senza in nessun modo intaccare la sostanziale
omogeneità concettuale esistente tra essi;
d) invero, a nulla rileva la circostanza che in occasione della
originaria realizzazione dell’edificio de quo come terziario veniva
prevista, come necessaria dotazione di standard, la sola imposizione di un
vincolo di destinazione, data la generale irrilevanza della specifica
modalità dell’onere nell’ottica della previsione dell’imposizione in carico
al privato;
e) del resto, la tesi suggerita dal Comune fondata
sull’interpretazione della norma urbanistica sconterebbe un contrasto con la
disciplina riveniente dalle sovraordinate disposizioni regolamentari
rivenienti dal citato d.m. n. 1444/1968.
6.3.2. In conclusione sul punto, non essendo in astratto concepibile una
distinzione tra standard per area con destinazione “terziario direzionale”
e standard per area con destinazione “residenziale”, all’infuori
della diversità ontologica tra le relative dotazioni, risulta illegittima la
richiesta comunale di reperimento integrale delle superfici destinate a
standard per la residenza senza considerare le superfici a standard già
concesse in relazione all’edificio con destinazione a “terziario”,
che, pertanto, devono essere necessariamente computate nella determinazione
dei nuovi standard.
Invero, in caso di intervento edilizio comportante il mutamento di
destinazione d’uso, al fine della determinazione degli spazi e standard deve
rivalutarsi la complessiva situazione esistente, e conseguentemente è
ammissibile il reperimento della sola quota differenziale degli spazi a
standard ove già sussista la quota richiesta per il precedente uso, mentre,
solo in assenza di questa, le aree devono essere reperite per l’intero. E,
nel caso che qui occupa, non è in contestazione che l’edificio preesistente
già disponesse della quota di standard richiesta per la sua originaria
destinazione
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 23.02.2021 n. 1590 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ANNO 2020 |
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EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Il Cds ha statuito che "Esiste una differenza ontologica tra
l’istituto giuridico della monetizzazione e
quello relativo al contributo di costruzione.
Il primo attiene infatti alla disciplina del
territorio e dunque può essere attratto
nelle previsioni di cui all’art. 12, comma
3, T.U. edilizia e della corrispondente
normativa regionale (nel caso di specie, la
legge regionale della Lombardia n. 12/2005).
In sostanza, la monetizzazione è un
elemento essenziale della validità del
titolo edilizio, mentre il contributo di
costruzione opera sul piano dell’efficacia
all’interno del rapporto paritetico fra
Amministrazione e contribuente.
Gli atti con i quali l’Amministrazione
comunale determina o ridetermina il
contributo di costruzione, di cui all’art.
16 T.U. edilizia, hanno infatti natura
privatistica, con la conseguenza che
l’obbligazione di corrispondere il
contributo nasce nel momento in cui viene
rilasciato il titolo ed è a tale momento che
occorre aver riguardo per la determinazione
dell’entità dello stesso.
La monetizzazione sostitutiva della
cessione degli standard afferisce, invece,
al reperimento delle aree necessarie alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione
all'interno della specifica zona di
intervento e deve considerare la vicenda edilizia
così come concretamente si è manifestata.
In tale quadro, deve quindi ritenersi
che operino le misure di salvaguardia in
quanto finalizzate ad evitare l'immediata
realizzazione di interventi che ledano le
scelte programmatorie del Comune, anche
sotto il profilo degli standard”.
---------------
Il Collegio ritiene di dover prendere
atto dei principi espressi dal Consiglio di
Stato che, nel distinguere tra contributo di
costruzione e clausola di monetizzazione di
standard, rimarca che quest’ultima ha una
diretta e immediata incidenza urbanistica e,
avendo tale natura, segue la disciplina
dello strumento urbanistico, anche in
relazione all’applicazione delle misure di
salvaguardia.
Deve essere infatti evidenziato che la
stessa è definita dallo strumento
urbanistico generale e trattasi, in
sostanza, di una previsione di dotazione di
standard che viene tradotta in equivalente
monetario, essendo a priori noto che la
dotazione non potrà essere soddisfatta.
Natura diversa ha invece il contributo di
costruzione che, essendo definito sulla base
di parametri regolamentari estranei al PGT,
è insensibile rispetto alle variazioni dello
strumento urbanistico medesimo.
---------------
1.4. Venendo ora all’applicazione delle
misure di salvaguardia per la disciplina
della cd. monetizzazione, si è già
evidenziato in sede cautelare che la
questione delle modalità di calcolo
dell’aggravio di standard dovuto per
modificazioni delle destinazioni d’uso
assentite con titoli edilizi presentati nel
periodo compreso tra l’adozione e la
definitiva approvazione del PGT del 2012,
quindi con perdurante vigenza del PRG
precedente, è stata affrontata dalla Sezione
con la sentenza n. 2039 del 31.08.2018.
In quel caso, analogo al presente, il TAR
aveva ritenuto che la monetizzazione degli
standard, al pari della determinazione del
contributo di costruzione, dovesse avvenire
in base alla normativa vigente all’atto di
formazione del titolo edilizio e che le
norme contenute nel nuovo strumento
urbanistico generale –solo adottato–,
volte a disciplinare il conferimento dello
standard, non potessero essere oggetto di
applicazione in salvaguardia.
1.5. Tuttavia la pronuncia predetta è stata
riformata in appello, con la sentenza n.
1436 del 27.02.2020.
Ha evidenziato il Consiglio di Stato che
“Esiste una differenza ontologica tra
l’istituto giuridico della monetizzazione e
quello relativo al contributo di costruzione
(cfr. Cons Stato, sez. V, n. 4417 del 2016;
sez. IV, n. 1820 del 2014 e n. 6211 del
2013).
13.1. Il primo attiene infatti alla
disciplina del territorio e dunque può
essere attratto nelle previsioni di cui
all’art. 12, comma 3, T.U. edilizia e della
corrispondente normativa regionale (nel caso
di specie, la legge regionale della
Lombardia n. 12/2005, arg. da Cons. Stato,
sez. IV, n. 4058 del 2018).
13.2. In sostanza, la monetizzazione è un
elemento essenziale della validità del
titolo edilizio, mentre il contributo di
costruzione opera sul piano dell’efficacia
all’interno del rapporto paritetico fra
Amministrazione e contribuente.
13.3. Gli atti con i quali l’Amministrazione
comunale determina o ridetermina il
contributo di costruzione, di cui all’art.
16 T.U. edilizia, hanno infatti natura
privatistica (cfr. Cons. Stato, Ad. plen.,
n. 12 del 2018), con la conseguenza che
l’obbligazione di corrispondere il
contributo nasce nel momento in cui viene
rilasciato il titolo ed è a tale momento che
occorre aver riguardo per la determinazione
dell’entità dello stesso (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, n. 5412 del 2015 e n. 6202 del
2019).
13.4. La monetizzazione sostitutiva della
cessione degli standard afferisce, invece,
al reperimento delle aree necessarie alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione
all'interno della specifica zona di
intervento e deve considerare, come ha fatto
il Comune di Milano, la vicenda edilizia
così come concretamente si è manifestata.
13.5. In tale quadro, deve quindi ritenersi
che operino le misure di salvaguardia in
quanto finalizzate ad evitare l'immediata
realizzazione di interventi che ledano le
scelte programmatorie del Comune, anche
sotto il profilo degli standard”.
1.6. Il Collegio ritiene, anche per
oggettive esigenze di uniformità della
giurisprudenza in materia, di dover prendere
atto dei principi espressi dal Consiglio di
Stato che, nel distinguere tra contributo di
costruzione e clausola di monetizzazione di
standard, rimarca che quest’ultima ha una
diretta e immediata incidenza urbanistica e,
avendo tale natura, segue la disciplina
dello strumento urbanistico, anche in
relazione all’applicazione delle misure di
salvaguardia.
Deve essere infatti evidenziato che la
stessa è definita dallo strumento
urbanistico generale e trattasi, in
sostanza, di una previsione di dotazione di
standard che viene tradotta in equivalente
monetario, essendo a priori noto che la
dotazione non potrà essere soddisfatta.
Natura diversa ha invece il contributo di
costruzione che, essendo definito sulla base
di parametri regolamentari estranei al PGT,
è insensibile rispetto alle variazioni dello
strumento urbanistico medesimo
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 20.07.2020 n. 1389 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La monetizzazione
delle aree standard è un istituto contemplato dall'ordinamento e applicato
nella prassi amministrativa dei Comuni, anche se derogatorio rispetto al
principio affermato dall'art. 12 del D.P.R. 380/2001.
Inoltre, la facoltà di richiedere o accettare il controvalore delle opere di
urbanizzazione rientra nella sfera di discrezionalità tecnico-amministrativa
dell'Ente, come tale non censurabile se non per gravi vizi di irrazionalità.
---------------
8. Parimenti infondato è il terzo motivo di gravame.
8.1 Sul contrasto con l’art. 23 della Costituzione, va rilevato in generale
che la monetizzazione delle aree standard è un istituto contemplato
dall'ordinamento e applicato nella prassi amministrativa dei Comuni, anche
se derogatorio rispetto al principio affermato dall'art. 12 del D.P.R.
380/2001 (TAR Marche – 23/06/2011 n. 500); inoltre, la facoltà di richiedere
o accettare il controvalore delle opere di urbanizzazione rientra nella
sfera di discrezionalità tecnico-amministrativa dell'Ente, come tale non
censurabile se non per gravi vizi di irrazionalità (Consiglio di Stato, sez.
IV – 07/02/2011 n. 824; TAR Lombardia Brescia, sez. II – 19/06/2012 n.
1089).
Dunque la monetizzazione è un’alternativa ben praticabile quando non sia
possibile il trasferimento delle aree all’autorità pubblica.
8.2 La contestazione sull’irrazionalità del valore unitario (181 € al mq.)
non coglie nel segno. Anzitutto, la deliberazione 30/01/2013 n. 11 non è
stata ritualmente contestata e la circostanza introduce un chiaro profilo di
inammissibilità. Peraltro, se una motivazione diffusa non è dovuta ai sensi
dell’art. 3 della L. 241/1990, parte ricorrente si è limitata a dedurre la
sproporzione e l’illogicità senza raffrontare la grandezza con i valori di
mercato di aree analoghe.
In aggiunta, la sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV – 20/01/2014 n. 253
(parimenti evocata dalla parte resistente) ha ritenuto “… del tutto
ragionevole che l’amministrazione, quando si tratti di parcheggi pubblici,
disponga la localizzazione dello standard in prossimità della zona ove
l’incremento insediativo si registra, contemplando in via previsionale un
esborso commisurato al valore dell’area di sedime …, coerentemente
quantificato”.
9. In conclusione, l’introdotto gravame è infondato e deve essere rigettato
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 29.06.2020 n. 444 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Sovradimensionamento
degli standard.
E' illegittima una
previsione di un PGT che stabilisce uno
standard pari a 85 mq/abitante, superiore a
quello indicato dall’art. 9, comma 3, della
l.r. n. 12 del 2005 e anche più elevato di
quello già stabilito dal previgente
strumento urbanistico, nonostante il
territorio comunale fosse già dotato di
molte aree a servizi e una buona parte degli
stessi non fosse stata ancora attuata.
Ciò appare coerente con la giurisprudenza
secondo la quale il comune è tenuto a
motivare in maniera idonea e congrua sulle
ragioni che impongono l’aumento degli
standard rispetto alle previsioni normative,
in caso contrario risultando illegittima una
tale scelta; difatti, la motivazione
rafforzata deve investire il complesso delle
previsioni urbanistiche di
sovradimensionamento e deve, quindi,
chiarire perché il comune abbia inteso
superare i limiti minimi previsti dalla
legge
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 13.02.2020 n. 305 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
3. Con la seconda censura si assume
il sovradimensionamento, ingiustificato e in
contraddizione con le linee di azione
formulate dalla stessa Amministrazione,
delle aree per servizi, per un rapporto
passato da una precedente previsione di 68
mq/abitante all’attuale 85 mq/abitante, pur
prevedendo la legge un indice pari a 18
mq/abitante.
3.1. La doglianza è fondata.
La difesa comunale ha evidenziato che
nell’ambito del P.G.T., in varie parti, sono
contenute le motivazioni che hanno indotto
il Comune a prevedere una così elevata
dotazione di standard, che sarebbero perciò
idonee a giustificare una tale scelta.
Tuttavia tali motivazioni, peraltro sparse
in più documenti, non sembrano legittimare
la scelta di aumentare in maniera così
consistente, ovvero a 85 mq/abitante, le
dotazioni già previste in precedenza, pari a
68 mq/abitante, e già ampiamente
sovradimensionate rispetto alla previsione
di legge (18 mq/abitante).
Tra l’altro, alle predette aree destinate a
servizi si aggiungeranno anche quelle che
verranno realizzate e cedute nell’ambito
della pianificazione attuativa.
Inoltre, negli stessi documenti
pianificatori si dà atto che “il
territorio comunale possiede una ricca e
articolata dotazione di aree a verde: dal
verde di quartiere sino ad aree di
forestazione urbana, dai parchi urbani e gli
impianti sportivi al verde di arredo e verde
stradale, dalle aree agricole a vere e
proprie articolazioni di sistemi di spazi
aperti verdi quali il Parco del Seveso e il
Parco Sovracomunale del GrugnotortoVilloresi”
(all. 15 del Comune, pag. 39).
E ancora, va segnalato che lo stato di
attuazione dei servizi previsti dalla
strumentazione urbanistica previgente non è
completo, ma riguarda soltanto il 55% della
complessiva previsione di servizi (all. 15
del Comune, pag. 34).
Da ciò discende l’illegittimità della
previsione che stabilisce uno standard pari
a 85 mq/abitante, notevolmente superiore a
quello indicato dall’art. 9, comma 3, della
legge regionale n. 12 del 2005 e anche più
elevato di quello già stabilito dal
previgente strumento urbanistico, nonostante
il territorio comunale sia già dotato di
molte aree a servizi e una buona parte degli
stessi non sia stata ancora attuata.
Ciò appare coerente con la giurisprudenza di
questo Tribunale, secondo la quale il Comune
è tenuto a motivare in maniera idonea e
congrua sulle ragioni che impongono
l’aumento degli standard rispetto alle
previsioni normative, in caso contrario
risultando illegittima una tale scelta (TAR
Lombardia, Milano, IV, 30.07.2018, n. 1863).
Difatti, “la motivazione rafforzata deve
investire il complesso delle previsioni
urbanistiche di sovradimensionamento e deve,
quindi, chiarire perché il Comune abbia
inteso superare i limiti minimi previsti
dalla legge” (TAR Lombardia, Milano, II,
15.07.2016, n. 1429; di recente, II,
12.11.2019, n. 2380). |
URBANISTICA: Le
conclusioni del giudice di primo grado sulla conformità della clausola
negoziale in esame all'art. 28 della legge n. 1150 del 1942 e 1069 c.c.
risultano convincenti.
Invero, relativamente all’art. 28, va evidenziato che il comma 5 di quest’ultimo
elenca una serie di modalità attraverso le quali, in sede di convenzione di
lottizzazione, possono definirsi gli oneri gravanti sui privati proprietari
ai fini della realizzazione delle opere di urbanizzazione, sia primaria che
secondaria.
Tra le opzioni rientra anche quella prospettata dal n. 2), il quale prevede,
in alternativa alla cessione all’Amministrazione comunale della titolarità
sulle aree destinate ad accogliere le opere anzidette, “l'assunzione, a
carico del proprietario, degli oneri relativi alle opere di
urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di
urbanizzazione secondaria relative alla lottizzazione o di quelle opere
che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi; la quota è
determinata in proporzione all'entità e alle caratteristiche degli
insediamenti delle lottizzazioni”.
In questo quadro, può dunque ritenersi che sia non sia illegittimo prevedere
che gli acquirenti delle unità immobiliari risultanti dai processi di
lottizzazione urbanistica e che mantengono il dominium sulle aree da
destinare a fini di pubblica utilità, possano essere anche destinatari degli
oneri economici necessari al fine di assicurare una siffatta destinazione.
---------------
... per la riforma della
sentenza 22.10.2014 n. 2526 del TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
resa tra le parti, concernente la costituzione di una servitù pubblica su
un’area ricompresa nell’ambito di una convenzione di lottizzazione.
...
1. La presente controversia attiene all’esecuzione della convenzione
urbanistica originariamente stipulata tra la Va.Co. s.r.l., oggi Vi.Po.
s.r.l., e il Comune San Donato Milanese.
In forza di questo accordo, la Società, in attuazione di un piano di
lottizzazione adottato con precedente delibera del Consiglio comunale, si
impegnava a costituire una servitù di uso pubblico su aree ricomprese tra la
superficie lottizzata e un lago artificiale. La servitù avrebbe dovuto
consentire la persistente fruibilità delle aree in questione ad opera della
collettività.
1.1. Successivamente, con atti pubblici regolarmente trascritti, la Società
alienava a privati le unità immobiliari realizzate sui terreni oggetto di
lottizzazione.
Nei medesimi atti di compravendita gli acquirenti conferivano alla stessa
Società la procura irrevocabile alla stipula, con l’Amministrazione
comunale, delle ulteriori convenzioni necessarie per le cessioni e le
costituzioni di diritti reali, in favore del medesimo Comune.
1.2. Con un primo atto, sottoscritto il 04.11.2010, il signor Gi.Ma., agendo
in nome e per conto della Società lottizzante, concludeva un accordo con il
Comune per effetto del quale veniva costituito, tra le altre cose, un
diritto di superficie sulle aree individuate dalla precedente convenzione
urbanistica. L’accordo prevedeva altresì che i proprietari delle aree
lottizzate si obbligassero a sostenere le spese di manutenzione ordinaria e
straordinaria della suddetta servitù.
1.3. Alcuni dei partecipanti al Condominio Re.La., odierno appellante,
contestavano tale accordo, in quanto sottoscritto da soggetto che, alla data
della stipula, non era più titolare di poteri di legale rappresentanza della
Società firmataria, e comunque concluso con superamento dei limiti della
procura precedentemente conferita.
1.4. Ciononostante, con un nuovo atto pubblico stipulato in data 30.11.2011,
la Società lottizzante aveva provveduto a ratificare l’accordo
precedentemente sottoscritto dal signor Ma., facendo propria la volontà
negoziale da questi manifestata.
1.5. Seguivano ulteriori istanze dei condomini, indirizzate tanto al Comune
quanto alla Società, con le quali si chiedeva di dichiarare l’inefficacia o,
comunque, l’invalidità della clausola con la quale era stata prevista
l’assunzione a loro carico degli oneri legati alla manutenzione ordinaria e
straordinaria delle aree su cui insisteva la servitù di uso pubblico.
2. Gli stessi condomini e l’intero Condominio Re.La., a fronte dell’inerzia
mantenuta sulle loro istanze, proponevano quindi ricorso al Tar per la
Lombardia, sede di Milano, per far accertare l’illegittimità del silenzio
dell’Amministrazione e per far dichiarare l’inefficacia della clausola
relativa agli obblighi di manutenzione della servitù pubblica.
2.1. Il Tar, dopo avere dichiarato improcedibile il ricorso per sopravvenuto
difetto di interesse relativamente all’accertamento dell’illegittimità del
silenzio (gli stessi ricorrenti hanno dichiarato nel corso del giudizio di
non avere più interesse alla domanda), ha ritenuta infondata la richiesta di
accertamento dell’inefficacia della clausola sugli oneri di manutenzione (quest’ultima,
secondo lo stesso Tribunale, doveva ritenersi perfettamente efficace nei
confronti dei ricorrenti, essendo stata ratificata dalla Società
nell’esercizio dei poteri di rappresentanza a questa conferiti con la
pregressa procura irrevocabile.
In aggiunta a ciò, il Tar ha sottolineato che, contrariamente a quanto
dedotto nel ricorso introduttivo, l’accollo degli oneri di manutenzione
ordinaria e straordinaria ai privati proprietari delle unità immobiliari
risultanti dalla eseguita lottizzazione non si poneva in contrasto né con
l’art. 28 della legge n. 1150 del 1942, né con l’art. 1069 c.c..
3. Avverso la predetta sentenza hanno proposto appello il Condominio Re.La.
e i singoli condomini.
3.1. In particolare, nel ricorso essi hanno sottolineato la fondatezza della
domanda di accertamento dell’inefficacia della clausola contenuta
nell’accordo originariamente concluso dal “falsus procurator” della
Società, dal momento che la ratifica avrebbe dovuto essere effettuata dai
singoli privati e non dalla Società in nome e per conto di essi.
3.2. Gli appellanti hanno poi prospettato la violazione dell’art. 28 della
legge n. 1150 del 1942 e dell’art. 1069 c.c., i quali, con norme imperative,
precluderebbero agli atti costitutivi di servitù di uso pubblico la facoltà
di porre gli oneri di manutenzione delle corrispondenti opere a carico dei
soggetti gravati dalla medesima servitù. Ciò salvo diversa e specifica
pattuizione che, nel caso di specie, non sarebbe stata inserita nella
presupposta convenzione urbanistica, a seguito della quale era stata
conferita la procura alla Società lottizzante.
...
7. L’appello non è fondato.
8. Innanzitutto, occorre soffermarsi sull’idoneità della ratifica posta in
essere dalla Società lottizzante, con atto pubblico stipulato e registrato
successivamente a quello posto in essere dal “falsus procurator”,
vale a dire dal signor Ma., a produrre i propri effetti anche nei confronti
dei privati proprietari rappresentati, vincolandoli al rispetto degli
obblighi ratificati.
8.1. A conforto di una soluzione positiva deve richiamarsi il disposto
dell’art. 1399, primo comma, c.c., il quale consente al soggetto interessato
di ratificare, ossia di fare proprio, il contratto che sia stato concluso da
un soggetto privo di alcun potere di rappresentanza ovvero che abbia agito
al di là dei limiti della potestà rappresentativa precedentemente
conferitagli.
Rispetto alla fattispecie concreta qui esaminata, si tratta allora di
valutare se la ratifica in questione potesse, così come è concretamente
avvenuto, provenire dalla Società destinataria dell’originaria procura
ovvero se si rendesse necessaria la diretta ratifica ad opera dei privati
proprietari che avevano precedentemente conferito la medesima procura.
8.2. A favore della prima soluzione militano due concorrenti ordini di
ragione. In primo luogo, non sembra potersi escludere, alla stregua dei
principi generali, che il rappresentante originariamente designato abbia la
facoltà di ratificare, in nome e per conto del rappresentato, atti negoziali
conclusi da un soggetto terzo, agente in veste di falsus procurator,
a condizione, ovviamente, che gli atti ratificati rientrino nell’oggetto
della procura. Ciò in quanto gli effetti della compiuta ratifica si imputano
direttamente alla sfera giuridica del rappresentato e, pertanto, non
dovrebbe esservi alcuna differenza tra la ratifica operata personalmente dal
rappresentato e la ratifica che, viceversa, sia manifestata per il tramite
del rappresentante inizialmente designato.
8.3. Del resto, né l’art. 1388 c.c., né gli articoli a questo immediatamente
seguenti pongono limitazioni di sorta rispetto agli atti suscettibili di
essere compiuti per mezzo di un rappresentante, se non per quelli c.d. “personalissimi”.
8.4. Tra questi dovrebbe pertanto ricondursi anche la ratifica.
Non vi sono, infatti, differenze tra la stipula, in via diretta, di un
determinato contratto e la ratifica di un negozio, avente identico contenuto
dispositivo, che sia stato previamente sottoscritto da un falsus
procurator.
8.5. Inoltre, va poi rilevato che il signor Ma. ha agito in forza di un
preteso rapporto di “rappresentanza organica” con la Società cui era
stata conferita la procura.
Pertanto, alla luce delle speciali caratteristiche che connotano questa
forma impropria di “rappresentanza”, ontologicamente distinta dalla
rappresentanza volontaria di cui agli artt. 1388 e ss. c.c., appare
ragionevole ritenere che il potere di ratifica degli atti realizzati dal
soggetto che pretenda di porsi quale organo di una Società debba
riconoscersi unicamente alla Società stessa.
8.6. In sostanza, lo stesso non ha agito tanto quale falsus procurator
degli acquirenti delle unità immobiliari risultanti dalla lottizzazione,
bensì quale “falso organo” della Società cui essi avevano conferito
apposita procura. Pertanto, non poteva che essere la Società a determinarsi
nel senso della ratifica o meno degli atti da questi compiuti.
8.7. Sotto quest’ultima prospettiva, va dunque rilevato che la materia dei
vizi dei poteri rappresentativi deve essere ricondotta all’art. 2475-bis c.c.,
con la conseguenza che gli atti ultra vires eventualmente compiuti
dall’amministratore o da chi si è esternato come tale devono essere
necessariamente ratificati dalla società.
9. Quanto al tema se tra i poteri di rappresentanza attribuiti con
l’originaria procura rientrasse anche la facoltà di prevedere, all’atto
della costituzione della prevista servitù di uso pubblico su alcune aree
limitrofe ai terreni lottizzati, l’assunzione, in capo ai proprietari
rappresentati, degli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria delle
corrispondenti opere, va rilevato che le conclusioni del giudice di primo
grado sulla conformità della clausola negoziale in esame all'art. 28 della
legge n. 1150 del 1942 e 1069 c.c. risultano convincenti.
9.1. Relativamente all’art. 28, va evidenziato che il comma 5 di quest’ultimo
elenca una serie di modalità attraverso le quali, in sede di convenzione di
lottizzazione, possono definirsi gli oneri gravanti sui privati proprietari
ai fini della realizzazione delle opere di urbanizzazione, sia primaria che
secondaria.
Tra le opzioni rientra anche quella prospettata dal n. 2), il quale prevede,
in alternativa alla cessione all’Amministrazione comunale della titolarità
sulle aree destinate ad accogliere le opere anzidette, “l'assunzione, a
carico del proprietario, degli oneri relativi alle opere di
urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di
urbanizzazione secondaria relative alla lottizzazione o di quelle opere
che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi; la quota è
determinata in proporzione all'entità e alle caratteristiche degli
insediamenti delle lottizzazioni”.
9.2. In questo quadro, può dunque ritenersi che sia non sia illegittimo
prevedere che gli acquirenti delle unità immobiliari risultanti dai processi
di lottizzazione urbanistica e che mantengono il dominium sulle aree
da destinare a fini di pubblica utilità, possano essere anche destinatari
degli oneri economici necessari al fine di assicurare una siffatta
destinazione.
9.3. In relazione all’invocato contrasto con l’art. 1069 c.c., va invece
rilevato che tale disposizione, al secondo comma, fissa sì una regola
generale in forza della quale le spese correlate alle opere necessarie per
l’esercizio della servitù gravano sul proprietario del fondo dominante, ma,
al tempo stesso, conferisce una chiara portata “dispositiva” alla
stessa indicazione, consentendo espressamente alle parti dell’accordo
costitutivo di derogarvi.
Pertanto, è legittimo stabilire che sia il proprietario dei fondi gravati da
vincolo di servitù a farsi carico delle spese e degli altri oneri
conseguenti alla costituzione del medesimo vincolo.
9.4. La parte appellante ha contestato la ricostruzione qui operata
affermando che, in realtà, l’accollo ai proprietari degli oneri di
manutenzione non era previsto dall’originaria convenzione urbanistica di
lottizzazione, in esecuzione della quale è stato stipulato il successivo
accordo costitutivo della servitù di cui si discorre.
Tuttavia, è opportuno notare che il “titolo” fondante il vincolo
reale in esame deve farsi coincidere non con la convenzione da ultimo
nominata, bensì con il successivo accordo attuativo.
9.5. In altri termini, non essendo stato previsto alcunché nell’ambito della
convenzione di lottizzazione “a monte”, ben potevano le parti
dell’accordo “a valle”, nell’esercizio della loro autonomia
negoziale, prevedere la forma di riparto degli oneri discendenti dalla
servitù di uso pubblico reputata più opportuna.
Tale ampia e impregiudicata autonomia, con ogni evidenza, deve pertanto
riconoscersi anche alla Società lottizzante, che ha agito in qualità di
rappresentante dei privati acquirenti delle unità immobiliari risultanti
dalla lottizzazione.
10. Per le ragioni sopra esposte, l’appello va respinto e, per l’effetto, va
confermata la sentenza impugnata
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.02.2020 n. 1010 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
ANNO 2019 |
|
URBANISTICA: Sul
ricorso dell'A.C. dove si richiede l’accertamento del diritto della stessa
Amministrazione ad ottenere l’esatto adempimento della convenzione
urbanistica affinché il sottoscrittore sia condannato ad adempiere alle obbligazioni rimaste inottemperate e consistenti nel consegnare le aree sulle quali insistono le
opere di urbanizzazione rimaste incompiute.
Con riferimento a detta azione di accertamento va
confermata la giurisdizione del G.A. in ossequio ad un costante orientamento
giurisprudenziale (antecedente all’introduzione dell’art. 133 cpa) laddove
ritiene che in materia di esecuzione di una Convenzione si verta in
un’ipotesi di giurisdizione esclusiva, la quale è da individuarsi anche
tutte le volte che vengano in discussione questioni su diritti e, ciò,
considerando che "il rimedio previsto dall'art. 2932 c.c. a fine di ottenere
l'esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto, deve
ritenersi applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non
seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla
quale sorga l'obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la
costituzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia
in relazione ad un atto o ad un fatto dai quali detto obbligo possa sorgere
ex lege”.
Peraltro, già prima della legge sul procedimento amministrativo, la
giurisprudenza era giunta a definire le convenzioni o gli atti d'obbligo,
eventualmente stipulati tra Comune e soggetti richiedenti una concessione
edilizia, quali atti suscettibili di integrare la fonte negoziale di
regolamento dei contrapposti interessi delle parti stipulanti, “con la
conseguenza che le controversie ad esse relative si risolvono in
controversie attinenti allo stesso provvedimento concessorio e sono devolute
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo”.
Si è affermato,, infatti, che lo strumento di cui all'art. 2932 c.c. è
utilizzabile non solo nei caso di inadempimento ad obblighi di stipulazione
discendenti da un contratto preliminare, ma anche per gli obblighi aventi
titolo nella legge (nella specie dall'art. 28, comma 5, della L. n.
1150/1942 che subordina l'autorizzazione comunale per la lottizzazione di
un'area alla stipula di una convenzione, da trascriversi a cura del
proprietario, che preveda, tra l'altro, la cessione gratuita entro termini
prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria,
nonché la cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di
urbanizzazione secondaria).
---------------
Di recente si avuto modo di confermare che, in caso di mancata esecuzioni di
lavori inerenti la realizzazione di un piano di lottizzazione di iniziativa
privata, l'Amministrazione può agire dinanzi al Giudice amministrativo,
competente in via esclusiva per la materia (atteso che agli accordi
amministrativi de quo si applicano le disposizioni civilistiche in materia
di obbligazioni e contratti) ai sensi dell'art. 2932 c.c. onde accertare
l'inadempimento ed ottenere, in conseguenza, il trasferimento delle aree
destinate a cessione gratuita.
E’, altresì noto che, con gli art. 30, comma 1, e 34 del cpa, si è
legittimato il Giudice Amministrativo ad emanare pronunce dichiarative,
costitutive e di condanna, idonee a soddisfare l’effettiva pretesa
sostanziale dedotta in giudizio.
---------------
L'acquisizione delle aree ove insistono le opere di urbanizzazione da parte
del Comune costituisce un obbligo puntualmente enunciato dall'art. 28 della
L. n. 1150 del 1942, ove al quinto comma si prevede -nel testo conseguente
alle sostituzioni disposte per effetto dell'art. 8 della L. n. 847 del 1967-
che la convenzione di lottizzazione debba contemplare, comunque, "la
cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le
opere di urbanizzazione primaria, precisate dall'articolo 4 della L.
29.09.1964, n. 847", cosicché trova applicazione l’orientamento
giurisprudenziale secondo il quale “per le dette opere di urbanizzazione si
registra una presunzione iuris et de iure di proprietà pubblica, con la
conseguenza che per tali interventi, a seguito dell'entrata in vigore del
T.U. edilizia, non può ipotizzarsi la permanenza in capo ai privati della
relativa proprietà”.
Il Legislatore, nel disciplinare le opere di urbanizzazione, ha confermato
la possibilità della realizzazione diretta c.d. a scomputo dal contributo di
concessione ma non ha lasciato alcun dubbio in merito al passaggio della
proprietà delle stesse, una volta realizzate, in capo all'ente pubblico
territoriale di riferimento, prevedendone la confluenza nel patrimonio
indisponibile (art. 16, comma 2, Dpr n. 380 del 2001) e, ciò, ad ulteriore
riprova che si tratti di beni destinati alla fruizione pubblica.
In altri termini per le dette opere di urbanizzazione si registra una
presunzione iuris et de iure di proprietà pubblica, con la conseguenza che
per tali interventi, a seguito dell'entrata in vigore del T.U. edilizia, non
può ipotizzarsi la permanenza in capo ai privati della relativa proprietà.
---------------
1. Il ricorso è da accogliere.
1.1 In primo luogo è necessario precisare come il ricorso di cui si tratta
vede quale parte attrice l’Amministrazione comunale, nell’ambito di un
giudizio c.d. a parti invertite, dove si richiede l’accertamento del diritto
della stessa Amministrazione ad ottenere l’esatto adempimento della
Convenzione del 2009 sottoscritta con la società Ca. del Po., affinché quest’ultima sia condannata ad adempiere alle obbligazioni rimaste
inottemperate e consistenti nel consegnare le aree sulle quali insistono le
opere di urbanizzazione rimaste incompiute entro il 10.12.2013.
1.2 Con riferimento a detta azione di accertamento va confermata la
Giurisdizione di questo Tribunale, in ossequio ad un costante orientamento
giurisprudenziale (antecedente all’introduzione dell’art. 133 cpa) laddove
ritiene che in materia di esecuzione di una Convenzione si verta in
un’ipotesi di giurisdizione esclusiva, la quale è da individuarsi anche
tutte le volte che vengano in discussione questioni su diritti e, ciò,
considerando che "il rimedio previsto dall'art. 2932 c.c. a fine di
ottenere l'esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto,
deve ritenersi applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare
non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla
quale sorga l'obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la
costituzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia
in relazione ad un atto o ad un fatto dai quali detto obbligo possa sorgere
ex lege (Cass. n. 6792 del 08/08/1987; Cass. n. 7157 del 15/04/2004; Cass.
n. 13403 del 23/05/2008)”.
1.3 Peraltro, già prima della legge sul procedimento amministrativo, la
giurisprudenza era giunta a definire le convenzioni o gli atti d'obbligo,
eventualmente stipulati tra Comune e soggetti richiedenti una concessione
edilizia, quali atti suscettibili di integrare la fonte negoziale di
regolamento dei contrapposti interessi delle parti stipulanti, “con la
conseguenza che le controversie ad esse relative si risolvono in
controversie attinenti allo stesso provvedimento concessorio e sono devolute
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (Cass. civ., Sez.
Un., 12.11.2001, n. 14031; 29.01.2001, n. 29; 20.04.2007, n. 9360)”.
1.4 Si è affermato,, infatti, che lo strumento di cui all'art. 2932 c.c. è
utilizzabile non solo nei caso di inadempimento ad obblighi di stipulazione
discendenti da un contratto preliminare, ma anche per gli obblighi aventi
titolo nella legge (nella specie dall'art. 28, comma 5, della L. n.
1150/1942 che subordina l'autorizzazione comunale per la lottizzazione di
un'area alla stipula di una convenzione, da trascriversi a cura del
proprietario, che preveda, tra l'altro, la cessione gratuita entro termini
prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria,
nonché la cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di
urbanizzazione secondaria).
1.5 Anche questo Tribunale di recente ha avuto modo di confermare che, in
caso di mancata esecuzioni di lavori inerenti la realizzazione di un piano
di lottizzazione di iniziativa privata, l'Amministrazione può agire dinanzi
al Giudice amministrativo, competente in via esclusiva per la materia
(atteso che agli accordi amministrativi de quo si applicano le disposizioni
civilistiche in materia di obbligazioni e contratti) ai sensi dell'art. 2932
c.c. onde accertare l'inadempimento ed ottenere, in conseguenza, il
trasferimento delle aree destinate a cessione gratuita (TAR Toscana Firenze
Sez. III, 17/01/2018, n. 68).
1.6 E’, altresì noto che, con gli art. 30, comma 1, e 34 del cpa, si è
legittimato il Giudice Amministrativo ad emanare pronunce dichiarative,
costitutive e di condanna, idonee a soddisfare l’effettiva pretesa
sostanziale dedotta in giudizio.
1.7 Applicando detti principi è evidente la fondatezza dell’attuale ricorso.
E’ dirimente constatare che l’art. 1 della convenzione del 2009 impegnava la
società lottizzante a realizzare le previsioni del piano attuativo approvato
con deliberazione del Consiglio Comunale n. 12 del 20/03/2002 e, quindi, a
eseguire le opere di urbanizzazione primaria e secondaria e, da ultimo a
cedere gratuitamente entro il 20/12/2013 le aree destinate alla
realizzazione delle onere di urbanizzazione e secondaria.
1.8 Si consideri, inoltre, che il Comune, con sopralluogo tecnico del
15.04.2010, aveva avuto modo di verificare l’effettiva realizzazione del
primo stralcio delle opere di urbanizzazione primaria, oggetto della prima
concessione edilizia n. 15 del 2004, svincolando parzialmente la garanzia
fideiussoria.
1.9 L'acquisizione delle aree ove insistono le opere di urbanizzazione da
parte del Comune costituisce un obbligo puntualmente enunciato dall'art. 28
della L. n. 1150 del 1942, ove al quinto comma si prevede -nel testo
conseguente alle sostituzioni disposte per effetto dell'art. 8 della L. n.
847 del 1967- che la convenzione di lottizzazione debba contemplare,
comunque, "la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree
necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, precisate dall'articolo
4 della L. 29.09.1964, n. 847", cosicché trova applicazione
l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale “per le dette opere di
urbanizzazione si registra una presunzione iuris et de iure di proprietà
pubblica, con la conseguenza che per tali interventi, a seguito dell'entrata
in vigore del T.U. edilizia, non può ipotizzarsi la permanenza in capo ai
privati della relativa proprietà (TAR Puglia Bari, sez. II, 01.07.2010, n.
2815; TAR Calabria Catanzaro, Sezione I, 09.03.2012 n. 245)”.
2. Il Legislatore, nel disciplinare le opere di urbanizzazione, ha
confermato la possibilità della realizzazione diretta c.d. a scomputo dal
contributo di concessione ma non ha lasciato alcun dubbio in merito al
passaggio della proprietà delle stesse, una volta realizzate, in capo
all'ente pubblico territoriale di riferimento, prevedendone la confluenza
nel patrimonio indisponibile (art. 16 comma 2, Dpr n. 380 del 2001) e,
ciò, ad ulteriore riprova che si tratti di beni destinati alla fruizione
pubblica.
2.1 In altri termini per le dette opere di urbanizzazione si registra una
presunzione iuris et de iure di proprietà pubblica, con la
conseguenza che per tali interventi, a seguito dell'entrata in vigore del
T.U. edilizia, non può ipotizzarsi la permanenza in capo ai privati della
relativa proprietà (cfr. TAR Puglia Bari, sez. II, 01.07.2010, n. 2815)
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 06.11.2019 n. 1498 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: L’obbligo
per il Comune di prendere in consegna le opere di urbanizzazione deriva
direttamente dall’articolo 28 della legge n. 1150/1942, in virtù del quale
le parti (lottizzante e Comune) devono prevedere in convenzione il termine
entro il quale dovrà avvenire la cessione gratuita delle aree interessate
dalle opere di urbanizzazione in favore del Comune.
---------------
... per la declaratoria di illegittimità e l'annullamento:
- del silenzio serbato dal Comune di Cabras
sull'intimidazione/diffida 13.05.2015, trasmessa il 14.05.2015, e del
conseguente inadempimento alla presa in carico, da parte
dell'Amministrazione Comunale, delle opere di urbanizzazione primaria della
lottizzazione Funtana Meiga in territorio di Cabras;
per l'accertamento e la declaratoria dell'obbligo:
- del Comune di Cabras di prendere in carico, mediante l'adozione
degli atti e delle operazioni materiali all'uopo occorrenti, tutte le opere
di urbanizzazione primaria realizzate nella lottizzazione Funtana Meiga in
territorio di Cabras, entro e non oltre il termine di trenta giorni dalla
comunicazione o notificazione della sentenza;
...
Passando al merito della questione controversa, il ricorso in esame, nella
parte in cui si chiede l’accertamento dell’obbligo del Comune di Cabras di
prendere in carico tutte le opere di urbanizzazione primaria realizzate
nella lottizzazione Funtana Meiga in territorio di Cabras, risulta
parzialmente fondato nei sensi di seguito specificati.
Ritiene il collegio di dovere confermare, anche avuto riguardo alla
fattispecie oggi in esame, i principi già affermati da questo Tribunale,
seconda sezione, in fattispecie analoghe ed in particolare con la sentenza
del Tar Sardegna, seconda sezione, n. 282 del 27.03.2018, nonché con la
sentenza n. 404 del 15.05.2013, confermata dal Consiglio di Stato con la
sentenza n. 4169 dell’08.09.2015.
In ordine all’obbligo del Comune di prendere in carico le opere di
urbanizzazione primaria, si richiama la costante giurisprudenza della
Sezione, in base alla quale l’obbligo per il Comune di prendere in consegna
le opere di urbanizzazione deriva direttamente dall’articolo 28 della legge
n. 1150/1942, in virtù del quale le parti (lottizzante e Comune) devono
prevedere in convenzione il termine entro il quale dovrà avvenire la
cessione gratuita delle aree interessate dalle opere di urbanizzazione in
favore del Comune (cfr. al riguardo, ex multis, TAR Sardegna, Sezione
II, n. 404 del 15.05.2013 e n. 480 del 04.08.2011).
In primo luogo, si rileva che la presa in carico delle opere di
urbanizzazione da parte del Comune deve avvenire previo collaudo delle opere
di urbanizzazione e trasferimento della proprietà delle aree di sedime delle
opere medesime al patrimonio comunale
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 22.06.2019 n. 563 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
URBANISTICA: Destinazione
di un’area a standard.
---------------
Urbanistica - Servitù di uso pubblico - Destinazione di un’area a
standard – Uti cives.
La destinazione di un’area a standard è finalizzata
mediante una servitù di uso pubblico alla fruizione della stessa da parte
dell’intera collettività indistinta dei cittadini (uti cives) e non all’uso
limitato (uti singuli) da parte dei soli utenti delle unità immobiliari in
relazione alle quali è sorto l’obbligo della dotazione degli standard (1).
---------------
(1) Il comune di Flero autorizza nel 1982 una lottizzazione
(capannoni industriali) ottenendo in cambio aree a standard: verde,
parcheggi pubblici, magazzino comunale.
Di fatto però negli anni le ditte proprietarie dei capannoni utilizzano
quegli spazi pubblici (parcheggi e aree esterne al magazzino comunale) come
spazio di manovra per gli autotreni pesanti che accedono ai capannoni per
consegnare o ritirare merce.
Nel 2014 il comune –verificato che gli standard sono sovrabbondanti– aliena
mediante asta pubblica parte dei parcheggi e il magazzino ad una società
LAI, la quale mediante recinzione delimita la sua nuova proprietà.
A questo punto le Ditte, private degli spazi esterni di manovra, insorgono
avanti al TAR Brescia che accoglie il ricorso.
Il punto decisivo secondo il TAR è che, nonostante gli standard a parcheggio
siano stati ceduti al Comune e svolgano la funzione di parcheggi destinati
alla collettività, in concreto, il loro uso nel tempo li avrebbe trasformati
in “piazzali di manovra” con la tolleranza del Comune e che,
comunque, la convenzione di lottizzazione del 1982 andrebbe interpretata nel
senso che la previsione di realizzazione e cessione di parcheggi pubblici in
ambito produttivo implica la facoltà di utilizzazione degli stessi spazi
come aree di manovra per le ditte lottizzanti.
Su appello del comune e della Lai la sentenza annotata disattende
radicalmente questa statuizione.
Il Collegio non pone in dubbio che dette aree siano state utilizzate per un
consistente arco temporale anche e soprattutto per queste finalità
prettamente private delle imprese del comparto, né pone in dubbio che la
recinzione dell’area possa costituire un potenziale intralcio alle manovre
dei conducenti dei camion per l’accesso alle aziende, ma ribadisce che le
aree standard sono state acquisite dal Comune per finalità pubbliche, e non
come spazi di manovra degli autoarticolati, e la circostanza che poi siano
state utilizzate anche o soprattutto per tali finalità a servizio delle
imprese non fa venire meno la destinazione giuridicamente loro impressa e la
conseguente facoltà per il Comune di alienare gli immobili nel rispetto
delle norme di legge
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.06.2019 n. 4069 -
commento tratto da e link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA- URBANISTICA: Gli
standard urbanistici costituiscono, a norma dell’art. 17 della legge n.
765/1967 e del d.m. n. 1444/1968, dotazioni minime e inderogabili di spazi
pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a
parcheggio.
Per assolvere a tale funzione, le aree destinate a standard di verde
pubblico non possono essere sottratte alla fruizione collettiva, che ne
rappresenta la funzione tipica nell’ambito dell’organizzazione generale del
territorio comunale e che non è riducibile al solo ruolo di riequilibrio del
rapporto tra porzioni edificate e porzioni inedificate del territorio, non
vedendosi, altrimenti, quale differenza vi sarebbe rispetto a una
destinazione a verde privato.
---------------
... per l'annullamento:
- dell'ordinanza n. 251 del 26.11.2014, con cui il Dirigente del
Settore Gestione del Territorio del Comune di Cecina ha annullato in
autotutela la SCIA presentata al prot. 20183 il 22.07.2014 dal Sig. Ro.Ba.
per l'avvio dell'attività di realizzazione di una recinzione in pali e rete
metallica in area a verde privata ubicata in Cecina, via ...;
- dell'ordinanza n. 177 del 21.08.2014, con la quale il Dirigente
del Settore Gestione del Territorio del Comune di Cecina ha disposto il
divieto di prosecuzione delle attività di cui alla SCIA innanzi richiamata;
...
1. Il ricorrente, signor Ro.Ba., è proprietario nel Comune di Cecina di
un’area inedificata, di forma rettangolare, posta in fregio alla via ....
Essa ha destinazione urbanistica a verde pubblico secondo il regolamento
urbanistico comunale approvato con deliberazione consiliare del 27.03.2014,
che il signor Ba. ha impugnato in parte qua mediante ricorso straordinario
al Presidente della Repubblica, ancora non definito.
Il presente giudizio origina, invece, dall’impugnazione che il ricorrente
propone avverso i provvedimenti adottati dal Comune a fronte
dell’iniziativa, da lui formalizzata con S.C.I.A. del 22.07.2014, di
recintare l’area in questione sull’unico lato libero (quello al confine con
la pubblica via, essendo gli altri lati già delimitati dai muri di cinta
delle proprietà limitrofe).
Si tratta in particolare dell’ordinanza n. 177 del 21.08.2014, con la quale
è stata inibita la prosecuzione dell’attività, e della successiva ordinanza
n. 251 del 26.11.2014 di “annullamento” in autotutela della S.C.I.A.,
ambedue motivate – in estrema sintesi – con riguardo all’esigenza di
tutelare l’uso pubblico gravante sull’area, che verrebbe a essere impedito
dalla recinzione.
...
Attualmente, l’area è destinata a standard di “verde pubblico esistente”
che le deriva dal regolamento urbanistico approvato dal Comune nel 2014. È
dunque errata la qualificazione contenuta nella S.C.I.A. presentata dal
ricorrente, ove si parla di area a “verde privato”.
Dal canto loro, gli atti impugnati prima che alla destinazione urbanistica
hanno riguardo, lo si è accennato, all’esistenza di un diritto di uso
pubblico formatosi attraverso l’utilizzo collettivo del bene come area verde
al servizio della collettività indeterminata dei cives, protratto da tempo
immemorabile e accompagnato dall’idoneità del bene stesso a soddisfare
esigenze di carattere generale, nonché confermato dalla ripetuta esecuzione
di interventi manutentivi (taglio dell’erba, piantumazione di alberi) da
parte del Comune. L’ordinanza del 26.11.2014 fa espressamente risalire le
origini dell’uso pubblico del terreno all’epoca dell’urbanizzazione di
quell’area cittadina e all’iniziale previsione del suo acquisto gratuito
alla mano pubblica, poi non verificatosi; e parimenti ascrive a tale
previsione iniziale la giustificazione dell’attuale destinazione a verde del
terreno.
Ora, è ben possibile scorgere nel contratto di compravendita/donazione del
1973 e negli impegni assunti in quella sede dagli allora proprietari un
principio di prova della messa a disposizione del terreno in favore della
collettività. Ai fini di causa, non giova tuttavia approfondire se ci si
trovi in presenza della costituzione di una servitù pubblica per dicatio
ad patriam, che, com’è noto, prescinde dalle ragioni e dalle intenzioni
sottese al comportamento del proprietario, il quale assoggetti
volontariamente e in modo non precario un bene all’uso pubblico.
A essere irrimediabilmente incompatibile con la chiusura del fondo è,
infatti, la sua destinazione a standard di verde pubblico esistente, che
sembra voler prendere atto di una situazione in essere e della quale i
provvedimenti comunali danno comunque conto.
Gli standard urbanistici costituiscono, a norma dell’art. 17 della legge n.
765/1967 e del d.m. n. 1444/1968, dotazioni minime e inderogabili di spazi
pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a
parcheggio. Per assolvere a tale funzione, le aree destinate a standard di
verde pubblico non possono essere sottratte alla fruizione collettiva, che
ne rappresenta la funzione tipica nell’ambito dell’organizzazione generale
del territorio comunale e che non è riducibile al solo ruolo di riequilibrio
del rapporto tra porzioni edificate e porzioni inedificate del territorio,
non vedendosi, altrimenti, quale differenza vi sarebbe rispetto a una
destinazione a verde privato (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 06.08.2013, n.
4148; id., sez. IV, 21.12.2012, n. 6656).
Se poi la destinazione impressa al fondo di proprietà del ricorrente
presenti natura conformativa o espropriativa, con tutto quel che ne consegue
in termini di durata e di indennizzabilità, è questione che non dipende
dalla compressione di singole facoltà dominicali, ma, più in generale, dal
contenuto delle attività consentite al proprietario dalla disciplina
urbanistica dell’area. In ogni caso, essa non rileva ai fini della presente
decisione e andrà risolta in altra sede.
Indipendentemente dalla prova certa dell’esistenza del diritto di uso
pubblico rivendicato dall’amministrazione resistente, il divieto di
prosecuzione dell’attività opposto dal Comune al ricorrente appare dunque
frutto di una scelta legittima ed anzi obbligata, come legittimo è il
successivo “annullamento” della S.C.I.A., ancorché non necessario una
volta esercitato il potere inibitorio (nel sistema delineato dall’art. 19
della legge n. 241/1990, l’intervento in autotutela disciplinato dal quarto
comma ha una funzione rimediale rispetto al mancato esercizio del potere
inibitorio di cui al terzo comma).
3. In forza di tutte le considerazioni che precedono, il ricorso non può
trovare accoglimento
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 14.06.2019 n. 853 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Acquisto
di fondi per la realizzazione di aree pubbliche.
DOMANDA:
Un Comune rappresenta che, dopo aver accantonato una quota
di avanzo vincolato derivante da monetizzazioni aree di
standard urbanistiche, vorrebbe impegnarlo per
l'acquisizione di un terreno adiacente ad un campo da calcio
che era stato concesso in comodato al Comune e che il
proprietario vuole vendere o, altrimenti, vedersi
restituito.
RISPOSTA:
In relazione al supposto impiego di dette risorse per
l'acquisto del sedime adiacente all'impianto sportivo
comunale si osserva quanto segue.
L'art. 46 della Legge Regionale Lombardia n. 12/2005 prevede
testualmente, per quanto qui più interessa, che: “La
convenzione, alla cui stipulazione è subordinato il rilascio
dei permessi di costruire ovvero la presentazione delle
denunce di inizio attività relativamente agli interventi
contemplati dai piani attuativi, oltre a quanto stabilito ai
numeri 3) e 4) dell’articolo 8 della legge 06.08.1967, n.
765 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica
17.08.1942, n. 1150) , deve prevedere:
a) la cessione gratuita, entro termini prestabiliti, delle aree
necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, nonché
la cessione gratuita delle aree per attrezzature pubbliche e
di interesse pubblico o generale previste dal piano dei
servizi; qualora l’acquisizione di tali aree non risulti
possibile o non sia ritenuta opportuna dal comune in
relazione alla loro estensione, conformazione o
localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di
intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa
totale o parziale della cessione, che all’atto della
stipulazione i soggetti obbligati corrispondano al comune
una somma commisurata all’utilità economica conseguita per
effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al
costo dell’acquisizione di altre aree. I proventi delle
monetizzazioni per la mancata cessione di aree sono
utilizzati per la realizzazione degli interventi previsti
nel piano dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di altre
aree a destinazione pubblica;”.
A sua volta, poi, tale previsione va letta in combinato
disposto con il successivo art. 90 avente ad oggetto le aree
per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o
generale ove, tra le altre condizioni, viene precisato che “Nel
caso in cui il programma integrato di intervento preveda la
monetizzazione ai sensi dell’articolo 46, la convenzione di
cui all’articolo 93 deve contenere l’impegno del comune ad
impiegare tali somme esclusivamente per l’acquisizione di
fabbricati o aree specificamente individuati nel piano dei
servizi e destinati alla realizzazione di attrezzature e
servizi pubblici, ovvero per la realizzazione diretta di
opere previste nel medesimo piano”.
Orbene, date per legittime le monetizzazioni degli standard
già svolte, l’utilizzo delle risorse derivanti è subordinata
alla verifica a valle, da parte del Comune, che il bene
oggetto di acquisizione risulti individuato nel piano dei
servizi sia destinato all’effettiva realizzazione di
attrezzature e servizi pubblici, ovvero di opere previste
nel medesimo piano (cfr. Corte dei conti, sez. Lombardia,
del. 100/2017)
(31.03.2019 - link a www.conord.eu). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Trasferimento
coattivo di opere di urbanizzazione.
Il TAR Brescia,
accertato il diritto del Comune al
trasferimento della proprietà di opere di
urbanizzazione che una convenzione
urbanistica prevedeva che fossero realizzate
dal soggetto lottizzante, a scomputo degli
oneri di costruzione, e preso atto
dell’inadempimento della lottizzante
all’assolvimento delle obbligazioni dedotte
in Convenzione, accoglie la domanda proposta
ex art. 2932 c.c. determinando il
trasferimento coattivo delle aree in
questione e ordina al competente
Conservatore dei registri immobiliari di
procedere alle trascrizione stessa, nei
confronti di quale che sia il soggetto
risultante come proprietario e, quindi,
anche degli attuali proprietari dei fondi
che ne abbiano medio tempore acquisito la
proprietà, trattandosi di un’obbligazione
reale
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 07.03.2019 n. 227 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
Il ricorso, così proposto, merita
accoglimento.
Preliminarmente, però, il Collegio ritiene
di dover affermare la propria giurisdizione.
Da tempo, ormai, la giurisprudenza ha
chiarito, infatti, come “Le
convezioni o gli atti d’obbligo stipulati
fra Comune e privati destinatari di
concessioni edilizie non hanno specifica
autonomia come fonte negoziale di
regolamento dei contrapposti interessi, con
la conseguenza che le controversie ad esse
relative, rientrando nel campo urbanistico,
sono devolute alla giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo di cui all’art.
16 della legge n. 10/1977
(cfr. Cass. SS.UU. Civili 20/4/2007 n. 9360)”.
Ancora più chiaramente, il giudice
amministrativo d’appello ha affermato il
principio secondo cui “Qualora
si discuta in ordine a inadempimenti di
obblighi convenzionali di natura edilizio-
urbanistica assunti in esecuzione di
obblighi che per legge hanno finalità di
pubblico interesse, è indubbio che dette
convenzioni si inseriscano in un modulo
procedimentale di diritto pubblico, tale per
cui le controversie che intervengono in
subiecta materia appartengono
necessariamente alla giurisdizione
amministrativa
(cfr. Cons. Stato Sez. IV 22/01/2010 n. 214;
Cons. Stato Sez. V 05/04/2011 n. 5711 e, da
ultimo, Cons. Stato, 1069/2019)”.
Deve, dunque, ritenersi che rientrino nella
giurisdizione del giudice amministrativo sia
la domanda di accertamento del diritto del
Comune di Valbrembo alla cessione gratuita
delle aree per urbanizzazioni, nonché quella
di pronuncia di una sentenza ex art. 2932
c.c., traslativa della proprietà, in quanto
trattasi di domande connesse all’adempimento
di obblighi collegati a una convenzione
strettamente inerente all’esercizio delle
funzioni autoritative avutosi con il
precedente rilascio delle concessioni
edilizie.
Quanto alla legittimazione passiva del
soggetto intimato, si deve dare conto di
come la società Pa. sia subentrata negli
obblighi sottoscritti dai primi soggetti
lottizzanti (la società SI. In.Im. s.r.l. e
il sig. Fu.Vi.) assumendosi l’obbligo di
eseguire gli impegni derivanti dalla
convenzione di lottizzazione.
A tale proposito, la
giurisprudenza ha chiarito come la natura
reale dell'obbligazione in esame riguardi
sia i soggetti che stipulano la convenzione,
che quelli che richiedono la concessione e
quelli che realizzano l'edificazione ed i
loro aventi causa
(da ultimo Cass. civile, Sez. II,
27.08.2002, n. 12571).
Ne consegue che, accertato il diritto del
Comune al trasferimento della proprietà
delle opere di urbanizzazione che la
convenzione urbanistica prevedeva che
fossero realizzate dal soggetto lottizzante,
a scomputo degli oneri di costruzione e
preso atto dell’inadempimento dell’intimata
Società all’assolvimento delle obbligazioni
dedotte in Convenzione, deve accogliersi
anche la domanda proposta ex art. 2932 c.c
(ammissibile in ipotesi di inadempimento
agli obblighi assunti in virtù di una
convenzione urbanistica - ex multis
TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. I,
24.10.2016, n. 873) determinando il
trasferimento coattivo delle aree in
questione come identificate nella
planimetria catastale rappresentante il
documento n. 13 del Comune ricorrente,
previa redazione del tipo di frazionamento,
se necessario per poter, in concreto,
procedere alla trascrizione.
Va quindi ordinato al competente
Conservatore dei registri immobiliari di
procedere alle trascrizione stessa, nei
confronti di quale che sia il soggetto
risultante come proprietario e, quindi,
anche degli attuali proprietari dei fondi
che ne abbiano acquisito la proprietà a
seguito della cancellazione della società
intimata dichiarata all’udienza pubblica,
con esonero da ogni sua responsabilità al
riguardo.
La sentenza produrrà, quindi, effetti nei
confronti della società intimata, se ancora
risultante quale proprietaria degli
immobili, ovvero di chiunque altro sia
subentrato nella proprietà stessa,
trattandosi di un’obbligazione reale, che
non può estinguersi con l’eventuale
estinzione del soggetto proprietario. |
ANNO 2018 |
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URBANISTICA:
La tradizionale giurisprudenza opera una
distinzione tra i casi di retrocessione totale e di retrocessione parziale,
collocando la prima ipotesi nell’alveo della giurisdizione
ordinaria e la seconda in quello della giurisdizione
amministrativa.
Tale distinzione trova fondamento nella circostanza che, in
caso di retrocessione totale, sussiste un diritto
soggettivo immediatamente azionabile; nei casi di
retrocessione parziale tale diritto è invece destinato a
sorgere, come detto, solo a seguito dell’eventuale
dichiarazione di inservibilità del bene, mentre prima di
allora la situazione soggettiva del privato è qualificabile
in termini di interesse legittimo.
Va, tuttavia, considerato che la Corte
regolatrice afferma la
giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo
“nell’ipotesi in cui siano proposte, dopo l'espropriazione
di un'area, due azioni congiunte o alternative
dall'espropriato, di retrocessione totale per la parte delle
superfici acquisite rimasta inutilizzata e parziale per
quella su cui si sia realizzata un'opera di pubblica utilità
diversa da quella per cui si era proceduto all'esproprio”.
Un decisivo revirement dell’intera materia si
registra con la sentenza delle Sezioni unite n. 1092 del
2017 secondo cui “è fuorviante la prospettiva tradizionale
del carattere parziale o totale della retrocessione e della
connessa configurazione, in capo al soggetto espropriato, di
una posizione di interesse legittimo ovvero di diritto
soggettivo a seconda della sussistenza o meno di un potere
discrezionale di disporre la retrocessione stessa da parte
dell'amministrazione. La materia, infatti, trova attualmente
una specifica disciplina nel codice del processo
amministrativo approvato con D.Lgs. 02.07.2010, n. 104
[…] che all'art. 133, comma 1, lett. g), contempla, tra le
ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, quella delle "controversie aventi ad oggetto
(...) i comportamenti, riconducibili, anche mediatamente,
all'esercizio di un pubblico potere, delle pubbliche
amministrazioni in materia di espropriazione per pubblica
utilità, ferma restando la giurisdizione del giudice
ordinario per quelle riguardanti la determinazione e la
corresponsione dell'indennità in conseguenza dell'adozione
di atti di natura espropriativa o ablativa".
Invero, le
Sezioni unite chiariscono che “una situazione di "mediata" riconducibilità del comportamento della pubblica
amministrazione all'esercizio di un potere si verifica anche
nel caso di protrazione dell'occupazione di un suolo pur
dopo la sopraggiunta inefficacia della dichiarazione di
pubblica utilità, ricorrendo anche in tale ipotesi
l'elemento decisivo -per l'affermazione della giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo- del concreto
esercizio del potere ablatorio, riconoscibile per tale in
base al procedimento svolto ed alle forme adottate, in
consonanza con le norme che lo regolano, pur se poi
l'ingerenza nella proprietà privata e la sua utilizzazione
siano avvenute senza alcun titolo che le consentiva: infatti
il comportamento dell'amministrazione, che omette di
restituire il terreno occupato in virtù di decreto di
occupazione, nonostante quest'ultimo sia stato travolto
dalla sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di
pubblica utilità, deve ritenersi connesso, ancorché in via
mediata, a quel provvedimento, senza il quale non vi sarebbe
stata apprensione e, quindi, neppure la mancata
restituzione”.
Del pari, nel caso di retrocessione si
assiste ad un comportamento dell’Amministrazione speculare
al potere espropriativo a base del proprio agire. Infatti,
“si è dinanzi al concreto esercizio di un potere ablatorio,
culminato nel decreto di espropriazione, e un comportamento
ad esso collegato (che non si sarebbe verificato se non vi
fosse stato l'esproprio) della pubblica amministrazione, la
quale omette la retrocessione del bene nonostante la
sussistenza dei presupposti di legge”.
Pertanto, la domanda
articolata con il secondo ricorso per motivi aggiunti e
volta ad ottenere la retrocessione totale del bene deve
ritenersi, comunque, attratta alla giurisdizione del Giudice
amministrativo, fatte salve le precisazioni in ordine al quantum debeatur su cui si dirà nel prosieguo della presente
sentenza.
---------------
1. Parte ricorrente censura la deliberazione del Consiglio
Comunale di Livigno n. 63 del 29.09.2014 con la quale
l’Ente provvede a prorogare i termini di efficacia del Piano
di Lottizzazione approvato con le delibere n. 27 del 01.06.2004 e n. 48 del 29.09.2004 e finalizzato alla
realizzazione di un insediamento a destinazione industriale
idoneo a soddisfare le richieste di nuovi insediamenti
produttivi e di trasferimento degli insediamenti esistenti
in Livigno.
Articola due motivi di ricorso facendo valere
l’illegittimità della proroga per violazione della normativa
richiamata che imporrebbe un termine di efficacia pari a
dieci anni e per mancata esplicitazione delle ragioni
fattuali e giuridiche a sostegno della proroga.
Con il primo
ricorso per motivi aggiunti la sig.ra Ga. impugna la
delibera della Giunta comunale n. 51 del 20.05.2017 per
l’esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria del PLU,
e chiede, inoltre, che sia dichiarati nulli e/o inefficaci:
a) la convenzione di lottizzazione stipulata tra il Comune
di Livigno e la Co.Ar.Li.;
b) l’atto di
ricomposizione fondiaria di pari data;
c) l’accordo per
l’esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria previsto
dagli atti impugnati. Con tale atto la ricorrente deduce, in
primo luogo, l’invalidità derivata del provvedimento
impugnato richiamando i motivi articolati nel ricorso
principale. Propone, inoltre, un unico motivo di ricorso per
invalidità propria del provvedimento impugnato rubricato:
“Violazione dell’articolo 78, comma 2, del d.lgs. 267/2000”.
Con l’ultimo ricorso per motivi aggiunti la sig.ra Ga.
chiede a questo Tribunale di accertare e dichiarare il
diritto alla retrocessione del terreno identificato catastalmente al foglio 49, mappale 475 del N.C.T. del
Comune di Livigno, previa eventuale concessione di “un
termine per la chiedere alla Commissione provinciale
espropri la determinazione dell’indennità di cui
all’articolo 46, comma 1, del D.P.R. 327/2001 e con deposito
o pagamento diretto (in caso di accettazione) della predetta
indennità, da effettuarsi nei modi, nei termini [ritenuti]
di giustizia”.
1.1. Individuato l’intero thema decidendum, il
Collegio ritiene di affrontare, in via preliminare, le varie
questioni processuali involte nel giudizio, incentrando la
successiva disamina sul merito del ricorso introduttivo e
dei due ricorsi per motivi aggiunti.
1.2. A tal fine, occorre esaminare, in primo luogo, la
questione di giurisdizione sulla domanda di retrocessione
fatta valere con il secondo ricorso per motivi aggiunti che
sorregge –secondo la prospettiva della ricorrente- anche
l’interesse all’impugnazione della delibera impugnata con il
ricorso introduttivo.
Sul punto, osserva il Collegio come la
tradizionale giurisprudenza operi una distinzione tra i casi
di retrocessione totale e di retrocessione parziale,
collocando la prima ipotesi nell’alveo della giurisdizione
ordinaria e la seconda in quello della giurisdizione
amministrativa.
Tale distinzione trova fondamento nella
circostanza che, in caso di retrocessione totale, sussiste
un diritto soggettivo immediatamente azionabile; nei casi di
retrocessione parziale tale diritto è invece destinato a
sorgere, come detto, solo a seguito dell’eventuale
dichiarazione di inservibilità del bene, mentre prima di
allora la situazione soggettiva del privato è qualificabile
in termini di interesse legittimo (cfr., da ultimo, TAR
per il Lazio – sede di Roma, sezione II, 06.09.2018,
n. 9190).
Va, tuttavia, considerato che la Corte
regolatrice, già con sentenza n. 14805 del 2009, afferma la
giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo
“nell’ipotesi in cui siano proposte, dopo l'espropriazione
di un'area, due azioni congiunte o alternative
dall'espropriato, di retrocessione totale per la parte delle
superfici acquisite rimasta inutilizzata e parziale per
quella su cui si sia realizzata un'opera di pubblica utilità
diversa da quella per cui si era proceduto all'esproprio” (cfr.,
inoltre, Corte di Cassazione, sezioni unite, 27.01.2014, n. 1520).
Un decisivo revirement dell’intera materia si
registra con la sentenza delle Sezioni unite n. 1092 del
2017 secondo cui “è fuorviante la prospettiva tradizionale
del carattere parziale o totale della retrocessione e della
connessa configurazione, in capo al soggetto espropriato, di
una posizione di interesse legittimo ovvero di diritto
soggettivo a seconda della sussistenza o meno di un potere
discrezionale di disporre la retrocessione stessa da parte
dell'amministrazione. La materia, infatti, trova attualmente
una specifica disciplina nel codice del processo
amministrativo approvato con D.Lgs. 02.07.2010, n. 104
[…] che all'art. 133, comma 1, lett. g), contempla, tra le
ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, quella delle "controversie aventi ad oggetto
(...) i comportamenti, riconducibili, anche mediatamente,
all'esercizio di un pubblico potere, delle pubbliche
amministrazioni in materia di espropriazione per pubblica
utilità, ferma restando la giurisdizione del giudice
ordinario per quelle riguardanti la determinazione e la
corresponsione dell'indennità in conseguenza dell'adozione
di atti di natura espropriativa o ablativa".
Invero, le
Sezioni unite, già con le ordinanze nn. 10879 e 12179 del
2015 chiariscono che “una situazione di "mediata" riconducibilità del comportamento della pubblica
amministrazione all'esercizio di un potere si verifica anche
nel caso di protrazione dell'occupazione di un suolo pur
dopo la sopraggiunta inefficacia della dichiarazione di
pubblica utilità, ricorrendo anche in tale ipotesi
l'elemento decisivo -per l'affermazione della giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo- del concreto
esercizio del potere ablatorio, riconoscibile per tale in
base al procedimento svolto ed alle forme adottate, in
consonanza con le norme che lo regolano, pur se poi
l'ingerenza nella proprietà privata e la sua utilizzazione
siano avvenute senza alcun titolo che le consentiva: infatti
il comportamento dell'amministrazione, che omette di
restituire il terreno occupato in virtù di decreto di
occupazione, nonostante quest'ultimo sia stato travolto
dalla sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di
pubblica utilità, deve ritenersi connesso, ancorché in via
mediata, a quel provvedimento, senza il quale non vi sarebbe
stata apprensione e, quindi, neppure la mancata
restituzione”.
Del pari, nel caso di retrocessione si
assiste ad un comportamento dell’Amministrazione speculare
al potere espropriativo a base del proprio agire. Infatti,
“si è dinanzi al concreto esercizio di un potere ablatorio,
culminato nel decreto di espropriazione, e un comportamento
ad esso collegato (che non si sarebbe verificato se non vi
fosse stato l'esproprio) della pubblica amministrazione, la
quale omette la retrocessione del bene nonostante la
sussistenza dei presupposti di legge”.
Pertanto, la domanda
articolata con il secondo ricorso per motivi aggiunti e
volta ad ottenere la retrocessione totale del bene deve
ritenersi, comunque, attratta alla giurisdizione del Giudice
amministrativo, fatte salve le precisazioni in ordine al
quantum debeatur su cui si dirà nel prosieguo della
presente sentenza
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 12.10.2018 n. 2265 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo un principio consolidato “il
contributo di concessione va determinato con
riferimento alla disciplina, legislativa e
regolamentare, vigente al momento del
rilascio del titolo edilizio, che segna il
perfezionamento della fattispecie concessoria (o autorizzatoria, a seconda
della tipologia di titolo edilizio)”.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale cui
il Collegio aderisce, la misura del
contributo di costruzione può essere
successivamente rideterminata nel caso di
errore di calcolo rispetto al contributo
dovuto in base alla situazione di fatto e
alla disciplina vigente al tempo del
rilascio del titolo.
---------------
Tali considerazioni devono reputarsi
estensibili anche alla c.d. monetizzazione
di standard, in quanto –nonostante la
diversa natura di tale pretesa rispetto a
quella concernente il contributo di
costruzione–
deve ritenersi
che, anche in relazione a tale diritto di
credito, la fonte dell’obbligazione sia
comunque costitutiva dal provvedimento
assentivo dell’intervento, sia esso un atto
espresso del Comune o un atto privato
rispetto al quale l’Amministrazione non
esercita alcun potere inibitorio.
---------------
Nel caso in cui l’intervento sia
legittimato da una denuncia di inizio
attività, il termine per la rideterminazione
degli importi dovuti decorre dalla
presentazione della denuncia, poiché dal
relativo contenuto sono desumibili tutti i
profili dell’intervento rilevanti per la
quantificazione di tali importi.
Alla
medesima data dovrà, inoltre, farsi
riferimento anche per l’individuazione della
disciplina applicabile ai fini della
determinazione delle somme, atteso che “la
d.i.a. non costituisce un provvedimento
amministrativo a formazione tacita, ma un
atto privato, volto a comunicare
l'intenzione di intraprendere un'attività
direttamente ammessa dalla legge, che si
perfeziona con la sua presentazione, per cui
allo stesso non può che applicarsi la
disciplina legislativa vigente al momento
della sua presentazione alla pubblica
amministrazione”.
---------------
La quantificazione degli standard e la
misura del contributo di costruzione devono,
quindi, determinarsi in ragione della
normativa vigente all’epoca della formazione
dell’effettivo titolo che costituisce la
fonte o il presupposto di tale obbligazione.
---------------
2.1. Il ricorso è parzialmente fondato ai
sensi e nei limiti di seguito indicati.
2.2. Gli interventi edilizi realizzati dalla
società ricorrente e ai quali fa riferimento
il provvedimento comunale di determinazione
degli stardard urbanistici e del contributo
di costruzione hanno fondamento giuridico in
una pluralità di titoli, in precedenza
indicati.
Secondo un principio consolidato “il
contributo di concessione va determinato con
riferimento alla disciplina, legislativa e
regolamentare, vigente al momento del
rilascio del titolo edilizio, che segna il
perfezionamento della fattispecie concessoria (o autorizzatoria, a seconda
della tipologia di titolo edilizio)”
(Consiglio di Stato, sez. VI, 07.05.2015,
n. 2294; nello stesso senso, ex plurimis:
Id., Sez. IV, 07.06.2012, n. 3379; Id.,
Sez. IV, 25.06.2010, n. 4109; Id, Sez.
V, 13.06.2003, n. 3332).
Secondo l’orientamento giurisprudenziale cui
il Collegio aderisce, la misura del
contributo di costruzione può essere
successivamente rideterminata nel caso di
errore di calcolo rispetto al contributo
dovuto in base alla situazione di fatto e
alla disciplina vigente al tempo del
rilascio del titolo (cfr. Consiglio di
Stato, Sez. IV, 12.06.2017, n. 2821).
Tali considerazioni devono reputarsi
estensibili anche alla c.d. monetizzazione
di standard, in quanto –nonostante la
diversa natura di tale pretesa rispetto a
quella concernente il contributo di
costruzione (Cons. Stato, Sez. IV, 28.12.2012, nn. 6706, 6707 e 6708; Id.,
16.02.2011, n. 1013; TAR Lombardia,
Milano, Sez. II, 26.07.2016, n. 1507; Id.,
19.07.2016, n. 1447: Id., 01.08.2013, n. 2056; Id., 14.02.2013, n.
451; TAR Campania, Salerno, Sez. I, 15.09.2014, n. 1558)– deve ritenersi
che, anche in relazione a tale diritto di
credito, la fonte dell’obbligazione sia
comunque costitutiva dal provvedimento
assentivo dell’intervento, sia esso un atto
espresso del Comune o un atto privato
rispetto al quale l’Amministrazione non
esercita alcun potere inibitorio.
Infatti, nel caso in cui l’intervento sia
legittimato da una denuncia di inizio
attività, il termine per la rideterminazione
degli importi dovuti decorre dalla
presentazione della denuncia, poiché dal
relativo contenuto sono desumibili tutti i
profili dell’intervento rilevanti per la
quantificazione di tali importi.
Alla
medesima data dovrà, inoltre, farsi
riferimento anche per l’individuazione della
disciplina applicabile ai fini della
determinazione delle somme, atteso che “la
d.i.a. non costituisce un provvedimento
amministrativo a formazione tacita, ma un
atto privato, volto a comunicare
l'intenzione di intraprendere un'attività
direttamente ammessa dalla legge, che si
perfeziona con la sua presentazione, per cui
allo stesso non può che applicarsi la
disciplina legislativa vigente al momento
della sua presentazione alla pubblica
amministrazione” (così Consiglio di
Stato, Adunanza Plenaria, 29.07.2011 n. 15;
Consiglio di Stato, sez. IV, 04.09.2012 n.
4669; Id., sez. IV, 07.07.2016, n. 3014; Tar
per la Lombardia–sede di Milano, sez. II,
16.06.2014, n. 1578; TAR per la
Lombardia–sede di Milano, Sez. I,
30.11.2016, n. 2277).
2.3. La quantificazione degli standard e la
misura del contributo di costruzione devono,
quindi, determinarsi in ragione della
normativa vigente all’epoca della formazione
dell’effettivo titolo che costituisce la
fonte o il presupposto di tale obbligazione.
Nel caso di specie, la D.I.A. del 20.10.2010 è relativa alla demolizione di
fabbricato preesistente a destinazione
autorimessa, sito a Milano in via ... 25, e
alla costruzione di nuovo edificio
residenziale, per una s.l.p. di 2123,21 mq.,
e si perfeziona in ragione del mancato
esercizio di poteri inibitori da parte del
Comune.
La D.I.A. è quindi titolo legittimo
dell’intervento in esame, non sostituito dai
successivi interventi che hanno portata più
limitata e che, comunque, non sostituiscono
il primo titolo. Infatti, la successiva
D.I.A. del 2012 costituisce una variante
ordinaria che limita semplicemente la s.l.p.
a 2122,28 mq.
Il successivo intervento (permesso di
costruire n. 154 del 2014) non comporta la
mera sostituzione del patrimonio edilizio
esistente pur generando un aumento della
s.l.p.. L’ultimo intervento è costituito
dalla segnalazione certificata di inizio
attività del 10.04.2014 con la quale si
realizzano semplicemente opere di
completamento della precedente D.I.A.
2.4. La concreta disamina svolta consente,
quindi, di affermare che gli interventi –pur relativi alla medesima complessiva opera
e aventi delle fisiologiche interferenze–
costituiscono lavori legittimati dai
rispettivi titoli e per questo sottoposti
alla normativa vigente all’epoca di
formazione degli stessi (cfr., Consiglio di
Stato, sez. VI, 24.11.2017, n. 5485).
Di conseguenza, la determinazione degli
standard urbanistici e del contributo di
costruzione non può che avere ad oggetto lo
specifico intervento realizzato con
applicazione della normativa ratione
temporis vigente. In particolare, la prima
D.I.A. del 2010 risulta soggetta alle
prescrizioni dettate dal previgente P.R.G.;
al contrario, sono soggette alla specifiche
regole dettate dal sopraggiunto P.G.T. (in
relazione ai singoli interventi assentiti) i
successivi titoli sin qui esaminati
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 31.08.2018 n. 2039 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Sovradimensionamento
degli standard.
In sede di predisposizione di un PGT,
rispetto alla previsione di una rilevante
superficie destinata a standard,
notevolmente superiore ai parametri di
legge, il Comune deve idoneamente e
congruamente motivare sulle ragioni di tale
rilevante necessità. Invero, la destinazione
a dotazioni standard di un'area privata
incide fortemente sugli interessi del
proprietario.
E', pertanto, necessario che l'ente indichi
sempre con precisione quali attrezzature
debbano essere ivi realizzate, in modo da
consentire l'apprezzamento, da un lato,
della serietà della decisione e, da altro
lato, della consistenza degli interessi
pubblici che si intendono soddisfare a
scapito dell'interesse privato.
La motivazione rafforzata deve investire il
complesso delle previsioni urbanistiche di
sovradimensionamento e deve, quindi,
chiarire perché il Comune abbia inteso
superare i limiti minimi previsti dalla
legge.
Inoltre, secondo le previsioni dell’art. 9,
comma 10, della l.r. n. 12/2005, i servizi e
le attrezzature private di interesse
pubblico sono qualificati come servizi e
attrezzature pubbliche e di interesse
pubblico o generale, conseguendone, dunque,
che le relative aree devono essere
considerate a standard
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 30.07.2018 n. 1863 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
... per l'annullamento della deliberazione
C.C. di Nerviano n. 37 del 06.04.2010
avente ad oggetto le controdeduzioni alle
osservazioni e l’approvazione definitiva
degli atti di PGT ai sensi della L.R. n.
12/2005 e dei relativi allegati, compresa la
VAS.
...
Con il ricorso all’esame del Collegio la
società istante, proprietaria di un’area di
circa 19.000 mq. in ambito urbanizzato nel
comune di Nerviano, ha impugnato il
provvedimento indicato in epigrafe, con il
quale il Comune medesimo ha approvato il
piano di governo del territorio e ha
controdedotto alle osservazioni presentate
dagli interessati, in relazione al sito di
sua proprietà, classificato come ambito per
servizi privati di interesse generale, con
previsione, in particolare, di strutture
sportive coperte e scoperte, dunque con una
limitata possibilità edificatoria.
A sostegno del proprio gravame l’istante ha
dedotto: la violazione dell’art. 9 della
L.R. n. 12/2005 in relazione al contenuto
del Piano dei Servizi, che non
evidenzierebbe la necessità di ulteriori
attrezzature di interesse generale, ed in
specie sportive; l’eccesso di potere per
carenza di motivazione e difetto di
istruttoria delle previsioni urbanistiche in
relazione al sovradimensionamento rispetto
agli standard minimi e all’affidamento
ingenerato nella società ricorrente da
precedenti indirizzi espressi dalla stessa
amministrazione comunale; l’irragionevolezza
e illogicità manifesta delle previsioni
urbanistiche rispetto alla conformazione e
alle caratteristiche morfologiche dell’area,
interclusa fra aree a destinazione
residenziale e produttiva; l’illegittimità
della valutazione ambientale strategica (VAS)
rispetto alle disposizioni normative in
materia, eurounitarie ed interne (direttiva
2001/42/CE, artt. 11 e ss. del d.lgs. n.
152/2005, art. 4 L.R. n. 12/2005, DCR n. 351
del 13/3/2007, DGR n. 8/6420 del 27/12/2007,
DGR 10971 del 30/12/2009); la violazione
degli artt. 13, comma 8, e 20, commi 4 e 5,
della L.R. n. 12/2005 e il difetto di
istruttoria in relazione all’omissione del
rispetto dell’obbligo di trasmettere gli
atti del PGT alla Regione, perché
interessati da obiettivi prioritari di
interesse regionale e sovraregionale; la
violazione dell’art. 9 della L.R. n. 12/2005
e dell’art. 38 della L. n. 26/2003, nonché
il difetto di istruttoria, in relazione alla
mancata individuazione delle infrastrutture
nel sottosuolo mediante la predisposizione
del PUGGS (piano urbano generale dei servizi
nel sottosuolo).
...
Il Collegio ritiene fondata la censura con
la quale la società ricorrente ha dedotto
l’eccesso di potere per carenza di
motivazione e difetto di istruttoria delle
previsioni urbanistiche impugnate in
relazione al sovradimensionamento rispetto
agli standard minimi previsti dalla legge.
Più specificamente, l’istante ha lamentato
che il Comune resistente non avrebbe
rispettato l’incisivo onere di motivazione
che sussiste qualora lo strumento
urbanistico effettui un sovradimensionamento
delle aree destinate ad ospitare
attrezzature pubbliche o di interesse
pubblico o generale (cosiddette aree a
standard), prevedendone in misura maggiore
rispetto ai parametri minimi fissati
dall’art. 3 del d.M. n. 1444 del 1968 e
dall’art. 9, comma 3, della legge regionale
n. 12 del 2005, vale a dire 18 mq./abitante.
La difesa comunale, invece, ha controdedotto
premettendo, anzitutto, la generale funzione
di tutela ambientale delle previsioni
urbanistiche impugnate, che riguarderebbero
un ambito inserito tra aree edificate
residenziali e produttive e che avrebbero
costituito un idoneo compromesso per
attribuire comunque una limitata capacità
edificatoria all’area in questione senza
compromettere gli interessi generali degli
abitanti del Comune. La funzione delle
previsioni urbanistiche in questione
sarebbe, dunque, di riequilibrio ecologico.
Sulla specifica censura, l’Amministrazione
resistente assume che la disciplina
regionale stabilirebbe solo in linea di
massima gli standard minimi, lasciando la
definizione concreta degli stessi alle
previsioni degli strumenti urbanistici
generali ed attuativi.
Inoltre, i servizi privati di interesse
generale previsti dallo strumento
urbanistico impugnato in relazione all’area
della società istante non potrebbero essere
qualificati come servizi pubblici e di
interesse pubblico o generale, perché non
regolati da atto di asservimento o da
regolamento d’uso.
La tesi del Comune non convince.
Ed invero, nella fattispecie in questione la
relazione al Piano dei Servizi indica una
superficie complessiva di aree a standard
pari a 1.043.934 mq., di cui 786.957 mq. di
aree per servizi alla popolazione,
corrispondenti a 39,9 mq. per abitante, e
256.977 mq. di aree a servizio del sistema
economico (cfr. pag. 41 della relazione).
Rispetto alla previsione di tale rilevante
superficie destinata a standard,
notevolmente superiore ai parametri di
legge, il Comune intimato avrebbe dovuto
idoneamente e congruamente motivare sulle
ragioni di tale rilevante necessità, mentre
non ha fornito alcuna specifica motivazione
a riguardo.
E’ stato, in proposito, osservato che: “La
destinazione a dotazioni standard di un'area
privata incide fortemente sugli interessi
del proprietario; è, pertanto, necessario
che l'ente indichi sempre con precisione
quali attrezzature debbano essere ivi
realizzate, in modo da consentire
l'apprezzamento, da un lato, della serietà
della decisione e, da altro lato, della
consistenza degli interessi pubblici che si
intendono soddisfare a scapito
dell'interesse privato. La motivazione
rafforzata deve investire il complesso delle
previsioni urbanistiche di
sovradimensionamento e deve, quindi,
chiarire perché il Comune abbia inteso
superare i limiti minimi previsti dalla
legge” (cfr. TAR Lombardia, sez. II, 15.07.2016, nn. 1429 e 1430; 30.09.2016, n. 1766).
Inoltre, secondo le previsioni dell’art. 9,
comma 10, della l.r. n. 12/2005,
i servizi e
le attrezzature private di interesse
pubblico sono qualificati come servizi e
attrezzature pubbliche e di interesse
pubblico o generale, conseguendone, dunque,
che le relative aree devono essere
considerate a standard (TAR Lombardia, sez. II, 21.12.2012, n. 3186).
Del resto, lo stesso PGT impugnato
classifica il comparto della ricorrente
quale area per l’insediamento di servizi di
interesse pubblico e generale (cfr. TAV R4
del Piano delle Regole e TAV S3.1 del Piano
dei Servizi).
E tale conclusione si ricava anche
dall’esame dell’art. 83.4 NTA del Piano
delle Regole, che al secondo comma prevede
espressamente la natura di servizio pubblico
delle attrezzature private in questione, ai
sensi dell’art. 9 succitato.
Alla luce delle suesposte considerazioni,
assorbendosi le ulteriori censure dedotte,
il ricorso va accolto e, per l’effetto, va
disposto l’annullamento dei provvedimenti
impugnati limitatamente alla parte
concernente le aree di proprietà
dell’istante, con l’obbligo del Comune
resistente di rideterminarsi in ordine alle
stesse.
La domanda di risarcimento del danno va,
invece, respinta, atteso che solo all’esito
del riesercizio della potestà pianificatoria
da parte dell’Amministrazione intimata sarà
possibile valutare il verificarsi di
un’eventuale lesione in capo alla posizione
giuridica della società istante.
Sussistono, tuttavia, giusti motivi per
disporre l’integrale compensazione fra le
parti delle spese di giudizio, in relazione
alla soccombenza parziale. |
ANNO 2017 |
|
EDILIZIA PRIVATA -
PATRIMONIO - URBANISTICA: Nel
rispetto della disciplina vincolistica di settore anche di
livello regionale, nel corso dell’esercizio 2017, i proventi
connessi agli oneri di urbanizzazione e alla monetizzazione
degli standard qualitativi aggiuntivi possono essere
utilizzati per finanziare una spesa in conto capitale.
Lo standard qualitativo, invero già previsto dalla legge
regionale n. 9/1999, si può considerare, nella sua
declinazione presente nell’ora riportato art. 90 della legge
regionale n. 12/2005, un sovra-standard, ovvero una
prestazione aggiuntiva rispetto alle dotazioni minime
richieste dalla norma in relazione alle funzioni insediate o
da insediare.
L’art. 90, nel prevedere la possibilità di monetizzare tali
dotazioni, sottopone tale possibilità alla dimostrazione, da
parte del comune, che “tale soluzione sia la più
funzionale per l’interesse pubblico”.
L’ultimo comma
dell’articolo in esame prevede, altresì, che “nel caso in
cui il programma integrato di intervento preveda la
monetizzazione ai sensi dell’articolo 46, la convenzione di
cui all’articolo 93 deve contenere l’impegno del comune ad
impiegare tali somme esclusivamente per l’acquisizione di
fabbricati o aree specificamente individuati nel piano dei
servizi e destinati alla realizzazione di attrezzature e
servizi pubblici, ovvero per la realizzazione diretta di
opere previste nel medesimo piano”.
Ne consegue che
l’utilizzo delle risorse relative alla monetizzazione dei
predetti standard qualitativi è subordinata alla verifica
–da parte del Comune istante– a monte che la stessa monetizzazione sia “la più funzionale per l’interesse
pubblico” in concreto perseguito e, a valle, che il bene
oggetto di acquisizione risulti individuato nel piano dei
servizi e destinato all’effettiva realizzazione di
attrezzature e servizi pubblici, ovvero di opere previste
nel medesimo piano.
---------------
Il Sindaco del Comune di Novedrate (CO) -dopo aver
rappresentato che tra gli obiettivi strategici dell’azione
amministrativa rientra l’acquisizione al patrimonio comunale
del fabbricato storico denominato “Villa Casana”,
della Cappella Gentilizia e del parco circostante
attualmente di proprietà privata da conseguire mediante la
permuta di un’area comunale posta all’interno dell’area di
trasformazione afferente all’obiettivo strategico in cui la
complessiva operazione si inscrive e dopo aver, altresì,
ricordato che il Comune risulta tenuto al versamento anche
di una somma pari alla differenza di valore fra i beni
immobili oggetto di permuta– ha rivolto alla Sezione il
seguente quesito:
“se è possibile far fronte alla suddetta differenza di
valore utilizzando all’uopo lo standard qualitativo
aggiuntivo pari ad euro 300.000,00, il fondo per il Centro
storico nella misura del 3% ed i proventi da permessi di
costruire (oneri di urbanizzazione e costo di costruzione)
che il privato dovrà versare nelle casse dell’Ente per la
realizzazione dell’intervento edilizio programmato. Si
precisa, nel contempo, che è intenzione delle parti
sottoscrivere il contratto di permuta entro il corrente anno
stante l’utilizzo per fini tipici degli oneri di
urbanizzazione previsto a decorrere dall'esercizio 2018
dalla Legge n. 232/2016, articolo 1, commi 460-461”.
...
2. Giova preliminarmente evidenziare come la materia oggetto del
quesito in esame è stata, di recente, oggetto, nei suoi
principi generali, di analisi da parte di questa Sezione
nella deliberazione n. 81/2017/PAR. Facendo applicazione dei
principi affermati in tale pronuncia, deve preliminarmente
ricordarsi, sul piano generale, che, nei principi contabili
generali fissati dal decreto legislativo 23.06.2011, n. 118
(allegato 1) si esplicita che:
- “è il complesso unitario delle entrate che finanzia
l’amministrazione pubblica e quindi sostiene così la
totalità delle sue spese durante la gestione”;
- “le entrate in conto capitale sono destinate esclusivamente al
finanziamento di spese di investimento”.
Nei predetti principi, dunque, viene ribadito il divieto di
finanziare spese correnti con entrate in conto capitale che
trova giustificazione anche nell’esigenza di assicurare il
mantenimento degli equilibri di bilancio degli enti locali
espressa dall’art. 162, comma 6, del decreto legislativo 10.08.2000, n. 267 (TUEL).
2.1. Ciò premesso, essendo l’operazione di permuta sopra
richiamata finalizzata all’acquisizione al patrimonio
comunale di un fabbricato storico e di alcune pertinenze,
che sarebbero complessivamente destinate allo svolgimento di
alcune funzioni pubbliche, essa si sostanzierebbe, come
noto, in una spesa in conto capitale. Alla stessa può,
dunque, farsi ancora fronte, nel corrente esercizio, con
l’utilizzo degli oneri di urbanizzazione (per il successivo
esercizio 2018, cfr. commi 460-461 dell’art. 1 della Legge
n. 232/2016, che non contemplano, tra le operazioni
finanziabili con in predetti oneri, l’acquisizione di
immobili).
2.2. Facendo nuovamente applicazione dei principi generali
fissati nella richiamata deliberazione n. 81/2017/PAR, può
passarsi ad affrontare il profilo attinente all’utilizzo dei
proventi relativi allo standard qualitativo aggiuntivo,
tenuto conto del combinato disposto dell’art. 90 e dell’art.
46, comma 1, della legge regionale lombarda 11.03.2005, n.
12. Tali disposizioni prevedono, infatti, che:
Art. 90 - Aree per attrezzature pubbliche e di
interesse pubblico o generale.
1. I programmi integrati di intervento garantiscono, a
supporto delle funzioni insediate, una dotazione globale di
aree o attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o
generale, valutata in base all’analisi dei carichi di utenza
che le nuove funzioni inducono sull’insieme delle
attrezzature esistenti nel territorio comunale, in coerenza
con quanto sancito dall’articolo 9, comma 4.
2. In caso di accertata insufficienza o inadeguatezza di
tali attrezzature ed aree, i programmi integrati di
intervento ne individuano le modalità di adeguamento,
quantificandone i costi e assumendone il relativo
fabbisogno, anche con applicazione di quanto previsto
dall’articolo 9, commi 10, 11 e 12.
3. Qualora le attrezzature e le aree risultino idonee a
supportare le funzioni previste, può essere proposta la
realizzazione di nuove attrezzature indicate nel piano dei
servizi di cui all’articolo 9, se vigente, ovvero la
cessione di aree, anche esterne al perimetro del singolo
programma, purché ne sia garantita la loro accessibilità e
fruibilità.
4. È consentita la monetizzazione della dotazione di cui al
comma 1 soltanto nel caso in cui il comune dimostri
specificamente che tale soluzione sia la più funzionale per
l’interesse pubblico. In ogni caso la dotazione di parcheggi
pubblici e di interesse pubblico ritenuta necessaria dal
comune deve essere assicurata in aree interne al perimetro
del programma o comunque prossime a quest’ultimo,
obbligatoriamente laddove siano previste funzioni
commerciali o attività terziarie aperte al pubblico.
5. Nel caso in cui il programma integrato di intervento
preveda la monetizzazione ai sensi dell’articolo 46, la
convenzione di cui all’articolo 93 deve contenere l’impegno
del comune ad impiegare tali somme esclusivamente per
l’acquisizione di fabbricati o aree specificamente
individuati nel piano dei servizi e destinati alla
realizzazione di attrezzature e servizi pubblici, ovvero per
la realizzazione diretta di opere previste nel medesimo
piano.
Art. 46 - Convenzione dei piani attuativi.
1. La convenzione, alla cui stipulazione è subordinato il
rilascio dei permessi di costruire ovvero la presentazione
delle denunce di inizio attività relativamente agli
interventi contemplati dai piani attuativi, oltre a quanto
stabilito ai numeri 3) e 4) dell’articolo 8 della legge
06.08.1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge
urbanistica 17.08.1942, n. 1150), deve prevedere:
a) la cessione gratuita, entro termini prestabiliti, delle aree
necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, nonché
la cessione gratuita delle aree per attrezzature pubbliche e
di interesse pubblico o generale previste dal piano dei
servizi; qualora l’acquisizione di tali aree non risulti
possibile o non sia ritenuta opportuna dal comune in
relazione alla loro estensione, conformazione o
localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di
intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa
totale o parziale della cessione, che all’atto della
stipulazione i soggetti obbligati corrispondano al comune
una somma commisurata all’utilità economica conseguita per
effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al
costo dell’acquisizione di altre aree. I proventi delle
monetizzazioni per la mancata cessione di aree sono
utilizzati per la realizzazione degli interventi previsti
nel piano dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di altre
aree a destinazione pubblica;
b) la realizzazione a cura dei proprietari di tutte le opere di
urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di
urbanizzazione secondaria o di quelle che siano necessarie
per allacciare la zona ai pubblici servizi; le
caratteristiche tecniche di tali opere devono essere
esattamente definite; ove la realizzazione delle opere
comporti oneri inferiori a quelli previsti per la
urbanizzazione primaria e secondaria ai sensi della presente
legge, è corrisposta la differenza; al comune spetta in ogni
caso la possibilità di richiedere, anziché la realizzazione
diretta delle opere, il pagamento di una somma commisurata
al costo effettivo delle opere di urbanizzazione inerenti al
piano attuativo, nonché all’entità ed alle caratteristiche
dell’insediamento e comunque non inferiore agli oneri
previsti dalla relativa deliberazione comunale;
c) altri accordi convenuti tra i contraenti secondo i criteri
approvati dai comuni per l’attuazione degli interventi.
2.
La convenzione di cui al comma 1 può stabilire i tempi di
realizzazione degli interventi contemplati dal piano attuativo, comunque non superiori a dieci anni.
Lo standard qualitativo, invero già previsto dalla legge
regionale n. 9/1999, si può considerare, nella sua
declinazione presente nell’ora riportato art. 90 della legge
regionale n. 12/2005, un sovra-standard, ovvero una
prestazione aggiuntiva rispetto alle dotazioni minime
richieste dalla norma in relazione alle funzioni insediate o
da insediare.
L’art. 90, nel prevedere la possibilità di monetizzare tali
dotazioni, sottopone tale possibilità alla dimostrazione, da
parte del comune, che “tale soluzione sia la più
funzionale per l’interesse pubblico”.
L’ultimo comma
dell’articolo in esame prevede, altresì, che “nel caso in
cui il programma integrato di intervento preveda la
monetizzazione ai sensi dell’articolo 46, la convenzione di
cui all’articolo 93 deve contenere l’impegno del comune ad
impiegare tali somme esclusivamente per l’acquisizione di
fabbricati o aree specificamente individuati nel piano dei
servizi e destinati alla realizzazione di attrezzature e
servizi pubblici, ovvero per la realizzazione diretta di
opere previste nel medesimo piano”.
2.3. Ne consegue, per quanto qui maggiormente interessa, che
l’utilizzo delle risorse relative alla monetizzazione dei
predetti standard qualitativi è subordinata alla verifica
–da parte del Comune istante– a monte che la stessa monetizzazione sia “la più funzionale per l’interesse
pubblico” in concreto perseguito e, a valle, che il bene
oggetto di acquisizione risulti individuato nel piano dei
servizi e destinato all’effettiva realizzazione di
attrezzature e servizi pubblici, ovvero di opere previste
nel medesimo piano (cfr.
parere 15.11.2012 n. 487 di questa Sezione).
2.4. A non diverse conclusioni può pervenirsi in riferimento
all’utilizzo del “fondo per il Centro storico”, sulla cui
natura e funzione non è fornito alcun dettaglio nella
richiesta di parere in esame, ove lo stesso sia costituito
con contributi qualificabili come standard qualitativi
aggiuntivi.
2.5. Resta, comunque, fermo che, come del resto affermato
dallo stesso Ente nella richiesta di parere, la delineata
operazione deve essere posta in essere nel pieno rispetto
del disposto del comma 1-ter dell’art. 12 del D.L. n.
98/2011, non trattandosi di permuta “pura” (cfr.
deliberazione di questa Sezione n. 97/2014/PAR) (Corte dei
Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 13.04.2017 n. 100). |
ANNO 2015 |
|
URBANISTICA: Circa
la fattispecie del lottizzante che si rifiuta di cedere al
comune le opere di urbanizzazione realizzate e già
collaudate.
La controversia rientra nella giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1,
lett. a), n. 2, e lett. f), cod. proc. amm. perché riguarda
l'esecuzione di obbligazioni derivanti da una convenzione
urbanistica che rientra tra gli accordi sostitutivi di
provvedimenti amministrativi ai sensi dell’art. 11 della
legge n. 07.08.1990, n. 241, in materia urbanistica.
---------------
L’art. 2932 c.c., primo comma, prevede infatti che "se colui
che è obbligato a concludere un contratto non adempie
l'obbligazione, l'altra parte, qualora sia possibile e non
sia escluso dal titolo, può ottenere una sentenza che
produca gli effetti del contratto non concluso" e, al
secondo comma, dispone che, se ove come nella specie il
contratto abbia "per oggetto il trasferimento della
proprietà di una cosa determinata", "la domanda non può
essere accolta, se la parte che l'ha proposta non esegue la
sua prestazione o non ne fa offerta nei modi di legge, a
meno che la prestazione non sia ancora esigibile".
La convenuta non ha adempiuto all’obbligo di trasferimento
delle aree previsto dalla convenzione e la giurisprudenza ha
chiarito che “il rimedio previsto dall’art. 2932 c.c. al
fine di ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligo di
concludere un contratto, deve ritenersi applicabile non solo
nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello
definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale
sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il
trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in
relazione ad un negozio unilaterale, sia in relazione ad un
atto o ad un fatto dai quali detto obbligo possa sorgere ex
lege”.
...per l’accertamento dell’inadempimento agli obblighi
previsti dalla convenzione urbanistica intercorsa tra il
Comune di Castelgomberto e la ditta Grandangolo Immobiliare
S.r.l. relativa al piano di lottizzazione Tezzon nel Comune
di Castelgomberto e la condanna all’esecuzione in forma
specifica della predetta convenzione mediante il
trasferimento dei mappali nn. 563, 564, 565, 566, 568, 569,
571, 573, 585, 587, 658, 668, 671, 679, 681, 684, 715, 716,
717, 718, 719, 720, 721, 723, 724, 725, 726, 728, 729, 730,
731, 732, 733, 734, 735, 738.
...
Con il ricorso in epigrafe il Comune di Castelgomberto ha
convenuto avanti questo Tribunale la Società Grandangolo
Immobiliare.
Il Comune espone di aver stipulato in data 28.07.2003,
avanti il notaio dott. V.G., una convenzione
urbanistica relativa al piano di lottizzazione “Tezzon”, il
cui art. 5 prevede l’obbligo per la ditta lottizzante, i
suoi successori ed aventi causa, di trasferire al Comune a
propria cura e spese entro sei mesi dal collaudo finale, le
aree relative a sedi stradali, marciapiedi, piazze,
parcheggi pubblici, verde, ed altre eventuali aree destinate
a standard.
Acquisiti i titoli edilizi e realizzate le opere di
urbanizzazione, la convenuta in data 23.02.2006, ne ha
chiesto il collaudo, accompagnando la richiesta, così come
previsto dall’art. 7, punto 11, della convenzione, con una
planimetria che evidenzia le aree da cedere, e con la Tavola
n. 3, che reca l’elenco analitico dei relativi mappali.
Il collaudo è stato eseguito in data 14.06.2006, ma la
Società convenuta non si è presentata avanti il notaio per
la stipula del rogito né in data 17.07.2014, né in data
27.11.2014, e in entrambi i casi non ha proposto una data
alternativa.
Ciò premesso, il Comune chiede l’accertamento
dell’inadempimento e il trasferimento delle aree ai sensi
dell’art. 2932 c.c..
La convenuta Grandangolo Immobiliare Srl non si è costituita
in giudizio.
Alla pubblica udienza del 25.06.2015, la causa è stata
trattenuta in decisione.
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
La controversia rientra nella giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1,
lett. a), n. 2, e lett. f), cod. proc. amm. perché riguarda
l'esecuzione di obbligazioni derivanti da una convenzione
urbanistica che rientra tra gli accordi sostitutivi di
provvedimenti amministrativi ai sensi dell’art. 11 della
legge n. 07.08.1990, n. 241, in materia urbanistica (ex
pluribus cfr. Consiglio di Stato, Ad. Plen. 20.07.2012,
n. 28; Tar Lombardia, Brescia, Sez. I, 26.03.2014, n. 298;
Tar Marche, 24.05.2013, n. 388; Tar Veneto, Sez. II,
25.01.2012, n. 33; Tar Veneto, Sez. II, 13.07.2011, n.
1219).
Nel merito ricorrono i presupposti per l’accoglimento della
domanda.
L’art. 2932 c.c., primo comma, prevede infatti che "se
colui che è obbligato a concludere un contratto non adempie
l'obbligazione, l'altra parte, qualora sia possibile e non
sia escluso dal titolo, può ottenere una sentenza che
produca gli effetti del contratto non concluso" e, al
secondo comma, dispone che, se ove come nella specie il
contratto abbia "per oggetto il trasferimento della
proprietà di una cosa determinata", "la domanda non
può essere accolta, se la parte che l'ha proposta non esegue
la sua prestazione o non ne fa offerta nei modi di legge, a
meno che la prestazione non sia ancora esigibile".
La convenuta non ha adempiuto all’obbligo di trasferimento
delle aree previsto dalla convenzione e la giurisprudenza ha
chiarito (cfr. Cass. civ., Sez. II, 30.03.2012, n. 5160) che
“il rimedio previsto dall’art. 2932 c.c. al fine di
ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere
un contratto, deve ritenersi applicabile non solo nelle
ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello
definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale
sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il
trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in
relazione ad un negozio unilaterale, sia in relazione ad un
atto o ad un fatto dai quali detto obbligo possa sorgere ex
lege”.
Nel caso di specie il Comune ha dedotto l'inadempimento
della convenuta all'obbligazione di trasferimento prevista
dalla convenzione, rispetto alla quale, trattandosi di
un’obbligazione contrattuale, l’inadempimento deve essere
semplicemente allegato, e non emerge alcuna circostanza
ostativa all’accoglimento della domanda, dato che il Comune
risulta aver assolto agli obblighi a suo carico previsti
dalla convenzione e dal punto di vista istruttorio vi è
l’analitica identificazione dei mappali da trasferire ad
opera della documentazione formata dalla stessa convenuta al
fine di ottenere il collaudo delle opere.
Pertanto sussistono tutte le condizioni per accogliere la
domanda del Comune nei termini specificati nel dispositivo.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate
nella misura liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione
Seconda) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in
epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto:
a) accerta, in favore del Comune di Castelgomberto ed a
carico della convenuta Grandangolo Immobiliare Srl,
l'inadempimento dell'obbligo di trasferimento delle aree
relative a sedi stradali, marciapiedi, piazze, parcheggi
pubblici, verde, ed altre destinate a standard, previsto
dalla convenzione urbanistica stipulata il 28.07.2003, rep.
35269, del notaio Guglielmi, relativa al piano di
lottizzazione “Tezzon”;
b) dispone, ai sensi dell'art. 2932 c.c., il trasferimento
dalla convenuta Grandangolo Immobiliare Srl (P. IVA
.....) con sede in ....... n. 2, al ricorrente Comune di Castelgomberto (P. IVA
00185650249) con sede a Castelgomberto, Piazza Marconi n. 1,
delle aree individuate dalle singole particelle del Catasto
terreni del Comune di Castelgomberto, foglio 1, di seguito
precisate: mappali nn. 563, 564, 565, 566, 568, 569, 571,
573, 585, 587, 658, 668, 671, 679, 681, 684, 715, 716, 717,
718, 719, 720, 721, 723, 724, 725, 726, 728, 729, 730, 731,
732, 733, 734, 735, 738;
c) ordina al competente Conservatore dei registri
immobiliari di procedere alle relative trascrizioni, con
esonero da ogni sua responsabilità al riguardo;
d) condanna la convenuta alla refusione delle spese di
giudizio, liquidandole in € 5.000,00, a titolo di compensi e
spese
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 24.07.2015 n. 875 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA:
Che cos'è la presupposizione.
La presupposizione costituisce
un’ipotesi di scioglimento del contratto di creazione
dottrinale e giurisprudenziale.
In pratica, senza che le parti ne abbiano fatta espressa
menzione, una data situazione di fatto (attuale o futura)
viene considerata come presupposto determinante ai fini
della conclusione del contratto. Per tale motivo, parte
della dottrina definisce la presupposizione una "condizione
inespressa".
------------------
La presupposizione costituisce un’ipotesi di scioglimento
del contratto di creazione dottrinale e giurisprudenziale.
Come si può leggere sul Torrente, "talora accade che le
parti abbiano dettato il regolamento negoziale fondando le
loro valutazioni su determinati presupposti che in seguito
possono essere venuti meno o che, nonostante le attese, non
si sono verificati".
In pratica, senza che le parti ne abbiano fatta espressa
menzione, una data situazione di fatto (attuale o futura)
viene considerata come presupposto determinante ai fini
della conclusione del contratto. Per tale motivo, parte
della dottrina definisce la presupposizione una "condizione
inespressa".
La definizione più efficace di tale istituto viene fornita
dalla sentenza della Cassazione, n. 633 del 24/03/2006, che
statuisce quanto segue: “La cosiddetta presupposizione
deve intendersi come figura giuridica che si avvicina, da un
lato, ad una particolare forma di condizione, da
considerarsi implicita e, comunque, certamente non espressa
nel contenuto del contratto e, dall'altro, alla stessa causa
del contratto, intendendosi per causa la funzione tipica e
concreta che il contratto è destinato a realizzare; il suo
rilievo resta dunque affidato all'interpretazione della
volontà contrattuale delle parti, da compiersi in relazione
ai termini effettivi del negozio giuridico dalle medesime
stipulato. Deve pertanto ritenersi configurabile la
presupposizione tutte le volte in cui, dal contenuto del
contratto, si evinca che una situazione di fatto,
considerata, ma non espressamente enunciata dalle parti in
sede di stipulazione del medesimo, quale presupposto
imprescindibile della volontà negoziale, venga
successivamente mutata dal sopravvenire di circostanze non
imputabili alle parti stesse, in modo tale che l'assetto che
costoro hanno dato ai loro rispettivi interessi venga a
trovarsi a poggiare su una base diversa da quella in forza
della quale era stata convenuta l'operazione negoziale, così
da comportare la risoluzione del contratto stesso ai sensi
dell'articolo 1467 cod. civ.”.
Un esempio: acquistare un terreno per costruire una casa;
entrambi i contraenti "presupponevano"
l'edificabilità del suolo di cui viene successivamente
constatata l'inedificabilità (17.02.2015 - link a
http://www.studiodostuni.it). |
ANNO 2014 |
|
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
28 della l. 1150/1942 prevede la possibilità di una cessione gratuita al
Comune delle aree destinate ad opere di urbanizzazione oppure
l’assunzione in capo al proprietario degli oneri relativi alle opere stesse.
Per cui la costituzione di una servitù di uso pubblico, con mantenimento in
capo ai soggetti privati della proprietà del beni e dei conseguenti oneri
manutentivi non appare in contrasto né con il tenore letterale né con gli
scopi della legislazione urbanistica, potendo semmai apparire addirittura un
minus rispetto, ad esempio, alla cessione gratuita di aree.
---------------
... per l'accertamento:
- dell'inefficacia nei confronti dei ricorrenti:
(a) della clausola, contenuta a pagina 27, dell'Atto conclusivo di
convenzione per l'attuazione del Piano di lottizzazione "Laghetto" in
Comune di San Donato Milanese, stipulato con scrittura privata, autenticata
dal Notaio Barassi di Milano con atto rep. n. 100162 - racc. n. 29008 in
data 04.11.2010 e
(b) degli ulteriori obblighi eventualmente derivanti dalla scrittura privata
di Ratifica dell'Atto conclusivo di convenzione per l'attuazione del Piano
di lottizzazione "Laghetto" in Comune di San Donato Milanese,
autenticata dal Notaio Barassi di Milano con atto rep. 101243 - racc. 29591
in data 30.11.2011;
- del conseguente obbligo del Comune di San Donato Milanese e/o di
Vi.Po.srl, quale soggetto incorporante Va.Co. srl, di sostenere le spese di
manutenzione ordinaria e straordinaria delle servitù sopra indicate;
- e, occorrendo, per l'annullamento della clausola sopra indicata;
- nonché per l'accertamento ai sensi dell'art. 31 cod. proc. amm.
dell'obbligo del Comune di San Donato Milanese di provvedere in merito alle
istanze presentate, rispettivamente, in data 17 e 18.07.2012, con le quali
l'Amministratore del Condominio Re."La." e i Condomini hanno chiesto
all'Amministrazione Comunale di provvedere all'annullamento della clausola
sopra descritta;
...
3. Nel secondo motivo, i
ricorrenti (punto 2.1), eccepiscono il presunto contrasto della clausola
convenzionale di cui è causa con l’art. 28 della legge 1150/1942, oltre che
della convenzione di lottizzazione del 2005 (cfr. il doc. 1 dei ricorrenti).
La tesi difensiva non ha però pregio: innanzi tutto la convenzione di
lottizzazione del 2005 –come già sopra ricordato– nulla prevedeva sulla
manutenzione delle aree di cui è causa, né dal tenore letterale della stessa
poteva desumersi o ricavarsi l’esclusione degli oneri di manutenzione in
capo ai proprietari delle aree soggette a servitù (cfr. ancora il doc. 1 dei
ricorrenti o il doc. 3 del resistente, art. 13).
Neppure potrebbe sostenersi che una clausola come quella di cui è causa si
pone in contrasto con le disposizioni (come quella dell’art. 28 citato),
riguardanti le lottizzazioni di aree.
Al contrario, l’art. 28 prevede la possibilità di una cessione gratuita al
Comune delle aree destinate ad opere di urbanizzazione oppure l’assunzione
in capo al proprietario degli oneri relativi alle opere stesse; per cui la
costituzione di una servitù di uso pubblico, con mantenimento in capo ai
soggetti privati della proprietà del beni e dei conseguenti oneri
manutentivi non appare in contrasto né con il tenore letterale né con gli
scopi della legislazione urbanistica, potendo semmai apparire addirittura un
minus rispetto, ad esempio, alla cessione gratuita di aree.
Nella seconda parte del motivo II, è lamentata la lesione dell’art. 1069 del
codice civile, norma che pone a carico del proprietario del fondo dominante
le opere necessarie per la conservazione della servitù.
La norma –la cui applicazione agli accordi ai sensi dell’art. 11 della legge
241/1990 è limitata ai “principi”, stante l’espressa previsione del
secondo comma dell’articolo stesso– non appare però violata nel caso di
specie, visto che lo stesso art. 1069 ammette (cfr. il comma secondo), che
per legge o per titolo possa derogarsi alla regola generale sopra ricordata,
senza contare che, trattandosi di servitù di pubblico passaggio, la
manutenzione non giova soltanto al titolare del fondo dominante ma anche ai
proprietari del fondo servente, che sono essi stessi utenti della servitù.
Anche l’intero secondo motivo deve –quindi– essere respinto (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.10.2014 n. 2526 - link a www.giustizia-amministrartiva.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
corretto affermare che dei 77 parcheggi vincolati ad uso
pubblico, 52 risultarono realizzati su suolo demaniale
concesso in diritto di superficie e 25 sulla proprietà
privata sotto il fabbricato principale.
Questi, quindi, sono stati realizzati in attuazione del
piano particolareggiato come parcheggi pubblici di standard
e non possono essere assimilati al regime dei parcheggi
privati di pertinenza delle singole unità immobiliari ex L.
122 del 1989, il cui regime giuridico è nettamente
differenziato.
Infatti, i parcheggi destinati al completamento degli
standard sono previsti dall’art. 41-quinquies della L.
n. 1150 del 1942, insieme agli spazi pubblici e al verde
pubblico, e regolati dal D.M. 02.04.1968 n. 1444.
La loro funzione è quella di consentire un ordinato sviluppo
del territorio ed alleviare il carico urbanistico, come
dimostra il modo di computo degli standard pubblico relativo
ai parcheggi in quanto opere di urbanizzazione primaria, in
aggiunta alle superfici a parcheggio previste dall'art. 18
L. n. 765 del 1967 (che ha introdotto l’art. 41-sexies nella
L. n. 1150 del 1942).
Al contrario, i parcheggi privati disciplinati dal
citato art. 41-sexies e dall’articolo 9 della L. 122 del
1989, sono di proprietà privata, riservati agli abitanti
delle unità residenziali e sono asserviti all’immobile con
vincolo di pertinenzialità.
La funzione è certamente simile (il decongestionamento della
viabilità pubblica tramite l’agevolazione della costruzione
di spazi di parcheggio degli autoveicoli dei proprietari dei
beni immobili) ma la disciplina è notevolmente diversa, sia
in relazione al computo degli spazi che in merito al regime
proprietario, stante il vincolo pertinenziale che si
instaura con l’unità immobiliare principale.
---------------
Il regime dei parcheggi in questione, realizzati su suolo
demaniale concesso in superficie o su suolo privato e
asserviti ad uso pubblico a mezzo di atto notarile
registrato e trascritto in quanto opere di urbanizzazione
primaria, previste dal piano particolareggiato e realizzate
a scomputo degli oneri di urbanizzazione, impedisce di
individuare una particolare posizione giuridica soggettiva
tale da differenziare il condominio o i suoi condomini
rispetto agli altri utenti in relazione ai modi di gestione
dell’area da parte del Comune.
Infatti, le aree sono normalmente destinate, in assenza di
specifici divieti, all’uso generale da parte della
generalità dei cittadini, con ciò escludendo ogni valenza
alla richiesta delle parti appellanti di essere destinatarie
della comunicazione di avviso di avvio del procedimento
relativo.
La ragione evidenziata in ricorso, ossia la presunta doppia
utilità del parcheggio in esame, altro non è che un
espediente argomentativo che conferma la posizione centrale
del primo giudice, ossia l’inesistenza di una posizione
differenziata delle parti appellanti rispetto alla comunità
dei cittadini, rendendo quindi ingiustificato il trattamento
peculiare richiesto.
3.1. - Le censure avverso la sentenza del TAR, in relazione
al profilo qui in esame, sono infondate e vanno respinte.
Il primo giudice ha correttamente ricostruito il regime
giuridico dei parcheggi in esame, evidenziando come, al
contrario di quanto voluto dai ricorrenti (per cui si
tratterebbe di parcheggi privati di pertinenza delle singole
unità immobiliari ai quali si applicherebbe il particolare
regime costituito dal vincolo inderogabile di accessorietà
degli stessi all’immobile principale, dato dal vincolo di
destinazione e dall’inalienabilità separata, di cui all’art.
41-sexies della legge urbanistica n. 1150 del 1942 e alla L.
n. 122/1989), deve invece ritenersi assodata la loro
destinazione pubblica.
Rinviando alla descrizione della fattispecie sopra operata,
è corretto affermare che in definitiva, dei 77 parcheggi
vincolati ad uso pubblico, 52 risultarono realizzati su
suolo demaniale concesso in diritto di superficie alla
Europa s.r.l., e 25 sulla proprietà privata sotto il
fabbricato principale.
Questi, quindi, sono stati realizzati in attuazione del
piano particolareggiato come parcheggi pubblici di standard
e non possono essere assimilati al regime dei parcheggi
privati di pertinenza delle singole unità immobiliari ex L.
122 del 1989, il cui regime giuridico è nettamente
differenziato.
Infatti, i parcheggi destinati al completamento degli
standard sono previsti dall’art. 41-quinquies della L.
n. 1150 del 1942, insieme agli spazi pubblici e al verde
pubblico, e regolati dal D.M. 02.04.1968 n. 1444. La loro
funzione è quella di consentire un ordinato sviluppo del
territorio ed alleviare il carico urbanistico, come dimostra
il modo di computo degli standard pubblico relativo ai
parcheggi in quanto opere di urbanizzazione primaria, in
aggiunta alle superfici a parcheggio previste dall'art. 18
L. n. 765 del 1967 (che ha introdotto l’art. 41-sexies nella
L. n. 1150 del 1942).
Al contrario, i parcheggi privati disciplinati dal
citato art. 41-sexies e dall’articolo 9 della L. 122 del
1989, sono di proprietà privata, riservati agli abitanti
delle unità residenziali e sono asserviti all’immobile con
vincolo di pertinenzialità. La funzione è certamente simile
(il decongestionamento della viabilità pubblica tramite
l’agevolazione della costruzione di spazi di parcheggio
degli autoveicoli dei proprietari dei beni immobili) ma la
disciplina è notevolmente diversa, sia in relazione al
computo degli spazi che in merito al regime proprietario,
stante il vincolo pertinenziale che si instaura con l’unità
immobiliare principale.
Così inquadrata la questione, appare del tutto corretta la
soluzione data dal primo giudice alle censure proposte,
anche in questa sede, dalle parti appellanti.
Il regime dei parcheggi in questione, realizzati su suolo
demaniale concesso in superficie o su suolo privato e
asserviti ad uso pubblico a mezzo di atto notarile
registrato e trascritto in quanto opere di urbanizzazione
primaria, previste dal piano particolareggiato e realizzate
a scomputo degli oneri di urbanizzazione, impedisce di
individuare una particolare posizione giuridica soggettiva
tale da differenziare il condominio Europa o i suoi
condomini rispetto agli altri utenti in relazione ai modi di
gestione dell’area da parte del Comune.
Infatti, le aree sono normalmente destinate, in assenza di
specifici divieti, all’uso generale da parte della
generalità dei cittadini, con ciò escludendo ogni valenza
alla richiesta delle parti appellanti di essere destinatarie
della comunicazione di avviso di avvio del procedimento
relativo. La ragione evidenziata in ricorso, ossia la
presunta doppia utilità del parcheggio in esame, altro non è
che un espediente argomentativo che conferma la posizione
centrale del primo giudice, ossia l’inesistenza di una
posizione differenziata delle parti appellanti rispetto alla
comunità dei cittadini, rendendo quindi ingiustificato il
trattamento peculiare richiesto.
Del pari, è infondata la doglianza in relazione alla ragione
della destinazione dei parcheggi in favore della particolare
destinazione data loro dalla delibera inizialmente gravata.
Nei limiti dell’interesse delle parti, che come si è visto
non è connotato da particolare rilevanza giuridica, deve
convenirsi con la valutazione operata dal primo giudice in
relazione alla natura del potere esercitato dal Comune.
Infatti, con l’ordinanza impugnata con il primo ricorso, i
posti auto in esame sono stati riservati al ricovero degli
automezzi di proprietà comunale in uso alla polizia
municipale (i cui veicoli, si noti, non godono di un regime
proprietario differenziato rispetto a quello degli altri
automezzi comunali), in ciò in aderenza a quanto previsto
dall’art. 7, lett. d), del Codice della strada, che
espressamente prevede tale facoltà e, peraltro, come anche
notato dal primo giudice, senza che tale determinazione
abbia compromesso la dotazione minima di parcheggi pubblici
stabilita per gli standard.
Conclusivamente, le censure relative ai capi di sentenza con
cui si è esaminato il ricorso n. 2394 del 1999 sono
infondati
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.08.2014 n. 4183 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Sulla sottrazione
delle aree destinate obbligatoriamente a standard
nell’area in esame, previa trasformazione
compensativa tramite l’istituto della
monetizzazione.
Sulla illegittima sdemanializzazione di 77 parcheggi
vincolati ad uso pubblico e l’inserimento degli
stessi tra le aree comunali da vendere.
Il tema è stato oggetto di una
recente decisione. Invero, si è osservato come il
Consiglio di Stato ha già 'delineato una propria
linea interpretativa in merito al collegamento tra
interventi edilizi e ricerca degli standard
urbanistici e ha così assunto decisioni che hanno,
ad esempio, negato la sufficienza di un parcheggio
collocato in area non fruibile, dove la fruibilità
era collegata non a valutazioni normative, ma
fattuali, poiché il ‘terreno pertinenziale destinato
a parcheggio deve ragionevolmente intendersi come
condizione necessaria per la migliore fruizione del
parcheggio medesimo da parte di tutti coloro che
intendono comodamente accedervi con i propri mezzi
di locomozione per poi uscire con i relativi
acquisti più o meno ingombranti e/o pesanti da
collocare su tali mezzi’.
Oppure decisioni che hanno evidenziato i pericoli
legati alla smaterializzazione degli standard,
sottolineando come ‘la monetizzazione degli standard
urbanistici non può essere considerata alla stregua
di una vicenda di carattere unicamente patrimoniale
e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente
pubblico e il privato che realizzerà l’opera, e ciò
perché, da un lato, così facendo si legittima la
paradossale situazione di separare i commoda (sotto
forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli
incommoda (il peggioramento della qualità di vita
degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela
giuridica agli interessi concretamente lesi degli
abitanti dell’area’.
Ancora, si è affermato che ‘qualora si potessero
individuare gli standard costruttivi in ragione del
solo dato dimensionale, verrebbe conseguentemente
posto in ombra il dato funzionale, ossia la
destinazione concreta dell’area, come voluta dal
legislatore. Soddisfacendo gli standard con la messa
a disposizione di aree non utilizzabili in concreto
(ossia, seguendo l’indicazione del TAR, utilizzando
le porzioni che non sono utilizzabili, per forma o
per le ridotte dimensioni, ovvero perché eccedenti
un posto macchina standard ma insufficienti per
realizzarne un altro, ovvero infine per il difficile
accesso), la norma di garanzia verrebbe frustrata,
atteso che il citato art. 41-sexies della legge
urbanistica non contempla un nudo dato quantitativo,
ma un dato mirato ad uno scopo esplicito’.
---------------
Ciò che la giurisprudenza fa emergere è la “marcata
attenzione alla funzione stessa degli standard
urbanistici, intesi come indicatori minimi della
qualità edificatoria (e così riferiti ai limiti
inderogabili di densità edilizia, di rapporti
spaziali tra le costruzioni e di disponibilità di
aree destinate alla fruizione collettiva) e come
tali destinati a connettersi direttamente con le
aspettative dei fruitori dell’area interessata”, in
una situazione di stretta interdipendenza, tale da
determinare “la cogenza di questa stretta
correlazione spaziale tra intervento edilizio e
localizzazione dello standard”.
---------------
Sulla scorta di tale lettura, appare perplessa la
decisione di sopprimere un parcheggio pubblico
destinato a soddisfare la previsione di standard,
che come si è detto si localizzano funzionalmente
nell’area limitrofa all’intervento, correlata ad una
solo ipotetica e futura destinazione delle somme
conseguite a seguito della monetizzazione, ossia
della vendita dei parcheggi in esame.
In concreto, il primo giudice, pur avendo
evidenziato la correttezza procedimentale, ha omesso
di riscontrare l’assunto della fondamentale
indisponibilità dell’oggetto del procedimento, ossia
l’impossibilità di privare un’area della sua
dotazione minima di standard senza una contestuale,
effettiva e funzionale indicazione di altre aree di
parcheggio idonee a salvaguardare il requisito
minimo ex lege.
In concreto, usando le categorie tradizionali
dell’atto amministrativo, l’indisponibilità del
bene, dovuta al fatto che questo è essenziale per
garantire la legittimità dell’insediamento
realizzato, priva l’azione amministrativa di un suo
necessario presupposto, rendendola così illegittima.
4. - Il secondo sentiero contenzioso trae origine
dalla deliberazione del consiglio comunale n. 103
del 20.12.2011, con la quale il Comune decideva: a)
la sdemanializzazione e b) l’inserimento tra le aree
comunali da vendere (quali parcheggi privati) dei 77
posti auto interrati in questione.
Con successiva ordinanza l’amministrazione, in
previsione della vendita di tali posti auto, poneva
un divieto di sosta sugli stessi, riservandoli ad
alcuni cittadini che erano stati provvisoriamente
privati delle loro autorimesse da lavori eseguiti
per incarico del Comune.
Anche in questo caso, il condominio Europa ed alcuni
condomini con ricorso iscritto al numero di R.G. 447
del 2012 impugnavano tali atti. A fondamento di tale
ricorso i ricorrenti hanno dedotto le censure di:
violazione dell’art. 7 della L. n. 241/1990;
violazione dell’art. 28 L. 1150/1942 e dell’art. 63
della L.R. n. 61/1985, non potendo le opere di
urbanizzazione essere dismesse in favore di privati;
violazione dell’art. 11 della L. n. 241/1990, per
violazione della convenzione sottoscritta per
l’urbanizzazione di una porzione del territorio
comunale; eccesso di potere per falsità del
presupposto, illogicità manifesta e travisamento dei
fatti.
La sentenza impugnata del TAR per il Veneto ha
respinto anche questa seconda serie di censure,
ritenendo corretto il procedimento utilizzato dal
Comune e dando vita alla seconda parte del
contenzioso in grado di appello.
4.1. - Le censure proposte dalle parti appellanti,
in relazione alla fase procedimentale di dismissione
dei parcheggi, sono fondate e vanno accolte.
In disparte la ricostruzione operata in termini di
nullità dei vizi gravanti sugli atti impugnati nel
primo profilo del terzo motivo (sulla quale basta
rinviare alla secolare elaborazione
giurisprudenziale sulle patologie degli atti
amministrativi per evidenziarne l’irrilevanza),
ritiene la Sezione di doversi soffermare sul secondo
profilo, dove viene lamentata la sottrazione delle
aree destinate obbligatoriamente a standard
nell’area in esame, previa trasformazione
compensativa tramite l’istituto della
monetizzazione.
Il primo giudice ha correttamente evidenziato la
linearità della procedura utilizzata, giungendo così
ad una considerazione conclusiva di legittimità
dell’azione amministrativa.
Ha dapprima valutato la correttezza motivazionale
della delibera gravata, in relazione alla
impossibilità di garantire una utilizzazione
collettiva di tali parcheggi, in ragione di una non
eliminabile promiscuità tra lo spazio pubblico e
quello dell’autorimessa privata (peraltro, derivante
dal comportamento degli stessi condomini che aveva
sempre occupato abusivamente i parcheggi pubblici,
come acclarata dalla sentenza della Corte di Appello
di Venezia n. 1858 del 12.07.2011).
Ha poi ritenuto del tutto compatibile il
procedimento di rinuncia alla servitù pubblica e
contestuale monetizzazione delle aree a standard per
i parcheggi situati all’interno del condominio con i
parametri urbanistici vincolanti posti dal D.M. 1444
del 1968 e dalle leggi regionali n. 61 del 1985 e 11
del 2004.
Su tale profilo, la Sezione ritiene però di
dissentire, stante il proprio orientamento
consolidato, dal quale non vi sono ragioni per
discostarsi, di senso opposto.
Il tema è stato oggetto di una recente decisione
(sentenza n. 616 del 10.02.2014, data peraltro
proprio in relazione di una sentenza dello stesso
TAR).
In quella occasione si è osservato come il Consiglio
di Stato ha già “delineato una propria linea
interpretativa in merito al collegamento tra
interventi edilizi e ricerca degli standard
urbanistici e ha così assunto decisioni che hanno,
ad esempio, negato la sufficienza di un parcheggio
collocato in area non fruibile, dove la fruibilità
era collegata non a valutazioni normative, ma
fattuali, poiché il ‘terreno pertinenziale destinato
a parcheggio deve ragionevolmente intendersi come
condizione necessaria per la migliore fruizione del
parcheggio medesimo da parte di tutti coloro che
intendono comodamente accedervi con i propri mezzi
di locomozione per poi uscire con i relativi
acquisti più o meno ingombranti e/o pesanti da
collocare su tali mezzi’ (Consiglio di Stato, sez.
V, 25.06.2010 n. 4059); oppure decisioni che hanno
evidenziato i pericoli legati alla
smaterializzazione degli standard, sottolineando
come ‘la monetizzazione degli standard urbanistici
non può essere considerata alla stregua di una
vicenda di carattere unicamente patrimoniale e
rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente
pubblico e il privato che realizzerà l’opera, e ciò
perché, da un lato, così facendo si legittima la
paradossale situazione di separare i commoda (sotto
forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli
incommoda (il peggioramento della qualità di vita
degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela
giuridica agli interessi concretamente lesi degli
abitanti dell’area’ (Consiglio di Stato, sez. IV,
ord. 04.02.2013 n. 644).
Ancora, si è affermato che ‘qualora si potessero
individuare gli standard costruttivi in ragione del
solo dato dimensionale, verrebbe conseguentemente
posto in ombra il dato funzionale, ossia la
destinazione concreta dell’area, come voluta dal
legislatore. Soddisfacendo gli standard con la messa
a disposizione di aree non utilizzabili in concreto
(ossia, seguendo l’indicazione del TAR, utilizzando
le porzioni che non sono utilizzabili, per forma o
per le ridotte dimensioni, ovvero perché eccedenti
un posto macchina standard ma insufficienti per
realizzarne un altro, ovvero infine per il difficile
accesso), la norma di garanzia verrebbe frustrata,
atteso che il citato art. 41-sexies della legge
urbanistica non contempla un nudo dato quantitativo,
ma un dato mirato ad uno scopo esplicito’ (Consiglio
di Stato, sez. IV, 28.05.13 n. 2916).”
Ciò che la giurisprudenza fa emergere è la “marcata
attenzione alla funzione stessa degli standard
urbanistici, intesi come indicatori minimi della
qualità edificatoria (e così riferiti ai limiti
inderogabili di densità edilizia, di rapporti
spaziali tra le costruzioni e di disponibilità di
aree destinate alla fruizione collettiva) e come
tali destinati a connettersi direttamente con le
aspettative dei fruitori dell’area interessata”,
in una situazione di stretta interdipendenza, tale
da determinare “la cogenza di questa stretta
correlazione spaziale tra intervento edilizio e
localizzazione dello standard”.
Sulla scorta di tale lettura, appare perplessa la
decisione di sopprimere un parcheggio pubblico
destinato a soddisfare la previsione di standard,
che come si è detto si localizzano funzionalmente
nell’area limitrofa all’intervento, correlata ad una
solo ipotetica e futura destinazione delle somme
conseguite a seguito della monetizzazione, ossia
della vendita dei parcheggi in esame.
In concreto, il primo giudice, pur avendo
evidenziato la correttezza procedimentale, ha omesso
di riscontrare l’assunto della fondamentale
indisponibilità dell’oggetto del procedimento, ossia
l’impossibilità di privare un’area della sua
dotazione minima di standard senza una contestuale,
effettiva e funzionale indicazione di altre aree di
parcheggio idonee a salvaguardare il requisito
minimo ex lege. In concreto, usando le
categorie tradizionali dell’atto amministrativo,
l’indisponibilità del bene, dovuta al fatto che
questo è essenziale per garantire la legittimità
dell’insediamento realizzato, priva l’azione
amministrativa di un suo necessario presupposto,
rendendola così illegittima.
Per altro verso, appare non congruo il rinvio
all’art. 32, comma 2, della legge regionale Veneto
n. 11 del 23.04.2004 “Norme per il governo del
territorio e in materia di paesaggio”, atteso
che la detta disposizione (per cui “le aree per
servizi devono avere dimensione e caratteristiche
idonee alla loro funzione in conformità a quanto
previsto dal provvedimento della Giunta regionale di
cui all'articolo 46, comma 1, lettera b). Qualora
all'interno del PUA tali aree non siano reperibili,
o lo siano parzialmente, è consentita la loro
monetizzazione ovvero la compensazione ai sensi
dell'articolo 37”) è collegata a quella di cui
al comma 1 (“Il conseguimento dei rapporti di
dimensionamento dei piani urbanistici attuativi (PUA)
è assicurato mediante la cessione di aree o con
vincoli di destinazione d'uso pubblico”) e si
riferisce eventualmente alla sola fase di adozione e
approvazione del piano (in senso analogo, sebbene in
relazione alla diversa situazione lombarda,
Consiglio di Stato, sez. V, 17.09.2010 n. 6950 dove
si evidenzia l’incompatibilità della monetizzazione
“volta a supplire alla (presunta) carenza di
standard che non sia stata considerata in sede di
pianificazione attuativa”).
Tale circostanza si ripercuote quindi anche sul
regime giuridico della successiva procedura di
dismissione che ne è direttamente condizionata, in
senso ovviamente negativo, e in relazione alle
delibere emesse strumentalmente ad essa.
Conclusivamente, l’appello va accolto limitatamente
alle doglianze contenute nel ricorso di prime cure
n. 447 del 2012 e quindi limitatamente
all’annullamento della deliberazione del Consiglio
Comunale di San Donà di Piave del 20.12.2011 n. 103,
dove ha deciso la sdemanializzazione e l'inserimento
tra le aree comunali da vendere (quali parcheggi
privati) dei 77 posti auto interrati
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.08.2014 n. 4183 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Mentre
il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un
contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza
che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in
cui è inserita l’area interessata all’imminente
trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della
cessione degli standard afferisce al reperimento delle aree
necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione
secondaria all’interno della specifica zona di intervento.
E ciò vale ad evidenziare la diversità ontologica della
monetizzazione rispetto al contributo di concessione di
talché, sotto il versante processuale, non si può utilizzare
lo strumento dell’azione di accertamento per determinare
l’importo di tale obbligazione pecuniaria.
---------------
La norma regionale impone al richiedente il titolo edilizio
di reperire gli standard necessari per l’ampliamento
aggiuntivo richiesto. In via alternativa, lo stesso
richiedente può provvedere alla monetizzazione degli
standard mediante pagamento “di una somma commisurata al
costo di acquisizione di altre aree equivalenti per
estensione e comparabili per ubicazione e destinazione a
quelle per le quali sussiste l’obbligo di cessione”.
In estrema sintesi, in base alla norma in questione il
richiedente il titolo edilizio o trasferisce al Comune le
aree necessarie per il soddisfacimento degli standard o
consegna una somma di danaro idonea per acquisire tali aree:
tale monetizzazione va, cioè, necessariamente quantificata
con riferimento “al costo di acquisizione” di aree
equivalenti.
Nella determinazione delle somme da corrispondere per tale
monetizzazione, cioè, il Comune deve fare specifico
riferimento alle somme occorrenti per “acquisire” le aree
necessarie per realizzare gli standard, cioè deve effettuare
un calcolo puntuale ed articolato di quanto dovrebbe in
concreto spendere per acquisire al suo patrimonio le aree
necessarie, comprensive, ad esempio, di tutte le spese (cioè
sia delle spese vive, che dell’attività lavorativa del
personale del Comune) per acquisire sul libero mercato delle
aree “equivalenti per estensione e comparabili per
ubicazione e destinazione a quelle per le quali sussiste
l’obbligo di cessione”.
In definiva, nella quantificazione di tale monetizzazione il
Comune deve effettuare in concreto (e non in astratto come
sembra abbia fatto nel caso in esame) un calcolo preciso di
tutte le spese che dovrebbe sopportare per acquisire sul
libero mercato delle aree “equivalenti”, in modo tale da
rendere nella sostanza equivalente per il soggetto
interessato la scelta tra il procedere alla diretta
acquisizione delle aree ed la loro cessione al Comune o il
procedere al pagamento della relativa “monetizzazione”, dato
che eventuali costi aggiuntivi non debbono e non possono in
alcun modo gravare sulla collettività, ma debbono essere
posti necessariamente a carico del soggetto che altera il
corretto rispetto degli standard.
Mentre non può di certo ritenersi ammissibile al riguardo la
possibilità per il Comune di quantificare tali costi
ipotizzando il ricorso per l’acquisizione di tale aree allo
strumento espropriativo, dato che i soggetti proprietari di
tali aree, eventualmente da espropriare, non possono in
alcun modo subire una lesione dei loro intessi in relazione
ad un’attività costruttiva realizzata da soggetti terzi per
soddisfare interessi privati e non pubblici. Non può quindi
ritenersi che, in via alternativa, il Comune possa
considerare le spese necessarie per acquisire le aree
necessarie non sul libero mercato, ma attraverso lo
strumento pubblicistico dell’esproprio.
Ciò detto, sembra evidente l’erroneità del procedimento
logico seguito nel caso di specie dal Comune e denunciato
con il gravame, dato che l’Amministrazione ha determinato
“in astratto” il valore delle aree (quantificandole in una
somma di poco superiore alle € 100 al mq., senza previamente
accertare i valori di mercato nella zona), maggiorandola di
somme (costo dell’infrastruttura da realizzare e costo della
progettazione dell’opera pubblica) non previste dalla
normativa sopra richiamata.
Con il ricorso in esame -come sopra esposto- sono state
nella sostanza contestate la modalità di determinazione da
parte del Comune di Montesilvano della monetizzazione degli
standard.
...
Con la deliberazione impugnata il Consiglio comunale di
Montesilvano ha nella sostanza determinato in via generale i
criteri per la monetizzazione degli standard, integrando e
modificando la precedente propria deliberazione consiliare
n. 3 del 29.01.2013, nei termini seguenti: ha ritenuto
che tale monetizzazione avrebbe dovuto essere determinata
aggiungendo al costo per l’acquisizione delle aree
(determinato in € 109/mq) -da moltiplicarsi per un
coefficiente correttivo rapportato all’indice di
fabbricabilità territoriale- anche i seguenti costi:
a) il costo dell’infrastruttura da realizzare (pari a €
96,90/mq);
b) il costo della progettazione dell’opera pubblica (pari a
€ 7,90/mq).
Con i primi due motivi di ricorso -che possono esaminarsi
congiuntamente- la società ricorrente ha dedotto che con la
previsione di tali due voci aggiuntive per un verso si era
violata L.R. Abruzzo 15.10.2012, n. 49, in quanto tale
normativa concede ai soggetti l’alternativa tra la cessione
delle aree e l’equivalente valore monetario, e per altro
verso si era violato l’art. 23 della Costituzione, dato che
era stato imposto un ulteriore contributo di urbanizzazione
non previsto da alcuna norma di legge.
Tali doglianze, aventi carattere pregiudiziale ed
assorbente, sono fondate.
Va al riguardo premesso che relativamente all’impugnativa di
tale atto generale, avente natura discrezionale, sussiste di
certo la giurisdizione di questo Tribunale, dal momento che
la posizione giuridica soggettiva del privato ha l’indubbia
consistenza dell’interesse legittimo.
Mentre -come è già stato autorevolmente precisato (Cons.
St., sez. IV, 23.12.2013 n. 6211)- non si può
utilizzare in questa sede lo strumento dell’azione di
accertamento per la monetizzazione sostitutiva della
cessione degli standard, ammessa al contrario solo per
contestare la legittimità del contributo concessorio di cui
all'art. 3 della L. 28.01.1977, n. 10. Si è, invero, al
riguardo già chiarito che “mentre il pagamento degli oneri
di urbanizzazione si risolve in un contributo per la
realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un
vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita
l’area interessata all’imminente trasformazione edilizia, la
monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard
afferisce al reperimento delle aree necessarie alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria
all’interno della specifica zona di intervento; e ciò vale
ad evidenziare la diversità ontologica della monetizzazione
rispetto al contributo di concessione di talché, sotto il
versante processuale, non si può utilizzare lo strumento
dell’azione di accertamento per determinare l’importo di
tale obbligazione pecuniaria".
Ciò chiarito, va evidenziato che la norma regionale sopra
ricordata impone al richiedente il titolo edilizio di
reperire gli standard necessari per l’ampliamento aggiuntivo
richiesto. In via alternativa, lo stesso richiedente può
provvedere alla monetizzazione degli standard mediante
pagamento “di una somma commisurata al costo di acquisizione
di altre aree equivalenti per estensione e comparabili per
ubicazione e destinazione a quelle per le quali sussiste
l’obbligo di cessione”.
In estrema sintesi, in base alla norma in questione il
richiedente il titolo edilizio o trasferisce al Comune le
aree necessarie per il soddisfacimento degli standard o
consegna una somma di danaro idonea per acquisire tali aree:
tale monetizzazione va, cioè, necessariamente quantificata
con riferimento “al costo di acquisizione” di aree
equivalenti.
Nella determinazione delle somme da corrispondere per tale
monetizzazione, cioè, il Comune deve fare specifico
riferimento alle somme occorrenti per “acquisire” le aree
necessarie per realizzare gli standard, cioè deve effettuare
un calcolo puntuale ed articolato di quanto dovrebbe in
concreto spendere per acquisire al suo patrimonio le aree
necessarie, comprensive, ad esempio, di tutte le spese (cioè
sia delle spese vive, che dell’attività lavorativa del
personale del Comune) per acquisire sul libero mercato delle
aree “equivalenti per estensione e comparabili per
ubicazione e destinazione a quelle per le quali sussiste
l’obbligo di cessione”.
In definiva, nella quantificazione di tale monetizzazione il
Comune deve effettuare in concreto (e non in astratto come
sembra abbia fatto nel caso in esame) un calcolo preciso di
tutte le spese che dovrebbe sopportare per acquisire sul
libero mercato delle aree “equivalenti”, in modo tale da
rendere nella sostanza equivalente per il soggetto
interessato la scelta tra il procedere alla diretta
acquisizione delle aree ed la loro cessione al Comune o il
procedere al pagamento della relativa “monetizzazione”, dato
che eventuali costi aggiuntivi non debbono e non possono in
alcun modo gravare sulla collettività, ma debbono essere
posti necessariamente a carico del soggetto che altera il
corretto rispetto degli standard.
Mentre non può di certo ritenersi ammissibile al riguardo la
possibilità per il Comune di quantificare tali costi
ipotizzando il ricorso per l’acquisizione di tale aree allo
strumento espropriativo, dato che i soggetti proprietari di
tali aree, eventualmente da espropriare, non possono in
alcun modo subire una lesione dei loro intessi in relazione
ad un’attività costruttiva realizzata da soggetti terzi per
soddisfare interessi privati e non pubblici. Non può quindi
ritenersi che, in via alternativa, il Comune possa
considerare le spese necessarie per acquisire le aree
necessarie non sul libero mercato, ma attraverso lo
strumento pubblicistico dell’esproprio.
Ciò detto, sembra evidente l’erroneità del procedimento
logico seguito nel caso di specie dal Comune e denunciato
con il gravame, dato che l’Amministrazione ha determinato
“in astratto” il valore delle aree (quantificandole in una
somma di poco superiore alle € 100 al mq., senza previamente
accertare i valori di mercato nella zona), maggiorandola di
somme (costo dell’infrastruttura da realizzare e costo della
progettazione dell’opera pubblica) non previste dalla
normativa sopra richiamata.
Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso in esame
deve, conseguentemente, essere accolto e, per l’effetto,
deve essere annullato nella sua totalità l’atto impugnato,
data l’erroneità dell’intero procedimento logico seguito dal
Comune per procedere alla monetizzazione in parola. Mentre
restano al riguardo ovviamente salvi gli ulteriori
provvedimenti che l’Amministrazione andrà ad adottare in
merito, attenendosi ai criteri sopra indicati.
Con riferimento a quanto sopra esposto ed a quanto al
riguardo chiarito dal Giudice di appello (Cons. St., sez. IV,
23.12.2013 n. 6211), vanno infine dichiarate
inammissibili le richieste di rideterminazione da parte di
questo Tribunale del corrispettivo dovuto per la mancata
cessione delle aree di standard e l’accertamento del diritto
della ricorrente alla restituzione delle somme non dovute
indebitamente versate a titolo di monetizzazione; mentre
resta assorbita l’ultima della doglianze dedotte, che
presuppone la legittimità dell’atto deliberativo in
questione (TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 15.07.2014 n. 346 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Se
il lottizzante non cede le aree/opere di urbanizzazione al
comune quest'ultimo deve adire il TAR, anche per l'eventuale
e correlato risarcimento del danno.
Pregiudizialmente, il Collegio ritiene sussistente la
giurisdizione del Giudice Amministrativo, posta in dubbio
dalla resistente nelle ultime memorie e all’odierna udienza
di discussione.
La controversia in esame, difatti, attiene all'accertamento
ed esecuzione, ex art. 2932 c.c., degli obblighi di
trasferimento di aree derivanti da una convenzione
urbanistica.
La materia in oggetto rientra quindi pacificamente nella
giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo,
trattandosi di questione relativa all'urbanistica e,
comunque, vertendosi in tema di controversia relativa
all'esecuzione di accordi ex art. 11, comma 5, L. 241/1990,
per i quali, sotto diverso profilo, sussiste del pari la
giurisdizione amministrativa.
Ciò comporta che il giudice amministrativo è investito del
potere di decidere non soltanto sulle azioni promosse dai
soggetti privati coinvolti nell'accordo contro la Pubblica
Amministrazione, ma anche su quelle promosse dalla stessa
P.A. nei confronti dei privati che hanno aderito
all'accordo, per ottenere il rispetto degli obblighi dai
medesimi assunti con la sottoscrizione della relativa
convenzione e non adempiuti spontaneamente
---------------
La giurisprudenza ha di recente ribadito
che il rimedio previsto dall’art. 2932 c.c. deve ritenersi
applicabile non solo alle ipotesi di contratto preliminare
non seguito dal definitivo, ma anche in qualsiasi altra
ipotesi dalla quale sorga l’obbligazione di prestare il
consenso per il trasferimento o la costituzione di un
diritto.
Ed essendo pure pacifico come l’azione ex art. 2932 c.c. sia
compatibile con la struttura del processo amministrativo,
vertendosi in una ipotesi di giurisdizione esclusiva, la
quale, venendo in discussione questioni su diritti, non può
che garantire agli interessati la medesima tutela e, dunque,
le medesime specie di azioni riconosciute dinanzi al giudice
ordinario, e ciò anche quando l’interessato è il Comune, che
ben può scegliere la via giudiziale, in luogo di esperire
poteri autoritativi, quali, ad esempio, quello
espropriativo.
... per l'accertamento e la declaratoria dell’inadempimento
agli obblighi previsti dalla convenzione urbanistica in data
11/03/2005 n. 91606 di rep. Notaio T.P. e
conseguentemente affinché sia disposto ai sensi e per gli
effetti dell'art. 2932 c.c. il trasferimento a favore del
Comune di Padova della proprietà di:
- n. 3 alloggi:
alloggio 1) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 49;
alloggio 2) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 55;
alloggio 3) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 58;
- relativi garages, così identificati:
a) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 16;
b) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 35;
c) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 36;
d) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 38;
- parcheggio privato:
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 5;
- centro civico:
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 58;
e la costituzione di vincolo ad uso pubblico di
- parcheggio privato mq. 332:
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 4;
- verde pubblico mq 548 (circa):
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 1;
- parcheggio pubblico mq. 135:
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 6;
così come specificamente identificati nel certificato di
collaudo a firma dell'Ing. M., su richiesta del Comune
e della Società R. S.r.l., approvato dal Comune di Padova
giusta determinazione 26/05/2009 n. 2009/69/0019 nonché, per
l'accertamento e la declaratoria del risarcimento del danno.
...
Pregiudizialmente, il Collegio ritiene sussistente la
giurisdizione del Giudice Amministrativo, posta in dubbio
dalla resistente nelle ultime memorie e all’odierna udienza
di discussione.
La controversia in esame, difatti, attiene all'accertamento
ed esecuzione, ex art. 2932 c.c., degli obblighi di
trasferimento di aree derivanti da una convenzione
urbanistica.
La materia in oggetto rientra quindi pacificamente nella
giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo,
trattandosi di questione relativa all'urbanistica e,
comunque, vertendosi in tema di controversia relativa
all'esecuzione di accordi ex art. 11, comma 5, L. 241/1990,
per i quali, sotto diverso profilo, sussiste del pari la
giurisdizione amministrativa.
Ciò comporta che il giudice amministrativo è investito del
potere di decidere non soltanto sulle azioni promosse dai
soggetti privati coinvolti nell'accordo contro la Pubblica
Amministrazione, ma anche su quelle promosse dalla stessa
P.A. nei confronti dei privati che hanno aderito
all'accordo, per ottenere il rispetto degli obblighi dai
medesimi assunti con la sottoscrizione della relativa
convenzione e non adempiuti spontaneamente (si veda tra le
tante, Cassazione civile, Sez. Un., ordinanza 17.04.2009, n.
9151).
Nel merito il ricorso è fondato.
Va in primo luogo evidenziato come sia pacifico che la
società resistente non abbia adempiuto agli obblighi di cui
alla convenzione dell’11.03.2005, per la cui esecuzione in
forma specifica agisce il Comune di Padova.
La resistente invece eccepisce che l’amministrazione,
anziché intentare il presente giudizio, avrebbe dovuto
escutere la polizza fideiussoria a prima richiesta
rilasciata in suo favore a garanzia degli obblighi previsti
nella convenzione urbanistica, evitando così il danno ora
lamentato.
Tale tesi appare destituita di fondamento.
Ed infatti, la stipula della polizza fideiussoria non è
stata accompagnata da alcuna dichiarazione abdicativa di
tutti gli altri diritti spettanti all’amministrazione sulla
base della convenzione dell’11.03.2005.
Piuttosto, con la polizza fideiussoria in esame il terzo
assicuratore si è obbligato, a titolo di garanzia, ad
eseguire, a semplice richiesta del Comune, una prestazione
indennitaria succedanea e diversa rispetto a quella
principale posta nella convenzione a carico della R..
Obbligazione, quest’ultima, avente natura infungibile,
consistendo, in particolare, nella promessa di vincolare
all’uso pubblico determinate aree destinate alle opere di
urbanizzazione primaria, e di cedere al Comune alcuni
appartamenti e relativi garage.
E’ quindi evidente che la polizza in esame è accessoria alla
convenzione urbanistica e determina la costituzione di
un’obbligazione a scopo di garanzia, del terzo assicuratore,
aggiuntiva ed autonoma rispetto a quella principale gravante
sulla società, secondo il modello della delegazione di
pagamento di cui agli artt. 1268 e ss. cc..
Ne consegue che il Comune di Padova, non essendo peraltro
previsto alcun beneficio di escussione, non ha incontrato
alcun onere o vincolo nel decidere se escutere la polizza
fideiussoria, accontentandosi di veder soddisfatto, sia pure
nell’immediato, un proprio interesse meramente patrimoniale
attraverso una prestazione indennitaria, peraltro limitata
da un massimale di polizza, oppure perseguire la
soddisfazione del proprio interesse primario all’esecuzione
in forma specifica della convenzione nei termini convenuti.
Il Comune, dunque, ha liberamente optato per quest’ultimo
rimedio chiedendo l’esecuzione della convenzione.
E, d’altra parte, la prima via appariva a prima vista molto
meno vantaggiosa per il Comune. Considerato infatti che il
massimale di polizza (fissato in € 343.619,22) è stato
determinato in misura pari al 70% del presunto costo delle
opere oggetto della presente domanda di sentenza
costitutiva, se ne può agevolmente dedurre la funzione
meramente indennitaria e cauzionale della polizza; e ciò ad
ulteriore testimonianza di come rimanesse impregiudicata la
possibilità per il Comune di ottenere la specifica esatta
prestazione oggetto della propria aspettativa, ovvero il
trasferimento della proprietà degli immobili e la
costituzione dei vincoli ad uso pubblico.
Pertanto, la scelta dell’amministrazione di richiedere
l’adempimento in natura dell’obbligazione principale appare
pienamente legittima, non contestabile, né in contrasto con
gli obblighi contrattuali di buona fede e correttezza.
Di fronte a tale richiesta la società R. era tenuta ad
adempiere, trasferendo senza ritardo la proprietà degli
immobili in discussione. Essendo quest’ultima rimasta inerte
pur a fronte delle plurime diffide inviate
dall’amministrazione, ed avendo costretto il Comune di
Padova ad agire in giudizio per l’esecuzione specifica di
tale obbligo ai sensi dell’art. 2932 c.c., essa -oltre a
soggiacere agli effetti della sentenza costitutiva del
trasferimento- essendosi resa responsabile
dell’inadempimento alla convenzione, è tenuta al
risarcimento del danno derivante al Comune dal mancato
godimento di tali tre alloggi e quattro garage nel periodo
che va dal 13.08.2009 (tre mesi dal collaudo ex convenzione)
ad oggi.
Quanto al primo profilo, giova ricordare che la
giurisprudenza ha di recente ribadito che il rimedio
previsto dall’art. 2932 c.c. deve ritenersi applicabile non
solo alle ipotesi di contratto preliminare non seguito dal
definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale
sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il
trasferimento o la costituzione di un diritto (cfr. Cass.
civ. sez. II, 30.03.2012, n. 5160; TAR Lombardia, Brescia,
28.11.2011, n. 1126).
Ed essendo pure pacifico come l’azione ex art. 2932 c.c. sia
compatibile con la struttura del processo amministrativo,
vertendosi in una ipotesi di giurisdizione esclusiva, la
quale, venendo in discussione questioni su diritti, non può
che garantire agli interessati la medesima tutela e, dunque,
le medesime specie di azioni riconosciute dinanzi al giudice
ordinario, e ciò anche quando l’interessato è il Comune, che
ben può scegliere la via giudiziale, in luogo di esperire
poteri autoritativi, quali, ad esempio, quello
espropriativo.
Quanto invece alla quantificazione del danno, si ritiene che
questa possa essere determinata sulla base del valore del
canone di locazione di tali immobili nel periodo di
riferimento.
Nel caso di specie tale accertamento -per il quale il Comune
aveva chiesto l’esperimento di una CTU- risulta nel caso di
specie agevolato, essendo stati, gli immobili in questione,
effettivamente concessi in locazione da parte della R. s.r.l..
A tal fine, su sollecitazione del Tribunale, il Comune di
Padova ha depositato in giudizio copia delle visure da cui
risulta l’effettivo ammontare del canone di locazione
annuale di ciascuno dei tre appartamenti con relativi
garage.
Successivamente, il Comune ha anche prodotto copia dei tre
contratti di locazione, e ciò anche al di là del termine
assegnato: termine, tuttavia, non perentorio, venendo qui in
questione l’esercizio del potere acquisitivo del giudice, ed
essendo contraria a principi di economia processuale
l’inibita acquisizione di dati conoscitivi –in parte,
peraltro, nel caso di specie, già risultanti dagli atti– ove
ritenuti utili per la decisione, ferme restando le esigenze
di difesa, nella fattispecie soddisfatte con la possibilità
di discutere di tali dati all’udienza odierna (cfr., per il
principio, Cons. St., sez. VI, 06.04.2007, n. 1560 e
10.03.2011, n. 1538).
Peraltro, i dati così acquisiti corrispondono per la gran
parte (eccetto il box sub 35 non locato) a quelli posti a
base della stima del danno effettuata dal capo settore
patrimonio del Comune, sin dall’inizio versata in atti (doc.
13); stima che, dunque, nella parte che qui interessa, viene
confermata nella sua attendibilità e può essere posta a
fondamento della presente liquidazione del danno, senza
necessità di conferire incarico ad un CTU.
Ne consegue che, sulla base dei dati acquisiti in esito
all’istruttoria e della stima del settore patrimonio del
Comune (aggiornata all’attualità sulla base del 75%
dell’indice Istat), il danno da mancato godimento degli
appartamenti e dei garage, nel periodo gennaio 2010–maggio
2014, può essere determinato come segue:
canone anno 2010, € 21.702,24
canone anno 2011, € 22.060,33
canone anno 2012, € 22.473,96
canone anno 2013, € 22.844,78
canone anno 2014 (fino a maggio compreso), € 9.561,49;
per un totale di € 98.642,80.
A tale somma, al fine di determinare il mancato utile netto,
devono essere sottratte le spese (solo quelle documentate)
affrontate, nel periodo in questione, dalla società Relax
per IMU, ICI e condominio, come da quest’ultima richiesto.
Tali spese, anche sulla base dello schema riepilogativo
della società (doc. 3), non oggetto di specifiche
contestazioni da parte del Comune, possono essere
determinate in: € 9.665,08 per ICI/IMU, ed € 10.573,91 (€
9.201,65 + € 1.372,26 in relazione al sub 35) per spese
condominiali. Per un totale di € 20.239,00.
Per cui dalla differenza ne risulta un utile netto mancato
di € 78.403,80.
Somma che può essere arrotondata in € 80.000,00
considerando, in via equitativa, il valore degli interessi
legali maturati anno per anno sulle somme non
tempestivamente percepite.
Su tale importo andranno poi corrisposti gli interessi
legali a partire dalla data della presente decisione al
saldo.
In conclusione il ricorso deve essere accolto e, per
l'effetto, questo TAR deve adottare una sentenza costitutiva
che disponga l'esecuzione in forma specifica della
convenzione di riferimento ai sensi dell'art. 2932 c.c. e,
quindi, il trasferimento al Comune resistente della
proprietà dei beni immobili identificati nel ricorso
introduttivo:
alloggio 1) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 49;
alloggio 2) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 55;
alloggio 3) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 58;
- relativi garages, così identificati:
a) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 16;
b) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 35;
c) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 36;
d) Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 38;
- parcheggio privato:
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 5;
- centro civico:
Sez. - C Foglio 11 particella 189 sub 58;
e la costituzione di vincolo ad uso pubblico di:
- parcheggio privato mq. 332: Sez. - C Foglio 11 particella
189 sub 4;
- verde pubblico mq 548 (circa): Sez. - C Foglio 11
particella 189 sub 1;
- parcheggio pubblico mq. 135: Sez. - C Foglio 11 particella
189 sub 6;
così come specificamente identificati nel certificato di
collaudo a firma dell'Ing. M., approvato dal Comune di
Padova giusta determinazione 26/05/2009 n. 2009/69/0019.
Inoltre, la società R. deve essere condannata a risarcire il
danno subito dal Comune di Padova per la ritardata
disponibilità dei tre appartamenti e dei quattro garage,
danno che si liquida in € 80.000,00 al valore attuale, oltre
interessi legali dalla data della presente decisione al
saldo
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza
05.06.2014 n. 759 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Sul tema
del rispetto degli standard urbanistici laddove ha
nuovamente assunto di recente un rilievo centrale
nell’ambito degli strumenti di governo del
territorio.
Questo Giudice ha già delineato
una propria linea interpretativa in merito al
collegamento tra interventi edilizi e ricerca degli
standard urbanistici e ha così assunto decisioni che
hanno, ad esempio, negato la sufficienza di un
parcheggio collocato in area non fruibile, dove la
fruibilità era collegata non a valutazioni
normative, ma fattuali, poiché il “terreno
pertinenziale destinato a parcheggio deve
ragionevolmente intendersi come condizione
necessaria per la migliore fruizione del parcheggio
medesimo da parte di tutti coloro che intendono
comodamente accedervi con i propri mezzi di
locomozione per poi uscire con i relativi acquisti
più o meno ingombranti e/o pesanti da collocare su
tali mezzi”.
Oppure decisioni che hanno evidenziato i pericoli
legati alla smaterializzazione degli standard,
sottolineando come “la monetizzazione degli standard
urbanistici non può essere considerata alla stregua
di una vicenda di carattere unicamente patrimoniale
e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente
pubblico e il privato che realizzerà l’opera, e ciò
perché, da un lato, così facendo si legittima la
paradossale situazione di separare i commoda (sotto
forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli
incommoda (il peggioramento della qualità di vita
degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela
giuridica agli interessi concretamente lesi degli
abitanti dell’area”.
Ancora, si è affermato che “qualora si potessero
individuare gli standard costruttivi in ragione del
solo dato dimensionale, verrebbe conseguentemente
posto in ombra il dato funzionale, ossia la
destinazione concreta dell’area, come voluta dal
legislatore. Soddisfacendo gli standard con la messa
a disposizione di aree non utilizzabili in concreto
(ossia, seguendo l’indicazione del TAR, utilizzando
“le porzioni che non sono utilizzabili, per forma o
per le ridotte dimensioni, ovvero perché eccedenti
un posto macchina standard ma insufficienti per
realizzarne un altro, ovvero infine per il difficile
accesso”), la norma di garanzia verrebbe frustrata,
atteso che il citato art. 41-sexsies della legge
urbanistica non contempla un nudo dato quantitativo,
ma un dato mirato ad uno scopo esplicito”.
---------------
Come si vede, il quadro complessivo emergente dalla
giurisprudenza è quello di una marcata attenzione
alla funzione stessa degli standard urbanistici,
intesi come indicatori minimi della qualità
edificatoria (e così riferiti ai limiti inderogabili
di densità edilizia, di rapporti spaziali tra le
costruzioni e di disponibilità di aree destinate
alla fruizione collettiva) e come tali destinati a
connettersi direttamente con le aspettative dei
fruitori dell’area interessata.
Il che comporta come il criterio essenziale di
valorizzazione e di decisione sulla congruità dello
standard applicato sia quello della
funzionalizzazione dello stesso al rispetto delle
esigenze della popolazione stanziata sul territorio,
che dovrà quindi essere posta in condizione di
godere, concretamente e non virtualmente, del
quantum di standard urbanistici garantiti dalla
disciplina urbanistica.
---------------
La Sezione non può peraltro esimersi dal notare come
la cogenza di questa stretta correlazione spaziale
tra intervento edilizio e localizzazione dello
standard, correlazione che connota il tema della
qualità edilizia, assuma una valenza ancora più
marcata nei casi in cui operino strumenti
urbanistici informati al principio della
perequazione.
Infatti, la soluzione perequativa, che tende ad
attenuare gli impatti discriminatori della
pianificazione a zone, sia in funzione di un meno
oneroso acquisto in favore della mano pubblica dei
suoli da destinare a finalità collettive, sia per
conseguire un’effettiva equità distributiva della
rendita fondiaria, si fonda su una serie di
strumenti operativi che, letti senza un congruo
ancoraggio con le necessità concrete cui si
riferiscono, favoriscono astrazioni concettuali
pericolose.
L’utilizzo di formule retoricamente allettanti (aree
di decollo, aree di atterraggio, pertinenze
indirette, trasferimenti di diritti volumetrici et
similia) non deve fare dimenticare che lo scopo
della disciplina urbanistica non è la
massimizzazione dell’aggressione del territorio, ma
la fruizione, privata o collettiva, delle aree in
modo pur sempre coerente con le aspettative di vita
della popolazione che ivi risiede.
In particolare, l’assenza di una disciplina
nazionale sulla perequazione urbanistica (tanto più
necessaria dopo che la Corte costituzionale ha
affermato, con la sentenza del 26.03.2010 n. 121,
che le “previsioni, relative al trasferimento ed
alla cessione dei diritti edificatori, incidono
sulla materia «ordinamento civile», di competenza
esclusiva dello Stato”, con ciò rendendo dubbia la
presenza di discipline regionali emanate prima della
fissazione di un quadro organico statale - che non
si limiti all’aspetto della mera documentazione
della trascrizione dei diritti edificatori, di cui
all’art. 5, comma 3, del D.L. 13.05.2011, n. 70)
dimostra la viva necessità di una disamina concreta
delle diverse previsioni adottate negli strumenti
urbanistici, al fine di evitare che l’estrema
flessibilità delle soluzioni operative adottate
dalle singole Regioni si traduca in una lesione di
ineliminabili esigenze di salvaguardia dei livelli
qualitativi omogenei di convivenza civile (e la
riconducibilità dell’attività amministrativa, intesa
come “prestazione”, al parametro di cui all’art.
117, secondo comma, lettera m) della Costituzione,
proprio in rapporto a istituti di diritto
dell’edilizia, è chiarissima nella giurisprudenza
del giudice delle leggi).
---------------
Conclusivamente, la Sezione intende rimanere fedele
al suo orientamento che vede lo standard urbanistico
collocarsi spazialmente e funzionalmente in
prossimità dell’area di intervento edilizio, al fine
di legare strettamente e indissolubilmente commoda e
incommoda della modificazione sul territorio.
2.1. - La doglianza è fondata e va accolta.
Osserva la Sezione come il tema del rispetto degli
standard urbanistici abbia nuovamente assunto di
recente un rilievo centrale nell’ambito degli
strumenti di governo del territorio.
In questo senso, sono riscontrabili non solo
interventi normativi (peraltro organizzati secondo
prospettive dialetticamente opposte riguardo al tema
della loro necessità e cogenza, poiché mirano, da un
lato -come nel caso della legge 14.01.2013, n. 10 “Norme
per lo sviluppo degli spazi verdi urbani”- a
marcarne la rilevanza ai fini della qualità di vita
urbana e, dall’altro –come con l’introduzione
dell’art. 2-bis “Deroghe in materia di limiti di
distanza tra fabbricati” nel d.P.R. 06.06.2001
n. 380 “Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia”–
a renderne al contrario più flessibile e meno
stringente il contenuto), ma anche prese di
posizione di questo Consiglio, che non si è
sottratto al dovere di esprimere il proprio avviso
su un tema così rilevante nella costruzione del
tessuto urbanistico.
In particolare, questo Giudice ha già delineato una
propria linea interpretativa in merito al
collegamento tra interventi edilizi e ricerca degli
standard urbanistici e ha così assunto decisioni che
hanno, ad esempio, negato la sufficienza di un
parcheggio collocato in area non fruibile, dove la
fruibilità era collegata non a valutazioni
normative, ma fattuali, poiché il “terreno
pertinenziale destinato a parcheggio deve
ragionevolmente intendersi come condizione
necessaria per la migliore fruizione del parcheggio
medesimo da parte di tutti coloro che intendono
comodamente accedervi con i propri mezzi di
locomozione per poi uscire con i relativi acquisti
più o meno ingombranti e/o pesanti da collocare su
tali mezzi” (Consiglio di Stato, sez. V,
25.06.2010 n. 4059); oppure decisioni che hanno
evidenziato i pericoli legati alla
smaterializzazione degli standard, sottolineando
come “la monetizzazione degli standard
urbanistici non può essere considerata alla stregua
di una vicenda di carattere unicamente patrimoniale
e rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente
pubblico e il privato che realizzerà l’opera, e ciò
perché, da un lato, così facendo si legittima la
paradossale situazione di separare i commoda (sotto
forma di entrata patrimoniale per il Comune) dagli
incommoda (il peggioramento della qualità di vita
degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela
giuridica agli interessi concretamente lesi degli
abitanti dell’area” (Consiglio di Stato, sez. IV,
ord. 04.02.2013 n. 644).
Ancora, si è affermato che “qualora si potessero
individuare gli standard costruttivi in ragione del
solo dato dimensionale, verrebbe conseguentemente
posto in ombra il dato funzionale, ossia la
destinazione concreta dell’area, come voluta dal
legislatore. Soddisfacendo gli standard con la messa
a disposizione di aree non utilizzabili in concreto
(ossia, seguendo l’indicazione del TAR, utilizzando
“le porzioni che non sono utilizzabili, per forma o
per le ridotte dimensioni, ovvero perché eccedenti
un posto macchina standard ma insufficienti per
realizzarne un altro, ovvero infine per il difficile
accesso”), la norma di garanzia verrebbe frustrata,
atteso che il citato art. 41-sexsies della legge
urbanistica non contempla un nudo dato quantitativo,
ma un dato mirato ad uno scopo esplicito”
(Consiglio di Stato, sez. IV, 28.05.2013 n. 2916).
Come si vede, il quadro complessivo emergente dalla
giurisprudenza è quello di una marcata attenzione
alla funzione stessa degli standard urbanistici,
intesi come indicatori minimi della qualità
edificatoria (e così riferiti ai limiti inderogabili
di densità edilizia, di rapporti spaziali tra le
costruzioni e di disponibilità di aree destinate
alla fruizione collettiva) e come tali destinati a
connettersi direttamente con le aspettative dei
fruitori dell’area interessata.
Il che comporta, come già notato dalle decisioni che
precedono, come il criterio essenziale di
valorizzazione e di decisione sulla congruità dello
standard applicato sia quello della
funzionalizzazione dello stesso al rispetto delle
esigenze della popolazione stanziata sul territorio,
che dovrà quindi essere posta in condizione di
godere, concretamente e non virtualmente, del
quantum di standard urbanistici garantiti dalla
disciplina urbanistica.
La Sezione non può peraltro esimersi dal notare come
la cogenza di questa stretta correlazione spaziale
tra intervento edilizio e localizzazione dello
standard, correlazione che connota il tema della
qualità edilizia, assuma una valenza ancora più
marcata nei casi in cui operino strumenti
urbanistici informati al principio della
perequazione.
Infatti, la soluzione perequativa, che tende ad
attenuare gli impatti discriminatori della
pianificazione a zone, sia in funzione di un meno
oneroso acquisto in favore della mano pubblica dei
suoli da destinare a finalità collettive, sia per
conseguire un’effettiva equità distributiva della
rendita fondiaria, si fonda su una serie di
strumenti operativi che, letti senza un congruo
ancoraggio con le necessità concrete cui si
riferiscono, favoriscono astrazioni concettuali
pericolose.
L’utilizzo di formule retoricamente allettanti (aree
di decollo, aree di atterraggio, pertinenze
indirette, trasferimenti di diritti volumetrici
et similia) non deve fare dimenticare che lo
scopo della disciplina urbanistica non è la
massimizzazione dell’aggressione del territorio, ma
la fruizione, privata o collettiva, delle aree in
modo pur sempre coerente con le aspettative di vita
della popolazione che ivi risiede.
In particolare, l’assenza di una disciplina
nazionale sulla perequazione urbanistica (tanto più
necessaria dopo che la Corte costituzionale ha
affermato, con la sentenza del 26.03.2010 n. 121,
che le “previsioni, relative al trasferimento ed
alla cessione dei diritti edificatori, incidono
sulla materia «ordinamento civile», di competenza
esclusiva dello Stato”, con ciò rendendo dubbia
la presenza di discipline regionali emanate prima
della fissazione di un quadro organico statale - che
non si limiti all’aspetto della mera documentazione
della trascrizione dei diritti edificatori, di cui
all’art. 5, comma 3, del D.L. 13.05.2011, n. 70)
dimostra la viva necessità di una disamina concreta
delle diverse previsioni adottate negli strumenti
urbanistici, al fine di evitare che l’estrema
flessibilità delle soluzioni operative adottate
dalle singole Regioni si traduca in una lesione di
ineliminabili esigenze di salvaguardia dei livelli
qualitativi omogenei di convivenza civile (e la
riconducibilità dell’attività amministrativa, intesa
come “prestazione”, al parametro di cui
all’art. 117, secondo comma, lettera m) della
Costituzione, proprio in rapporto a istituti di
diritto dell’edilizia, è chiarissima nella
giurisprudenza del giudice delle leggi, cfr. Corte
Costituzionale, 27.06.2012 n. 164).
Conclusivamente, la Sezione intende rimanere fedele
al suo orientamento che vede lo standard urbanistico
collocarsi spazialmente e funzionalmente in
prossimità dell’area di intervento edilizio, al fine
di legare strettamente e indissolubilmente
commoda e incommoda della modificazione
sul territorio
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.02.2014 n. 616 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ANNO 2013 |
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EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
A. Di Mario,
Standard urbanistici e
distanze tra costruzioni tra Stato e Regioni dopo il
‘‘decreto del fare’’ (per gentile concessione
dell'autore - Urbanistica e appalti n. 11/2013). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Nelle controversie in tema di monetizzazione
viene in rilievo una posizione qualificabile come interesse
legittimo, come tale soggetta alle regole processuali che
accedono a tale condizione e che richiedono di proporre
ricorso con il rito impugnatorio, nei termini decadenziali
decorrenti dalla piena conoscenza degli atti ritenuti
lesivi.
Invero, la monetizzazione non vive in alcun modo della
natura e delle finalità proprie del contributo concessorio
costituito dagli oneri di urbanizzazione e dal costo di
costruzione che accompagna naturaliter l’autorizzazione a
costruire, la cui debenza o meno, quanto al relativo
accertamento, può essere fatta valere, in linea generale,
nei termini prescrizionali.
Ed ancora, “mentre il pagamento degli oneri di
urbanizzazione si risolve in un contributo per la
realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un
vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita
l’area interessata all’imminente trasformazione edilizia, la
monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard
afferisce al reperimento delle aree necessarie alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria
all’interno della specifica zona di intervento; e ciò vale
ad evidenziare la diversità ontologica della monetizzazione
rispetto al contributo di concessione, di talché, sotto il
versante processuale, non si può utilizzare lo strumento
dell’azione di accertamento ammesso per contestare la
legittimità del contributo ex art. 3 o comunque la
insussistenza di tale obbligazione pecuniaria ancorché già
assolta”.
Il Collegio condivide l’orientamento giurisprudenziale
secondo cui nelle controversie in tema di monetizzazione
viene in rilievo una posizione qualificabile come interesse
legittimo, come tale soggetta alle regole processuali che
accedono a tale condizione e che richiedono di proporre
ricorso con il rito impugnatorio, nei termini decadenziali
decorrenti dalla piena conoscenza degli atti ritenuti lesivi
(cfr. Consiglio di Stato sez. IV, 16.02.2011, n. 1013; Tar
Lombardia, Milano, sez. II, 14.02.2013, n. 451).
Come affermato anche di recente dal Consiglio di Stato, la
monetizzazione non vive in alcun modo della natura e delle
finalità proprie del contributo concessorio costituito dagli
oneri di urbanizzazione e dal costo di costruzione che
accompagna naturaliter l’autorizzazione a costruire,
la cui debenza o meno, quanto al relativo accertamento, può
essere fatta valere, in linea generale, nei termini
prescrizionali.
Invero, “mentre il pagamento degli oneri di
urbanizzazione si risolve in un contributo per la
realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un
vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita
l’area interessata all’imminente trasformazione edilizia, la
monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard
afferisce al reperimento delle aree necessarie alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria
all’interno della specifica zona di intervento; e ciò vale
ad evidenziare la diversità ontologica della monetizzazione
rispetto al contributo di concessione, di talché, sotto il
versante processuale, non si può utilizzare lo strumento
dell’azione di accertamento ammesso per contestare la
legittimità del contributo ex art. 3 o comunque la
insussistenza di tale obbligazione pecuniaria ancorché già
assolta” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 16/02/2011,
n. 1013, sez. IV, 28.12.2012 n. 6706; questa conclusione si
pone in linea con i precedenti di questo Tribunale che hanno
affermato la natura autoritativa dell'atto che impone la
monetizzazione e che, quindi, la posizione nei riguardi del
medesimo ha natura di interesse legittimo: cfr. TAR Milano,
Sez. II, 28.01.2004, n. 364; id., Sez. II, 31.05.1996, n.
768, poi confermata da C.d.S., Sez. V, 27.09.2004, n. 6281,
TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.04.2006, n. 1064)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 01.08.2013 n. 2056 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Il
Collegio dà atto che l’orientamento prevalente in
giurisprudenza propende per la natura conformativa dei
vincoli di piano regolatore preordinati alla realizzazione
di parcheggi pubblici, ma tale orientamento si fonda da una
parte sulla inidoneità di tali vincoli a determinare
l’ablazione automatica del suoli, d’altro canto sulla
circostanza che normalmente il parcheggio pubblico non
implica la proprietà pubblica degli stessi.
---------------
Gli standards urbanistici tendono al soddisfacimento di
bisogni collettivi delle persone che abitano nei dintorni,
ed a seguito della entrata in vigore del D.P.R. 380/2001
alla realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo
segue la automatica acquisizione in proprietà delle stesse,
e del relativo sedime, in capo alla Amministrazione
comunale, senza che a tal fine sia necessaria la stipula di
un atto negoziale ad hoc.
Tale regime, introdotto dal D.P.R. 380/2001, conferma la
naturale vocazione alla proprietà pubblica delle aree a
standards, in relazione alle quali, pertanto, si deve
presumere la compatibilità con la sola proprietà pubblica.
Anche il Consiglio di Stato ha affermato la natura
espropriativa di un vincolo preordinato alla realizzazione
di un parcheggio pubblico, e la conseguente sua perdita di
efficacia per decorso del termine quinquennale dalla
imposizione del vincolo stesso.
Il ricorso può essere deciso sulla base della semplice
considerazione che il vincolo a parcheggio pubblico oggetto
di gravame deve ritenersi orami decaduto in ragione della
sua natura espropriativa e del decorso del termine
quinquennale dalla sua imposizione.
Il Collegio dà atto che l’orientamento prevalente in
giurisprudenza propende per la natura conformativa dei
vincoli di piano regolatore preordinati alla realizzazione
di parcheggi pubblici, ma tale orientamento si fonda da una
parte sulla inidoneità di tali vincoli a determinare
l’ablazione automatica del suoli, d’altro canto sulla
circostanza che normalmente il parcheggio pubblico non
implica la proprietà pubblica degli stessi.
Orbene, non v’è alcuna prova che nel caso di specie la
realizzazione dei parcheggi pubblici risulti compatibile con
la proprietà privata dei fondi interessati, che, pertanto,
si ritiene, dovranno necessariamente essere espropriati
dalla Amministrazione comunale al fine di poter realizzare i
parcheggi.
Del resto, come ha condivisibilmente rilevato il TAR
Puglia-Bari nella sentenza n. 2815/2010, gli standards
urbanistici tendono comunque al soddisfacimento di bisogni
collettivi delle persone che abitano nei dintorni, ed a
seguito della entrata in vigore del D.P.R. 380/2001 alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo segue
la automatica acquisizione in proprietà delle stesse, e del
relativo sedime, in capo alla Amministrazione comunale,
senza che a tal fine sia necessaria la stipula di un atto
negoziale ad hoc. Tale regime, introdotto dal D.P.R.
380/2001, conferma la naturale vocazione alla proprietà
pubblica delle aree a standards, in relazione alle quali,
pertanto, si deve presumere la compatibilità con la sola
proprietà pubblica.
Anche il Consiglio di Stato ha affermato, nella sentenza n.
91/2010, la natura espropriativa di un vincolo preordinato
alla realizzazione di un parcheggio pubblico, e la
conseguente sua perdita di efficacia per decorso del termine
quinquennale dalla imposizione del vincolo stesso.
Nel caso di specie non risulta che, a tanti anni di distanza
dalla approvazione del Piano Regolatore, il Comune di
Caprezzo abbia proceduto all’esproprio delle aree ed alla
realizzazione dei parcheggi.
Segue che la previsione di piano regolatore oggetto di
gravame deve ritenersi oggi non più efficace
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 25.07.2013 n. 940 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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PRIVATA - URBANISTICA: Monetizzazione degli standard urbanistici.
La monetizzazione degli standard urbanistici non può essere
considerata alla stregua di una vicenda di carattere
unicamente patrimoniale e rilevante solo sul piano dei
rapporti tra l’ente pubblico e il privato che realizzerà
l’opera, e ciò perché, da un lato, così facendo si legittima
la paradossale situazione di separare i commoda (sotto forma
di entrata patrimoniale per il Comune) dagli incommoda (il
peggioramento della qualità di vita degli appellanti) e
dall’altro, si nega tutela giuridica agli interessi
concretamente lesi degli abitanti dell’area.
La Sezione si è già espressa in sede cautelare
sull’ammissibilità delle doglianze in tema di procedura di
monetizzazione degli standard, con una linea argomentativa
cui non ritiene di fare torto. Nell’ordinanza cautelare n.
144 del 17.01.2012, la Sezione: “- considerato che può
ritenersi sussistente la legittimazione delle parti
appellanti a sindacare i meccanismi di determinazione degli
standard urbanistici relativi all’intervento da realizzare,
atteso che la loro monetizzazione, a fronte di un immediato
vantaggio economico in favore del Comune, comporta la
sottrazione di utilità ai residenti ed influisce quindi
sulla fruibilità dell’area in questione;
- considerato che non appaiono evidenti le ragioni per cui
il Comune, nella ponderazione tra gli opposti interessi
tesi, da un lato, al mantenimento nell’area degli standard
e, dall’altro, alla loro monetizzazione per poi successiva
dislocazione in zona diversa, ha optato per la soluzione più
lesiva delle parti appellanti;” ha accolto l’istanza
cautelare degli attuali appellanti.
Le linee portanti della citata argomentazione vanno
ribadite, anche in questa sede, in tema di scrutinio
pregiudiziale sull’ammissibilità di tali doglianze. Infatti,
non ci si può esimere dall’osservare come i criteri per la
determinazione dei soggetti parti del processo
amministrativo si fondino su elementi di carattere
sostanziale in funzione di una subita lesione di un
interesse giuridico qualificato ad opera dell’azione
amministrativa. In quest’ambito, le classificazioni degli
interessi lesi, e le parallele categorie descrittive in uso
nella giurisprudenza (quali quella della vicinitas,
sicuramente preponderante in ambito edilizio e molto evocata
dalla parti appellate), lungi dal rappresentare un elemento
di chiusura dei fatti di legittimazione, ne rappresentano
una utile esemplificazione che non esclude, ma anzi fonda,
la possibile espansione della tutela processuale in favore
di altri soggetti i quali, in concreto, riescano a
giustificare l’esistenza di una loro posizione differenziata
e lesa (ed in giurisprudenza, si trovano esempi di una
considerazione complessa del concetto di vicinitas,
inteso come giudizio in cui si tiene conto della natura e
delle dimensioni dell'opera realizzata, della sua
destinazione, delle sue implicazioni urbanistiche ed anche
delle conseguenze prodotte dal nuovo insediamento sulla
qualità della vita di coloro che per residenza, attività
lavorativa e simili, sono in durevole rapporto con la zona
in cui sorge la nuova opera, Consiglio di Stato, sez. IV,
29.11.2012 n. 6081; id., 31.05.2007, n. 2849).
Proprio sulla scorta di tale valutazione in concreto, la
Sezione non ha condiviso l’assunto del TAR (che aveva visto
il tema della monetizzazione come una vicenda patrimoniale
tra Comune e titolare del permesso di costruire) e ha al
contrario ritenuto che la modificazione peggiorativa della
qualità urbana ben possa fondare un interesse diretto al
sindacato sulle scelte urbanistiche del Comune, applicando i
criteri, e non gli schemi preconcetti, valevoli in generale
per ogni provvedimento amministrativo nel campo specifico in
esame. A un esame più attento, la monetizzazione degli
standard urbanistici non può essere considerata alla stregua
di una vicenda di carattere unicamente patrimoniale e
rilevante solo sul piano dei rapporti tra l’ente pubblico e
il privato che realizzerà l’opera, e ciò perché, da un lato,
così facendo si legittima la paradossale situazione di
separare i commoda (sotto forma di entrata patrimoniale per
il Comune) dagli incommoda (il peggioramento della qualità
di vita degli appellanti) e dall’altro, si nega tutela
giuridica agli interessi concretamente lesi degli abitanti
dell’area (massima tratta da www.lexambiente.it
- Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 04.02.2013 n. 644
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA:
Gli spazi di parcheggio di cui all’art.
41-quinquies L. 1150/1942 costituiscono aree pubbliche da
conteggiarsi ai fini della dotazione di standard, nel mentre
i parcheggi di cui al successivo art. 41-sexies sono
qualificati come aree private pertinenziali alle nuove
costruzioni, con la conseguenza che l’art. 3, comma 2, lett.
d), del D.M. 02.04.1968 n. 1444 espressamente li esclude dal
computo nel calcolo della misura degli standards.
---------------
Mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve
in un contributo per la realizzazione delle opere stesse,
senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona
in cui è inserita l’area interessata alla imminente
trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della
cessione degli standards essenzialmente pertiene al
reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle
opere di urbanizzazione all’interno della specifica zona di
intervento.
---------------
La monetizzazione degli standard si configura quale facoltà
eminentemente discrezionale dell’Amministrazione Comunale e
non già quale diritto del privato, il quale non può pertanto
ritenersi esente dall’onere di individuare le aree da
computare in quota standard.
Da ultimo, per quanto attiene
agli spazi per parcheggi, va rilevato quanto segue.
Il D.M. 02.04.1968 n. 1444, adottato in attuazione dell’art.
41-quinquies, commi ottavo e nono, della L. 1150 del 1942
come introdotto dall’art. 17 della L. 06.08.1967 n. 765,
disciplina i cosiddetti standards urbanistici ed edilizi.
Per quanto qui segnatamente interessa, l’art. 5 di tale D.M.
individua i rapporti massimi tra gli spazi destinati agli
insediamenti produttivi e gli spazi pubblici destinati alle
attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi,
prescrivendo che:
1) nei nuovi insediamenti di carattere industriale o ad essi
assimilabili compresi nelle zone D) la superficie da
destinare a spazi pubblici o destinata ad attività
collettive, a verde pubblico o a parcheggi (escluse le sedi
viarie) non può essere inferiore al 10% dell’intera
superficie destinata a tali insediamenti;
2) nei nuovi insediamenti di carattere commerciale e
direzionale, a 100 mq. di superficie lorda di pavimento di
edifici previsti, deve corrispondere la quantità minima di
80 mq. di spazio, escluse le sedi viarie, di cui almeno la
metà destinata a parcheggi (in aggiunta a quelli di cui al
predetto art. 18 della L. 765 del 1967); tale quantità, per
le zone A) e B) è ridotta alla metà, purché siano previste
adeguate attrezzature integrative.
Gli spazi di parcheggi testé riferiti sono quindi aggiuntivi
e non sostitutivi di quelli imposti dall’art. 18 della L.
765 del 1967, la cui misura è stata quindi modificata per
effetto dell’art. 2 della L. dalla L. 24.03.1898 n. 122
(cfr. ivi: “nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree
di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere
riservati appositi spazi per parcheggi in misura non
inferiore ad un metro quadrato per ogni 10 metri cubi di
costruzione”).
Si rinviene comprova di ciò dal differente contenuto
dell’art. 41-quinquies, ottavo comma, della L. 1150 del 1942
e dell’art. 41-sexies della legge medesima.
Gli spazi di parcheggio di cui all’art. 41-quinquies
costituiscono infatti aree pubbliche da conteggiarsi ai fini
della dotazione di standard, nel mentre i parcheggi di cui
al successivo art. 41-sexies sono qualificati come aree
private pertinenziali alle nuove costruzioni, con la
conseguenza che l’art. 3, comma 2, lett. d), del D.M.
02.04.1968 n. 1444 espressamente li esclude dal computo nel
calcolo della misura degli standards.
Ciò posto, l’allora vigente art. 22 della L.R. 15.04.1975 n.
51 disponeva nel senso che “la dotazione minima di
standard funzionali ai nuovi insediamenti di carattere
commerciale stabilita dall’art. 5 del D.M. n. 1444 in misura
dell’ 80% della superficie lorda di pavimento è elevata al
100%. Di tali aree almeno la metà dovrà essere destinata a
parcheggi di uso pubblico”.
La finalità complessivamente perseguita dalle disposizioni
sin qui riferite risulta ben evidente, ed è stata dianzi già
enunciata: poiché i centri commerciali richiamano un elevato
numero di consumatori è necessario, onde evitare disfunzioni
e pericoli alla circolazione stradale e turbative alle
proprietà che potrebbero essere causate dall’ingente numero
di veicoli, predisporre un congruo numero di spazi destinati
al parcheggio.
L’Alco si è invero riferita nelle sue difese all’istituto
della c.d. “monetizzazione degli standards”, il quale
–come è ben noto- consiste nel versamento al comune di un
importo alternativo alla cessione diretta delle stesse aree,
ogni volta che tale cessione non venga disposta: in tal
modo, pertanto, è consentito al lottizzante di corrispondere
all’Amministrazione Comunale un corrispettivo in danaro per
ogni metro quadrato non ceduto, con il conseguente obbligo
del Comune medesimo di utilizzare quanto ottenuto dalla
monetizzazione per la realizzazione di opere pubbliche da
localizzarsi ove pianificato.
Va opportunamente rimarcato che mentre il pagamento degli
oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la
realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un
vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita
l’area interessata alla imminente trasformazione edilizia,
la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standards
essenzialmente pertiene al reperimento delle aree necessarie
alla realizzazione delle opere di urbanizzazione all’interno
della specifica zona di intervento (cfr. al riguardo, ad
es., Cons. Stato, Sez. IV, 16.02.2011 n. 1013).
Nella Regione Lombardia l’istituto della monetizzazione è
attualmente normato dall’art. 46, comma 2, lettera a),
ultimo periodo, della L.R. 11.03.2005 n. 12, in forza del
quale “qualora l’acquisizione di tali aree non risulti
possibile o non sia ritenuta opportuna dal comune in
relazione alla loro estensione, conformazione o
localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di
intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa
totale o parziale della cessione, che all’atto della
stipulazione i soggetti obbligati corrispondano al comune
una somma commisurata all’utilità economica conseguita per
effetto della mancata cessione e comunque non inferiore al
costo dell'acquisizione di altre aree”.
Non dissimilmente l’art. 12, lett. a), della L.R. 05.12.1977
n. 60, vigente all’epoca dei fatti di causa, disponeva che,
qualora l’acquisizione delle aree necessarie per le opere di
urbanizzazione primaria e per le attrezzature pubbliche e di
uso pubblico “non venga ritenuta opportuna dal Comune in
relazione alla loro estensione, conformazione o
localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di
intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa
totale o parziale della cessione, che all’atto della stipula
i lottizzanti corrispondano al comune una somma commisurata
all’utilità economica conseguita per effetto della mancata
cessione e comunque non inferiore al costo dell’acquisizione
di altre aree”.
La legislazione regionale subordinava e subordina pertanto
la monetizzazione degli standards a ben precisi presupposti,
e ciò nella considerazione che la monetizzazione
presupponeva -e presuppone- comunque un’offerta di aree,
restando in facoltà del Comune la commutazione sulla base di
un apprezzamento complesso, che investe sia l’idoneità o
meno delle aree offerte in funzione dell’uso pubblico cui
verrebbero destinate, sia la possibilità di acquisire aree
alternative (con monetizzazione, quindi, a carico del
lottizzante) al fine mantenere invariato il livello di
dotazione di standards fissato dal piano regolatore e che
non può comunque scendere al di sotto del minimo contemplato
dalla legge ovvero dalla fonte autorizzata dalla legge.
Da tutto ciò discende quindi che la monetizzazione si
configura quale facoltà eminentemente discrezionale
dell’Amministrazione Comunale e non già quale diritto del
privato, il quale non può pertanto ritenersi esente
dall’onere di individuare le aree da computare in quota
standard: e, se così è, deve ricavarsi la conseguenza che la
Giunta Regionale, laddove ha affermato la sussistenza di una
palese inopportunità della disposta monetizzazione, ha
utilizzato il termine in senso improprio, avendo viceversa
all’evidenza inteso censurare sotto il profilo della
legittimità, segnatamente dell’eccesso di potere per
illogicità, la mancanza dei presupposti nella per
l’applicazione dell’istituto della monetizzazione, stante la
mancata individuazione, da parte del Comune, di aree idonee
ad integrare in altre parti del territorio comunale le
superfici a standard rese necessarie dall’intervento de L’Alco
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.01.2013 n. 32 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ANNO 2012 |
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EDILIZIA
PRIVATA:
Monetizzazione sostitutiva della cessione degli
standard.
Mentre il pagamento degli oneri di
urbanizzazione si risolve in un contributo per la
realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un
vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita
l’area interessata alla imminente trasformazione edilizia,
la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard
afferisce al reperimento delle aree necessarie alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria
all’interno della specifica zona di intervento e ciò vale ad
evidenziare la diversità ontologica della monetizzazione
rispetto al contributo di concessione.
In proposito non può che richiamarsi il recente orientamento
della Sezione, formatosi proprio su fattispecie concernente
la monetizzazione prevista dal Comune di Putignano, che
giunge a conclusioni opposte sulla basi di un’analisi
articolata su due concorrenti profili:
a) natura e consistenza della prestazione pecuniaria
richiesta;
b) genesi e scaturigine della c.d. monetizzazione.
Secondo detto orientamento, quanto punto a), se da un lato è
pressoché irrilevante, ai fini in esame, la qualificazione
della monetizzazione come imposizione di tipo tributario o
come corrispettivo di diritto pubblico, dall’altro lato
assume, invece, significativo rilievo la considerazione che
la prestazione patrimoniale richiesta non vive in alcun modo
della natura e delle finalità proprie del contributo
concessorio costituito dagli oneri di urbanizzazione e dal
costo di costruzione che accompagna naturaliter
l’autorizzazione a costruire, la cui debenza o meno, quanto
al relativo accertamento, può essere fatta valere, in linea
generale, nei termini prescrizionali.
Invero, mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si
risolve in un contributo per la realizzazione delle opere
stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione
alla zona in cui è inserita l’area interessata alla
imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione
sostitutiva della cessione degli standard afferisce al
reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle
opere di urbanizzazione secondaria all’interno della
specifica zona di intervento; e ciò vale ad evidenziare la
diversità ontologica della monetizzazione rispetto al
contributo di concessione, di talché, sotto il versante
processuale, non si può utilizzare lo strumento dell’azione
di accertamento ammesso per contestare la legittimità del
contributo ex art. 3 o comunque la insussistenza di tale
obbligazione pecuniaria ancorché già assolta (cfr. Sez. IV,
16/02/2011, n. 1013) (massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.12.2012 n. 6707 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: Per
espressa previsione di legge (art. 187, comma 2, TUEL) l'avanzo di
amministrazione può essere impiegato per finanziare la spesa corrente
derivante dall'estinzione anticipata dei mutui, per la parte dell'avanzo non
vincolata a finalità specifiche.
Il comune può, in termini di programmazione, reperire le risorse per
l'estinzione anticipata del mutuo tra i proventi derivanti da standard
qualitativi urbanistici.
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Il sindaco del Comune di Carate Brianza (MB) ha formulato alla Sezione
una richiesta di parere concernente la possibilità di finanziare
l’estinzione anticipata di un mutuo con la Cassa Depositi e Prestiti (Cdp)
ricorrendo, rispettivamente, ai proventi derivanti da uno standard
qualitativo urbanistico per la parte capitale, all’avanzo di
amministrazione accertato e disponibile per la parte concernente la penale
per l’estinzione anticipata.
In subordine, ove non fosse possibile utilizzare a tal fine i proventi dello
standard urbanistico, si chiede se sia possibile provvedervi per intero, per
la quota capitale e per la penale, tramite il solo avanzo di
amministrazione, comunque accertato e disponibile.
...
1. Appare opportuno analizzare, primariamente, la questione della
destinabilità delle somme ricavate da proventi per standard qualitativi
urbanistici per lo specifico scopo della estinzione di un mutuo.
In proposito, occorre ricordare che ai sensi dell’art. 162, anche per il
bilancio degli enti locali, vigono i principi di unicità, universalità e
integrità del bilancio (art. 162, comma 1, T.U.E.L.). Infatti:
· tutte le entrate dell’ente locale vanno a costituire, a
prescindere dalla loro origine, un’unica fonte, finalizzata alla copertura
di tutte le spese pubbliche, con l’eccezione, appunto delle entrate a
specifica destinazione ex art. 195 T.U.E.L e la gestione conto terzi, per
cui sussiste una correlazione precisa tra entrata e spesa (unità);
· non sono ammesse gestioni “fuori bilancio”, cioè fuori
dall’ordinario controllo autorizzatorio esercitato col bilancio di
previsione, se non nei casi espressamente autorizzati dalla legge
(universalità del bilancio). A dimostrazione di ciò, sono tassative sia le
ipotesi di riconoscimento di debiti fuori bilancio (art. 194 T.U.E.L.) che
le gestioni conto terzi (art. 168 T.U.E.L.);
· infine, ogni voce deve essere inserita al “lordo”, senza
compensazioni tra voci in entrata e voci in uscita, anche quando, come nel
caso di specie, per effetto di rimborsi o conguagli, la spesa non sia
integralmente imputabile all’ente, ma solo parzialmente (integrità e
principio di chiarezza del bilancio).
Questa preliminare considerazione porta a ritenere di per sé improprio ogni
ragionamento sulla diretta correlazione tra una voce delle entrate e delle
uscite, nel caso di specie tra singole fonte di finanziamento del bilancio (proventi
da standard urbanistici, allocati al Titolo IV delle entrate) e una voce
specifica delle uscite (spese per rimborso prestiti, Titolo III).
Il principio di unità riceve una specifica deroga, come si diceva, nel caso
di entrate a specifica destinazione (art. 195 T.U.E.L.), peraltro, avendo
riguardo alla gestione per cassa.
La specifica destinazione, tra l’altro, sulla base dei dati forniti dal
comune, non caratterizzerebbe il provento dello standard urbanistico, la cui
finalizzazione, se prevista, è il risultato di una determinazione
amministrativa e non di una disposizione di legge.
Infatti, come evidenziato nella delibera Lombardia n. 282/2012/PRSE la
destinazione rilevante ai fini dell’art. 195 non può essere generica, ma
deve essere, come risulta dalla lettera della norma, “specifica”
nonché derivante da apposite disposizioni di legge o regolamentari che
consentono di derivarne, a fini contabili, una simile qualificazione.
La specifica destinazione, infatti, è la risultante di due elementi: a) la
etero destinazione; b) il collegamento diretto tra fonte e spesa da
effettuare.
Quanto al primo elemento, ci si riferisce alla circostanza che la
destinazione deve avere fondamento in disposizioni normative di legge o
regolamentari.
Quanto al secondo, il vincolo rilevante ai fini della gestione di
cassa e dei limiti stabiliti dall’art. 195, deve essere tale da tradursi in
un legame specifico tra la fonte di finanziamento e le specifiche opere o
finalità, tant’è che la mancata realizzazione della spesa nei termini
previsti può comportare, per l’ente locale, un dovere di restituzione.
Diverso discorso va fatto, invece, per le entrate in conto capitale in
generale: esse sono piuttosto gravate da un vincolo di destinazione non
specifico, ma generico, rilevante ai fini della sana gestione di competenza:
l’esistenza di una simile destinazione generica si ricava, indirettamente,
dall’art. 162, comma 6, T.U.E.L., secondo cui la spesa corrente deve essere
finanziata con entrate ordinarie della medesima specie, salvo eccezioni di
legge; la spesa in conto capitale, peraltro, può essere finanziata tanto con
il surplus di entrate correnti (c.d. avanzo di bilancio, ai sensi dell’art.
199 T.U.E.L., lett. b), con l’avanzo di amministrazione nei caso in cui ciò
sia funzionale all’estinzione anticipata di mutui (art. 199 T.U.E.L. lett.
d), nonché, ovviamente, con entrate in conto capitale tassativamente
elencate (art. 199 T.U.E.L., nelle lettere non precedentemente elencate). Si
tratta, quindi, di un vincolo rilevante in termini di equilibri di bilancio.
Peraltro, quando il vicolo di destinazione assume il carattere della
specificità, esso si espleta non più genericamente e al solo a livello di
competenza, ma anche a livello di cassa (art. 195 T.U.E.L)..
1.1. Tanto premesso, appare chiaro che nulla osta a che l’amministrazione,
nell’ambito delle operazioni in conto capitale, ritenga di individuare
l’indiretta fonte del finanziamento dell’estinzione in un provento
specifico, specie in sede di bilancio di previsione, fermo restando che in
sede gestionale non ci sarà alcun vincolo diretto tra l’una fonte e l’altra
spesa né in termini di competenza, né tanto meno di cassa, rilevando
soltanto l’equilibrio complessivo della gestione corrente e,
correlativamente, quella in conto capitale ai sensi del combinato disposto
degli artt. 162 e 199 T.U.E.L..
In altre parole, l’equilibrio tra fonti di finanziamento e investimenti
rileva in una duplice ottica: in quella della programmazione puntuale degli
investimenti (che consente di individuare un collegamento singolare e
indiretto tra entrata e spesa) nonché in quella della valutazione
complessiva degli equilibri di bilancio (in sede preventiva e di
rendiconto). In questi termini va letto l’art. 199 T.U.E.L. che, secondo una
concezione di tipo aziendalistico, individua le fonti finanziamento secondo
una precipua elencazione riconducibile alla dicotomica classificazione fonti
interne (lettere a-e) e fonti esterne (lettere f-g).
Nel caso prospettato si tratta non tanto di finanziarie un investimento
ex novo, quanto di re-internalizzarne la fonte, da esterna ad interna,
attraverso l’estinzione anticipata di un mutuo, con la diminuzione degli
oneri correnti del debito contratto, ovvero la spesa per interessi passivi.
2. I quesiti qui proposti, in definitiva, mirano ad ottenere delucidazioni
circa le possibili forme di finanziamento di tale re-internalizzazione. Per
comodità espositiva si ritiene di invertire l’ordine dei quesiti,
scandagliando preliminarmente la possibilità di finanziare tale estinzione
prima con il solo avanzo di amministrazione, poi con un provento specifico
di Titolo IV (proventi da standard qualitativo urbanistico).
2.1. Per espressa previsione di legge (art. 187, comma 2, T.U.E.L.) l’avanzo
di amministrazione può essere impiegato per finanziare la spesa corrente
derivante dall’estinzione anticipata dei mutui. Tale possibilità era stata
evidenziata in via giurisprudenziale da questa Sezione (delibere nn. 36 e
40/2007/PAR) già prima delle novelle di cui agli art. 11 del D.L. n.
159/2007, conv. L. n. 222/2007 e, di presso, dell’art. 2, comma 13, della L.
n. 244/2007, che ha modificato in parte qua l’art. 187, comma 2, del
T.U.E.L., prevedendo la prefata possibilità di utilizzazione.
La Sezione, inoltre, partendo dalla considerazione che la penale è un
corrispettivo per il recesso anticipato dal mutuo, sul versante della spesa
ha ritenuto di fare le seguenti valutazioni: poiché la penale può essere
virtualmente considerata un’operazione di attualizzazione di una spesa
corrente riflessa su esercizi futuri, ferma restando l’utilizzabilità
dell’avanzo come unitaria fonte di finanziamento dell’estinzione (cfr.
delibera 546/2010/PAR nonché 317/2011/PAR e infine 288/2012/PAR), si è
ritenuto che la sede appropriata per l’allocazione della correlativa spesa
fosse il Titolo I, mentre per la parte in conto capitale il Titolo III
(Spese per rimborso di prestiti).
Peraltro, l’utilizzabilità unitaria dell’avanzo a fini di finanziamento
dell’estinzione anticipata, per la stesse considerazioni preliminari, trova
un limite in quella parte dell’avanzo che è vincolata a finalità specifiche.
Infatti, il corrispettivo per la penale potrà essere finanziato solo con la
parte non vincolata per la spesa in conto capitale o di altro genere.
2.2. Per quanto concerne invece la destinazione di proventi specifici del
titolo IV all’estinzione di mutui (segnatamente i proventi derivanti da
standard qualitativi urbanistici), richiamato il principio di unità del
bilancio, non può che rammentarsi che (in termini di equilibri complessivi) la spesa in conto capitale deve tendenzialmente essere finanziata con
entrate in conto capitale. Pertanto, ben può il Comune, in termini di
programmazione, reperire le risorse per l’estinzione anticipata del mutuo
tra quelle che rivengono dai prefati proventi urbanistici.
Il vincolo di gestione, per competenza, su tali risorse si tradurrà, a fine
esercizio, in un vincolo sull’avanzo di amministrazione, il quale potrà
essere utilizzato per l’estinzione negli esercizi successivi, nei termini
sopra specificati, solo per la parte capitale del debito, potendo invece il
Comune utilizzare per il pagamento della penale solo la parte libera
dell’avanzo (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 15.11.2012 n. 487). |
URBANISTICA:
Per regola generale, l'Amministrazione ha la più
ampia discrezionalità nell'individuare le scelte ritenute
idonee per disciplinare l'uso del proprio territorio (e
anche nel rivedere le proprie precedenti previsioni
urbanistiche) e non deve fornire motivazione specifica delle
singole scelte urbanistiche.
La giurisprudenza è, infatti, uniforme nel ritenere che la
scelta di imprimere una particolare destinazione urbanistica
ad una zona non necessiti di particolare motivazione,
giacché le stesse trovano giustificazione nei criteri
generali d’impostazione del piano.
Le osservazioni formulate dai proprietari interessati
costituiscono un mero apporto collaborativo alla formazione
degli strumenti urbanistici e non danno luogo a peculiari
aspettative, con la conseguenza che il loro rigetto non
richiede una dettagliata motivazione, essendo sufficiente
che siano state esaminate e ragionevolmente ritenute in
contrasto con gli interessi e le considerazioni generali
poste a base della formazione del piano regolatore o della
sua variante.
Tuttavia, la regola generale della non necessità di puntuale
onere motivazionale delle nuove destinazioni urbanistiche
conferite dallo strumento urbanistico subisce delle
eccezioni in alcune situazioni specifiche in cui il
principio della tutela dell'affidamento impone che lo
strumento urbanistico dia conto del modo in cui sia stata
effettuata la ponderazione degli interessi pubblici e siano
state operate le scelte di pianificazione: ciò si verifica
nei casi in cui la nuova destinazione urbanistica rispetto
alla precedente va ad incidere su singole posizioni,
connotate da una fondata aspettativa sulla destinazione
dell'area, che per questo si differenziano dalle posizioni
degli altri soggetti interessati; l'Amministrazione, in tali
casi, ha il dovere di valutare con attenzione l'opportunità
di modificare la precedente destinazione urbanistica di
un'area e, se ritiene di dover diversamente disciplinare
tale area e sacrificare comunque gli interessi dei soggetti
coinvolti, deve indicare le ragioni logiche che hanno
portato a tale nuova scelta pianificatoria. Si tratta di
tutti i casi di affidamento qualificato del privato,
riconducibili a convenzioni di lottizzazione, accordi di
diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari
delle aree, e alle aspettative nascenti da giudicati di
annullamento di dinieghi di permesso di costruire o di
silenzio-rifiuto su una domanda di concessione.
---------------
Il sovradimensionamento degli standard non necessita di
apposita, specifica motivazione ove lo scostamento dai
minimi legali risulti contenuto, mentre il notevole
superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968
deve essere congruamente motivato, con la precisazione che
la motivazione va riferita esclusivamente alle previsioni
urbanistiche complessive di sovradimensionamento,
indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona
di determinate aree.
Osserva il Collegio che, per regola generale, l'Amministrazione ha
la più ampia discrezionalità nell'individuare le scelte
ritenute idonee per disciplinare l'uso del proprio
territorio (e anche nel rivedere le proprie precedenti
previsioni urbanistiche) e non deve fornire motivazione
specifica delle singole scelte urbanistiche.
La giurisprudenza è, infatti, uniforme nel
ritenere che la scelta di imprimere una particolare
destinazione urbanistica ad una zona non necessiti di
particolare motivazione, giacché le stesse trovano
giustificazione nei criteri generali d’impostazione del
piano (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 07.04.2010, n.
1986; TAR Sicilia Catania, sez. I, 15.04.2010, n.
1089; Tar Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 23.11.2010,
n. 8074).
Inoltre, sempre in tema di obbligo motivazionale, va posto
in rilievo che le osservazioni formulate dai proprietari
interessati costituiscono un mero apporto collaborativo alla
formazione degli strumenti urbanistici e non danno luogo a
peculiari aspettative, con la conseguenza che il loro
rigetto non richiede una dettagliata motivazione, essendo
sufficiente che siano state esaminate e ragionevolmente
ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni
generali poste a base della formazione del piano regolatore
o della sua variante (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV,
19.03.2009, n. 1652).
Tuttavia, la regola generale della non necessità di puntuale
onere motivazionale delle nuove destinazioni urbanistiche
conferite dallo strumento urbanistico subisce delle
eccezioni in alcune situazioni specifiche in cui il
principio della tutela dell'affidamento impone che lo
strumento urbanistico dia conto del modo in cui sia stata
effettuata la ponderazione degli interessi pubblici e siano
state operate le scelte di pianificazione: ciò si verifica
nei casi in cui la nuova destinazione urbanistica rispetto
alla precedente va ad incidere su singole posizioni,
connotate da una fondata aspettativa sulla destinazione
dell'area, che per questo si differenziano dalle posizioni
degli altri soggetti interessati; l'Amministrazione, in tali
casi, ha il dovere di valutare con attenzione l'opportunità
di modificare la precedente destinazione urbanistica di
un'area e, se ritiene di dover diversamente disciplinare
tale area e sacrificare comunque gli interessi dei soggetti
coinvolti, deve indicare le ragioni logiche che hanno
portato a tale nuova scelta pianificatoria. Si tratta di
tutti i casi di affidamento qualificato del privato,
riconducibili a convenzioni di lottizzazione, accordi di
diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari
delle aree, e alle aspettative nascenti da giudicati di
annullamento di dinieghi di permesso di costruire o di
silenzio-rifiuto su una domanda di concessione.
È altresì pacifico in giurisprudenza che il
sovradimensionamento degli standard non necessiti di
apposita, specifica motivazione ove lo scostamento dai
minimi legali risulti contenuto, mentre il notevole
superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968
deve essere congruamente motivato, con la precisazione che
la motivazione va riferita esclusivamente alle previsioni
urbanistiche complessive di sovradimensionamento,
indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona
di determinate aree (TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 12.09.2012 n. 2142 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Il
Comune rimane libero di dare una diversa
destinazione urbanistica alle aree acquisite
in sede di convenzioni urbanistiche al fine
della realizzazione di opere di
urbanizzazione.
---------------
I terreni destinati a verde pubblico dal
piano regolatore acquistano la condizione di
beni del patrimonio indisponibile dell'ente
pubblico (e, quindi, di beni strumentali al
perseguimento dei fini istituzionali
dell’ente stesso) solo dal momento in cui,
essendo stati acquistati da questo in
proprietà, sono trasformati ed in concreto
utilizzati secondo la propria destinazione,
non essendo all'uopo sufficiente né il piano
regolatore generale, che ha solo funzione
programmatoria e l'effetto di attribuire
alla zona, o anche ai terreni in esso
eventualmente indicati, una vocazione da
realizzare attraverso gli strumenti
urbanistici di secondo livello o ad essi
equiparati, e la successiva attività di
esecuzione di questi strumenti, né il
provvedimento di approvazione del piano di
lottizzazione, che individua solo il terreno
specificamente interessato dal progetto di
destinazione pubblica, né la convenzione di
lottizzazione, che si inserisce nella fase
organizzativa del processo di realizzazione
del programma urbanistico e non nella fase
della sua materiale esecuzione.
Va comunque
incidentalmente osservato che:
- la giurisprudenza ha avuto più volte
occasione di affermare che il Comune rimane
libero di dare una diversa destinazione
urbanistica alle aree acquisite in sede di
convenzioni urbanistiche al fine della
realizzazione di opere di urbanizzazione
(cfr. Cassazione civile, sez. II,
14.08.2007, n. 17698; Cassazione civile,
sez. II, 28.08.2000, n. 11208; Cassazione
civile, sez. II, 09.03.1990 n. 1917;
Cassazione civile, sez. II, 25.07.1980 n.
4833; TAR Abruzzo L'Aquila, 16.07.2004, n.
835);
- i terreni destinati a verde pubblico dal
piano regolatore acquistano la condizione di
beni del patrimonio indisponibile dell'ente
pubblico (e, quindi, di beni strumentali al
perseguimento dei fini istituzionali
dell’ente stesso) solo dal momento in cui,
essendo stati acquistati da questo in
proprietà, sono trasformati ed in concreto
utilizzati secondo la propria destinazione,
non essendo all'uopo sufficiente né il piano
regolatore generale, che ha solo funzione
programmatoria e l'effetto di attribuire
alla zona, o anche ai terreni in esso
eventualmente indicati, una vocazione da
realizzare attraverso gli strumenti
urbanistici di secondo livello o ad essi
equiparati, e la successiva attività di
esecuzione di questi strumenti, né il
provvedimento di approvazione del piano di
lottizzazione, che individua solo il terreno
specificamente interessato dal progetto di
destinazione pubblica, né la convenzione di
lottizzazione, che si inserisce nella fase
organizzativa del processo di realizzazione
del programma urbanistico e non nella fase
della sua materiale esecuzione (cfr.
Cassazione civile, sez. II, 09.09.1997, n.
8743) (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 03.08.2012 n. 1417 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
procedura di messa in vendita (diretta) di
aree a standard, acquisite gratuitamente
dall'attuazione di un piano attuativo,
escludendo uno o più proprietari dei lotti
facenti parte il piano medesimo è
illegittima poiché
la mancata
partecipazione di un soggetto che avrebbe
avuto titolo ad essere notiziato
dell’offerta di vendita determina il
travolgimento, a cascata, degli atti
successivi della procedura suddetta sino
all’aggiudicazione.
Il ricorrente
afferma che la vendita sarebbe stata
riservata agli ex lottizzanti e comprova di
rivestire tale qualifica mediante produzione
(cfr. doc. n. 4 del ric.) di copia della
convenzione di lottizzazione “PL Giardino”
in data 12.01.1984 n. 16340-10262 di rep.
Notaio Aldo Franco Rossi, ove –alla pag. 3–
è indicato come uno dei lottizzanti: Crippa
Eugenio nato a ... il ....
Va precisato che –come si evince dal
provvedimento n. 134 del 29.11.2010-
destinatari della lettera d’invita erano i
(“proprietari di immobili in via Moroni
ex p.l. Giardino”).
In ogni caso il Crippa ha affermato di
rivestire anche tale (parzialmente
differente) qualifica producendo (cfr. il
doc. 9/9-bis) il rogito notaio Giuseppe
Mangili atto di acquisto in data 09.01.1995
di appezzamento di terreno ricompreso nel PL
giardino di cui all’atto Notaio Aldo Franco
Rossi e (doc. n. 8) l’atto di permuta di
strisce di terreno nell’ambito del P.L. in
questione.
In assenza di contestazioni al riguardo da
parte dell’Amministrazione deve dunque
ritenersi comprovato il possesso della
qualifica di proprietario di immobili in via
Moroni ex P.L. Giardino, sicché il predetto
aveva titolo ad essere destinatario
dell’invito.
La mancata partecipazione di un soggetto che
avrebbe avuto titolo ad essere notiziato
dell’offerta di vendita determina il
travolgimento, a cascata, degli atti
successivi della procedura suddetta sino
all’aggiudicazione di cui alla
determinazione n. 4 del 2011 (terzo atto qui
impugnato) (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 03.08.2012 n. 1417 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La
monetizzazione delle aree standard (la quale
trova ordinariamente la sua fonte
legittimante nella convenzione urbanistica
che disciplina il piano attuativo) è un
istituto contemplato dall’ordinamento e
applicato nella prassi amministrativa di
tutti i Comuni italiani, anche se
derogatorio rispetto al principio affermato
dall’art. 12 del D.P.R. 380/2001.
Inoltre, la facoltà di richiedere o
accettare il controvalore delle opere di
urbanizzazione rientra nella sfera di
discrezionalità tecnico-amministrativa
dell’Ente, come tale non censurabile se non
per gravi vizi di irrazionalità.
E’ dunque evidente che la monetizzazione
–rispetto alla cessione delle aree– integra
un’eccezione alla regola generale (si veda
sul punto anche l’art. 12 della L.r. 60/1977
per tempo vigente), e come tale deve
poggiare su una solida ragione
giustificatrice nell’ambito del procedimento
urbanistico, mentre viceversa la cessione
non deve essere supportata da una peculiare
motivazione configurando l’ipotesi ordinaria
prevista dal legislatore.
Quanto alla dedotta disparità di
trattamento, si ribadisce che le scelte
urbanistiche sono connotate da ampia
discrezionalità, e sono censurabili soltanto
ove affiorino illogicità abnormi.
La giurisprudenza ha affermato in generale
che la monetizzazione delle aree standard
(la quale trova ordinariamente la sua fonte
legittimante nella convenzione urbanistica
che disciplina il piano attuativo) è un
istituto contemplato dall’ordinamento e
applicato nella prassi amministrativa di
tutti i Comuni italiani, anche se
derogatorio rispetto al principio affermato
dall’art. 12 del D.P.R. 380/2001 (TAR Marche
– 23/06/2011 n. 500). Inoltre è stato
sottolineato che la facoltà di richiedere o
accettare il controvalore delle opere di
urbanizzazione rientra nella sfera di
discrezionalità tecnico-amministrativa
dell’Ente, come tale non censurabile se non
per gravi vizi di irrazionalità (Consiglio
di Stato, sez. IV – 07/02/2011 n. 824).
E’ dunque evidente che la monetizzazione
–rispetto alla cessione delle aree– integra
un’eccezione alla regola generale (si veda
sul punto anche l’art. 12 della L.r. 60/1977
per tempo vigente), e come tale deve
poggiare su una solida ragione
giustificatrice nell’ambito del procedimento
urbanistico, mentre viceversa la cessione
non deve essere supportata da una peculiare
motivazione configurando l’ipotesi ordinaria
prevista dal legislatore. Quanto alla
dedotta disparità di trattamento, si
ribadisce che le scelte urbanistiche sono
connotate da ampia discrezionalità, e sono
censurabili soltanto ove affiorino
illogicità abnormi (TAR Lombardia-Brescia,
Sez. II,
sentenza 19.06.2012 n. 1089 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
I provvedimenti con i quali i comuni ripartiscono in zone il
territorio in sede di pianificazione
urbanistica hanno natura ampiamente
discrezionale e possono pertanto incidere
anche su precedenti difformi destinazioni
delle zone stesse, sempre che la nuova
suddivisione non sia affetta da errori di
fatto o da gravi vizi di illogicità,
irrazionalità o contraddittorietà.
In occasione della formazione degli
strumenti giuridici generali, inoltre, le
scelte discrezionali delle amministrazioni
locali riguardo alla destinazione di singole
aree necessitano di apposite motivazioni -oltre quelle che si possono evincere dai
criteri generali- seguiti nella
impostazione del piano -solo quando
incidono in posizioni giuridiche consolidate- come la presenza di precedente
lottizzazione o di atti amministrativi che
abbiano riconosciuto la peculiarità di
determinate situazioni.
---------------
Non possono ricevere un indice edificatorio,
neppure virtuale, aree che non sono
assoggettabili a trasformazione urbanistica
per natura o per regime giuridico.
La destinazione dei terreni dev’essere
decisa con riferimento principale alle
caratteristiche intrinseche del bene in
questione, le quali decidono della natura
conformativa od espropriativa della
destinazione di zona, e, nel caso di vincoli
espropriativi, della quantificazione del
relativo indennizzo.
Sul punto la dottrina e la giurisprudenza
affermano che un’area, per divenire
edificabile deve avere una “vocazione
edificatoria”, nel senso che, per le sue
oggettive caratteristiche intrinseche, deve
apparire economicamente suscettibile di
immediata trasformazione.
Tale concetto dev’essere convertito in
quello più ampio di idoneità alla
trasformazione urbanistica laddove, come nel
caso in questione, la volumetria debba
atterrare su altre aree.
La possibilità di assegnare un indice
virtuale solo ad aree che partecipano della
trasformazione urbanistica trova la sua
ragione nel fatto che sarebbe del tutto
illogico assegnare una rendita urbana, qual
è quella dei fondi che producono tale
volumetria (c.d. fondi sorgente), ad aree
che non possono, per caratteri propri,
partecipare al mercato edilizio.
In caso contrario, inoltre, si
trasformerebbe il piano regolatore in un
atto di discrezionalità pura in contrasto
con quanto da sempre affermato dalla
giurisprudenza amministrativa e
costituzionale la quale ha da tempo chiarito
in merito alla discrezionalità di chi
effettua le scelte di piano, che «non si
tratta di discrezionalità indiscriminata ed
incontrollabile bensì di discrezionalità
tecnica. La quale ... essendo condizionata
da elementi di valutazione di carattere
tecnico, importa che l'attività normativa
devoluta dall'amministrazione (nella specie
ai Comuni) si deve svolgere entro
determinati confini di carattere obiettivo,
e che, per ciò stesso, rimane, sotto questo
aspetto, delimitata nella libertà di
apprezzamento».
A ciò si aggiunge che anche la finalità
perequativa può realizzarsi solo nel caso in
cui l’attribuzione di un diritto
edificatorio indipendentemente dalla
destinazione d’uso sia effettuata nel
rispetto della naturale vocazione
edificatoria dell’area. Solo nel caso in cui
sia i fondi da cui sorge l’edificabilità che
quelli sui quali tale edificabilità deve
atterrare siano idonei alla trasformazione
urbanistica per natura e per destinazione
urbanistica (anche se in misura diversa),
infatti, si elimina od almeno si riduce
l’effetto discriminatorio del piano,
realizzando un eguale trattamento di
situazioni di fatto uguali od analoghe.
---------------
La determinazione degli indici di zona, che
è carattere precipuo della zonizzazione è
frutto di ampia discrezionalità.
Anche in un sistema perequativo l'indice
edificatorio è collegato ad una scelta
discrezionale dell'amministrazione in merito
alla collocazione della volumetria
realizzabile ed il suo valore è connesso
anche all'area sulla quale tale volumetria
deve ricadere.
Solo coloro che possono vantare una
posizione consolidata attribuitagli
dall’amministrazione con un atto definitivo
ed efficace come la stipula di una
convenzione di lottizzazione o dal giudice
con una sentenza favorevole secondo
l’opinione giurisprudenziale hanno una
situazione di affidamento tutelato nel
mantenimento della situazione.
---------------
Gli standard urbanistici di zona debbono
essere proporzionati e, di conseguenza,
quelli superiori a quelli minimi di legge
debbono essere motivati.
Tuttavia tale regola non può essere invocata
nel caso in cui sia previsto un indice unico
di edificabilità, in quanto l’effetto che
esso produce è l’indifferenza del regime dei
fondi alla destinazione d’uso dei medesimi.
Ogni fondo è infatti parificato agli altri
nel regime giuridico di edificabilità, con
la conseguenza che diventa indifferente che
esso sia destinato ad uso pubblico o
privato.
Resta invece in vigore il limite funzionale,
cioè la necessità che le aree dei fondi
sorgente, della cui edificabilità il
proprietario del fondo di atterraggio si
deve fare carico, siano destinate a
soddisfare “gli insediamenti residenziali,
produttivi, direzionali e commerciali”, come
dice la legge, da realizzare nell’area di
piano.
I provvedimenti con i quali i comuni ripartiscono in zone il
territorio in sede di pianificazione
urbanistica hanno natura ampiamente
discrezionale e possono pertanto incidere
anche su precedenti difformi destinazioni
delle zone stesse, sempre che la nuova
suddivisione non sia affetta da errori di
fatto o da gravi vizi di illogicità,
irrazionalità o contraddittorietà.
In occasione della formazione degli
strumenti giuridici generali, inoltre, le
scelte discrezionali delle amministrazioni
locali riguardo alla destinazione di singole
aree necessitano di apposite motivazioni -oltre quelle che si possono evincere dai
criteri generali- seguiti nella
impostazione del piano -solo quando
incidono in posizioni giuridiche consolidate- come la presenza di precedente
lottizzazione o di atti amministrativi che
abbiano riconosciuto la peculiarità di
determinate situazioni (Consiglio Stato,
sez. IV, 12.12.1990, n. 1002).
---------------
Non
possono ricevere un indice edificatorio,
neppure virtuale, aree che non sono
assoggettabili a trasformazione urbanistica
per natura o per regime giuridico.
La giurisprudenza della Corte costituzionale
in primis e poi del giudice amministrativo
sono chiare, infatti, nel riconoscere che la
destinazione dei terreni dev’essere decisa
con riferimento principale alle
caratteristiche intrinseche del bene in
questione, le quali decidono della natura
conformativa od espropriativa della
destinazione di zona (da ultimo Consiglio
Stato, sez. IV, 22.06.2011, n. 3797),
e, nel caso di vincoli espropriativi, della
quantificazione del relativo indennizzo
(Corte costituzionale sentenza n. 5 del
1980; idem 30.07.1984 n. 231; da ultimo
Corte costituzionale, 10.06.2011, n.
181).
Sul punto la dottrina e la giurisprudenza
affermano che un’area, per divenire
edificabile deve avere una “vocazione
edificatoria”, nel senso che, per le sue
oggettive caratteristiche intrinseche, deve
apparire economicamente suscettibile di
immediata trasformazione.
Tale concetto dev’essere convertito in
quello più ampio di idoneità alla
trasformazione urbanistica laddove, come nel
caso in questione, la volumetria debba
atterrare su altre aree.
La possibilità di assegnare un indice
virtuale solo ad aree che partecipano della
trasformazione urbanistica trova la sua
ragione nel fatto che sarebbe del tutto
illogico assegnare una rendita urbana, qual
è quella dei fondi che producono tale
volumetria (c.d. fondi sorgente), ad aree
che non possono, per caratteri propri,
partecipare al mercato edilizio.
In caso contrario, inoltre, si
trasformerebbe il piano regolatore in un
atto di discrezionalità pura in contrasto
con quanto da sempre affermato dalla
giurisprudenza amministrativa e
costituzionale (Corte cost. 14.05.1966,
n. 38) la quale ha da tempo chiarito in
merito alla discrezionalità di chi effettua
le scelte di piano, che «non si tratta di
discrezionalità indiscriminata ed
incontrollabile bensì di discrezionalità
tecnica. La quale ... essendo condizionata
da elementi di valutazione di carattere
tecnico, importa che l'attività normativa
devoluta dall'amministrazione (nella specie
ai Comuni) si deve svolgere entro
determinati confini di carattere obiettivo,
e che, per ciò stesso, rimane, sotto questo
aspetto, delimitata nella libertà di
apprezzamento».
A ciò si aggiunge che anche la finalità
perequativa può realizzarsi solo nel caso in
cui l’attribuzione di un diritto
edificatorio indipendentemente dalla
destinazione d’uso sia effettuata nel
rispetto della naturale vocazione
edificatoria dell’area. Solo nel caso in cui
sia i fondi da cui sorge l’edificabilità che
quelli sui quali tale edificabilità deve
atterrare siano idonei alla trasformazione
urbanistica per natura e per destinazione
urbanistica (anche se in misura diversa),
infatti, si elimina od almeno si riduce
l’effetto discriminatorio del piano,
realizzando un eguale trattamento di
situazioni di fatto uguali od analoghe.
---------------
Sempre con riferimento all’indice
edificatorio il ricorrente lamenta che il
suo ius aedificandi sia stato
sostanzialmente svuotato a causa dal basso
indice attribuito ai suoi terreni per
l’edificazione autonoma, ben più basso di
quello precedente.
In merito la difesa comunale ha replicato
che in realtà l’edificabilità dell’area di
proprietà del ricorrente con l’acquisizione
della volumetria dell’area standard è
addirittura superiore a quella attribuita
dal precedente piano.
Il profilo di ricorso non è fondato in
quanto la giurisprudenza da sempre afferma
che la determinazione degli indici di zona,
che è carattere precipuo della zonizzazione
è frutto di ampia discrezionalità (ex plurimis TAR Veneto sez. I,
02/09/2008 n.
2645).
Anche in un sistema perequativo l'indice
edificatorio è collegato ad una scelta
discrezionale dell'amministrazione in merito
alla collocazione della volumetria
realizzabile ed il suo valore è connesso
anche all'area sulla quale tale volumetria
deve ricadere (TAR Lombardia, Milano, sez.
II, 17.09.2009 n. 4671).
Solo coloro che possono vantare una
posizione consolidata attribuitagli
dall’amministrazione con un atto definitivo
ed efficace come la stipula di una
convenzione di lottizzazione o dal giudice
con una sentenza favorevole secondo
l’opinione giurisprudenziale hanno una
situazione di affidamento tutelato nel
mantenimento della situazione pregressa
(Cons. Stato, sez. IV, 13.07.1993, n.
711; Cons. Stato, sez. IV, 19.01.1988,
n. 9; Cons. Stato Ad. Plen., 24.05.2007, n.
7).
---------------
L’art. 22
della L.R. 15/04/1975 n. 51 prevede che
negli strumenti urbanistici generali e nei
piani attuativi deve essere assicurata una
dotazione globale di aree per attrezzature
pubbliche e di uso pubblico, commisurata
all’entità degli insediamenti residenziali,
produttivi, direzionali e commerciali, sulla
base dei parametri e dei criteri stabiliti
nel presente articolo.
La norma in sostanza stabilisce la regola
che gli standard debbono essere commisurati
agli insediamenti previsti, sia dal punto di
vista quantitativo che funzionale.
Per quanto riguarda l’aspetto
quantitativo occorre rilevare che la
giurisprudenza (ex plurimis Tar Lombardia,
Milano, sez. II, 21.03.2006 n. 634) da
tempo afferma che gli standard urbanistici
di zona debbono essere proporzionati e, di
conseguenza, quelli superiori a quelli
minimi di legge debbono essere motivati.
Tuttavia tale regola non può essere invocata
nel caso in cui sia previsto un indice unico
di edificabilità, in quanto l’effetto che
esso produce è l’indifferenza del regime dei
fondi alla destinazione d’uso dei medesimi.
Ogni fondo è infatti parificato agli altri
nel regime giuridico di edificabilità, con
la conseguenza che diventa indifferente che
esso sia destinato ad uso pubblico o
privato.
Resta invece in vigore il limite funzionale,
cioè la necessità che le aree dei fondi
sorgente, della cui edificabilità il
proprietario del fondo di atterraggio si
deve fare carico, siano destinate a
soddisfare “gli insediamenti
residenziali, produttivi, direzionali e
commerciali”, come dice la legge, da
realizzare nell’area di piano (TAR Lombardia-Milano, Sez, IV,
sentenza 16.04.2012 n. 1123 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA: Sulla
mancata rivalutazione annuale, in base ai coefficienti
Istat, delle tariffe stabilite per la cd. “monetizzazione”
delle aree destinate a standard urbanistici.
Quanto all'elemento soggettivo della “gravità”
della colpa, esso è senz'altro ravvisabile in capo all'arch.
N., nella sua qualità di Responsabile del Servizio
Programmazione Territoriale Urbanistica – Ambiente, la quale
ha seguito i procedimenti in questione, in ogni loro fase.
Si tratta, infatti, comunque si voglia ricostruire la
vicenda in punto di diritto, della commissione di un errore
grossolano, non scusabile, essendo stati in definitiva
monetizzati degli standard urbanistici, senza alcuna
spiegazione valida, sulla base di valori nominali di mercato
risalenti al 1992, di cui era peraltro espressamente
prevista la rivalutazione annuale.
Delle due l'una: o la delibera n. 45 del
1992 era applicabile, per cui la rivalutazione non poteva
essere omessa neppure da un impiegato di minima diligenza o
la delibera n. 45 del 1992 non era applicabile, per cui
l'individuazione del valore di mercato per le aree da
monetizzare avrebbe dovuto avvenire con motivati e
trasparenti criteri oggettivi di stima, secondo
ragionevolezza, non potendosi certamente far riferimento
arbitrario a valori storici del 1992.
---------------
Le stesse considerazioni valgono per l'Assessore T.
il quale, pur sostenendo (o avendo il dubbio, o dovendo
avere il dubbio, per tutti i motivi da lui stesso esposti
nelle proprie difese) che la delibera n. 45 del 1992 non
fosse applicabile ai PEC in giudizio, non si domandò mai il
perché essa fosse espressamente richiamata in pressoché
tutte le bozze di convenzioni sottoposte all'approvazione
del Consiglio comunale, né si pose mai il problema di quale
criterio si dovesse utilizzare per monetizzare aree diverse
da quelle prese in considerazione dalla delibera in parola
(cioè diverse dalla A1, A2 e B1).
Si noti che, per quanto l'operazione di
rivalutazione degli importi fissati nel 1992 fosse
relativamente semplice (di qui la gravità della colpa per
averla del tutto trascurata), la problematica generale della
“monetizzazione” delle aree destinate a standard
urbanistico non poteva certo rappresentare un aspetto
marginale della materia urbanistica per il Comune.
La deroga
agli standard urbanistici dovrebbe costituire, invero,
ipotesi a carattere eccezionale e residuale, da affrontare
con la dovuta cautela ed attenzione; la relativa
monetizzazione, comportando al contempo un interesse non
solo urbanistico, ma anche finanziario per l'ente,
costituisce un aspetto assai delicato del quale un assessore
all'urbanistica, almeno negli aspetti generali, non può
disinteressarsi, schermandosi dietro la responsabilità
esclusiva del livello tecnico-dirigenziale.
Non è infatti pensabile né accettabile che
in un Comune come Arquata Scrivia l'Assessore competente,
pur constandogli conclamate lacune normative (con i connessi
profili di incertezza) su un argomento di portata generale e
di particolare interesse pubblico, qual è quello della
monetizzazione, trascuri di affrontare il problema e di
assumere ogni iniziativa a garanzia del buon andamento
dell'ente amministrato.
Ciò vale, a maggior ragione, ove si consideri la contestuale
qualità di presidente o membro della Commissione Edilizia
comunale rivestita dall'Assessore medesimo.
Non giova all'assessore, nel caso di
specie, l’esimente “politica” di cui all’art. 1, co.
1-ter, della legge 14.01.1994, n. 20 (ai sensi del quale “nel
caso di atti che rientrano nella competenza propria degli
uffici tecnici o amministrativi la responsabilità non si
estende ai titolari degli organi politici che in buona fede
li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o
consentito l'esecuzione”), non tanto perché, essendo qui
in contestazione l'omesso adeguamento delle tariffe di
monetizzazione alla svalutazione monetaria (o l'omessa
predisposizione di tariffe), non v'è a monte un “atto”
cui l'organo politico si sia adeguato, quanto perché il
compito di dare compiuta disciplina alla materia non può
considerarsi competenza esclusiva degli uffici tecnici o
amministrativi. Infine, cade opportuno ricordare che la
buona fede dell'interessato per essere esimente deve essere
ovviamente incolpevole, cioè non deve derivare da un difetto
d'esame delle questioni sottopostegli.
---------------
Né è persuasiva la lettura delle norme del t.u.e.l. proposta
dal convenuto, ove si tenga anche a mente che:
- ai sensi dell'art. 48 la giunta collabora nel governo
dell'ente con il sindaco, il quale è responsabile della
relativa amministrazione (art. 50);
- ai sensi dell'art. art 77 gli assessori rientrano nella
nozione di “amministratore locale” e ai sensi
dell'art. 78, comma 3, i componenti la giunta comunale
competenti in materia di urbanistica, di edilizia e di
lavori pubblici devono astenersi dall’esercitare attività
professionale in materia di edilizia privata e pubblica nel
territorio da essi amministrato (a dimostrazione non solo
della intrinseca delicatezza delle materia in questione, da
sempre oggetto di grande attenzione da parte della
collettività in quanto crocevia di rilevanti interessi
economici e ambientali, privati e pubblici, ma anche del
ruolo centrale che gli assessori rivestono nelle suddette
materie, dalle quali non possono affatto ritenersi
estranei);
- ai sensi dell'art. 107, agli amministratori dell'ente
competono i poteri di indirizzo e controllo politico
amministrativo, mentre ai dirigenti compete la relativa
attuazione, compresa l'adozione dei “i provvedimenti di
autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio
presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura
discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla
legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi
comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie”
(nella specie, la materia della monetizzazione degli
standard, almeno per le aree diverse dalle A1, A2 e B1 e per
interventi non commerciali, è rimasta priva di atti generali
di indirizzo, malgrado tutte le problematiche normative e
applicative ben descritte in atti dallo stesso assessore
T.);
- ai sensi dell'art. 93 la responsabilità patrimoniale
dinanzi alla Corte dei conti può essere fatta valere tanto
nei confronti degli amministratori, quanto del personale
degli enti locali, secondo la disciplina prevista per gli
impiegati civili dello Stato.
Infine, non giova ai convenuti neppure il
principio dell'insindacabilità nel merito delle scelte
discrezionali, a fronte di fattispecie manifestamente
irragionevoli e pregiudizievoli per l'ente amministrato (per
quanto fin qui esposto).
---------------
Non è invece
ravvisabile, in radice, l'elemento psicologico della colpa
grave in capo al Sindaco M. dalla quale, nella sua qualità
di organo di vertice dell'amministrazione comunale, non
poteva pretendersi una minuziosa verifica dell'operato di
tutti gli uffici comunali e di tutti i propri assessori,
tanto più in un settore a connotazione tecnica cui erano
preposti un assessore e un Responsabile di un Servizio.
Deve
cioè considerarsi come errore “fisologico”, in linea
di principio, ai fini della responsabilità
amministrativo-contabile, quello commesso da un Sindaco che,
in buona fede, abbia fatto affidamento sulla correttezza
dell'operato degli Uffici comunali e dell'attività di
indirizzo e controllo politico-amministrativo svolta su di
essi del proprio assessore, competente per materia.
----------------
1.
La Procura Regionale ha citato in giudizio dinanzi a questa
Corte i signori M., T. e N. (nella loro rispettiva qualità
di Sindaco, di Assessore all'Urbanistica, di Responsabile
del Servizio di Programmazione Territoriale Urbanistica ed
Ambiente del Comune di Arquata Scrivia, all'epoca dei fatti
in contestazione) contestandogli l'erronea applicazione
delle tariffe stabilite per la c.d. “monetizzazione”
delle aree destinate a standard urbanistici e chiedendone
quindi la condanna al risarcimento in favore dell'ente
locale della somma di euro 193.360,24, oltre spese ed
accessori.
In particolare, nella citazione si riferisce che:
- con nota del 15.01.2009 l’Assessore all’Urbanistica del
Comune di Omissis (AL) segnalava il danno procurato
alle finanze dell’Ente dalla precedente amministrazione a
causa della mancata rivalutazione annuale, in base ai
coefficienti Istat, delle tariffe stabilite per la cd. “monetizzazione”
delle aree destinate a standard urbanistici;
- il Comune di Omissis aveva, infatti, previsto nel
proprio Piano Regolatore valori di dotazione minima di aree
per standard conformi alla normativa regionale,
disciplinando minuziosamente (artt. 14 e ss. del Titolo IV
delle Norme Tecniche di Attuazione del P.R.G.C.) la
possibilità per l’amministrazione di acconsentire alla
monetizzazione;
- con deliberazione consiliare del 21.07.1992, n. 45, il
Comune di Omissis aveva determinato il valore del
corrispettivo in denaro da porre a carico del privato
promotore del Piano Esecutivo Convenzionato (P.E.C.) in caso
di monetizzazione delle aree destinate a parcheggio,
quantificando le tariffe in lire 400.000 fino a 15 mq e in
lire 40.000 per ogni mq eccedente i 15;
- al punto 2, lettera f), di quest'ultima deliberazione era
stabilito l’obbligo di adeguamento annuale delle tariffe “sulla
base della svalutazione risultante dai dati ISTAT”;
- l’amministrazione comunale, invece, non aveva mai
provveduto all’adeguamento, fino alla determinazione del
Responsabile del Servizio Urbanistica n. 04-URB del
31.03.2008;
- pertanto, per tutti i P.E.C. precedentemente approvati
erano state applicate le tariffe fissate dalla citata
deliberazione n. 45/1992 senza operare la rivalutazione;
- in particolare, con riferimento ai P.E.C. denominati “Omissis”,
“Omissis”, “F.I.M.”, “Omissis”,
variante “Omissis”, era stata applicata la tariffa di
€ 20,66 (equivalenti alle 40.000 lire fissate dalla predetta
deliberazione);
- relativamente al P.E.C. approvato con deliberazione del
Consiglio Comunale n. 37 del 30.09.2005, denominato “Centro
intermodale integrato – Omissis” (area a destinazione
produttiva), poi, era stata applicata una tariffa
addirittura inferiore, pari a € 13,00 al mq.;
- peraltro, le tariffe di monetizzazione di cui alla
deliberazione n. 45/1992 erano applicabili anche alle aree
produttive, giusta le precisazioni fornite al CO.RE.CO. in
data 06.08.1992, che costituiscono parte integrante della
deliberazione medesima (… per la determinazione del
corrispettivo relativo alla monetizzazione delle aree a
parcheggio sono stati presi in considerazione i valori di
mercato delle aree residenziali e produttive stabilendo, di
conseguenza, un valore ritenuto congruo per dette aree...);
inoltre, nello schema di convenzione del P.E.C. “Omissis”
il soggetto attuatore si obbligava all’art. 5 “a
monetizzare le aree di standard di cui non è prevista la
cessione al Comune al prezzo stabilito dalle vigenti
delibere in materia nel Comune di Omissis”, cioè con la
citata delibera n. 45/1992;
- analoga questione si era posta inizialmente anche per la
vendita di un terreno alla Società A. (fattispecie per la
quale, peraltro, la Procura attrice non ha poi mosso
contestazioni nell'atto di citazione, in adesione
all'eccezione di prescrizione sollevata dai presunti
responsabili nelle deduzioni difensive in fase
pre-processuale);
- il mancato adeguamento delle tariffe ha causato al Comune
un danno pari a € 193.360,24 (da suddividersi, salvo
migliore valutazione della Sezione, in parti uguali tra i
convenuti), oltre accessori e spese di giustizia;
- agli effetti degli artt. 1219 e 2943 c.c. il P.M. aveva
costituito in mora i presunti responsabili con lettere
raccomandate del 27.10.2010; all'interruzione della
prescrizione aveva provveduto anche il Sindaco di Omissis
con atti ricevuti il 29.10.2010 dalla signora M., il
30.10.2010 dalla signora N. e il 03.11.2010 dal signor T.;
- ai fini della prescrizione, il momento di decorrenza va
individuato nella data di pagamento degli oneri di “monetizzazione”
e non nella data di approvazione delle bozze di convenzione
da parte del Consiglio Comunale;
- costituisce un’omissione gravemente colposa, da parte di
coloro che avevano il dovere di eseguire la citata delibera
C.C. n. 45/92, il mancato adeguamento alla svalutazione
monetaria dei valori per la monetizzazione in discorso;
infatti, nel comportamento omissivo la gravità della colpa
discende dalla consapevolezza dell’omissione di un’attività
doverosa e, nella specie, va tenuto in considerazione che la
citata delibera n. 45/92 non era certo di difficile
interpretazione o applicazione e che la sua esecuzione non
presentava alcuna difficoltà, risolvendosi in un calcolo di
semplicità elementare;
- il Sindaco, signora M., ai sensi dell’art. 50 del t.u.e.l.,
benché titolare degli atti di indirizzo politico e tenuta a
rispettare l’autonomia dirigenziale, aveva comunque l’onere
di un costante e diligente controllo sul buon andamento
degli uffici comunali;
- l’Assessore con delega all’Urbanistica, signor T., il
quale partecipava ratione materiae degli stessi
poteri e delle responsabilità del Sindaco, non ha adottato
gli opportuni provvedimenti per l’attuazione delle
disposizioni riguardanti il suo specifico settore;
- il Responsabile del settore Urbanistica, signora N., che
ha sottoscritto tutte le convenzioni, in quanto organo “tecnico”,
non poteva ignorare l’obbligo dell’adeguamento periodico; a
lei, in primis, competeva il dovere di operare la
rivalutazione, ai sensi degli artt. 107 e ss. del t.u.e.l.,
non certo al Consiglio comunale o alle Commissioni
consiliari (non essendovi nulla da deliberare, ma solo da
applicare la rivalutazione, la quale è operazione automatica
e prettamente tecnica);
- sotto altro profilo, non poteva configurarsi né la “tacita
abrogazione” della delibera n. 45/1992, né una
integrazione o modifica della stessa da parte delle
convenzioni successivamente stipulate con i privati per i
singoli P.E.C.;
- l'interpretazione difensiva che afferma l'applicabilità
delle tariffe di monetizzazione fissate con la delibera n.
45/1992 alle sole aree residenziali a capacità insediativa
esaurita e aree di insediamento storico, con riguardo agli
interventi di tipo commerciale, quindi l'inapplicabilità
alle aree interessate dai P.E.C. in contestazione, ad avviso
del P.M. contrasta con il fatto incontestabile che la
delibera, nelle convenzioni stesse, era stata espressamente
richiamata ed applicata (ma senza rivalutazione);
- ai fini del requisito della “attualità” del danno
in contestazione il Pubblico Ministero non condivide la tesi
difensiva secondo cui l’Amministrazione sarebbe ancora in
grado di adeguare i corrispettivi e di recuperare le somme
dovute per rivalutazione, non essendo ancora maturata la
prescrizione; ciò perché, ad avviso della Procura, il danno
derivante dalla mancata acquisizione di entrate deve
ritenersi attuale anche nelle ipotesi in cui sia possibile o
addirittura in corso un’attività di recupero, per tacere del
fatto che la prospettata possibilità di recupero dei
maggiori oneri di monetizzazione da parte del Comune
parrebbe alquanto dubbia.
...
V.
Venendo al merito, la questione cruciale dell'intero
giudizio si incentra sulla necessità o meno di applicare, ai
fini della determinazione dell'importo con cui monetizzare
gli standard delle aree a parcheggio, in contestazione, la
tariffa stabilita con la citata deliberazione consiliare n.
45 del luglio 1992. Su questa problematica di fondo si
innestano le ulteriori questioni relative alla possibilità
di applicare comunque la tariffa in discorso ma senza
rivalutazione annuale Istat, nonché alle modalità di computo
dell'adeguamento stesso.
Al riguardo, le tesi difensive non appaiono fino in fondo
convincenti.
In disparte le marginali contraddizioni che, comunque,
traspaiono in diversi passaggi delle difese stesse (nella
misura in cui parrebbero affermare che il PRGC all'epoca
vigente non prevedesse, e quindi verosimilmente neppure
consentisse, la monetizzazione degli standard per le aree su
cui insistono i PEC in discussione, in quanto diverse dalle
aree B1, A1 e A2 destinate a interventi di tipo commerciale,
le sole per le quali sarebbe stata per l'appunto prevista la
monetizzazione), resta il fatto che le convenzioni “Omissis”
e “La Omissis”, qui in esame, hanno fatto espresso
richiamo alla citata deliberazione n. 45 del 1992, senza
alcuna riserva o distinguo, dunque nella sua interezza.
Nello specifico, al di là delle giustificazioni fornite ex
post dai convenuti, non può ignorarsi che:
- per il PEC “Omissis”, l'art. 5 della convenzione,
dopo aver previsto che il proponente si impegnava a
monetizzare le aree a standard per mq. 547 stabiliva
testualmente che “si richiama la delibera della Giunta
Comunale n. 45 del 21.07.1992 al fine della quantificazione
matematica degli stessi” e che “di conseguenza la
monetizzazione delle aree a standard urbanistici è così
quantificata (...): mq. 547 x € 20,66 = € 11.301,00”;
- per la variante “La Omissis”, l'art. 4 al par. 4
stabiliva testualmente che “il valore delle aree oggetto di
monetizzazione è determinato in euro 41.200,00 pari a euro
20,66 al mq (come da delibera C.C. n. 45 del 21.07.1992)”.
Un caso a se stante è costituito dal PEC “Omissis”,
il cui art. 5 prevedeva che “il soggetto attuatore, nei
limiti quantitativi previsti dal PEC, si obbliga a
monetizzare le aree di standard di cui non è prevista la
cessione al Comune al prezzo stabilito dalle vigenti
delibere in materia nel Comune di Omissis”: su questo
aspetto si tornerà tra breve.
Il rinvio puro e semplice alla delibera n. 45 del 1992 (che
era comunque l'unica esistente “in materia”), senza
precisare che il richiamo doveva intendersi ad una sola
parte della delibera stessa (cioè alla fissazione originaria
del valore nominale di monetizzazione) e quindi senza
esclusione della previsione applicativa che sanciva la
necessità di rivalutare annualmente il valore originario,
corrobora l'assunto della Procura, secondo cui la
disquisizione sulla applicabilità o meno della delibera n.
45 del 1992 risulta superata, di fatto, dall'avvenuta
applicazione della stessa (sebbene incompleta).
Ad ogni modo, per scrupolo di motivazione,
va osservato che ove si volesse ipotizzare, con le difese
dei convenuti, che la delibera n. 45 del 1992 non fosse
applicabile alle convenzioni in questione (perché
riguardante aree ed interventi diversi da quelli previsti in
convenzione), ancor meno comprensibile sarebbe il
ragionamento per cui, nell'ambito asseritamente rientrante
nelle proprie scelte discrezionali, l'ente locale avrebbe
deciso di monetizzare gli standard in base al valore “storico”
indicato nella suddetta delibera, ritenuta inapplicabile
(valore calcolato prendendo in considerazione “i valori
di mercato delle aree residenziali e produttive stabilendo,
di conseguenza, un valore ritenuto congruo per dette aree
(…) tenuto conto del costo di esecuzione delle opere che
dovrebbero essere realizzate in aree già urbanizzate”;
v. nota 9471 del 1992, in risposta alla richiesta di
chiarimenti del Co.Re.Co.) anziché in base al valore di
mercato corrente tra il 2005 e il 2006 o, comunque, a quello
nominale del 1992 attualizzato alla data dei singoli PEC,
secondo il criterio applicativo espressamente fissato dalla
stessa delibera n. 45 del 1992 (art. 2, lett. f) e ritenuto
corretto dalla Procura.
In particolare, anche ove si volesse
ammettere che le aree in questione fossero effettivamente
monetizzabili e che il relativo corrispettivo potesse essere
liberamente pattuito tra il privato proponente e l'ente
locale, nella propria discrezionalità ma in misura non
inferiore al costo di acquisizione di aree idonee a
soddisfare il rispetto dello standard, nella specie non è
dato rinvenire agli atti di causa alcun elemento oggettivo
(salvo il semplice rinvio alla delibera del 1992) del
procedimento logico di fissazione del corrispettivo stesso;
per contro, appare del tutto irragionevole far riferimento
scientemente a valori di mercato e a costi di realizzazione
delle opere rilevati nel 1992 (non essendo verosimile e non
essendo stato infatti documentato che nel periodo 1992-2005
vi sia stata una flessione dei suddetti valori di mercato e
dei costi di realizzazione delle opere tale da compensare il
tasso di inflazione).
Neppure per il PEC “Omissis” è stato in alcun modo
esplicitato il criterio logico che ha condotto a fissare il
corrispettivo della monetizzazione in euro 13, né le difese
non sono state in grado di spiegare a quali delibere del
Comune vigenti “in materia” di monetizzazione e
fissazione del relativo prezzo avesse voluto far riferimento
la convenzione (posto che esisteva solo la delibera n. 45
del 1992 ma che la stessa, secondo la tesi difensiva, non
poteva applicarsi all'area del “Omissis”; il rinvio
della convenzione, quindi, sarebbe un rinvio “a vuoto”
inserito quale clausola di mero stile, sicché il costo di
monetizzazione di fatto non era fissato nella convenzione,
ma restava rimesso a successivi atti discrezionali).
Ne consegue che, stando agli atti,
l'invocata discrezionalità amministrativa si è rivelata, nel
suo concreto esercizio, in contrasto con i criteri
elementari di ragionevolezza, trasparenza e imparzialità
dell'azione amministrativa (come se il Comune avesse venduto
un proprio terreno sulla base di una stima di valore fatta
tredici anni prima). La supposta mancanza di una
deliberazione applicabile alle operazioni in parola (cioè la
mancanza di una tariffa comunale prestabilita) imponeva,
semmai, un'istruttoria ancor più rigorosa e ben motivata,
volta a determinare il congruo corrispettivo di
monetizzazione sulla base di elementi oggettivi ed uniformi
(quali non possono considerarsi, ragionevolmente, i valori e
i costi di mercato rilevati nel 1992 e successivamente mai
aggiornati).
Questa Corte, dunque, soppesati tutti gli argomenti
contenuti negli atti di causa, è pervenuta al convincimento
che il Responsabile del Servizio competente
e l'Assessore all'Urbanistica
(sul punto, v. infra), ove realmente
avessero rilevato o dubitato che non esisteva nessuna
delibera comunale e nessun criterio prefissato ed oggettivo
di determinazione dei valori di monetizzazione, per le aree
non ricomprese nella precedente delibera n. 45 del 1992,
avrebbero dovuto in ogni caso farsi carico del problema, che
non era certo di poco conto, promuovendo l'adozione di una
nuova delibera che regolasse la materia o comunque
assicurando una istruttoria adeguata per individuare il
prezzo congruo di monetizzazione per i PEC in corso di
approvazione, sulla base di stime aggiornate.
VI.
Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, ritiene
la Sezione che il danno per il Comune di Arquata
Scrivia sia
stato correttamente commisurato alla (omessa) rivalutazione
del prezzo di “monetizzazione” fissato nel luglio
1992 (non essendovi state contestazioni né sull'indice
applicato, né sul periodo di rivalutazione preso in
considerazione dalla Procura, come esplicitati in
citazione). Si
tratta di una stima prudenziale ed equa, basata sulla
constatazione, in fatto, dell'avvenuto richiamo alla
delibera n. 45 del 1992 (cioè alla sola delibera comunale
esistente “in materia”) operato nelle convenzioni
stesse; quest'ultima delibera costituisce
quindi, in mancanza di altre stime svolte all'epoca dei
fatti, un parametro equo ed attendibile di liquidazione del
differenziale di introito negativo per il Comune.
Il danno non difetta del requisito di certezza ed attualità,
in quanto i minori incassi per il Comune sono stati pattuiti
in convenzioni già perfezionatesi, eseguite e giuridicamente
vincolanti per le parti (salvo future eventuali azioni da
parte del Comune nei confronti delle controparti private,
peraltro con esito che non è possibile prevedere con
certezza in questa sede).
VII.
Quanto all'elemento soggettivo della “gravità”
della colpa, esso è senz'altro ravvisabile in capo all'arch.
N., nella sua qualità di Responsabile del Servizio
Programmazione Territoriale Urbanistica – Ambiente, la quale
ha seguito i procedimenti in questione, in ogni loro fase.
Si tratta, infatti, comunque si voglia ricostruire la
vicenda in punto di diritto, della commissione di un errore
grossolano, non scusabile, essendo stati in definitiva
monetizzati degli standard urbanistici, senza alcuna
spiegazione valida, sulla base di valori nominali di mercato
risalenti al 1992, di cui era peraltro espressamente
prevista la rivalutazione annuale.
Delle due l'una: o la delibera n. 45 del
1992 era applicabile, per cui la rivalutazione non poteva
essere omessa neppure da un impiegato di minima diligenza o
la delibera n. 45 del 1992 non era applicabile, per cui
l'individuazione del valore di mercato per le aree da
monetizzare avrebbe dovuto avvenire con motivati e
trasparenti criteri oggettivi di stima, secondo
ragionevolezza, non potendosi certamente far riferimento
arbitrario a valori storici del 1992
(per i PEC “Omissis” e “Omissis”) o al valore
di 13,00 euro per mq (per il PEC “Omissis”).
VIII.
Le stesse considerazioni valgono per l'Assessore T.
il quale, pur sostenendo (o avendo il dubbio, o dovendo
avere il dubbio, per tutti i motivi da lui stesso esposti
nelle proprie difese) che la delibera n. 45 del 1992 non
fosse applicabile ai PEC in giudizio, non si domandò mai il
perché essa fosse espressamente richiamata in pressoché
tutte le bozze di convenzioni sottoposte all'approvazione
del Consiglio comunale, né si pose mai il problema di quale
criterio si dovesse utilizzare per monetizzare aree diverse
da quelle prese in considerazione dalla delibera in parola
(cioè diverse dalla A1, A2 e B1).
Si noti che, per quanto l'operazione di
rivalutazione degli importi fissati nel 1992 fosse
relativamente semplice (di qui la gravità della colpa per
averla del tutto trascurata), la problematica generale della
“monetizzazione” delle aree destinate a standard
urbanistico non poteva certo rappresentare un aspetto
marginale della materia urbanistica per il Comune. La deroga
agli standard urbanistici dovrebbe costituire, invero,
ipotesi a carattere eccezionale e residuale, da affrontare
con la dovuta cautela ed attenzione; la relativa
monetizzazione, comportando al contempo un interesse non
solo urbanistico, ma anche finanziario per l'ente,
costituisce un aspetto assai delicato del quale un assessore
all'urbanistica, almeno negli aspetti generali, non può
disinteressarsi, schermandosi dietro la responsabilità
esclusiva del livello tecnico-dirigenziale.
Non è infatti pensabile né accettabile che
in un Comune come Arquata Scrivia l'Assessore competente,
pur constandogli conclamate lacune normative (con i connessi
profili di incertezza) su un argomento di portata generale e
di particolare interesse pubblico, qual è quello della
monetizzazione, trascuri di affrontare il problema e di
assumere ogni iniziativa a garanzia del buon andamento
dell'ente amministrato.
Ciò vale, a maggior ragione, ove si consideri la contestuale
qualità di presidente o membro della Commissione Edilizia
comunale rivestita dall'Assessore medesimo.
Non giova all'assessore, nel caso di
specie, l’esimente “politica” di cui all’art. 1, co.
1-ter, della legge 14.01.1994, n. 20 (ai sensi del quale “nel
caso di atti che rientrano nella competenza propria degli
uffici tecnici o amministrativi la responsabilità non si
estende ai titolari degli organi politici che in buona fede
li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o
consentito l'esecuzione”), non tanto perché, essendo qui
in contestazione l'omesso adeguamento delle tariffe di
monetizzazione alla svalutazione monetaria (o l'omessa
predisposizione di tariffe), non v'è a monte un “atto”
cui l'organo politico si sia adeguato, quanto perché il
compito di dare compiuta disciplina alla materia non può
considerarsi competenza esclusiva degli uffici tecnici o
amministrativi. Infine, cade opportuno ricordare che la
buona fede dell'interessato per essere esimente deve essere
ovviamente incolpevole, cioè non deve derivare da un difetto
d'esame delle questioni sottopostegli.
Né è persuasiva la lettura delle norme del t.u.e.l. proposta
dal convenuto, ove si tenga anche a mente che:
- ai sensi dell'art. 48 la giunta collabora nel governo
dell'ente con il sindaco, il quale è responsabile della
relativa amministrazione (art. 50);
- ai sensi dell'art. art 77 gli assessori rientrano nella
nozione di “amministratore locale” e ai sensi
dell'art. 78, comma 3, i componenti la giunta comunale
competenti in materia di urbanistica, di edilizia e di
lavori pubblici devono astenersi dall’esercitare attività
professionale in materia di edilizia privata e pubblica nel
territorio da essi amministrato (a dimostrazione non solo
della intrinseca delicatezza delle materia in questione, da
sempre oggetto di grande attenzione da parte della
collettività in quanto crocevia di rilevanti interessi
economici e ambientali, privati e pubblici, ma anche del
ruolo centrale che gli assessori rivestono nelle suddette
materie, dalle quali non possono affatto ritenersi
estranei);
- ai sensi dell'art. 107, agli amministratori dell'ente
competono i poteri di indirizzo e controllo politico
amministrativo, mentre ai dirigenti compete la relativa
attuazione, compresa l'adozione dei “i provvedimenti di
autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio
presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura
discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla
legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi
comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie”
(nella specie, la materia della monetizzazione degli
standard, almeno per le aree diverse dalle A1, A2 e B1 e per
interventi non commerciali, è rimasta priva di atti generali
di indirizzo, malgrado tutte le problematiche normative e
applicative ben descritte in atti dallo stesso assessore
T.);
- ai sensi dell'art. 93 la responsabilità patrimoniale
dinanzi alla Corte dei conti può essere fatta valere tanto
nei confronti degli amministratori, quanto del personale
degli enti locali, secondo la disciplina prevista per gli
impiegati civili dello Stato.
Infine, non giova ai convenuti neppure il
principio dell'insindacabilità nel merito delle scelte
discrezionali, a fronte di fattispecie manifestamente
irragionevoli e pregiudizievoli per l'ente amministrato (per
quanto fin qui esposto).
IX.
Ad avviso di questi Giudici non è invece
ravvisabile, in radice, l'elemento psicologico della colpa
grave in capo al Sindaco M. dalla quale, nella sua qualità
di organo di vertice dell'amministrazione comunale, non
poteva pretendersi una minuziosa verifica dell'operato di
tutti gli uffici comunali e di tutti i propri assessori,
tanto più in un settore a connotazione tecnica cui erano
preposti un assessore e un Responsabile di un Servizio. Deve
cioè considerarsi come errore “fisologico”, in linea
di principio, ai fini della responsabilità
amministrativo-contabile, quello commesso da un Sindaco che,
in buona fede, abbia fatto affidamento sulla correttezza
dell'operato degli Uffici comunali e dell'attività di
indirizzo e controllo politico-amministrativo svolta su di
essi del proprio assessore, competente per materia:
nella specie, va considerato non grave l'errore del Sindaco
per aver confidato nell'applicabilità della delibera n. 45
del 1992 a tutte le “monetizzazioni” di standard
urbanistici e nella correttezza della liquidazione
dell'importo dovuto ad opera del Servizio competente, in
mancanza di elementi di segno opposto segnalati dai soggetti
preposti al settore o comunque venuti a conoscenza del
Sindaco medesimo.
X.
In conclusione, il danno in giudizio (liquidabile in
complessivi euro 145.593,69 essendo prescritte le poste
relative ai Pec “Omissis” e “Omissis”) va
addebitato a titolo di responsabilità amministrativa ai
signori T. e N..
Meritano peraltro accoglimento le domande subordinate di
ampia riduzione equitativa dell'addebito, considerata
l'entità del danno, la natura non dolosa della fattispecie e
l'insieme di tutte le circostanze oggettive e soggettive
descritte in atti le quali, se non valgono ad escludere la
responsabilità, comunque possono essere prese in
considerazione ai fini dell'esercizio del potere in parola.
Si ritiene, perciò, di poter limitare l'addebito all'importo
complessivo di euro 95.000,00 (pari a poco meno del 60% del
danno, debitamente aumentato di rivalutazione Istat).
L'addebito va ripartito tra i signori T. e N., in ragione
del contributo causale riferibile a ciascuno di essi,
secondo le quote rispettive del 40% e del 60%, per un totale
di euro 38.000,00 (trentottomila/00) a carico del signor T.
e di euro 57.000,00 (cinquantasettemila) a carico della
signora N..
Sulla somma di condanna spettano gli interessi legali dalla
data della sentenza al saldo (Corte dei Conti, Sez. giursdiz.
Piemonte,
sentenza 16.04.2012 n. 56). |
URBANISTICA: Il
trasferimento della proprietà delle opere di
urbanizzazione in capo al comune costituisce
un'obbligazione ex lege -inderogabile e
indisponibile per le parti della convenzione
di lottizzazione in base alla quale le opere
stesse sono state realizzate-, ex art. 28
della L. n. 1150 del 17.08.1942, con la
conseguenza che le parti non potrebbero
legittimamente accordarsi sul loro
mantenimento in capo al lottizzante, essendo
tali opere strumentali allo svolgimento di
pubblici servizi fisiologicamente rientranti
nelle competenze dell'autorità
amministrativa (mentre la gestione degli
stessi per mezzo di privati sarebbe
teoricamente concepibile solo previo atto di
concessione di pubblico servizio, contenente
le regole da osservare per garantire
l'ottimale soddisfacimento del servizio
offerto ai cittadini); ove, infatti, si
ammettesse la possibilità di mantenere la
gestione delle opere di urbanizzazione
primaria in capo al lottizzante, i cittadini
interessati (che hanno diritto di pretendere
servizi di qualità, che solo l'ente pubblico
può garantire, non essendo la sua azione
finalizzata ad ottenere un utile d'impresa)
resterebbero sostanzialmente "in balia" del
privato gestore, il quale avrebbe tutto
l'interesse a contenere i costi di
manutenzione, con presumibile decadimento
della qualità dei servizi offerti.
L'acquisizione delle aree ove insistono le
opere di urbanizzazione da parte del Comune,
insomma, costituisce un obbligo puntualmente
enunciato dall'art. 28 della L. 1150 del
1942, ove al quinto comma si prevede -nel
testo conseguente alle sostituzioni disposte
per effetto dell'art. 8 della L. 847 del
1967- che la convenzione di lottizzazione
debba contemplare, comunque, "la cessione
gratuita entro termini prestabiliti delle
aree necessarie per le opere di
urbanizzazione primaria, precisate
dall'articolo 4 della legge 29.09.1964, n.
847".
Il legislatore, nel disciplinare le opere di
urbanizzazione, ha confermato la possibilità
della realizzazione diretta c.d. a scomputo
dal contributo di concessione ma non ha
lasciato alcun dubbio in merito al passaggio
della proprietà delle stesse, una volta
realizzate, in capo all'ente pubblico
territoriale di riferimento, prevedendone la
confluenza nel patrimonio indisponibile
(art. 16, comma 2, d.lgs. n. 380 del 2001);
ciò ad ulteriore riprova che si tratti di
beni destinati alla fruizione pubblica. In
altri termini per le dette opere di
urbanizzazione si registra una presunzione
iuris et de iure di proprietà pubblica, con
la conseguenza che per tali interventi, a
seguito dell'entrata in vigore del T.U.
edilizia, non può ipotizzarsi la permanenza
in capo ai privati della relativa proprietà.
E’ pacifico, in conclusione, che gli oneri
di manutenzione ordinaria e straordinaria
connessi alle opere di urbanizzazione
ricadono interamente sull'ente locale, una
volta acquisite al suo patrimonio per
cessione (previo collaudo sulla loro
regolare esecuzione) da parte del
lottizzante.
Questo Tribunale si è già pronunciato, tra
l’altro, con la sentenza n. 3018 del 2010,
stabilendo che “il trasferimento della
proprietà delle opere di urbanizzazione in
capo al comune costituisce un'obbligazione
ex lege -inderogabile e indisponibile per le
parti della convenzione di lottizzazione in
base alla quale le opere stesse sono state
realizzate-, ex art. 28 della L. n. 1150 del
17.08.1942, con la conseguenza che le parti
non potrebbero legittimamente accordarsi sul
loro mantenimento in capo al lottizzante,
essendo tali opere strumentali allo
svolgimento di pubblici servizi
fisiologicamente rientranti nelle competenze
dell'autorità amministrativa (mentre la
gestione degli stessi per mezzo di privati
sarebbe teoricamente concepibile solo previo
atto di concessione di pubblico servizio,
contenente le regole da osservare per
garantire l'ottimale soddisfacimento del
servizio offerto ai cittadini); ove,
infatti, si ammettesse la possibilità di
mantenere la gestione delle opere di
urbanizzazione primaria in capo al
lottizzante, i cittadini interessati (che
hanno diritto di pretendere servizi di
qualità, che solo l'ente pubblico può
garantire, non essendo la sua azione
finalizzata ad ottenere un utile d'impresa)
resterebbero sostanzialmente "in balia" del
privato gestore, il quale avrebbe tutto
l'interesse a contenere i costi di
manutenzione, con presumibile decadimento
della qualità dei servizi offerti (cfr. TAR
Sardegna Cagliari, sez. II, 19.02.2010, n.
187)”.
L'acquisizione delle aree ove insistono le
opere di urbanizzazione da parte del Comune,
insomma, costituisce un obbligo puntualmente
enunciato dall'art. 28 della L. 1150 del
1942, ove al quinto comma si prevede -nel
testo conseguente alle sostituzioni disposte
per effetto dell'art. 8 della L. 847 del
1967- che la convenzione di lottizzazione
debba contemplare, comunque, "la cessione
gratuita entro termini prestabiliti delle
aree necessarie per le opere di
urbanizzazione primaria, precisate
dall'articolo 4 della legge 29.09.1964, n.
847".
Il legislatore, nel disciplinare le opere di
urbanizzazione, ha confermato la possibilità
della realizzazione diretta c.d. a scomputo
dal contributo di concessione ma non ha
lasciato alcun dubbio in merito al passaggio
della proprietà delle stesse, una volta
realizzate, in capo all'ente pubblico
territoriale di riferimento, prevedendone la
confluenza nel patrimonio indisponibile
(art. 16, comma 2, d.lgs. n. 380 del 2001);
ciò ad ulteriore riprova che si tratti di
beni destinati alla fruizione pubblica. In
altri termini per le dette opere di
urbanizzazione si registra una presunzione
iuris et de iure di proprietà
pubblica, con la conseguenza che per tali
interventi, a seguito dell'entrata in vigore
del T.U. edilizia, non può ipotizzarsi la
permanenza in capo ai privati della relativa
proprietà (cfr. TAR Puglia Bari, sez. II,
01.07.2010, n. 2815).
E’ pacifico, in conclusione, che gli oneri
di manutenzione ordinaria e straordinaria
connessi alle opere di urbanizzazione
ricadono interamente sull'ente locale, una
volta acquisite al suo patrimonio per
cessione (previo collaudo sulla loro
regolare esecuzione) da parte del
lottizzante (cfr. TAR Sardegna Cagliari,
sez. II, 26.01.2009, n. 89)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 09.03.2012 n. 245 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - URBANISTICA:
S. Abbate,
Il piano delle alienazioni degli immobili
comunali e il prodigio della moltiplicazione
dei pani e dei pesci (link a
http://venetoius.myblog.it). |
URBANISTICA: Le convenzioni
urbanistiche hanno lo scopo di garantire che
all’edificazione del territorio corrisponda,
non solo l’approvvigionamento delle
dotazioni minime di infrastrutture
pubbliche, ma anche il suo equilibrato
inserimento in rapporto al contesto di zona
che, nell’insieme, garantiscano la normale
qualità del vivere in un aggregato urbano
discrezionalmente, e razionalmente,
individuato dall’Autorità preposta alla
gestione del territorio.
Ne consegue che una convenzione urbanistica
ben può decidere la realizzazione di opere
di rilievo urbanistico, anche non funzionali
esclusivamente all’intervento permesso ai
privati, ovvero può concordare il
trasferimento della proprietà di beni: e ciò
sia in sostituzione parziale o totale degli
oneri d’urbanizzazione, sia quale strumento
perequativo.
Il fatto poi che tali opere gravino
economicamente sul privato, il quale abbia
stipulato la stessa convenzione, non
significa che ciò implichi la violazione
delle norme che regolano la scelta
dell’esecutore delle opere medesime.
Va ricordato che “Le convenzioni
urbanistiche hanno lo scopo di garantire che
all’edificazione del territorio corrisponda,
non solo l’approvvigionamento delle
dotazioni minime di infrastrutture
pubbliche, ma anche il suo equilibrato
inserimento in rapporto al contesto di zona
che, nell’insieme, garantiscano la normale
qualità del vivere in un aggregato urbano
discrezionalmente, e razionalmente,
individuato dall’Autorità preposta alla
gestione del territorio" (C.d.S., sez. IV,
06.11.2009, n. 6947).
Ne consegue che una convenzione urbanistica
ben può decidere la realizzazione di opere
di rilievo urbanistico, anche non funzionali
esclusivamente all’intervento permesso ai
privati, ovvero può concordare il
trasferimento della proprietà di beni: e ciò
sia in sostituzione parziale o totale degli
oneri d’urbanizzazione, sia quale strumento
perequativo.
Il fatto poi che tali opere gravino
economicamente sul privato, il quale abbia
stipulato la stessa convenzione, non
significa che ciò implichi la violazione
delle norme che regolano la scelta
dell’esecutore delle opere medesime
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 25.01.2012 n. 33 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ANNO 2011 |
|
URBANISTICA: L'Amministrazione
gode di ampia discrezionalità nella
individuazione delle aree destinate a
standards, anche in eccedenza rispetto alle
indicazioni della normativa statale e degli
atti regionali, ed il superamento degli
standards urbanistici minimi prefissati non
costituisce di per sé vizio di legittimità
dell'operato dell'Amministrazione, purché,
ovviamente, non appaia <<ictu oculi>> del
tutto arbitrario o ingiusticato.
La
giurisprudenza, condivisa dal Collegio, ha
precisato che l'Amministrazione gode di
ampia discrezionalità nella individuazione
delle aree destinate a standards, anche in
eccedenza rispetto alle indicazioni della
normativa statale e degli atti regionali, e
che il superamento degli standards
urbanistici minimi prefissati non
costituisce di per sé vizio di legittimità
dell'operato dell'Amministrazione, purché,
ovviamente, non appaia <<ictu oculi>>
del tutto arbitrario o ingiusticato (cfr.,
ex multis, TAR Toscana Firenze, sez.
I, 06.07.2010, n. 2307; Cons. di Stato, sez.
IV, 28.09.2000 n. 5185) (TAR
Basilicata,
sentenza 15.12.2011 n. 584 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Il
Comune che acquisisce le opere di
urbanizzazione è tenuto a manutenerle.
Il trasferimento della proprietà delle opere
di urbanizzazione in capo al Comune
nell’ambito del piano di lottizzazione,
costituisce un’obbligazione ex lege
che si sottrae alla disponibilità delle
parti, in quanto prevista dall’art. 28, l.
n. 1150/1942 e relativa ad opere strumentali
allo svolgimento di pubblici servizi
fisiologicamente rientranti nelle competenze
dell’amministrazione locale. Ne consegue
che, ove il Comune intenda affidare ad altri
la gestione delle opere non può che operare
previo atto di concessione di pubblico
servizio, contenente le regole da osservare
per garantire l’ottimale soddisfacimento del
servizio offerto ai cittadini.
In conclusione, poiché è un dato pacifico
che gli oneri di manutenzione ordinaria e
straordinaria connessi alle opere di
urbanizzazione ricadono interamente
sull’ente locale una volta che esse siano
acquisite al suo patrimonio per cessione
(previo collaudo sulla loro regolare
esecuzione) da parte del lottizzante, ciò
comporta l’estraneità dei lottizzanti,
iniziali proprietari delle aree e delle
opere di cui trattasi a sopportare le
relative spese di manutenzione e
l’estraneità anche dei successivi acquirenti
degli immobili, essendosi estinta
l’originaria obbligazione di convenzione con
il trasferimento delle opere al Comune
(massima tratta da
www.gazzettaamministrativa.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 02.12.2011 n. 6368 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La prescrizione decennale del
diritto del comune di ottenere la cessione
delle opere di urbanizzazione.
Con la
sentenza 21.10.2011 n. 21885, la
Suprema Corte di Cassazione ha statuito che
il diritto del Comune di pretendere la
cessione delle opere di urbanizzazione da
parte del privato soggiace al termine
decennale stabilito in generale dall’art.
2946 c.c. per la prescrizione dei diritti.
La sentenza trae origine dalla vicenda che
vedeva contrapposti il Comune di Sestri
Levante da una parte e alcuni privati
dall’altra. Costoro, nel 1973, dopo avere
ottenuto il rilascio di una licenza
edilizia, si erano obbligati a realizzare a
cedere al Comune alcune opere di
urbanizzazione. Poiché l’obbligo non era
stato adempiuto, il Comune li aveva
convenuti in giudizio nel 1992 per ottenere
dal Giudice civile una sentenza che
producesse gli stessi effetti del contratto
di cessione non concluso, ai sensi dell’art.
2932 c.c.. I convenuti eccepivano che il
diritto del Comune alla cessione delle aree
si era nel frattempo prescritto ai sensi
dell’art. 2946 c.c. Il Comune si difendeva,
affermando che il diritto ad ottenere la
cessione delle opere di urbanizzazione era
un diritto di tipo indisponibile e,
pertanto, invocava l’art. 2934 c.c. che
afferma l’imprescrittibilità dei diritti
indisponibili. (I diritti indisponibili, in
estrema sintesi, sono quelli a cui il
soggetto non può rinunciare; per fare un
esempio, sono pacificamente ritenuti tali
diritti relativi allo stato e alla capacità
delle persone, come il diritto al nome.)
La Corte, innanzitutto, chiarisce che
l’obbligazione assunta nel caso specifico
dai privati nel 1973 non rientrava nello
schema dell’art. 31 della L. 1150/1942, a
mente del quale la licenza edilizia poteva
essere subordinata, tra le altre ipotesi,
anche all'impegno dei privati di procedere
all'attuazione delle necessarie opere di
urbanizzazione primaria contemporaneamente
alla costruzione oggetto della licenza.
A tale conclusione la Corte perviene, da un
lato, considerando la posteriorità (anziché
l’anteriorità) della stipulazione dell’atto
d’obbligo rispetto al rilascio del titolo
edilizio, dall’altro, considerando il
comportamento delle parti, ed in particolare
del Comune, che rileva ai fini
dell’interpretazione del contratto ai sensi
dell’art. 1362 c.c. I Giudici della
Cassazione ritengono che il comportamento
del Comune, il quale si è avvalso del
rimedio privatistico di cui all’art. 2932
c.c. per fare valere in giudizio il suo
diritto, indichi che il Comune stesso
considera l’atto d’obbligo come atto
privatistico e non come atto che si
inserisca in un procedimento amministrativo
per il rilascio di un provvedimento
amministrativo (nel caso di specie la
licenza edilizia ex art. 31 L. 1150/1942).
I Giudici respingono la tesi sostenuta dal
Comune, secondo cui l’atto negoziale in
questione risponde all'esigenza di
assicurare un ordinato assetto del
territorio e, quindi, darebbe ai diritti
nascenti da quest’atto la connotazione di
assoluta indisponibilità, che ne
determinerebbe l'imprescrittibilità, a norma
del capoverso del citato art. 2934 c.c.
Precisano al riguardo che, per stabilire se
un diritto è indisponibile occorre avere
riguardo alla intrinseca natura del diritto
stesso e non alla finalità di pubblico
interesse dell’atto da cui il diritto si
origina.
“Non basta, cioè, invocare l'esistenza di
una finalità di pubblico interesse perché ne
discenda l'imprescrittibilità dei diritti
eventualmente acquisiti dalla pubblica
amministrazione all'esito di una determinata
attività negoziale, qualora quei diritti non
abbiano un oggetto intrinsecamente
indisponibile, essendo del resto
assolutamente ovvio che il perseguimento di
finalità pubblicistiche non si sottrae, in
via di principio, agli effetti del
trascorrere del tempo nemmeno quando si sia
in presenza di atti autoritativi della
stessa pubblica amministrazione.”
I Giudici così concludono: “Il diritto ad
ottenere l'adempimento di un obbligo
negoziale avente ad oggetto il trasferimento
della proprietà di porzioni di terreno non
è, però, per sua natura, un diritto
indisponibile. Non può, dunque, predicarsene
l'imprescrittibilità”.
Si osserva che, se la sentenza è chiara e
condivisibile laddove conclude che i diritti
che scaturiscono dai contratti conclusi
dalla P.A. per il perseguimento
dell’interesse pubblico hanno natura non
indisponibile, non altrettanto chiaro è il
passaggio della sentenza dove si parla
dell’azione costitutiva ex art. 2932 c.c.: “(essa)
mal si presterebbe a sopperire alla mancata
spontanea produzione degli effetti di un
atto che fosse da considerare quale un mero
segmento intermedio di un procedimento
amministrativo volto al conseguimento di un
provvedimento finale da cui promanino poteri
autoritativi della pubblica amministrazione”.
La Corte sembrerebbe voler dire (anche se il
punto non è chiaro) che l’azione ex art.
2932 c.c. può essere esperita soltanto
quando il Comune vuole ottenere la
conclusione di contratti di contenuto
meramente privatistico che non vanno a
formare il contenuto di provvedimenti
amministrativi.
Ebbene, se questa fosse la conclusione della
Corte, essa viene smentita dai Giudici
amministrativi che, nel caso di
inadempimento delle convenzioni tra P.A. e
privati per la realizzazione e cessione
delle opere di urbanizzazione ex art. 28
della L. n. 1150/1942, concludono per
l’ammissibilità del rimedio ex art. 2932
c.c.
Si confronti il TAR Campania Napoli n. 2773
del 23.03.2007: “… lo strumento di cui
all’art. 2932 c.c. è utilizzabile non solo
nei caso di inadempimento ad obblighi di
stipulazione discendenti da un contratto
preliminare, ma anche per gli obblighi
aventi titolo nella legge (nella specie
dall’art. 28, comma 5, della legge n.
1150/1942 che subordina l'autorizzazione
comunale per la lottizzazione di un’area
alla stipula di una convenzione, da
trascriversi a cura del proprietario, che
preveda, tra l’altro, la cessione gratuita
entro termini prestabiliti delle aree
necessarie per le opere di urbanizzazione
primaria, nonché la cessione gratuita delle
aree necessarie per le opere di
urbanizzazione secondaria). Quindi è
ammissibile una sentenza costitutiva ai
sensi dell’art. 2932 del codice civile, a
carico dei privati, che disponga il
trasferimento al Comune dei suoli previsti
in convenzione, trattandosi di obbligo che
trova titolo nella previsione di legge”.
Si confronti anche il TAR per il Veneto sez.
II, 13.07.2011, n. 1219, il quale affronta
altresì la questione della giurisdizione,
concludendo che questo tipo di controversie
rientrano tra le materie di giurisdizione
esclusiva del G.A. ai sensi dell’art. 11,
comma 5, della L. n. 241/1990 e, in seguito
all’entrata in vigore del codice del
processo amministrativo, ai sensi 133, comma
1, lettera a), numero 2), del c.p.a., che
così recita: “Sono devolute alla
giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo le controversia in materia di
formazione, conclusione ed esecuzione degli
accordi integrativi o sostitutivi di
provvedimento amministrativo” (link a
http://venetoius.myblog.it). |
URBANISTICA:
Il comune può speculare sulle aree a
standards ricevute con i piani attuativi
(14.09.2011 - link a http://venetoius.myblog.it). |
URBANISTICA: E'
legittimo che il comune faccia "cassa"
con le aree a standard ricevute
gratuitamente nell'ambito di piani
attuativi.
Un’area di proprietà pubblica destinata a
“verde pubblico” non costituisce un’opera di
urbanizzazione primaria, né un bene
strumentale all’esercizio delle funzioni
istituzionali dell’ente proprietario, fino a
quando su di essa non siano state realizzate
concrete opere di trasformazione volte a
rendere fruibile il verde pubblico da parte
della collettività, imprimendo al bene una
destinazione di fatto conforme a quella
astrattamente prevista dal piano: solo in
presenza di tali opere il bene acquista
carattere strumentale rispetto ai fini
dell’ente e rientra a far parte del
patrimonio indisponibile dello stesso, ai
sensi dell’art. 826, ultimo comma c.c., in
quanto bene di proprietà pubblica
concretamente destinato ad un pubblico
servizio.
In altre parole, affinché un bene di
proprietà pubblica possa definirsi
strumentale al perseguimento degli scopi
istituzionali dell’ente proprietario, con
conseguente inclusione nel patrimonio
indisponibile dell’ente medesimo, non è
sufficiente la mera manifestazione di
volontà dell’ente pubblico di destinarlo ad
un pubblico servizio, ma è altresì
necessario che a quella manifestazione di
volontà abbiano fatto seguito concrete opere
di trasformazione dirette ad imprimere al
bene un’effettiva funzionalizzazione ad un
pubblico servizio.
E’ stato affermato, a
questo riguardo, che l'appartenenza di un
bene al patrimonio indisponibile dello
Stato, dei comuni o delle province, a meno
che non si tratti di beni riservati, per
loro natura, a tale patrimonio, dipende
soprattutto dalle caratteristiche oggettive
e funzionali del bene e presuppone, quindi,
oltre che l'acquisto in proprietà del bene
da parte dell'ente pubblico (cosiddetto
requisito soggettivo), una concreta
destinazione dello stesso ad un pubblico
servizio (cosiddetto, requisito oggettivo)
che, proprio per l'esigenza di un reale
legame con le oggettive caratteristiche del
bene, non può dipendere da un mero progetto
di utilizzazione della p.a. o da una
risoluzione che, ancorché espressa in un
atto amministrativo, non incide, di per sé,
sulle oggettive caratteristiche funzionali
del bene. Pertanto, nei casi in cui il bene
sia privo dei caratteri strutturali
necessari per il servizio, occorre almeno
che il provvedimento di destinazione sia
seguito dalle opere di trasformazione che in
qualche modo possano stabilire un reale
collegamento di fatto, e non meramente
intenzionale, del bene alla funzione
pubblica).
Sulla scorta di tali principi, è stato
affermato che i terreni destinati a verde
pubblico dal piano regolatore acquistano la
condizione di beni del patrimonio
indisponibile dell'ente pubblico (e, quindi,
di beni strumentali al perseguimento dei
fini istituzionali dell’ente stesso) solo
dal momento in cui, essendo stati acquistati
da questo in proprietà, sono trasformati ed
in concreto utilizzati secondo la propria
destinazione, non essendo all'uopo
sufficiente né il piano regolatore generale,
che ha solo funzione programmatoria e
l'effetto di attribuire alla zona, o anche
ai terreni in esso eventualmente indicati,
una vocazione da realizzare attraverso gli
strumenti urbanistici di secondo livello o
ad essi equiparati, e la successiva attività
di esecuzione di questi strumenti, né il
provvedimento di approvazione del piano di
lottizzazione, che individua solo il terreno
specificamente interessato dal progetto di
destinazione pubblica, né la convenzione di
lottizzazione, che si inserisce nella fase
organizzativa del processo di realizzazione
del programma urbanistico e non nella fase
della sua materiale esecuzione).
Anche nel caso in cui l’area fosse stata in
concreto trasformata in senso conforme alle
previsioni di piano (verde pubblico), il
Comune avrebbe comunque conservato il potere
di modificare tale destinazione, sia con un
provvedimento amministrativo di carattere
pianificatorio destinato ad incidere sulla
destinazione urbanistica del bene, sia anche
sulla base di atti o comportamenti
concludenti incompatibili con la
destinazione del bene a pubblico servizio,
con il duplice limite rappresentato dalla
necessità di rispettare i limiti minimi
inderogabili in materia di standards
urbanistici di cui al d.m. n. 1444 del 1968
e dall’impossibilità giuridica di incidere
sulla destinazione pubblica dei beni facenti
parte (ma non è questo il caso) del demanio
c.d. necessario dell’ente pubblico, di cui
all’art. 822, 1° comma c.c.. La stessa
previsione di cui all’art. 58, comma 2, L.
133/2008, nella parte in cui stabilisce che
“l’inserimento degli immobili nel piano ne
determina la conseguente classificazione
come patrimonio disponibile”, è chiaramente
sintomatica del potere dell’ente pubblico di
far cessare la destinazione a pubblico
servizio di beni del proprio patrimonio, e,
unitamente ad essa, il rapporto di
strumentalità di quei beni rispetto ai
propri fini istituzionali.
---------------
Il Comune rimane libero di dare una diversa
destinazione urbanistica alle aree acquisite
in sede di convenzioni urbanistiche al fine
della realizzazione di opere di
urbanizzazione.
---------------
Le scelte urbanistiche, che di norma non
comportano la necessità di specifica
giustificazione oltre quella desumibile dai
criteri generali di impostazione del piano o
della sua variante, necessitano di congrua
motivazione quando incidono su aspettative
dei privati particolarmente qualificate,
come quelle ingenerate da impegni già
assunti dall'amministrazione mediante
approvazione di piani attuativi o stipula di
convenzioni; in tali evenienze, la
completezza della motivazione costituisce,
infatti, lo strumento dal quale deve
emergere l'avvenuta comparazione tra il
pubblico interesse cui si finalizza la nuova
scelta e quello del privato, assistito
appunto da una aspettativa giuridicamente
tutelata.
---------------
E’ la legge ad imporre ai Comuni di adottare
una specifica variante dello strumento
urbanistico generale per stabilire la
destinazione urbanistica dei beni inclusi
nel proprio piano delle alienazioni e
valorizzazioni immobiliari: ciò si evince
dall’art. 58, comma 2, della L. 133/2008,
nel testo risultante dopo la sentenza della
Corte Costituzionale 16.12.2009, n. 340;
quest’ultima ha dichiarato l’illegittimità
costituzionale della norma citata nella
parte in cui originariamente prevedeva che
l’approvazione del piano delle alienazioni e
valorizzazioni costituiva essa stessa
variante allo strumento urbanistico
generale; per effetto della predetta
decisione del giudice delle leggi, è venuto
meno l’effetto di variante automatica
originariamente associato alla delibera di
approvazione del piano delle alienazioni,
sicché, allo stato, i Comuni che approvino
un piano di dismissione immobiliare, hanno
l’onere di attivare un separato procedimento
di variante del proprio strumento
urbanistico (che salvaguardi, in tal modo,
le competenze della Regione, pretermesse
nella formulazione originaria della norma).
Con il
primo motivo, i ricorrenti hanno
dedotto vizi di eccesso di potere per
difetto dei presupposti, travisamento,
errore essenziale, contraddittorietà ed
illogicità manifeste, nonché vizi di
violazione di legge sotto plurimi profili:
secondo i ricorrenti, la variante n. 10 del P.R.G.C. approvata dal consiglio comunale il
12.10.2010 sarebbe illegittima nella parte
in cui ha modificato la destinazione
urbanistica dell’area di via Asti da “verde
pubblico” a “residenziale”; ciò in quanto la
predetta variante sarebbe stata redatta al
solo fine di declassare l’area a bene non
strumentale all’esercizio delle funzioni
istituzionali dell’ente, consentendone in
tal modo l’inclusione nel piano di
dismissione; sennonché, osservano i
ricorrenti, l’area in questione non poteva
subire tale declassamento dal momento che
essa costituisce un’opera di urbanizzazione
primaria la quale, per sua natura, è
necessariamente strumentale all’esercizio
delle funzioni istituzionali dell’ente
comunale, tra le quali vanno ricomprese
quelle di programmazione e di governo del
territorio e, in particolare, quelle volte a
garantire che l’edificazione avvenga di pari
passo con la posa delle necessarie
infrastrutture; pertanto, le opere di
urbanizzazione non sono suscettibili di
essere incluse nei piani di alienazione di
cui all’art. 58 della L. n. 133/2008, in
quanto beni necessariamente strumentali
all’esercizio delle funzioni istituzionali
dell’ente civico.
La difesa del controinteressato -e, da
ultimo, anche quella del Comune– hanno
eccepito la tardività della predetta censura
in quanto diretta a contestare l’inclusione
dell’area di via Asti nel piano comunale di
alienazioni e valorizzazioni immobiliari:
inclusione già decisa dal Comune con la
delibera consiliare n. 15 del 18.02.2010, non impugnata dai ricorrenti nel
termine di legge.
Osserva il collegio che l’eccezione non può
essere condivisa, dal momento che la lesione
della posizione giuridica soggettiva dei
ricorrenti è divenuta attuale solo in
conseguenza dell’approvazione della variante
n. 10 del P.R.G.C., per effetto della quale
l’area in questione, già destinata a verde
pubblico, è stata resa in gran parte
edificabile: la semplice inclusione
dell’area nel piano comunale di dismissioni
immobiliari e la stessa vendita del bene a
terzi (benché illegittimi, secondo la
prospettazione dei ricorrenti, perché aventi
ad oggetto un bene insuscettibile di
dismissione in quanto strumentale
all’esercizio delle funzioni istituzionali
dell’ente civico), non avrebbero comunque
arrecato ai ricorrenti alcun pregiudizio
concreto fintantoché il bene avesse
conservato la propria destinazione a verde
pubblico; è soltanto il mutamento di
destinazione urbanistica ad aver reso
attuale e concreto il pregiudizio per i
ricorrenti, rendendo differenziata la loro
posizione giuridica e facendo sorgere negli
stessi la legittimazione e l’interesse a
ricorrere.
Nel merito, peraltro, il motivo di gravame è
infondato e va respinto.
I ricorrenti muovono dal presupposto che
un’area di proprietà pubblica destinata a
“verde pubblico” secondo le previsioni del
piano regolatore generale o di uno strumento
urbanistico di secondo livello, costituisca,
per ciò stesso, un bene strumentale
all’esercizio delle funzioni istituzionali
dell’ente proprietario, con la conseguenza
che quest’ultimo non potrebbe far cessare la
predetta destinazione né includere il bene
in un piano di dismissioni immobiliari,
avuto riguardo al fatto che la normativa di
settore prevede che gli enti pubblici
possono includere nei propri piani di
alienazione soltanto beni “non strumentali
all’esercizio delle proprie funzioni
istituzionali”.
Osserva il collegio che tale presupposto è
infondato.
Un’area di proprietà pubblica destinata a
“verde pubblico” non costituisce un’opera di
urbanizzazione primaria né un bene
strumentale all’esercizio delle funzioni
istituzionali dell’ente proprietario, fino a
quando su di essa non siano state realizzate
concrete opere di trasformazione volte a
rendere fruibile il verde pubblico da parte
della collettività, imprimendo al bene una
destinazione di fatto conforme a quella
astrattamente prevista dal piano: solo in
presenza di tali opere il bene acquista
carattere strumentale rispetto ai fini
dell’ente e rientra a far parte del
patrimonio indisponibile dello stesso, ai
sensi dell’art. 826, ultimo comma c.c., in
quanto bene di proprietà pubblica
concretamente destinato ad un pubblico
servizio.
In altre parole, affinché un bene di
proprietà pubblica possa definirsi
strumentale al perseguimento degli scopi
istituzionali dell’ente proprietario, con
conseguente inclusione nel patrimonio
indisponibile dell’ente medesimo, non è
sufficiente la mera manifestazione di
volontà dell’ente pubblico di destinarlo ad
un pubblico servizio, ma è altresì
necessario che a quella manifestazione di
volontà abbiano fatto seguito concrete opere
di trasformazione dirette ad imprimere al
bene un’effettiva funzionalizzazione ad un
pubblico servizio.
E’ stato affermato, a
questo riguardo, che l'appartenenza di un
bene al patrimonio indisponibile dello
Stato, dei comuni o delle province, a meno
che non si tratti di beni riservati, per
loro natura, a tale patrimonio, dipende
soprattutto dalle caratteristiche oggettive
e funzionali del bene e presuppone, quindi,
oltre che l'acquisto in proprietà del bene
da parte dell'ente pubblico (cosiddetto
requisito soggettivo), una concreta
destinazione dello stesso ad un pubblico
servizio (cosiddetto, requisito oggettivo)
che, proprio per l'esigenza di un reale
legame con le oggettive caratteristiche del
bene, non può dipendere da un mero progetto
di utilizzazione della p.a. o da una
risoluzione che, ancorché espressa in un
atto amministrativo, non incide, di per sé,
sulle oggettive caratteristiche funzionali
del bene.
Pertanto, nei casi in cui il bene
sia privo dei caratteri strutturali
necessari per il servizio, occorre almeno
che il provvedimento di destinazione sia
seguito dalle opere di trasformazione che in
qualche modo possano stabilire un reale
collegamento di fatto, e non meramente
intenzionale, del bene alla funzione
pubblica (Cass. civ., sez. II, 09.09.1997, n. 8743; in senso analogo, Cass. Civ. SS.UU. 28.06.2006, n. 14865).
Sulla scorta di tali principi, è stato
affermato che i terreni destinati a verde
pubblico dal piano regolatore acquistano la
condizione di beni del patrimonio
indisponibile dell'ente pubblico (e, quindi,
di beni strumentali al perseguimento dei
fini istituzionali dell’ente stesso) solo
dal momento in cui, essendo stati acquistati
da questo in proprietà, sono trasformati ed
in concreto utilizzati secondo la propria
destinazione, non essendo all'uopo
sufficiente né il piano regolatore generale,
che ha solo funzione programmatoria e
l'effetto di attribuire alla zona, o anche
ai terreni in esso eventualmente indicati,
una vocazione da realizzare attraverso gli
strumenti urbanistici di secondo livello o
ad essi equiparati, e la successiva attività
di esecuzione di questi strumenti, né il
provvedimento di approvazione del piano di
lottizzazione, che individua solo il terreno
specificamente interessato dal progetto di
destinazione pubblica, né la convenzione di
lottizzazione, che si inserisce nella fase
organizzativa del processo di realizzazione
del programma urbanistico e non nella fase
della sua materiale esecuzione (Cassazione
civile, sez. II, 09.09.1997, n.
8743).
Nel caso di specie, è pacifico tra le parti
che l’area di via Asti, benché destinata dal
piano regolatore generale a verde pubblico,
non ha mai ricevuto, in concreto, tale
destinazione: a tutt’oggi, si tratta di
un’area allo stato di “prativo non
attrezzato”.
In mancanza di una concreta destinazione a
pubblico servizio, l’area di cui si discute
ha continuato a far parte del patrimonio
disponibile del Comune di San Mauro
Torinese, che proprio in ragione di tale
natura l’ha potuta includere nel proprio
piano di dismissioni in quanto bene non
strumentale all’esercizio delle proprie
funzioni istituzionali.
Peraltro, va altresì osservato che anche nel
caso in cui l’area fosse stata in concreto
trasformata in senso conforme alle
previsioni di piano, il Comune avrebbe
comunque conservato il potere di modificare
tale destinazione, sia con un provvedimento
amministrativo di carattere pianificatorio
destinato ad incidere sulla destinazione
urbanistica del bene, sia anche sulla base
di atti o comportamenti concludenti
incompatibili con la destinazione del bene a
pubblico servizio (cfr. Consiglio Stato,
sez. IV, 05.11.2004, n. 7245), con il
duplice limite rappresentato dalla necessità
di rispettare i limiti minimi inderogabili
in materia di standards urbanistici di cui
al d.m. n. 1444 del 1968 e
dall’impossibilità giuridica di incidere
sulla destinazione pubblica dei beni facenti
parte (ma non è questo il caso) del demanio
c.d. necessario dell’ente pubblico, di cui
all’art. 822, 1° comma c.c..
La stessa previsione di cui all’art. 58,
comma 2, L. 133/2008, nella parte in cui
stabilisce che “l’inserimento degli immobili
nel piano ne determina la conseguente
classificazione come patrimonio
disponibile”, è chiaramente sintomatica del
potere dell’ente pubblico di far cessare la
destinazione a pubblico servizio di beni del
proprio patrimonio, e, unitamente ad essa,
il rapporto di strumentalità di quei beni
rispetto ai propri fini istituzionali.
Alla stregua di tali considerazioni, il
primo motivo di ricorso è infondato e va
disatteso.
---------------
Con il secondo
motivo, i ricorrenti hanno dedotto la
violazione e l’errata applicazione degli
artt. 39, 43 e 45 della L.R. n. 56/1977,
nonché vizi di eccesso di potere per
contraddittorietà, illogicità manifesta e
difetto di motivazione: hanno lamentato, in
particolare, la contraddittorietà del
comportamento dell’amministrazione comunale,
la quale, mentre al momento
dell’approvazione del P.E.C. del 1987 ha
ritenuto che la realizzazione delle opere di
urbanizzazione indicate nei progetti e in
convenzione fosse assolutamente necessaria,
ai sensi dell’art. 43 della L.R. n. 56/1977,
per far fronte all’aumento del carico
urbanistico derivante dalla collocazione sul
sito di nuovi edifici residenziali, adesso,
a distanza di diversi anni, ha adottato
provvedimenti di senso contrario che, da un
lato comporteranno l’aumento del carico
antropico dell’area e dall’altro ridurranno
in maniera consistente le aree a verde; né
rileva, secondo i ricorrenti, la circostanza
che le aree a verde presenti sull’intero
territorio comunale siano eventualmente
sovrabbondanti rispetto alla standard minimo
di cui all’art. 21 della L.R. n. 56/1977, dal
momento che la previsione contenuta nel P.E.C. del 1987 era volta ad assolvere ad
esigenze proprie dell’area circostante alla
via Asti, esigenze che negli anni successivi
non sono certo venute meno.
La censura è infondata e va disattesa.
La giurisprudenza ha avuto più volte
occasione di affermare che il Comune rimane
libero di dare una diversa destinazione
urbanistica alle aree acquisite in sede di
convenzioni urbanistiche al fine della
realizzazione di opere di urbanizzazione
(Cassazione civile, sez. II, 14.08.2007,
n. 17698; Cassazione civile, sez. II, 28.08.2000, n. 11208; Cassazione civile,
sez. II, 09.03.1990 n. 1917; Cassazione
civile, sez. II, 25.07.1980 n. 4833;
TAR Abruzzo L'Aquila, 16.07.2004, n.
835).
Più in generale, la facoltà del Comune di
modificare il regime delle aree a servizi è
previsto dalla legge urbanistica regionale
piemontese n. 56/1977 la quale, all’art. 17,
comma 4, lett. b), attribuisce al Comune il
potere di ridurre, mediante varianti
strutturali, la quantità globale delle aree
a servizi per più di 0,5 metri quadrati per
abitante; l’unico limite è rappresentato
dalla necessità di rispettare i cd. standards urbanistici che, nella
pianificazione generale, attengono ai
rapporti massimi tra spazi edificabili e
spazi riservati all'utilizzazione per scopi
pubblici e sociali: standards che, dovendo
essere previsti in un limite minimo
inderogabile dal d.m. 02.04.1968,
assolvono ad una funzione di equilibrio
dell'assetto territoriale e di salvaguardia
dell'ambiente e della qualità della vita.
Nel caso di specie, non solo i ricorrenti
non hanno contestato il mancato rispetto
degli standards, ma è altresì documentato
che il Comune, prima di adottare la variante
n. 10 del PRGC, ha svolto una specifica
istruttoria per accertare il rispetto di
tali parametri inderogabili; detta verifica
ha consentito al Comune di accertare che la
dotazione complessiva di aree a verde nel
distretto urbanistico “Oltrepo”, in cui si
colloca l’area di via Asti, avrebbe
conservato, dopo l’attuazione della
variante, un rapporto di sostanziale
equilibrio rispetto al fabbisogno (doc. 3 e
4.1. fascicolo Comune).
---------------
Con il terzo
motivo, i ricorrenti hanno dedotto il vizio
di eccesso di potere per difetto di
motivazione: secondo i ricorrenti, la
decisione dell’amministrazione di modificare
la destinazione urbanistica dell’area
avrebbe imposto alla stessa di motivare
adeguatamente le ragioni di tale scelta,
evidenziando, in particolare, da quali
preminenti interessi pubblici essa fosse
giustificata; e ciò in quanto la disciplina
attuale dell’area era stata dettata nella
convenzione edilizia del 1987, la quale
aveva ingenerato nei privati una aspettativa
qualificata al rispetto della destinazione
pattuita; tale motivazione, tuttavia, è
mancata del tutto, il che integra il vizio
di illegittimità dedotto in rubrica.
La censura è infondata e va disattesa.
E’ noto che le scelte urbanistiche, che di
norma non comportano la necessità di
specifica giustificazione oltre quella
desumibile dai criteri generali di
impostazione del piano o della sua variante,
necessitano di congrua motivazione quando
incidono su aspettative dei privati
particolarmente qualificate, come quelle
ingenerate da impegni già assunti
dall'amministrazione mediante approvazione
di piani attuativi o stipula di convenzioni;
in tali evenienze, la completezza della
motivazione costituisce infatti lo strumento
dal quale deve emergere l'avvenuta
comparazione tra il pubblico interesse cui
si finalizza la nuova scelta e quello del
privato, assistito appunto da una
aspettativa giuridicamente tutelata
(Consiglio Stato, sez. IV, 09.06.2008,
n. 2837).
Se ciò è vero, è anche vero, però, che nel
caso di specie l’unica aspettativa tutelata
sorta in capo ai ricorrenti con la
sottoscrizione dalla convenzione Sicignano
del 29.12.1987 attuativa del PEC, è
stata quella avente ad oggetto la
realizzazione dell’intervento edificatorio:
ma tale aspettativa, allo stato, è già stata
integralmente soddisfatta, dal momento che
il PEC è stato attuato già da molti anni.
Per contro, dalla predetta convenzione non è
sorta anche un’aspettativa qualificata dei
ricorrenti a che il Comune realizzasse le
opere di urbanizzazione primaria a fronte
della cessione gratuita delle relative aree,
dal momento che, come giustamente osservato
dalla difesa comunale, nel contesto di
quella convenzione edilizia la cessione
gratuita delle aree non trovava il suo
corrispettivo e la sua causa nella
realizzazione delle opere di urbanizzazione,
ma nel rilascio delle concessioni edilizie,
fermo restando il potere del Comune,
nell’esercizio dei propri insindacabili
poteri di pianificazione e di gestione del
territorio, di imprimere eventualmente a
quelle aree una diversa destinazione
urbanistica sulla base di una rinnovata o di
una sopravvenuta diversa valutazione
dell’interesse pubblico.
Pertanto, non incidendo la variante di piano
su aspettative giuridicamente qualificate
dei ricorrenti, non si imponeva la necessità
di una specifica motivazione, oltre quella
desumibile dai criteri generali di
impostazione della variante medesima.
---------------
Con il quarto
motivo, i ricorrenti hanno dedotto il vizio
di eccesso di potere per difetto dei
presupposti e sviamento: secondo i
ricorrenti, la variante del Piano Regolatore
è uno strumento tipico che l’amministrazione
comunale può utilizzare soltanto per
perseguire finalità di carattere
urbanistico; nel caso di specie, invece,
esso sarebbe stato utilizzato al solo fine
di alienare il bene, e quindi per perseguire
finalità (“di cassa”) del tutto estranee a
quelle tipiche in funzione delle quali la
legge ha attribuito al Comune il relativo
potere: la variante approvata sarebbe dunque
viziata da sviamento di potere.
Anche tale censura è infondata.
E’ la legge
ad imporre ai Comuni di adottare una
specifica variante dello strumento
urbanistico generale per stabilire la
destinazione urbanistica dei beni inclusi
nel proprio piano delle alienazioni e
valorizzazioni immobiliari: ciò si evince
dall’art. 58, comma 2, della L. 133/2008,
nel testo risultante dopo la sentenza della
Corte Costituzionale 16.12.2009, n.
340; quest’ultima ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale della norma
citata nella parte in cui originariamente
prevedeva che l’approvazione del piano delle
alienazioni e valorizzazioni costituiva essa
stessa variante allo strumento urbanistico
generale; per effetto della predetta
decisione del giudice delle leggi, è venuto
meno l’effetto di variante automatica
originariamente associato alla delibera di
approvazione del piano delle alienazioni, sicché, allo stato, i Comuni che approvino
un piano di dismissione immobiliare, hanno
l’onere di attivare un separato procedimento
di variante del proprio strumento
urbanistico (che salvaguardi, in tal modo,
le competenze della Regione, pretermesse
nella formulazione originaria della norma).
Alla luce di tali considerazioni, nessuno
sviamento di potere può essere attribuito
nel caso in esame al Comune di San Mauro
Torinese, avendo esso utilizzato il
procedimento di variante urbanistica in
doverosa attuazione di una norma di legge e
per il perseguimento di finalità previste
dalla legge
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 22.07.2011 n. 805 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
I terreni destinati a verde
pubblico dal piano regolatore diventano
indisponibili solo quando siano in concreto
utilizzati secondo la propria destinazione.
I giudici del Tribunale amministrativo di
Torino esprimono tale tesi in una
controversia nella quale i ricorrenti
muovevano dal presupposto che un’area di
proprietà pubblica destinata a “verde
pubblico” secondo le previsioni del
piano regolatore generale o di uno strumento
urbanistico di secondo livello, costituisse,
per ciò stesso, un bene strumentale
all’esercizio delle funzioni istituzionali
dell’ente proprietario, con la conseguenza
che quest’ultimo non avrebbe potuto far
cessare la predetta destinazione né
includere il bene in un piano di dismissioni
immobiliari, avuto riguardo al fatto che la
normativa di settore prevede che gli enti
pubblici possano includere nei propri piani
di alienazione soltanto beni “non
strumentali all’esercizio delle proprie
funzioni istituzionali”.
I giudici sabaudi hanno considerato tale
congettura infondata precisando che un’area
di proprietà pubblica destinata a “verde
pubblico” non costituisce un’opera di
urbanizzazione primaria né un bene
strumentale all’esercizio delle funzioni
istituzionali dell’ente proprietario, fino a
quando su di essa non siano state realizzate
concrete opere di trasformazione volte a
rendere fruibile il verde pubblico da parte
della collettività, imprimendo al bene una
destinazione di fatto conforme a quella
astrattamente prevista dal piano: solo in
presenza di tali opere il bene acquista
carattere strumentale rispetto ai fini
dell’ente e rientra a far parte del
patrimonio indisponibile dello stesso, ai
sensi dell’art. 826, ultimo comma c.c., in
quanto bene di proprietà pubblica
concretamente destinato ad un pubblico
servizio.
In altre parole, continuano i giudici
piemontesi, affinché un bene di proprietà
pubblica possa definirsi strumentale al
perseguimento degli scopi istituzionali
dell’ente proprietario, con conseguente
inclusione nel patrimonio indisponibile
dell’ente medesimo, non è sufficiente la
mera manifestazione di volontà dell’ente
pubblico di destinarlo ad un pubblico
servizio, ma è altresì necessario che a
quella manifestazione di volontà abbiano
fatto seguito concrete opere di
trasformazione dirette ad imprimere al bene
un’effettiva funzionalizzazione ad un
pubblico servizio.
E’ stato affermato, a questo riguardo,
ricordano gli stessi giudici, che
l'appartenenza di un bene al patrimonio
indisponibile dello Stato, dei comuni o
delle province, a meno che non si tratti di
beni riservati, per loro natura, a tale
patrimonio, dipende soprattutto dalle
caratteristiche oggettive e funzionali del
bene e presuppone, quindi, oltre che
l'acquisto in proprietà del bene da parte
dell'ente pubblico (cosiddetto requisito
soggettivo), una concreta destinazione dello
stesso ad un pubblico servizio (cosiddetto,
requisito oggettivo) che, proprio per
l'esigenza di un reale legame con le
oggettive caratteristiche del bene, non può
dipendere da un mero progetto di
utilizzazione della p.a. o da una
risoluzione che, ancorché espressa in un
atto amministrativo, non incide, di per sé,
sulle oggettive caratteristiche funzionali
del bene.
Pertanto, nei casi in cui il bene sia privo
dei caratteri strutturali necessari per il
servizio, occorre almeno che il
provvedimento di destinazione sia seguito
dalle opere di trasformazione che in qualche
modo possano stabilire un reale collegamento
di fatto, e non meramente intenzionale, del
bene alla funzione pubblica (Cass. civ.,
sez. II, 09.09.1997, n. 8743; in senso
analogo, Cass. Civ. SS.UU. 28.06.2006, n.
14865).
Sulla scorta di tali principi, è stato
affermato che i terreni destinati a verde
pubblico dal piano regolatore acquistano la
condizione di beni del patrimonio
indisponibile dell'ente pubblico (e, quindi,
di beni strumentali al perseguimento dei
fini istituzionali dell’ente stesso) solo
dal momento in cui, essendo stati acquistati
da questo in proprietà, sono trasformati ed
in concreto utilizzati secondo la propria
destinazione, non essendo all'uopo
sufficiente né il piano regolatore generale,
che ha solo funzione programmatoria e
l'effetto di attribuire alla zona, o anche
ai terreni in esso eventualmente indicati,
una vocazione da realizzare attraverso gli
strumenti urbanistici di secondo livello o
ad essi equiparati, e la successiva attività
di esecuzione di questi strumenti, né il
provvedimento di approvazione del piano di
lottizzazione, che individua solo il terreno
specificamente interessato dal progetto di
destinazione pubblica, né la convenzione di
lottizzazione, che si inserisce nella fase
organizzativa del processo di realizzazione
del programma urbanistico e non nella fase
della sua materiale esecuzione (Cassazione
civile, sez. II, 09.09.1997, n. 8743)
(commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - TAR Piemonte,
Sez. I,
sentenza
22.07.2011 n. 805 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
convenzioni urbanistiche devono sempre
considerarsi rebus sic stantibus e, persino
durante la piena efficacia di un piano
urbanistico e della relativa convenzione
urbanistica, legittimamente
l'amministrazione, in presenza di un
interesse pubblico sopravvenuto, ha la
facoltà di introdurre nuove previsioni, con
il solo onere di motivare le esigenze che le
determinano.
In presenza di nuove esigenze non sussiste,
quindi, preclusione a nuovi interventi,
atteso che lo ius variandi relativo alle
prescrizioni di piano regolatore generale
include anche un ius poenitendi relativo ai
vincoli precedentemente assunti, rispetto ai
quali il Comune non può ritenersi
permanentemente vincolato nemmeno da una
preesistente convenzione di lottizzazione.
La vigenza di una convenzione di
lottizzazione si riflette, semmai, solamente
in termini di obbligo di motivazione
nell'esercizio della potestas variandi, in
quanto incidente su aspettative qualificate
del privato parte della convenzione.
---------------
L'omessa indicazione nel piano
particolareggiato del termine di validità
non può considerarsi causa d'illegittimità
dello stesso, operando, in tal caso, il
termine massimo decennale fissato dall'art.
16 l. n. 1150 del 1942.
Parimenti, la mancata indicazione nel piano
particolareggiato dei termini per il
compimento delle espropriazioni rileva solo
per la legittimità di queste ultime ma non
per quella del piano, giacché la certezza
dei rapporti giuridici è garantita dalla
decadenza legale del piano.
La giurisprudenza è costante nell’affermare
che le convenzioni urbanistiche devono
sempre considerarsi rebus sic stantibu,
e, persino durante la piena efficacia di un
piano urbanistico e della relativa
convenzione urbanistica, legittimamente
l'amministrazione, in presenza di un
interesse pubblico sopravvenuto, ha la
facoltà di introdurre nuove previsioni, con
il solo onere di motivare le esigenze che le
determinano.
In presenza di nuove esigenze non sussiste,
quindi, preclusione a nuovi interventi,
atteso che lo ius variandi relativo
alle prescrizioni di piano regolatore
generale include anche un ius poenitendi
relativo ai vincoli precedentemente assunti,
rispetto ai quali il Comune non può
ritenersi permanentemente vincolato nemmeno
da una preesistente convenzione di
lottizzazione (fra le tante Cons. Stato,
Sez. IV, 29.07.2008, n. 3766; n. 711 del
13.07.1993; 25.07.2001, n. 4073).
La vigenza di una convenzione di
lottizzazione si riflette, semmai, solamente
in termini di obbligo di motivazione
nell'esercizio della potestas variandi,
in quanto incidente su aspettative
qualificate del privato parte della
convenzione (Cons. Stato, Sez. IV,
28.02.2005, n. 719).
---------------
L'omessa
indicazione nel piano particolareggiato del
termine di validità non può considerarsi
causa d'illegittimità dello stesso,
operando, in tal caso, il termine massimo
decennale fissato dall'art. 16 l. n. 1150
del 1942 (Cons. Stato, sez. VI, 09.03.2005 ,
n. 985).
Parimenti, la mancata indicazione nel piano
particolareggiato dei termini per il
compimento delle espropriazioni rileva solo
per la legittimità di queste ultime ma non
per quella del piano, giacché la certezza
dei rapporti giuridici è garantita dalla
decadenza legale del piano (TAR Umbria
Perugia, 07.12.2001, n. 650)
(TAR
Emilia Romagna-Parma,
sentenza 11.05.2011 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Il
Comune non può ritenersi permanentemente
vincolato da una preesistente convenzione
urbanistica.
Nella vicenda che ha dato luogo alla
pronuncia in rassegna la società resistente
è proprietaria di un’area inserita nel piano
particolareggiato di iniziativa pubblica
approvato da un Comune emiliano, mentre il
ricorrente era proprietario di un’area -anch’essa
inserita nel medesimo piano- che egli aveva
ceduto gratuitamente al Comune, come
standard a verde pubblico, in attuazione di
un piano particolareggiato di iniziativa
privata.
Ebbene, il ricorrente impugna gli atti
relativi alla vendita delle aree facenti
parte del piano particolareggiato e
l’approvazione del bando di asta pubblica, e
l’avviso di vendita di aree edificabili. Con
uno dei motivi di ricorso il ricorrente
lamenta, in particolare, che il piano
particolareggiato include l’area che è stata
ceduta dallo stesso al Comune -quale
standard urbanistico (verde pubblico)-
destinandola illegittimamente alla
edificazione residenziale ed alla successiva
vendita. Poiché l’area non viene destinata
alla realizzazione di opere di pubblica
utilità ma all’utilizzazione privata, il
ricorrente afferma di avere diritto al
ripristino della destinazione pubblica o
alla restituzione dell’area.
Ad avviso dei giudici del Tribunale
amministrativo di Parma il motivo è
infondato, la giurisprudenza è costante,
infatti, nell’affermare che le convenzioni
urbanistiche devono sempre considerarsi
rebus sic stantibus, e, persino durante
la piena efficacia di un piano urbanistico e
della relativa convenzione urbanistica,
legittimamente l'amministrazione, in
presenza di un interesse pubblico
sopravvenuto, ha la facoltà di introdurre
nuove previsioni, con il solo onere di
motivare le esigenze che le determinano.
In presenza di nuove esigenze non sussiste,
quindi, preclusione a nuovi interventi,
atteso che lo ius variandi relativo
alle prescrizioni di piano regolatore
generale include anche un ius poenitendi
relativo ai vincoli precedentemente assunti,
rispetto ai quali il Comune non può
ritenersi permanentemente vincolato nemmeno
da una preesistente convenzione di
lottizzazione (fra le tante Cons. Stato,
Sez. IV, 29.07.2008, n. 3766; n. 711 del
13.07.1993; 25.07.2001, n. 4073).
La vigenza di una convenzione di
lottizzazione si riflette, semmai, solamente
in termini di obbligo di motivazione
nell'esercizio della potestas variandi,
in quanto incidente su aspettative
qualificate del privato parte della
convenzione (Cons. Stato, Sez. IV,
28.02.2005, n. 719)
(commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - TAR Emilia
Romagna-Parma,
sentenza
11.05.2011 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Nelle
convenzioni urbanistiche non opera uno
stretto sinallagma tra le prestazioni delle
parti, nel senso che non vi è una misura
stabilita per legge delle prestazioni che i
privati devono assumere in cambio dello
sfruttamento delle facoltà edificatorie.
I privati possono quindi negoziare
liberamente obbligandosi a cedere aree anche
in quantità notevolmente superiore al
livello minimo degli standard urbanistici.
In questa materia i parametri sono infatti
qualitativi (adeguata dotazione di strutture
al servizio dei nuovi edifici) e non
quantitativi (la legge prevede soltanto la
soglia minima delle aree a standard).
---------------
(a) le convenzioni che regolano i piani di
lottizzazione e attuativi costituiscono un
limite solo temporaneo al potere di
pianificazione urbanistica. Nel lungo
periodo, dopo la scadenza del termine
decennale di validità dei piani, i comuni
riacquistano pienamente il comando della
zonizzazione del territorio;
(b) vi sono peraltro degli effetti
conformativi permanenti che si collegano
all’effettiva trasformazione del suolo e
devono essere rispettati anche dalla
pianificazione successiva;
(c) tra gli effetti conformativi permanenti
non rientra tuttavia il vincolo a standard
urbanistico posto su determinate aree. Al
contrario, poiché la qualificazione come
standard urbanistico è sempre collegata alla
presenza di un interesse pubblico attuale,
l’amministrazione può variare nel tempo le
proprie valutazioni modificando la natura e
la misura degli standard urbanistici
esistenti sul territorio;
(d) gli accordi presi originariamente con i
privati in sede di lottizzazione non
impediscono quindi nuove scelte sugli
standard urbanistici, ma, secondo i principi
generali, occorre valutare se i cambiamenti
incidano in modo tollerabile sulle
situazioni consolidate e se il nuovo
interesse pubblico sia stato correttamente
individuato;
(e) nel caso in esame nessuna conseguenza
negativa può derivare alla zona produttiva
dalla perdita di 2.700 mq. di verde
pubblico, considerata l’abbondanza di aree a
standard presenti. A sua volta la
monetizzazione di tale superficie per
l’acquisto di una struttura destinata a
ospitare sale polivalenti corrisponde a
valutazioni amministrative non solo
ampiamente discrezionali ma, almeno in
relazione ai dati disponibili, non
manifestamente irragionevoli;
(f) il fatto che i lottizzanti non
beneficino della monetizzazione non presenta
alcun rilievo particolare, in quanto con la
cessione i proprietari perdono ogni contatto
con il bene (e con il valore che lo stesso
acquista nel tempo) e mantengono soltanto un
interesse qualificato a controllare che
l’amministrazione ne faccia un uso non
contrastante con la lottizzazione. Nello
specifico peraltro, come si è visto ai punti
precedenti, la sottrazione di una piccola
porzione delle aree a standard non
compromette la funzionalità e
l’utilizzabilità degli edifici situati nella
zona produttiva.
Nelle convenzioni urbanistiche non opera uno
stretto sinallagma tra le prestazioni delle
parti, nel senso che non vi è una misura
stabilita per legge delle prestazioni che i
privati devono assumere in cambio dello
sfruttamento delle facoltà edificatorie (v.
CS, Sez. IV, 28.07.2005 n. 4015; TAR
Brescia, Sez. I, 21.04.2010 n. 1580).
I privati possono quindi negoziare
liberamente obbligandosi a cedere aree anche
in quantità notevolmente superiore al
livello minimo degli standard urbanistici.
In questa materia i parametri sono infatti
qualitativi (adeguata dotazione di strutture
al servizio dei nuovi edifici) e non
quantitativi (la legge prevede soltanto la
soglia minima delle aree a standard).
---------------
Nel terzo motivo di ricorso la richiesta di
risarcimento viene collegata a una
violazione contrattuale, consistente nel
fatto che il Comune alienando una parte del
mappale n. 153 sarebbe venuto meno
all’obbligo di destinare per intero questa
superficie a verde pubblico. L’argomento,
nel complesso, non può essere condiviso. In
proposito si osserva quanto segue:
(a) le convenzioni che regolano i piani di
lottizzazione e attuativi costituiscono un
limite solo temporaneo al potere di
pianificazione urbanistica. Nel lungo
periodo, dopo la scadenza del termine
decennale di validità dei piani, i comuni
riacquistano pienamente il comando della
zonizzazione del territorio;
(b) vi sono peraltro degli effetti
conformativi permanenti che si collegano
all’effettiva trasformazione del suolo e
devono essere rispettati anche dalla
pianificazione successiva (v. TAR Brescia,
Sez. I, 23.03.2010 n. 1360);
(c) tra gli effetti conformativi permanenti
non rientra tuttavia il vincolo a standard
urbanistico posto su determinate aree. Al
contrario, poiché la qualificazione come
standard urbanistico è sempre collegata alla
presenza di un interesse pubblico attuale,
l’amministrazione può variare nel tempo le
proprie valutazioni modificando la natura e
la misura degli standard urbanistici
esistenti sul territorio;
(d) gli accordi presi originariamente con i
privati in sede di lottizzazione non
impediscono quindi nuove scelte sugli
standard urbanistici, ma, secondo i principi
generali, occorre valutare se i cambiamenti
incidano in modo tollerabile sulle
situazioni consolidate e se il nuovo
interesse pubblico sia stato correttamente
individuato;
(e) nel caso in esame nessuna conseguenza
negativa può derivare alla zona produttiva
dalla perdita di 2.700 mq di verde pubblico,
considerata l’abbondanza di aree a standard
presenti. A sua volta la monetizzazione di
tale superficie per l’acquisto di una
struttura destinata a ospitare sale
polivalenti (v. sopra al punto 4)
corrisponde a valutazioni amministrative non
solo ampiamente discrezionali ma, almeno in
relazione ai dati disponibili, non
manifestamente irragionevoli;
(f) il fatto che i lottizzanti non
beneficino della monetizzazione non presenta
alcun rilievo particolare, in quanto con la
cessione i proprietari perdono ogni contatto
con il bene (e con il valore che lo stesso
acquista nel tempo) e mantengono soltanto un
interesse qualificato a controllare che
l’amministrazione ne faccia un uso non
contrastante con la lottizzazione. Nello
specifico peraltro, come si è visto ai punti
precedenti, la sottrazione di una piccola
porzione delle aree a standard non
compromette la funzionalità e
l’utilizzabilità degli edifici situati nella
zona produttiva (TAR Lombardia-Brescia, sez.
I,
sentenza 31.01.2011 n. 193 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ANNO 2010 |
|
URBANISTICA: La
PA, nel procedere ad una pianificazione di
recupero, può legittimamente richiedere gli
standards necessari con riferimento alle
preesistenze edilizie delle quali il piano
prevede la conservazione.
In ordine alla prima e centrale questione,
va condiviso l’orientamento del primo
giudice in particolare ove ha posto in
rilievo che contenere la dotazione degli “standards”
a corredo del piano, rapportandola alle sole
nuove edificazioni, costituirebbe una
ingiustificata compressione del potere
pianificatorio, soprattutto preclusiva di un
miglioramento delle condizioni di vivibilità
relativamente agli edifici preesistenti,
realizzandosi così un aumento del deficit
urbanistico del tutto contrario alla
finalità stessa del piano di recupero.
Peraltro collima con questa interpretazione
l’orientamento già espresso da questo
Consiglio in merito, per il quale l’art. 22,
comma terzo, della L.R. lombarda n. 51/1975,
per la determinazione degli “standards”
non si è riferito al volume fisico fuori
terra degli edifici, bensì alla "capacità
insediativa residenziale teorica" (Cons
di Stato, sez. IV, n. 860/2007 e n.
797/1997); in tale concetto, e con
riferimento ad un piano di recupero che per
definizione vede ampia parte destinata alla
conservazione immobiliare, risulta quindi
del tutto logico che nella quantificazione
degli “standards” minimi necessari si
tenga conto di tutte le edificazioni che
l’area può giuridicamente e nel complesso
recepire e quindi necessariamente anche
degli edifici preesistenti
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.11.2010 n. 7727 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Standard urbanistici - Principi -
Concetto - Opere di urbanizzazione primaria -
Dimensionamento - Imposizione di vincoli espropriativi -
Attribuzione di cubatura su altri terreni.
In materia di standard urbanistici sono stati elaborati
alcuni principi che si possono così riassumere:
(a) il concetto di standard urbanistico non deve essere
definito formalisticamente ma si estende a qualunque
servizio di interesse pubblico e generale, sia esso gestito
dall’amministrazione o dai privati;
(b) gli standard urbanistici si distinguono dalle opere di
urbanizzazione primaria in quanto rispetto all’infrastrutturazione
di base sono qualcosa di aggiuntivo, che può essere
considerato necessario solo in una visione urbanistica di
qualità;
(c) per alcuni standard urbanistici sono fissate dalla legge
regionale le misure minime, tuttavia ogni comune è autonomo
nella scelta della misura complessiva;
(d) nel dimensionamento degli standard urbanistici si devono
considerare anche eventuali flussi di utenza aggiuntivi
rispetto a quelli della popolazione residente;
(e) qualora i servizi siano svolti da privati
l’amministrazione deve assicurarne la destinazione pubblica
attraverso convenzioni;
(f) qualora la previsione di standard urbanistici si traduca
nell’imposizione di vincoli espropriativi è necessaria una
valutazione economica relativa alla sostenibilità della
spesa per gli indennizzi;
(g) in alternativa (o anche congiuntamente) agli indennizzi
può essere utilizzata la perequazione urbanistica nella
forma dell’attribuzione di cubatura su altri terreni (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 22.02.2010 n. 869 - link a
www.ambientediritto.it). |
ANNO 2009 |
|
URBANISTICA:
Acquisto aree e deroga alla convenzione
per opere di urbanizzazione.
E’ chiesto parere in merito alla possibilità, per il Comune,
di acquisire le aree necessarie per le opere di
urbanizzazione primaria e secondaria, nell’ambito di un
piano di lottizzazione, oltre il termine indicato nella
convenzione (Regione Piemonte,
parere n. 117/2009 - link a
www.regione.piemonte.it). |
URBANISTICA:
1. Piano di Recupero - Interessa l'area
o l'immobile oggetto di intervento nella sua complessiva
dimensione - Calcolo del peso insediativo - Va fatto sulla
base dell'intervento nella sua globalità.
2. Piano di Recupero - Standards - Vanno parametrati su
tutte le unità immobiliari comprese nel piano seppur
preesistenti.
1.
Il Piano di Recupero, in quanto assimilabile al piano
particolareggiato, interessa l'area o l'immobile oggetto di
intervento nella sua complessiva dimensione, di talché
appare del tutto congruo tenere conto degli esiti e dei
benefici complessivi derivanti dall'intervento e non
soltanto dall'incremento di volumetria da esso determinato.
L'utilizzo dello specifico strumento finalizzato al recupero
delle preesistenze degradate comporta la necessità di
considerare -ai fini del calcolo del conseguente peso
insediativo- il risultato finale dell'intervento nella sua
globalità.
2.
Anche nel caso di un piano di recupero avente ad oggetto una
pluralità di edifici, gli standards debbono essere
parametrati su tutte le unità immobiliari che siano comunque
oggetto dell'intervento, pur se preesistenti (massima tratta
da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 28.12.2009 n. 6223 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
1. Standard - Costituisce una categoria
aperta - Valutazioni di dettaglio per le realtà locali -
Spettano alle Amministrazioni.
1. Il concetto
di standard costituisce una categoria aperta, per cui spetta
alle amministrazioni il compito di svolgere valutazioni di
dettaglio riferite alle singole realtà locali (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 23.12.2009 n. 6188 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Programma integrato di intervento -
Finalità - Riqualificazione urbanistica - Concorso di
risorse finanziarie pubbliche e private - Indici
territoriali e disciplina degli standard.
Il Programma Integrato di Intervento presenta “la
specifica finalità di riqualificare il tessuto urbanistico,
edilizio ed ambientale del territorio e caratterizzato sia
dalla presenza di una pluralità di funzioni, sia
dall'integrazione di diverse tipologie di intervento, ivi
comprese le opere di urbanizzazione, in una dimensione
capace di incidere sulla riorganizzazione urbana e con il
possibile concorso di risorse finanziarie pubbliche e
private” (cfr. TAR Lombardia, Milano n. 5171/2009).
La scelta degli indici territoriali e la disciplina degli
standard risponde, in tale ottica, alla necessità di trovare
finanziamenti per riqualificare i quartieri e per realizzare
le opere pubbliche, senza aggravare il costruttore al punto
tale di farlo desistere dall’operazione.
Standard - Categoria aperta -
Valutazioni di dettaglio - Amministrazioni locali -
Riferimento alle realtà locali.
Il concetto di standard costituisce “una categoria
aperta, per cui spetta alle amministrazioni il compito di
svolgere valutazioni di dettaglio riferite alle singole
realtà locali” (TAR Lombardia - sez. Brescia 15.12.2006
n. 1548) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 23.12.2009 n. 6188 - link a
www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA:
1. Programma integrato di intervento -
Insufficienza delle aree a standard - Interesse alla censura
- Sussiste in capo a chiunque vanti uno stabile collegamento
con la zona - Monetizzazione degli standard e sua
quantificazione - Interesse alla censura - Sussiste.
2. Programma integrato di intervento e sue varianti -
Documento di Inquadramento delle politiche urbanistiche -
Reperimento di aree per standard - Obbligo di introduzione
di tutti gli standard - Non sussiste, una volta rispettata
la dotazione minima - Monetizzazione dello standard
qualitativo - Rappresenta scelta discrezionale, non
sindacabile in sede giurisdizionale, salvo i profili di
illogicità.
3. Programma integrato di intervento e sue varianti -
Modifica della disciplina degli standard convenzionata -
Monetizzazione - Tariffe applicabili - Sono quelle vigenti
al momento della sottoscrizione della variante.
1.
Nel caso di insufficienza delle aree a standard previste in
un P.I.I., ogni residente ha interesse al rispetto delle
disposizioni che prevedono l'introduzione degli standard,
sempre con il limite del collegamento territoriale. Proprio
per il miglioramento della vita, l'interesse sussiste anche
rispetto alle censure in cui si contesta la scelta di
monetizzare e la stessa quantificazione della monetizzazione:
nell'ipotetica ipotesi di accoglimento del ricorso gli
attuatori del progetto potrebbe scegliere di reperire più
standard all'interno del perimetro, per ridurre le somme
dovute, ovvero la maggior somma da versare sarebbe
utilizzata poi per servizi ai cittadini.
2.
Ove il Documento di Inquadramento delle politiche
urbanistiche comunale prescriva che il PII deve assicurare
il reperimento, preferibilmente all'interno dell'area di
intervento, della quantità di aree per standard,
disciplinando poi le forme alternative di assolvimento degli
obblighi di dotazione degli standard, la scelta di non
introdurre tutti gli standard all'interno della zona, pur
essendovene la possibilità materiale, non viola i principi
sopra citati, che sono privi di precettività, in quanto
meramente orientativi ed espressamente compatibili con
soluzioni alternative. Quindi, una volta rispettata la
dotazione minima, la scelta di monetizzare o dello standard
qualitativo si riconduce alla sfera della discrezionalità,
non sindacabile in sede giurisdizionale, salvo i profili di
illogicità.
3.
In caso di variante a un P.I.I. che comporti la modifica
della disciplina degli standard convenzionata, con la scelta
di monetizzare tutte le aree non reperite all'interno del
perimetro del PII, l'Amministrazione deve applicare le
tariffe vigenti al momento della sottoscrizione della
variante al P.I.I., in quanto l'obbligazione relativa alla
monetizzazione è sorta al momento della sottoscrizione
dell'atto che ha novato la convenzione, onde per tutte le
aree deve essere applicata la tariffa vigente in quel
momento (massima tratta da www.solom.it - TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.11.2009 n. 5171 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
1. Programma integrato di intervento -
Accordo di programma - Costituisce ex lege dichiarazione di
pubblica utilità - Applicabilità art. 23 bis, L. T.A.R. -
Sussiste.
2. Programma integrato di intervento - Interesse a impugnare
gli atti pianificatori - Sussiste in capo a chiunque vanti
uno stabile collegamento con la zona e risenta un relativo
pregiudizio.
3. Programma integrato di intervento e sue varianti - Artt.
92 e 14, L.R. n. 12/2005 - Competenza della Giunta comunale
- Sussiste, anche se non sia stato ancora adottato il PGT.
4. Programma integrato di intervento e sue varianti -
Documento di Inquadramento delle politiche urbanistiche -
Reperimento di aree per standard - Obbligo di introduzione
di tutti gli standard - Non sussiste, una volta rispettata
la dotazione minima - Monetizzazione dello standard
qualitativo - Rappresenta scelta discrezionale, non
sindacabile in sede giurisdizionale, salvo i profili di
illogicità.
1.
L'accordo di programma relativo a un P.I.I. costituisce
ex lege dichiarazione di pubblica utilità,
indifferibilità e urgenza delle opere pubbliche previste
dall'accordo stesso e, quindi, coinvolge tutte le aree
interessate dal P.I.I., il quale, al fine di riqualificare
il tessuto urbanistico, edilizio ed ambientale del
territorio, prevede la realizzazione di opere pubbliche o di
pubblica utilità, attraverso un insieme coordinato di
interventi e risorse, pubblici e privati. Per tale ragione a
tutte le impugnazioni degli atti, anche di quelli attuativi
dell'Accordo deve applicarsi il rito speciale di cui
all'art. 23-bis L. TAR.
2.
Poiché la legittimazione a impugnare i titoli edilizi, da
parte dei singoli proprietari degli immobili circostanti,
discende dal semplice fatto del loro stabile collegamento
con la nuova costruzione e dal relativo pregiudizio, si deve
concludere per coerenza e nell'ottica del rispetto del
diritto di difesa che a maggior ragione sussiste l'interesse
ad impugnare gli atti pianificatori di una vasta zona, a
chiunque vanti il medesimo stabile collegamento con detta
zona e risenta un relativo pregiudizio.
3.
In base al combinato disposto dell'art. 92 e dell'art. 14
della L.R. 12/2005, i P.I.I. e loro varianti, se conformi
agli strumenti urbanistici comunali vigenti o adottati,
rientrano nella competenza della Giunta, anche se non sia
stato ancora adottato il PGT.
4.
Ove il Documento di Inquadramento delle politiche
urbanistiche comunale prescriva che il PII deve assicurare
il reperimento, preferibilmente all'interno dell'area di
intervento, della quantità di aree per standard,
disciplinando poi le forme alternative di assolvimento degli
obblighi di dotazione degli standard, la scelta di non
introdurre tutti gli standard all'interno della zona, pur
essendovene la possibilità materiale, non viola i principi
sopra citati, che sono privi di precettività, in quanto
meramente orientativi ed espressamente compatibili con
soluzioni alternative.
Quindi, una volta rispettata la dotazione minima, la scelta
di monetizzare o dello standard qualitativo si riconduce
alla sfera della discrezionalità, non sindacabile in sede
giurisdizionale, salvo i profili di illogicità (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.11.2009 n. 5170 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA -
ENTI LOCALI - URBANISTICA:
Circa la possibilità di destinare l’importo
di 500.000 euro, derivante dalla
monetizzazione dello “standard qualitativo”
di un Programma integrato di intervento, per
la ristrutturazione e l’ampliamento di un
immobile di proprietà della Fondazione
Scuole Infanzia “A. Brioschi”, già
istituzione di assistenza e beneficenza ex
IPAB, ora persona giuridica di diritto
privato senza scopo di lucro.
La legge regionale della Lombardia
n. 12/2005, recependo la tradizionale
legislazione nazionale di settore,
stabilisce che il promotore di un intervento
edilizio
deve realizzare le opere di urbanizzazione
primaria nella loro interezza ed una quota
parte di quelle di urbanizzazione
secondaria, precisando che, in ogni caso, il
Comune
conserva il diritto potestativo di
richiedere il pagamento integrale degli
oneri previsti dal
piano attuativo, anziché la realizzazione
diretta delle opere.
Recentemente, la Sezione si è occupata in
modo analitico della distinzione fra
opere di urbanizzazione primaria e
secondaria e dei problemi di
contabilizzazione delle
stesse nei casi di scomputo, anche in
relazione alla diversa funzione alla quale
adempiono le une e le altre.
In quell’occasione si è precisato che le
opere di urbanizzazione primaria e secondaria adempiono a diverse funzioni: “le
une, rendono effettivamente edificabile
l’area su cui sorgerà l’intervento edilizio,
dotandola dei manufatti e dei servizi
indispensabili per l’agibilità e la
fruibilità di un fabbricato secondo la
propria destinazione
d’uso; le altre, concernono la comunità
urbanizzata nel suo complesso per
arricchirla di
strutture e servizi che servono a scopi
generali (asili, parchi, biblioteche,
impianti
sportivi etc.) e non attengono in modo
specifico all’intervento edilizio, bensì
alla
generalità degli abitanti di un dato
comprensorio”.
La diversità di funzione comporta
l’infungibilità fra le due categorie di
opere con
la conseguenza che non è possibile procedere
ad alcuna forma di “compensazione
globale e indifferenziata fra le opere di
urbanizzazione primaria e secondaria
realizzate
dal promotore dell’intervento edilizio” e
che, pertanto, è necessario “che siano
esattamente e distintamente determinati gli
importi degli oneri di urbanizzazione a
scomputo” rientranti nell’una e nell’altra
categoria.
Pertanto, nell’assunzione della decisione di
destinare i proventi derivanti dalla
monetizzazione “dello standard qualitativo”
di un Programma integrato di intervento per
la realizzazione dell’ampliamento,
ristrutturazione e messa a norma
dell’edificio che
ospita la locale scuola dell’infanzia, il
Comune deve tenere in conto la distinzione
fra
oneri connessi alle operazioni di
urbanizzazione primaria e quelli da
destinare ad opere di urbanizzazione
secondaria e solamente la quota parte
riferita a queste ultime potrà
essere utilizzata a questo scopo.
In conclusione: il Comune può procedere,
nell'ambito della sua discrezionalità, ad
effettuare erogazioni patrimoniali ad una
Fondazione, già istituzione di assistenza e
beneficenza ex IPAB, al fine di consentire
la ristrutturazione e l'ampliamento
dell'edificio
di proprietà di quest'ultima, utilizzato
quale unica scuola materna presente sul
territorio.
A tale finalità può essere destinata la
quota parte riferita alle opere di urbanizzazione secondaria dei proventi
derivanti dalla monetizzazione “dello
standard
qualitativo” di un Programma integrato di
intervento.
Da ultimo, rientra nella discrezionalità del
Comune chiedere il versamento degli
oneri, acquisirli al bilancio comunale ed
erogare il contributo alla Fondazione ovvero
concordare con i proponente dell’intervento
la realizzazione diretta delle opere, purché
nella realizzazione dell'intervento venga
applicata la disciplina posta dal Codice dei
contratti pubblici.
---------------
Il Sindaco del Comune di Grandate ha
chiesto il parere della Sezione in
relazione alla possibilità di destinare
l’importo di 500.000 euro, derivante dalla
monetizzazione dello “standard
qualitativo” di un Programma integrato
di intervento, per la ristrutturazione e
l’ampliamento di un immobile di proprietà
della Fondazione Scuole Infanzia “A.
Brioschi”, già istituzione di assistenza
e beneficenza ex IPAB, ora persona giuridica
di diritto privato senza scopo di lucro
(deliberazione n. 4.11.534 del 21.05.2001
della Regione Lombardia).
Al fine di chiarire meglio i termini della
questione, il Comune ha precisato che
l’edificio in questione ospita l’unica
scuola dell’infanzia presente sul territorio
comunale e svolge, pertanto, un servizio
pubblico al quale, in caso di assenza
dell’Ente, il Comune dovrebbe comunque
provvedere.
E’ stato rilevato, altresì, che la
popolazione residente nel Comune era pari a
2.922 abitanti alla data del 31.12.2007 e
che dopo la privatizzazione la Fondazione
aveva stipulato con il Comune una
convenzione, secondo lo schema allegato alla
legge regionale n. 8/1999, che prevede che
il Comune concorra “alle spese di
gestione ordinaria” della Scuola
mediante versamento di un contributo
annuale, da determinarsi sulla base del
bilancio di Previsione e del Conto
consuntivo dell’istituto e che in caso di
estinzione dell’ente morale l’immobile di
quest’ultimo venga devoluto al Comune, con
vincolo di destinazione d’uso a Scuola
Materna.
La richiesta di parere è originata dalla
duplice circostanza che, da un lato,
l’immobile necessiterebbe di interventi di
ristrutturazione, ampliamento, a seguito
dell’incremento degli alunni frequentanti, e
di messa in sicurezza degli impianti, e,
dall’altro, la Fondazione non
disporrebbe dei fondi necessari per
l’esecuzione.
Il Sindaco del Comune di Grandate
conclude domandando se sia “ammissibile e
legittima l’acquisizione ai fondi del
bilancio comunale del contributo versato dal
proponente, nell’ambito del Piano
urbanistico integrato d’intervento, pari a
euro 500.000,00 per la successiva erogazione
dello stesso alla scuola materna, senza
esecuzione diretta da parte del Comune dei
lavori di ristrutturazione ed ampliamento
della scuola dell’infanzia “A. Brioschi”, o
in subordine se sia “ammissibile e legittima
la realizzazione diretta, nei modi previsti
dal D.gls. 163/2006 e successive
modificazioni, da parte del promotore del
Piano integrato di intervento,
dell’intervento di ristrutturazione
dell’immobile Fondazione scuola
dell’infanzia “A. Brioschi””.
...
Passando all’esame del merito della
richiesta proveniente dal Sindaco del
Comune di Grandate, la Sezione rileva che la
richiesta concerne la possibilità, in linea
generale per il Comune di erogare un
contributo ad una Fondazione che gestisce
una
Scuola dell’infanzia e, in linea
particolare, se sia possibile destinare a
questo scopo i
proventi derivanti dalla monetizzazione
dello “standard qualitativo” di un Programma
integrato di intervento che il proponente
sarebbe disponibile a destinare a scopi di
interesse sociale, versandoli al Comune
ovvero realizzando direttamente l’opera, nel
rispetto delle prescrizioni contenute nel
d.lgs. n. 163 del 2006.
La questione, nei suoi termini generali, è
già stata esaminata da questa Sezione in
numerose occasioni (per tutte, si rinvia al
parere 16.10.2008 n. 75, che contiene un’analitica
indicazione anche di tutti i precedenti).
La possibilità di disciplinare i rapporti
fra Amministrazione comunale e ente
gestore di una scuola dell’infanzia mediante
un’apposita convenzione è espressamente
presa in considerazione dalla legge
regionale 11.02.1999, n. 8 (Interventi
regionali
a sostegno del funzionamento delle scuole
materne autonome) che detta alcune norme,
specificando, in particolare, che
l’intervento finanziario regionale “è
distinto ed
integrativo rispetto a quello comunale”
(art. 1, co. 3).
Dal che si evince, inequivocabilmente, che
rientra fra i compiti propri del Comune
anche quello di erogare contributi alle
scuole materne non pubbliche al fine di
assicurarne il funzionamento, come avviene
nella pratica ed è espressamente
riconosciuto dalla normativa contabile
relativa agli enti territoriali che prevede
all’interno
del bilancio un’apposita Funzione (la IV).
Ed infatti, il Comune di Grandate ha
rilevato che i rapporti con la Fondazione
Scuola dell’Infanzia “A. Brioschi” sono
disciplinati da una specifica convenzione
che
prevede l’obbligo del Comune di versare un
contributo annuale diretto ad assicurare il
funzionamento dell’ente.
Peraltro, come ha rilevato questa Sezione,
non può essere trascurato che, a
seguito della recente modifica del Titolo V,
parte Seconda della Costituzione, in
relazione
alla necessaria attuazione del principio di
sussidiarietà che ha trovato esplicito
riconoscimento nel nuovo testo dell’art. 118
della Costituzione, al Comune non può non
essere riconosciuta la possibilità, in
assenza di uno specifico divieto, di
contribuire
finanziariamente al funzionamento delle
scuole dell’infanzia operanti sul suo
territorio,
anche con specifiche ed ulteriori forme di
contribuzione.
Riprendendo quanto già espresso da questa
Sezione occorre ribadire che
all’interno dell’ordinamento generale o
nella disciplina di settore degli enti
territoriali non
esiste alcuna norma che ponga uno specifico
divieto. Infatti, se l’azione è intrapresa
al
fine di soddisfare esigenze della
collettività rientranti nelle finalità
perseguite dal
Comune l’erogazione di un finanziamento non
può equivalere ad un depauperamento del
patrimonio comunale, in considerazione
dell’utilità che l’ente o la collettività
ricevono
dallo svolgimento del servizio pubblico o di
interesse pubblico effettuato dal soggetto
che riceve il contributo
(Corte conti, sez. contr. Lombardia,
parere 26.06.2006 n. 6).
Nel caso di specie è
indubitabile che fra le competenze comunali
rientri
quella di garantire l’effettuazione dl
servizio di scuola dell’infanzia.
Inoltre, la natura pubblica o privata del
soggetto che riceve l’attribuzione
patrimoniale è indifferente se il criterio
di orientamento è quello della necessità che
l’attribuzione avvenga allo scopo di
perseguire i fini dell’ente pubblico, posto
che la
stessa amministrazione pubblica opera
utilizzando, per molteplici finalità
(gestione di
servizi pubblici, esternalizzazione di
compiti rientranti nelle attribuzioni di
ciascun ente),
soggetti aventi natura privata e nella
stessa attività amministrativa è previsto
dalla
recente legge n. 15 del 2005, che ha
modificato la legge che disciplina il
procedimento
amministrativo, che l’amministrazione agisca
con gli strumenti del diritto privato
ogniqualvolta non sia previsto l’obbligo di
utilizzare quelli di diritto pubblico.
A maggior ragione, nel caso di specie nel
quale è previsto che in caso di
estinzione della Fondazione l’immobile venga
acquisito al patrimonio comunale nulla
osta a che il Comune di Grandate,
nell’ambito della sua discrezionalità,
decida di
contribuire versando un importo destinato a
contribuire ai costi necessari per la
ristrutturazione, ampliamento e messa a
norma dell’unico edifici o che ospita sul
territorio comunale una scuola
dell’infanzia.
La richiesta di parere, concerne anche, come
si è visto, la possibilità, per
raggiungere lo scopo messo in luce sopra, di
utilizzare una specifica risorsa: il
provento
derivante dalla monetizzazione “dello
standard qualitativo” di un Programma
integrato
di intervento che il proponente sarebbe
disponibile a versare al Comune ovvero ad
utilizzare per realizzare direttamente il
lavoro sull’edificio della Fondazione.
Al riguardo, è evidente che
ferma la libertà
dell’amministrazione comunale di
adottare la scelta ritenuta più confacente
all’interesse locale, nel rispetto della
normativa generale e di settore, l’ente
potrà utilizzare le considerazioni, di
seguito
svolte.
La legge regionale della Lombardia
n. 12/2005, recependo la tradizionale
legislazione nazionale di settore,
stabilisce che il promotore di un intervento
edilizio
deve realizzare le opere di urbanizzazione
primaria nella loro interezza ed una quota
parte di quelle di urbanizzazione
secondaria, precisando che, in ogni caso, il
Comune
conserva il diritto potestativo di
richiedere il pagamento integrale degli
oneri previsti dal
piano attuativo, anziché la realizzazione
diretta delle opere.
Recentemente, la Sezione si è occupata in
modo analitico della distinzione fra
opere di urbanizzazione primaria e
secondaria e dei problemi di
contabilizzazione delle
stesse nei casi di scomputo, anche in
relazione alla diversa funzione alla quale
adempiono le une e le altre (parere
15.09.2008 n. 66).
In quell’occasione si è precisato che le
opere di urbanizzazione primaria e secondaria adempiono a diverse funzioni: “le
une, rendono effettivamente edificabile
l’area su cui sorgerà l’intervento edilizio,
dotandola dei manufatti e dei servizi
indispensabili per l’agibilità e la
fruibilità di un fabbricato secondo la
propria destinazione
d’uso; le altre, concernono la comunità
urbanizzata nel suo complesso per
arricchirla di
strutture e servizi che servono a scopi
generali (asili, parchi, biblioteche,
impianti
sportivi etc.) e non attengono in modo
specifico all’intervento edilizio, bensì
alla
generalità degli abitanti di un dato
comprensorio”.
La diversità di funzione comporta
l’infungibilità fra le due categorie di
opere con
la conseguenza che non è possibile procedere
ad alcuna forma di “compensazione
globale e indifferenziata fra le opere di
urbanizzazione primaria e secondaria
realizzate
dal promotore dell’intervento edilizio” e
che, pertanto, è necessario “che siano
esattamente e distintamente determinati gli
importi degli oneri di urbanizzazione a
scomputo” rientranti nell’una e nell’altra
categoria.
Pertanto, nell’assunzione della decisione di
destinare i proventi derivanti dalla
monetizzazione “dello standard qualitativo”
di un Programma integrato di intervento per
la realizzazione dell’ampliamento,
ristrutturazione e messa a norma
dell’edificio che
ospita la locale scuola dell’infanzia, il
Comune deve tenere in conto la distinzione
fra
oneri connessi alle operazioni di
urbanizzazione primaria e quelli da
destinare ad opere di urbanizzazione
secondaria e solamente la quota parte
riferita a queste ultime potrà
essere utilizzata a questo scopo.
Come prevede la stessa disciplina contenuta
nella legge regionale, rientra nella
piena discrezionalità del Comune la
decisione di richiedere il versamento degli
oneri,
acquisirli al bilancio comunale ed erogare
il contributo alla Scuola ovvero concordare
con
i proponente dell’intervento la
realizzazione diretta delle opere.
In entrambe i casi, il soggetto che
realizzerà l’intervento di ampliamento,
ristrutturazione e messa a norma
dell’edificio dovrà applicare la disciplina
posta dal
Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n.
163 del 2006 e s.m.i.).
In conclusione: il Comune può procedere,
nell'ambito della sua discrezionalità, ad
effettuare erogazioni patrimoniali ad una
Fondazione, già istituzione di assistenza e
beneficenza ex IPAB, al fine di consentire
la ristrutturazione e l'ampliamento
dell'edificio
di proprietà di quest'ultima, utilizzato
quale unica scuola materna presente sul
territorio.
A tale finalità può essere destinata la
quota parte riferita alle opere di urbanizzazione secondaria dei proventi
derivanti dalla monetizzazione “dello
standard
qualitativo” di un Programma integrato di
intervento.
Da ultimo, rientra nella discrezionalità del
Comune chiedere il versamento degli
oneri, acquisirli al bilancio comunale ed
erogare il contributo alla Fondazione ovvero
concordare con i proponente dell’intervento
la realizzazione diretta delle opere, purché
nella realizzazione dell'intervento venga
applicata la disciplina posta dal Codice dei
contratti pubblici (d.lgs. n. 163 del 2006
e s.m.i.)
(Corte
dei Conti, Sez. regionale di controllo
Lombardia,
parere 06.02.2009 n. 24). |
ANNO 2008 |
|
URBANISTICA:
OGGETTO: Legge 24.12.2007, n. 244 - Art. 1, comma 258 -
Interpretazione ed applicazione sulla pianificazione
urbanistica comunale.
Il Comune, con riferimento a quanto stabilito dall’art. 1,
comma 258, della legge 24.12.2007, n. 244 (Legge finanziaria
2008) il cui testo allega in copia, chiede un parere “relativamente
alla possibilità di individuare, nelle aree a verde pubblico
o a parcheggio, di cui al D.M. n. 1444/1968, aree definite
come “ambiti” nei quali prevedere immobili da destinare ad
edilizia residenziale sociale”.
Il Comune ritiene che tale norma “stabilisce i seguenti
principi:
1. le aree definite come “ambiti” per la eventuale
realizzazione di edilizia residenziale sociale devono essere
considerate come standard urbanistico, ai sensi del D.M. n.
1444/1968;
2. la eventuale trasformazione di tali aree o “ambiti” in
lotti edificabili per edilizia residenziale sociale avviene
esclusivamente per cessione gratuita dell’area, da parte del
proprietario;
3. in tali “ambiti” è inoltre possibile prevedere la
realizzazione e fornitura di alloggi a canone calmierato,
concordato e sociale, che rimangono in proprietà del
soggetto realizzatore (pubblico o privato);
4. la realizzazione di opere edilizie in tali “ambiti” deve
essere equiparata ad opera di urbanizzazione (secondaria) e
pertanto esclusa dalle volumetrie realizzabili e
disciplinate dal Piano Urbanistico Generale o Attuativo”
(Regione Marche,
parere 24.07.2008 n. 93/2008). |
URBANISTICA: Sulla
corretta interpretazione ed individuazione
delle aree a standard da destinare a verde
pubblico ed a parcheggio pubblico.
Il D.M. 02.04.1968, n. 1444, nel determinare
e nell’individuare gli spazi pubblici
riservati a verde pubblico ed a parcheggi,
prevede espressamente all’art. 3, che tali
spazi debbano essere “effettivamente
utilizzabili”, “con esclusione di fasce
verdi lungo le strade”.
In altri termini, gli spazi pubblici in
questione debbono essere localizzati in modo
tale da consentire una loro piena
utilizzazione da parte della generalità
degli utenti: cioè, per un verso, le aree
destinate a verde pubblico attrezzato
debbono avere una dimensione tale da poter
essere proficuamente utilizzate dalla
generalità degli utenti per il gioco e per
lo sport e non debbono risolversi in “spazi
di risulta” esclusivamente posti a
servizio dei fabbricati, per altro verso le
aree destinate a parcheggio pubblico debbono
essere localizzate in modo tale da
consentire alla generalità dei cittadini di
accedervi
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 07.04.2008 n. 378 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ANNO 2007 |
|
URBANISTICA:
A. Purcaro,
Programmi integrati di intervento, standard
di qualità ed obbligo di gara: spunti per
una riflessione a margine della legge
regionale urbanistica della Lombardia e del
Codice dei contratti (09.06.2007
- tratto da www.bosettiegatti.eu).). |
ANNO 2006 |
|
EDILIZIA
PRIVATA:
OGGETTO: Parcheggi pubblici ai sensi del DM n. 1444/1968.
Il Direttore generale del Consorzio per la
industrializzazione delle valli del Tronto, dell’Aso e del
Tesino (Piceno Consind) chiede se possono essere considerati
parcheggi pubblici, ai sensi dell’art. 5 del D.M.
02.04.1968, n. 1444, anche i parcheggi interrati e in
elevazione e, in tal caso, se “deve essere ceduta
all’ente pubblico, dal soggetto proprietario, anche la
relativa area di sedime (proiezione sul piano di campagna),
qualora la stessa non sia destinata a standard pubblico”
(Regione Marche,
parere 03.11.2006 n. 9/2006). |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA: La
monetizzazione costituisce un’ obbligazione
alternativa alla cessione da parte dei privati di
aree che potrebbero risultare non utili ai fini
dell’interesse pubblico.
Pertanto
tale entrata non può che essere classificata,
secondo quanto previsto dal DPR 31.01.1996, n. 194,
al titolo IV –Entrate derivanti da
alienazioni, da trasferimenti di capitale e da
riscossione di crediti– e, come tale, essere
destinata al finanziamento di spese di investimento,
ed in particolare ai sensi dell’art. 46, comma 1,
lett. a), della legge regionale 11.03.2005, n. 12
alla realizzazione degli interventi previsti nel
Piano dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di
altre aree a destinazione pubblica.
Un’eventuale destinazione a spese
correnti costituirebbe un manifesto depauperamento
del patrimonio comunale, configurando un evidente
pregiudizio alla sana gestione finanziaria dell’Ente
Locale.
---------------
Con nota n. 5416 del 16/12/2005 pervenuta a questa
Sezione regionale di controllo il 20.12.2005 il
sindaco del Comune di Castel Rozzone, dopo aver
premesso che con l’entrata in vigore del TU in
materia di edilizia approvato con DPR 06.06.2001 n.
380 è venuto meno il vincolo di destinazione dei
proventi derivanti da contributi di costruzione,
ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di
considerare estensibile tale liberalizzazione anche
ai proventi derivanti dalle monetizzazioni
(compensazioni per la mancata cessione da parte dei
privati di aree da destinare per attrezzature
pubbliche e di interesse generale previste nei piani
dei servizi) e cioè di poter attribuire alla piena
discrezionalità dell’Amministrazione Comunale
l’utilizzo di detti proventi che potranno essere,
quindi, destinati al finanziamento di investimenti
ovvero alla manutenzione del patrimonio comunale.
...
Questa Sezione con la richiamata deliberazione n. 1
del 04.11.2004 ha già avuto modo di pronunciarsi
circa l’avvenuta cessazione del vincolo di
destinazione delle entrate provenienti dai
contributi di costruzione in conseguenza
dell’entrata in vigore del DPR 380/2001.
Va peraltro segnalato che la normativa vigente
all’atto dell’adozione della citata deliberazione è
stata successivamente modificata dall’art. 1, comma
43, della legge 30.12.2004 n. 311 che ha posto un
nuovo limite alla destinazione dei contributi di
costruzione al finanziamento della spesa corrente
fissato al 75% per l’anno 2005 e al 50% per il 2006.
Occorre tuttavia osservare che mentre il contributo
di costruzione risulta un provento connesso al
rilascio del permesso di costruire commisurato,
secondo quanto disposto dall’art. 16 DPR 380/01, a
tariffe determinate dal Consiglio Comunale i
proventi della monetizzazione trovano fondamento
nelle convenzioni che consentono a soggetti privati
obbligati a cedere la proprietà di aree a favore dei
Comuni di corrispondere, in alternativa totale o
parziale, una somma commisurata all’utilità
economica conseguita per effetto della mancata
cessione e comunque non superiore al costo di
acquisto di altre aree avente analoghe
caratteristiche.
La monetizzazione costituisce un’
obbligazione alternativa alla cessione da parte dei
privati di aree che potrebbero risultare non utili
ai fini dell’interesse pubblico.
Pertanto
tale entrata non può che essere classificata,
secondo quanto previsto dal DPR 31.01.1996, n. 194,
al titolo IV –Entrate derivanti da
alienazioni, da trasferimenti di capitale e da
riscossione di crediti– e, come tale, essere
destinata al finanziamento di spese di investimento,
ed in particolare ai sensi dell’art. 46, comma 1,
lett. a), della legge regionale 11.03.2005, n. 12
alla realizzazione degli interventi previsti nel
Piano dei servizi, ivi compresa l’acquisizione di
altre aree a destinazione pubblica.
Un’eventuale destinazione a spese correnti
costituirebbe un manifesto depauperamento del
patrimonio comunale, configurando un evidente
pregiudizio alla sana gestione finanziaria dell’Ente
Locale
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 26.06.2006 n. 6). |
ANNO 2004 |
|
URBANISTICA:
I terreni acquisiti dal Comune,
nell’ambito di un piano di lottizzazione,
quale corrispettivo della concessione
edilizia, per la esecuzione di opere di
urbanizzazione, sono sempre suscettibili di
subire le modificazioni di destinazione che
il Comune ritiene ad essi di imprimere, per
cui, per tale motivo, non può riconoscersi
all’originario proprietario dei terreni
ceduti il diritto alla retrocessione.
Per giurisprudenza costante, i terreni
acquisiti dal Comune, nell’ambito di un
piano di lottizzazione, quale corrispettivo
della concessione edilizia, per la
esecuzione di opere di urbanizzazione, sono
sempre suscettibili di subire le
modificazioni di destinazione che il Comune
ritiene ad essi di imprimere (Corte di
Cassazione civ., sez. II, 28.08.2000, n.
11208), per cui, per tale motivo, non può
riconoscersi all’originario proprietario dei
terreni ceduti il diritto alla retrocessione
(nella specie, peraltro, si tratta pur
sempre di destinazioni per interessi
pubblici).
Se ciò vale per i lotti A e B ceduti al
Comune in attuazione di convenzione di
lottizzazione, per quanto riguarda i lotti C
e D v’è da osservare che la situazione è
diversa, ricadenti essi, come detto nel PIP.
Per quanto riguarda il lotto C, acquisito
nell’ambito di procedura espropriativa e
destinato a verde pubblico mai realizzato,
il Comune lo ha escluso dall’impugnato atto
di vendita, prevedendo la possibilità della
sua retrocessione; per quanto riguarda,
invece, il lotto D, esso faceva parte di un
lotto più ampio assegnato ad un’industria
insediatasi e destinato a parcheggio, ma poi
riacquistato dal Comune a seguito di permuta
con altra area, per cui, nella specie, non
si è verificato il presupposto della
retrocessione, consistente nella mancata
esecuzione dell’opera pubblica.
Con l’atto impugnato, inoltre, il Comune
procede all’assegnazione mediante vendita
dei tre lotti di cui si chiede la
retrocessione per consentire insediamenti
produttivi, e, quindi, pur sempre per
finalità di pubblico interesse, nella specie
legittima e consentita in base alle nuove
destinazioni urbanistiche impresse ai
terreni in questione, non impugnate dai
ricorrenti (TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 16.07.2004 n. 835 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ANNO 2003 |
|
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA: Gli
spazi di cui al D.M. 02.04.1968 sono aggiuntivi e non
sostitutivi di quelli imposti dall'art. 18 della legge
06.08.1967 n. 675 (la cui misura è stata successivamente
modificata dalla legge n. 112/1989) commisurati a 1 mq. ogni
10 mc. di edificio.
Infatti, mentre i primi sono disciplinati dall'art.
41-quinquies, ottavo comma, i secondi sono previsti
dall'art. 41-sexies della l. 17.08.1942 n. 1150.
Mentre quelli di cui alla prima disposizione sono
qualificati come aree pubbliche da conteggiarsi ai fini
della dotazione di "standard", i parcheggi di cui al
successivo art. 41-sexies sono qualificati come aree private
pertinenziali alle nuove costruzioni, di guisa che l'art. 3,
comma 2, lett. d), del D.M. 02.04.1968 espressamente li
esclude dal computo nel calcolo della misura degli
"standard".
---------------
In relazione alla c.d. monetizzazione degli standard,
occorre richiamare l'art. 12, lett. a), della legge
regionale 05.12.1977 n. 60, il quale stabilisce che, qualora
l'acquisizione delle aree necessarie per le opere di
urbanizzazione primaria e per le attrezzature pubbliche e di
uso pubblico "non venga ritenuta opportuna dal comune in
relazione alla loro estensione, conformazione o
localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di
intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa
totale o parziale della cessione, che all'atto della stipula
i lottizzanti corrispondano al comune una somma commisurata
all'utilità economica conseguita per effetto della mancata
cessione e comunque non inferiore al costo dell'acquisizione
di altre aree".
La legislazione regionale àncora la monetizzazione a precisi
presupposti, considerato che la monetizzazione presuppone
comunque un'offerta di aree, restando in facoltà del Comune
disporne la commutazione sulla base di un apprezzamento
complesso, che investe: da un lato l'idoneità o meno delle
aree offerte, in funzione dell'uso pubblico cui verrebbero
destinate; dall'altro, la possibilità di acquisire aree
alternative (monetizzazione a carico del lottizzante) per
mantenere invariato il livello di dotazione standard
richiesto dal piano regolatore (livello che non può comunque
scendere al di sotto del minimo legale).
Si tratta, dunque di una facoltà discrezionale del Comune,
non di un diritto del privato, il quale non può ritenersi
esente dall'onere di individuare le aree da computare in
quota standard.
Infine, va disattesa la contestazione relativa agli spazi
per parcheggi.
Il D.M. 02.04.1968, emesso in attuazione dell'art.
41-quinquies, comma ottavo e nono della l. 17.08.1942 n.
1150 (come introdotto dall'art. 17 della l. 06.08.1967 n.
765), disciplina i cosiddetti standard urbanistici ed
edilizi.
In particolare, per quanto in questa sede interessa, l'art.
5 di tale Decreto individua i rapporti massimi tra gli spazi
destinati agli insediamenti produttivi e gli spazi pubblici
destinati alle attività collettive, a verde pubblico o a
parcheggi, prescrivendo che:
1) nei nuovi insediamenti di carattere industriale o ad essi
assimilabili compresi nelle zone D) la superficie da
destinare a spazi pubblici o destinata ad attività
collettive, a verde pubblico o a parcheggi (escluse le sedi
viarie) non può essere inferiore al 10% dell'intera
superficie destinata a tali insediamenti;
2) nei nuovi insediamenti di carattere commerciale e
direzionale, a 100 mq. di superficie lorda di pavimento di
edifici previsti, deve corrispondere la quantità minima di
80 mq. di spazio, escluse le sedi viarie, di cui almeno la
metà destinata a parcheggi (in aggiunta a quelli di cui
all'art. 18 della legge n. 765); tale quantità, per le zone
A) e B) è ridotta alla metà, purché siano previste adeguate
attrezzature integrative.
Va chiarito che gli spazi di cui al cit. D.M. sono
aggiuntivi e non sostitutivi di quelli imposti dall'art. 18
della legge 06.08.1967 n. 675 (la cui misura è stata
successivamente modificata dalla legge n. 112/1989)
commisurati a 1 mq. ogni 10 mc. di edificio.
Infatti, mentre i primi sono disciplinati dall'art.
41-quinquies, ottavo comma, i secondi sono previsti
dall'art. 41-sexies della l. 17.08.1942 n. 1150.
Mentre quelli di cui alla prima disposizione sono
qualificati come aree pubbliche da conteggiarsi ai fini
della dotazione di "standard", i parcheggi di cui al
successivo art. 41-sexies sono qualificati come aree private
pertinenziali alle nuove costruzioni, di guisa che l'art. 3,
comma 2, lett. d), del D.M. 02.04.1968 espressamente li
esclude dal computo nel calcolo della misura degli "standard".
Nella regione Lombardia, l'art. 22 della legge regionale n.
51 del 15.04.1975 ha previsto che "la dotazione minima di
standard funzionali ai nuovi insediamenti di carattere
commerciale - stabilita dall'art. 5 del D.M. n. 1444 in
misura dell'80% della superficie lorda di pavimento è
elevata al 100%. Di tali aree almeno la metà dovrà essere
destinata a parcheggi di uso pubblico".
È evidente la ratio di tali disposizioni: dato che i
centri commerciali richiamano un elevato numero di
consumatori è necessario -al fine di evitare disfunzioni e
pericoli alla circolazione stradale e turbative alle
proprietà che potrebbero essere causate dall'ingente numero
di veicoli che in tali luoghi affluiscono- predisporre in
loco un congruo numero di spazi destinati al parcheggio.
In relazione alla c.d. monetizzazione degli standard,
occorre richiamare l'art. 12, lett. a), della legge
regionale 05.12.1977 n. 60, il quale stabilisce che, qualora
l'acquisizione delle aree necessarie per le opere di
urbanizzazione primaria e per le attrezzature pubbliche e di
uso pubblico "non venga ritenuta opportuna dal comune in
relazione alla loro estensione, conformazione o
localizzazione, ovvero in relazione ai programmi comunali di
intervento, la convenzione può prevedere, in alternativa
totale o parziale della cessione, che all'atto della stipula
i lottizzanti corrispondano al comune una somma commisurata
all'utilità economica conseguita per effetto della mancata
cessione e comunque non inferiore al costo dell'acquisizione
di altre aree".
La legislazione regionale àncora la monetizzazione a precisi
presupposti, considerato che la monetizzazione presuppone
comunque un'offerta di aree, restando in facoltà del Comune
disporne la commutazione sulla base di un apprezzamento
complesso, che investe: da un lato l'idoneità o meno delle
aree offerte, in funzione dell'uso pubblico cui verrebbero
destinate; dall'altro, la possibilità di acquisire aree
alternative (monetizzazione a carico del lottizzante) per
mantenere invariato il livello di dotazione standard
richiesto dal piano regolatore (livello che non può comunque
scendere al di sotto del minimo legale).
Si tratta, dunque di una facoltà discrezionale del Comune,
non di un diritto del privato, il quale non può ritenersi
esente dall'onere di individuare le aree da computare in
quota standard.
Si comprende, quindi, che la Giunta regionale là dove ha
affermato la palese inopportunità della disposta
monetizzazione ha utilizzato detto termine in senso
improprio, avendo inteso, in realtà, censurare sotto il
profilo della legittimità la mancanza dei presupposti nella
specie per addivenirsi alla monetizzazione, derivante dalla
mancata individuazione, da parte del Comune, in altre zone
del proprio territorio, di aree idonee ad integrare le
superfici a standard indotte dall’intervento in questione
(TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 23.06.2003 n. 870). |
ANNO 2002 |
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URBANISTICA:
Con la convenzione di P.L. il Comune non
può riservarsi di attribuire una diversa destinazione
urbanistica all'area standard che il lottizzante gli cede
gratuitamente una volta realizzate le opere di
urbanizzazione, poiché se davvero facesse venir meno la
funzione originaria dell'area la stessa cessione gratuita,
pretesa dall'Ente, verrebbe addirittura a mancare di causa
e, come, tale sarebbe persino nulla.
... i lottizzanti si obbligavano a cedere gratuitamente,
entro dodici mesi dalla data del collaudo delle opere di
urbanizzazione, aree per strade, per verde e per parcheggi.
Con nota 26.03.1994 il Comune comunicava ai lottizzanti
l’avvenuta approvazione del collaudo, invitandoli nel
contempo a dare corso alle formalità necessarie per
procedere alla stipula dei rogiti di cessione delle aree
standard.
I Signori Granelli non vi provvedevano neppure a seguito di
diffida scritta comunicata in data 25.09.1995.
Successivamente il Comune adottava una variante al P.R.G.,
approvata poi il 25.03.1998, e l’area in questione dei
Signori Granelli da zona a verde pubblico veniva
classificata come D1 – produttiva di completamento.
Perciò la Società Energy Recuperator S.r.l., acquirente dai
richiamati signori, in data 11.06.1998 chiedeva il rilascio
di concessione edilizia per la realizzazione di un magazzino
al servizio di attività produttiva.
A detta istanza veniva opposto il provvedimento 10.09.1998
n. 10843 contenente un diniego, fondato sulla circostanza
che il titolo di proprietà fosse mancante di legittimità,
essendo stata prevista la cessione gratuita al Comune del
terreno cui la stessa faceva riferimento.
Come si legge nell’art. 28 della L. n. 1150/1942, la
cessione di aree a standard si giustifica all’interno e in
ragione della lottizzazione di aree.
Ma nel caso di specie, con la diversa destinazione
urbanistica –D1 produttiva di completamento- attribuita alla
zona per effetto di variante al P.R.G., si è determinata una
riespansione delle potenzialità edificatorie dell’area
considerata.
Venuta meno la funzione di standard del terreno, la cessione
gratuita dello stesso, pretesa dall’Amministrazione
comunale, è manchevole di causa e, come tale, nulla (TAR
Lombardia-Brescia,
sentenza 27.02.2002 n. 366).
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ATTENZIONE:
in Internet gira una bozza di convenzione urbanistica, per
l'attuazione di Piani Attuativi, conforme alle disposizioni
del D.Lgs. n. 163/2006 in merito alla procedura di gara
pubblica da osservare per lo scomputo delle opere di
urbanizzazione da realizzare.
Tuttavia, l'articolato di tale bozza contiene un comma che,
alla luce della sentenza sopra menzionata, risulta essere
illegittimo il quale così recita:
"4. La cessione delle aree (ed eventualmente aggiungere
«e l’asservimento all’uso pubblico») è fatta senza alcuna
riserva per cui sulle stesse il Comune non ha alcun vincolo
di mantenimento della destinazione e della proprietà
pubblica attribuite con il piano attuativo e con la
convenzione; esso può rimuovere o modificare la destinazione
e la proprietà nell’ambito del proprio potere discrezionale
di pianificazione e di interesse patrimoniale, senza che i
proponenti possano opporre alcun diritto o altre pretese di
sorta.".
Quindi, fate attenzione a non inserire
in convenzione la suddetta disposizione !! (12.04.2010) |
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